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Italian Pages 239 [338] Year 2020
Il visionario è l’unico vero realista. Federico Fellini Nel centenario della nascita di Federico Fellini, questo alfabeto dei sogni racconta l’estetica incantata e il linguaggio del regista riminese, inseguendone forme ed espressioni nei film e ritrovandole poi, vive più che mai, nella cultura e nella società d’oggi. Dalla A di Amarcord alla V di Vitelloni, alla Z di Zampanò – passando per la E di Ekberg e la G di Giulietta, la P di Paparazzo e la R di Rex – lasciamoci allora guidare alla scoperta della poetica felliniana e della straordinaria vita dell’artista, affollata di incontri e ricca di onori, eppure segnata dalla solitudine di una perenne ricerca. Nello specchio dell’infanzia e nei labirinti del desiderio, non meno che nella realtà quotidiana di un’Italia in radicale trasformazione, egli fu tra i pochi a saper cogliere il Paese in divenire, regalandoci un immaginario che ormai è diventato struttura del profondo. Oscar Iarussi – saggista, critico cinematografico e letterario – è giornalista della “Gazzetta del Mezzogiorno”. Fa parte del Comitato esperti della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Già presidente della Apulia Film Commission, ha ideato le rassegne “Frontiere. La prima volta” (catalogo Laterza, 2011) e “Tu non conosci il Sud”. Tra i suoi libri: “L’infanzia e il sogno. Il cinema di Fellini” (Ente dello Spettacolo, 2009) e “Visioni americane. Il cinema “on the road” da John Ford a Spike Lee” (Adda, 2012). Con il Mulino ha pubblicato “C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita” (2011) e “Andare per i luoghi del cinema” (2017).
Oscar Iarussi
Amarcord Fellini L’alfabeto di Federico
Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook Edizione a stampa 2020 ISBN 9788815285911 Edizione e-book 2020, realizzata dal Mulino - Bologna ISBN 9788815354624
Indice Un sogno lungo un secolo
A
Amarcord
B
Borgo (ovvero Rimini)
C
Clown
D
Dolce vita
E
Ekberg
F
Flaiano
G
Giulietta
H
Hollywood
I
Infanzia
J
Jung
K
Kezich
L
Luna
M
Marcello
N
Nino, l’amico magico
O
8½
P
Paparazzo
Q
Quid
R
Rex
S
Sogno
T
Teatro 5 – Cinecittà
U
Urbe
V
Vitelloni
Z
Zampanò Nota bibliografica Indice dei film Indice dei nomi Crediti Figure
a mio figlio Federico
Ringraziamenti In questo «alfabeto» sono confluiti anche racconti o testimonianze sul regista e il suo mondo che, nel corso del tempo, ho ricevuto da maestri e amici cui sono grato, fra i quali, scusandomi per le omissioni, ricordo: Ettore Scola, Suso Cecchi d’Amico, Sergio Rubini, Gianni Amelio, Marco Leto, Furio Scarpelli, Giovanni Grazzini, Piero Virgintino, Tilde Corsi, Irene Bignardi, Mario Guaraldi, Paolo Fabbri, Roberto Escobar, Domenico Procacci, Maria Pia Fusco, Felice Laudadio, Caterina d’Amico, Pupi Avati, Maurizio Riccardi, Eugenio Cappuccio, Enzo Verrengia, Fabrizio Corallo, Chiara Supplizi e Nicola Scardicchio. In questi ultimi anni è stato prezioso il costante confronto con Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, e con tutti i colleghi del Comitato esperti. Ringrazio Daniela Bonato della direzione editoriale del Mulino per le riflessioni già in fase di ideazione del libro e per averne cadenzato il passo insieme con Nicola Pedrazzi. Grazie a Silvio Danese per i suoi consigli, sempre più che amichevoli. Stavolta mi sono mancati – e mi mancheranno – il fraterno incoraggiamento e l’inflessibile rigore di Sergio Claudio Perroni, battagliero perfino su una virgola fuori posto, un grande scrittore che ha scelto di andare via troppo presto. Voglio anche ricordare due critici e amici, Vito Attolini e Alfonso Marrese, cui devo buona parte della mia «educazione sentimentale» al Cinema.
Un sogno lungo un secolo
Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro. Federico Fellini
«Il visionario è l’unico vero realista». È un magnifico paradosso di Federico Fellini, come la sua esistenza affollata di incontri e ricca di onori, eppure segnata dalla solitudine di una perenne ricerca: nello specchio dell’infanzia e nei labirinti del desiderio, non meno che nella realtà quotidiana di un’Italia in radicale trasformazione che egli fu tra i pochi a saper cogliere e raccontare in divenire. Un’opera, la sua, spesso incompresa o avversata, puntualmente equivocata sotto il segno della presunta nostalgia goliardica, laddove invece illumina il presente o addirittura capta il futuro. Un’opera, infine, prepensionata dal mercato cinematografico, non più interessato a produrla. Fellini nasce a Rimini il 20 gennaio 1920 e muore a Roma all’età di 73 anni, il 31 ottobre 1993. Era il giorno dopo il cinquantesimo anniversario delle nozze con Giulietta Masina, che sarebbe mancata solo pochi mesi più tardi, il 23 marzo 1994. Dolce come Verlaine, come Beatrice e maledetto come James Dean casto della purezza di Euridice intelligente come Rin Tin Tin. M’han detto che era morto, ebbi uno shocche come se fosser morte le albicocche.
Fellini come le albicocche: frutto della terra, dono della natura, delizia dei sensi. È la chiosa del poetico commiato di Roberto Benigni, cui Federico il Grande consegna una sorta di lascito testamentario chiamandolo a interpretare, nel 1990, il personaggio di Ivo Salvini in La voce della luna: «Eppure credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…». Un invito a tacere tanto profetico quanto disatteso, considerando il caos e la mancanza di pudore che oggi imperano. L’autore italiano più amato nel mondo, vincitore nel corso del tempo di cinque premi Oscar, è stato un raffinato antropologo del Novecento nel suo farsi e disfarsi. Egli colse la prevalenza dell’abnorme, del beffardo, del bizzarro, di un onirismo/onanismo di massa che discende dal «virus dannunziano» diagnosticato da Alberto Savinio o dal fascismo come eterna adolescenza (vedi Amarcord), una tentazione con ogni evidenza mai sopita. Tale primato del grottesco scandisce il progressivo – meglio, regressivo – declino di una società invecchiata e impecorita, rassegnata e stanca, forse paga del ricordo o della pallida imitazione, spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria nelle stagioni del boom anni Sessanta, ovvero della Dolce vita. D’altronde, Fellini per il suo Casanova (1976) sceglie quale protagonista il canadese Donald Sutherland – «un candelone spermatico», lo definisce –, scatenando discussioni a non finire sulla presunta lesa maestà del Grande Seduttore veneziano. Si radicalizza allora la vena funerea di Fellini, più palpabile in Prova d’orchestra (1979), concepito all’indomani dell’omicidio dello statista democristiano Aldo Moro per mano delle Brigate rosse, in cui il Nostro e il compositore Nino Rota tessono l’apologo
dell’innocenza perduta di un paese che non riesce più ad accordare i suoni e i toni. È la prima elegia di un «lungo addio» visionario: E la nave va, Ginger e Fred e La voce della luna. Fellini aveva indovinato tutto dell’Italia entrata nel terzo millennio, come se fosse il terzo secolo avanti Cristo: all’insegna del fescennino in salsa «bunga bunga» (il Fellini Satyricon tratto da Petronio è del 1969). Un gigantesco passatempo da Bar Sport on line «per legioni di imbecilli» – disse Umberto Eco – scandisce questa deriva, che Silvio Berlusconi ha interpretato per primo con l’irruenza mercantile e la libido senile che sappiamo. Poi, sono arrivati i giovanotti. Fellini confidava sardonico e rassegnato: «Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia mamma sperava che facessi il dottore, ma io ho fatto l’aggettivo: il felliniano». Eppure, Federico non fu mai felliniano, a dispetto del talento da neologista: vitellone e paparazzo, dolce vita e amarcord. Anzi, Fellini tentò di sottrarsi allo stereotipo di situazioni e personaggi caricaturali, eccessivi o carnascialeschi. Caso mai satireggiava le macchiette erotomani e le signore prosperose da Anita Ekberg alla Saraghina, dalla Tabaccaia alla Gradisca, sebbene con la tenera complicità che, per altri versi, riservava alla Masina. Fanno testo le quattro lettere inedite di Federico alla moglie del 1992, pubblicate nel 2018 da «Famiglia Cristiana»: «Giuliettina mia adorata, sei sempre una ragazzetta in gambissima e insieme con il tuo vecchierello faremo ancora qualche pastrocchio. Con te vicino sono ancora capace di fare capriole. Coraggio». Senza le struggenti invettive di Pasolini contro la modernità e senza alcun moralismo, il Riminese è un lungimirante testimone sul campo delle metamorfosi sociali. Intervistato
dall’amico Georges Simenon, Fellini confessa: «In fin dei conti lei e io abbiamo sempre raccontato delle sconfitte. Ma voglio, devo riuscire a dirle… Credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. L’arte è un miracolo…». Nella nostra realtà mosaicata, eterogenea, contraddittoria, vige la disperata ricerca di un insieme, di una speranza, di un appiglio contro la solitudine, sì, forse di «un miracolo». Metaforicamente, siamo tuttora sull’ultima spiaggia nel finale di La dolce vita con Mastroianni. Al cospetto del mostro marino arenato, Marcello non riesce a cogliere le parole della ragazzina nel vento e le risponde con un sorriso impotente. Oggi come minimo sarebbe oggetto di una serie di tweet sarcastici con l’hashtag #machestaiadì? Abbiamo cercato le parole per dire di Fellini e di noi rispetto al suo cinema. Una parola-chiave per ogni lettera dell’alfabeto, o quasi, dalla A di Amarcord alla Z di Zampanò. Un «alfabeto di Federico» che non ha pretese di completezza, né mai potrebbe, considerando oltretutto che la vastissima bibliografia felliniana è continuamente alimentata da studiosi di ogni dove. Meno vividi, purtroppo, sono i suoi film agli occhi del pubblico più giovane, ma confidiamo che le iniziative nel centenario della nascita ne favoriscano la conoscenza. Anzi, per cominciare, provate a trovare su YouTube alcune delle scene qui citate e vedrete se non vi assale la voglia di recuperare l’intero film, perché un’opera d’arte è tale solo nella sua integrità (e in certe condizioni di visione, ma questo è un altro discorso). Per ogni voce del nostro dizionarietto portatile abbiamo fatto scelte soggettive, quindi opinabili, guidati dalle suggestioni, dalle emozioni o
dai ricordi personali. Un esempio? La lettera K è stata «in ballo» tra Kafka, perché Fellini lo amò e coltivò l’idea di realizzare una trasposizione del suo romanzo incompiuto America (secondo il semiologo Paolo Fabbri in realtà l’ha realizzata, eccome, in Intervista), e Kubrick o Kurosawa, colleghi di pari rango con i quali echeggia talvolta un dialogo a distanza. Ma al dunque la K è di Kezich, critico cinematografico, biografo e amico di Federico, i cui «diari» contribuiscono a guidare lo spettatore nel labirinto… kafkiano delle sue immagini. Ricordiamo però, con Fellini, che il filo di Arianna non è mai uno solo, come nella vita quotidiana del nostro tempo così incerto. Anche nel corpo delle singole lettere dell’alfabeto abbiamo seguito percorsi non canonici, assecondando ora l’affresco dell’ambiente culturale o lo stralcio storico-sociale; ora l’analisi di una sequenza felliniana poco nota ovvero celeberrima, dal prologo di I clowns all’apparizione del piroscafo Rex lungo il filo dell’orizzonte di Rimini, girata a Cinecittà. Amarcord Fellini… È una parola! Proviamo allora con ventitré. Eccole.
