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Italian Pages 112 Year 2021
Alia 77 Serie FESTIVAL DELLA DIGNITÀ UMANA
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EUGENIO BORGNA
Apro l’anima e gli occhi COSCIENZA INTERIORE E COMUNICAZIONE
INTERLINEA
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Edizione a tiratura limitata promossa dal festival della Dignità umana di cui l’autore presiede il comitato scientifico (a cura dell’associazione Dignità e Lavoro Cecco Fornara, Borgomanero) © Novara 2021, Interlinea srl edizioni via Mattei 21, 28100 Novara, tel. 0321 1992282 www.interlinea.com [email protected] Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-6857-416-1 In copertina: Propagation of Inner Colors (Agsandrew/Adobe stock)
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Sommario
Le premesse Un distinzione Una poesia (di Rebora) La coscienza interiore IL LINGUAGGIO DELLE PAROLE La comunicazione verbale Solo parole gentili Mai parole aggressive Ascoltare Comunicare con gli occhi Come si comunica in famiglia? Come si comunica nella scuola? La comunicazione nelle diverse età della vita La timidezza Il sorriso come finestra dell’anima Che cosa ci comunicano le lacrime? Comunicare nelle ultime ore della vita Come si comunica nella malattia? Si comunica ancora nella malattia di Alzheimer?
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IL LINGUAGGIO DELLA SOLITUDINE E DEL SILENZIO Il modo di comunicare con la solitudine Il modo di comunicare con la morte Il modo di comunicare con la paura (anche durante la pandemia Ma la speranza ci salva dalla paura Il silenzio come modo di comunicare Le stanze del silenzio e della solitudine Il silenzio in Etty Hillesum Il silenzio in un monastero benedettino Il silenzio e il canto Il silenzio e la musica Educarsi a comunicare con il silenzio Ancora una poesia per capire (da Rilke)
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LA COSCIENZA DELLA COMUNICAZIONE Le radici etiche della comunicazione » 91 Comunicare con saggezza » 94 La comunicazione come premessa alla cura » 97 I sentieri tracciati e la meta » 99 «Verrà come ristoro delle mie e sue pene» » 101 Riferimenti bibliografici Notizia sull’autore
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Le premesse
Le premesse mi consentiranno di indicare le grandi linee delle regioni tematiche di questa mia plaquette sulla comunicazione. Sì, comunicazione, relazione, colloquio e dialogo sono parole che sconfinano le une nelle altre, e confluiscono in una ideale unità di intenti: fondata sulla interiorità, e sulla reciprocità.
Una distinzione Si comunica con il linguaggio delle parole, che è la comunicazione verbale, e con il linguaggio del silenzio e della solitudine, degli occhi e degli sguardi, delle lacrime e del sorriso, che è la comunicazione non verbale: le due grandi aree semantiche della comunicazione. Negli svolgimenti tematici del mio discorso vorrei indicare come queste due diverse modalità di comunicare si sno7
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dano in alcune emblematiche condizioni di vita, e come dovremmo di volta in volta comportarci al fine di renderle sempre più dotate di senso, e creatrici di umanità, e di solidarietà, di sensibilità, e di gentilezza, di attesa, e di speranza, che si intrecciano le une alle altre. La comunicazione è l’espressione del comunicare, e in vita non è possibile non comunicare, la sola cosa che ci consenta di uscire dalla solitudine; ma è necessario distinguere ancora due diverse forme di comunicazione: quella razionale e astratta, estranea ai contenuti emozionali, e quella animata dalla passione. Lo diceva Giacomo Leopardi: solo se la ragione si converte in passione, diviene strumento di conoscenza, e di comunicazione. La comunicazione razionale è quella che, nella vita quotidiana, si limita a trasmettere cognizioni, e informazioni, con un’arida elencazione delle cose. La comunicazione emozionale è quella che espone le cose con slancio, e con viva partecipazione dialogica. Le stesse cose, esposte con freddezza, o con passione, cambiano di significato, e si imparano con una diversa rapidità, e anche con una diversa partecipazione interiore. 8
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Non avrei potuto incominciare queste mie riflessioni sulla comunicazione se non con queste distinzioni.
Una poesia (di Rebora) Una bellissima poesia di Clemente Rebora (Tempo) è la premessa, la fonte, delle mie riflessioni sulla comunicazione, e sulle sue metamorfosi, e sono grato a Roberto Cicala, che è l’attuale editore delle più belle opere del grande poeta rosminiano, di avermela proposta. Leggiamola insieme: Apro finestre e porte – ma nulla non esce, non entra nessuno: inerte dentro, fuori l’aria è la pioggia. Gocciole da un filo teso cadono tutte, a una scossa. Apro l’anima e gli occhi – ma sguardo non esce, non entra pensiero: inerte dentro, fuori la vita è la morte. 9
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Lacrime da un nervo teso cadono tutte, a una scossa. Quello che fu non è più, ciò che verrà se n’andrà, ma non esce non entra sempre teso il presente – gocciole lacrime a una scossa del tempo.
Questa mia fragile e umbratile riflessione sulla comunicazione interiore sgorga, così, da questa emblematica poesia di Rebora. Ne ho sempre letto le poesie, e i testi religiosi, che si intrecciano le une agli altri nei loro bagliori, e nella loro arcana e ardente spiritualità. I versi, che parlano dell’anima e degli occhi, e che sono il Leitmotiv delle mie considerazioni, colgono le radici della comunicazione, di ogni comunicazione, non solo in psichiatria, ma nella vita. Nell’ultima strofa il tempo, che è il titolo della poesia, rinasce nel suo germogliare e nel suo svanire.
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La coscienza interiore Nel riflettere sulla coscienza interiore, sull’interiorità, come premessa alla conoscenza e alla comunicazione di quello che noi siamo nei nostri pensieri e nelle nostre emozioni, vorrei ricordare quello che sant’Agostino ha scritto sulla conoscenza di sé, in una (De vera religione) delle sue grandi opere teologiche e filosofiche. Le sue parole celeberrime sono: «Non uscire da te stesso, rientra in te, nella interiorità dell’uomo risiede la verità». La mia domanda è questa: ci conosciamo, meditiamo, sappiamo isolarci dalle nostre impressioni immediate, dedichiamo tempo e pazienza indispensabili a conoscere le sorgenti profonde, e non solo quelle superficiali, dei nostri gesti e delle nostre azioni, delle nostre emozioni e dei nostri pensieri? Non c’è bisogno di essere psicologi, e psichiatri, per giungere a conoscere quello che noi siamo nella nostra vita interiore. Ci sono libri che ci aiutano in questo, e che non sono solo di matrice psicologica, ma anche di matrice poetica. Le poesie di Giacomo Leopardi, e anche quelle di Clemente Rebora, sono nutrite di una profon11
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da interiorità e ci aiutano nel conoscere la nostra interiorità. Sì, ci sono attitudini personali nel seguire il cammino misterioso che porta alla conoscenza di sé, ma siamo (tutti) chiamati a conoscere le nostre emozioni, e quelle delle persone che la vita ci fa incontrare, se vogliamo comunicare con noi stessi e con gli altri. Cose non facili, che si devono nondimeno tenere presenti, se vogliamo dare un senso alla nostra vita e conoscere quello di cui gli altri hanno bisogno, e che non hanno magari il coraggio di chiedere. Siamo circondati da persone, che non conosciamo nella loro fragilità e nella loro delicatezza, e che dovremmo sapere riconoscere. Una straordinaria filosofa francese, Simone Weil, autrice di libri di una indicibile bellezza e di una radicale profondità, morendo a poco più di trent’anni, ha scritto: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordi a queste grida». Quando conosciamo una persona non dovremmo mai dimenticare queste parole.
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Il linguaggio delle parole
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La comunicazione verbale
Si comunica con il linguaggio delle parole, con quello del corpo vivente, del sorriso, e delle lacrime, che ne fanno parte, e con quello del silenzio. Le parole sono creature viventi e solo se nascono dal cuore riescono a creare relazioni dotate di senso. Se vogliamo che le nostre parole siano mediatrici di cura, e di speranza, dovremmo dire solo parole leggere e profonde, calde di emozione e palpitanti di vita, e dovremmo anche ricordare che non hanno importanza solo le cose, che si dicono, ma anche il modo, la climax emozionale, con cui si dicono. Quando parliamo con una persona la guardiamo negli occhi, cerchiamo di capire che cosa dicano il suo volto e i suoi sguardi, il suo sorriso e le sue lacrime? Non dovremmo mai dimenticare quello che ha scritto un grande scrittore francese, André Gide, e cioè che nessuna parola dovrebbe giungere alle nostre labbra che non sia stata prima nel nostro cuore. Solo così sapremmo trovare 15
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parole gentili che curano, e fanno del bene, parole che ci allontanano dall’indifferenza e dall’aggressività. Non so pensare a quanta consapevolezza noi abbiamo dell’importanza delle parole, che richiedono attenzione a quello che avviene nella nostra interiorità, e in quella delle persone che la vita ci fa incontrare. Le parole che si scambiano in internet ci mettono in una più difficile relazione dialogica. Grande è la responsabilità delle famiglie e della scuola, degli strumenti di comunicazione televisiva, nel dare importanza alle parole.
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Solo parole gentili
Non dovrebbe essere difficile, nel corso delle nostre giornate, dire parole gentili, e a queste affidare il modo di comunicare i nostri pensieri e le nostre emozioni. E, nondimeno, lo sappiamo fare? Vorrei riflettere un attimo su questo tema di ovvia ma radicale importanza. Le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone con le quali ci incontriamo, e sono magari nel dolore, le parole mai logorate dall’aggressività, non le troveremmo mai se non siamo capaci di immedesimarci negli stati d’animo nostri e degli altri. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, è necessario affidarsi alla sensibilità e alla gentilezza, alla logica del cuore e dell’ascolto che sono in noi. Non c’è comunicazione autentica se non quando ci siano in noi parole gentili e sensibili, attente e radiose; ma è (anche) necessario sapere rivivere le esperienze dolorose degli altri, e immaginare le parole che vorremmo sentire dagli altri, se fossimo noi a stare male, e ad avere bisogno di 17
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parole che aprano il nostro cuore alla speranza. Costa tempo, costa fatica, l’educazione a questa immedesimazione, ma è un dovere al quale non dovremmo mai venire meno sulla scia delle leggi della nostra coscienza. Certo, la comunicazione scritta è diversa da quella verbale, ma le cose che scrivo ora mi sembrano adattarsi e all’una e all’altra. La gentilezza è necessaria, oggi ancora più che non nel passato, a farci incontrare e a farci comunicare gli uni con gli altri in una climax di reciproca comprensione; ma è necessaria anche nel farci comprendere il dovere della solidarietà e dell’accoglienza. Nelle condizioni di vita attuali la gentilezza ci aiuta a ritrovare le sorgenti di una comunicazione che sia aperta all’ascolto. Non potrei ancora non dire che nella gentilezza si ha a che fare con uno stile di vita che consente a ciascuno di noi di vivere gli uni accanto agli altri, senza farsi del male, seguendo forme di comportamento che non siano mai intessute di indifferenza e di aggressività. La gentilezza rende la vita degna di essere vissuta, anche in condizioni difficili, come sono queste di oggi. La gentilezza sconfina nella deli18
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catezza e nella tenerezza, ma anche nella mitezza, che hanno in comune l’ascolto delle ragioni del cuore. Un grande filosofo tedesco, divorato dalla follia e dalla genialità, Friedrich Nietzsche, ha scritto una volta che la sera, ripensando alla giornata, dovremmo chiederci se, e quante volte, nel corso della giornata siamo stati gentili nelle nostre parole e nelle nostre azioni. Sarebbe bello che ne imitassimo almeno qualche volta l’esempio, ma non è forse quello che dice di fare il Vangelo?
