Freud e l'uomo ebreo. La chiara coscienza di un'identità interiore. Seguito da un piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l'ebraismo 8885716423, 9788885716421

Émile H. Malet si interroga in questo volume sulle radici ebraiche del pensiero freudiano, e sulla costante preoccupazio

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Italian Pages 138 [144] Year 2019

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Freud e l'uomo ebreo. La chiara coscienza di un'identità interiore. Seguito da un piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l'ebraismo
 8885716423, 9788885716421

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ÉMILE H. MALET

Freud e l’uomo ebreo

La chiara coscienza di un’identità interiore Seguito da un piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l’ebraismo

L e c h L e c hà

Collana diretta da:

Davide Assael e Mauro Bonazzi

Lech Lechà | 1

Émile H. Malet

Freud e l’uomo ebreo

La chiara coscienza di un’identità interiore Seguito da un piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l’ebraismo Prefazione di Abraham B. Yehoshua Introduzione, traduzione e cura di Andrea Baldassarro

Titolo originale Freud et l’homme juif. La claire conscience d’une identité intérieure. Suivi d’un petit catalogue de citations à propos de Freud et le judaïsme © 2016, Éditions CampagnePremière, Paris

© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Lech Lechà ISSN: 2612-1735 n. 1 – febbraio 2019 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-42-1 ISBN – E-book: 978-88-85716-43-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Professor Sigmund Freud © Associated Press

Alla memoria dei miei genitori, ai miei figli, a Sonya Ciesnik

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Introduzione di Andrea Baldassarro

Émile Malet si interroga in questo piccolo, ma prezioso volume, sulle radici ebraiche del pensiero freudiano, e sulla costante preoccupazione di Freud di mettere la psicoanalisi al riparo da qualsiasi tentazione o contingenza religiosa. In realtà, nonostante la mole notevole di saggi scritti sulla sua vicenda personale e le numerose biografie, la questione dell’influenza del pensiero ebraico sulla costruzione della psicoanalisi resta un punto forse mai sufficientemente esplorato. Ma come l’A. dimostra richiamandosi ai suoi stessi testi e alla sua corrispondenza – utilissimo da questo punto di vista è il Piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l’ebraismo nella seconda parte del volume – Freud non ha mai fatto mistero della sua ascendenza giudaica, non rinnegandola mai pur non essendo certo un devoto religioso e un praticante, ma definendosi piuttosto un “ateo”, o un “agnostico”. Nonostante ciò, le radici ebraiche nel pensiero del fondatore della psicoanalisi restano indubbie, e possono essere rintracciate in numerosi passaggi, finanche nel privilegio accordato alla parola e al discorso, ma soprattutto nella necessità di decifrare e interpretare il testo, il testo delle comunicazioni dei pazienti senza dubbio, ma non soltanto – basti pensare all’uso dei miti e della letteratura, oltre

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che dell’antropologia e delle scienze in generale – e di rivelarne il significato nascosto: ossessione questa, se così si può dire, della tradizione e della cultura ebraica, dedita da sempre a un lavoro “infinito” di comprensione e di interpretazione dei testi “fondatori”. D’altra parte, un aspetto molto significativo dell’opera freudiana è stata quella di costruire un pensiero ed una teoria del funzionamento psichico che avesse valore universale, per evitare che venisse considerato come un sistema di idee “ebraico”. Questo perché Freud era consapevole come questo giudizio avrebbe non solo ascritto il suo pensiero a un sistema di credenze a sfondo religioso, e limitato la sua influenza nella cultura contemporanea, ma soprattutto perché la sua concezione del funzionamento mentale non avrebbe mai potuto assurgere alla dignità di una teoria scientifica. Dunque il difficile compito del fondatore della psicoanalisi è stato, da una parte, quello di elaborare una teoria del funzionamento psichico ed una pratica clinica che in diversi modi ereditavano un modo di pensare tipicamente ebraico, e dall’altra di porle come un sistema universale, laico e non incline a compromessi. «Freud è un ebreo autentico, senza religione né inclinazione mistica. Il suo ebraismo collegato alla storia del popolo ebraico e alla Bibbia, giudea in qualche modo, costituisce uno scudo per muoversi liberamente nel mondo, manifestando un cosmopolitismo radicale», afferma infatti Malet nella prefazione italiana di questo volume. Dunque radici ebraiche da un lato mai rinnegate – è esemplare a questo proposito la prolusione fatta da Freud all’Associazione B’nai B’rith di Vienna del 6 maggio 1926 nella quale non solo riafferma l’importanza delle sue radici ebraiche, ma soprattutto considera il suo legame con lo stesso ebraismo come l’indice di un sentimento forse oscuro ma non per questo privo di una potente forza di attrazione. Affermazione questa che richiama alla mente Das Unheimlich, il concetto freudiano di «perturbante», quella sensazione che comporta la compresenza nel

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soggetto di qualcosa di noto ed estraneo allo stesso tempo, o ancora meglio, dell’essere abitati da un’alterità che è allo stesso tempo familiare. Dall’altro lato, una libertà di pensiero senza indulgenze a compromessi, un rigore etico e intellettuale che ha fatto di Freud una figura straordinaria, la cui influenza sulla cultura universale continua ad esercitare un fascino e una profondità che si è espansa ben oltre i confini della disciplina da lui fondata. Nelle parole dell’A. infatti, «tutta la profondità antropologica della sua opera, che non si potrebbe separare dalla clinica propriamente detta, è messa al servizio di un umanismo della ragione e della spiritualità, privato delle illusioni religiose e delle tentazioni nazionaliste». Tema questo evidentemente ancora da esplorare e da discutere, visti gli esiti preoccupanti della rinascita di istanze religiose e nazionaliste della nostra contemporaneità che provocano nuovi conflitti e nuovi orrori. Tutto questo ci viene infatti mostrato, grazie anche a un ricco corredo di citazioni, in questo volume di Émile Malet, reso ancora più prezioso dal saggio introduttivo di un grande scrittore ebraico come Abraham Yehoshua, che riporta la questione dell’ebraismo di Freud al problema della collocazione dell’ebraismo nello scenario politico contemporaneo, gravido di difficoltà e di reciproche diffidenze e incomprensioni, che rendono sempre più necessaria una riflessione accurata e disincantata sulle inquietudini del nostro tempo.

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Prefazione all’edizione italiana

Il vantaggio di ritornare un anno dopo la prima pubblicazione di questo saggio sull’identità ebraica di Freud permette di trarre qualche vantaggio dalle considerazioni già fatte e di fare un passo indietro – così da rivedere il quadro generale – senza lasciare la presa con il grand’uomo1. Tutto è in movimento in Freud, il suo spirito, le sue scoperte, la sua relazione con le scienze, la sua curiosità intellettuale per le civiltà. Anche la sua identità, a fortiori la parte intima riferita all’ebraismo e qualificata come «essenziale» dal saggio viennese. Freud è un ebreo autentico, senza religione né inclinazione mistica. Il suo ebraismo collegato alla storia del popolo ebraico e alla Bibbia, giudea in qualche modo, costituisce uno scudo per muoversi liberamente nel mondo, manifestando un cosmopolitismo radicale. Freud non lascerà mai a nessuno – tantomeno al conformismo piccolo-borghese della Vienna fin de siècle, mentre dilaga in Europa tra le due guerre l’onda nazionalista e il fascismo mortifero del regime nazista che lo forzerà all’esilio – rimettere in

1.  Fare questo esercizio di presentazione per un’edizione italiana non sarebbe dispiaciuto a Sigmund Freud che adorava Roma e che vi giungeva ogni volta come una realizzazione storica di un desiderio.

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questione la sua appartenenza al popolo ebraico. L’acqua che sgorga dalla sorgente, in qualche modo. Dimora qui la questione del legame tra la psicoanalisi e l’ebraismo che tormenterà la comunità psicanalitica freudiana ben al di là delle domande sui rapporti tra la scienza e le religioni. Che cosa dice Freud? Principalmente due cose: che la psicoanalisi non è una scienza ebraica (non più che una scienza ariana); e che non è senza significato che il suo fondatore sia ebreo. Per il resto, Freud si rimette alla posterità per trovare una spiegazione scientifica a questa identità ebraica tanto indefinibile che inafferrabile. Detto altrimenti, che ci si sbrogli da sé! Jacques Lacan troverà parole risonanti e significanti per dirlo, considerando che il dio ebreo era un dio «con il quale si parla», e l’ebraismo un tratto di civilizzazione. Più che un indovinello o un motto di spirito Freud comprende chiaramente che l’identità – qualsiasi essa sia – resta sempre ambivalente e mobile – la famosa «mobilità umana» di Jankélévitch – per evitare di costituire un muro psichico insuperabile e permettere all’individuo di arrischiarsi nel mondo. La filiazione ebraica di Freud, attestata nella sua vita dai suoi scritti e da altre corrispondenze, costituisce questa “identità intima” messa in esergo come un passaporto interiore. L’intimo di ciascuno non si espone senza ritegno né discernimento, e da parte sua Freud si misura con questo suo tratto ebraico identitario dicendo allo stesso tempo come quella singolarità, che si pretende non religiosa, coabiti in termini di civilizzazione con le porte dell’universale. Dal particolare, la stella ebraica di Freud, all’universalità delle culture d’Occidente e di Oriente, vi è l’itinerario di un uomo dei Lumi che cerca di emancipare gli uomini e le donne del suo tempo da certe alienazioni psichiche. La realizzazione di un destino autentico e rivolto all’altro. Ringrazio Andrea Baldassarro per avere accettato di tradurre il mio libro in italiano e di averlo fatto in quanto psicoanalista conoscitore del pensiero freudiano, e Maria Novella Tacci che

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ha accompagnato e sostenuto questo lavoro con dedizione e gradita attenzione. Ottobre 2017 Émile H. Malet

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Prefazione Dell’identità di Abraham B. Yehoshua

All’indomani della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, il suo giovane parlamento cercò di gettare le basi della legislazione che avrebbe costituito le leggi fondamentali del nuovo Stato. Uno dei suoi primi compiti fu la formulazione della “legge del ritorno”. Questa legge concretizzava, sul piano legislativo, l’imperativo etico che giustificava il riconoscimento internazionale della necessità di creare, in particolare dopo la Shoah, uno Stato nazionale ebraico, aperto agli ebrei di tutto il mondo. Al momento di redigere questa legge del ritorno, si era fatto sentire il bisogno di definire quale dovesse essere quell’ebreo potenzialmente adatto a ricevere la cittadinanza dello Stato di Israele. Ora, a rischio di sbagliarmi, mi sembra che questa sia stata la prima volta nella storia del popolo ebraico che una tale definizione legale e vincolante dell’identità dell’ebreo sia stata richiesta da parte di un’autorità eminentemente politica. Fino a quel momento, la definizione tradizionale della legge ebraica – «è ebreo un individuo nato da una madre ebrea» – non aveva avuto che un fondamento religioso, e impegnava coloro che accettavano l’autorità della Halakha (l’insieme delle leggi dell’ebraismo). Dopo tutto, anche tra questi ultimi correva una

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concezione vaga, nient’affatto ufficiale: un ebreo nato da una madre ebrea e che si era convertito a un’altra religione continuava, ugualmente, a essere considerato come un ebreo (la storia dei marrani ne fornisce, tra le altre, la prova). Gli ebrei secolarizzati e, senza dubbio, i non ebrei non hanno mai accettato questa definizione dell’ebreo secondo la Halakha. E, d’altra parte, le ideologie antisemite, soprattutto la dottrina razzista, hanno ampliato questa definizione ben al di là dell’ambito religioso. E nei campi di sterminio sono stati giustiziati degli individui dei quali solo il nonno o la nonna erano ebrei, mentre essi stessi non si consideravano ebrei. Ne è conseguito che lo Stato d’Israele, che evidentemente non rappresenta gli ebrei di tutto il mondo (una simile istanza, comunque, non esiste) e che non è stato delegato per esprimersi in nome di una qualsiasi concezione religiosa o altro, si è autorizzato a definire, non foss’altro che per le necessità dello stato civile del Ministero degli Interni, chi è ebreo. Certo, all’inizio la formulazione adottata dalla legge era più ampia, col rischio di gettare una certa confusione nell’amministrazione: «un ebreo è un ebreo sulla fede nella propria dichiarazione». Dopo qualche anno è stata adottata una clausola restrittiva: «a condizione che non professi un’altra religione». Detto altrimenti: la sola dichiarazione volontaria di identità era sufficiente per accordare a colui che si definiva come ebreo il diritto di divenire cittadino d’Israele. (Certo questa definizione è stata emendata due volte nel corso degli ultimi settanta anni, sotto la pressione dei partiti ortodossi, e si è rivestita di una colorazione religiosa: un ebreo è il figlio di una madre ebrea – ma il Ministero degli Interni, che conferisce alla nazionalità, non gli è stato fedele nella pratica; e degli immigrati, soprattutto dall’ex Unione Sovietica, dei quali solo il padre, oppure un nonno erano ebrei, sono stati riconosciuti come ebrei al fine di ricevere la cittadinanza).

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Nel 1958, dopo che la crisi era scoppiata in seno alla coalizione governativa sulla questione “chi è ebreo?”, David Ben Gourion, il primo ministro fondatore d’Israele, si era rivolto a una cinquantina di intellettuali ebrei – storici, rabbini, scrittori, sociologi, filosofi, religiosi e laici, cittadini di Israele o di altri paesi – chiedendo loro di cercare di dare, secondo il proprio punto di vista, la propria definizione di ebreo. Le risposte furono numerose e varie, ma una soltanto mi è rimasta nella memoria come la più sensata – quello dello scrittore Shmuel Yosef Agnon (futuro premio Nobel della letteratura nel 1966) che ha dato la sua opinione più o meno in questi termini: «Signor Primo Ministro, vi prego di rinunciare a occuparvi di questo problema, perché non potrete mai giungere a una soluzione che possa soddisfare la concezione di ciascuno dei vostri destinatari…». In altre parole: la questione dell’identità ebraica risulta, fino ad oggi, allo stesso tempo preoccupante e irrisolvibile. Per proprio conto, Émile H. Malet si sforza di confrontarsi con questa questione analizzando a fondo il pensiero e gli scritti di Sigmund Freud su questa questione. E così, questo saggio ampio e profondo, nel quale sono riportate numerose citazioni di Freud, conosciute o meno, parla in una maniera provocatoria di un ebraismo senza religione. Non entrerò negli arcani dell’analisi affascinante e approfondita di Émile H. Malet sull’opera di Freud. Tuttavia, voglio sottolineare che, contrariamente allo spirito perentorio e al dogmatismo di cui Freud, non privo di un certo aplomb, dà dimostrazione in numerosi ambiti, non soltanto in psicologia, ma anche in storia, in filosofia religiosa, in sociologia, proprio là, sul problema ebraico, tradisce una modestia evidente e un’esitazione del suo pensiero, perfino un’indecisione e delle contraddizioni. Ecco, per esempio una descrizione del suo ebraismo:

22 Ma tante altre cose rimanevano che rendevano irresistibile l’attrazione per l’ebraismo e gli ebrei, molte oscure potenze del sentimento, tanto più possenti quanto meno era possibile tradurle in parole, così come la chiara consapevolezza dell’interiore identità, la familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica1.

O ancora: Se gli venisse rivolta la domanda: “Dal momento che hai lasciato cadere tutti questi elementi che ti accomunano ai tuoi connazionali, cosa ti è rimasto di ebraico?”, la sua risposta sarebbe: “Moltissimo, probabilmente ciò che più conta”. Tuttavia egli non saprebbe al momento esplicitare a chiare le lettere in cosa consista questa natura essenziale dell’ebraismo; ma confida che un giorno all’altro essa diventerà intelligibile per la scienza.2

Così dunque Sigmund Freud, il padre fondatore della psicoanalisi, l’orefice delle parole, colui che non era mai arretrato di fronte agli intrecci psicologici più complessi, il sondatore più audace delle anime, si mostra incapace di spiegare la natura del fondamento ebraico che è in lui3, che egli considera 1.  Sigmund Freud, Discorso ai membri della Associazione B’nai B’rith (6 maggio 1926), in Id., Opere 1924-1929, vol. 10, ed. it. a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 342. [D’ora in avanti le opere di Freud presenti nell’edizione italiana delle opere complete pubblicata dall’editore Bollati Boringhieri saranno citate direttamente con il titolo in italiano seguito dalla sigla OSF. Sarà indicato inoltre il numero del volume e il numero della pagina in italiano]. 2.  S. Freud, Totem e tabù (1912-13), OSF, 7, p. 9. 3.  In verità andrebbe detto che Freud sembra alludere, nelle parole riportate sopra, alla natura collettiva di una trasmissione inconscia di valori, sentimenti, opinioni. È un tema che era stato trattato in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) e in maniera molto più speculativa e immaginifica nella Sintesi generale delle nevrosi di traslazione (1915), mai pubblicato in vita. In un altro modo la questione era stata evidenziata anche ne Il Perturbante (1919), come la presenza allo stesso tempo di estraneo e familiare nell’individuo [N.d.T.].

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tuttavia come essenziale, e si rimette allo “spirito scientifico” di qualcun altro per risolvere questa questione cruciale per la propria psiche. E questo dopo l’affermazione un po’ nebulosa di una «medesima costruzione psichica» e di una «interiore identità» comune. Freud, che ha saputo illuminare la specificità e il dedalo oscuro dell’essere umano, parla ad un tratto di una «medesima costruzione psichica» di milioni di individui. Formulazioni altrettanto artificiali che enigmatiche… Orbene, è proprio qui che risiede l’ostacolo nodale. Perché il problema non è quello di un ebraismo senza religione: lo spirito secolare esiste da secoli tra gli ebrei. Sebbene alcuni tra gli ebrei laici più accaniti non intendano, tuttavia, rinunciare ai fondamenti culturali insiti nella religione ebraica, allo stesso modo in cui molti francesi laici non vogliono rinunciare alla ricchezza culturale del cattolicesimo. Il problema non risiede, non più, nella congiunzione o nelle diverse forme o differenti gradi di rapporto tra la nazionalità e la religione nell’identità ebraica. Il vero problema si trova nel legame tra una certa nazionalità e una religione che non mantiene un legame con nessun’altra nazionalità. O, in altri termini, la questione dell’identità ebraica sarà risolta il giorno in cui la nazionalità ebraica, sotto qualsiasi forma, e in particolare la nazionalità ebraico-israeliana, sarà disposta a riconoscere gli Israeliani cristiani o musulmani come membri del popolo storico d’Israele. Un po’ come la nazionalità francese riconosce degli ebrei, dei buddisti o dei musulmani francesi come membri che fanno interamente parte del popolo storico francese. Va da sé che ciò rappresenterebbe una rivoluzione inaudita e complessa nella visione che l’ebreo ha di se stesso, e a dire il vero, almeno a uno sguardo immediato, non sembra che questa rivoluzione possa prodursi molto presto. Émile H. Malet ha percepito questa difficoltà e la affronta nel suo libro pertinente e denso.

«Il vostro essere ebrei non poteva che essermi gradito, dal momento che io stesso sono ebreo e mi è sempre parso non solo indegno ma assolutamente assurdo negarlo. Ciò che mi legava all’ebraismo era – mi vergogno di ammetterlo – non la fede, e nemmeno l’orgoglio nazionale. Infatti sono sempre stato un non credente, sono stato educato senza religione, seppure non senza rispetto verse quelle che si definiscono le istanze “etiche” della civiltà umana. Ho sempre cercato di reprimere l’orgoglio nazionale, quando ne sentivo l’inclinazione, come qualcosa di calamitoso e ingiusto, spaventato dagli esempi ammonitori dei popoli in mezzo ai quali, noi ebrei, viviamo. Ma tante altre cose rimanevano che rendevano irresistibile l’attrazione per l’ebraismo e gli ebrei, molte oscure potenze del sentimento, tanto più possenti quanto meno era possibile tradurle in parole, così come la chiara consapevolezza dell’interiore identità, la familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica». Discorso ai membri della Associazione B’nai B’rith [OSF, 10, pp. 341-342].

I. Freud, un uomo ebreo, o la chiara coscienza di un’identità interiore

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Presentazione Provocare la sorte

Una domanda: se Freud non fosse stato ebreo, e neppure cattolico, protestante o mussulmano, ci si sarebbe interrogati sulla natura della sua identità? E ancora, della dimensione ebraica della sua attività scientifica, nel caso specifico della psicoanalisi? Difficile rispondervi, in ogni caso l’interrogativo non sarebbe stato posto in modi che fanno riferimento esplicitamente a un ramo religioso del monoteismo. Carl Gustav Jung, figlio di un pastore luterano, e di tradizione clericale, non è stato per esempio mai interrogato sul protestantesimo come “mito personale” della sua vita, e neppure sui riferimenti teologici della sua psicologia analitica. Altri grandi spiriti familiari della teologia cristiana: Immanuel Kant, Voltaire, Bertrand Russel…, sebbene filosofi, liberi pensatori e umanisti, non sono mai stati oggetto di una domanda identitaria che facesse riferimento alla loro supposta religione. A ben guardare, Freud non è stato uno spirito religioso più di questi grandi autori, tutti appassionati e conoscitori della storia delle religioni. La nostra intenzione non è quella di identificare il fondatore della psicoanalisi come “ebreo”, dato che egli si dichiara “straniero alla religione dei suoi padri”, ma di ricordare con Witold Gombrowicz che il nostro grand’uomo rasenta «la via crucis» degli ebrei:

30 l’odio, il disprezzo, la paura e l’avversione suscitati dagli ebrei negli altri popoli appartengono allo stesso genere di sentimenti che Beethoven malato, sordo, sporco, isterico e gesticolante suscitava nei contadini tedeschi nel corso delle sue passeggiate. La via crucis ebraica è la stessa via crucis di Chopin. La storia di questo popolo, come le biografie di tutti i grandi uomini, è una segreta provocazione del destino, è un tirarsi addosso tutte le catastrofi capaci di portare a compimento la sua missione di popolo eletto. Non si sa quali forze della vita abbiano evocato un fatto così spaventoso. Ma coloro che ne sono parte, che lo costituiscono, non si illudano neanche per un attimo di emergere dall’abisso per ritrovarsi su un terreno pianeggiante.1

Lo sguardo di Gombrowicz è interessante, universalizza la vocazione del popolo ebraico senza ignorarne le sue particolarità, e mostrando come ogni spirito fuori dal comune costituisca una «segreta provocazione». Freud, spirito provocante, ne è un’evidenza! Come Beethoven e Chopin. L’esegesi freudiana del monoteismo si apparenta a un «decalogo laico», è questa un’espressione presa a prestito da Lech Walesa, l’uomo di Stato cattolico rimasto vicino alla chiesa, che si dedicò a governare la Polonia post-comunista imboccando la strada di una laicità spirituale. Vale a dire attingendo alle tradizioni e alla diversità socioculturale della Polonia per guidare la politica del suo paese, libero di affrontare le forze irredentistiche e arcaiche della religione cristiana. Freud diffidava di ogni identità compatta o che apparisse da vicino o da lontano aderente a una religione, ivi compreso l’ebraismo, ma non gli ripugnava di interessarsi alle religioni dalle quali, tuttavia, si allontanava per il loro dogmatismo mostrandosi invece sempre all’ascolto dei progressi della spiritualità – come

1.  W. Gombrowicz, Diario. Volume I (1953-1958), tr. it. di V. Verdiani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 113.