A
Amarcord
A come Amarcord, naturale. In dialetto romagnolo sarebbe a m’arcord, «io mi ricordo». La parola è entrata nei dizionari di mezzo mondo grazie al titolo del film di Federico Fellini, uscito alla vigilia del Natale 1973, e andrebbe pronunciata con l’accento sulla o. Sia detto in favore dei più giovani che non hanno visto il film e però frequentano i tanti locali con quel nome, talora chiamandoli «Amàrcord». Mica colpa loro. Fellini è quasi del tutto ignoto alle nuove generazioni perché le reti televisive trasmettono poco le sue opere e i programmi scolastici non contemplano la storia per immagini (che peccato!). Vero è che l’attrice britannica Susan George, designata ad annunciare l’Oscar per il miglior film straniero insieme al boss dei produttori Usa Jack Valenti, legge il verdetto della busta e dice: «The winner is Italy, for Amàrcord». È martedì 8 aprile 1975 e risuonano le note dell’Inno di Mameli nel Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles per celebrare la quarta statuetta hollywoodiana di Fellini, ma lui non c’è, impegnato in Italia nella preparazione di Casanova. A prendere il premio sale sul palco un elegantissimo Franco Cristaldi, che aveva da poco chiuso con Claudia Cardinale (sposerà Zeudi Araya qualche anno dopo), il più coraggioso e lungimirante tra i produttori cinematografici del dopoguerra, al quale deve molto Giuseppe Tornatore, a sua volta vincitore dell’Oscar nel 1990 con Nuovo cinema Paradiso prodotto da Cristaldi nell’88. Nella stessa serata trionfale di Amarcord, Nino Rota e Carmine Coppola si
aggiudicano l’Oscar per la colonna sonora di Il Padrino – Parte II, ritirato da Coppola, oriundo di Bernalda in provincia di Matera ed ex primo flauto con Arturo Toscanini. In platea esulta il figlio Francis Ford Coppola, regista del film, che infine totalizza ben sei Academy Award. Rota, assente, è autore pure della colonna sonora di Amarcord, sceneggiato dal riminese Fellini con il coetaneo Tonino Guerra, nato in quel di Santarcangelo di Romagna, a 10 chilometri nell’entroterra di Rimini. Il film evoca ricordi ed esperienze di entrambi, indistinguibili, tanto da suggerire una battuta al veleno a Pier Paolo Pasolini, che non ha mai del tutto perdonato a Fellini il rifiuto di produrgli Accattone (1961). «Si sarebbe dovuto intitolare Asarcurdem», dice Pasolini, cioè «Noi ci ricordiamo» in romagnolo. A proposito di dialetto, Fellini ammetterà con rammarico: «Ci ho messo mezzo secolo a fare quel film, e i riminesi hanno detto in dialetto la n’era miga acsè, non era mica così». Se I vitelloni (1953), parimenti ambientato a Rimini, è un racconto quasi «in presa diretta» del Fellini trentenne che vi sublima ricordi e umori recenti, Amarcord è un’incursione nel passato e retrodata agli anni Trenta lo sguardo felliniano su un mondo familiare e remoto al tempo stesso. Nella Rimini fascista il protagonista è lo studente Titta Biondi (interpretato dall’esordiente ventenne Bruno Zanin, ringiovanito dal trucco), «ricalcato» sulla figura di un fraterno amico di Federico sin dalla prima infanzia, Luigi «Titta» Benzi, che nella vita diventa un apprezzato penalista e viene eletto consigliere comunale del Partito repubblicano italiano, scomparso novantaquattrenne nel 2014. In Amarcord Titta cresce fra educazione cattolica e retorica del regime. Suo
padre Aurelio è un capomastro anarchico e antifascista (Armando Brancia), che lavora come un mulo per mantenere la moglie amatissima nonostante le continue litigate (Pupella Maggio), Titta e il fratello, l’anziano e vispo nonnetto, e un cognato in panciolle detto «Pataca» (Nandino Orfei, della dinastia circense). C’è poi l’altro zio di Titta, zio Teo, che è chiuso in manicomio. La comunità di Amarcord è popolata di figure strambe: la Volpina, ninfomane che si aggira sulla spiaggia irretendo chiunque; «Giudizio», lo scemo del villaggio; un avvocato dalla retorica facile; il motociclista esibizionista «Scureza»; il cieco di Cantarel che suona la fisarmonica… A scuola Titta e i suoi compagni si impegnano soprattutto negli scherzi ai danni degli insegnanti o delle compagne di classe «convocate» con il pensiero nelle sedute di masturbazione di gruppo, insieme alla seduttiva professoressa di matematica e alla tabaccaia dai seni enormi. Ma a dominare la vita erotica e sentimentale del «borgo», come viene chiamata Rimini (mai nominata in quanto tale), è una bella signora detta «Gradisca», dacché una notte, nel leggendario Grand Hotel che impera nella fantasia collettiva, si offrì all’erede al trono Umberto di Savoia con la semplice formula: «Signor principe, gradisca». La Gradisca è Magali Noël, attrice francese nata a Smirne, già nel cast di La dolce vita (1960) nel ruolo di Fanny, la ballerina che dopo una serata con Marcello e Paparazzo invita il papà di Marcello nel suo appartamento, dove questi si sente male. Magali Noël prende il posto che Fellini aveva destinato all’esuberante e giuliva bellezza di Sandra «Sandrocchia» Milo, in primo piano in 8 ½ (1963) e in Giulietta degli spiriti (1965), che è la sua amante e musa malandrina, secondo quanto la stessa Milo ha più volte dichiarato dopo la morte di Federico (una fotografia poco nota
e tenerissima, scattata dal «paparazzo» Elio Sorci nella villa di Fellini a Fregene, li ritrae seduti su un divano uno accanto all’altra, intenti a giocare a dama come due coniugi di lunga data). Ma si mette di traverso il marito della Milo, il medico Ottavio De Lollis, che nel cuore di Sandrocchia ha soppiantato il produttore Moris Ergas. Allora tocca a Edwige Fenech, icona sexy degli anni Settanta, fresca del successo di Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda di Mariano Laurenti (1972). Al dunque Fellini ci ripensa: «Scusami, mi disse – ha rivelato la Fenech –, ma sei troppo magra, ti spiace se do la parte a un’altra?». Signor principe, Gradisca. Nei panni del principe c’è Marcello Di Folco, che qualche anno dopo si sottopone all’operazione chirurgica per cambiare sesso e sarà la prima transessuale eletta in una carica politica, consigliera comunale di Bologna per i Verdi nel 1995. Nel borgo tutti condividono il trascorrere delle stagioni, il passaggio della Mille Miglia e quello del transatlantico Rex, o la visita del duce in una chiave deforme e tragicomica che connota il fascismo tout court. La morte della madre di Titta e il matrimonio della Gradisca segnano la fine del film e dell’innocenza. Lo storico del cinema Roberto Campari annota che la vita di Amarcord si svolge «nella struttura circolare e ripetitiva dei riti stagionali legati all’antico mondo agrario». Mentre il sodale felliniano Renzo Renzi interpreta la «Rimineide» di Federico in termini storiografici: Seguendo il metodo di uno storico come Marc Ferro e delle francesi «Annales» si può ripensare l’intera opera cinematografica di Federico Fellini come un grande ausilio alla definizione della specificità di Rimini, suo notorio luogo di origine e di formazione.
Renzi delinea in particolare una dicotomia delle stagioni estiva e invernale che corrisponde alle due Rimini dentro cui si muoverebbe la memoria felliniana: Fellini, in sostanza, ci parla specialmente del centro storico, provinciale e invernale, come di una dimensione, sia pure ingrata, ma «sua», lasciandoci immaginare ciò che pensa della città del mare, così lontana, favolosa, paurosa. Del resto, se l’estate di Rimini è più estate che altrove, anche l’inverno è più inverno che altrove.
In effetti Amarcord si riferisce soprattutto all’antico Borgo San Giuliano, oggi punteggiato di murales felliniani, non lontano dal ponte di Tiberio. La città del mare lontana, favolosa e paurosa… Già, per il giovane Federico che si racconta in I vitelloni l’Adriatico è un vacuum, è il filo dell’orizzonte vuoto e uggioso scrutato d’inverno dai pontili cui si giunge dopo il lungo bighellonare quotidiano tra il nulla e l’oblio; è una geografia quasi «alla Antonioni» e difatti l’esordiente Fellini fu tacciato di… «incomunicabilità» dal critico Guido Aristarco, coltissimo cerbero del marxismo sullo schermo e dintorni, ben prima che l’incomunicabilità divenisse la cifra dell’estetica di Antonioni grazie alla trilogia anni Sessanta L’avventura, La notte e L’eclisse (protagonista Monica Vitti, allora compagna del regista ferrarese). L’Adriatico felliniano evoca il «cinema naturale» dei paesaggi ricorrenti nei racconti o documentari padani di Gianni Celati e nelle fotografie di Luigi Ghirri con quelle altalene sulle spiagge deserte e il «mare d’inverno» che ispirerà anche la canzone di Loredana Bertè scritta da Enrico Ruggeri. L’Adriatico è una «carta bianca» da istoriare con sogni e bisogni di partenze verso un altro mare, tant’è che la quasi
totalità delle scene rivierasche dei film felliniani sono girate sul Tirreno, ad Anzio, Ostia, Fregene, o a Cinecittà, come la leggendaria apparizione del Rex di Amarcord. In Fellini vige il sentimento di esser sospeso fra mondi, epoche e due o più vite, che non è propriamente nostalgia. D’altro canto, l’horror pleni è il basso continuo delle geografie felliniane, dalla spiaggia sulla quale Zampanò piange la perdita di Gelsomina nel finale di La strada (1954) sino a La voce della luna (1990), quando Fellini torna con i semplici e i pazzi nelle campagne dell’infanzia, negli stessi borghi che lampeggiano in 8 ½ e in Amarcord, ormai irrimediabilmente trasfigurati. L’unica geografia che conta per Federico è piccolina, là, in riva all’Adriatico, sotto quei cieli struggenti di nuvole e di desideri, all’arrivo delle «manine», la lanugine agitata dalla brezza che annuncia la primavera in Amarcord. Un’epifania al pari del Rex e del «pavone del conte» che appare all’improvviso, si posa sulla fontana della Pigna in piazza Cavour (tutta ricostruita a Cinecittà, ripetiamo) e fa la ruota a suggello della scena del «nevone» in cui Titta e i suoi amici lanciano palle di neve sul sedere della Gradisca, che si diverte un mondo. Tra i ragazzini c’è l’undicenne Eros Ramazzotti che abitava nei pressi di Cinecittà e fu scritturato quale comparsa, mentre un altro cantante ottiene una particina nel film, il giovane Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso. Le «manine» e il pavone sono intuizioni poetiche di Tonino Guerra, il quale, senza alcuna polemica con Fellini, sostenne che il titolo del film derivasse anche dal ricordo dei borghesi di paese che entrando al bar comandavano un Amaro Cora: «Da amaro, amaro Cora, è nato Amarcord».