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Mai parole aggressive
Le parole gentili ci allontanano ovviamente da quelle aggressive, che fanno parte del modo di comunicare di oggi, e allora qualche considerazione su questo tema non è inutile. L’aggressività contrassegna modi di parlare, modi di comunicare, sempre più frequenti, e forse negli adulti più che non negli adolescenti. Ciascuno di noi dovrebbe impegnarsi nel dire parole, e nel tenere comportamenti, gentili, aperti all’ascolto e alla solidarietà. L’aggressività è ovviamente nelle parole che si dicono, ma anche nel modo con cui si dicono, convertendo così parole formalmente educate in parole che fanno del male. Il modo aggressivo di comunicare e di vivere è espressione di una raggelante indifferenza etica, che si manifesta in non poche condizioni di vita. L’andare in macchina, la cosa più banale che ci sia, non ci fa conoscere modelli aggressivi di comportamento, che si comunicano nei gesti, e nelle 20
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parole? Il linguaggio dell’aggressività si estende ad aree sempre più vaste della vita, e crea ferite dell’anima che talora non si rimarginano e continuano a sanguinare. Sono cose che non dovremmo mai dimenticare, quando siamo in dialogo, in comunicazione e lo siamo sempre, non stancandoci di seguire il cammino della saggezza.
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Ascoltare
Non è possibile comunicare, nelle diverse sue forme di espressione, se non si sa ascoltare quello che ci dicono gli altri. In un suo bellissimo libro padre Giovanni Pozzi, che ha insegnato letteratura italiana all’università svizzera di Friburgo, ha definito l’ascolto un altro modo di comunicare con il mondo interiore: «Per ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompa, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui. Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l’irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni. Nulla come l’ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. È l’analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi. Modo più perfetto, a occhi chiusi». 22
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Ascoltare è la premessa a ogni incontro. E ascoltare con la ragione e ascoltare con il cuore, sono due modi di essere in comunicazione con il mondo della vita, oscillando dall’una all’altro. Non c’è comunicazione se non quando siamo in ascolto delle parole e degli sguardi degli altri, e solo così nasce il dialogo. Come ha scritto il più grande poeta tedesco, Friedrich Hölderlin, nel quale genialità e follia si sono intrecciate l’una all’altra, noi siamo in un dialogo che non finisce mai, e nel quale comunicare e ascoltare non si possono scindere. Certo, quante volte in vita ci limitiamo a comunicare i nostri pensieri senza tenere presente le loro risonanze nei pensieri e nelle emozioni degli altri. Si comunica con le parole, ma, non dimentichiamolo, si comunica anche con gli occhi: con i nostri occhi, e con gli occhi degli altri.
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Comunicare con gli occhi
Nella poesia di Clemente Rebora sono splendidamente indicati i due modi essenziali di mettersi in relazione, e di comunicare: quello dell’anima e quello degli occhi, che ha una sua elettiva importanza nella comunicazione non verbale. Sono bellissime le considerazioni scritte da Romano Guardini, sacerdote cattolico, italiano di origine, che ha studiato ed è stato professore universitario in Germania, autore di libri di una straordinaria importanza culturale, filosofica e teologica, letteraria e politica; e da un suo libro vorrei ora citare quello che egli scrive della comunicazione non verbale. Scrive: «Quando io parlo con una persona umana, cerco con i miei occhi i suoi, prendo contatto con l’espressione della sua faccia, in modo da avvertire che la mia parola arriva al volto che mi sta dinanzi. E, attraverso il volto, a ciò che vi si esprime: allo spirito che pensa; al cuore che sente; 24
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alla persona che là esiste»; e infine queste parole: «Leggendo nel suo volto, io afferro le ripercussioni che vi si esprimono: afferro lui stesso». Negli incontri che abbiamo, nei colloqui, che ci uniscono agli altri, cerchiamo di capire quello che ne dicono i volti, gli occhi e gli sguardi. Non basta ascoltare, è necessario (anche) guardarsi negli occhi, e leggere le emozioni che in essi si rispecchiano. La comunicazione non verbale, quella in particolare che rinasce dal volto e dagli sguardi, dovrebbe essere tenuta presente in ogni circostanza della nostra vita. Non pensiamo, sbaglieremmo, che gli altri, le persone che incontriamo, non si accorgano delle nostre disattenzioni, della nostra fretta, dei nostri occhi, che magari vagano distratti, indifferenti, e talora annoiati. Ci sono persone semplici, che nulla sanno di psicologia, dotate di intuizioni e di sensibilità. Lo vorrei dire ancora una volta: le infermiere e le sorelle religiose che lavoravano nel nostro manicomio queste doti le avevano, sulla scia dei loro sguardi attenti e gentili, e noi medici, distratti da mille inutili cose, non sempre.
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Come si comunica in famiglia?
Non si parla molto, oggi, in famiglia: non si ha tempo, non si ha molto tempo, per parlare e ascoltare, e il tempo del parlare diviene il tempo delle conversazioni distratte, che non consentono di ascoltare le nostalgie e le attese, i silenzi dell’anima, e non danno un senso alle stagioni della nostra vita, che scorrono, così, veloci e inafferrabili, inconsistenti e intermittenti, liquide e acquatiche, e non lasciano tracce nella memoria. Non so bene, ma temo che non siano gli adolescenti, e invece gli adulti, a smarrire più facilmente il senso dell’ascolto e del dialogo, della meditazione e della riflessione. Un senso che è intralciato dalla televisione, e dalla sua influenza sui modi di comunicare, e di dare un senso alla vita. Come non vedere la febbrile insistenza nell’illustrare – per esempio nelle serie tv – modelli di vita violenti e dolorosi, come sono quelli tematizzati dalle forme distruttive della vita, e non da quelle liete e serene, che continuano nondimeno 26
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ad essere presenti con testimonianze luminose? Alla televisione mai spenta si associano i telefoni e gli smartphone sempre accesi e connessi; e l’una cosa e l’altra sottraggono tempo alla parola, al parlarsi, al colloquio, alle emozioni e ai pensieri, alle attese e ai timori, alle illusioni e alle speranze, che hanno bisogno di essere portate alla luce della comunicazione, e della reciprocità della comunicazione. Sono cose sempre più difficili, cose talora impossibili, nelle famiglie nelle quali televisioni e social network, isolamento e disinteresse, si associano talora nel ricreare il deserto di una comunicazione che non consente né ascolto né condivisione.
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Come si comunica nella scuola?
Che cosa avviene oggi nella scuola, ripensando alla comunicazione fra insegnanti e allievi? Sono diverse le psicologie, e sono diversi i linguaggi, negli uni e negli altri, ma agli adulti è demandato il compito di immedesimarsi nel mondo emozionale e conflittuale degli adolescenti, e di dire parole che riescano a ridestare attenzione, e a creare relazione. Ma questo non basta: ci sono adolescenti sensibili a determinate parole, e a determinate forme di espressione emozionali, e adolescenti sensibili ad altre parole, e ad altre forme di espressione; e allora è necessario capire quando siano utili parole razionali, e quando parole emozionali, non dimenticando mai il linguaggio del volto e degli sguardi, del sorriso e talora delle lacrime. Sono cose ancora più importanti quando chi insegna abbia a che fare con la timidezza e l’insicurezza di studenti, che hanno bisogno di essere riconosciute, o almeno di essere intraviste, 28
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nella loro fragilità, che può non consentire una fluidità di discorso. Sono défaillances della comunicazione, che non sono sintomo di una mancata preparazione, ma che così sono interpretate, e valutate. Sono cose nelle quali è in gioco il destino non solo scolastico, ma soprattutto esistenziale, degli adolescenti, di quelli in particolare timidi e insicuri, ansiosi e inquieti. Non sono pochi. Non posso infine non dire come nella scuola confluiscano le disuguaglianze sociali, che si sono manifestate nel tempo della pandemia, con le conseguenze che abbiamo (tutti) conosciute nella loro straziante evidenza.
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La comunicazione nelle diverse età della vita
Come si parla nelle adolescenze di oggi? Il linguaggio giovanile risente del linguaggio della televisione, ma ancora di più di quello dei social e della comunicazione digitale, dal quale scompaiono risonanze emozionali, e declinazioni metaforiche, articolazioni tematiche complesse e profonde. Le parole sono non di rado banali e convenzionali, fatte di messaggi brevi e superficiali, e gli adolescenti comunicano fra loro in uno slang condizionato dalla comunicazione on line con le sue informazioni e conoscenze, che nascono e muoiono, si ricreano e si intrecciano, in un carosello infinito di impressioni e di sensazioni. Nella comunicazione e nella percezione digitali non si ha sempre il tempo per riflettere sulle cose che si ascoltano, e si leggono. Dalla adolescenza, nella quale comunque non vengono meno intuizioni e creatività, si passa ad una età adulta contrassegnata da un linguaggio e da una comunicazione tendenzialmente uniformi 30
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e standardizzati. Quando questo avviene, il linguaggio si impoverisce, non ha slanci, e tende ad essere aridamente tecnico. Non è sempre così, ovviamente, ci sono spazi aperti a una comunicazione che è indirizzata all’ascolto, alla solitudine interiore, al silenzio, all’attenzione, alla riflessione, al linguaggio del volto e degli sguardi, del sorriso e delle lacrime. Sì, sono cose ovvie, si dirà, e nondimeno è così facile dimenticarle, o almeno non tenerne conto, non giungendo così a creare relazioni, nelle quali si elencano fatti, ma non riempiti di emozioni.