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si può notare nelle sue osservazione su Mosè, il monoteismo e il popolo d’Israele. Il decalogo laico di Freud si avvicina a una spiritualità senza religione, a delle parole che provengono da un desiderio di legge e di verità del soggetto. Questo anche, come si è detto, e non senza ragione, perché egli non voleva che la psicoanalisi fosse d’emblée squalificata se la si fosse considerata come una scienza ebraica e di conseguenza sospettata di partito preso etnico e settario, cosa che l’avrebbe resa inoperante clinicamente e privata della sua aura scientifica. In una corrispondenza con Sándor Ferenczi, Freud può fare appello al semitismo, rifiutando però, per la psicoanalisi e in maniera più generale, l’idea di una scienza ebraica: «Quanto al semitismo, ci sono sicuramente grandi differenze rispetto allo spirito ariano. Ne abbiamo la conferma ogni giorno. Di conseguenza ci saranno inevitabilmente, di tanto in tanto, differenze nella visione del mondo e nell’arte. Ciò non significa che possa esistere una particolare scienza ariana o giudaica»2. Lo stesso fenomeno si osserva con gli scrittori e gli scienziati nati ebrei, ma che opereranno nelle loro rispettive discipline al riparo di qualsiasi contingenza religiosa e per non ridurre la loro opera a un caleidoscopio comunitario o nazionale. Chi oserebbe affibbiare un’etichetta di scienza ebraica alla teoria della relatività di Albert Einstein, a meno di non fare mostra di una sorta di delirio – in uso in certi ambienti complottisti e fondamentalisti? D’altro canto, Freud era avvertito degli stretti rapporti tra le religioni e i nazionalismi, dai quali risultavano violenze, discriminazioni e xenofobia. È la ragione per la quale tutta la profondità antropologica della sua opera, e che non si potrebbe separare dalla clinica propriamente detta, è al servizio di un umanismo della ragione e della spiritualità, privo di illusioni religiose e di tentazioni nazionaliste. 2.  Lettera di Freud a Ferenczi dell’8 giugno 1913 in S. Freud - S. Ferenczi, Lettere, vol. I (1908-1914), tr. it. di S. Stefani, Cortina, Milano 1993, p. 510.

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Nato a metà del XIX secolo in una famiglia ebraica piuttosto liberale, nel cuore dell’impero austro-ungarico che sarebbe scomparso da lì a poco, e sottomesso a convulsioni nazionaliste, Sigmund Freud ebbe il compito non facile di trovare il proprio posto in un ambiente viennese sottomesso al conformismo. Egli restava il “Sigi d’oro”, come lo chiamava affettuosamente sua madre Amalia, tanto da provocarne la sorte – il destino – per farne riconoscere il suo genio scientifico e fondare la psicoanalisi. In un simile contesto di diffidenza, di fronte a una compatta maggioranza antisemita, dalla quale non era possibile ricevere alcun apprezzamento, Schlomo (Sigmund), figlio di Jacob Freud, aveva la scelta tra l’assimilazione socio-religiosa al cristianesimo dominante, o il trarre profitto dallo spirito dei grandi profeti dell’ebraismo per adempiere al suo destino e realizzare la sua missione umanista. Scegliendo di restare ebreo per fedeltà alle sue origini familiari e per la filiazione paterna con il «libro dei libri»3, Freud si affrancava così dalla pusillanimità del suo ambiente per avventurarsi sul cammino della conoscenza.

3.  È così che Jacob Freud definisce la Bibbia che offre a suo figlio Sigmund per il suo 35º compleanno. La citazione completa figura più avanti in questo volume.

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Un destino di civilizzazione da realizzare

«So di avere un destino da compiere»1. Sigmund Freud non si accontenta di parole per affermare un’ambizione intellettuale che egli consacrò fino al limite estremo delle sue forze, l’ambizione di tutelare l’uomo dai suoi demoni e la civilizzazione dalle sue inclinazioni più oscure. Prima di accedere una notorietà internazionale, facendo assurgere la psicoanalisi al nobile rango di “scienza dei sogni”, egli si dedicò innanzitutto ad affermarsi come un clinico senza pari presso pazienti austriaci prima e poi, aiutato dal successo, con una clientela internazionale. Il viennese della “Bergasse” (la strada dove si trovavano il suo studio di consultazione e la sua abitazione), il terapeuta consacrato a una clientela che giungeva da tutta Europa e perfino dall’America, e lo studioso riconosciuto e prolifico che diviene istituendo la psicoanalisi come un’opera di civilizzazione, concorrono da subito allo stesso progetto umanista, nel riconoscere la nevrosi dei suoi pazienti e il disagio del mondo: «La psicoanalisi ci ha infatti insegnato [… ad] interpretare le reazioni di altri uomini [… a partire dall’] espressione dei propri impulsi emotivi»2. Vale a dire, più vicino alla verità del soggetto confrontato al 1.  S. Freud, Contributi a una discussione sull’onanismo (1912), OSF, 6, p. 566. 2.  S. Freud, Totem e tabù, OSF, 7, p. 161.

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caos del mondo, e tutto questo in un’epoca in cui l’Europa stava per precipitare nel populismo, il nazionalismo e la guerra. Alcuni spiriti, pieni di resistenze piuttosto che malevoli nei confronti della psicoanalisi, considerano una sorta di scissione freudiana, tra una prima fase clinica e un approccio più globale alla civilizzazione, con la pubblicazione in età matura dei suoi grandi testi (Totem e tabù, Il disagio della civiltà, Mosè e il monoteismo), aventi come epicentro psico-culturale del passaggio dal XIX al XX secolo L’interpretazione dei sogni, sua opera di riferimento pubblicata nel 1900. Questa supposta scissione, a nostro avviso, invece non sussiste, ed è quello che cercheremo di mostrare percorrendo succintamente l’itinerario di un europeo fuori dal comune, il cui sapere non ha (ancora) sufficientemente fecondato i cenacoli dell’educazione, della conoscenza, della politica, della cultura… e dell’attualità. «Sigmund Freud, nel suo tempo e nel nostro», secondo l’espressione idonea di ­Élisabeth Roudinesco3. Freud obbliga a guardare diversamente l’attualità. Con distacco, anticipazione e senza illusioni sui conflitti che scandiscono la storia dell’umanità. Freud è all’ascolto dei suoi pazienti in risonanza con la loro storia passata, con quanto essa conserva di vestigia primitive e arcaiche e di proiezione verso l’avvenire liberato dall’analisi dai suoi determinismi obsoleti e, a volte, paralizzanti. Questo percorso clinico, attraverso l’interpretazione dei sogni, risulta singolare, iscrivendosi del tutto in una prospettiva storica e socioculturale. «L’interpretazione di un sogno è perfettamente analoga alla decifrazione di un’antica scrittura ideografica, per esempio dei geroglifici degli Egiziani»4. È infatti attraverso l’Egitto e la civiltà egiziana che Freud affronta il racconto del Mosè e il monoteismo. 3.  È il titolo della biografia consacrata da É. Roudinesco a Freud: Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro, tr. it. di V. Zini, Einaudi, Torino 2015. 4.  S. Freud, L’interesse per la psicoanalisi (1913), OSF, 7, p. 260.

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Nel corso di un viaggio recente ad Assuan, nel cuore della civiltà egizia, nelle sue tombe e delle sfingi, ho preso coscienza del valore inestimabile di questi tesori della civilizzazione dal momento che vengono a ricordarci «la memoria di ciò che si dimentica». E così che Lacan definisce l’inconscio, nozione principe della psicoanalisi della quale Freud espliciterà vie e percorsi per svelare i segreti dell’animo umano e placarne i tormenti. Per questo approccio all’Io e all’inconscio, in cui la clinica diviene opera di civilizzazione, Freud ricusa qualsiasi posizione ideologica: «In generale, io non sono per la fabbricazione di concezioni del mondo»5. Il saggio viennese, avvezzo a dibattere le sue tesi in un ambiente ostile, diffidava come la peste di qualsiasi collaborazione con politici e benpensanti di tutti i generi che stavano conducendo l’Europa al rogo dei “festeggiamenti” nazisti. Soprattutto gli si rimproverava – e la sua origine ebraica accentuava il suo disprezzo pubblico – di propagare una forma di denigrazione sociale morale all’interno della società austriaca: «Poiché noi provochiamo il crollo delle illusioni, ci si rimprovera di mettere in pericolo gli ideali»6. Aggiungendo: «solo l’amore ha agito come fattore di incivilimento, trasformando l’egoismo in altruismo»7. L’“altruismo” freudiano è tanto più comprensibile dato che l’autore del Disagio della civiltà non propone in alcun modo di “ritirarsi dalla realtà”, perché ciò sarebbe allo stesso tempo uscire fuori dalla comunità umana. Una modernità consapevole, insomma, che incita all’impegno civico e alla partecipazione sociale consentendo a ciascuno la realizzazione di un destino nel quadro della civilizzazione. Quello che Freud non dice, ma ne lascia supporre l’auspicio per la sua filiazione con l’ebraismo, è il debito contratto 5.  S. Freud, Inibizione, sintomo, angoscia (1925), OSF, 10, p. 245. 6.  S. Freud, Le prospettive future della terapia psicoanalitica (1910), OSF, 6, p. 203. 7.  S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), OSF, 9, p. 292.

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da tutti gli ebrei nei confronti della civilizzazione e viceversa. A fortiori, da parte di un “ebreo illustre”: Non esiste popolo più manifestamente geniale del loro, e non lo dico solo perché hanno contenuto le più grandi ispirazioni del mondo, o perché esprimono a getto continuo nomi destinati a diventare immortali o perché hanno impresso il loro marchio sulla storia. […] È curioso come la vita di un ebreo, anche il più comune e più sano di questo mondo, sia sempre, in una certa misura, la vita di un uomo eccezionale: per quanto sano, normale e uguale agli altri, è comunque diverso e trattato diversamente; resta isolato e – lo voglia o no – emarginato. Si potrebbe dire che anche l’ebreo comune sia condannato alla grandezza per il solo fatto di essere ebreo.8

Comunque Gombrowicz, uno scrittore polacco che esce dai sentieri battuti dell’antisemitismo dell’Europa centrale e orientale e che, come il ceco Milan Kundera, è un chiaro spirito europeo. Nel caso di Freud, c’era anche il dovere di cancellare l’affronto antisemita fatto al padre, la pratica xenofoba d’uso corrente nella Vienna fin de siècle. L’episodio è rimasto celebre e sembra aver profondamente segnato l’autore di Totem e tabù, che lo riporta così: Una volta mi fece questo racconto per mostrarmi come fosse migliore del suo il tempo in cui ero capitato: «un sabato, quand’ero un giovanotto, ben vestito, con un berretto di pelliccia nuovo in testa, andai a passeggiare per le vie del tuo paese natale. Passa di lì un cristiano, con un colpo mi getta il berretto nel fango gridando: “giù dal marciapiede, ebreo!”. “E tu che cosa facesti?”. “Andai sulla strada e raccolsi il berretto”, fu la pacata risposta. Questo non mi sembrò eroico da parte di quell’uomo grande e robusto che teneva per mano me bambino.9 8.  W. Gombrowicz, Diario. Volume I (1953-1958), cit., pp. 112 s. 9.  R. Dadoun, Sigmund Freud, tr. it. di L. Brambilla, Spirali, Milano 1997, p. 33.

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Così, che si tratti di una riconquista culturale che mira a «riprendere un posto disabitato», di rifiutare di sottomettersi all’ostilità dell’ambiente, come di cercare di risollevare la funzione del padre, una tautologia ebraica e psicanalitica, il tentativo freudiano «è necessariamente quello di unire il desiderio alla Legge»10. È lo stesso desiderio di legge che Michelangelo ha inciso nel marmo scolpendo un Mosè dall’aspetto inflessibile e profetico nella chiesa romana di S. Pietro ai Vincoli.

10.  J. Lacan, cit. da C. Melman, La névrose obsessionelle, Éres, Toulouse 2015, p. 120.

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Un significato ebraico inclusivo

Mettere in evidenza l’identità ebraica di Freud, la sua parte di ebraismo, dovrà comunque evitare qualsiasi proselitismo religioso, e rifiutare un approccio sociologico comunitario, vale a dire di tipo marxista, consistente nel cancellare ogni significante ebraico, che renderebbe incoglibile e oscuro il proposito di Freud. In un’ipotesi ideologica, si potrebbe evocare la “questione ebraica” di Freud ma, a differenza di Marx, l’autore del Disagio della civiltà non considerava negativamente la sua filiazione ebraica. Anzi, egli avrà anche l’occasione di inorgoglirsene nei suoi scritti e nelle sue relazioni personali. Cosa che non andava da sé, come si vedrà, in una Vienna xenofoba e antisemita. Egli affrontò senza complessi il suo legame con il popolo ebraico con una preoccupazione di verità, autenticità ed empatia. D’altronde è così che egli si poneva all’ascolto degli altri in generale, e si comportava in questo modo nella clinica con i suoi pazienti. Il termine complesso non va preso alla lettera dal punto di vista semantico, come di colui che sarebbe condizionato da un disturbo o da una timidezza, perfino da un’inibizione, in quanto Freud non aveva vergogna del suo ebraismo. Si tratta piuttosto di esplorare i legami inconsci del suo complesso ebraico – come si parla di complesso di castrazione per evocare

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l’accesso del soggetto alla civilizzazione. L’uomo di scienza e l’uomo ebraico non entrano mai in conflitto in lui, cosa che può spiegare una comune empatia per il popolo ebraico e per l’insieme dei suoi contemporanei, e in particolare per quelli a cui consacrò il suo lavoro di psicanalista mettendosi all’ascolto della sofferenza psichica per potervi porre rimedio. «Questa tensione dell’ebreo verso l’unità», spiega Martin Buber, «che fa dell’ebraismo un fenomeno dell’umanità e della questione ebraica una questione umana»1. L’empatia è in Freud una forma di riconoscenza e di esigenza, una riconoscenza per la storia singolare di un popolo nella sua durata e la sua diversità, e un’esigenza intellettuale richiesta al di là di qualsiasi settarismo comunitario e religioso. Il significante ebraico acquista in lui una dimensione storica, psicologica, quasi carnale, è inclusivo degli aspetti chiave del destino e della civilizzazione. Freud era un uomo all’ascolto dei suoi tempi ed educato alle antiche scienze umane. Egli è allo stesso tempo nostro contemporaneo, uno spirito dei Lumi, un lettore della Bibbia e di altri grandi testi, e un decifratore delle civiltà. È alla luce di questi differenti tempi culturali che sono i grandi momenti della civilizzazione che egli considera il caleidoscopio identitario del popolo d’Israele, al quale appartiene attraverso una filiazione identitaria ininterrotta. Nella sua ultima opera maggiore, Mosè e il monoteismo, egli parte alla ricerca della storia di un popolo con degli accenti profetici ed iconoclasti, in primo luogo a partire dalla “scelta di Dio per Israele”. Freud si interesserà particolarmente alle situazioni in cui il significante ebreo inclusivo della civilizzazione si presta all’interpretazione: l’ebreo traghettatore di idee e di modernità, l’ebraismo del progresso

1.  D. Bourel, Martin Buber, sentinelle de l’humanité, Albin-Michel, Paris 2015, p. 169.

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nella spiritualità…. L’ebreo «che sa leggere», dirà Lacan, in un’interpretazione folgorante: L’ebreo, dopo il ritorno da Babilonia, è colui che sa leggere, cioè che prende dalla lettera la giusta distanza nell’interferire della lettera sulla sua parola, trovando qui l’intervallo giusto per operarvi con un’interpretazione. Una sola, quella del Midrash, che in ciò si distingue in modo eminente. Infatti, per questo popolo che ha il Libro, unico fra tutti ad affermarsi come storico perché non proferisce mai miti, il Midrash rappresenta un modo di approccio del quale la moderna critica storica potrebbe benissimo essere l’imbastardimento.2

Il Midrash è allo stesso tempo commentario, interpretazione, chiarificazione e messa in questione della lettura. Esso è per l’ebreo un apprendimento iniziatore della civilizzazione. E della legge, se si considera che molto spesso il padre partecipa a questa educazione. Il significante ebraico, inclusivo della civilizzazione, è anteriore a Freud, lo si ritrova nella Haskalah (educazione), movimento di pensiero ebraico del XVIII e XIX secolo – fortemente influenzato dai lumi europei, e che predicava uno spirito di apertura e di tolleranza attraverso l’educazione. L’ingiunzione educativa è un’antifona comune alle religioni monoteiste e alle altre civiltà. Per quello che riguarda più particolarmente l’ebraismo, ci si può rapportare alla famosa apostrofe talmudica del saggio Hillel (I secolo) al proselita pagano che reclamava la conversione: «Va’ e impara» (Shabbat 31). Dall’inizio della nostra era alla Haskalah, la coesistenza di popoli e nazioni non è stato un lungo fiume tranquillo. Bisognerà attendere la seconda metà del XVIII secolo, che vide Moses Mendelssohn, un intellettuale ebreo berlinese, intraprendere un dialogo di amicizia con lo scrittore cristiano Gotthold Lessing. Essi abbozzarono 2.  J. Lacan, Radiofonia. Televisione, ed. it. a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1997, p. 32.

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di concerto un approccio reciproco di tolleranza tra ebrei e cristiani. Questo avvicinamento che darà i natali alla Haskalah, non si sarebbe potuto fare che attraverso una presa di distanza dalla religione. Ne conseguì che numerose eminenti figure ebraiche si esercitavano in tutta libertà nelle arti e le scienze – Marx, Einstein, Bruno Walter, Theodor Herzl, Stephan Zweig, Freud…. Una scommessa di umanità e di libertà della quale Freud farà il suo viatico laico per fondare la psicoanalisi. Quanto al significante ebraico nel seno della psicoanalisi, Freud ha mostrato che non era religioso, lasciando in una corrispondenza con Karl Abraham la cura di mostrarne l’apparentamento al modo di pensiero talmudico: Anche io ho sempre avvertito questa parentela intellettuale. Il modo di pensiero talmudico non può essere scomparso all’improvviso dentro di noi. Qualche giorno fa, mi trovavo a riguardare il Motto di spirito, catturato in una maniera singolare da un piccolo paragrafo. Considerandolo più precisamente, ho trovato che, nella tecnica del metodo analitico della correlazione, e in tutta la sua costruzione, c’era una parte talmudica.3

Un modo di approccio interpretativo, come aveva osservato Lacan a proposito del Midrash.

3.  Lettera 30A di Karl Abraham, in S. Freud - K. Abraham, Correspondance complète, 1907-1926, Gallimard, Paris 2006.

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La scelta di Dio per Israele

«Voi sarete per me un popolo, e io sarò per voi un Dio» Ezechiele 36, 24-28. La legge da cui quel popolo è governato, è a un tempo la più antica del mondo, la più perfetta e la sola che sia sempre stata conservata senza interruzione in uno Stato. Giuseppe Flavio lo dimostra in modo mirabile nel suo Contro Apione, e anche Filone l’Ebreo, in più luoghi; dov’essi fanno vedere che quella legge è talmente antica che lo stesso termine di legge non fu conosciuto dai più antichi se non più di mille anni dopo, tanto che Omero, il quale scrisse la storia di tanti Stati, non lo usò mai. Ed è facile accertarsi della sua perfezione con una semplice lettura: da cui appare che si è provveduto a ogni cosa con tanta saggezza, equità e discernimento che i più antichi legislatori greci e romani, avendone avuto qualche cognizione, ne derivarono le loro leggi principali, come risulta da quella detta delle Dodici Tavole, e dalle altre prove che ne dà Giuseppe. Ma quella legge è in pari tempo la più severa e la più rigorosa di tutte, per quanto riguarda il culto religioso: poiché obbliga quel popolo, per mantenerlo nel dovere, a osservare mille prescrizioni particolari e penose, pena la morte. Sicché è davvero stupefacente che essa si sia sempre conservata in modo costante per tanti secoli, in un popolo ribelle e impaziente come quello, mentre tutti gli altri Stati han cambiato di tempo in tempo le loro leggi, sebbene di gran lunga meno gravose. Il libro che contiene quella legge, la prima di tutte, è

44 a sua volta il più antico del mondo, perché quelli di Omero, di Esiodo e gli altri sono di sei o settecento anni dopo.1

Ezechiele e Pascal, Dio, la legge e Israele, una scommessa di memoria e di storia. Una scommessa biblica, Antico e Nuovo Testamento in risonanza e in dialogo. Questa massima di Ezechiele mette in scena un “popolo” e un “Dio”, e stringe tra di loro un rapporto di alleanza, di guida morale e di vincolo religioso. Essa si trova alla base di quel concetto tanto controverso di “popolo eletto”, analizzato prospettivamente da Freud al di fuori dei sentieri battuti di una doxa dominante che fece dell’“elezione” uno spauracchio marxista. In Mosè e il monoteismo, Freud cerca di districare i significati culturali, mitologici e storici dell’elezione divina del popolo ebraico: Ancor più strana è l’idea che un dio tutt’a un tratto “scelga” un popolo, dichiarandolo suo popolo e dichiarando sé stesso suo dio. Io credo che sia l’unico caso del genere nella storia delle religioni umane. Altrove dio e popolo sono indissolubilmente connessi, sono sin dall’inizio una cosa sola; certo talvolta si sente che un popolo si prende un altro dio, mai però che un dio si cerchi un altro popolo.2

Il suo proposito non stona in fine con la profezia di Ezechiele, se non che il registro simbolico di Mosè e il monoteismo non dà luogo ad alcuna collusione religiosa. Secondo Freud il nodo della significazione biblica e iniziatica si trova nella scelta fatta da Dio per Israele, scelta assolutamente sorprendente nella storia dell’umanità. Una scelta inattesa al principio di una storia, il monoteismo nella lettura freudiana è anteriore all’itinerario genealogico degli ebrei, che ereditarono 1.  B. Pascal, Pensieri (1670), Mondadori, Milano 1979, pp. 352 s. 2.  S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), OSF, 11, p. 371.