Certo, Amarcord è il film più lieve di Fellini, baciato da una grazia quasi esente da tormenti, nonostante le scene drammatiche sull’arroganza dei fascisti che umiliano il padre di Titta. Per provare ad essere partecipi di tale levità, lasciamo la parola allo stesso Fellini in una lettera che indirizza il 3 novembre 1973 al giovane pittore Giuliano Geleng – figlio di Rinaldo, vecchio amico di Federico – commissionandogli la locandina del film con un tono affettuosamente scanzonato: Allora: il manifesto dovrebbe a colpo d’occhio sprigionare la lietezza squillante di una cartolina natalizia o meglio, pasquale; il colore dovrebbe essere netto, lucido, sonoro, insisto sulla sonorità; dal manifesto dovrebbe uscir fuori una specie di scampanio, di voci, di grida e aria e luce e vento. Non spaventarti. Preciso meglio la composizione: tutti i personaggi del film dovrebbero come affacciarsi dal manifesto, a fissare gli spettatori, quelli che passano per la strada. Dovrebbero, questi personaggi, essere come sorpresi in una immobilità sbigottita, amabile, riluttante e sfrontata, una specie di vecchia immagine indelebile e favolosa riflessa in uno specchio festoso, domenicale… Poi dietro di loro potrebbe aprirsi una vasta distesa con la campagna, la spiaggia, il mare, e tu, che ami tanto i maestri del surrealismo, potresti disseminare questa profondità celeste e luminosa di alcuni temi e situazioni del film: il Grand Hotel, il Rex, una tavolata nuziale, facendo attenzione però a conservare del surrealismo non la sua fraintesa vocazione al sovvertimento gratuito, ma badando a cavarne fuori uno dei suoi caratteri più autentici, e cioè la meraviglia, l’incanto liberatorio, quella leggerezza sognante, minacciosa…
La chiosa epistolare la dice lunga sulla cultura di Fellini, che qui è folgorante nel separare il grano del surrealismo dal loglio dei fraintendimenti che quella avanguardia suscitò suo malgrado. Ma ciò che più conta è appunto lo spirito «comunitario», palese nel film. Gianni Celati rilegge Amarcord all’insegna del concetto di Giambattista Vico per cui «la memoria è lo stesso che la fantasia», ma declinata nei termini «delle fantasie maschili sulle donne, dall’età dell’adolescenza alla maturità. In questo senso, l’intero film è una poetica dell’immaginazione maschile». E aggiunge che in Amarcord è di scena la società infantilizzata dal fascismo, a cominciare dal culto di un maschilismo tanto patetico quanto cinico, bieco e infine onanistico e impotente. In effetti Fellini bersaglia a più riprese l’effigie di Mussolini e riserva persino un inserto militante antifascista, allorché gli squadristi sparano contro chi sta facendo risuonare L’Internazionale dal campanile del borgo (scena che sarebbe stata «a suo agio» in Novecento di Bernardo Bertolucci, 1976). D’altro canto, come nei dipinti di Mark Rothko votati a Tiresia, l’indovino cieco che presagisce il futuro ma cammina a ritroso, nel nebbioso capolavoro del Riminese la visione non scaturisce dal reale e dal presente, ma dal mito che si staglia all’improvviso nella notte del passato, nel «mistero potente dell’ombra». Nel buio, luce: amarcord!
B
Borgo (ovvero Rimini)
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». È lo stralcio, forse il più noto, di La luna e i falò di Cesare Pavese, apparso nel 1950, pochi mesi prima che l’autore si togliesse la vita. In apparenza hanno ben poco da condividere lo scrittore langarolo austero e impegnato, laico e infelice, e il regista riminese penitente sed gaudente, nonché potente, tanto da esser bollato come «un vescovone» sempre riverito dal codazzo di rito (copyright Pasolini, a causa del malanimo di cui abbiamo detto). Ad avvicinarli, però, vi sono la fiction in cui celare a stento l’autobiografia e la passione per l’America definita da Pavese «il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti». Passione anche felliniana, certo, manifesta in Napoli-New York, un trattamento cinematografico della fine degli anni Quaranta mai giunto sullo schermo, scritto da Federico con Tullio Pinelli, ritrovato e pubblicato in anni recenti. Lo stesso Pinelli, molto amico dei coniugi Fellini, sceneggiando La dolce vita delinea il personaggio di Steiner, l’intellettuale suicida interpretato da Alain Cuny dopo il rifiuto dello scrittore Elio Vittorini a comparire nel ruolo, ispirandosi alla figura di Pavese, suo ex compagno di classe al liceo classico D’Azeglio di Torino. Entrambi hanno frequentato nei banchi del D’Azeglio la «scuola di resistenza» antifascista del professor Augusto
Monti, dove tra gli altri si sono formati Giulio Einaudi, Luigi Firpo, Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio… Ma ad affratellare Pavese e Fellini c’è innanzitutto quella frase, lapidaria come una sentenza, che riecheggia dalle colline piemontesi alla riviera adriatica: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Senza un paese da lasciarsi alle spalle – «il borgo» viene definita Rimini in Amarcord – non è possibile alcuna fuga, non v’è identità né futuro. E bôrg, il borgo in dialetto romagnolo, era il primo titolo del film – racconta il semiologo Paolo Fabbri, anch’egli riminese. «Parola dura, gotica, arcana», scrive lo studioso citando Fellini, laddove «Amarcord è una paroletta bizzarra, un carillon, una capriola fonetica, un suono cabalistico, la marca di un aperitivo» (il che avvalora l’ipotesi di Tonino Guerra sul titolo derivato dall’Amaro Cora). Le radici come grammatica del vivere da imparare a menadito, magari per riuscire a tradirla. Non è dunque questione di nostalgia, caso mai di «rizomi» le cui parti nascoste fecondano il mondo vissuto, stando alla metafora psicoanalitica propria di Carl Gustav Jung e ripresa dal filosofo francese Gilles Deleuze. Sì, Jung fu ammirato e studiato da Fellini, che inzuppava archetipi nel cappuccino bollente dei sogni appena fatti e disegnati nei taccuini sul comodino. Quanto a Deleuze, è stato un originale esegeta dei film del Nostro, che a occhio e croce (e delizia) dovettero sembrargli una bella conferma delle sue teorie sul desiderio quale officina dell’inconscio e, voilà, del mondo. Fra il complesso di Edipo e L’anti-Edipo che dà il titolo all’importante saggio scritto da Deleuze con Félix Guattari, a contare è che per «paese» s’intende una geografia sentimentale specifica, per esempio quella di 8 ½ punteggiata dai ricordi di Guido Anselmi (Marcello Mastroianni). I bagni iniziatici dei
bambini nella tinozza di vino, la nonna che si aggira nel buio con una candela in mano e la paura «alchemica» del piccolo Guido quando per la prima volta ascolta da una coetanea la misteriosa formula «Asa Nisi Masa»… Il protagonista la dimenticherà, per ritrovarla tanto tempo dopo in una serata «magica» nel mezzo della «crisi d’ispirescion» dell’artista non più cucciolo: «E se [la crisi] non fosse per niente passeggera, signorina bella? Se fosse il crollo finale di un bugiardaccio senza più estro né talento?». Del resto a vivificare molte immagini felliniane, dai primi film sino a La voce della luna, è proprio l’afflato contadino carissimo a Pasolini – sebbene privo del rimpianto apocalittico di Pier Paolo per la «forza del passato» – ovvero un’eco della tensione mai sopita del grande scrittore russo Lev Tolstoj verso la natura, nella perdita d’occhio della Storia. Tonino Guerra era innamorato della Russia, dove visse a lungo e conobbe la sua seconda moglie Eleonora «Lora» Jablockina (testimoni di nozze i registi Andrej Tarkovskij e Michelangelo Antonioni). La rivoluzione sovietica fu sì un violento strappo nella tela d’inizio Novecento, ma, dopo la fine dell’URSS, non è poi troppo azzardato rileggerne gli esiti in termini «astronomici»: l’avvio di un moto di ritorno di un corpo, la Russia, intorno al secolo. Forse aveva ragione Bertolt Brecht nel suo Elogio del comunismo: «Non è follia, ma / fine della follia. / Non è l’enigma / ma la soluzione. / È la cosa semplice / che è difficile a farsi». Già, la semplicità, la terra, Tolstoj… Guerra Tonino e pace Tonino era nato a Santarcangelo di Romagna il 16 marzo 1920, quindi coetaneo di Fellini. Poeta del cinema e non solo, in primis per i versi in dialetto che Guerra prende a scrivere nel campo di
concentramento nazista di Troisdorf, dove recita ai compagni di prigionia i Sonetti romagnoli di Lorenzo Stecchetti, un poeta popolare che sarebbe da riscoprire. Le prime poesie vengono prefate nel 1946 da Carlo Bo (I scarabocc) e apprezzate dal filologo Gianfranco Contini, che gli introduce la raccolta successiva I bu (I buoi), e dal severo Vittorini, il quale nel 1952 accoglie nei Gettoni della Einaudi da poco orfana di Pavese – accanto a Fenoglio e Calvino, a Ortese e Lucentini – un racconto di Guerra, La storia di Fortunato. Molta della sua produzione letteraria, in seguito per i tipi di Rizzoli, si trova oggi nelle edizioni Maggioli di Rimini, dalle copertine naïf ed eleganti. Scomparso nella primaverile Giornata mondiale della Poesia, il 21 marzo 2012, Guerra era della genia terragna per cui le liriche sono cielo, mare, albero, donna e un paese più esteso dell’ombra di un campanile. L’amico Ermanno Olmi lo salutò con una frase semplice e magnifica: «Lo sai, Tonino, seguo il tuo consiglio: ogni volta che passo davanti a un mandorlo in fiore mi tolgo il cappello». Nei suoi borghi – Santarcangelo, Rimini e Pennabilli nell’Alta Valmarecchia dove aveva casa – si esprimeva anche disegnando fontane, piazze e scalinate. Un artista totale, neorinascimentale. Nondimeno Guerra resta soprattutto lo sceneggiatore principe con Antonioni e Fellini, dioscuri del Dio Cinema, gemelli coltelli del dopoguerra italiano laconico e fantasioso che avrebbe generato più epigoni che eredi in mezzo mondo. Ma egli scrisse anche per il greco Anghelopoulos, il dissidente sovietico Tarkovskij e il tedesco Wenders, per De Sica, Rosi e Monicelli, il cileno Littín e l’israeliano Gitai, Tornatore e i Taviani, Mingozzi e Bellocchio, De Seta e Castellani, Bolognini e Damiani. E sua è la sceneggiatura di Il mostro è in tavola… barone
Frankenstein di Paul Morrisey, Andy Warhol e Antonio Margheriti, dal romanzo di Mary Shelley. Il segno di Guerra è sempre riconoscibile nella propensione per l’inatteso che spesso coincide con un’Attesa, per l’interstiziale, l’onirico, l’ironico. Suoi sono i «miracoli» della vita quotidiana nel borgo: l’apparizione nivea del pavone e le illusioni luccicanti sul mare di Rimini. Amarcord, diceva il generoso Tonino, «ha regalato l’infanzia al mondo». Per i cineasti russi, da Michalkov a Sokurov, e naturalmente per gli americani, nonché gli iraniani, i cinesi, i neozelandesi e tutti gli altri, l’Italia è un mito in virtù delle immagini di questa provincia affabulata da Fellini e Guerra. L’Italia è un pianeta lucente e impenetrabile che orienta nella notte, un frammento di universo sfuggito alla genesi per palesare i bagliori della vita, a cominciare dalle relazioni tra le donne e gli uomini. Le donne alle quali, lo sappiamo, «fanno male i capelli» (Monica Vitti in Deserto rosso di Antonioni, 1964). Non c’è sarcasmo nello sguardo di Fellini sulla Rimini del periodo fascista e pertanto non si ride del basco rosso della Gradisca che è un po’ la parodia del copricapo indossato da Marlene Dietrich e da Ingrid Bergman, né delle sue chiappe pronunciate, stuzzicanti quasi quanto quelle di una delle statue del monumento alla Vittoria che turbano Titta. Non si ride del solone di paese bersagliato dalle palle di neve, né di Teo lo zio matto (Ciccio Ingrassia), che si arrampica su un albero e urla A vòi na dôôna! («Voglio una donna!»), scendendo soltanto in seguito all’ordine di una monaca nana. Invece si ride con loro, forti di un’appartenenza comune, nella chiave di un lunario fantastico tipico di un’ineffabile «via emiliana» della nostra letteratura (Gianni Celati, certo, ma anche Ermanno Cavazzoni, Francesco Guccini, Paolo Nori…).