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La timidezza
Non c’è bisogno che insista nel ricordare la radicale importanza della comunicazione nella scuola: quella di chi insegna e quella di chi impara. Sono forme di comunicazione diverse, radicalmente diverse, o solo apparentemente diverse? Non so: vorrei solo svolgere qualche mia fragile considerazione, che si nutra delle mie esperienze di vita, e di quelle che sono state, e sono, le mie letture. Come comunica un insegnante quando i suoi allievi sono quelli di una scuola secondaria? Vorrei limitarmi a questa, e, anche se non ci possono non essere sensibili differenze nell’insegnamento delle diverse materie, mi è possibile, direi, coglierne alcune linee tematiche comuni. Le parole di chi insegna non possono non nascere da cultura e da passione, da sensibilità e da intuizione, ma ciascuno delle allieve e degli allievi le ascolterà in modi diversi: condizionati dalle loro psicologie, che entrano in dialogo con 32
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le parole e le idee di chi insegna. Basta l’ansia, e basta la timidezza, a non consentire la piena comprensione delle parole di chi insegna; e la timidezza, emozione così liquida, e così impalpabile, è facilmente scambiata con la distraibilità e con la negligenza, con l’emotività che non lascia pensare, e con la inettitudine alla riflessione. La timidezza si accompagna (anche) a problemi di espressività di linguaggio che possono portare a un balbettare: considerato come handicap che non consenta di svolgere normali funzioni della vita, e invece è espressione di gentilezza sfinita, e di stremata sensibilità, e anche di quella intelligenza del cuore che ci avvicina alle cose essenziali della vita. Sì, la timidezza è ancora oggi una dimensione ignorata, e di grande significazione comunicazionale nelle adolescenze di oggi.
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Il sorriso come finestra dell’anima
Il sorriso nel suo modo di essere ridesta tenerezza e gentilezza, timidezza e speranza, e rende visibili i fragili movimenti dell’anima. Quando in un volto incrinato dalla tristezza e dall’angoscia, come avviene nella depressione, rinasce l’orma di un sorriso, si è illuminati, come dall’improvviso apparire di un arcobaleno. Sì, un sorriso, che sgorga dalle regioni silenziose della coscienza interiore, comunica stati d’animo, slanci del cuore, attese e speranze, scintillanti e struggenti. Un sorriso nei suoi teneri bagliori testimonia (anche) della fragilità e della friabilità dell’anima, e ci dice tante altre cose, allietando il modo di essere del nostro modo di comunicare. Non vorrei continuare queste considerazioni sul sorriso senza ricordare quelle arcane e stupende che sono state scritte da Giacomo Leopardi nel secondo volume dello Zibaldone di pensieri: «Dalla lettura di un pezzo di vera contemporanea poesia, in versi 34
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o in prosa (ma più efficace impressione è quella de’ versi), si può, e forse meglio (anche in questi sì prosaici tempi), dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire, e ci accresce la vitalità». Nel fuggitivo lampeggiare di un sorriso, errante su di un volto, rinasce istantaneamente nella sua luce stremata la fragile eco di una speranza che non muore, e che continua a vivere nella memoria ferita. Le prime due strofe di A Silvia, l’abbiamo letta tutti, dicono del sorriso cose che ogni volta come un fiume di luce inondano la nostra immaginazione e la nostra vita. Rileggiamole, e non dimentichiamole, ci rinfrescano davvero, e rimuovono almeno per un attimo le notti oscure dell’anima. La prima strofa è questa: Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi?
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La seconda strofa è invece questa: Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all’opre femminili intenta Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso, e tu solevi Così menare il giorno.
Il sorriso è qui, nella sua grazia ferita, alla soglia di un vivere lambito dalla nostalgia, e di un morire che spegneva la giovinezza. In Silvia sono gli occhi a essere ridenti e fuggitivi, il sorriso degli occhi è più luminoso di quello delle labbra, ma la comunicazione nasce dall’uno e dall’altro. Ora, da Giacomo Leopardi, dalla indicibile bellezza della sua poesia, dalla immagine stregata di questi occhi ridenti e fuggitivi, a Emily Dickinson, a una sua poesia fragile ed eterea, impalpabile e delicata, mozartiana, dalla quale il sorriso rinasce con un altro timbro, che ci dice come, con il sorriso, non si comunica in un solo modo.
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Sono venuta a comprare un sorriso – oggi – appena un sorriso solo – il più piccolo sul vostro viso – andrà benissimo – quello che nessun altro rimpiangerebbe tanto piccolo nell’accendersi – signore – sono qui che prego al banco – se aveste agio di vendere – Ho diamanti – sulle dita – I diamanti li conoscete? Ho rubini – come il sangue della sera – E topazi – come stelle!
L’immagine del sorriso, con la sua espressione e la sua comunicazione, sgorga acquatica e leggera da questa poesia gentile e lieta, spumeggiante e rapsodica, così lontana da quella leopardiana, e nondimeno così vicina nella sua misteriosa percezione delle cose. Lacrime e sorriso sono modi di essere dimenticati e rimossi nella loro dimensione dialogica; e quando la vita ci fa incontrare con le une e con l’altro vorrei che non dimenticassimo il loro valore e il loro significato, così diversi, e così simili, nella loro luce interiore, che ci accompagna nel corso della nostra vita. Le parole della grande poesia dicono il fascino e la luce interiore di un 37
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sorriso, che nel suo lieve lampeggiare può bastare a ridare schegge di speranza in cuori feriti dal dolore e dalla solitudine. Questa mia riflessione possa fare riemergere la donazione di senso del sorriso e delle lacrime.
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Che cosa ci comunicano le lacrime?
Non intendo ora parlare delle lacrime, come conseguenza di una malattia, ma delle lacrime che rinascono dal taedium vitae, dal male di vivere, dalla nostalgia, o dalla malinconia. Ci sono lacrime che fanno male, e lacrime nutrite di dolcezza, lacrime amare, e lacrime che leniscono le ferite silenziose dell’anima, lacrime che germogliano nella scia di ricordi lieti e dolorosi, e lacrime di gioia, come quelle rivissute da Blaise Pascal nelle sue indicibili testimonianze mistiche. Le lacrime ci mettono in comunicazione con gli altri e ci chiedono non di rado aiuto; ma quando ci incontriamo con una persona che piange, che cosa avviene in noi? Quali parole abbiamo nel cuore, quali emozioni ci sono in noi, e quali sguardi sgorgano dai nostri occhi? Conosciamo i gesti (stringere una mano, o fare una carezza, impalpabile come un sospiro), che possano smorzare il dolore dell’anima? 39
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Le lacrime, se sono sincere, sono la testimonianza di una vita interiore delicata e sensibile, e dovremmo saperle accogliere nelle loro gentili e umane risonanze. Nelle Confessioni, non si può non leggerle almeno una volta in vita, sant’Agostino descrive con parole strazianti il morire della madre, e le lacrime che le hanno accompagnate. Ne vorrei citare alcuni frammenti: «Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino ad essiccarlo. Fu una lotta penosissima», e ancora: «Ma cos’era dunque, che mi doleva dentro gravemente, se non la recente ferita, derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune?» Rivolgendosi allora a Dio egli diceva: «Privato di lei così, all’improvviso, mi prese il desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi su di lei, su di me per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo. Perché ad ascoltarle c’eri tu, non un qualsiasi 40
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uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compito». Sono parole che si leggono con grande inesausta emozione, e come una preghiera. All’eloquenza delle lacrime ha dedicato parole straziate Jean-Loup Charvet, storico dell’arte e musicologo francese, in un suo bellissimo libro. Ne vorrei stralciare alcuni frammenti: «Immobili nella loro caduta, le lacrime partecipano a un movimento che non è più quello della terra. Non cadono mai veramente; o meglio raggiungono il loro obiettivo prima di essere cadute. Non tratteniamo le lacrime, sono loro che ci trattengono. Esse parlano scorrendo verso un altrove che è già oltre la loro esistenza. L’istante delle vere lacrime è quello dell’incontro tra la leggerezza della luce e il peso dell’ombra», e ancora, con immagini struggenti: «Le lacrime esistono al di là della luce, al di là della pesantezza, e persino al di là del silenzio. È allora che piangiamo per davvero lacrimae verae. Da questa eloquenza silenziosa nasce una conversazione infinita. Parola sensibile, parola necessaria e impossibile, la lacrima ha questo di paradossale: più è discreta, 41
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più significa, e più sfiora, più ci tocca nel profondo. Stranamente silenziosa, chiaramente visibile, risolutamente sospesa, è una scrittura che esiste solo nelle sue cancellature». La fenomenologia delle lacrime, il loro significato umano e spirituale, la loro donazione di senso, la loro dignità, il loro sgorgare da un infinito dolore dell’anima e la loro friabile apertura alla speranza rinascono luminosamente dalle pagine umbratili e luminose, metaforiche e misteriose, di sant’Agostino e di Charvet: sono pagine che non si possono leggere senza sentirle vicine al nostro cuore, e alle nostre quotidiane esperienze di vita. Ma ci sono lacrime che salgono al cielo, come diceva Rilke, e che talora sono più durature del bronzo: la splendida immagine è di Emily Dickinson. Mi auguro che conosciate le sue poesie di una indicibile bellezza: sono un balsamo nelle ore del dolore e della solitudine.
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Comunicare nelle ultime ore della vita
Nelle ultime età della vita gli spazi di una comunicazione aperta e dialogica ci sono ancora, o si inaridiscono? Ci sono modi diversi di comunicare in una condizione di vita così facilmente ferita, come è quella anziana, nel suo essere estromessa dalla storia, e nel suo sentirsi isolata da tutto. Ci si salva dal deserto delle emozioni e della comunicazione solo se non ci si stanca dal mantenere viva in noi l’aspirazione all’infinito, che Simone Weil diceva essere radicata nella condizione umana. Ma nelle età estreme della vita le parole, che comunicano qualcosa di essenziale, si possono ancora ritrovare, se non si perdono i contatti con una vita interiore intessuta di ascolto e di riflessione, di solidarietà e di sensibilità, di interiorità e di passione della speranza. Queste sono le parole che dovrebbero accompagnarsi alla nostra vita, e darle un senso, quando incomincia a declinare, ma quali emozioni dovremmo comunicare a una vita che si spegne in una 43
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persona che ci è cara? Non è facile riconoscere in noi le parole che siano portatrici di gentilezza e di tenerezza, di comprensione e di speranza; e queste mie pagine vorrebbero essere un invito ad ascoltare le parole che rinascano dal cuore, e siano umbratili arcobaleni. Ascoltare è un dovere, ma ascoltare i battiti del proprio cuore è possibile solo quando, come dice il sottotitolo di questo mio lavoro, ci si incammini lungo i sentieri che approdino nei roveti ardenti della interiorità. Si ascolta, si deve ascoltare, anche il linguaggio del silenzio, che è un altro modo, non meno importante, di comunicare con noi e con gli altri; e del silenzio, che siamo inclini, così ingiustamente, a considerare il morire della comunicazione, vorrei ora dire qualcosa: incominciando dalla condizione della malattia.