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dalla dinastia di Ekhenatòn la religione di Atòn, e che trova un’interpunzione contemporanea nella diversità della diaspora e attraverso il vettore ideologico del sionismo e la creazione di Israele: il passato e il presente possono così ricongiungersi nel «mondo contemporaneo dello Stato-nazione e delle società democratiche»3. Insomma, si tratta della genealogia di un popolo, spiritualmente sacro e biblicamente consacrato dall’elezione divina, guidato da una sorprendente alterità – Mosè è nato egiziano – e per trovare in fine fuori e oltre la diaspora un destino nazionale che si collega a quello delle nazioni democratiche. L’epopea del popolo ebraico si apparenta tutto sommato a una saga popolare ordinaria; ciò che la distingue proviene dalla radicalità del messaggio divino che trasmette la sua legge al popolo ebraico, il quale ne diviene una sorta di depositario legale. Questa saga dona all’ebraismo una prospettiva terminabile e interminabile, per riprendere le tesi dello storico Josef Hayim Yerushalmi. La distinzione di Israele come popolo e, lo si vedrà, come “popolo eletto” sotto la conduzione del profeta fondatore Mosè4, non ha smesso di urtare coloro che fanno appello o meno alla filiazione monoteista, credenti o laici, non tanto per la trasmissione della religione e dei “comandamenti” da parte di un profeta minacciato e poi abbandonato dai suoi, quanto per l’ingiunzione divina a fare accettare la sua legge a un popolo inizialmente recalcitrante. Dopo essere stato adulato dal faraone e della sua progenie femminile, Mosè resistette alle violenze esterne degli egiziani. Gesù fece lo stesso opponendosi all’impero dei Romani e Maometto non cederà mai alle pressioni dei suoi avversari mobilizzando di continuo un proselitismo di conquista. A proposito del popolo ebraico, l’atto di maestà di un dio, “tutto amore, tutta 3.  P. Thibaud, À propos du sionisme, in «Sens», n. 285, 3 (2004). 4.  «l’uomo Mosè creò, lui, gli Ebrei» (S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, OSF, 11, p. 426).

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potenza”, offre un’organizzazione e una spiritualità singolare al popolo d’Israele. Questa distinzione susciterà l’ostilità dei cristiani e dei musulmani, e istituirà un processo interminabile contro la tradizione di “elezione” attribuita al popolo ebraico. Un po’ come se si cercasse di de-simbolizzare un popolo dai suoi canoni mitologici. La “battaglia” per la sovranità politicoreligiosa di Gerusalemme è un reliquato di questo processo. In cambio di questa decisione divina unilaterale e coercitiva, Freud spiega che questa «fece sì che il popolo prendesse parte alla grandiosità insita in una nuova rappresentazione di Dio»5. Detto altrimenti, al seno di questa relazione diseguale tra Jahvé e il popolo ebraico, quest’ultimo ottiene come compensazione grandiosa quella di essere scelto da Dio e guidato sul cammino della legge da un profeta straniero. Questa storia contrastata, e della quale il lignaggio straniero del suo grande architetto (Mosè) sciocca profondamente gli ambienti tradizionali ebraici, può aiutare a comprendere alcuni tratti del carattere dell’ebreo, abbozzando un essere cosmopolita sin dalla nascita, dal temperamento affettivo, un traghettatore del tempo e delle idee, e un guastafeste. Dopo la creazione dello Stato di Israele, l’ebreo – cittadino israeliano o vivente nella diaspora – arriva a legittimare il suo rapporto con un territorio nel quale l’ostilità del vicinato non è di tutto riposo. Dopotutto milioni di cittadini di qualche parte del mondo dispongono di una doppia nazionalità e provengono (a volte) da paesi le cui frontiere sono contese. E come ricorda Abraham B. Yehousha, non esiste un’istanza che possa definire “tutti gli ebrei del mondo”. Mi ricordo di un dibattito al Senato con Jean Daniel, a proposito di questa “elezione” che lo scioccava tanto, perché egli considerava che impedisse in qualche modo una “normalizzazione” del popolo ebraico, rendendolo singolare al concerto 5.  Ivi, p. 440.

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dei popoli, e una accezione di Israele che l’escludeva dal concerto delle nazioni. Non bisogna sbagliarsi sull’interpretazione freudiana: egli non giustifica in alcun modo l’elezione come un processo religioso che egli rifiuta di principio. Freud cerca di comprendere da dove viene questa “estraneità” di un popolo così resistente alle difficoltà e per il quale il racconto storico serve da fondamento duraturo. Là dove l’ideologia non possiede nessun altro riferimento che la realtà “significata” e si appoggia sull’osservazione dei fatti, Freud propone un lavoro analitico sui significanti e sul loro annodamento simbolico. A costo di sovvertire le idee consolidate, egli si fa portavoce dell’epopea di un popolo alla quale fa appello come a un fatto indubitabile, senza peraltro ricongiungersi alla “religione dei suoi padri”. Lacan, in un registro equivalente, potrà dire che il Dio d’Israele è un Dio senza bigotteria né credenza divina. Questo Dio che parla si indirizza a Mosè, e inoltre, al popolo d’Israele per assicurare la sua perennità e la sua longevità secondo un modus vivendi che fa appello alla vita: «Lekhayim!» (Per la vita!). Questa esclamazione biblica pronunciata di generazione in generazione ha trovato la sua secolarizzazione universale nel vibrante grido di speranza dell’umanità di fronte alle difficoltà: «La vita continua!». In una biografia consacrata a Freud, Peter Gay ha scelto un titolo (Un ebreo senza Dio6) che accredita l’idea di un eclisse di Dio e, di conseguenza, il racconto biblico del popolo ebraico vi appare senza mitologia religiosa né credenza di alcun tipo. Questa tesi, che sarà ripresa da Élisabeth Roudinesco7 e dalla maggior parte degli intellettuali occidentali, che sostituisce all’ebraismo storico un ebraismo sociologico, è esatta fattualmente – Freud non era né credente né religioso –, ma 6.  P. Gay, Un ebreo senza Dio. Freud, l’ateismo e le origini della psicoanalisi, tr. it. di V. Camporesi, il Mulino, Bologna 1989. 7.  É. Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro, cit.

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prosciuga la prospettiva freudiana del Mosè e il monoteismo. Avrebbe avuto più valore, a proposito di Freud, evocare un ebreo senza Dio e senza alcun paravento religioso. Meglio ispirato, Jacques Lacan segnala che il dio di Israele è un dio «con il quale si parla», e l’attitudine del popolo ebraico a continuare «solo tra tutti ad affermarsi come storico». Il grande psicanalista francese aveva trattato questo argomento rimettendo in causa Dostoevskij che, ne I fratelli Karamazov, aveva esclamato: «se Dio non esiste nulla è più possibile», proponendo al suo posto: «se Dio esiste tutto è possibile». Sottinteso lacaniano: poter trattare di esso senza crederci… e a costo di farne a meno. Fatto che amplia notevolmente la prospettiva restando assai più vicino alla verità del soggetto. Ora, Blaise Pascal. La legge di Israele è fondatrice della civiltà che ci sostiene; per l’autore dei Pensieri questa legge è allo stesso tempo la più antica, la più perfetta e tuttora in uso. E lì si può vedere una prova di saggezza, di equità e di giudizio. Le parole di Pascal non sono quelle di Freud, ma egli ha un’aspirazione comune a fare della legge una sentinella dell’umanità. È anche per il tramite di questa legge che si tesse il dialogo con i legislatori greci e romani, un cammino condiviso da Maimònide, Tommaso d’Aquino e Averroè. Questa legge vettore di civilizzazione implica il soggetto in una funzione di trasmissione. Così, benché Pascal si situi in un contesto cristiano e teologico, mentre Freud si considerava un ebreo senza religione, queste eminenti figure della spiritualità separate da più di due secoli sono “traghettatrici” della legge che si trasmette di generazione in generazione. Per permettere all’umanità di perpetuarsi al riparo del caos: «Sappiamo che il primo passo per dominare intellettualmente il mondo che ci circonda e nel quale viviamo consiste nella scoperta dei principi generali, regole e leggi che mettono ordine nel caos»8. Non si potrebbe dire meglio a 8.  S. Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), OSF, 11, p. 511.

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proposito delle crisi che si susseguono e rendono selvaggio il nostro “mondo circostante”. Pascal e Freud perpetuano alla loro maniera le Massime dei Padri (Pirkei Avot), in cui sono inventariati gli usi e i costumi della civiltà proveniente dalla Bibbia.

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L’essenziale come specificità ebraica

L’epopea biblica e giudaica del popolo ebraico ha sedotto Freud; questo “caso unico” ha sconcertato il fondatore della psicoanalisi, che si è sempre voluto straniero alla religione dei suoi padri, come a tutte le altre religioni, e per il quale «la realtà dell’essere ebraico» – secondo l’espressione di Yeshayahu Leibowitz1 – si riassume a poche cose concrete, se non a quello che lui stesso percepisce come l’“essenziale”: un’appartenenza di cuore, di destino e di ragione al popolo ebraico. Interrogata sul suo ebraismo, nel momento in cui avanzava delle critiche sul sionismo e sulla difficoltà di Israele di convivere con un ambiente arabo e palestinese ostile, Hannah Arendt si ricollega all’essenzialità freudiana precisandola senza mezzi termini in un dialogo con il filosofo Gershom Scholem, che l’apostrofava in modo brusco: «Io vi considero come un membro di questo popolo [il popolo ebraico] e come nient’altro», attacca Scholem, al che ella risponde: «In realtà, non soltanto non ho mai fatto nulla come se fossi altra cosa da ciò che sono, ma non ne ho mai neppure provato la tentazione […]. Essere 1.  Y. Leibowitz, Les Fêtes juives. Réflexions sur les solennités du judaïsme, Cerf, Paris 2008.

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ebrei conta per me come quelle cose indubitabili della mia esistenza, e non ho mai voluto cambiare nulla di questo genere di fattualità»2. Mentre Freud è un ebreo senza religione, ma che si considerava di un ebraismo privo di complessi, Arendt è un’ebrea antitotalitaria e anch’essa totalmente priva di complessi. Il fondatore della psicoanalisi sarà segnato dai pensatori storici e contemporanei dell’antisemitismo, facendovi spesso allusione nei suoi scritti e nelle sue corrispondenze, mentre la filosofa che studia le condizioni dell’emersione del totalitarismo affronterà la «banalità del male» come una aporia della storia e della turpitudine umana. L’affronterà nel corso del processo ad Heichmann a Gerusalemme, ma suscitando notevoli controversie. L’identità ebraica priva di complessi di Freud, che Hannah Arendt fece propria in una certa misura, affonda nella cultura universale biblica in quanto prende in considerazione lo sfondo storico-mitologico delle civiltà e la situazione singolare del popolo ebraico. Nella sua corrispondenza, ai suoi cari e i suoi colleghi, Freud si fa portavoce dell’ebraismo citandone le sorgenti popolari e quelle colte. Nel suo background culturale mitologico, dall’infanzia all’età matura, si trova un’accumulazione di cultura ebraica. Del suo professore di ebraico, Samuel Hammerschlag, testimonierà così: «Nella sua anima […] ardeva viva la scintilla dello spirito dei grandi veggenti e profeti ebraici»3. Egli conosceva anche lo yiddish, la lingua vernacolare dei suoi genitori e della sua Moravia natale. Avido di letture dei grandi testi, si era immerso molto presto nella Bibbia e quella che gli sarà regalata da suo padre porta una dedica letteralmente 2.  Correspondance entre Hannah Arendt et Gershom Scholem, Seuil, Paris 2012, p. 428. 3.  É. Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro, cit., p. 12.

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biblica4. Freud possedeva nella sua collezione di antichità, trasportate al Freud Museum di Maresfield Gardens di Londra, tra una quantità impressionante di statuette egiziane e greco-­ romane, un’acquaforte di Rembrandt intitolata Ebrei nella sinagoga, che mostra una menorah (candeliere), le coppe di Kiddush… La sua corrispondenza è infarcita di allusioni bibliche e in quella con gli psicanalisti ebrei (Karl Abraham, Max Eitingon, Sándor Ferenczi) di riferimenti all’antisemitismo. Con maggiore gravità, Freud fece della Bibbia il suo campo di sperimentazione esistenziale paragonandosi a Giacobbe (che era il nome anche di suo padre) nel suo combattimento con l’angelo, dal quale uscì vincitore ma zoppo, atteggiandosi così ad un ebreo miserabile (nella corrispondenza con Wilhelm Fliess) che aveva difficoltà a far riconoscere la propria opera. Freud arriva ad evocare un episodio storico del popolo ebraico per fare allusione ai suoi rapporti con l’ebraismo: «Gli storici dicono che se Gerusalemme non fosse stata distrutta, noialtri Ebrei saremmo scomparsi come tanti altri popoli prima e dopo di noi. Non fu che dopo la distruzione del tempio visibile che

4.  Il 6 maggio del 1891, nel 35º compleanno di Freud, suo padre Jacob Freud gli regala la Bibbia, nell’edizione riccamente illustrata di Ludwig Philippson, con la dedica: «Mio caro figlio Schlomo, nel settimo anno della tua vita, lo spirito del Signore cominciò a crescere (Libro dei Giudici 13,25) e disse: va’ e leggi del mio libro ciò che ho scritto e si apriranno a te le sorgenti della comprensione. Ecco il Libro dei libri, è da esso che i saggi hanno ricavato e i legislatori hanno appreso la legge e la giustizia (Libro dei Numeri 21-18). I volti dell’Onnipotente, tu li hai contemplati (Libro dei Numeri 24,4-16), tu hai inteso e hai provato ad elevarti e volavi sulle ali dello spirito (Salmi 18,11). Da molto tempo il libro era nascosto come i frammenti delle Tavole dell’Alleanza nello scrigno del suo servitore, per il giorno nel quale i tuoi anni raggiungessero i 35, io l’ho avvolto in una nuova rilegatura in cuoio e gli ho dato il Nome: Sgorga, o pozzo, cantatelo! (Libro dei Numeri 21,17) e te l’offro in memoria e in ricordo dell’amore di tuo padre che ti ama di un amore infinito. Jacob, figlio di Rabbi Schlomo Freud. Nella capitale Vienna, 29 Nissan 5651 - 6 maggio 1891».

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l’invisibile edificio dell’ebraismo poté essere costruito»5. Come osserva Jean-Pierre Winter, il rapporto di Freud con l’ebraismo come «edificio invisibile» è «tanto più attivo e potente che non c’è dato di vederlo» e di estendere «la sua metapsicologia a tutta la nostra vita psichica»6. Quello che vale per gli ebrei concerne l’umanità e viceversa. A partire da alcune evocazioni (tradizioni, feste ebraiche), si percepisce una complicità intima ed empatica con la “vita ebraica”, ma prestando attenzione a non alterare mai il proprio ascolto della psiche degli individui con considerazioni di tipo religioso. Si immagina come questo non fu del tutto tranquillizzante per la sua sposa devota, Martha Bernays, nata in una famiglia religiosa praticante. Ma non disponiamo di testimonianze che riportino qualsiasi rimprovero e la numerosa progenie fu allevata il più laicamente possibile. Nella sua ultima opera, Mosè e la religione monoteistica, Freud osserva il grand’uomo come se esaminasse un reperto dell’antichità tanto significativo quanto illuminante per la comprensione delle civiltà. Mosè costituisce in una certa misura il prossimo straniero di Freud, il significante più appropriato per fare avanzare la propria interrogazione identitaria attorno all’immagine paterna7, «l’idea per la quale si impegna»8, il «progresso civile»9 di questa nuova organizzazione patriarcale della società, il «trionfo della spiritualità sulla sensibilità, a rigor di termini una rinuncia pulsionale»10, essendo «l’individualità» del popo5. J.-P. Winter, Transmettre (ou pas), Albin Michel, Paris 2012, p. 112. Queste sono le ultime parole di quest’opera. 6.  Ibidem. 7.  Cfr. S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, OSF, 11, p. 429. 8. Ivi, p. 428. Per Freud si tratta naturalmente della psicoanalisi. 9.  Ivi, p. 379. 10.  Ivi, p. 431.

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lo ebraico impossibile da delucidare completamente11. Come osserva giustamente Edward W. Said: «Il Mosè sembra essere stato composto da Freud soltanto per se stesso»12. Un romanzo storico autobiografico, insomma. Alcuni hanno concluso un po’ affrettatamente che Freud si identificava con Mosè come per uno sdoppiamento di personalità, cercando di trasmettere alla conclusione della sua vita delle nuove tavole di esegesi per orientare la storia ebraica. Se vi è decalogo, esso è laico, come abbiamo specificato prima, e aperto all’interpretazione e al dialogo, fino a Dio e lui compreso, senza il soccorso della fede. Questo percorso non è affatto comunitario nonostante un’empatia e una prossimità “indubitabile” per il popolo ebraico, non è prevista nessuna nuova religione di ricambio, la percezione freudiana dell’ebraismo mira a una universalità condivisa. Freud si esprime a proposito dell’ebraismo alla maniera di un testimone che l’ha provato dall’interno, senza cercare di alterare o di rinnegare un’appartenenza – come avveniva comunemente alla sua epoca, in cui molti intellettuali ebrei di cultura tedesca si convertirono e (o) mantennero delle relazioni di ostilità con la loro filiazione ebraica. Questo posizionamento singolare di Freud, di una psiche ebraica che si perpetuava senza religione e che non manifestava alcuna animosità manichea nei confronti dei suoi e della “vita ebraica” – seguendo l’esempio dei marxisti antisionisti come Isaac Deutscher – avvicina a un percorso etico solitario, senza inflessioni teologiche né un nazionalismo di alcun tipo, e di una perfetta integrità intellettuale. Freud non s’ingannava a proposito delle difficoltà che avrebbe incontrato avendo intrapreso per il suo Mosè un percorso che lo provava psicologicamente: «Privare un popolo dell’uomo che 11.  Cfr. J.-P. Winter, op. cit., p. 183. 12.  E.W. Said, Freud e il non europeo, ed. it. a cura di G. Tusa, Meltelmi, Milano 2018, p. 28.

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celebra come il più grande dei suoi figli è un compito sgradevole e che non si può fare a cuor leggero. Tuttavia nessuna considerazione potrà indurmi a negare la verità in nome di un preteso interesse nazionale». Durante la sua vecchiaia, Freud aveva potuto raccogliere del materiale scientifico e storico per forgiare la sua ipotesi iconoclasta su Mosè e la religione monoteistica. Forse egli cercava, con una lucidità inconscia, di influenzare il destino del popolo ebraico cercando di proteggerlo dalla barbarie nazista, anche alterando l’identità religiosa del suo profeta fondatore; e allo stesso tempo sforzandosi di distoglierlo dal nazionalismo al fine di risparmiarlo dalle nuove difficoltà di cui veniva a conoscenza per gli ebrei di Palestina, confrontati a un ambiente loro ostile. Cosa ne sarebbe stato della sua posizione sfumata a proposito del sionismo dopo i tormenti della Shoah e la creazione di Israele? Dopo che le sue stesse sorelle erano scomparse nei campi di concentramento e che la psicoanalisi fu messa alla gogna dal regime nazista? E della sua stessa sorte quando fu costretto a lasciare Vienna in tutta fretta sotto la protezione di Marie Bonaparte, una principessa francese, e di un ambasciatore americano? Parlare al suo posto sarebbe come fare della finzione storica per riviste “popolari”; possiamo tuttavia osservare che il fondatore della psicoanalisi protegge la propria vita con l’aplomb di una quercia che non si abbatte mai. Quando lascia Vienna per raggiungere Londra il 4 giugno 1938, «perseguitato non soltanto per il mio modo di pensare ma anche per la mia razza»13, e nel momento in cui la sorte della psicoanalisi lo preoccupa dolorosamente per la “nazificazione” della società viennese e di alcuni psicoanalisti stipendiati dal terzo Reich, è ancora nella storia ebraica che trova il modo di resistere e di trovare un conforto per salvaguardare l’opera di una vita: «Dopo la distruzione ad opera di Tito del Tempio di Gerusalemme, il rabbino Jochanan Ben 13.  É. Roudinesco, op. cit., p. 415.