L’immaginazione può più della razionalità, la memoria più della coscienza, il sogno più della veglia, il silenzio più della parola, e la Gradisca più di tutti e di tutto. Era il timido canone di Federico, seppur dissimulato in migliaia di fotogrammi, di gag, di scenette, di svagate osservazioni sulla grande nevicata, accolta dal «Pataca» davanti al cinema Fulgor con una certa lungimiranza: «Mocché, questa è acquaticcia, non si attacca micca». E pensiamo ancora alle «manine» svolazzanti nell’aria, descritte in principio da «Giudizio» (Aristide Caporale): Sono delle manine di cui che girano, vagano qua e vagano anche là. Sorvolano il cimitero di cui tutti riposano in pace. Sorvolano il lungomare con i tedeschi datesi che il freddo non lo sentono loro. Ai… Al… Vagano, vagano. Girollanz… Gironzano… Gironzalon… Vagano, vagano, vagano!
Un monologo così oggi potrebbe stare in un film di Checco Zalone, il quale in Che bella giornata di Gennaro Nunziante (2011) anima un’esilarante festa di battesimo nel borgo natio di Alberobello, con una sequela di gag al culmine quando Caparezza (Michele Salvemini) è obbligato a cantare Non amarmi, un brano che detesta. «Ma come farai a stare lontano dal borgo?» – chiede qualcuno a voce alta nel finale di Amarcord, mentre parte l’automobile con a bordo la Gradisca che ha appena impalmato un carabiniere, «il suo Gary Cooper». Allorché una decina di anni fa si venne a sapere del via vai di fanciulle prezzolate e di solerti prosseneti nelle residenze dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, era da poco uscito un libro dal titolo Gradisca, Presidente, una parafrasi di
Magali Noël in visita nella suite regale del Grand Hotel: «Signor principe, gradisca». Ma nell’attrice e cantante francese scomparsa nel 2015 palpitavano un’innocenza e un’ironia estranee ai nostri tempi. Con il suo «cappottino rosso fiammante davanti al Fulgor» – disse il sindaco di Rimini Andrea Gnassi – resta un’icona del Peccato meno licenziosa di altre protagoniste in auge negli anni Settanta: Laura Antonelli ed Edwige Fenech, Lilli Carati e Gloria Guida. E quando la Gradisca saluta «il borgo», invero è Fellini a dire «ciao» a un’Italia che non tornerà, apparentemente finita. Eppure, Fuori e dentro il borgo è il titolo dell’esordio narrativo del cantautore Luciano Ligabue, emiliano di Correggio, il paese dov’era nato lo scrittore Pier Vittorio Tondelli, il grande talento della generazione del movimento del Settantasette, scomparso troppo presto nel ’91, non prima di aver dedicato un romanzo alla capitale dell’Adriatico kitsch, Rimini (1985). Liga nel 1998, complice la Fandango del produttore Domenico Procacci, porta sullo schermo i racconti del suo libro che a ben vedere sono un tentativo di aggiornare il «Mondo piccolo» del parmense Giovannino Guareschi. Le radio libere, la droga che uccide, l’amicizia che salva, gli amori… Il film è Radiofreccia, una specie di amarcord giovanilistico degli anni Settanta, un successo cui seguiranno Da zero a dieci (2001) e Made in Italy (2018). Può apparire bizzarro che l’amor loci sia custodito soprattutto dagli artisti, tradizionalmente «apolidi» per statuto, ma in Italia continua ad essere così. Non v’è autore estraneo all’influenza acuta dei luoghi, tanto più se provinciali, e a una sorta di rabdomanzia visionaria, da Amelio a Moretti, da Tornatore a Rubini, da Garrone a Özpetek, da Winspeare a Guadagnino, da Martone a
Piccioni, da Virzì a Piva, Papaleo, Quatriglio, Mainetti, Salvatores, Sollima, Carlei, Base, Costanzo, Caligari, Ferrario, Carpignano, Frammartino… Un argine, a suo modo, alla slavina di disamore e di discredito che negli ultimi trent’anni ha investito l’idea stessa del paese, vagheggiando il separatismo settentrionale o le piccole patrie subalpine, non meno delle chimere neoborboniche al Sud, con i riflessi di xenofobia oggi evidenti. Certo, ad esempio, il «patriottismo» di Ligabue è sanguigno e un po’ «vitellonesco» (un altro aggettivo derivato da Fellini), ironico sebbene non privo di echi struggenti (visto che siamo pur sempre nell’Emilia di Verdi), proletario e ribelle (visto che siamo pur sempre nell’Emilia un tempo «rossa», a Reggio e provincia). Made in Italy adotta la «presa diretta» da un’Italia incattivita e immiserita, inquieta e tuttavia non doma ai tempi della crisi, alternando situazioni ilari a vicende tragiche, suggellate dal celebre passo di Pavese: «Un paese ci vuole…». Scrive Fellini sul «Corriere della Sera» del 25 maggio 1971: Io, a Rimini, non torno volentieri. Debbo dirlo. È una sorta di blocco. La mia famiglia vi abita ancora, mia madre, mia sorella: ho paura di certi sentimenti? Soprattutto mi pare, il ritorno, un compiaciuto, masochistico rimasticamento della memoria, un’operazione teatrale, letteraria. Certo, essa può avere il suo fascino. Un fascino sonnolento, torbido. Ma ecco: non riesco a considerare Rimini un fatto oggettivo. Pensare a Rimini. Rimini: una parola fatta di aste, di soldatini in fila. Non riesco a oggettivare. Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare; lì la nostalgia si fa più limpida, specie il mare d’inverno, le creste bianche, il gran vento, come l’ho visto la
prima volta. È piuttosto, e soltanto, una dimensione della memoria. Infatti, quando mi trovo a Rimini, vengo sempre aggredito da fantasmi già archiviati, sistemati.
Ciononostante ad attendere Federico in paese, nel borgo, insomma a Rimini, c’erano «le storie in briciole di una casalinga straripata», come s’intitola un gustoso libretto autobiografico della sorella Maria Maddalena, in famiglia detta «il Bagolo», edito da Mario Guaraldi, importante editore delle stagioni sessantottine e poi vicino a Comunione e Liberazione (non dimentichiamo che Rimini dal 1980 ospita ogni anno, dopo Ferragosto, il Meeting per l’amicizia tra i popoli organizzato da CL). Ad aspettare Federico a Rimini c’erano le cene a base di vongole poveracce o manzo della Valmarecchia nella trattoria «Dallo Zio», nella casetta ottocentesca di via Santa Chiara, vicino all’arco d’Augusto. E c’erano i passi perduti nei vicoli in cui gironzolò da ragazzo con la cagnolina Titina. C’era il leggendario Grand Hotel scelto per i soggiorni riminesi, sempre nella suite 316, dove trascorse la convalescenza da un intervento chirurgico all’aorta, e il 3 agosto 1993 venne colpito dal primo ictus. E a custodire il genius loci di Rimini, finalmente, dopo un lungo disamore degli enti pubblici che ha mortificato la Fondazione Fellini, nel 2020 del centenario s’inaugurerà il Museo Federico Fellini, che riserverà al visitatore visioni multimediali tra la rocca di Castel Sismondo, i piani superiori di Palazzo Valloni con il cinema Fulgor e l’area attorno a piazza Malatesta. A proposito di visioni, una storia riminese da non trascurare è quella della Madonna della Misericordia, un’icona dipinta nel 1796 da Giuseppe Soleri Brancaleoni per le suore clarisse della chiesetta di Santa Chiara. Il 12 maggio 1859 la Madonna
cominciò a muovere gli occhi e lo fece per gli otto mesi successivi: le pupille – raccontano le cronache dell’epoca – «si alzavano verso il cielo e si abbassavano sui fedeli. A volte erano lucenti come stelle, altre si velavano di pianto». Bene, una copia della sacra immagine miracolosa si trova nella piccola chiesa romana di Santa Maria in Trivio, giusto accanto alla fontana di Trevi, all’incrocio dell’antico trivium che secondo una leggenda avrebbe dato il nome alla fontana. Un segno del destino? Federico, come here.