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Come si comunica nella malattia?
Non è possibile, nel corso di una vita, non conoscere la malattia, e non è possibile non essere consapevoli dell’importanza che ha il nostro modo di comunicare, quando la malattia è in noi, e quando ci incontriamo con una persona malata. Non sono cose semplici, dipendono dalle nostre attitudini ad ascoltare e ad esprimerci, dalla natura della malattia, e ancora dall’essere, o dal non essere, medici, o infermieri. Non è davvero facile parlare della propria malattia, e di questo vorrei ora dire qualcosa, richiamandomi a quello che ne ha scritto Virginia Woolf in uno dei suoi bellissimi saggi (Dell’essere malati), nel quale la malattia è chiamata un grande confessionale. Queste sono le sue parole. «Considerando quanto sono comuni le malattie, quale tremendo cambiamento spirituale implicano, quanto sorprendenti, una volta che si spengono le luci della salute, siano i paesi scono-
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sciuti che allora si scoprono, quali desolazioni e deserti dell’anima un leggero attacco di influenza porta alla luce, quali precipizi e prati cosparsi di fiori colorati svela un minimo aumento della temperatura, quali querce antiche, tenaci si sradichino dentro di noi nella malattia, come sprofondiamo giù, nel pozzo della morte, con le acque dell’annichilimento che si richiudono sulle nostre teste e come crediamo di trovarci in presenza di angeli e arpisti quando ci estraggono un dente», e infine: «quando pensiamo a tutto questo e a molto altro ancora, e siamo frequentemente costretti a farlo, allora diventa davvero strano che la malattia non abbia preso lo stesso posto dell’amore, della guerra, della gelosia tra i più grandi temi della letteratura». Che cosa dire dell’esperienza interiore della malattia? Certo, essa cambia nella misura in cui sia una malattia grave, o non grave, una malattia acuta, o cronica, ma alcune radici sono comuni: la solitudine, la mutata percezione del proprio corpo, la permanenza, o meno, in ospedale. Una malattia, talora basta una semplice influenza, come in Virginia Woolf, cambia il nostro modo di essere: 46
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cambiamo noi, e cambiano le attese e le speranze che sono in noi. Non dimentichiamo queste cose quando ci ammaliamo. Se incontriamo, a un letto di ospedale, una persona, giovane o anziana, che sta male, come comunichiamo con lei? La guardiamo negli occhi con mitezza e tenerezza, manteniamo la luce nei nostri occhi e nei nostri volti, l’ascoltiamo e l’accogliamo con gentilezza d’animo? Non si trovano facilmente le parole che sappiano testimoniare una umana vicinanza e una sincera partecipazione al dolore e alla tristezza, all’angoscia e alla disperazione, ma, se non le troviamo, molto meglio un sorriso, uno sguardo, una lacrima talora, o forse, la cosa più bella e più tenera, una carezza. Non potrei mai dimenticare le parole di Giovanni XXIII in piazza San Pietro, quando, in anni lontanissimi, ma sempre vivi nel mio cuore, invitava donne e uomini a dare una carezza ai loro bambini, dicendo che era la carezza del papa. Sì, al letto di un malato contano molto le qualità umane di ciascuno di noi, le parole, i silenzi, le lacrime, il sorriso, l’avvicinarsi discreto al letto, che ci consentono di essere di aiuto, e di allargare il cuore alla speranza. 47
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Ma come non dare importanza (anche) al modo in cui si entra nella stanza, ci si guarda intorno, si saluta, e si conclude la visita, non dando importanza al tempo che si dedica al malato? Sono cose, alle quali ci adattiamo nel migliore dei modi, se siamo stati malati; e questo perché la sofferenza passa, ma non passa mai l’avere sofferto. Lo vorrei ripetere: andiamo a visitare i malati, non dimenticando mai che la malattia rende ancora più delicati e sensibili del solito, e ci accorgiamo di molte cose, alle quali non sempre, stando bene, diamo importanza.
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Si comunica ancora nella malattia di Alzheimer?
Come comunicare con una persona, anziana, o molto anziana, che si tema, o si sappia, malata di Alzheimer? Ci vogliono parole gentili, che non si possono insegnare, e si possono solo sentire in noi, nel nostro cuore, e nella nostra immaginazione. Ci sono in ogni caso comportamenti, che dovremmo sempre avere, come guardare negli occhi (aprire l’anima e gli occhi), ascoltare, non sondare la memoria delle date e dei numeri, che hanno a che fare con il tempo dell’orologio, ma sondare la memoria emozionale, la memoria delle esperienze, che abbiamo vissuto, e che resistono alla malattia, non fare diagnosi se non quando si sia sicuri: si scambia talora, lo vorrei ripetere, una depressione, che insorge in una persona anziana, e guarisce, con una depressione, che talora è il segno di una malattia di Alzheimer. Ci sono persone semplici, che sanno dire a una persona malata le parole che aiutano, e per49
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sone, che conoscono tutto della malattia ma non sanno comunicare vicinanza e solidarietà. Allora dovremmo (anche) cercare di capire con amore che cosa voglia comunicarci una persona malata di Alzheimer: le sue preghiere, le sue attese e le sue illusioni, la sua disperazione. Sono bellissime e strazianti le poesie scritte da Roberta Dapunt (Le beatitudini della malattia) sulla malattia di Alzheimer di una donna, chiamata in lingua ladina Uma, che l’autrice considera nome universale, e che ci dice come nella malattia si continua a comunicare. La poesia è questa, e il suo titolo è Il pranzo: ne vorrei citare la seconda e ultima strofa. E mentre che il nostro è muto desinare Uma, fuori c’è il mondo, fuori sono le genti, la terra e il cielo. E anche la morte, cavalca veloce di guerra in guerra. Fuori è colui che abbandona le carni e fuori sono le pene di morte e le morti diverse, così diverse che attraversano mari e continenti per risolvere l’ultima vita. Ma qui, amabile luogo, qui niente accade, tranne che ininterrotta un’umile esistenza. Eppure, a me sembra di sentire lo spirito colmarsi. 50
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Al di là della diagnosi, che indurrebbe alla rinuncia all’ascolto e alla presenza, non si può non pensare all’influenza che le nostre parole e i nostri atteggiamenti hanno sulle persone malate di Alzheimer, che anelano a uno sguardo e a una carezza. Ci sono modi diversi di vivere la malattia, ed è necessario confrontarsi con ogni persona malata ascoltandola, sorridendo talora, non stancandosi mai di andare alla ricerca delle emozioni, che continuano magari a vivere, anche quando tutto sembra perduto e non lo è. Sono pensieri che Mariapia Veladiano svolge con delicata immaginazione in un suo bellissimo romanzo, Adesso che sei qui. La protagonista, zia Camilla, è una malata di Alzheimer, e di lei sono ricostruite le angosce, le défaillances strazianti, la gentilezza dell’anima, e le attese di qualcosa, che non si sa cosa sia, ma che la fa vivere. La malata non è chiusa in un isolamento glaciale, ma riesce a comunicare qualcosa delle sue angosce, che alcune persone sanno riconoscere. È un libro che ci dice come si possa parlare di una malattia dolorosa e straziante con gentilezza e con leggerezza, con grazia e con intelligenza del cuore, con fedeltà e con passione della speranza. 51
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Ma in noi che cosa ridesta la malattia di Alzheimer? Che cosa dire a una persona che si tema, o si sappia, malata di Alzheimer, e cosa dire ai suoi familiari? Il mistero della comunicazione è questo: come ritrovare in noi parole bianche, parole a noi leggere, parole che nascano dal silenzio e dal cuore, parole che non accrescano le sofferenze di una persona malata? Non dimenticando mai che le nostre parole sbagliate, le nostre ansie e le nostre paure possono accrescere la disperazione nei cuori delle persone malate di Alzheimer. Se non sappiamo accogliere con delicatezza, e con dolcezza, la malattia e la fatica di vivere di una persona, è meglio non occuparsene: faremmo del male a lei e a noi. Non dovremmo mai dire parole terribili e senza speranza, come demenza, che mi auguro non si dica nemmeno ai familiari di una malata, o di un malato, causando angosce ancora più insanabili. Si possono dire parole che non siano così crudeli e che non feriscano la verità. Non sono il solo a dire queste cose. Sì, non dovremmo lasciare morire la speranza, che è la passione del possibile, nemmeno nelle 52
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ore estreme della vita, se si vuole essere di aiuto a chi sta male, molto male, e nonostante tutto anela a una lacrima e a un sorriso, a una carezza e a una stretta di mano. Sono modi di comunicare che dovremmo mantenere palpitanti di vita nei nostri cuori, ricordando che, secondo le parole di Walter Benjamin, un grande scrittore tedesco, la speranza ci è data per chi l’abbia perduta, e allora è un dovere non lasciarla morire in noi. Tesi ardita, certo, ma gentile e umana, che riconferma il valore dialogico e relazionale della speranza, che, se si spegne, lascia dietro di sé una desertica solitudine. Non si comunica solo con le parole, e con i gesti, ma anche con il silenzio, benché non si sia abituati a dare al silenzio l’importanza che ha nella nostra vita.
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Il linguaggio della solitudine e del silenzio
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Il modo di comunicare con la solitudine
Si comunica anche in una condizione umana come è quella della solitudine, e allora vorrei dirne qualcosa in proposito: l’abbiamo (tutti) conosciuta nel tempo della pandemia: sia pure rivivendola in misura diversa in relazione alle nostre differenti condizioni familiari e ambientali. Non siamo stati liberi di organizzare le nostre giornate, ma siamo stati liberi di accogliere le limitazioni con la coscienza interiore della loro necessità, dando loro un senso, o di rifiutarle in noi, divenendone prigionieri, e stando ancora più male. Se accolta, e riconosciuta nei suoi significati, la solitudine è stata fonte di raccoglimento, di ascolto e di silenzio interiore, di comunione e di preghiera, aiutandoci (anche) ad arginare la paura della pandemia, e della morte. Seguendo il silenzioso cammino dell’interiorità ciascuno di noi è stato in comunicazione dolorosa, ma dotata di senso, con la solitudine. Non dimenticando che 57
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in questo dialogo, in questa comunicazione, con la solitudine, ha avuto una sua radicale importanza, lo dico ancora, l’ambiente sociale in cui si viveva: una piccola, o una grande, città, una casa dagli spazi ampi, o ristretti, una famiglia unita, o disunita. Sì, la dimensione sociale della solitudine e le disuguaglianze sociali hanno avuto, e hanno, un grande significato nell’allargare, o nel restringere, i confini della comunicazione. In ogni caso, il covid ci ha immersi in una diversa comunicazione con la solitudine, ma anche con l’esperienza del vivere, e del morire, che ci ha accompagnato negli interminabili mesi della pandemia.