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Zakkai chiese l’autorizzazione di aprire a Yavneh una scuola dedicata allo studio della Torah. Noi faremo la stessa cosa. Dopotutto siamo abituati ad essere perseguitati nella nostra storia e nelle nostre tradizioni»14. Freud preciserà i tratti della sua “specificità ebraica” nella prefazione redatta nel 1930 per la traduzione in ebraico di Totem e tabù: Per nessuno dei lettori [dell’edizione ebrea] di questo libro sarà facile immedesimarsi nell’atteggiamento emotivo dell’autore, che non conosce la lingua sacra, che si sente completamente estraneo alla religione dei padri – come ad ogni altra religione peraltro – e che non riesce a far propri gli ideali nazionalistici pur non avendo mai rinnegato l’appartenenza al suo popolo e sentendo come ebraico il proprio particolare modo d’essere che non desidera diverso da quello che è. Se gli venisse rivolta la domanda: “Dal momento che hai lasciato cadere tutti questi elementi che ti accomunano ai tuoi connazionali, cosa ti è rimasto di ebraico?”, la sua risposta sarebbe: “Moltissimo, probabilmente ciò che più conta”.15

Questo testo passato alla posteriorità e sufficientemente esplicito, spesso scoraggia qualsiasi interpretazione perniciosa come qualsiasi recupero ambivalente. Freud non scherzava con “l’essenziale”, aggiungendo che gli si riteneva incapace di «esplicitare a chiare lettere in cosa consista questa natura essenziale dell’ebraismo; ma confida che un giorno o l’altro essa diventerà intelligibile per la scienza»16. I numerosi biografi di Freud hanno provato a rintracciare il suo psichismo ebraico senza poterlo far trasparire, inanalizzabile in termini sociologici e non molto 14. R. Sterba, Réminiscences d’un psychanalyste viennoise, cit. in Roudinesco, op. cit., p. 421. Sterba era uno psicoanalista non ebreo che preferì espatriare piuttosto che collaborare con le autorità naziste. 15.  S. Freud, Totem e tabù, OSF, 7, pp. 8-9. 16.  Ibidem.

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più comprensibile secondo l’approccio sartriano di un’identità ebraica perdurante a causa dell’antisemitismo. Lo storico Yosef Hayim Yerushalmi considera dal proprio punto di vista che la psicoanalisi testimonierebbe dell’ebraismo interminabile di Freud, della parte talmudica della sua costruzione psichica. Restano da esaminare i legami fra l’antisemitismo che offuscava l’aria del tempo e questa identità ebraica priva di complessi, della quale Freud si vantava senza ostentazione ma scrupolosamente. Noi non condividiamo, come abbiamo già precisato, il tratteggio sartriano dell’altro ostile (antisemita) che fa perdurare il popolo ebraico, non è su questo materiale dell’odio che Freud poggiava l’essenziale dell’“ebreo in te”, sebbene la nazificazione dell’Europa centrale – in particolare della Germania e dell’Austria – rinforzava la “costituzione” ebraica dell’architetto della psicoanalisi ed attivava d’altro canto la creazione dello Stato di Israele. Nel corso dell’intervista del 1926 con il giornalista americano di origini tedesca George Sylvester Viereck, che lo interrogava sull’antisemitismo circostante, Freud dichiarò senza mezzi termini: «Mi sono sempre considerato intellettualmente come un tedesco, ed ho preso poi coscienza dell’aumento dei pregiudizi antisemiti, in Germania e in Austria. Dopo questo tempo, non mi considero più come un tedesco. Preferisco dire che sono ebreo»17. Freud andrà ancora più lontano in una corrispondenza con Sabina Spielrein, una paziente ebrea di Carl Gustav Jung che ruppe con quest’ultimo per diventare psicanalista: «per conto mio, come sapete, sono guarito da qualsiasi predilezione per gli ariani e vorrei supporre, se vostro figlio è un maschio, che diventerà un irremovibile sionista. […] Noi siamo e resteremo ebrei»18. 17.  An Interview with Freud, di G.S. Viereck, in B. Nelson, Psychoanalysis and the Future, NPAP, New York 1957, p. 9. 18.  S. Spielrein, Entre Freud et Jung, Aubier-Montagne, Paris 2014, p. 273. Lettera di Freud a Sabina Spielrein.

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L’indignazione di Freud è di una sincerità assoluta e di una fedeltà esigente, non vi si ritrova alcun pregiudizio di “razza”, è l’espressione di una pulsione di vita e di un’esigenza etica che non soffre di alcun compromesso nazionalista. A questo proposito, Freud esprime un punto di vista distinto da quello di altre grandi figure dell’intellighenzia ebraica tedesca, che facevano maggiormente riferimento alla pratica dell’ebraismo e che erano rimasti per lungo tempo sotto l’influenza di una “germanità” culturale. Hermann Cohen, considerato come il Raymond Aron dell’epoca, autore di Germanità ed ebraicità, scriveva nel 1915: «Noi siamo fieri, in quanto ebrei, di essere tedeschi, perché siamo coscienti del dovere di convincere i nostri correligionari del mondo intero dell’importanza religiosa dello spirito tedesco, della sua influenza, della legittimità, della sua esigenza nei confronti degli ebrei e degli altri paesi»19. Léo Baeck, il grande storico dell’ebraismo, arriva fino ad esprimere la sua passione tedesca: «il rinnovamento della Germania costituisce un ideale e una nostalgia propria degli ebrei tedeschi… Noi, gli ebrei di qui, accarezziamo la speranza reale che noi potremo tranquillamente organizzare i nostri rapporti con i nuovi capi della Germania»20. Meno di 20 anni più tardi, Hitler e i nazisti arrivavano al potere, applicando il loro programma di sterminio degli ebrei d’Europa. Ingenuità, accecamento, radicamento patriottico, sono dei sentimenti umani che traducono la miseria di un’epoca e l’attaccamento atavico degli ebrei askenaziti alla cultura tedesca. Anche Freud partecipò a questo “momento tedesco”, per patriottismo ma, a differenza di Cohen e di Baeck, non sposò mai la causa nazionalista; la sua identità ebraica, essenzialmente 19.  D. Bourdel, op. cit., p. 106. 20.  Ivi, p. 147.

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spirituale e di tradizione più giudaica che religiosa, arginò qualsiasi deriva nazionalista di fronte agli orrori della prima guerra mondiale – nella quale i suoi stessi figli erano stati chiamati alle armi. Più tardi, di fronte alla crescente marea nazista, che decimava milioni di ebrei europei, la questione nazionalista apparve secondaria in rapporto alle esigenze della sopravvivenza. L’“essenziale” ebraico di Freud continuò a guidare i passi del fondatore della psicoanalisi tra le rovine di Londra, in un ambiente in cui egli cercherà sempre «quell’ebraismo così pieno di senso e di gioia»21.

21.  J.-P. Winter, op. cit., p. 118. Lettera di Freud a Martha del 1882: «Qualcosa di essenziale, la sostanza stessa dell’ebraismo così pieno di senso e di gioia, non abbandonerà il nostro focolare». Una tr. it. del brano citato (qui tradotto direttamente dal francese) e dell’intera lettera del 23 luglio 82 si trova in S. Freud, Lettere 1873-1939, tr. it. di M. Montinari, Boringhieri, Torino 1960, pp. 16-20. La frase citata chiude la lettera.

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Mosè e i progressi della spiritualità

Questo «essenziale», come distintivo di appartenenza, e che ritorna di frequente, può aiutare a comprendere la posizione priva di complessi di Freud nei confronti dell’ebraismo. Negli ultimi anni della sua vita, nel corso del decennio degli anni ’30 che si conclude con l’esilio londinese e la morte nel 1939, lo psicoanalista viennese ha trovato, come si è potuto vedere, un personaggio adeguato alle sue interrogazioni metafisiche e alle sue preoccupazioni presenti nei confronti di un popolo confrontato alla recrudescenza dei pericoli. Non tanto per crearsi un destino personale, già ampiamente realizzato per la collocazione internazionale della psicoanalisi, quanto piuttosto per analizzare un punto chiave – quasi identitario – della civiltà. Malgrado le critiche e le resistenze, ed anche le compromissioni, la psicoanalisi si era ben radicata come pensiero e come clinica, sebbene i rischi e pericoli della sua “metamorfosi” nella tormenta nazista suscitassero delle inquietudini. “Misurandosi” a Mosè, Freud interroga l’aspetto ebraico, biblico e universale della trasmissione, per dare la propria interpretazione di un avvenimento fondatore. Egli comprende subito che la personalità di Mosè permette di distinguere una messe straordinaria di significati per la polisemia del suo modello, la sua tenacità, il

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suo destino inesauribile, la sua grandezza e la sua scomparsa. Freud fa di Mosè il soggetto che struttura qualsiasi interpretazione della Bibbia e delle civiltà costituitesi sul monoteismo, e interroga l’itinerario del profeta e l’alterità della sua origine, la sua funzione di “traghettatore” dei comandamenti che andranno a costituire la Legge e il popolo d’Israele, per bandire ogni nazionalismo del quale immagina le rovine (che verranno), alla luce delle esperienze storiche passate e anche presenti (con la nazificazione dell’Austria). Infatti, egli si serve insomma di Mosè per portare la sua parte di verità sulla civiltà che considera in pericolo. Come Michelangelo ha potuto farlo scolpendo un bernoccolo frontale di irradiazione divina nel grand’uomo, Freud si serve di Mosè per mettere l’accento sui progressi della spiritualità che si mostrano vulnerabili e perituri a causa della follia degli uomini. Mentre sono in corso dei drammi, le religioni e la politica sono invitate a domare il pericolo peggiore costituito dal nazionalismo guerrafondaio e dalla deriva xenofoba della purezza razziale che prefigura le atrocità naziste. Facendo di Mosè un profeta straniero, il romanzo storico di Freud prende in giro l’integralismo religioso e totalitario del quale si fregiano tutti i nazionalismi per catturare l’adesione delle folle. Si può supporre, a rischio di ripeterci, che mettendo l’accento sulla spiritualità, una qualità dello spirito che segna un avanzamento della civiltà, il saggio viennese si riferisce allo stesso tempo al popolo di Mosè e anticipa a contrario i drammi a venire, quella barbarie moderna su scala industriale nata dall’esuberanza nazionalista del nazismo e dalla hybris di quegli “uomini ordinari” che si dedicavano metodicamente alla “soluzione finale”. Di fronte all’inselvatichimento della scena europea che si ritrova “tetanizzata” dal fascismo, si può notare il coraggio e la libertà di spirito di un Freud che prosegue il suo lavoro lontano dall’agitazione delle folle infervorate da passioni omicide e la sua riflessione in una dignità e una solitudine crescente. Egli non cederà d’altro canto al dolore e al tormento di Simone Weil

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che si converte (come altri intellettuali ebrei) al cristianesimo, né diventando uno psicanalista normalizzato, come alcuni dei suoi vecchi amici che, seguendo l’esempio di Jung, si adattano alla società del III Reich, senza tuttavia partecipare attivamente al nazismo1. È interessante osservare a questo proposito la simmetria morale del comportamento degli intellettuali dell’epoca: la tentazione “bruna” in Martin Heidegger e Carl G. Jung e il rifiuto del totalitarismo e del nazionalismo in Freud e Hannah Arendt, tutti di cultura tedesca, tutti grandi intellettuali ma che il riferimento o meno a un essenziale ebraico distinguerà nel loro approccio al nazional-socialismo. Un altro intellettuale di cultura tedesca che si suicidò per evitare di essere ridotto in cenere nei campi nazisti, Walter Benjamin, ha ben mostrato la natura estetica di questa scissione: «L’umanità che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine»2. L’estetismo di quest’epoca, che può – con Emmanuel Levinas – considerarsi idolatra, deriva necessariamente da una messa in discussione dei Lumi e dei valori giudaico-cristiani. Non si dirà mai abbastanza come il fascismo – e il nazismo in particolare – ha affascinato esteticamente le folle, prima di incatenarle e sottometterle al culto del capo. Lo stalinismo non procedette diversamente nella sua marcia totalitaria instaurando il terrore rivoluzionario e anni-

1.  Ma contribuendo a glorificare Adolf Hitler. In un’intervista a Radio Berlin il 26 giugno 1933, Jung dichiara: «un capo [Hitler] deve avere il coraggio di essere solo e di procedere per la sua strada […] Egli è l’incarnazione della psiche della nazione e il suo portavoce. È la punta avanzata della falange popolare in movimento. Sempre il bisogno di totalità e unità evoca un capo, indipendentemente dalla forma di governo», cit. in É. Roudinesco, op. cit., p. 388. 2.  W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di F. Valagussa, Einaudi, Torino 2014, p. 48.

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chilendo qualsiasi contestazione nell’inferno concentrazionario del gulag. Ma senza ricorrere alla soluzione finale genocida. Una distinzione è stata messa in esergo da Raymond Aron: «C’è una differenza tra una filosofia la cui logica è mostruosa (nazismo) e quella che si presta a un’interpretazione mostruosa (comunismo)»3. Riflettere senza tabù sul destino del popolo ebraico attraverso le persecuzioni ed anche la permanenza dell’istinto di sopravvivenza, senza compiacimento di alcun tipo, rigettando allo stesso tempo la conversione religiosa e il rinnegamento morale, e non appropriandosi affatto di quella dialettica della diaspora rivoluzionaria che faceva riferimento a un’identità ebraica irrimediabilmente senza radici, è questa la vocazione dell’uomo Freud a restare libero e perpetuare così il percorso di Mosè nella spiritualità. Insomma, il significante ebraico è il garante della libertà di pensiero e della spiritualità in Freud. Il fatum freudiano non è rivoluzionario nel senso ideologico della parola, né cerca proseliti di alcun tipo, cosa su cui conviene Edward W. Said rimproverandolo tuttavia di non essere «ancora stato toccato dalla globalizzazione […] o dalla decolonizzazione»4. Cosa che non è inesatta, benché la disneylandizzazione del pianeta non aveva ancora preso gli accenti ecologici che conosciamo e e benché lo spirito della colonizzazione non sia iniziato che a metà del XX secolo. Freud non di meno ha uno sguardo autenticamente politico (nel senso aristotelico) per la lucidità e la scelta degli argomenti, senza compromissione con l’abiezione nazionalista e conservando uno spirito europeo nella migliore tradizione dei Lumi. Il sapere freudiano che emana dal Mosè e la religione monoteistica è allo stesso tempo antropologico e

3.  R. Aron, Penser la guerre, Clausewitz. II. L’Âge planétaire, Gallimard, Paris 1976, p. 218. 4.  E.W. Said, op. cit., p. 13.

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psicologico, universale ed ebraico, in quanto Freud si era preso il rischio di decostruire un mito ebraico fondatore per avvertire tutta l’umanità delle rovine estremiste e nazionaliste.

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Freud e l’interrogazione sionista

I miti religiosi dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam, benché distinti nella loro elaborazione ed avendo dato luogo a diverse interpretazioni culturali, appaiono meno differenti di quanto non sembri nel loro sviluppo sociale e politico, persino nazionale e nazionalista. In questo senso, Freud ha ragione a considerare un nazionalismo senza frontiere come un flagello che colpisce tutta l’umanità. A quelli che “fanno le pulci” al sionismo (le stesse persone che rigettano assai spesso le tradizioni giudaico-cristiane), come fanno molti osservatori contemporanei, e che d’altra parte gli altri movimenti d’indipendenza fanno l’oggetto di un’attenzione benevola, si può fare osservare che l’insieme delle rivoluzioni come delle religioni sono emanazioni dei nazionalismi, accompagnandosi sia a dei a priori ideologici che a dei conflitti ricorrenti. Il vecchio direttore della rivista Esprit, Paul Thibaud, può così precisare: «il sionismo è per Israele come la laicità è per la Francia, un insieme di valori che, attraverso difficili conflitti, si sono distaccati dal fondo religioso da cui derivano per costituire un riferimento allo stato, ambiguità che non può che essere una sorgente di discussioni senza fine»1. 1.  P. Thibaud, À propos du sionisme, cit.

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Dalle sue origini, il sionismo come ideologia di liberazione del popolo ebraico fu tanto l’oggetto di un’adesione entusiastica quanto di una contestazione radicale all’interno della “società ebraica” dell’epoca. Ivi compresi i circoli religiosi: «I rabbini dell’Europa dell’est e della Russia avevano combattuto il sionismo politico sin dalla sua comparsa», ritenendo che si trattasse di una «ribellione contro Dio»2. È solo grazie all’influenza del rabbino Abraham Isaac Kook che questo sionismo religioso scomparirà più avanti nel XX secolo in Israele, fatta eccezione per la setta ortodossa Neturei Karta. Con l’assassinio, nel 1881, dello zar di Russia, Alessandro II, i pogrom antisemiti decimarono gli ebrei russi che, a centinaia di migliaia e a milioni, emigrarono verso luoghi più clementi: una maggioranza andrà installarsi negli Stati Uniti, altri in Europa occidentale e in Palestina. È ben prima della rivoluzione del 1917 e dell’arrivo dei bolscevichi al potere che il sionismo politico prende corpo a Mosca e a San Pietroburgo, incoraggiando delle ondate migratorie. Tra quelli che restarono in Russia, vi sarà una lotta accanita tra gli ebrei russi ferventi adepti del sionismo, e gli ebrei russi accanitamente antisionisti. Questo scontro gigantesco che mescolava ingredienti messianici, religiosi e rivoluzionari troverà la sua espressione lirica negli scritti del grande poeta Hayyim Nachman Bialik e nelle conseguenze politiche della creazione dello Stato di Israele. D’altro canto l’hassidismo, che rinascerà dalle ceneri della Shoah e troverà un nuovo slancio dopo la seconda guerra mondiale con la creazione dello Stato di Israele, continuerà a veicolare questo conflitto politico-religioso tra sionisti e antisionisti nei sobborghi di Brooklyn, i quartieri religiosi di Gerusalemme e negli yechivot (gli istituti talmudici)

2.  J. Gutwirth, La Renaissance du hassidisme de 1945 à nos jours, Odile Jacob, Paris 2004, p. 55.

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di Anversa3. A Vienna, Moritz Güdemann, rabbino di origine tedesca e responsabile della comunità ebraica viennese nel 1891, si mostra molto critico a proposito del sionismo, attacca le tesi di Theodor Hertzl ed oppone il giudaismo e il nazionalismo… Questo è il contesto socio-culturale della Mitteleuropa e dunque della Vienna fin de siècle, che nutriva dei sentimenti piuttosto mitigati nei confronti del sionismo. Alcuni hanno ingiustamente accusato Freud di antisionismo, dato che egli non si distingueva dai sentimenti dominanti degli ebrei viennesi integrati culturalmente, sebbene inquieti per l’avanzata dell’antisemitismo e del nazionalismo. Freud è morto una decina d’anni prima della creazione dello Stato di Israele; egli si sarebbe più volte espresso intellettualmente sul sionismo senza peraltro affermare che esso non esisteva, non esitando ad esprimere una certa benevolenza e simpatia con i suoi apprezzamenti per il percorso umanista del suo compatriota viennese Hertzl, senza però cercare di impegnarsi nel movimento sionista e lasciando percepire delle riserve, perfino dell’inquietudine per l’avvenire di un paese (Israele), che si sarebbe collocato in un “ambiente ostile”, come preciserà in una corrispondenza con Albert Einstein. Ancora là, la sua inquietudine fu condivisa da una parte dell’intellighenzia ebraica dell’epoca, ivi compresi i sionisti di sinistra, ma il disastro umano della Shoah farà piazza pulita di queste preoccupazioni e precipiterà nella nascita dello Stato d’Israele. Tuttavia, in alcuni dei suoi incontri e nelle le corrispondenze con intellettuali ebrei, come Arnold Zweig e Albert Einstein, e nei suoi contatti con le istituzioni ebraiche tanto viennesi che palestinesi, Freud si esprimerà meno ellitticamente sulla questione sionista, denunciando costantemente tutte le compromissioni nazionaliste, ma senza rimettere in questione il 3. Cfr. ibidem.

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cammino intrapreso in vista della costituzione di un territorio ebraico in Palestina. In una lettera indirizzata nel 1930 all’Agen­ zia ebraica, egli motiva il suo rifiuto di firmare un appello che esortava gli inglesi a favorire l’emigrazione ebraica in Palestina ed esprime il suo biasimo nei confronti «di un pezzo di muro dell’epoca di Erode eretto come reliquia nazionale4, cosa che avrebbe potuto avere l’effetto di offendere i sentimenti della popolazione locale». Ma qualche anno più tardi, nel 1935, Freud accetta di sedere alla cattedra dell’università ebraica di Gerusalemme e fa sapere al Fondo nazionale ebraico la sua approvazione per un «grande e santo strumento nel tentativo di fondare una nuova patria nell’antica terra dei nostri padri»5. Nuovo popolo, nuova patria, l’esegesi freudiana è sempre in movimento, il passato è richiesto per fondare l’avvenire. Dall’idea monoteista al sogno sionista, la diagonale interpretativa di Freud non ha smesso di interrogare e di sconcertare il mondo ebraico e i non ebrei. Se Yosif Hayim Yerushalmi considera il suo percorso «storicamente ebraico», Edward W. Said conclude, per quanto lo riguarda, su un Freud «equivoco sulla questione sionista». La verità freudiana è meno ambigua di quanto non sembrasse, restando tuttavia ambivalente nelle sue intenzioni, in quanto essa si iscrive in un contesto storico e singolare che rifiuta il dogmatismo marxista dell’antisionismo, stando attento allo stesso tempo alla «fondazione di una nuova patria sull’antica terra dei nostri avi», senza accettare che questa si accompagni ad una deriva nazionalista del sionismo. Per comprendere questa posizione esigente e non accomodante, bisogna guardare allo spirito di Freud, per il quale persisteva 4.  Si tratta del Muro del pianto o muro occidentale dell’antico tempio di Gerusalemme. 5.  Il testo di Freud, è citato in E.W. Said, op. cit., p. 35.