C
Clown
Chissà quando è successo, ma la figura del clown assai cara a Federico Fellini ha assunto nel corso degli ultimi decenni venature quasi horror. Oggi il clown appartiene agli inferi come il mangiabambini fognario Pennywise in It di Stephen King (1986), oppure è lo psicotico ribelle dal sorriso irrefrenabile nell’inquietante Joker di Todd Phillips con Joaquin Phoenix (2019). Non parliamo della vertigine o della paura che da sempre, fra acrobati e saltimbanchi, è l’altra faccia dell’attrazione. No, ormai il clown è spesso sinonimo di cannibalismo, di demone mai pago di vendetta, di maschera che determina o confonde l’identità di chi la indossa fino alla perdizione. Nella deriva dell’immaginario adulto che regredisce in un infantilismo patologico, il clown è un fármakon, sia veleno sia antidoto: esibisce il naso rosso del dottor Patch Adams (che ha introdotto la terapia del sorriso negli ospedali) o riserva le valenze funeree di cui sopra. Anche Fellini attribuisce al circo «un’aria di mattatoio con il sangue in mezzo alla segatura» e riconosce nel clown il suo dáimon benefico, nei termini della psicologia del profondo di Jung: un promemoria di fedeltà alla vocazione-annunciazione originaria, al «piccolo dio individuale, lo Shiva interiore». Non a caso Fellini sogna di presentarsi truccato da clown negli uffici della produzione Federiz dopo aver incontrato in un bar di periferia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia a loro volta con fattezze da pagliaccio. Federico si lascia fotografare volentieri truccato da pagliaccio dinanzi allo specchio e gli piace
raccontare l’episodio infantile – vero o falso che fosse – della sua prima fuga da casa, ammaliato dai girovaghi di un circo. Lasciamo la parola a lui: Il clown è come l’ombra, incarna i caratteri della creatura fantastica, che esprime l’aspetto irrazionale dell’uomo, la componente dell’istinto, quel tanto di ribelle e di contestatario contro l’ordine superiore che è in ciascuno di noi. È una caricatura dell’uomo nei suoi aspetti di animale e di bambino, di sbeffeggiato e di sbeffeggiatore. Il clown è uno specchio in cui l’uomo si rivede in grottesca, deforme, buffa immagine. È proprio l’ombra. Ci sarà sempre. È come se ci chiedessimo: È morta l’ombra? Muore l’ombra? […] San Francesco non si è definito, forse, giullare di Dio? E Lao Tse diceva: Appena ti fabbrichi un pensiero, ridici sopra.
A proposito di Lao Tse, la Cina non è estranea alla genesi del film I clowns del 1970, concepito allo scoccare dei cinquant’anni del Nostro, grazie al fallimento di un progetto commissionatogli da una rete televisiva americana: una piccola galleria di special, come si diceva allora, di 55 minuti ciascuno, dal titolo Experimental Hour. Fellini sarebbe stato libero di fare qualunque cosa, perfino di rimanere 55 minuti in silenzio a guardare il pubblico, come gli prospettò il produttore. «Mi pagate?», chiese il maestro. «Certamente. Possiamo mettere al tuo posto anche la tua fotografia, se ti stanchi», replicò «un certo Peter Goldfard, in italiano Pietro Colordoro», annota Fellini, facendo sorgere il sospetto di un dialogo inventato di sana pianta. In realtà si chiama Goldfarb e gli ha appena prodotto Block-notes di un regista (1969), un finto documentario fra le rovine del set immaginario di Il viaggio di G. Mastorna, chimerico film felliniano che non sarà
mai realizzato, e i sopralluoghi per il Satyricon. Al dunque, Fellini propone di dedicare il primo special a Mao Tse-tung che vorrebbe addirittura incontrare, tanto da parlarne al critico d’arte e parlamentare comunista Antonello Trombadori affinché l’aiuti a capire come arrivare al cospetto del Grande Timoniere: «Se non fossi riuscito a intervistarlo, avrei raccontato come non ero riuscito». Ma Fellini non ha alcuna seria intenzione di andare a Pechino, come invece farà Michelangelo Antonioni accompagnato dal giornalista Andrea Barbato per girare Chung Kuo, Cina (1972), lo storico documentario sulla rivoluzione culturale maoista. Così, anche in virtù dell’eclissarsi della Tv americana, cui subentra la Rai, Fellini ripiega su un progetto più domestico: «Facciamo i clowns, ambasciatori della mia vocazione, fu la mia proposta. Con Bernardino Zapponi chiacchierammo una domenica pomeriggio, a casa sua, a Zagarolo. Facemmo un viaggio a Parigi alla ricerca non sapevo nemmeno di che cosa e al ritorno, in pochi giorni, la sceneggiatura era fatta». I clowns è una pellicola di solito sottovalutata nella filmografia felliniana, eppure, ha ragione lo storico del cinema Gian Piero Brunetta, è tra quelle invecchiate di meno e meglio, perché proietta l’infanzia oltre l’età anagrafica e l’ammanta di un’aura mitica grazie a una felice combinazione tra fiction e memoir, con Federico spesso in scena nelle riprese francesi sulle tracce dei vecchi clown carichi di gloria, ma sulla soglia dell’oblio. Fa testo l’incipit che pone il film al riparo dal rischio degli stereotipi circensi affidandosi a una voce fuori campo: incomprensibile, rauca, gutturale. Invocazione, incitamento, ordine che sia, la voce ha un sentore romagnolo per la zeta prolungata, ma non per questo è meno esotica,
straniera, perturbante, ed è intervallata come un refrain dalla musica di Nino Rota sui titoli di testa. La prima scena del film, con la macchina da presa fissa, è il risveglio di un bambino nella sua cameretta arredata laconicamente con un letto, un comodino e una sedia risalenti agli anni Trenta. Probabilmente è la stessa stanza di cui Fellini scrive nel Libro dei sogni, appuntando il 6 febbraio 1961 una tenera visione dell’amico con cui ha da poco rotto: Nella cameretta a Rimini, dove ragazzetto studiavo (trenta anni fa), sono a letto con Pasolini. Abbiamo dormito insieme tutta la notte come due fratellini o forse come marito e moglie perché ora che lui si sta alzando in maglietta e mutandine per andare verso il bagno, mi accorgo che lo sto guardando con un sentimento di tenerissimo affetto…
Ma la scena iniziale di I clowns ricorda altresì l’ambiente di 8 ½ ispirato ai ricordi estivi del piccolo Federico in vacanza dai nonni paterni a Gambettola, in un casolare, ora in via di restauro, nei pressi del fiume Rubicone (Alea iacta est…). Il bambino di I clowns è svegliato da quella voce che si ripete con cadenza regolare all’esterno, si alza dal letto, porta la sedia fino alla finestra, scosta la tenda e apre le persiane. Un controcampo ne mostra il volto, ma è in ombra, non riconoscibile. Una ripresa in soggettiva finalmente fa capire da dove proviene la voce: stanno allestendo un piccolo circo, lì a pochi metri. La carovana giunta nottetempo si è accampata in tondo, come i pionieri nei film western di John Ford, e il tendone viene innalzato nella luce «a cavallo» – dicono i cinematografari – fra la notte e l’aurora. Il recinto magico è a suo modo un témenos, la porzione del reale che i greci
riservavano a un culto: il culto dell’infanzia, del prodigio e dello stupore. Lo psicoanalista James Hillman scrive in Il sogno e il mondo infero che niente meglio del circo incarna il capovolgimento dell’esperienza raffigurato nell’oltretomba egizio. Nel circo tutto sembra convergere verso un unico scopo: sovvertire l’ordine naturale delle cose, un opus contra naturam che vince la forza di gravità… Dove altro, se non al circo, possiamo vedere il mondo infero in pieno giorno?
Nel film lo chapiteau viene issato come una vela da alcuni uomini con le funi in riva al mare. Il lido è il luogo privilegiato delle epifanie felliniane, siano esse iniziali o finali: in Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, La dolce vita, 8 ½, Amarcord, Casanova… Adesso il bambino entra nella stanza dove la mamma sta stirando. «Ma che cos’è?», le chiede. «È il zirco, se non stai buono ti faccio portar via da quei zingari». Allora il piccolo protagonista, vestito da marinaretto, va verso la porta di casa da cui filtra una luce accecante e vede il tendone piantato nella sabbia che comincia proprio sulla soglia, oltre la quale l’accoglie il sibilo improvviso di una folata: il vento, altro motivo ricorrente nei film di Fellini per scandire un passaggio emotivo. Il bambino fa qualche passo, si ferma e poi decide di procedere. La macchina da presa punta verso l’alto, svelando un uomo arrampicato sul tendone che adesso appare molto più grande. Intanto un nano pettina i capelli di una donna, un altro bambino con una pompa innaffia e abbevera un elefante, e due lavoranti, cantando nella medesima lingua ineffabile della
voce misteriosa, fissano l’insegna «Circo Equestre» che contiene degli animali da un lato e due clown dall’altro. L’inquadratura successiva è un sipario che si apre sulla pista vuota del circo guardata dal bambino, dove fa il suo ingresso un domatore con la frusta, il cappello a cilindro, il papillon e i guanti bianchi. Strizza l’occhio al bambino e con uno schiocco di frusta fa entrare i pony. Riparte improvvisa ed eclatante la musica di Rota ed ecco la galleria delle facce felliniane, all’esterno della tenda, ove sta imbrunendo: un mangiafuoco a torso nudo memore di Zampanò di La strada, un pagliaccio col megafono per invitare gli spettatori ad accorrere e la gente in fila che versa i soldi del biglietto a una donna che sta mangiando gli spaghetti. Scrive Giovanni Grazzini sul «Corriere della Sera»: «Fellini, con mirabile purezza d’immagine e inimitabile forza icastica, accomuna nel ricordo la meraviglia per la gente del circo e lo stupore per i personaggi deformi della sua provincia natale». Volti e storie del passato s’intrecciano infatti con quelli del presente: gli anziani saltimbanchi, Liana Orfei, il clownologo Tristan Rémy, la «pantera» Anita Ekberg sedotta dai felini/Fellini… Nell’arco di pochi minuti, il film passa dalla realtà all’immaginazione, prendendo per mano e persuadendo all’istante lo spettatore, perché la mano è quella di un bambino che ha riconosciuto il futuro in un circo. Fellini spiega: Quando dico: «il clown», penso all’augusto. Le due figure sono, infatti, il clown bianco e l’augusto. Il primo è l’eleganza, la grazia, l’armonia, l’intelligenza, la lucidità, che si propongono moralisticamente come le situazioni ideali, le uniche, le divinità
indiscutibili. Ecco quindi che appare subito l’aspetto negativo della faccenda: perché il clown bianco, in questo modo diventa la Mamma, il Papà, il Maestro, l’Artista, il Bello, insomma «quello che si deve fare». Allora l’augusto, che subirebbe il fascino di queste perfezioni se non fossero ostentate con tanto rigore, si rivolta. Egli vede che le «paillettes» sono splendenti; però la spocchia con cui esse si propongono le rende irraggiungibili. L’augusto, che è il bambino che si caca sotto, si ribella a una simile perfezione; si ubriaca, si rotola per terra e anima, perciò, una contestazione perpetua. Questa è, dunque, la lotta tra il culto superbo della ragione (che giunge a un estetismo proposto con prepotenza) e l’istinto, la libertà dell’istinto. Il clown bianco e l’augusto sono la maestra e il bambino, la madre e il figlio monello; si potrebbe dire, infine: l’angelo con la spada fiammeggiante e il peccatore.