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Il modo di comunicare con la morte
Ciascuno di noi si è messo a suo modo in comunicazione con questa esperienza della vita, e della morte, e non so se chi legge questa plaquette si riconosca nelle mie considerazioni. L’immagine della morte non ci è stata mai così vicina come nelle prime settimane di pandemia, e mai così profonda ne è stata la solitudine. Morivano persone anziane, e talora non ancora anziane, di una morte che giungeva improvvisa senza nome e senza memoria. Morivano medici e infermieri, consapevoli di poter morire con i loro malati, testimoniando così la fedeltà ad un alto ideale vocazionale e umano: saremmo stati capaci di seguirne un esempio di questo indicibile coraggio? Sono state scelte, quelle di infermieri e di medici, che non si sarebbero forse immaginate in un’epoca, come la nostra, sempre più divorata dalle tecnologie e dalle loro certezze: invece sono avvenute con indicibile sensibilità. Ciascuno di 59
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noi, gli anziani soprattutto, si è trovato a dialogare e a comunicare con l’esperienza della vita e della morte; e certo fede e speranza ci sono state di grande indicibile aiuto nel dare un senso al mistero del dolore umanamente così difficile da accogliere, come diceva sant’Agostino. Vorrei essere riuscito a dire come in vita non si possa non comunicare anche con il silenzio, certo, e anche con la solitudine, che ne è la sorella gemella, ma anche con la morte. Non si comunica con l’una se non si comunica con l’altra: ricordiamolo, e ora riflettiamo insieme su alcune altre forme di comunicazione.
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Il modo di comunicare con la paura (anche durante la pandemia)
La pandemia ha cambiato il nostro modo di vivere la solitudine, ma anche quello di vivere la paura: da emozione saltuaria e prevedibile si è convertita in paura generalizzata e quotidiana. La paura è incentrata sul futuro, sulle cose che ancora non ci sono, e che attendiamo con timore e tremore; e sulla scia della paura il nostro modo di comunicare cambia radicalmente. Non si usciva di casa, e, quando si usciva, la paura ci allontanava da tutti, e ci immergeva in un lago immobile, e divorato dal timore del contagio. Non ci si guardava talora nemmeno negli occhi: temendo che le persone si avvicinassero e ci chiedessero qualcosa. Non tutti ovviamente, ma (forse) in molti di noi questo avveniva nel silenzio pietrificato del cuore. La pandemia si è indebolita, e la climax intessuta di paura non è più quella di prima, ma vorrei riflettere sulla paura che fa parte della vita. Conoscendola, la si argina meglio, e un bellissimo 61
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racconto (Paura) di un grande scrittore austriaco, Stefan Zweig, mi consente di farne riemergere immagini palpitanti di verità psicologica. La protagonista del racconto, Irene, è divorata dalla paura: «Da settimane dormiva male per via di sogni ancor più angoscianti della veglia, le mancavano l’aria, il movimento, un po’ di requie, un’occupazione. Non riusciva più a leggere, a intraprendere alcunché, braccata dalla paura come da un démone. Le pareva d’essere un’inferma. Talvolta doveva mettersi a sedere di colpo, perché colta da violente palpitazioni, il peso dell’ansia le inondava le membra con il liquido denso di una stanchezza quasi dolorosa, che però non cedeva al sonno»; e la paura dilagava: riassorbendo ogni possibile forma di comunicazione. «La sua intera esistenza era minata da quella paura che la divorava, il suo corpo ne era intossicato, e in cuor suo ella chiedeva solo che il morbo si scatenasse infine in una sofferenza palese, in una malattia suscettibile di riscontro clinico, per la quale gli altri provassero comunque misericordia e pietà. In quelle ore di tormento segreto invidiava gli ammalati». Un’ultima citazione ne dice l’angoscia: «I nervi a fior di pelle, doveva sorridere e mostrarsi lieta, 62
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senza che nessuno potesse immaginare gli sforzi immani cui si sottoponeva per fingere tale allegria, la forza eroica sperperata nella quotidiana e pur inutile violenza contro se stessa». Sono pagine straordinarie che illuminano che cosa possa essere la paura, quella che a volte mi è sembrata nascere nel tempo della pandemia, anche se le paure che noi abbiamo sono diverse da quelle che descrive il grande scrittore austriaco, e che ho voluto nondimeno citare, perché ne conoscessimo i vasti confini. Fra le possibili paure non potrei non indicarne una delle più ignorate: è la paura a guardare in noi, a riconoscere quello che avviene nella nostra interiorità; ma perché una paura, così apparentemente astratta, ci inquieta, e cerchiamo senza sosta di fuggirla? Temiamo di subire il fascino di un passato doloroso, di ritrovare aree nascoste di una memoria ferita, di riscoprire in noi fragilità dolorose dimenticate, e magari di ridestare lontane tracce rimosse di colpe che rinascano improvvise. Ma, in ogni caso, che cosa dire, o che cosa fare, al fine di arginare le onde della paura nelle sue diverse forme di espressione? Ci sono pau63
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re che nascono sulla scia di cause che possono essere rimosse, e allora scompaiono, ma ci sono altre paure che possono essere risanate solo dalla speranza. Sì, lo ha scritto (anche) Ernst Bloch, autore di una immensa opera filosofica e storica, Il principio speranza, e allora merita una qualche considerazione la passione della speranza, come la definisce Giacomo Leopardi.
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Ma la speranza ci salva dalla paura
Che cosa può dire la psichiatria della speranza, di questa esperienza di vita umana e cristiana che ci mette sempre in relazione, in comunicazione, con gli altri? Non si può vivere senza speranza; lo dice Giacomo Leopardi nello Zibaldone di pensieri: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza, e la più decisiva». Sono parole bellissime, che mettono in evidenza la grande importanza della speranza nella vita di ciascuno di noi. La speranza è il nocciolo di ogni esistenza, anche se talora si oscura in noi, quando la depressione scende in noi, e quando la perdita di una persona cara ci lascia soli, e si fa fatica a vivere. Come dare una mano alla persona, giovane, o anziana, che sta annegando nell’angoscia, e nella tristezza, nel silenzio, e nella solitudine? Ascoltandola, dicendole parole che nascano dal cuore, e sappiano comunicare vicinanza, e calore uma65
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no, solidarietà, e tenerezza. Certo, la speranza cristiana è quella che non delude mai, e che san Paolo così descrive nella Lettera ai Romani: «Perché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza». In una splendida enciclica, Spe salvi, Benedetto XVI distingue fra le piccole speranze e la grande speranza: «Ancora: noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere». Così continua: «Dio è il fondamento della speranza, non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e la umanità nel suo insieme». Così questa speranza, la speranza cristiana, rinasce nella preghiera, e non si spegne nemmeno nelle notti oscure dell’anima. 66
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La vita ha a che fare con la speranza e con le speranze umane, che si allargano nei loro orizzonti quando si accompagnano alla grande speranza cristiana, che non muore nemmeno là dove le speranze umane si sgretolano. La speranza, insomma, è un modo di comunicare che ci consente di arginare le paure: anche quella così profondamente descritta da Stefan Zweig. I suoi libri sono bellissimi e rispecchiano le sue dolorose esperienze di vita, confluite nel suicidio.
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Il silenzio come modo di comunicare
Il silenzio lascia intravedere penombre di fascinazione e di speranza, di oscurità e di mistero, di inquietudine e di angoscia, di attesa e di stupore; infatti le parole nascono dal silenzio, e muoiono nel silenzio. Sono molti i modi con cui le parole e il silenzio si intrecciano: c’è il silenzio che si sostituisce alla parola nel dire il dolore e l’angoscia; c’è il silenzio che rende palpitante di vita la parola, dilatandone le risonanze emozionali; c’è il silenzio che nasconde il dolore e la sofferenza; e c’è il silenzio che si nutre di attese e di speranze. Ogni silenzio ha un proprio linguaggio che, non solo in psichiatria, ma nella vita di ogni giorno, si fa fatica a riconoscere nelle sue sorgenti, alle quali si giunge solo confidando nella intelligenza del cuore. Quante volte un paziente si chiude in un silenzio, che si scioglie nei suoi significati solo se si crea una relazione che si apre alla fiducia e all’ascolto. 68
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Un fatto di importanza radicale è distinguere il silenzio che nasce dal desiderio di solitudine da quello che rinasce invece da una condizione depressiva che ci isola dal mondo della vita. Allora noi abbiamo paura del silenzio: temendo che, come una sonda, scenda nel cuore della nostra vita interiore, facendone riemergere desideri e inquietudini, nostalgie e malesseri, che non vorremmo conoscere. Ma come non pensare invece al silenzio che è fonte di contemplazione e di preghiera? Se non amiamo il silenzio è perché non sappiamo cosa dire, cosa ascoltare di quello che si agita nel nostro cuore, e in quello degli altri, e cosa rispondere alla voce che ci chiama dalle misteriose lontananze dell’anima. Ogni giorno siamo ricolmi di infiniti pensieri, di infinite distrazioni, di infinite dimenticanze, di infinite emozioni, di infiniti progetti, e non abbiamo tempo di interrompere questo fluire di inesauribili esperienze, immergendoci almeno per qualche tempo nelle oasi talora dolorose e talora laceranti del silenzio, che ci consentono di rimettere in discussione il senso della nostra vita, e di riconoscere i sentieri che portano alla nostra interiorità. 69
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Come diceva madre Anna Maria Cànopi, che nel suo monastero benedettino dell’isola di San Giulio (riemergente come una torcia sempre accesa dal lago d’Orta) è stata testimone di una sconvolgente esperienza mistica, la parola più piena si confonde nel silenzio più profondo. Ci sono esperienze umane nelle quali la parola e il silenzio si intrecciano l’una all’altro, e siamo ai confini della ispirazione mistica. Il silenzio, insomma, è dentro di noi nella sua fragilità, e nella sua ragione d’essere, ed è necessario farlo rinascere, liberandolo dagli steccati che lo imprigionano.
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Le stanze del silenzio e della solitudine
Il silenzio e la solitudine sono le fonti segrete della nostra interiorità, e dissolvono le nubi delle noncuranze, delle distrazioni e delle smemoratezze, delle indifferenze e delle aggressività. Infatti, questo mio libro è incentrato (anche) sul tema del silenzio, e nondimeno non può non lambire quello della solitudine, che si rispecchia nel silenzio. Da un bellissimo libro di padre Giovanni Pozzi vorrei ora stralciare alcuni frammenti sul silenzio e sulla solitudine. «La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio. Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocato al centro dell’uomo: il cuore che mai non dorme, vigile nell’ascolto, metafora assoluta dell’abitacolo e metonimia dell’intera persona umana. Una cella segreta dove, al dire ancora di Angela, “sta tutto il bene che non è qualche bene, quel così tutto bene che non è nessun altro bene” (Memoriale IX, 400). Del silenzio, il libro, deposito 71
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della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace». Angela è Angela di Foligno, e il Memoriale si trova in un libro, Il libro dell’esperienza, che raccoglie, sempre a cura di padre Pozzi, i mirabili testi della santa. Leggeteli nelle notti oscure dell’anima, come le chiamava san Giovanni della Croce.