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un “essenziale” ebraico senza alcun tipo di riferimento religioso, e tener conto del fatto che nel suo campo di osservazione si trovava l’umanità tutta. Samuele avvisa nella Bibbia: «Non è la forza che fa il vincitore»6. Senza essere profeta Freud, come Hannah Arendt, temeva le vicissitudini che avrebbero accompagnato la creazione di uno Stato di Israele e la sua coesistenza conflittuale con i palestinesi – chiamati allusivamente la “popolazione locale”. I responsabili sionisti dell’epoca avrebbero dovuto essere avvisati e mostrare la stessa considerazione piuttosto che invocare, almeno per alcuni tra loro, un popolo senza terra per una terra senza popolo, cosa che avrebbe (forse) attenuato l’ostilità araba iniziale, dato che palestinesi consideravano la creazione di Israele come una catastrofe o Neqba. Nulla è sicuro, per quanto ci sia un’ostilità araba di principio alla presenza dello Stato ebraico nel Medioriente, e che la firma dei trattati di pace con l’Egitto e la Giordania è arrivata a normalizzare la situazione senza peraltro attenuare la diffidenza dei popoli. La questione sionista è sempre stata motivo di discussione nel milieu ebreo intellettuale e politico, compresi i fondatori del futuro stato d’Israele. Che si trattasse del dibattito che opponeva il sionismo emancipatore di natura socio-democratica di David Ben Gourion al sionismo messianico religioso (particolarmente quello di Ahad Ha’Am), c’erano dei sionisti che cercavano rapporti di buon vicinato con i palestinesi (come Martin Buber) e dei nazionalisti del “Grande Israele” che predicavano una redenzione morale e conservatrice (Vladimir Žabotinskij per esempio) del popolo ebraico. D’altra parte, le controversie neomarxiste di stigmatizzazione ideologica dello Stato-nazione Israele come «il coronamento paradossale della tragedia ebraica» – secondo i termini di Isaac Deutscher – restavano estranei 6.  Samuele 2, 9.

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a Freud che non aderiva al nazionalismo sionista né tanto meno sacralizzava l’idea rivoluzionaria della diaspora. La vicinanza illimitata al popolo ebraico, il suo interesse critico e innovatore per il monoteismo foggiato da Dio e da Mosè l’“egiziano”, le sue considerazioni sul trionfo della spiritualità e la rinuncia gli istinti, il rifiuto di qualsiasi appartenenza religiosa, un’empatia non priva di apprensione per un sionismo emancipatorio, tutto questo contribuisce a classificare il fondatore della psicoanalisi nella categoria di quegli ebrei che credevano nella speranza, nell’educazione nella trasmissione. Ma nel quale dimorava uno spirito europeo, razionale e laico. E un uomo di pace che si opponeva risolutamente dalla guerra e che cercava di comprendere la ragione per la quale i popoli “si odiano”. In un testo di 1915, in piena Prima guerra mondiale e mentre i suoi figli sono coinvolti militarmente, egli precisa il suo pensiero: Perché poi in via generale i popoli e le nazioni – e questo in verità anche in tempo di pace – si denigrino, si odino, si detestino l’un l’altro, è un vero mistero. A questo proposito io non so proprio che cosa dire. È veramente come se, riuniti gli uomini in moltitudine, o addirittura in milioni di individui, per ciò stesso tutte le acquisizioni morali dei singoli dovessero scomparire, lasciando sussistere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi. Forse soltanto un’ulteriore evoluzione potrà parzialmente mutare questo deplorevole stato di cose. Ma un po’ più di franchezza e di sincerità reciproca, nei rapporti degli uomini fra loro, e nei rapporti fra governanti e governati, potrebbe spianare la strada anche a una tale trasformazione.7

Il conflitto israelo-palestinese è vecchio di un secolo, esso deriva da un traumatismo che perdura, da un lato con il rifiuto 7.  S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), OSF, 8, pp. 135 s.

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arabo e dall’altro per le guerre successive condotte da Israele. Si comprende, alla lettura di queste “considerazioni” freudiane scritte in un altro contesto ma brucianti d’attualità, che continuando così, l’impantanarsi del conflitto israelo-palestinese non farà altro che ravvivare l’odio e il disprezzo tra i popoli. E questo ci rende consapevoli dell’ambivalenza di Freud nei confronti di un sionismo che sarebbe stato di una consistenza esclusivamente nazionale. Si ritrova oggi, tra alcune grandi figure intellettuali d’Israele come Abraham Yehoshua, Amos Oz, Zeev Sternhell… una simile inquietudine nei confronti di un sionismo più nazionale che sociale politico e che provoca un’impasse nel dialogo con i palestinesi e con il mondo arabo.

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Contro il nazionalismo

Il rifiuto di qualsiasi inclinazione nazionalista non permette tuttavia di annoverare Freud nella linea antisionista di altri europei celebri1, come Bruno Kreisky, Edgar Morin, Rony Brauman o Stéphane Hessel, che fecero del sostegno ai Palestinesi e della loro ostilità a Israele il proprio viatico politico. Egli si distingue da quegli ebrei della diaspora, per i quali l’opposizione violenta a Israele serviva da cauzione ben pensante per il loro ideale di universalità di pensiero e di azione. Attraverso alcune memorie storiche relative alle prese di posizione di alcune personalità europee, in particolare quelle della Mitteleuropa progressista, abbiamo cercato di mostrare come non vi sia una risposta univoca ed esaustiva alla questione del sionismo. Come ogni ideologia che cerchi di iscriversi in una prospettiva storica, il sionismo suscita delle contraddizioni, delle critiche, persino delle opposizioni e dei rifiuti. Chi si lamenterà di questa 1.  È da notare che Sigmund Freud non soccombe affatto alle diatribe rivoluzionarie e anti-europee di un Frantz Fanon («Lasciate quest’Europa… valanga di assassini»), ma il suo rifiuto del nazionalismo e senza alcuna concessione: «Ho sempre cercato di reprimere l’orgoglio nazionale, quando ne sentivo l’inclinazione, come qualcosa di calamitoso e di ingiusto» (S. Freud, Discorso ai membri della Associazione B’nai B’rith, OSF, 10, p. 342).

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fallibilità ideologica, in un’epoca in cui l’antisionismo e l’antisemitismo convergono per fomentare un clima razzista nauseabondo e il disagio della nostra civiltà, dimentica dei “Lumi” e della sua eredità giudaico-cristiana? Da quando assistiamo a un ritorno del populismo e del nazionalismo, l’atmosfera del tempo dei “mal battezzati” non è cambiata dopo Freud: «Il loro odio per gli ebrei è in fondo odio per i cristiani»2. Questa diagnosi pertinente fu ripresa dalla Santa sede, i papi Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, e dapprima il carismatico Giovanni XXIII, hanno potuto mostrare che l’antisemitismo, il nazionalismo, il populismo e la xenofobia sono correlati a un difetto della spiritualità e della profondità umane. Là, ancora, sarebbe illusorio vedere un avvicinamento religioso di Freud alla Chiesa, benché lo psicoanalista non ripugnasse l’idea di un cammino condiviso con gli ambienti cattolici del suo tempo, per lottare contro la peste nera del fascismo. Conoscendo le devastazioni nazionaliste causate da alcuni tiranni sulle popolazioni loro asservite, Freud puntava sul baluardo di una spiritualità operosa per combattere il male. Quest’epoca «della maggior rivolta non offre alla nostra scelta nient’altro che conformismi. La vera passione del ventesimo secolo è la servitù»3, asserisce Camus. Le due guerre mondiali e l’ideologia del XX secolo testimoniano di queste passioni omicide. Camus condivide con Freud un punto chiave, e cioè che il nazionalismo è la peste della civiltà e riduce i popoli in servitù. Come sorprendersi allora per la ricerca di un capro espiatorio quando la sete nazionalista riduce l’insieme delle nazioni allo spirito delle masse? La messa in causa del popolo ebraico in tutte le epoche, e la cui malevolenza va a ripercuotersi su Israele dopo il 1948, è una traccia della servitù benpensante che 2.  S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, OSF, 11, p. 413. 3.  A. Camus, L’uomo in rivolta, tr. it. di L. Magrini, Bompiani, Milano 1968, p. 257.

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inquina la civiltà di tutti gli arcaismi culturali, del nazionalismo e del fanatismo. Di quel fanatismo del quale Nietzsche diceva che costituisce la servitù volontaria dei deboli. La creazione lo Stato d’Israele, con la costruzione dell’Unione europea, è una delle poche buone novelle del XX secolo, dopo due guerre spaventose, milioni di morti, la Shoah e le rovine ideologiche. Ma quello che apparve allora come una rottura virtuosa e morale con la barbarie nazionalista, e che suscitò immediatamente un’empatia universale per il giovane Stato ebreo, si trasformò rapidamente in ostilità, se non in rifiuto politico permanente del sionismo e di Israele. Come se questo stato, adulato nei ricordi tenebrosi dei campi di concentramento, fosse diventato “normalizzandosi” un paese che disturbava il sonno delle nazioni. Detto ciò, Freud non ha mai accettato la tentazione nazionalista che era in germe nei propositi dei fondatori del sionismo, anche se eminenti figure sioniste erano antinazionaliste. Allo stesso modo di Martin Buber, Albert Einstein o Gershom Scholem, egli predicò sempre una “alleanza di pace”4 tra le popolazioni ebraiche e arabe in Palestina. Consapevole che la religione è un affare di civiltà, egli anticipava lucidamente il fatto che la guerra non avrebbe risolto l’ostilità dell’ambiente arabo nei confronti del popolo d’Israele. La pedagogia antinazionalista di Freud era una questione di principio che non soffriva alcuna eccezione, che sia di origine politica, culturale, economica o religiosa. Tuttavia, a differenza di una visione marxista riduttiva, di negazione delle religioni, Freud intraprese un dialogo critico con Dio, Mosè e le religioni, restando del tutto senza illusioni a proposito delle cre4.  L’“alleanza di pace” è la traduzione della corrente sionista antinazionalista Britt shalom, che sosteneva il dialogo con gli arabi durante il primo terzo del XX secolo.

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denze religiose: «Diciamo dunque», ricorda Freud, «che una credenza è un’illusione qualora nella sua motivazione prevalga l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione stessa rinuncia alla propria convalida»5. Freud era avvertito dei legami incestuosi tra religioni e nazionalismi e delle identità mortifere che ne sarebbero derivate. Questo determinismo nazionalista e fondamentalista delle religioni è al giorno d’oggi all’opera nell’Islam, al seno dell’islamojihadismo e ugualmente, per quel che riguarda il giudaismo, nelle colonie israeliane. Fu così per la cristianità durante le crociate, anche se ha la tendenza a scomparire nella Chiesa contemporanea, tranne che nelle frange estremiste delle sette evangeliche negli Stati Uniti. Nel promuovere l’enciclica Nostra Aetate (1965), papa Giovanni XXIII intraprese una rivoluzione copernicana nella Chiesa di Roma, trasformando l’odio antiebraico in un dialogo fruttuoso tra ebrei e cattolici. Al fine di opporsi ad un revival nazionalista della Chiesa, l’attuale Papa Francesco promuove un’evangelizzazione sociale che dovrebbe ostacolare l’inselvatichirsi delle società da parte del capitalismo consumista e la mondializzazione occidentalizzata in modo uniforme, senza differenze6. Più che per un disagio della civiltà, del quale Freud si è reso osservatore rigoroso, siamo condizionati dalla hybris dell’aver-tutto, e questo possesso illimitato crea l’illusione di un homo oeconomicus onnipotente, onnisciente – «nell’idea di Dio con la sua onnipotenza della sua onniscienza» (Baudelaire) – e onnipresente come il vento. Per farla breve, un essere-avere che si prenderebbe gioco dei limiti del tempo e dello spazio,

5.  S. Freud, L’avvenire di un’illusione (1927), OSF, 10, p. 461. 6.  Cfr. É.H. Malet, Défendre la civilisation face à la mondialisation, Éditions du Moment, Paris 2014.

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mondializzato dal consumo delle tecnologie dell’informazione e sbarazzatosi di tutto quanto potrebbe far schermo al suo narcisismo e al suo egoismo. L’ipertrofia dell’ideale dell’Io psichico si confonde con l’esuberanza dell’individualismo economico e l’obesità consumista della mondializzazione. Il nazionalismo si nutre anche di questo abbassamento sociale e culturale che alimenta a propria volta un estremismo politico e delle pieghe identitarie compulsive. «Ho sempre cercato di reprimere l’orgoglio nazionale, quando ne sentivo l’inclinazione, come qualcosa di calamitoso e di ingiusto»7. Alcuni hanno ingiustamente criticato, e non senza secondi fini, al saggio viennese un’attitudine a una posizione di comodo, considerata dai suoi avversari come apolitica, persino pacifista – cosa che non fu mai. Si è piuttosto trattato, per quanto riguarda Freud, di rettitudine morale e della volontà di non stare nel coro del fascino populista di Vienna e dell’Austria-Germania del Völkische Bewegung8, resistendo fino alla fine allo scatenamento delle passioni. I nazionalismi che rinascono al giorno d’oggi in Europa non si inscrivono nella vicenda brutale e genocida della Germania nazista e del suo Führer psicopatico. Ma bisogna riconoscere per forza che l’irrazionale in politica e la subordinazione della specie umana agli entusiasmi di carattere arcaico conducono molto spesso all’esacerbazione conflittuale e nazionalista. Vale a dire, la guerra in Ucraina intrapresa del presidente russo Vladimir Putin o, a un altro livello, l’incapacità di alcuni paesi dell’unione europea di mettere a tacere gli estremisti nazionalisti e religiosi. Lo scacco è evidente se si considera l’avanzata pressoché ubiquitaria del populismo in Europa, del nazionalismo dei partiti estremisti, come la rinascita dell’antisemitismo.

7.  S. Freud, Discorso ai membri della Associazione B’nai B’rith, OSF, 10, p. 342. 8.  Movimento populista comparso in Germania alla fine del XX secolo e che fu la sorgente del pensiero nazista.

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D’altro canto, nel mondo arabo-musulmano, sotto le insegne islamo-jihadiste, assistiamo a un nazionalismo di un altro tipo in cui giovani adolescenti diventano delle bombe umane e si instaurano, in alcune zone, dei regimi sanguinari. La dimensione psichica morbosa che comporta il nazionalismo è stata mostrata da Freud, per il quale: In ogni epoca della storia dell’umanità sono esistiti matti, visionari, folli, nevrotici gravi e individui che la psichiatria definirebbe malati di mente, i quali hanno svolto funzioni importantissime, e non solo quando, a causa della loro origine, erano per avventura investiti dei pieni poteri. Per lo più, ma non sempre, costoro sono stati forieri di sventure.9

La nota ottimista che punteggia il proponimento è prospettica, è alla vigilanza della politica, della democrazia e dei cittadini la necessità di fare resistenza per ostacolare la contaminazione nazionalista e arrestarne le derive identitarie e criminali. Per tutto questo, Freud è allo stesso tempo nostro contemporaneo e fuori dal nostro tempo10, misconosciuto e tanto attuale da ricordarci che il nazionalismo è un veleno che nutre le passioni delle folle. Come per la predizione di Beth Hillel, l’antico «Va’ e impara», apprendere e far conoscere l’opera di Freud potrebbe figurare assai bene nei programmi educativi, alla quale l’UNESCO e altre organizzazioni internazionali potrebbero ispirarsi per rinvigorire l’educazione nei paesi che aspirano allo sviluppo.

9.  S. Freud, Introduzione allo studio psicologico su Thomas Woodrow Wilson (1930), OSF, 11, p. 40. 10.  Nell’ed. fr. viene utilizzato il termine mé-contemporain, che in qualche modo evoca anche l’inattualità della psicoanalisi stessa [N.d.T.].

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I geni ebrei di lingua tedesca

Nato a metà del XIX secolo e attraversando le prime quattro decadi del XX secolo, Freud ha vissuto l’epoca d’oro del mondo ebraico e dei grandi movimenti di idee. Tuttavia, la Repubblica di Weimar si spegneva sotto i colpi degli assalti nazionalisti e il cosmopolitismo di Vienna della fine del secondo impero già nascondeva un antisemitismo violento. Per la prima volta il sindaco della capitale austriaca, Karl Lüeger, non esitò a promuovere apertamente l’antisemitismo, anticipazione funesta del nazional-socialismo che si profilava e che avrebbe sviluppato le sue propensioni criminali al cuore dell’Europa. Quanto alla brillante Repubblica di Wagner, essa fu ritenuta responsabile dai politici tedeschi conservatori dell’arrivo al potere dei nazisti, a causa del suo supposto lassismo politico e del suo eclettismo culturale. Un po’ come se il regime di Vichy dovesse il suo arrivo al potere per l’ascesa precedente del Fronte popolare! Malgrado questa effervescenza geopolitica e nazionalista, il politologo israeliano Shlomo Avineri ha ragione a caratterizzare questa epoca come il «secolo d’oro per gli ebrei»1, un secolo a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Periodo abbagliante di cre1.  Cfr. Y.M. Rabkin, Au nom de la Thora, une histoire de l’opposition juive au sionisme, Les Presses Universitaires de Laval, Laval 2004, p. 25.

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azione letteraria e artistica, scientifica e socio-economica che vide Franz Kafka porre i fondamenti della letteratura moderna, Albert Einstein rivoluzionare la fisica scoprendo la relatività, Gustav Mahler e Arnold Schönberg cesellare un nuovo paesaggio musicale, Karl Marx scuotere la sociologia e sovvertire l’economia, e Sigmund Freud creare la psicoanalisi. Senza contare alcune grandi figure politiche ebraiche che operarono in diversi paesi d’Europa contro il nazionalismo e la guerra, e tra queste Benjamin Disraeli, 42° Primo ministro del Regno Unito, e Walter Rathenau, ministro del Reich agli Affari esteri. Quest’affascinante costellazione intellettuale che ha contato numerosi «geni ebraici di lingua tedesca» secondo l’espressione del giornalista tedesco Marcel Reich-Ranicki2, farà dire ad Arthur Koestler che per aiutare a generare una società moderna, «gli ebrei sono come gli altri ma un po’ di più». È cioè che essi non si rifiutano né all’esagerazione, né all’eccesso, né all’audacia intellettuale, senza peraltro smettere mai di integrarsi in maniera ordinaria. In alcune delle sue corrispondenze, Freud fa la figura di un borghese ordinario che apprezza nel corso dei suoi numerosi viaggi la buona tavola e i bei paesaggi, che colleziona antichità ed è sempre alla ricerca di opere erudite. Insomma, ciò che serviva per conservare sveglio lo spirito e soddisfare le papille gustative. Quello che lo distingue dalla völkisch e ne fa una figura importante di questo “secolo d’oro” proviene dalla brezza vivificante della psicoanalisi che, per imporsi come disciplina scientifica, dovette vincere tutti i conservatorismi e tutti gli altri conformismi, non soltanto medici, del proprio ambiente. Là si situa la vera sovversione intellettuale e si radica la modernità di questi “geni” nei progressi rivoluzionari nelle scienze, le arti plastiche, la musica e la letteratura. Sfortunatamente, la politica doveva evolvere, tranne qualche 2.  Si potrebbe al proposito consultare con interesse l’opera di Herlinde Koebl, Portraits juifs, photographies et entretiens, L’Arche, Paris 2004.