Ma in fondo anche il bianco Freud e l’augusto Jung, stando ancora a Hillman che così argomenta: Non si tratta di diventare un clown ma di imparare la sua lezione: farne un’arte delle nostre insensate ripetizioni, dei nostri capitomboli e delle nostre patologizzazioni, indossare la maschera della morte che apre le porte al mondo onirico e osservare come esso trasforma in immagini sorprendenti gli oggetti quotidiani e in oggetto di risate la nostra persona pubblica. Si segue il clown nel circo entrando in una prospettiva di ribellione contro l’ordine del mondo diurno; una ribellione senza causa e senza violenza. Attraverso il clown entriamo nella prospettiva dell’anima fantastica; il clown come psicologo del profondo. Pensate un po’: Freud e Jung, due vecchi clown.
Il set cinematografico e il setting psicoanalitico coincidono sotto la tenda da circo: «È il zirco, se non stai buono ti faccio portar via da quei zingari».
D
Dolce vita
Più di 13.600.000 persone nel corso del 1960 accorrono in sala per La dolce vita di Federico Fellini, che secondo i dati Siae è il sesto tra i film più visti in Italia dal 1950 a oggi nella classifica dominata da Guerra e pace di King Vidor (1955). Tra gli spettatori non mancano i minori di 16 anni, nonostante il divieto della commissione ministeriale, che soltanto nel 1975 sarà abbassato ai minori di 14. I ragazzi, soprattutto in provincia dove il controllo è lasco, s’ingegnano pur di assaporare «il film del peccato» (carta d’identità del fratello maggiore, affabile inganno delle maschere, ingresso clandestino), evocandone quindi le meraviglie con i coetanei che non hanno avuto il coraggio della trasgressione. Alla vigilia, Peppino Amato, il co-produttore del film con Angelo Rizzoli, è facile profeta e se ne esce con un malapropismo dei suoi: «Per questo film l’attesa è sporadica!» (voleva dire «spasmodica»). Il 5 febbraio 1960 l’anteprima della pellicola al Capitol di Milano è l’inizio di una bufera: c’è addirittura chi sputa contro Fellini e, immediate, giungono le richieste di censura da parte ecclesiastica. La sconcia vita e Basta! s’intitolano due anonimi commenti sulle colonne de «L’Osservatore Romano», il quotidiano della Santa Sede, attribuiti al parlamentare democristiano Oscar Luigi Scalfaro, che sarà poi presidente della Repubblica, paradossalmente tacciato di «filocomunismo» nei berlusconiani anni Novanta. Eppure la marcia trionfale del film non si ferma, anzi. Il 20 maggio La dolce vita vince la Palma d’oro del Festival di
Cannes, la cui giuria è presieduta da Georges Simenon, creatore del commissario Maigret e investigatore delle inquietudini esistenziali in romanzi non solo polizieschi, che vede nel riminese Fellini un fratello elettivo. «Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi stessi», recita una battuta della sceneggiatura firmata dal regista con Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi. Nondimeno il grottesco messo in luce dallo sguardo antropologico di Fellini è scambiato per un elogio acritico dell’Italia euforica e mondana nelle stagioni del boom, o «miracolo economico» che dir si voglia. Una svista dovuta al titolo zuccheroso del film, la cui ironia è surclassata dallo scandalo. L’abbaglio di massa permane e non ha risparmiato La grande bellezza di Paolo Sorrentino (2013, premio Oscar nel 2014), opera di evidente derivazione felliniana, considerata un inno al Belpaese del quale, invece, mostra i malinconici trastulli e il sostanziale disfacimento. Nel cinquantenario di La dolce vita «L’Osservatore Romano» ha pubblicato un saggio elogiativo che fa ammenda dell’anatema ecclesiastico e nel medesimo 2010 il grande regista italoamericano Martin Scorsese ha propiziato il restauro del film. Le immagini di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg sono state riconsegnate all’originario splendore del bianco e nero (la fotografia è di Otello Martelli), scandito dalle musiche sublimi di Nino Rota. Ma appare più difficile restituire a La dolce vita la sua autenticità nel merito, che certo non stagna a mollo nella fontana di Trevi in cui la diva Sylvia irretisce il protagonista Marcello Rubini. Questi è un giornalista votato a dissipare sia il proprio talento sia l’idea stessa di notizia, perché Fellini – a ben vedere – pronostica con largo anticipo la commistione tra cronache e gossip o fake
news, in cui da tempo viviamo. A quanto accade per strada, nella via Veneto ricostruita sul set di Cinecittà, il protagonista presta un’attenzione distratta: un ossimoro fecondo perché nell’ozio, nella noia, nell’attesa, nella sua accidia dagli echi oblomoviani alligna un’insolita capacità conoscitiva. Già, Fellini con La dolce vita cambia registro, si accomiata dal neorealismo ben stemperato persistente da I vitelloni (1953) a Le notti di Cabiria (1957), e prende a coltivare una meravigliosa anarchia drammaturgica, una babele di lingue, pensieri, visioni; davvero una «bella confusione», come Ennio Flaiano nel 1963 gli suggerirà – invano – di intitolare 8 ½. Ingannare Thanatos con Eros, instaurare una tregua col tragico: questa è la vocazione sottesa a La dolce vita, che esce pur sempre all’alba del decennio delle rivolte giovanili e delle filosofie decostruttive o psichedeliche, da Feyerabend e Derrida a Leary e Castaneda, che incuriosì molto Fellini. Scrive Brunetta: «Uno dei fondamenti della poetica neorealistica, la tendenza a far coincidere il reale con il visibile, viene tranquillamente superato: il visibile si può aprire a dimensioni molto più vaste del reale». Prima di La dolce vita il regista quarantenne ha vinto due dei cinque Oscar che l’attendono, grazie a La strada (1954, Academy Award nel ’57) e a Le notti di Cabiria (premiato nel ’58), e ora può finalmente consentirsi il lusso di assecondare una divinazione per immagini. La dolce vita nasce dal grembo di «una specie di giungla tiepida, tranquilla, in cui ci si può nascondere bene». È la definizione che Marcello conia di Roma chiacchierando con l’inquieta aristocratica Maddalena (Anouk Aimée), una notte in piazza del Popolo, prima di fare l’amore con lei in casa di una prostituta. Così, nello scandaglio
dell’Italia del 1960, Fellini coglie la nascente comunicazione di massa calamitata dal chiacchiericcio e la crisi delle élite sociali e culturali prossime a disertare per incapacità o disperazione (l’episodio del suicidio dell’intellettuale Steiner). Il Nostro è capace di stare dentro la Dolce vita e al contempo di osservarla in prospettiva, senza indulgenza. Nella sua geniale mescolanza di pettegolezzo e di documentazione «in diretta», di divismo e di vita quotidiana, di spettacolo e di politica, il film riserva più di un’intuizione di quanto si sarebbe inverato decenni dopo. «Io amo la Dolce vita», disse Silvio Berlusconi, colto in castagna, parlando delle sue «cene eleganti» con giovani donne (pagando, s’intende). Nei mesi del 1960 in cui La dolce vita è in cartellone, il quotidiano britannico «Financial Times» conferisce l’«Oscar delle valute» in circolazione alla lira e il reddito nazionale fa registrare un incremento del 5%. Il miracolo economico si nutre anche dell’inurbamento di forza lavoro: milioni di emigranti lasciano le campagne del Sud per le città industriali del Nord, la Torino della Fiat in primis. L’esodo approfondisce il divario territoriale e non sana la storica incompiutezza nazionale, nonostante la Rai-Tv riesca in parte a omologare la lingua (e i costumi sociali, come lamenterà Pasolini). A dispetto della verdiana «forza del destino» che destò il Risorgimento, l’unità italiana tende periodicamente ad assopirsi ovvero a non compiersi. Tuttavia, lo storico britannico Christopher Duggan scorge un’eccezione alla nostra perenne lacuna di patria proprio nella Dolce vita. Vero. Il film diventa un’icona dell’Italian Way of Life, esercita un fascino ipnotizzante all’estero, conia neologismi come «paparazzo» ed è utilizzato per denominare negozi, ristoranti, attività di ogni
genere. È un marchio turistico che ancora funziona, o un «attrattore culturale», per dirla nel gergo dell’euro-burocrazia brussellese oggi in voga. I francesi vantano l’École Nationale d’Administration e un senso dello Stato difficile da pareggiare? Bene, noi replichiamo nell’inglese di una maggiorata svedese la cui nevrosi baltica si annacqua nell’indolenza mediterranea: «Marcello, come here». Il punto di vista di Fellini, fra incredulità e ammirazione, è lo stesso del garzone in bicicletta che nell’alba romana, al bordo della fontana di Trevi, assiste al bagno fatale di Marcello e Sylvia. Una comparsa cui mai nessuno fa cenno descrivendo la celeberrima scena, ma è lì, spettatore/testimone dell’evento, non superfluo nell’economia della narrazione. Già, la magica apparizione acquatica nel cuore della capitale è contemplata in prospettiva da un ragazzo e la sua percezione di quel prodigio è quasi uno straniamento «brechtiano», un modo per prendere le distanze da parte del regista. Non andrà così. Il bagno fatale della Ekberg si oggettiva, si reifica e s’impone su tutto e su tutti, dissolvendo qualsiasi remora. L’Italia diventa il Paese dei Balocchi in cui si possono sperimentare amori passeggeri e grandi passioni, avventure notturne e un domani a occhi aperti. L’icona di Anita Ekberg contraddice le miserie neorealistiche di Vittorio De Sica («i panni sporchi» lavati in pubblico che Andreotti rimproverò a Umberto D. nel 1952) e del «Dottor Rossellino», come una comparsa chiama Fellini in vena di sfottò del suo stesso maestro Roberto Rossellini in Block-notes di un regista. «La dolce vita è una cafonata, è il sogno di un provinciale», decreta sul momento De Sica. «Ma quelli sono i nobili visti dal mio cameriere», commenta dal canto suo Luchino
Visconti, che di nobili s’intendeva, essendo il rampollo della casata patrizia milanese Visconti di Modrone. Entrambi hanno torto. La dolce vita, che molti assumono alla stregua di un’apologia del vizio o del tempo perso tra le braccia di una Roma seducente e paralizzante, riserva piuttosto una panoramica compassionevole sulla «vita agra», come la definirà Luciano Bianciardi, di un paese in bilico tra passato e futuro. Del resto, anche Roma nel film non è soltanto via Veneto o la fontana di Trevi; Roma è margini, borgate, rovine, caos, scenari cari a Pasolini che in quei mesi prepara Accattone fotografando volti e luoghi insieme a Tazio Secchiaroli, cui Federico s’ispira per il personaggio di Paparazzo (Walter Santesso). I quartieri sorvolati nel prologo di La dolce vita danno le coordinate di una città lacerata fra arcaismo e malintesa modernità: bambini che calciano in strade polverose e belle signore al bordo di una piscina sulla terrazza, mentre un elicottero trasporta verso la basilica di San Pietro una statua di Cristo a braccia aperte… La dolce vita, con le sue tre ore di andamento disordinato episodico sincopato, si avvia alla conclusione nei decadenti rituali aristocratici nel castello di Bassano Romano. Poi, ecco l’orgiastico e patetico finale in una villa di Fregene, un crescendo del degrado che soltanto la luce dell’alba interrompe. Marcello e gli altri, ormai stracchi, attraverso una pineta raggiungono il mare, dove trovano la carcassa di un pesce spiaggiato, un mostro con un che della balena di Pinocchio e l’occhio sbarrato da un funebre stupore. Non lontano c’è Paola (Valeria Ciangottini), la ragazzina che Marcello aveva già incontrato in una misera trattoria rivierasca. Lei gli sta dicendo qualcosa, ma lui non riesce a sentire cosa e le replica con una smorfia di imbarazzo.
«Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò che dev’essere autentico è l’emozione nel vedere e nell’esprimere», amava dire Fellini. Il suo cinema, nel controluce della finzione, si accosta al reale con infinita curiosità, senza preconcetti, attento solo a coglierne i chiaroscuri e la vertiginosa bellezza dell’ignoto nel noto: la dolce vita. Post scriptum. Ah, nel film Marcello Mastroianni non indossa il maglione «dolcevita» a collo alto e risvoltato («da non confondersi col lupetto», specificano le riviste di moda). Ma tutto il mondo è convinto del contrario e leggerete ovunque che il nome deriva dal film. Il che naturalmente è falso, quindi fellinianamente vero.
E
Ekberg
È carnale ed è «tanta», in un contesto ancora soggiogato dall’idea della scarsità postbellica, eppure è celestiale, lattea e con un sentore di divinità in terra o almeno di «marziana a Roma», per parafrasare un titolo a venire di Ennio Flaiano. È la diva Sylvia in La dolce vita del 1960, una presenza mistica e mondana nel contempo. A darle corpo – come sanno persino i sassi di Marte – è la svedese Kerstin Anita Marianne Ekberg, nata a Malmö il 29 settembre 1931 e scomparsa a Rocca di Papa, nei Castelli romani e prenestini, l’11 gennaio 2015. La celeberrima scena del bagno nella fontana di Trevi, pochi anni dopo il giro in Vespa di Audrey Hepburn con Gregory Peck in Vacanze romane di William Wyler (1953), rifonda il fascino turistico di Roma e dell’Italia intera nel lungo dopoguerra italiano. La Roma di Anita Ekberg non verrà aggredita neppure dal Sessantotto, che, anzi, dell’eros libertario farà l’ultima spiaggia su cui assistere al «riflusso» (alzi la mano chi se lo ricorda il «riflusso», quante parole perdute…). Così, il connubio Roma-Anita attraversa l’agonia tricolore di fine Novecentopoli, scollina il principio del nuovo millennio e tutto sommato resiste fino a oggi, nonostante il degrado capitolino e le cento vacue imitazioni, artistiche, protestatarie o paradivistiche, di quel lavacro leggendario (da ultimo si è cimentata Valeria Marini, sebbene nella Barcaccia di piazza di Spagna, chissà perché, beccandosi una multa di 550 euro). Le buche nel manto viario sono divenute l’emblema del declino dell’impero romano d’accidente/incidente/niente, vieppiù
pensando alle strade consolari dai sanpietrini intatti dopo un paio di millenni, eppure l’Urbe resta una calamita per la neozelandese in solitario tour europeo o per lo scrittore americano in viaggio di bozze con signora. Ebbene sì, il merito è anche di Anitona, l’accrescitivo che è un lenitivo. Visione onirica e incarnazione del desiderio in grado di ipnotizzare Marcello Mastroianni. Un candore niveo l’ammanta e intorno a lei aleggia una distanza siderale dalle vicende quotidiane, all’apice nel momento in cui Sylvia «battezza» Marcello con alcune gocce dell’Acqua Vergine, l’antico acquedotto romano che alimenta la Fontana di Trevi, dopo averlo attirato – sirena bionda – nel vascone di matrice berniniana: «Marcello, come here». Sospettiamo che in sceneggiatura non vi fosse il punto esclamativo; non è un ordine, infatti, però neppure un semplice invito: è la promessa di una beatitudine impossibile da disattendere. La diva che nel film s’inerpica sulle scale della cupola di San Pietro indossando un cappello da sacerdote e alle Terme di Caracalla danza a piedi nudi al ritmo della voce rock del giovanissimo Adriano Celentano che canta Ready Teddy di Elvis Presley, è un’irruzione perturbante nelle stagioni iniziali del boom. Anita è un nome garibaldino, la sposa fedele e sfortunata del Generale, ma al contempo è una Miss Svezia («Miss, mia cara miss», cantava Totò) discesa «dalla montagna di ghiaccio» delle nubili di cui narrano le leggende popolari della sua Malmö, la città più importante della Svezia meridionale. La trentenne fatale proviene da Hollywood e incarna un archetipo incestuoso, un fantasma della libidine maschile senza confini. Così, in uno storico disco del 1963, The Freewheelin’ Bob Dylan, il menestrello americano canta
Blowin’ in the wind, ma anche I shall be free che propone un dialoghetto immaginario col presidente Kennedy. L’«amico John» chiede cosa serve «per far crescere il paese» e Bob gli risponde laconico: «Brigitte Bardot, Anita Ekberg, Sophia Loren». Eccolo, il miracolo economico. Oltre mezzo secolo dopo, nel gennaio 2015, mentre Parigi è in piazza contro il terrorismo islamista che ha colpito la sede del giornale satirico «Charlie Hebdo» (12 morti e 13 feriti), su Twitter fa furore la frase C’est Wolinski qui va être content d’accueillir Anita Ekberg là-haut… Ironia amara e libertina: Wolinski, il disegnatore tra le vittime della strage in redazione, felice di accogliere lassù l’attrice appena scomparsa. Nel 1962 Fellini ripropone Anita Ekberg in Le tentazioni del dottor Antonio, episodio di Boccaccio ’70. Concepito con intenti beffardi verso i critici più severi di La dolce vita, il film è centrato sugli incubi che il sex appeal di un manifesto pubblicitario suscita in Peppino De Filippo/dottor Antonio Mazzuolo, censore pugnace della libertà dei costumi nell’Italia in impetuosa crescita. Una gigantesca Anita «scende» dal cartellone nello scenario metafisico dell’Eur e s’incarna per sedurre Antonio, irriso da un ritornello bambinesco: «Bevete più latte / il latte fa bene / il latte conviene / a tutte le età». Un tintinnio in stile Carosello elaborato da Nino Rota che suona come un de profundis per il moralismo e sarà poi citato da Nanni Moretti nel suo film più commovente, Mia madre (2015). D’altronde, già da qualche tempo la pubblicità televisiva andava diffondendo un aroma di trasgressione all’ora di cena grazie alle bionde chiome di Virna Lisi che «con quella bocca può dire ciò che vuole» e della stessa Ekberg, icona
spumeggiante in favore di profumatissime saponette e di una birra al fianco di Fred Buscaglione «dal whisky facile». Lo stesso Buscaglione che si prende una cotta per lei e muore a 38 anni in un incidente d’auto dopo un’esibizione in un locale di via Veneto e, si vocifera, un fugace passaggio dalla Ekberg. È la notte tra il 2 e il 3 febbraio 1960, la stessa in cui al cinema Fiamma danno in anteprima La dolce vita. Sono tutti pazzi per Anita, non esclusi Gianni Agnelli con cui vive «un segreto bellissimo per anni», Frank Sinatra che avrebbe voluto farne la sua terza o quarta moglie e Dino Risi che la corteggia invano, mentre va a rotoli – e vorrei vedere – il matrimonio della Ekberg con l’attore londinese Anthony Steel. La «bella bisteccona» svedese eccita la capitale magmatica e febbrile, con caratteristiche popolari da una parte e, dall’altra, le scorribande sperimentali di artisti quali Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Cy Twombly, Mario Schifano, Pino Pascali… Una città immortalata in quegli anni dall’obiettivo dissacrante e «felliniano» di William Klein. In La dolce vita Anita discende la scaletta dell’aereo come una novella Wanda Osiris sulla pista di Fiumicino affollata di fotografi e giornalisti. Poco dopo le chiedono cosa mai indossi quando va a letto. «Due gocce di profumo francese», è la replica copiata da una proverbiale frase della Monroe che nei primi anni Cinquanta ha reso eterno lo Chanel N° 5. «Cosa sa dire in italiano?» – «Amore, amore, amore», è quasi una citazione della connazionale Ingrid Bergman che nel 1949 aveva sedotto Rossellini scrivendogli la famosa lettera: «In italiano so dire solo ti amo». «Qual è stato il giorno più bello della sua vita?» – «È stata una notte, caro». È fatta. In poche battute Fellini ha
creato un mito e un mostro, una sintesi perfetta tra la bella e la bestia: la «pantera» Anita Ekberg che continuerà a farsi domare soltanto da Federico almeno fino a I clowns (1970). E la pantera il 20 ottobre 1960, armata di arco e frecce, non esiterà ad «attaccare» i paparazzi in sosta oltre i cancelli della sua villa di Genzano, dove era felice di vivere con gli amati cani, fra i quali, nel corso del tempo, il pastore tedesco Taurina e «Hamai, l’alano più bello del mondo». Ballando sul motivetto di Arrivederci Roma, Mastroianni nel film le sussurra: «Tu sei tutto, Sylvia. Ma lo sai che sei tutto? You are everything, everything! Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione, sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa…». Nel buio, Anita ulula. È la lupa del Campidoglio venuta dal Grande Nord, una martire del peccato alla maniera di Verga. Fellini dirà: «Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è fosforescente». La febbre collettiva per Anita assume allora il valore di una proiezione collettiva di cupidigia che è anche una sospensione della realtà. È scoccata la Dolce vita. Nella luce artificiale di questo mito, lo scandalo e l’innocenza sono indistinguibili, si tengono per mano e conducono il paese oltre le miserie postbelliche, fuori dalla fame, verso un’industrializzazione e uno sviluppo che costituiscono il calco originario di quello che siamo diventati. Ma è un mito, appunto, come Fellini invano tentò di far intendere. Anita Ekberg è morta poverissima e anche il paese da un pezzo non se la passa tanto bene.