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Il silenzio in Etty Hillesum
Nella desertica solitudine di un campo di concentramento, quello olandese di Westerbork, Etty Hillesum ha scritto testi di una straziata bellezza che dovremmo meditare, e tenere nel cuore, in ogni forma di comunicazione. «Troppe parole mi danno fastidio. Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un grande silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto»; e ancora: «Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono così poche per dir quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò – e chissà poi che cosa –, mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto. E sarà più difficile rappresentare e dare un’anima a quella quiete e a quel silenzio che trovare le parole stesse e la cosa più importante sarà stabilire il giusto rapporto tra parole e silenzio – il silenzio in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme». 73
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Il diario di Etty Hillesum è profondo e vorrei che ciascuno di noi lo leggesse, se non lo ha ancora letto, testimonianza di una sensibilità e di una tenerezza inenarrabili, che le hanno consentito di scrivere in un campo olandese di concentramento, e nella sua casa di Amsterdam, nei brevi periodi in cui le si consentiva di rientrare, parole ardenti sulla vita e sul destino, sul silenzio e sulla solitudine, in un dialogo infinito con la propria interiorità e con Dio. Scrive: «Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie parole, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato»; e ancora con parole non meno emozionanti: «E tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, 74
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allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza». È un diario straziante e bellissimo che insegna molte cose sul comunicare.
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Il silenzio in un monastero benedettino
Conosco il silenzio di un monastero benedettino, che è una fontana sempre viva nell’isola di San Giulio, immersa nelle acque silenziose e tranquille del lago d’Orta. Nella splendida basilica il silenzio si alterna ai canti delle consorelle benedettine, in una alternanza che nutre di sé la loro preghiera, e la nostra. È un silenzio che è attenzione e preghiera, parola e solitudine, e che comunica l’indicibile, e l’invisibile. Nel silenzio di un monastero come questo ci si libera di quello che c’è di banale e di inutile nella vita, e ci sembra di comunicare con l’infinito. Il monastero benedettino è stato fondato da madre Anna Maria Cànopi, che ha creato una comunità animata dalla preghiera e dalla grazia, dal silenzio e dalla solitudine, dalla fede e dalla speranza, che continuano a rivivere nella mia memoria e nella mia nostalgia: sorgenti inesauribili di infinite conversazioni dell’anima.
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Sono bellissime le poesie da lei scritte, ci comunicano stupore e silenzio interiore, e ne vorrei citare una: Patire la sera. Patire la sera… È dolce patire la sera, è dolce e struggente quando il sole scompare dietro le montagne e le ombre scivolando dai boschi nella valle avvolgono ogni cosa in una coltre di silenzio profumato di muschio e di abeti. Soltanto qualche pigolio d’uccelli e qualche folata di vento tra le fronde la fanno sentire più intensa, più carica di mistero. È dolce patire la sera del tempo come una ferita nel cuore che avanza verso l’aurora eterna.
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La poesia non ridesta nella nostra anima e nei nostri occhi l’immagine palpitante di vita dell’isola di San Giulio e della sua abbazia? I canti gregoriani delle consorelle non infrangevano il silenzio, e anzi sembravano sciogliersi in un silenzio che diveniva febbrile sorgente di meditazione e di preghiera.
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Il silenzio e il canto
A queste considerazioni sul canto e sul silenzio, che si intrecciano l’una all’altra nelle due forme di comunicazione, vorrei associare le bellissime parole che il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, monsignor Massimo Camisasca, ha scritto in una sua lettera pastorale del Natale del 2019 sulla modalità espressiva del canto. «Il canto è senza dubbio una delle modalità espressive più alte del cuore dell’uomo. Esso è l’opportunità moltiplicata di dire l’amore e la gioia, la disperazione e la comunione, tutto ciò che di nobile e drammatico vive nelle profondità dell’animo umano. I Salmi ci insegnano che le nostre parole unite alla musica salgono più facilmente a Dio». La lettera pastorale così continua: «Il bel canto infatti valorizza la preghiera, soprattutto la gioia, la gratitudine, la lode, ma anche la domanda e il dolore. Esso è una strada privilegiata per la conversione dei cuori e per la comunione. Canta79
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re assieme significa ascoltarsi, e quindi anche un poco conoscersi, accogliersi». Nell’educazione al canto sono essenziali, egli dice, l’educazione al silenzio e l’educazione alla pronuncia delle parole, e poi aggiunge: «Qualche anno fa ho visto alla televisione una delle rare interviste filmate a Maria Callas. Rispondendo a una domanda su quale fosse, secondo lei, l’esperienza più importante che aveva vissuto nel canto e che voleva trasmettere, disse più o meno così: “Il silenzio. Tutta la grandezza del canto sta nei silenzi fra le parole”. La melodia, come ho accennato, non deve mai uccidere la parola». Vorrei fare ancora una ultima citazione dalla Lettera pastorale di Camisasca: «Sono profondamente convinto che l’educazione al canto sia una delle strade più alte e necessarie per il costituirsi di una comunità: esso è un’educazione all’umiltà, all’ascolto dell’altro, all’accoglienza, alla condivisione, all’offerta dei propri doni, alla pazienza. Offrire parte del proprio tempo per imparare a cantare e sostenere così, attraverso il coro, il canto del popolo cristiano, è un’azione meritoria e bellissima. È essa stessa una forma di preghiera». 80
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Il testo testimonia splendidamente gli indicibili significati liturgici, che in mistica alleanza uniscono il canto al silenzio, ridestando nei nostri cuori un modo diverso, più profondo e più arcano, di comunicare con Dio nella preghiera e nella speranza.
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Il silenzio e la musica
Alcune considerazioni sulla funzione comunicativa delle parole nella musica sono suggerite da un intenso libro di Riccardo Muti in dialogo con Massimo Cacciari (Le sette parole di Cristo). Non saranno facili, ma una plaquette come la presente non può non essere (anche) mediatrice di conoscenze, e di attese, diverse dal solito. Cacciari dice questo dei suoni: «I suoni sono, d’altronde, i mezzi più immateriali di cui disponiamo per comunicare. Dopo i pensieri. Ma è difficile comunicare da pensiero a pensiero. Non siamo angeli. Ecco allora la musica a soccorrerci. Chiudi gli occhi, cancella tutto e ascolta. – ed ecco vedrai meravigliose danze di numeri e figure, belle in sé, non perché imitino bellezze esteriori». A tali pensieri vorrei associare quelli del maestro Muti: «Lo strumento ideale, perfetto, è il canto; nel canto lo strumento è in te, ti esprimi attraverso il tuo corpo; quindi è lo strumento più 82
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emotivo e, in questo senso, anche il più fragile – le due cose vanno insieme. La voce è strumento e suono insieme, e suono interiore: questo rappresenta un pericolo e un privilegio a un tempo»; e, la mattina, mettendosi davanti al pianoforte, Riccardo Muti dice di ascoltare prima di tutto il suono, e, leggendo una partitura, di sentire i suoni nella testa, e anche i timbri dei diversi suoni. Sono parole che ci dicono come la musica possa comunicare emozioni, solo sue, che dovremmo sapere ascoltare. Non è un libro facile, e non sono facili le brevi citazioni che ne ho voluto fare, ma trattando la comunicazione non avrei potuto non farne riemergere, molto brevemente, alcuni aspetti, complessi, ma di grande valore educativo.
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Educarsi a comunicare con il silenzio
Il silenzio è dentro di noi nella sua fragilità, e nella sua vulnerabilità, nelle sue diverse forme di espressione, ed è necessario liberarlo dagli steccati che lo imprigionano, e riconoscerlo nelle sue metamorfosi. Così dovremmo educarci a comprendere il silenzio che è in noi e negli altri da noi e a fare silenzio nelle tempeste del cuore, e nelle inquietudini dell’anima: facendo tacere le parole che diciamo ogni giorno, e le parole che non diciamo, e che talora sono ancora più squillanti in noi. Non stanchiamoci di accogliere con sensibilità e gentilezza i diversi linguaggi del silenzio, e i diversi modi di comunicare con il silenzio, e non dimentichiamo la grande importanza che il silenzio ha nel comunicare i nostri stati d’animo. Salviamo il silenzio in un momento storico in cui lo si aggredisce da molte parti. Lo dice ancora padre Giovanni Pozzi: «Viviamo in un’epoca in cui il silenzio è bandito. Il mondo è oppresso da 84
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una pesante cappa di parole, suoni e rumori»; e ancora: «Una volta si percepivano solo le parole del vicino. Poca distanza bastava per sottrarsi al fastidio d’un ascolto indesiderato; oggi ci arrivano le parole degli antipodi. Il grembo del silenzio notturno è rotto dal fragore delle macchine. Costretti a passare una notte in luogo isolato, ci si alza irrequieti; il silenzio diventa un incubo nel sonno. Spaventa la pace della montagna, del bosco; e vi si va con la radio; spaventa la quiete dell’appartamento, e la si accende. Il silenzio infastidisce a tal punto che, dove sia imposto di tacere, si crea un rumore. Se nel corso di un discorso pubblico o di una liturgia s’impone una pausa di silenzio, immancabilmente uno si mette a tossire, una fa scricchiolare il banco, uno sfoglia le carte sottomano, una apre la borsetta». Ripensiamo a queste considerazioni, e teniamo viva in noi l’esile fiaccola del silenzio.
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Ancora una poesia per capire (da Rilke)
Nel concludere queste mie riflessioni sul modo di comunicare nel silenzio, e con il silenzio, vorrei citare, nella traduzione della grande germanista Elisabetta Potthoff, una arcana poesia di Rainer Maria Rilke, che è nel Libro d’ore, ed è questa: leggiamola nel silenzio del cuore, e meditiamola. Se una volta si creasse silenzio assoluto. Se fatalità e imprecisione tacessero così come il riso dei vicini, se il rumore scaturito dai miei sensi non impedisse del tutto il mio vegliare –: Allora potrei, con un pensiero dalle mille sfumature, meditare sino a raggiungere la vicinanza tua a farti mio (solo per il tempo di un sorriso) così da poterti elargire come dono all’esistere di ognuno.