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eccezione, controcorrente rispetto a questi lumi dello spirito, malgrado qualche avanzamento sociale e la concessione di qualche libertà a delle minoranze oppresse. Non è insignificante che Sigmund Freud sia contemporaneo di quest’abbondanza culturale, che la psicoanalisi emerga come un baluardo etico nei confronti dell’eutanasia politica dei governanti e dei catenacci socioculturali di un conservatorismo fuori tempo. Le società erano allora costrette da interdetti, ipocrisie, oppressioni, e l’antisemitismo si rinveniva dovunque. La rivoluzione psicoanalitica si inscrive in questo contesto di crisi delle idee e del disagio delle società: Freud forniva con l’inconscio, l’interpretazione dei sogni e il posto della sessualità nel disordine della psiche, dei nuovi materiali d’analisi del disagio della civiltà. Non si tratta affatto di una questione di ebraismo in questa rivoluzione freudiana, e quando Freud pubblica, alla fine della sua vita, Mosè e la religione monoteistica, la psicoanalisi è ormai compiuta come scienza, come clinica e come cultura dal punto di vista clinico e antropologico, anche se interverranno successivamente delle evoluzioni per tener conto dei progressi dello spirito e degli avanzamenti della conoscenza. Questa non fu la strada seguita da Marx, che impresse un risentimento ebraico – alcuni diranno antisemita – alla sua scienza economica stabilendo delle equivalenze dubbie tra ebraismo e capitalismo e tra capitalismo e guerra. Alla ricerca della storia di un popolo… Karl Marx ha indagato la questione ebraica con fini identitari, economici e politici. Ne ha tratto un breviario ideologicamente datato e un’argomentazione fallace, della quale si può pensare che costituisse intellettualmente la sua “causa” per consolidare una leadership ideologica che andrà tuttavia a franare sulle narrazioni comuniste della realtà sovietica. La riflessione marxista conserva tuttavia una pertinenza economico-scientifica per comprendere gli eccessi e le derive del capitalismo. Ma, sulla “questione

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ebraica”, Marx è rimasto sommariamente poco pertinente, riprendendo i clichés antisemiti della sua epoca che mettevano insieme il denaro e gli ebrei. Il marxismo-leninismo non ha messo fine all’antisemitismo co­me immaginavano a torto Karl Marx e i suoi epigoni, esso l’avrà piuttosto “isterizzato” in alcune circostanze (regime stalinista dell’URSS e nei vecchi paesi comunisti satelliti di Mosca). Quanto all’esperienza politica comunista, essa stessa si è dissolta con la caduta del muro di Berlino e lo smembramento dell’ex-URSS. In Mosè e la religione monoteistica, Freud è andato incontro alla storia del popolo ebraico senza mai smettere di pensare ai disordini passati, presenti e futuri della civiltà, alla sua storia singolare e all’avvenire della psicoanalisi – tutte cose minacciate all’epoca dalla barbarie nazista. Questo mondo di ieri, come dirà Zweig, si è decomposto dopo due guerre mondiali, il cataclisma della Shoah e la scomparsa delle ideologie sanguinose del XX secolo (fascismo e stalinismo). Così, a differenza di Karl Marx che ha cercato di risolvere definitivamente la questione ebraica, con i risultati che conosciamo, Freud non avrà mai questa ossessione storica di finirla con un ebraismo “interminabile” con il quale piuttosto dialogava. L’autore del Mosè e la religione monoteistica era, al contrario del redattore del Capitale, un ebreo senza religione, ma se ne distingueva andando sempre alla ricerca della storia del popolo d’Israele che tenterà di secolarizzate interrogando analiticamente il monoteismo. Là dove Marx cerca di astrarsi in maniera convulsa dal popolo ebraico e facendone “commercio” con le argomentazioni reazionarie conservatrici della sua epoca, il cammino di Freud è tutt’altro, in quanto il padre della psicoanalisi si adoperò a rinnovare l’affiliazione giudaica del popolo d’Israele da centinaia di scorie religiose e a prevenire il sionismo da qualsiasi tentazione nazionalista. D’altra parte, egli vigilò scrupolosamente nel rifiutare qualsiasi legame organico tra la psicoanalisi ed ebraismo, cosa che non

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fu senza imprudenza da parte sua quando considerò Jung come il suo “delfino”3, come spiegò in una corrispondenza con Karl Abraham: Per la nostra parentela razziale, voi siete più vicino alla mia costituzione intellettuale, mentre lui [Jung] non trova una strada che arrivi fino a me se non a prezzo di grandi resistenze interiori. La sua adesione ha ancora più valore. Direi quasi che la sua entrata in scena ha sottratto la psicoanalisi al pericolo di diventare un affare nazionale ebraico.4

Questa scelta non fu fortunata tanto sul piano umano che teorico, in quanto la rottura tra Freud e Jung non tardò a compiersi tanto radicalmente quanto definitivamente. Detto ciò, Freud evitò di censurare un background biblico e talmudico che riguardava la sua famiglia, la sua prima educazione, le sue letture ed anche la famiglia Bernays che aveva delle tradizioni religiose assai marcate, con la quale egli strinse un solido legame sposando la discreta ma influente Martha Bernays. La vita nella casa dei Freud-Bernays era regolata laicamente, ma il calendario festivo ebraico lasciava intendere delle risonanze culturali che Freud rivelava con umorismo nelle sue corrispondenze. Ne è testimonianza questa “confessione”: Io sono d’altra parte uno degli ebrei più pii, perché i pii non hanno che una sedia per Pesach e un bicchiere per Elihanovi [il profeta d’Eli], che non arriva mai, e io ho arredato per lui una stanza intera. Davvero, infatti, non vedo a cos’altro è destinata la mia sala d’attesa.5 3.  «Lei, se io sono Mosè, prenderà possesso, come Giosuè, prenderà possesso della terra promessa della psichiatria, che a me è dato di vedere solo da lontano» (Lettera a Gustav Jung del 17 gennaio 1909, in Lettere tra Freud e Jung, tr. it. di M. Montinari e S. Daniele, Boringhieri, Torino 1974, p. 211). 4.  Lettera del 3 maggio 1908, in S. Freud - K. Abraham, Correspondance complète (1901-1925), cit., p. 71. 5.  Estratto da una lettera a Minna Bernays del 24 ottobre 1886 in S. Freud M. Bernays, Correspondances 1882-1938, Seuil, Paris 2015, p. 216.

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Lo humour ebraico di Freud confina naturalmente con il motto di spirito. D’altra parte, Freud si ricorderà sempre che nel periodo di peggiore ostilità (1890-1900) nei confronti della psicoanalisi, è presso i suoi «fratelli ebrei»6 del B’nai B’rith di Vienna «un’attenzione benevola» per esporre alcune delle sue idee più audaci. E la trasmissione scientifica e clinica di tali idee sarà garantita proprio dai discepoli della sua cerchia intima che aveva preso l’abitudine di riunirsi al suo domicilio alla “Bergasse”7.

6.  «Ogni sabato mi abbandono a un’orgia di tarocchi e trascorro ogni secondo martedì sera tra i miei fratelli ebrei» (Lettera a W. Fliess dell’11 marzo 1900, in Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904, tr. it. di M. A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 439). 7.  «Accadde negli anni seguenti al 1895, quando due forti impressioni sortirono contemporaneamente su di me il medesimo effetto. Da un lato avevo cominciato a penetrare nelle profondità della vita pulsionale umana, avevo visto parecchie cose che potevano disincantare, da principio addirittura spaventare; dall’altro la comunicazione delle mie spiacevoli scoperte ebbe il risultato di farmi perdere la maggior parte delle mie relazioni umane di quell’epoca; mi pareva di essere un proscritto, evitato da tutti; in questa solitudine si destò in me l’anelito per una cerca di uomini eletti e di elevato sentire, i quali, nonostante la mia temerarietà mi accogliessero amichevolmente. La vostra Associazione mi fu indicata come il luogo in cui poter trovare uomini siffatti. […] Così dunque diventai uno dei vostri. […] non mi ponevo affatto il problema di convincervi delle mie nuove teorie; eppure, in un’epoca in cui in Europa nessuno mi ascoltava e a Vienna non mi ero ancora fatto degli allievi, voi mi donaste la vostra benevola attenzione. Foste voi il mio primo uditorio» (S. Freud, Discorso ai membri dell’Associazione B’nai B’rith, OSF, 10, p. 341 s.).

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Una pulsione di vita sempre all’erta

Colui che confronta non prova nulla, osserva il saggista tedesco Ralph Giordano; Freud eviterà nell’intera nella sua opera qualsiasi approccio sociologico suscettibile di estrapolazioni ideologiche. Quando evoca la sopravvivenza di Mosè «nonostante l’intervento di potenti forze esterne»1 (l’Egitto dei faraoni), quando postula che Mosè era «un Ebreo che volle rendere liberi i suoi connazionali dalla servitù egizia e condurli in un altro paese a realizzare un’esistenza nazionale indipendente e consapevole, come realmente avvenne»2, quando riporta che «la sua decisione [di Mosè] di farsi carico del popolo ebraico fu dettata dalle condizioni politiche a quel tempo esistenti del paese»3, quando osserva che «solo l’idea di [questo] dio permise al popolo d’Israele di sopravvivere a tutti i colpi del destino, e tale idea l’ha mantenuto in vita fino ad oggi»4, o ancora quando sottolinea che «gli ebrei diffidano di qualsiasi oppressione. Le persecuzioni più crudeli non sono mai riusciti 1.  S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, OSF, 11, p. 343. 2.  Ivi, p. 355. 3.  Ivi, p. 358. 4.  Ivi, p. 376.

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a sterminarli», Freud evita qualsiasi approccio sociologizzante, mettendo l’accento sulla singolarità di Mosè e del popolo ebraico a «perpetuarsi»5. Egli non esita a indicare la sua stessa identità vedendovi il destino del profeta «ignominiosamente assassinato» e, nell’analizzare a fondo la storia ebraica, a mettere allo stesso tempo in esergo il disagio della civiltà. A differenza di tutta la letteratura religiosa, nonché di quella messianica, Freud distingue i caratteri singolari del popolo ebraico senza mai cercare di discriminare la sua saga dal destino delle nazioni. Al contrario, egli bada a universalizzare sempre la storia ebraica, per il presente e per il futuro. Interpellando l’idea monoteista come derivante dalla perpetuazione del popolo d’Israele, Freud fa intendere anche l’eco della sua irriducibile volontà di assicurare la sopravvivenza della psicoanalisi, che a lui interessava quanto attaccare la purezza identitaria e mortifera del nazionalismo per salvaguardare lo spirito dei Lumi e la democrazia. L’identità cosmopolita di Freud consiste nel non smettere mai di essere estraneo alla religione dei suoi padri restando tuttavia «un vero ebreo» d’Europa e del «mondo extraeuropeo», secondo l’espressione di Edward W. Said. Quello che lo storico Yosef Hayim Yerushalmi tradurrà con sagacia come «l’ebraismo interminabile di Freud», e motiverà sicuramente una pulsione di vita sempre attiva. Quale sarebbe la traiettoria politico-identitaria di Freud al giorno d’oggi, al di là di un’opera immensa e dal momento che egli costituisce un riferimento intellettuale dell’intellighenzia europea e del resto del mondo? Non si potrebbe rispondere a questa domanda con esattezza. Se egli vivesse al giorno d’oggi – è richiesta una certa indulgenza per questa proiezione 5.  Su questo punto preciso, Hannah Arendt mantiene lo stesso proposito: «anche se gli ebrei dovessero vincere la guerra […] vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile» (Ebraismo e modernità [The Jew as Pariah, 1978], ed. it. a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1993, p. 167).

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aneddotica – forse insegnerebbe la psicoanalisi a New York e all’Università ebraica di Gerusalemme e risiederebbe probabilmente a Berlino – dato che è la città, per un sondaggio dell’Unione europea, dove vivrebbe meglio un ebreo dei Lumi in Europa. Egli continuerebbe a preoccuparsi del nazionalismo e del fanatismo religioso che rinascono in Europa e inselvatichiscono le società del vecchio continente e le relazioni internazionali. Nel mondo odierno, Freud non ha necessariamente una buona stampa, ivi compreso in Israele. E a ragione, il saggio viennese si è adoperato a non circoscrivere mai l’identità e la filiazione del popolo d’Israele in un territorio, un’ideologia o un nazionalismo di alcun tipo. Ebreo dal di dentro e dal di fuori, Freud si riteneva uno spirito europeo impregnato delle culture del mondo e libero di contingenze religiose e nazionaliste. Egli si impiegò a diversificare la filiazione ebraica, cercando di mostrare le impronte e i doni di Israele alla storia delle civiltà. Nonostante le difficoltà inerenti al conflitto israelo-palestinese e all’ostilità del circondario arabo, Israele potrebbe attingere a questo registro freudiano nella sua ricerca di dialogo con i suoi vicini – senza essere sicuro del risultato. La sagacia politica è il migliore antidoto all’irrigidimento identitario e nazionalista, se la si accompagna a un dialogo tra le popolazioni. Quale precisazione portare a questo mosaico identitario che fece di Freud un autentico ebreo senza specificazione – specificatio in latino – ebraica. Freud non reclama per sé dei caratteri ebraici specifici, ma un essenziale ebraico che costituisce un libro di domande che hanno «il merito di potersi sempre prestare a un commentario»6.

6.  Ch. Melman, La Névrose obsessionnelle, Érès, Toulouse 2015, p. 207.

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Per il creatore della psicoanalisi, vi è soprattutto questo postulato: all’inizio era la legge! Per Freud, e questo è vero per i talmudisti, sebbene con delle interpretazioni differenti, Dio creò il popolo d’Israele distinguendolo elettivamente dagli altri popoli e dalle altre nazioni – fatto che include la questione della durata, della diversità, addirittura di un territorio come abbiamo visto – attribuendogli la Legge. Per fare questo, si potrebbe dire volgarmente che Dio passò il testimone a Mosè – che da semplice Moché o Mosè l’egiziano diviene Moché rabbenou, nostro rabbino, nostro maestro – che riceve e trasmette a sua volta la legge o Torah al popolo d’Israele. Freud arriva fino a dedurne: «Mosè creò il popolo d’Israele». Questo passaggio si avvicina a un gioco di significanti di un Altro a un Altro riguardo il testo della legge. Cito Lacan: Ciò che autorizza il testo della legge basta per essere lui stesso al livello del significante. È ciò che chiamo il Nome-del-Padre, vale a dire il padre simbolico. È un termine che sussiste al livello del significante e che, nell’Altro, in quanto sede della legge, rappresenta l’Altro. È il significante che dà supporto alla legge, che promulga la legge. È l’Altro nell’Altro.7

Mosè è il significato spirituale del popolo ebraico. Lacan viene qui a rafforzare una lettura talmudica della legge. Il significante ebraico di Freud si apparenta a questo testo della legge, che egli cercherà di far fruttare nella sua vita creando la psicoanalisi. Questo percorso etico può essere o non essere (to be or not to be) di natura religiosa, non è religioso in Freud, ma esso è marchiato dell’impronta indubitabile e incommensurabile del progresso della spiritualità. L’identità interiore di Freud porta il marchio, la traccia, anche il destino di questa spiritualità.

7.  J. Lacan, Il Seminario. Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 148.

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Altro punto enunciato a titolo d’ipotesi: nel creare la psicoanalisi, Freud prosegue il lavoro ermeneutico dei grandi autori (Maimonide, Spinoza, Moses Mendelsohnn) con l’obiettivo di lasciare la propria traccia nelle linee di pensiero umanista e più singolarmente di contribuire ad ancorare l’ebraismo nella modernità e nell’universalità. Non dimentichiamoci che fino alla fine del XIX secolo, ed anche nel corso dei primi decenni del XX, gli ebrei erano vittime di tutte le vessazioni e vivevano numerosi nei ghetti (mellahs e shtetl). Insomma, Freud partecipa dei Lumi della Haskalah, i Lumi ebraici iniziati dal filosofo ebreo tedesco Moses Mendelsohnn, quel movimento di emancipazione che contribuì a de-ghettizzare gli ebrei d’Europa e del resto del mondo. Per concludere, si può dire che Freud è andato alla ricerca del popolo ebraico in una sorta di rapimento unico per la sua storia. Blaise Pascal, che non era ebreo, condivideva questa “venerazione”: In questa ricerca il popolo ebreo attira sin da principio la mia attenzione per una gran quantità di cose ammirevoli e singolari che lo caratterizzano. Innanzitutto, vedo che è un popolo costituito tutto di fratelli e che, mentre tutti gli altri sono costituiti dalla riunione di un’infinità di famiglie, esso, pur così stranamente numeroso, è per intero uscito da un solo uomo; ed essendo così tutti una sola carne, e membri gli uni degli altri, costituiscono un potente Stato di una sola famiglia. Un tal caso è unico. Questa famiglia e questo popolo è il più antico che esista a conoscenza degli uomini; e ciò mi sembra gli meriti una venerazione particolare, soprattutto nella nostra ricerca, poiché, se Dio si è in ogni tempo rivelato agli uomini, per conoscerne la tradizione bisogna ricorrere a quel popolo. Questo popolo non è solo degno di nota per la sua antichità, ma è inoltre singolare per la sua durata, che è sempre continuata dalle sue origini sino a oggi. Mentre il popoli di Grecia e d’Italia, di Sparta, di Atene e di Roma, e gli altri che vennero molto tempo dopo, sono periti da tanto tempo, costoro

92 esistono pur sempre e, nonostante le imprese di tanti potenti re che cento volte cercarono di farli perire, come attestano i loro storici, e come è facile giudicare dall’ordine naturale delle cose, durante un così lungo periodo di anni, essi si sono tuttavia conservati (e questa conservazione fu predetta); e la loro storia estendendosi dai primi tempi sino agli ultimi, include nella sua durata quella di tutte le nostre storie.8

Pascal e Freud erano indubbiamente fratelli di umanità, di civiltà e di storia. Di spiritualità anche, benché Freud sia il fondatore “senza religione” della psicoanalisi e i Pensieri restino eminentemente filosofici e cristiani. Il rapporto di Freud con l’ebraismo s’iscrive in questa storia di tutte le storie e nell’intimità del percorso di una vita consacrata alla psicoanalisi.

8.  B. Pascal, Pensieri, cit., pp. 351 s.

II. Piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l’ebraismo

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La psiche ebraica

Degli ebrei in attesa di un pogrom «Per quanto possiamo ritrarci inorriditi di fronte a certe situazioni, come quella degli antichi schiavi delle galere, dei contadini della guerra dei Trent’anni, delle vittime della Santa inquisizione, degli ebrei in attesa di un pogrom, pure ci è impossibile immedesimarci in queste persone, indovinare i mutamenti che l’ottusità originaria, l’abbrutimento graduale, la cessazione di ogni speranza e tutti i metodi più o meno sottili d’ottundimento hanno prodotto sulla loro ricettività alle situazioni piacevoli e spiacevoli». S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), OSF, 10, p. 580.

Il modo di pensare talmudico «Che sia più facile per me camminare con voi piuttosto che con Jung, lo ammetto volentieri. Ho sempre avvertito, anche io, questa parentela intellettuale. Il modo di pensiero talmudico non può essere scomparso all’improvviso in noi. Qualche giorno fa, era stato catturato nel Motto di spirito in maniera singolare da un piccolo paragrafo. Nel considerarlo più precisa-

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mente, ho trovato che, nella tecnica dell’opposizione e in tutta la sua composizione, era assolutamente talmudico». Lettera di K. Abraham a S. Freud dell’11 maggio 1908, in S. Freud - K. Abraham, Correspondance complète, 1907-1926, cit., p. 43.

Un vecchio ebreo «[…] un vecchio ebreo è più coriaceo di un Teutone del regno prussiano». Lettera di S. Freud a E. Jones del 4 febbraio 1916, in E. Jones, Vita e opere di Freud, tr. it. di A. Novelletto e M. Cerletti, il Saggiatore, Milano 1962, vol. II, p. 155.

Pratica sociale «L’ebraismo non è solo una questione di fede, ma è soprattutto la pratica di vita di una comunità determinata dalla fede». F. Kafka, in G. Janouch, Conversazioni con Kafka, tr. it. di M.G. Galli, Guanda, Parma 2004, p. 128.

La gioia di vivere Freud concludeva tuttavia che, sebbene attenuate, queste «forme nelle quali i vecchi ebrei si sentono a proprio agio non ci offrono più riparo» e che il centro ebraico che lui conta di fondare conserverà soltanto qualcosa di essenziale, «la gioia di vivere», perché come affermava Isaac Bernays: «L’ebreo è il fiore sottile dell’umanità, egli è fatto per il godimento, e rifiuta tutti quelli che ne sono incapaci». In S. Freud, Correspondance (1873-1939), Gallimard, Paris 1966, p. 31.

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Diversità umana Egli si oppone con tutta evidenza al marxismo dato che denuncia «il sacrilegio che si commette nei confronti della straordinaria diversità umana non volendo riconoscere che dei moventi relativi soltanto a dei bisogni materiali». S. Lakhdari, Freud, le judaïsme et le sionisme, in «OutreTerre», n. 9, 2004.

Colui che sa leggere L’adagio di Lacan secondo il quale «l’ebreo è colui che sa leggere». Cfr. D. Gauch, La psychanalyse au risque de la foi, in «Études théologiques et religieuses», n. 2, 2007, pp. 223233.

Vitalità «Vitalità degli ebrei [che si vedono] animati da una particolare fiducia nella vita, procurata dal segreto possesso di un bene prezioso». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 425.

L’essenza dell’ebraismo «L’essenza della giudaicità […], è proprio l’attesa dell’avvenire, l’apertura del rapporto con l’avvenire, l’esperienza dell’avvenire. […], non soltanto una “speranza nell’avvenire”, ma “l’anticipazione di una speranza specifica nell’avvenire”». J. Derrida, Mal d’archivio, tr. it. di G. Scibilia, Filema, Napoli 2005, p. 89.

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Il solo «Com’è noto, di tutti popoli che nell’antichità hanno abitato intorno al bacino mediterraneo, il popolo ebraico era all’incirca l’unico che esiste ancor oggi di nome e anche in sostanza». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 424.

Maggioranza compatta «Poiché ero ebreo mi ritrovai immune dai molti pregiudizi che limitavano gli altri nell’uso del loro intelletto e, in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all’opposizione e a rinunciare all’accordo con la “maggioranza compatta”». S. Freud, Discorso ai membri della Associazione B’nai B’rith, OSF, 10, p. 342.

Freud e Marx «Quel che caratterizza sia Freud che Marx è che non dicono fesserie». J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, ed. it. a cura di A. di Ciaccia, Einaudi, Torino 2001, p. 83.

Storicamente ebreo La psiche ebraica si perpetua senza la religione: gli Ebrei senza Dio. «Se il monoteismo è geneticamente egiziano, è storicamente ebreo». E.W. Said, Freud e il non europeo, cit., p. 30.

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Mosè

L’influenza dell’uomo Mosè «Alcuni anni fa ho cominciato a pormi la domanda in qual modo l’ebreo ha acquistato il carattere che gli è specifico e, secondo la mia abitudine, ho esaminato la questione alle prime origini. Non sono giunto molto in là. Sono stato sorpreso di trovare che già la prima esperienza del popolo, per così dire quella embrionale, l’influenza dell’uomo Mosè e l’esodo dall’Egitto, ha fissato tutto lo sviluppo ulteriore fino ad oggi; proprio come un trauma della prima infanzia nella storia di un individuo nevrotico». Lettera di S. Freud a N. N. del 14 dicembre 1937, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 404.

Quest’odio eterno «Il punto di partenza del mio lavoro le è famigliare; era lo stesso del suo Bilanz. Di fronte delle nuove persecuzioni, ci si chiede nuovamente che cosa sia diventato l’ebreo e perché si è attirato questo odio perenne. Ho trovato presto la formula.

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Mosè ha creato l’Ebreo e il mio lavoro è stato intitolato: “L’uomo Mosè, un romanzo storico”». Lettera di S. Freud a A. Zweig del 30 settembre 1934, in S. Freud - A. Zweig, Lettere (1927-1939), ed. it. a cura di D. Meghnagi, Marsilio, V ­ enezia 2000, p. 129.

Le tavole della legge «Su queste Tavole non c’è scritto nulla per chi sappia leggere a prescindere dalle leggi della Parola stessa». J. Lacan, Nota sulla relazione di Daniel Lagache: psicanalisi e struttura della personalità, in Id., Scritti, vol. II, ed. it. a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 680.

La loro letteratura Nel Mosè, egli individua la natura dei fondamenti di questo edificio: «La propensione degli Ebrei per gli interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro rimasta, la loro letteratura». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 433.

I dieci comandamenti «I dieci comandamenti sono interpretabili come destinati a tenere il soggetto a distanza da qualunque realizzazione dell’incesto, a una e a una sola condizione, che ci rendiamo conto che il divieto dell’incesto non è altro che la condizione affinché la parola sussista». J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1994, p. 86.

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La parola pesante «Mosè avrebbe avuto la parola pesante». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 360 (tr. mod.).

Il mio popolo Esodo 3, 7-8: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese stillante latte e miele». Citato in S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 375.

L’uomo Mosè «Mosè creò, lui, gli Ebrei. A lui questo popolo deve la sua tenacità ma anche molta dell’ostilità che ha incontrato e tuttora incontra». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 426.

Tradizione La religione di Mosè non ha completamente imposto il suo effetto sul popolo ebraico se non una volta divenuta tradizione. Cfr. S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 441.

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La decisione «… la sua decisione di farsi carico del popolo ebraico [fu dettata] dallo stato politico del paese in quel tempo». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 358.

Un grand’uomo straniero «È un onore sufficiente per il popolo ebraico aver conservato tale tradizione e aver espresso uomini che se ne fecero banditori, anche se il primo incitamento era venuto dall’esterno, da un grande straniero». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 376.

Dominato la sua passione A proposito di Michelangelo: «In un accesso d’ira egli voleva, dimentico delle tavole, balzare in piedi e vendicarsi; ma la tentazione è stata superata, egli continuerà a star seduto frenando la collera […]. Non getterà via le tavole a infrangersi contro i sassi, perché proprio per causa loro ha dominato la sua ira. […] espressione fisica della più alta impresa psichica possibile all’uomo: soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale ci si è votati». S. Freud, Il Mosè di Michelangelo (1913), OSF, 7, pp. 319 e 322.

L’uomo «Con il Mosè mi lasci in pace. Che questo probabilmente ultimo tentativo di produrre qualcosa sia fallito, mi deprime ab-

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bastanza. Non che da questo sia riuscito a liberarmi. L’uomo, e ciò che volevo farne, mi perseguita continuamente. Ma non va, i pericoli esterni e le remore interne non permettono nessun altro esito del tentativo». Lettera di S. Freud a A. Zweig del 16 dicembre 1934, in S. Freud - A. Zweig, Lettere (1927-1939), cit., p. 134.

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L’identità

La limpida coscienza di un’identità interiore Nel 1926 Freud dichiara, rivolgendosi ai membri dell’Associazione B’nai B’rith in occasione del suo settantesimo compleanno, che essere ebreo voleva dire condividere «molte oscure potenze del sentimento, [viele dunkle Gefühlsmächte], tanto più possenti quanto meno era possibile tradurle in parole, così come la chiara consapevolezza dell’interiore identità, la familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica [die Heimlichkeit der gleichen seelischen Identität]». S. Freud, Discorso ai membri dell’Associazione B’nai B’rith, OSF, 10, p. 342; la stessa tr. it. si trova anche in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 336.

Sul piano emozionale Come scrisse al suo alter ego, l’ebreo viennese Arthur Schnitzler: «L’ebraismo continua ad essermi molto caro sul piano emozionale». S. Freud, Briefe an Arthur Schnitzler, in «Neue Rundschau», LXVI, n. 1, 1955, p. 100.

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Corpo ebraico Quando Freud, rivolgendosi ai suoi “fratelli” dell’Associazione B’nai B’rith, parla della loro costruzione psichica comune, evoca in questo modo, in un certo senso, la presenza del corpo ebraico. Cfr. S.L. Gilman, Freud et le concept de Race et de Sexe, in «Revue germanique internationale», n. 5, 1996, p. 102.

Ahimè, perché mai, Emil, lei è un prosaico ebreo? «Mi è facile mettermi nei suoi panni. Lasciare la bella patria, i cari parenti, un bellissimo ambiente, rovine vicinissime: ma voglio smettere sennò diventerò triste come lei; e del resto Lei sa meglio di tutti che cosa dovrà lasciare! […] Ahimè, perché mai, Emil, lei è un prosaico ebreo? Gli artigiani pieni di sentimentalismo cristiano-germanico in condizioni simili hanno cantato le più belle canzoni». Lettera di S. Freud a E. Fluss del 16 giugno 1873, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 336.

Questa cosa che rende ebrei In una lettera redatta in inglese, in occasione della morte nel 1936 del suo amico e primo adepto in Inghilterra, Montague David Eder, Freud evoca ancora questa «costruzione psichica comune» che distingue gli ebrei: «Eravamo tutti e due ebrei e sapevamo, l’uno dell’altro, di portare in noi il quid misterioso che fa l’ebreo e che finora è restato inaccessibile a qualsiasi analisi». Freud si esprimerà più di una volta in questa maniera nei suoi scambi con i suoi amici ebrei. Lettera di S. Freud a Barbara Low del 19 aprile 1936, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 394.

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Dei tratti ebrei «Le dirò che ciò che mi attira in voi sono dei tratti comuni, ebrei (verwandte, jüdische Züge)? Noi ci capiamo». Lettera di S. Freud a K. Abraham dell’11 maggio 1908, in S. Freud - K. Abraham, Correspondance complète (19011925), cit., p. 53.

Gli altri… Nell’agosto del 1913, indirizzandosi all’amante di Jung, Sabina Spielrein, Freud dice ancora: «Noi siamo e rimaniamo ebrei. Gli altri non faranno che servirsi di noi, e non ci comprenderanno, ne apprezzeranno mai». Lettera di S. Freud a S. Spielrein del 28 agosto 1913, in A. Carotenuto, Diario di una segreta simmetria, Astrolabio, Roma 1980, p. 271.

Sono un ebreo fanatico Nella sua risposta agli auguri presentati dal grande rabbino di Vienna in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, Freud sottolinea la parentela psicologica degli ebrei: «Le vostre affermazioni hanno risuonato in me con un’eco particolare che non è necessario che io vi descriva. Da qualche parte della mia anima, in uno dei meandri più dissimulati, sono un ebreo fanatico. Sono molto stupito di scoprirmi tale, malgrado tutti i miei sforzi per essere senza pregiudizi ed imparziale. Cosa posso fare contro la mia età?». J.P. Hes, A Note on an as Yet Unpublished Letter by Sigmund Freud, in «Jewish Social Studies», n. 48, n. 3-4, 1986, p. 322.

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Probabilmente l’essenziale D’altronde, nella sua prefazione del 1934 all’edizione ebraica di Totem e tabù, Freud mette in risalto chiaramente una definizione razziale (o almeno etnopsicologica) dell’ebreo, non religiosa: «Per nessuno dei lettori di questo libro sarà facile immedesimarsi nell’atteggiamento emotivo dell’autore, che non conosce la lingua sacra, che si sente completamente estraneo alla religione dei padri – come ad ogni altra religione peraltro – e che non riesce a far propri gli ideali nazionalistici pur non avendo mai rinnegato l’appartenenza al suo popolo e sentendo come ebraico il proprio particolare modo d’essere che non desidera diverso da quello che è. Se gli venisse rivolta la domanda: Dal momento che hai lasciato cadere tutti questi elementi che ti accomunano ai tuoi connazionali, cosa ti è rimasto di ebraico? la sua risposta sarebbe: Moltissimo, probabilmente ciò che più conta. Tuttavia egli non saprebbe al momento esplicitare a chiare lettere in cosa consista questa natura essenziale dell’ebraismo; ma confida che un giorno o l’altro essa diventerà intelligibile per la scienza». S. Freud, Totem e tabù, OSF, 7, p. 9.

Io non ero né tedesco né austriaco, ma ebreo È importante constatare che Freud non condanna l›impresa in se stessa, sembra anzi considerarla legittima, ma tuttavia irrealizzabile. A questo proposito, bisogna sottolineare che Freud ha spesso parlato del popolo giudaico o ebraico, e si è dichiarato egli stesso ebreo nel corso di una conversazione con Gilles de la Tourette a Parigi, difendendosi dall’essere tedesco o austriaco quando questi evocava la probabilità di una grande guerra tra la Francia e la Germania. Si veda la lettera a Martha Bernays del 2 febbraio 1886, dove si può leggere: «Solo verso la fine [della serata da Charcot] mi sono messo a parlare di politica

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con Gilles de la Tourette; naturalmente lui ha profetizzato una guerra spaventosa con la Germania. Io mi sono subito professato ebreo, cioè né tedesco né austriaco. Questi discorsi sono sempre molto penosi per me, perché sento rivoltarsi dentro di me qualcosa di tedesco, che da molto tempo ho deciso di reprimere». Lettera di S. Freud a M. Bernays del 2 febbraio 1886, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 394.

Il fatto che voi siate ebrei non può che piacermi Non insisterò su questo sentimento di appartenenza assai forte di Freud, che è ben conosciuto e che compare numerose volte nelle sue corrispondenze. Freud visse in un ambiente ebraico che non rinnegò mai. Egli dichiara in una lettera sarcastica a Abraham Aaron Roback del 2 febbraio 1930 che la sua educazione non era stata ebraica e che non era capace di leggere la dedica del libro che gli era stata inviata, scritta evidentemente in ebraico, ma che era molto onorato di figurare tra i più grandi nomi del «nostro popolo» citati nel Jewish Influence in Modern Thought1. Nel discorso all’Associazione B’nai B’rith del 1926, egli ringrazia i suoi fratelli massoni per l’omaggio che gli fanno in quel momento e per il sostegno che gli hanno dato accogliendolo quando si sentiva isolato e rinnegato, permettendogli di esporre le sue teorie. Citerò un lungo paragrafo di questa lettera che non necessita di commenti. «Il vostro essere ebrei non poteva che essermi gradito, dal momento che io stesso sono ebreo e mi è sempre parso non solo indegno ma assolutamente assurdo negarlo. Ciò che mi legava all’ebraismo era – mi vergogno di ammetterlo – non la fede,

1. A.A. Roback, Jewish Influence in Modern Thought, Sci-Art Publishers, Cambridge (Massachusetts) 1929.

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e nemmeno l’orgoglio nazionale. Infatti sono sempre stato un non credente, sono stato educato senza religione, seppure non senza rispetto verse quelle che si definiscono le istanze “etiche” della civiltà umana. Ho sempre cercato di reprimere l’orgoglio nazionale, quando ne sentivo l’inclinazione, come qualcosa di calamitoso e ingiusto, spaventato dagli esempi ammonitori dei popoli in mezzo ai quali, noi ebrei, viviamo. Ma tante altre cose rimanevano che rendevano irresistibile l’attrazione per l’ebraismo e gli ebrei, molte oscure potenze del sentimento, tanto più possenti quanto meno era possibile tradurle in parole, così come la chiara consapevolezza dell’interiore identità, la familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica. E a ciò si aggiunse ben presto la certezza che soltanto alla mia natura di ebreo io dovevo le due qualità che mi erano diventate indispensabili nel lungo e difficile cammino della mia esistenza. Poiché ero ebreo mi trovai immune dai molti pregiudizi che limitavano gli altri nell’uso del loro intelletto e, in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all’opposizione e a rinunciare all’accordo con la “maggioranza compatta”». S. Freud, Discorso ai membri dell’Associazione B’nai B’rith, OSF, 10, p. 342.

Violenza spietata Ma la rivendicazione dell’ebraismo non è dovuta soltanto a una costrizione esterna, essa corrisponde a una questione identitaria: Freud attribuisce il suo anticonformismo, la sua assenza di pregiudizi intellettuali, la sua caparbietà e il suo entusiasmo tenace alle sue origini ebraiche, qualità che considera ebraiche lungo tutto il corso della sua corrispondenza. Non bisognerebbe evidentemente sovrastimare l’enumerazione delle qualità ebraiche in Freud, il cui temperamento resta fondamentalmente scettico. Altre lettere sottolineano al con-

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trario dei gravi difetti che egli attribuisce egualmente agli ebrei: «Parlava con la voce esaltata del fanatico, con la violenza dell’ebreo selvaggio e spietato», «L’intelligenza vive di espedienti più o meno spiacevoli». Lettere di S. Freud a Minna Bernays del 16 settembre 1883, e a Martha Bernays del 2 febbraio 1886, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., rispettivamente pp. 56 e 174.

I nostri antenati In una lettera alla sua fidanzata riporta con fierezza un’opinione di Breuer sulla sua personalità: «Disse che aveva scoperto che in me, dietro un’apparente timidezza, si nascondeva un carattere smisuratamente temerario e impavido. L’ho sempre creduto, solo non mi sono sentito di dirlo ad alcuno. Molte volte mi sono sentito come se avessi ereditato lo spirito di sfida e la passione dei nostri avi quando difesero il loro tempio, come se potessi sacrificare con gioia la mia vita per una grande causa». Lettera di S. Freud a M. Bernays del 2 febbraio 1886, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 175.

Caratteristiche ebree Arthur Schnitzler: «Io non mi considero affatto uno scrittore ebreo, ma come uno scrittore tedesco che, nella misura in cui questo genere di cose può essere provato, appartiene alla razza ebraica, il cui sangue in ogni caso è per la maggior parte ebreo e che trova in molte delle sue qualità un numero di cose che si possono definire delle caratteristiche ebree». J. Le Rider, Les Juifs viennois à la Belle Epoque, Albin Michel, p. 26.

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Autenticamente ebreo «È da ebrei autentici non rinunciare a nulla e cercare un compenso per ciò che si è perduto». A proposito di suo figlio Ernst che stava per acquistare una nuova casa in Inghilterra (Walberswick) dopo varie disavventure finanziarie. S. Freud, Lettera al figlio Ernst del 17 gennaio 1938, in Id., Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti, tr. it. di M. Montinari, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 368.

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La religione

Della circoncisione Come dice Theodor Reik nel 1915: «L’alleanza stretta dai patriarchi ebrei con il loro dio si presenterà […] come il racconto (sottomesso a ulteriori correzioni) che glorifica un’iniziazione maschile. L’alleanza della B’rith e della circoscrizione è altrettanto poco fortuita quanto il pasto di alleanza attraverso i quali i fedeli di Jahvé si identificavano a lui. L’insieme delle leggi (la parola B’rith può altrettanto significare “legge”) che si trova in stretto rapporto con la conclusione dell’alleanza sul Sinai può dunque essere rapportato agli eventi che segnano i riti della pubertà». Il sentimento di una «costruzione psichica comune» è dunque strettamente legato a un corpo ebreo particolare e all’alleanza rituale che questo richiama. Dunque è essenziale l’atto della circoncisione. È il segno distintivo del corpo maschile ebreo per la scienza medica, al volgere del secolo scorso. Cfr. Th. Reik, Die Pubertätsriten der Wilden, in «Imago», vol. IV, 1915-1916, pp. 125-144.

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Il nucleo paterno «Il popolo[ebraico] che per primo riuscì ad attuare una tale concentrazione degli attributi divini fu non poco fiero di questo progresso. Esso aveva portato alla luce il nucleo paterno che da sempre era rimasto nascosto dietro ogni figura divina; fondamentalmente si trattò di un ritorno alle origini “storiche” dell’idea di Dio. Ora, poiché Dio era uno solo, le relazioni con Lui potevano riacquistare l’intimità e l’intensità del rapporto fra il bambino e il padre. Se si era fatto tanto per il padre, si voleva però anche essere ricompensati, essere almeno l’unico bambino amato, il popolo eletto. Molto più tardi la pia America pretese di essere “God’s own country” [il paese di Dio] e, riguardo a una delle forme in cui gli uomini onorano la divinità, la cosa non è priva di senso». S. Freud, L’avvenire di un’illusione (1927), OSF, 10, p. 449.

Il popolo eletto di Dio «Gli ebrei sono il popolo eletto del loro Dio, ed egli è il Dio eletto del suo popolo. Ma ciò non riguarda nessun altro». A. Schopenhauer, O si pensa o si crede, tr. it. di B. Betti e A. Verrecchia, BUR, Milano 2000, p. 61.

Il sentimento di solidarietà La preoccupazione di non scioccare i sentimenti delle popolazioni autoctone con delle provocazioni pericolose è da mettere in relazione con il rinvio della pubblicazione della terza parte del Mosè dopo l’Anschluss. Egli non voleva scioccare i cattolici e in particolare padre Schmidt, storico delle religioni, influente nel Vaticano e nell’Italia mussoliniana, assai contrario alle sue tesi. Egli vedeva molto giustamente nei cattolici che avevano un tempo perseguitato gli Ebrei un alleato potenziale per

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combattere la barbarie nazista, ritenendo che le due religioni erano nei fatti prese di mira dai nuovi totalitarismi. Si trattava di prudenza e di realismo: qualsiasi presa di posizione intempestiva poteva oltretutto comportare delle conseguenze nefaste per l’esercizio della psicoanalisi tanto in Austria che in Italia. Dopo il suo esilio a Londra, Freud che poteva, disse, pensare di nuovo liberamente, pubblica il suo Mosè ad Amsterdam nel 1939. Una lettera anteriore, del 1926, ed indirizzata ad Enrico Morselli precisa la sua posizione. Vi si fa riferimento al libro di Morselli, La psicoanalisi, pubblicata Torino nel 1926, e soprattutto all’opuscolo di quest’ultimo sulla questione sionista: «… mi sono rallegrato della misura di simpatia, umanità e comprensione che lei dimostra nel prendere posizione su di una questione complicata dalle passioni umane. Ho l’impressione di essere obbligato a ringraziarla personalmente di tutto ciò. Non so se è giusto il suo giudizio che vuol vedere nella psicoanalisi come un prodotto diretto dello spirito ebraico, ma se così fosse non proverei vergogna. Sebbene estraniato da molto tempo dalla religione dei miei antenati, non ho mai abbandonato il sentimento dell’affinità con il mio popolo e penso con soddisfazione che lei chiama se stesso scolaro di uno dei miei compagni di stirpe, il grande Lombroso». Lettera di S. Freud a E. Morselli del 18 febbraio 1826, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 175.

La religione, oggetto di riflessione Questa domanda era già chiaramente percepibile in una lunga lettera a Martha datata 23 luglio 1882. Freud vi intrecciava infatti indirettamente l’evoluzione dell’ebraismo all’epoca contemporanea evocando la figura del nonno di Martha, che era stato il capo della comunità ebraica di Amburgo e di Altona. Un vecchio ebreo simpatico, un tempo suo allievo, gli fece il ritratto di quest’uomo eccezionale, credente illuminato, para-

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gonato a Nathan il saggio di Lessing: «La religione non era più un dogma rigido; diventava oggetto di riflessione ed era volta a soddisfare il raffinato gusto dell’arte e le maggiori esigenze logiche; e infine l’educatore amburghese la raccomandava, non perché essa una volta era stata sacra, bensì perché gioiva del senso profondo che riusciva a scoprire o a trasferire in essa». Lettera di S. Freud a M. Bernays del 23 luglio 1882, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 19.

Senza escluderci dalla vita Il suo allievo, il vecchio ebreo incontrato ad Amburgo, aveva conservato questo dono di provare piacere per i godimenti offerti da Dio, che egli attribuisce alla vecchia scuola «tutti fedeli alla religione, senza per questo escluderci dalla vita». Lettera di S. Freud a M. Bernays del 23 luglio 1882, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 18.

Dopo la distruzione del Tempio È per questo che nove giorni prima di Tisha B’av, che commemora la distruzione del Tempio, ci si priva secondo lui di qualsiasi piacere, al contrario degli altri giorni. L’introduzione di questo aneddoto è l’occasione per una sottolineatura essenziale di Freud che riguarda la perennità dell’ebraismo. «E gli storici dicono che se Gerusalemme non fosse stata distrutta, noi ebrei saremmo tramontati come molti popoli prima di noi e dopo di noi, solo dopo la distruzione del tempio visibile, essi dicono, fu possibile l’invisibile costruzione dell’ebraismo». Lettera di S. Freud a M. Bernays del 23 luglio 1882, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 18.

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Astrazione sublime «Una folla di stranieri immigrati, di civiltà arretrata». Impose loro a forza questa nuova religione, depurandola ancora di più, elevandola fino «alle altezze di un’astrazione sublime». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, pp. 347 s.

L’immortalità «L’antica religione giudaica aveva invece rinunciato completamente all’immortalità». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 348.

La religione «Gli eventi della storia, gli influssi reciproci fra natura umana, sviluppo civile e quei sedimenti di avvenimenti preistorici di cui la religione è il massimo rappresentante, altro non sono che il riflesso dei conflitti dinamici fra Io, Es e Super-io, studiati dalla psicoanalisi nel singolo individuo». S. Freud, Autobiografia, Poscritto del 1935, OSF, 10, p. 139.

Dell’arcaismo «Se bisogna parlare di una natura psicopatologica dell’essenza dell’ebraismo, è nella misura in cui l’ebraismo, come altri fenomeni religiosi, sviluppa e rivela un momento critico dell’arcaismo delle eredità umane». P. Fédida, L’argile du socle, in «L’écrit du temps», n. 5, 1984, p. 143.

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I più pii «Io sono d’altra parte uno degli ebrei più pii, perché i pii non hanno che una sedia per Pesach e un calice per Elihanovi, che non arriva mai; ed io ho sistemato una stanza intera per lui. Io veramente non vedo in effetti a chi altri sia destinata la mia sala d’attesa». Lettera di S. Freud a Minna Bernays del 24 ottobre 1886, in S. Freud - M. Bernays, Correspondances 1882-1938, Seuil, Paris 2015, p. 216.

Il popolo «Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio che ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti popoli che sono sulla terra». Deuteronomio 7, 6.

La religione egizia «[…] netto contrasto tra la religione ebraica risalente a Mosè e la religione egizia. La prima è un rigorosissimo monoteismo […]. Nella religione egizia c’è invece uno stuolo quasi infinito di divinità di diversa importanza e origine». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 347.

La religione di Atòn «se Mosè fu egizio e se egli trasmise agli ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhnatòn, la religione di Atòn». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 353.

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Più aspro «Il monoteismo ebraico assume talora aspetti ancora più aspri di quello egizio». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 354.