Da ciò che scrivo vorrei che nascesse l’invito a prendere sul serio l’importanza del silenzio nella vita, e nella comunicazione in famiglia, nella scuo86
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la e nella vita, non dimenticando mai che è possibile, come dice Rilke, anche il silenzio assoluto: un silenzio che nasca dalla profondità del cuore, e che consumi e bruci ogni silenzio particolare. Ho voluto dedicare queste pagine al silenzio, perché è un modo di comunicare che tende ad essere dimenticato, e ignorato, nonostante l’ampiezza dei suoi orizzonti tematici, e la sua testimonianza di vita.
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La coscienza della comunicazione
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Le radici etiche della comunicazione
Non è facile vivere senza tenere presenti le fondazioni etiche delle comunicazioni verbali e non verbali, e allora vorrei riflettere insieme su di esse. Siamo sempre consapevoli delle risonanze emozionali che le nostre parole ridestano nei diversi contesti della nostra vita? Se siamo medici, come non tenere presenti le angosce e le inquietudini che conseguano a una diagnosi comunicata senza delicatezza, e questo sia ai malati sia ai loro familiari? Un tema, questo, che è stato splendidamente analizzato da un grande oncologo francese, David Khayat, in un suo libro di grande interesse umano, e non solo scientifico. Quante volte, egli scrive, la diagnosi, anche quella di una malattia tumorale, è comunicata con una e-mail, o con una lettera, e senza tenerne presenti le conseguenze psicologiche. Ogni malattia, quella tumorale in particolare, si accompagna a risonanze depressive e ansiose, delle quali ogni medico dovrebbe preoccuparsi, 91
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anche astraendo dalla natura della malattia. Certo, sono le malattie tumorali a essere causa delle angosce più dolorose, ma anche quelle cardiache, e quelle neurologiche, e in ogni caso il modo con cui si comunica una malattia ha una sua grande importanza. Come, in particolare, lo vorrei dire ancora, non immaginare i grandi sconvolgimenti che conseguono alla presenza, e anche solo al timore, di una malattia di Alzheimer. Quanta prudenza nel fare una diagnosi come questa, talora sbagliata, perché confusa con una semplice depressione, che la potrebbe vagamente imitare. La comunicazione di una malattia, ma anche la prescrizione di un esame complesso e doloroso, dovrebbero svolgersi insomma con la gentilezza e la delicatezza, con la prudenza e la riservatezza (altra cosa di grande importanza che non sempre è tenuta presente negli ospedali, e negli ambulatori) e con la tenerezza talora, tutte necessarie. Sono premesse etiche che dovrebbero essere sempre all’attenzione di medici e non medici. Un altro tema che interessa i medici, e non potrei non parlarne, è quello che riguarda il diritto di non sapere. Ci sono pazienti che si rimettono fedelmente alle cure indicate da un medico, e che 92
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non desiderano conoscere la diagnosi, almeno nelle fasi iniziali della malattia, nella speranza, o nella illusione, che non si abbia a che fare con una malattia mortale. Ne ho parlato in un altro dei miei libri, e vorrei ora ribadirne il fondamento etico. Ovviamente è una tesi problematica, che ha nondimeno una sua ragione d’essere nel momento in cui si rifletta sulla fragilità e sulla dignità di una persona malata, e ferita nella sua umanità; e allora quanta saggezza è necessaria nel comunicare una diagnosi, e talora nel non comunicarla.
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Comunicare con saggezza
Riassumendo le cose scritte in queste mie ultime pagine, direi che nel comunicare cose importanti, e quelle che solo apparentemente non lo sono, è necessaria una saggezza che apra all’ascolto e al dialogo con noi stessi e con gli altri, e che sia sorgente di parole e di silenzi, di pensieri e di emozioni, di meditazioni e di scelte di vita, che mantengano in equilibrio l’intelligenza del cuore e della mente, la prudenza e il coraggio. La saggezza ci induce ad ascoltare non solo i nostri desideri, ma anche quelli degli altri, e a prendere decisioni meditate e riflessive. La premessa alla saggezza è la conoscenza di sé, la conoscenza dei pensieri e delle emozioni, delle passioni e delle inquietudini del cuore, dell’ignoto e dell’infinito, che sono in noi. Ogni giorno siamo in cammino, o almeno lo dovremmo essere, alla ricerca di quella che è la nostra coscienza interiore. Una meta lontana e vicina, di grande importanza nella vita, che non si raggiunge se non 94
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seguendo un cammino che consenta di guardare dentro di noi. Un cammino necessario non solo alla conoscenza di quello che noi siamo, ma anche di quello che sono gli altri, perché nessuno si conosce bene, quando sia solo se stesso. Questo cammino ci consente di rivivere le esperienze degli altri come se fossero almeno in parte (anche) le nostre, e di ripensare a quello che abbiamo fatto nel passato, mantenendolo vivo nel presente. Come dice sant’Agostino, il passato, il presente e il futuro non possono isolarsi l’uno dall’altro, e si devono invece intrecciare l’uno all’altro. Ma è possibile vivere, è possibile comunicare, senza saggezza, senza una continua riflessione sulle nostre azioni e sulle nostre emozioni? Questo è possibile e ci sono filosofi e sociologi che sostengono una tesi arida e ostinata: quella che si vivrebbe molto meglio senza emozioni e senza passioni, senza saggezza etica, confidando solo in scelte razionali e in interessi personali. Sì, la vita tende, oggi, a essere influenzata da scelte indifferenti alla saggezza, e all’insieme di stati d’animo, di emozioni, di inclinazioni, e di gentilezze, che si riassumono in questa luminosa parola tematica. 95
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Nelle pagine di questa mia plaquette sono state descritte alcune diverse aree tematiche, nelle quali non può non essere consegnata grande importanza alle forme di espressione del comunicare, che a loro volta non possono fare a meno della presenza in esse della saggezza.
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La comunicazione come premessa alla cura
Creare un’adeguata relazione interpersonale è la premessa alla cura in medicina, e non solo in psichiatria. Una relazione è portatrice di cura quando paziente e medico si incontrano come persone, e il medico deve aiutare il paziente a trovare le parole che gli consentano di comunicare le sue ansie e le sue tristezze, le sue inquietudini dell’anima e i suoi smarrimenti, le sue attese e le sue speranze. Ma perché questo accada, è necessario entrare in sintonia con il tempo interiore di chi sta male, e con le sue emozioni, che non il linguaggio delle parole, ma talora quello del corpo, mette in evidenza. Mai dimenticando che nella comunicazione fra il paziente e il medico sono necessari calore umano, pazienza, comprensione e capacità di creare una climax di fiducia e di ascolto, di gentilezza e di accoglienza. Il dolore dell’anima e del corpo disturba la comunicazione, e può renderla impossibile, e allora andiamo alla ricerca di parole e di gesti che 97
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consentano alla comunicazione di rinascere dalle braci del dolore, e dell’angoscia. Il mio cammino mi ha portato così a riflettere sulla comunicazione verbale e non verbale, sulle forme che essa assume nelle parole, nel silenzio, nella solitudine, nei modi di esprimersi del volto, e degli sguardi, del sorriso e delle lacrime, e a riflettere sui problemi della comunicazione, quando ci si ammala nell’anima, e nel corpo. Nella comunicazione, nelle sue diverse forme di espressione, siamo tutti imbarcati in ogni momento della nostra vita. Ci sono nondimeno condizioni di vita professionale nelle quali i modi di espressione della comunicazione sono ancora più importanti: come in particolare nelle relazioni fra chi cura e chi è curato.
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I sentieri tracciati e la meta
In questo mio discorso vorrei augurarmi di essere riuscito a indicare i sentieri, almeno alcuni dei possibili sentieri, che consentano di riflettere sui modi con cui si possa svolgere una comunicazione verbale, e non verbale, che esprima con chiarezza e con gentilezza quello che noi pensiamo e quello che noi sentiamo. Questa è la meta alla quale ciascuno di noi dovrebbe guardare in ogni momento della nostra giornata, e in questo mio libro avrei voluto riflettere non solo sugli aspetti teorici, necessari anche questi, ma soprattutto sui modi concreti di comunicare, nel contesto di alcune significative situazioni della vita, alle quali non sempre si presta l’attenzione. La mia fragile speranza è che le mie esperienze nelle vaste aree della psichiatria, intesa come scienza dell’umano, possano essere state utili nell’indicare le emozioni, le fondazioni etiche e le attese meglio adatte a essere in sintonia e in armonia con le esigenze di una buona comunicazione 99
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verbale e non verbale. Non so se il mio sogno fragile e temerario di dire cose non astratte, e invece radicate in quelle che sono le continue scelte alle quali siamo chiamati in vita, si sia almeno in parte realizzato; ma, al di là di questo, mi basterebbe avere sollecitato, in chi mi sta leggendo, l’ansia di rivivere gli incontri che si sono avuti in vita, come ricerca di comunicazioni che abbiano a portare all’interiorità nostra, e a quella di chi è in dialogo con noi. Così noi viviamo, e prendiamo senza fine congedo dalle mille cose, dalle infinite esperienze della nostra vita, senza nondimeno abbandonarle al deserto dell’oblio.
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«Verrà come ristoro delle mie e sue pene»
Nello snodarsi di questo mio libro non sono poche le pagine che ho dedicato al tema del comunicare le nostre esperienze di malattia, e ora vorrei concluderlo con la citazione di un’altra splendida poesia di Clemente Rebora, che, nel contesto dei Canti anonimi, ha questo titolo: Dall’imagine tesa, scritta nel momento della «scelta tremenda» del giovane intellettuale che deciderà di dedicarsi agli altri e poi di convertirsi. Linee tematiche si intrecciano le une alle altre e si accompagnano a immagini di indicibile grazia, che sono testimonianza della alta ispirazione lirica e religiosa di uno dei più grandi poeti italiani, con cui ho aperto e ora chiudo le mie riflessioni: Dall’imagine tesa vigilo l’istante con imminenza di attesa – e non aspetto nessuno: nell’ombra accesa spio il campanello 101
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che impercettibile spande un polline di suono – e non aspetto nessuno: fra quattro mura stupefatte di spazio più che un deserto non aspetto nessuno. Ma deve venire, verrà, se resisto, a sbocciare non visto, verrà d’improvviso, quando meno l’avverto. Verrà quasi perdono di quanto fa morire, verrà a farmi certo del suo e mio tesoro, verrà come ristoro delle mie e sue pene, verrà, forse già viene il suo bisbiglio.