Come avvenne Ipotesi: ammettiamo che Mosè «fosse un Ebreo che volle rendere liberi i suoi connazionali dalla servitù egizia e condurli in un altro paese a realizzare un’esistenza nazionale indipendente e consapevole, come realmente avvenne». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 355.

Il latte e il miele «Un rozzo dio locale, di animo meschino, violento e assetato di sangue, aveva promesso ai suoi fedeli un paese “stillante di latte e di miele” e li aveva incitati a scacciare i suoi attuali abitanti e a “metterli a fil di spada”». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 375.

Una canna al vento «Il cattolicesimo si è mostrato, per dirla con parole bibliche, una “canna al vento”». S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista, OSF, 11, p. 381.

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L’antisemitismo

Una critica implicita dell’antisemitismo Queste idee sono al centro del lavoro che Freud condurrà in seguito sulla psicologia collettiva e che costituisce una critica implicita dell’antisemitismo che aveva avvertito a Parigi altrettanto intensamente quanto a Vienna. Freud intende rifiutare la concezione biologica della razza che, secondo Le Bon, si riassumerebbe nelle «innumerevoli caratteristiche comuni trasmesse di generazione in generazione, che [ne] costituiscono il genio». S.L. Gilman, Freud et le concept de Race et de Sexe, cit., p. 102.

Lo spirito ebraico e lo spirito ariano Si vede del resto esprimere la sua convinzione nella compatibilità di una scienza neutra con la nozione di etnocentrismo in una lettera dell’8 giugno 1913 a uno dei suoi discepoli ebrei più fedeli, psicoanalista ungherese Sándor Ferenczi: «Certamente esistono delle grandi differenze tra lo spirito ebraico e lo spirito ariano Noi le osserviamo tutti i giorni. Da ciò derivano delle piccole differenze nella maniera di concepire la vita e l’arte.

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Ma l’esistenza di una scienza ariana e di una scienza ebraica è inconcepibile. I risultati scientifici devono essere identici quale che sia la maniera di presentarli». A. Leroy-Beaulieu, Israël chez les nations, Calman-Lévy, Paris 1983, p. 257.

Il pericolo Freud mostra di essere consapevole quando dichiara a Smiley Balton nel 1930 che ha cercato di mettere Jung alla testa del movimento psicoanalitica perché «c’era il pericolo di considerare la psicoanalisi come qualcosa di essenzialmente ebraico». O ancora quando dice ad Abraam Kardiner che «aveva delle grandi preoccupazioni per l’avvenire della psicoanalisi. [E che] credeva che essa sarebbe crollata in quanto sarebbe apparsa con il declino della storia come una “scienza ebraica”». S. Banton, Journal de mon analyse avec Freud, PUF, Paris 1973, p. 42; A. Kardiner, Mon analyse avec Freud, Belfond, Paris 1978, pp. 105 s.

Gli ebrei e i gentili Nel 1912, quando la sua rottura con Jung è manifesta, Freud, in una lettera a Ferenczi, esprime con tristezza il fallimento dei suoi sforzi per amalgamare «gli ebrei e i gentili al servizio della psicoanalisi». Perché «essi separano come l’olio e l’acqua». Lettera di S. Freud a S. Ferenczi del 28 luglio 1912, cit. in P.  Gay, Freud. Una vita per i nostri tempi, tr. it. di M. Cerletti Novelletto, Bompiani, Milano 1988.

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Gli ebrei e gli antisemiti E si comprendono meglio i sentimenti di Freud nei confronti di Jung, il “gentile”, leggendo la lettera che scrive un mese più tardi ad Otto Rank, in cui «gli ebrei e i gentili» diventano «gli ebrei e gli antisemiti». Cfr. Lettera di S. Freud a O. Rank del 18 agosto 1912, in P. Gay, Freud. Una vita per i nostri tempi, cit.

Troppo buona Egli reitera quest’opinione nel 1914, in una lettera in cui spiega a Theodor Reik che la sua critica dell’interpretazione teologica che dà della psicoanalisi il pastore luterano e psicanalista Oskar Pfister, è «troppo buona per questi gentili». Th. Reik, Trente ans avec Freud, PUF, Paris 1975, cit., p. 33.

Freud, mio padre O ancora – vicissitudine ben più difficile – quella che riporta Martin Freud, il figlio maggiore di Sigmund Freud: «mi ricordo di una passeggiata che feci con lei [sua zia] a Vienna durante la quale fummo sorpassati da un uomo del tutto ordinario, probabilmente un gentile, che, tanto più che me ne rendo conto, non ci aveva prestato molta attenzione. È per questo che ho considerato l’attitudine di zia Dolfi come una fobia patologica – o una sua stupidità: mi aveva afferrato le braccia con terrore mormorando: “Hai capito che cosa ci ha detto quell’uomo? Mi ha chiamato sporca ebrea puzzolente, ed ha aggiunto che era tempo che dovevamo essere uccisi”». M. Freud, Freud, mon père, Denoël, Paris 1975, p. 16.

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La foresta germanica Parlando a Martha Bernays del professor Nothnagel, Freud scrisse in una lettera del 5 ottobre 1882: «No, quell’uomo non è della nostra razza. Un antico abitatore delle foreste germaniche». Lettera di S. Freud a M. Bernays del 5 ottobre 1882, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., p. 28.

Sporco ebreo La corrispondenza riporta due incidenti a lungo commentati da Freud. Nel primo, viene aggredito da un viaggiatore vicino a Dresda in un treno perché vuole lasciare una finestra aperta in pieno inverno. Viene trattato come uno sporco ebreo, ma sfida da quelli che lo insultano e racconta con grande fierezza l’episodio alla sua fidanzata. Cfr. Lettera di S. Freud a M. Bernays del 16 dicembre 1883, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., pp. 66-69.

In un’altra lettera, egli narra come il suo collega Carl Koller, rispondendo agli attacchi antisemiti di un chirurgo, ottiene finalmente causa vinta presso il direttore della clinica dovendosi battere in duello con il suo aggressore. Cfr. Lettera di S. Freud a M. Bernays del 6 gennaio 1885, in S. Freud, Lettere 1873-1939, cit., pp. 114-116.

Tenacia dell’ebraismo «Annibale […] era stato però l’eroe favorito dei miei anni di ginnasio; al pari di molti coetanei, durante le guerre puniche, avevo rivolto le mie simpatie non ai Romani ma al Cartaginese. Quando poi, nel ginnasio superiore, capii meglio che cosa

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vuol dire appartenere a una razza straniera, e le agitazioni anti­ semitiche dei miei compagni mi costrinsero a prendere una posizione definita, la figura del condottiero semita si innalzò ancor più ai miei occhi. Annibale e Roma simboleggiavano, per me adolescente, il contrasto fra la tenacia dell’ebraismo e l’organizzazione della chiesa cattolica». S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), OSF, 3, pp. 185 s.

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Il sionismo

Un pezzo del muro di Erode La lettera di Freud a Chaim Koffler è breve e misurata. Freud è chiaramente lusingato di essere stato sollecitato in quanto personalità ebraica eminente, ma rifiuta di sottoscrivere la petizione che condanna le rivolte arabe del 1929 che avevano causato la morte di un centinaio di ebrei. Egli si dichiara inadatto a donare la sua cauzione in ragione della neutralità delle sue posizioni che non potevano infiammare le folle, né attirare i doni dei ricchi, che era uno degli scopi principali dell’organismo sionista incaricato di finanziarie gli insediamenti in Terrasanta. Ringrazio assai particolarmente Michael Molnar, direttore del Freud Museum di Londra per avermi rapidamente comunicato la trascrizione in tedesco della lettera a Chaim Koffler della quale propongo una traduzione quasi letterale, sperando di non attirarmi le ire da qualunque campo provengano: «Caro Signore e Dottore, non posso acconsentire alla vostra domanda. Sono incapace di superare la mia avversione ad occupare il davanti della scena pubblica, e le circostanze critiche attuali non mi sembrano le più appropriate. Colui che vuole influenzare una folla deve poter indirizzare ad essa delle parole altisonanti,

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piene di entusiasmo, e il mio giudizio lucido sul sionismo non lo permette. Ho certamente la più grande simpatia per i suoi sforzi, sono fiero della nostra Università a Gerusalemme, e mi rallegro di vedere prosperare i nostri insediamenti. Tuttavia, non credo che la Palestina potrà mai divenire uno Stato ebraico e che i mondi cristiano o islamico non saranno mai pronti a tollerare che i loro luoghi santi siano affidati alla custodia degli Ebrei. Mi sembrerebbe più ragionevole fondare una patria ebraica su un suolo meno carico dal punto di vista storico. So bene che non si potrebbe con un progetto così razionale ottenere l’entusiasmo delle masse né i contributi dei ricchi. Devo ugualmente ammettere con dispiacere che il fanatismo distante dalla verità dei nostri concittadini ha la sua parte di responsabilità nel risveglio della diffidenza degli arabi. Non posso avere alcuna simpatia per la pietà che si fa fuorviare e che fa di un pezzo del muro di Erode una reliquia nazionale sfidando i sentimenti delle popolazioni locali. Giudicate voi stesso se, sulla base di una posizione così critica, io sia la persona meglio indicata per intervenire come consolatore di un popolo preoccupato da una speranza ingiustificata. Con tutta la mia più alta considerazione, Vostro devoto, Sigmund Freud». S. Lakhdari, Freud, le judaïsme et le sionisme, cit., pp. 473-488.

Sebbene un buon ebreo A Israël Cohen, segretario generale dell’Organizzazione mondiale sionista, che gli aveva scritto a proposito di una nuova campagna del Keren Hayessod al fine di sollecitare la sua sottoscrizione a favore di una colletta di fondi destinati agli ebrei rifugiati di Germania, nonché di nuovi insediamenti di coloni in Palestina, egli aveva in effetti, il 14 giugno 1938, opposto un nuovo rifiuto, pregando il suo corrispondente «di rinunciare a trattarlo come un “leader in Israele”». Egli spiega ormai la sua

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posizione in questi termini: «Sebbene buon ebreo, che non ha mai rinnegato il suo ebraismo, non posso misconoscere che il mio rapporto assolutamente negativo nei confronti di qualsiasi religione, ivi compresa la religione ebraica, mi separa dalla maggioranza dei nostri compagni e mi rende completamente inappropriato ad assumere il ruolo che voi volete attribuirmi». D. Gauch, La psychanalyse au risque de la foi, cit., pp. 223-233.

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La psicoanalisi

Il concetto di rimozione mi sembra profondamente ebraico «Che cosa c’è di più ebreo nell’opera di Freud? Non mi impressionano granché le risposte che seguono lo schema: “da Edipo a Mosè” e che sono così incentrate sulla relazione edipica di Freud con suo padre Jacob. Tali le risposte mi dicono solo che Freud aveva un padre ebreo e, indubbiamente si scriveranno ancora libri e saggi facendo ipotesi sulla relazione di Freud con sua madre, indubbiamente ebrea. Né mi persuade nessuno dei tentativi di mettere in relazione Freud con le tradizioni esoteriche ebraiche. Si può dire che Freud, come speculatore, abbia fondato una specie di gnosi, eppure non ci sono elementi gnostici nel dualismo freudiano. Né mi convince nessuno dei tentativi di connettere il Libro dei sogni a presunti antecedenti talmudici. Eppure, il centro dell’opera di Freud, il concetto di rimozione, mi sembra profondamente ebraico e, nei suoi schemi, perfino normativamente ebraico. La memoria e la dimenticanza freudiane sono davvero una memoria e una dimenticanza ebraiche e proprio il fatto di basarsi su una versione della memoria ebraica, una versione parodistica se si vuole,

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rende gli scritti di Freud profondamente e anche fin troppo originalmente ebraici». H. Bloom, Kafka, Freud, Scholem, Spirali, Milano 1989, p. 56.

La psicoanalisi emerse come l’immagine negativa del suo ambiente ebraico Sembra d’altra parte, a giudicare dal gran numero di sogni il cui contenuto latente o manifesto pone il problema della sua identità “ebraica” in un mondo violentemente antisemita che lo circonda, che lo stesso Freud abbia per primo sollevato questa questione. Possiamo così considerare l’immagine che Peter Homans utilizza per delineare l’idea di “ebraismo”, ovvero «che essa è come la chiave in rapporto alla sua impronta nella cera o la statua in rapporto alla sua forma. Allo stesso modo la psicoanalisi emerse per così dire come l’immagine negativa del suo ambiente ebraico». P. Homans, The Ability to Mourn: Disillusionment and the Social Origins of Psychoanalysis, The University of Chicago Press, Chicago 1989, p. 71.

La psicoanalisi non è né ebraica, non è cattolica, né pagana «La mia eredità in quanto ebreo mi aiuta a sopportare le critiche, l’isolamento, il lavoro solitario […]. Queste difficoltà, infatti, mi hanno aiutato nella scoperta dell’analisi. Ma che la psicoanalisi in essa stessa sia un prodotto ebraico mi sembra essere un’assurdità. In quanto opera di scienza, essa non è né ebraica, né cattolica, né pagana». Egli scrisse nel 1929 a Ernest Jones in occasione del suo compleanno: «il primo compito che la psicanalisi è stata chiamata a svolgere fu la scoperta dei moti pulsionali che non solo appartengo indistintamente a tutti gli uomini oggi viventi, ma che questi accomunano agli uomini dei

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tempi antichi e preistorici. La psicanalisi non ha dunque dovuto faticare molto per prescindere dalle diversità che pure esistono fra gli abitanti del globo terrestre a causa della molteplicità delle razze, delle lingue e dei paesi». S. Banton, Journal de mon analyse avec Freud, PUF, Paris 1973; Lettera di S. Freud a E. Jones del 1 gennaio 1929, OSF, 10, p. 543.

Voi siete ebrei… gli svizzeri ci salveranno Nel 1910, durante il secondo congresso di psicoanalisi, egli avvertì i suoi colleghi viennesi (vale a dire ebrei) dichiarando senza mezzi termini: «Voi siete ebrei per la maggior parte, e per questo inadatti ad ottenere degli amici per la nuova dottrina. Gli ebrei devono accontentarsi del ruolo modesto che consiste nel preparare il terreno. È assolutamente essenziale che io costituisca dei legami con ambienti scientifici meno limitati […]. Gli svizzeri ci salveranno […]». F. Wittels, Sigmund Freud: His Personality, his Teaching, and his School, London 1924, p. 140.

Un affare nazionale ebraico In una lettera del 3 maggio 1908 a Karl Abraham, considera così la loro «appartenenza razziale» che oppone alle idee «ariane» di Carl Gustav Jung: «Per la nostra parentela razziale, voi siete più vicino alla mia costituzione intellettuale, mentre lui, in quanto cristiano e figlio di pastore non trova una strada che arrivi fino a me se non a prezzo di grandi resistenze interiori… La psicoanalisi è stata sottratta al pericolo di diventare un affare nazionale ebraico». Lettera di S. Freud a K. Abraham del 3 maggio 1908, in S. Freud - K. Abraham, Correspondance complète 19071926, cit., p. 42.

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Non è un fatto puramente casuale… Nelle note conclusive di Le resistenze alla psicoanalisi, Freud scrive nel 1924: «Sia concesso infine all’autore di sollevare in tutta modestia la questione se per caso la sua personalità di ebreo che non ha mai voluto nascondere le proprie origini ebraiche non abbia anch’essa contribuito a determinare l’antipatia del mondo che lo circonda per la psicoanalisi. […] E forse non è stato un fatto puramente casuale che il primo esponente della psicoanalisi fosse un ebreo. Per aderire alla teoria psicoanalitica bisognava avere una notevole disponibilità ad accettare un destino al quale nessun altro è avvezzo come l’ebreo: è il destino di chi sta all’opposizione da solo». S. Freud, Le resistenze alla psicoanalisi (1924), OSF, 10, p. 58.

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Epilogo

Freud, un uomo ebreo? Una domanda la cui risposta deriva dalla sua sorgente, in quanto Freud vi ha risposto esprimendo senza ambiguità il suo legame «essenziale» con il popolo ebraico. Sulla «dimensione psichica» di questo legame: «L’ebraismo dimora in me assai caro sul piano emozionale». Quanto alla psicoanalisi: «Quanto opera di scienza, la psicoanalisi non è ebraica, né cattolica, né pagana»1. Semplicemente, il saggio viennese precisa che «non è per caso se il primo rappresentante della psicoanalisi è stato un ebreo». Tutto il resto è interpretazione. Allo stesso modo dei commenti del Talmud? È stato il suo discepolo e amico Karl Abraham che aveva ravvisato una «componente talmudica» nel «motto di spirito». Noi abbiamo insistito su questo punto perché l’analogia invocata abitualmente tra l’umorismo ebraico e il motto di spirito2 è troppo riduttiva di senso e di prospettiva significante. 1.  Le diverse citazioni sono estratte dal Piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l’ebraismo, che precede questo epilogo. 2.  Sebbene Freud non si allontanasse mai da un humour ebraico con i suoi cari accompagnandolo con una “cattiveria” viennese. In una lettera a Sándor Ferenczi del 24 aprile 1910, ci lascia questa perla di motto di spirito: «Fra le

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Perché ciò che importava a Freud è la vicinanza del motto di spirito con l’inconscio. E l’inconscio freudiano ha un’incidenza soggettiva irriducibile a qualsiasi religione e/o ideologia. Ho scritto questo libro nel corso di un’analisi, iniziata poco dopo la morte di mio padre e che faceva affettivamente eco al “mio Isacco” che mi introdusse alla lettura della Bibbia e più tardi dei testi talmudici. Questo libro costituisce un omaggio a Isaac Elmaleh, mio padre, rabbino e “giudice talmudico” (dayane), che affidò il suo lavoro di erudizione a un’opera intitolata Désir de loi (Desiderio di legge)3. Ancora là dunque, apparirà la “parentela intellettuale” al lettore di questo libro, per il quale mi sono impiegato – senza esserne certo di esservi arrivato – a un prolungamento prospettico dell’interrogazione freudiana sulla «costruzione psichica» del popolo ebraico. Ritorno sull’identità in qualche maniera, ma lontano dai sentieri battuti dalla sociologia religiosa e dalla cattura comunista-ecologista che fiorisce nella cultura contemporanea. Pensandosi ebreo, Freud si mette alla prova dall’interno riferendosi in tutto a un umanismo conviviale privato delle sue scorie etno-identitarie. Chi può dubitare che lungo il suo percorso esemplare e scientificamente al servizio della psicoanalisi Sigmund Freud non abbia contribuito a rendere perenne «l’invisibile edificio del giudaismo»? Non è nella vocazione stessa dello spirito ebraico andare sempre alla ricerca delle sorgenti della civilizzazione e di metterle a frutto?

righe, si può anche leggere che noi viennesi, oltre che maiali, siamo giudei. Ma questo lo lasciamo soltanto intendere» (tr. it. cit., p. 172). 3.  I. Elmaleh, Désir de loi, Talmud et société, Éditions du Cerf, Paris 2008.

Indice

Introduzione di Andrea Baldassarro

p. 11

Prefazione all’edizione italiana

p. 15

Prefazione Dell’identità di Abraham B. Yehoshua

p. 19



I. Freud, un uomo ebreo, o la chiara coscienza di un’identità interiore

Presentazione: Provocare la sorte

p. 29

Un destino di civilizzazione da realizzare

p. 33

Un significante ebraico inclusivo

p. 39

La scelta di Dio per Israele

p. 43

L’essenziale come specificità ebraica

p. 51

Mosè e i progressi della spiritualità

p. 61

Freud e l’interrogazione sionista

p. 67

Contro il nazionalismo

p. 75

I geni ebrei di lingua tedesca

p. 81

Una pulsione di vita sempre all’erta

p. 87



II. Piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l’ebraismo

La psiche ebraica

p. 97

Mosè

p. 101

L’identità

p. 107

La religione

p. 115

L’antisemitismo

p. 123

Il sionismo

p. 129

La psicoanalisi

p. 133

Epilogo

p. 137

Lech Lechà | 1 collana diretta da Davide Assael e Mauro Bonazzi Émile H. Malet si interroga in questo piccolo ma prezioso volume sulle radici ebraiche del pensiero freudiano, e sulla costante preoccupazione di Freud di mettere la psicoanalisi al riparo da qualsiasi tentazione o contingenza religiosa. Freud non ha mai fatto mistero della sua ascendenza giudaica − utilissimo da questo punto di vista è il “Piccolo catalogo di citazioni a proposito di Freud e l’ebraismo” nella seconda parte del volume − non rinnegandola mai pur non essendo certo un devoto religioso e un praticante, ma definendosi piuttosto un “ateo”, o un “agnostico”. Il difficile compito del fondatore della psicoanalisi è stato infatti quello di elaborare una teoria del funzionamento psichico ed una pratica clinica che in diversi modi ereditavano un modo di pensare tipicamente ebraico, e allo stesso tempo di porla come un sistema universale, laico e non incline a compromessi. “Freud è un ebreo autentico, senza religione né inclinazione mistica. Il suo ebraismo collegato alla storia del popolo ebraico e alla Bibbia, giudea in qualche modo, costituisce uno scudo per muoversi liberamente nel mondo, manifestando un cosmopolitismo radicale”, afferma infatti Malet nella prefazione italiana di questo volume.

ISSN 2612-1735

ISBN EBOOK 9788885716438

€ 8,00

Émile H. Malet è saggista e giornalista, membro anziano di sezione del Consiglio economico, sociale ed ambientale (CESE). Ha pubblicato numerose opere tra cui: Adresse sur l’immigration aux hommes âmes de droite et aux belles consciences de gauche, Clims, 1987; Al-Qaïda contre le capitalisme − Religion et domination, PUF, 2004; Défendre la civilisation face à la mondialisation, Éditions du moment, 2014. Nel 1987 ha fondato la rivista Passages ed è direttore scientifico dell’Associazione ADAPES (seminari di economia, politica estera, salute e psicoanalisi). Vive e lavora a Parigi.