Dalle note critiche ai testi di Rebora e dalla mia (e nostra) rilettura emergono molte consonanze tematiche fra questa poesia, Dall’imagine tesa, che è la sua più celebre e antologizzata, e Tempo, con cui è iniziata la mia plaquette, in particolare con alcuni suoi versi: «Apro finestre e porte – / ma nulla non esce, – non entra nessuno»; e ancora: «Apro l’ani102
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ma e gli occhi – / ma sguardo non esce, / non entra pensiero: / inerte dentro, / fuori la vita è la morte». La poesia, scritta da Rebora nel 1920, a trentacinque anni, poco prima della sua conversione, è breve come un sospiro e ci dice quanto sia possibile (anche) nelle ultime ore della vita, quando fede e speranza sono in noi, comunicare di sé immagini di indicibile serenità. Con tali versi vorrei congedarmi dalla percezione e dalla narrazione del tema della comunicazione verbale e non verbale, alla quale Clemente Rebora ha saputo dare una splendida testimonianza, non solo poetica, ma etica e religiosa. Così le due bellissime poesie, quella che apre e quella che chiude questa mia riflessione, sono la cornice entro la quale si sono venute svolgendo le mie riflessioni, alla luce di conoscenze ed esperienze psicologiche ma anche di altre testimonianze letterarie che mi hanno consentito di allargare i confini del discorso. Mi auguro di essere riuscito a fare riemergere germogli di meditazioni che resistano almeno per qualche tempo alla erosione dell’oblio: sempre incline a cancellare le tracce che la vita, nel suo vertiginoso snodarsi degli anni, lascia nella nostra 103
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memoria emozionale, e che sono molto più durature di quelle che la vita lascia nella nostra memoria astratta dei numeri, e delle date. La speranza, o almeno l’illusione, è di aver aiutato ad aprire l’anima e gli occhi nell’ascoltare e nel comunicare le parole, i silenzi e le intermittenze del cuore che fanno parte della vita di ciascuno di noi.
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Riferimenti bibliografici
Per le principali opere citate nel corso del testo si rinvia alle seguenti fonti bibliografiche. Agostino, Le confessioni, a cura di M. Bettetini, Einaudi, Torino 2002. W. Benjamin, Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962. E. Borgna, Saggezza, il Mulino, Bologna 2019. Id., In dialogo con la solitudine, Einaudi, Torino 2021. M. Camisasca, La liturgia. Dialogo salvifico tra Dio e l’uomo, nell’eterno e nel tempo. Lettera Pastorale, 25 dicembre 2019, La Nuova Tipolito, Felina (RE) 2019. A.M. Cànopi, Mia nativa Sorgente, Morcelliana, Brescia 2015. J.-L. Charvet, L’eloquenza delle lacrime, traduzione di A. Carenzi, Medusa, Milano 2001. R. Dapunt, Le beatitudini della malattia, Einaudi, Torino 2013. E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano 1998. 105
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R. Guardini, Virtù, Morcelliana, Brescia 1972. E. Hillesum, Diario, traduzione di C. Passanti, T. Montone, Adelphi, Milano 2012. F. Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Mondadori, Milano 2001. G. Leopardi, Poesie e prose, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano 1973. R. Muti, M. Cacciari, Le sette parole di Cristo, il Mulino, Bologna 2020. B. Pascal, Pensées, in Oeuvres complètes, par J.Chevalier, Gallimard, Paris 2000. G. Pozzi, Tacet, Adelphi, Milano 2013. C. Rebora, Poesie, prose e traduzioni, a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1994. M. Veladiano, Adesso che sei qui, Guanda, Milano 2021. S. Weil, L’ombra e la grazia, traduzione di F. Fortini, Bompiani, Milano 2002. V. Woolf, Saggi, prose, racconti, a cura di N. Fusini, Mondadori, Milano 1998. S. Zweig, Paura, traduzione di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2011.
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Notizia sull’autore
Eugenio Borgna, già libero docente alla Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università degli Studi di Milano, è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara. Ha scritto un vasto numero di saggi, alternando volumi dedicati a professionisti e specialisti del settore a libri maggiormente divulgativi. Tra i suoi successi editoriali, Le parole che ci salvano (Einaudi) e La solitudine dell’anima (Feltrinelli).
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Si comunica con il linguaggio delle parole, con quello del corpo vivente, del sorriso, e delle lacrime, che ne fanno parte, e con quello del silenzio
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Alia 9. Eugenio Montale, L’arte di leggere. Una conversazione svizzera. 10. Giorgio Ambrosoli: «Nel rispetto di quei valori», prefazione di G. Colombo, con la lettera-testamento e un ricordo della moglie, a cura di C. Robiglio. 11. Giannino Piana, Sapienza e vita quotidiana. Itinerario etico-spirituale, con una nota di E. Bianchi. 12. La Marchesa Colombi, La gente per bene. Galateo, a cura di S. Benatti, I. Botteri, E. Genevois. 13. Ennio Staid, Perché in India? 14. Jeanne Hersch, La nascita di Eva. Saggi e racconti, prefaz. di J. Starobinski, nota di R. De Monticelli, trad. di F. Leoni. 15. Alberto Nota, Il bibliomane, a cura di M.C. Misiti, prefazione di P. Innocenti. 16. Dmitrij Sergeevič Lichačëv, Il silenzio del Nord, a cura di A. Raffetto. 17. Fernanda Pivano, Cesare G. Romana, Michele Serra, De André il corsaro. 18. Carlo Dionisotti, Un professore a Londra. Studi su Antonio Panizzi. 19. Giovanni Testori, Maestro no, intervista e fotografie a cura di A. Ria, con testi di L. Romano e F. Branciaroli, prefazione di G. Raboni. 21. Lucilla Giagnoni, «Vergine madre». Voce di donna nella Commedia di Dante. 22. Mary Borden, La zona proibita, a cura di Carla Pomarè. 23. Giuseppe Anceschi, I libri, un destino. Ricordi, appunti, immagini. 24. Adamo Chiùsole, Sopra l’onore. Lettera a un amico, con una nota di E. Barbieri. 25. Playstation, caffettiere e altri racconti. Gli oggetti della nostra storia, a cura di F. Panzeri e R. Righetto, presentazione di A. Zaccuri. 26. Mya Tannenbaum, Fuga dalla Polonia, presentazione di S. Romano. 27. Graziana Pentich, Dove saremo un giorno a ricordare. Itinerari con Alfonso Gatto. 28. Francesca Rigotti, Giuseppe Pulina, Asini e filosofi, con tavole di Goya. 29. Alberto Casiraghy, Gli occhi non sanno tacere. Aforsimi per vivere meglio, con un testo di S. Vassalli. 30. Lucilla Giagnoni, Big Bang. L’origine dell’universo e della vita in scena, con dvd. 31. Alda Merini, Più della poesia. Due conversazioni con Paolo Taggi. 32. Massimo Novelli, La cambiale dei Mille e altre storie del Risorgimento. 33. Carlo Sini, L’arte, le api e Darwin. Conversazioni, a cura di S. Fava. 34. Silvana Lattmann, Brunngasse 8. 36. Alberto Toscano, Critica amorosa dei francesi. 37. Bob Dylan. Play a song for me. Testimonianze, a cura di G.A. Cerutti, con una nota di A. Carrera. 38. Andrea Zanzotto, Ascoltando dal prato, a cura di G. Ioli. 39. Silvano Petrosino, Abitare l’arte. Heidegger, la Bibbia, Rothko. 40. Enrico Testa, Una costanza sfigurata. Lo statuto del soggetto nella poesia di Sanguineti. 41. Raul Capra, Tracce di follia nelle Vite del Vasari. 42. Giovanni Tesio, I più amati. Perché leggerli? Come leggerli?. 43. Alfred Jarry, Il Supermaschio (Le Surmâle), rifacimento e adattamento teatrale di S. Vassalli. 44. Oscar Luigi Scalfaro, Credere nei valori. Discorsi sulla Costituzione e sull’Italia. 45. Carlo Dossi, Il mio Manzoni, a cura di G. Davico Bonino. 46. Francesca Rigotti, Nuova filosofia delle piccole cose.
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47. Flavio Caroli, Philippe Daverio, Sebastiano Vassalli, Le anime del paesaggio. Spazi, arte, letteratura. 50. Nicola Romeo, Alle radici dell’Alfa Romeo. 51. Giovanni Tesio, Parole essenziali. Un sillabario. 52. Francesco Paolo Castaldo, Lo scudiero Sancio Panza. 54. Francesca Rigotti, Manifesto del cibo liscio. 55. Don Carlo Gnocchi, Caro Giorgio, tuo don Carlo. Lettere e cartoline inedite a Giorgio Buccellati (1941-1943), a cura di G. Santambrogio, premessa di G. Buccellati. 56. Silvana Lattmann, Vita e viaggi di J.L. Burckhardt. 57. Pietro Prini, Lo scisma sommerso. Il messaggio cristiano, la società moderna e la Chiesa, con testi di E. Bianchi e G. Piana. 58. Carlo Robiglio, Uno sguardo oltre l’impresa. Gli editoriali della rivista “L’Imprenditore” (2014-2017). 59. Le leggi della cortesia. Galateo ed etichetta di fine Ottocento. Un’antologia, a cura di A. Paternoster e F. Saltamacchia, presentazione di S. Prandi. 60. Leonardo da Vinci, Amore ogni cosa vince. Segreti di vita e bellezza, con disegni dai suoi codici, a cura di G. Ruozzi. 61. Vittorio Gregotti, Il mestiere di architetto, a cura di M. Gambaro. 62. Francesca Albani, Franz Graf, Angelo Mangiarotti. variazioni e modularità. 63. Giuliano Gramigna, Casa Freud. Un racconto sperimentale inedito, presentazione di G. Lupo. 64. Marco Scardigli, Roberto Sbaratto, Sorsi. Come farsi una cultura alcolica. 65. Silvano Petrosino, Il miraggio dei social. Euforia digitale e comunicazione responsabile. 66. Sebastiano Vassalli, Il mestiere di Omero (in preparazione). 67. Franco Buffoni, Gli strumenti della poesia. Manuale e diario di poetica. 68. Gian Carlo Ferretti, Un editore imprevedibile. Livio Garzanti, con una intervista inedita. 69. Cesare Bermani, Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone dalla Resistenza italiana all’universalità delle resistenze. 70. Silvano Petrosino, Lo scandalo dell’imprevedibile. Pensare l’epidemia. 71. Antonella Doninelli, L’eccesso del desiderio. Tra vendetta e misericordia, presentazione di P. Stancari. 72. Costruire il paesaggio, con testi di M. Romano, F. Schiaffonati, P. Zermani, a cura di M. Gambaro. 73. Antonio Ferrara, Leggero leggerò. Guida impertinente alla lettura e all’amore per i libri. 74. Massimo Novelli, Donne libere. Amanti, patriote, eroine e pensatrici nel secolo dei lumi, con una nota di A. Malerba. 75. Alessandra Anceschi, Sbocciati a scuola. Un’insegnante di musica racconta. 76. Antonella Anedda, Le piante di Darwin e i topi di Leopardi.
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