F
Flaiano
La storia è sempre «contemporanea», secondo Benedetto Croce. Ma anche la letteratura non scherza: ci sono autori ad orologeria destinati a far brillare un tempo postumo del quale avevano intuito e presagito la filigrana, le contraddizioni e, ma sì, lo spirito. Succede con Ennio Flaiano: «Fra trent’anni – pronosticò – l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione». Detto, fatto. Nelle sue pagine s’annida dunque un sorprendente e inquietante piacere riservato al lettore d’oggi: riconoscersi grottesco e smarrito, tuttavia rischiarato da un lampo di coscienza nell’orizzonte tragicomico degli eventi. Sempre che non goda del privilegio di assopirsi. Per Flaiano infatti il pisolino è lo stigma della perfezione davanti all’opera teatrale o musicale, e, meditando di raccogliere le sue recensioni, scelse il titolo Lo spettatore addormentato (il volume appare postumo per Rizzoli nel 1983). Nato a Pescara nel 1910, scompare a Roma nel 1972. Flaiano post mortem è stato trascurato o sottostimato dalla critica letteraria con le rare eccezioni di Geno Pampaloni, Cesare Garboli, Giorgio Manganelli, Enzo Siciliano, Emma Giammattei, Giuseppe Rosato ed Elisabetta Sgarbi. Tuttora le antologie scolastiche stentano ad annoverarlo tra i novecentisti maggiori. D’altro canto, egli venne presto consegnato alla dimensione del calembourista principe nelle stagioni pirotecniche del boom e ai repertori cinematografici, donde lo sottrasse con sistematicità la filologa Maria Corti. Sul finire degli anni Ottanta del Novecento, Corti ne propose l’opera
omnia in due volumi dei Classici Bompiani, curandola insieme all’allieva Anna Longoni, la quale sta proseguendo l’appassionato lavoro per le Opere scelte edite da Adelphi. Insomma, Flaiano merita ben più delle fugaci citazioni nelle polemichette di rito precedenti o successive al premio Strega, di cui inaugurò l’album dei vincitori nel 1947 con Tempo di uccidere. È il suo primo e unico romanzo, in parte autobiografico, sull’avventura in Etiopia come ufficiale di complemento del Genio, tra l’ottobre 1935 e il novembre ’36. Possiamo dirlo? Un capolavoro. Si scuserà il ricorso all’iperbole abusata ogni giorno nelle pagine culturali, per non parlare dei social, ma è così. Tempo di uccidere è un allucinato, dolente, straniato scandaglio di un mal d’Africa inestirpabile perché proveniente da un più radicale mal d’Italia. Nessun esotismo. Lo scenario è primordiale e feroce, innocente e sanguinario: l’Africa è una specie di «America» più profonda e cosmogonica rispetto a quella di Elio Vittorini e Cesare Pavese, di Emilio Cecchi e Mario Soldati, che negli stessi anni – prima e dopo la guerra – cercavano oltreoceano le vie di fuga dall’autarchia, dal provincialismo e da una regressione culturale che è un morbo nazionale. Annoterà Flaiano nel suo Taccuino del 1956: «Un giorno il fascismo sarà curato con la psicoanalisi». Il protagonista e io narrante di Tempo di uccidere è un tenente sospeso su un confine quasi beckettiano, lungo il quale per esempio un camaleonte si aggira con una sigaretta in bocca! Durante una licenza per curarsi il mal di denti – sognando il rimpatrio e il ritorno dalla promessa sposa – il tenente si perde nell’altipiano, dove viene folgorato da un’epifania femminile al lavacro in un fiume: Mariam, come
decide di chiamarla. La ama subito, giace con lei sotto le stelle e la uccide per sbaglio nella stessa notte, allorché è colto dal panico per un gioco d’ombre. Mira a una fiera, colpisce Mariam. Lo smarrimento dell’italiano in divisa è sopraggiunto cercando «la scorciatoia», ma non ve ne saranno mai più, di scorciatoie; le strade di polvere dilungano l’enigma e il tormento di un paradossale nostos. Il tenente continua a girovagare ossessionato dal delitto e intanto viene assalito dal dubbio che Mariam gli abbia trasmesso la lebbra. Non lo confortano, anzi, lo turbano ancora di più gli incontri di un’odissea beffarda tra Poe e il ridicolo. A Massaua appare prossimo all’imbarco clandestino per l’Italia (sarebbe naufragato a Lampedusa ante litteram?), quando viene risucchiato dal terragno abisso africano. Tutto depone per la sua crisi e l’aggrava: è una febbre scettica, è un divoramento del senso, in primis linguistico, nel corpo a corpo con la vacuità della parola e i silenzi interiori o quelli degli indigeni. Una lotta che prelude allo sminuzzarsi del logos nel Flaiano successivo, nel mordace campione del breviloquio e del mot d’esprit. Il romanzo è la storia di una diserzione esistenziale dal fascismo, che laggiù vagheggiò il suo impero straccione, ma non da sé stessi, dal proprio volto bruciato (altro che «faccetta nera dell’Abissinia») e da un destino iscritto nel principio. L’afflato biblico è esplicito fin dal titolo, Tempo di uccidere. Allo Strega il libro si impose fra gli altri su La romana di Alberto Moravia, che sarebbe stato uno dei bersagli del Flaiano epigrammista: «Il gatto di Moravia sta facendo le fusa, / arriva e se lo mangia il Gattopardo di Lampedusa». Naturalmente – come usava allora e sempre dovrebbe –
l’ironia rima con l’empatia e quando La romana nel ’54 diventa un film di Luigi Zampa, la sceneggiatura porta le firme di Moravia e di Flaiano, più quella di Giorgio Bassani. Tempo di uccidere vide la luce in meno di tre mesi, perché il giornalista e neo-editore Leo Longanesi, lo «strapaesano» impegnato a pubblicare Caldwell e Isherwood (ne avessimo ora di «strapaesani» in tal guisa), aveva urgenza di un romanzo italiano da mandare in vetrina e incalzò Flaiano: «Se comincia subito le do un anticipo». La guerra d’Africa è anche un «alibi» per la somma indolenza di Flaiano. Richiamato alle armi, non si laurea in Architettura a Roma a qualche esame dal traguardo e il diploma del liceo artistico resterà il suo ultimo titolo di studio. L’abruzzese irrequieto e caparbio era l’ultimo di sette figli, cresciuto senza il padre che lasciò la famiglia poco prima della nascita di Ennio, e gli toccò un’adolescenza da convittore nomade di collegio in collegio, da Fermo a Brescia fino alla capitale. Ricorda nel Diario notturno: «Nei miei ritratti infantili mi colpisce uno sguardo di rimprovero, che non può essere diretto che a me. Sarei stato io la causa della sua futura infelicità, lo presentiva». Come che sia, attraversa gli anni Trenta fra bohème di prammatica (con ottima grammatica) e timida fronda. Per distanziarsi dal regime, infatti, c’era almeno il cinematografo. In barba all’enfasi sull’«arma più forte» mussoliniana, recensire un film consentiva il lusso di «parlare d’altro». Flaiano diventa critico cinematografico e teatrale, sceneggiatore e drammaturgo. Aveva un bisogno disperato di soldi anche per badare alla figlia Luisa venuta al mondo nel 1942, gravemente ammalata sin da piccola. «Lèlè» la chiama lui in un diario paterno dai toni tenerissimi, ilari e via via più
struggenti: «Quando piange urla “lè-lè” a intervalli regolari. Si è affacciata l’ipotesi che chieda del latte in francese». Luisa sarebbe morta nel 1992 a Lugano, dove la madre Rosetta Rota (1911-2003, nessuna parentela col compositore Nino Rota) scelse di trasferirsi, quasi in esilio dall’Italia ingrata verso il talento del marito. A Lugano hanno sede la Fondazione Luisa Flaiano titolare degli inediti e, presso la Biblioteca Cantonale, l’Archivio Prezzolini diretto da Diana Rüesch che dall’85 custodisce il Fondo Flaiano. La signora Rota, originaria di Vigevano e laureata in Matematica, a Roma collaborò con i leggendari ragazzi di via Panisperna riuniti intorno al Nobel per la fisica Enrico Fermi (Amaldi, Segrè, Pontecorvo, Majorana) e nel dopoguerra insegnò nell’università di Napoli. Rosa sposa Ennio nel 1940, ne tollera le fughe e i tradimenti malcelati, nonché le micidiali punture di spillo: «In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All’occorrenza, essere capaci di andare a letto con la propria moglie». Dopo la Liberazione Flaiano è «redattore capo, anzi cupo» di «Il Mondo», il settimanale concepito nel 1949 dal «fratello maggiore» Mario Pannunzio, il giornalista toscano che nel 1943 aveva fondato in clandestinità il «Risorgimento liberale». Questi è un altro pugnace minoritario nell’Italia degli eterni guelfi e ghibellini avviluppati nella lotta, sovente per pagnotta, talora con mignotta. I due, oltretutto nati nel medesimo giorno, mese e anno, il 5 marzo 1910, si stimano e si vogliono bene dacché Pannunzio commissionò a Flaiano nel 1931-32 i primi articoli, brevi recensioni letterarie, per la rivistina «Oggi», da non confondersi con l’ebdomadario che il medesimo Pannunzio e Arrigo Benedetti avvieranno nel 1939.
Nella redazione di «Il Mondo» le amicizie – o le improvvise inimicizie – contano non meno dell’identità laica, venata di radicalismo, terzista fra i democristiani maggioritari nelle urne e i comunisti egemoni nella nascente industria culturale. Si impaginano articoli di Ernesto Rossi, Giovanni Spadolini, Enzo Forcella, Antonio Cederna, Tommaso Landolfi, Vitaliano Brancati, Sandro De Feo, Eugenio Scalfari, per non parlare degli anziani maestri Benedetto Croce e Gaetano Salvemini (dall’estero collaborano Thomas Mann e George Orwell). Li accusarono di snobismo, forse perché sospettosi della massificazione incipiente. «Mi si avvicina Mino Maccari e mi dice: “Ho poche idee, ma confuse”», trascrive Flaiano sussumendo un’epoca tuttora inconclusa. Quelli del «Mondo» sono «una schiacciante minoranza»… Di Flaiano in vita escono soltanto sette libri. Oltre a Tempo di uccidere, sono la raccolta di frammenti e apologhi Diario notturno (Bompiani, 1956), Un marziano a Roma (Einaudi, 1960), il dittico narrativo di Una e una notte (Bompiani, 1959), Il gioco e il massacro che contiene i racconti lunghi Oh Bombay! e Melampus (Rizzoli, 1970), il volume teatrale Un marziano a Roma e altre farse (Einaudi, 1971), e una silloge degli elzeviri intitolata Le ombre bianche (Rizzoli, 1972). Non sono tanti, meno di quelli apparsi dopo la sua morte, per lo più raccolte di schizzi, adagi, satire e recensioni, per esempio L’uovo di Marx (Scheiwiller, 1988). Bastano a fare dell’autore un modello del secolo scorso? Sì, è «un piccolo maestro postumo», sostiene Arbasino. In dispetto perfino di sé stesso, aggiungiamo. Certo, lui disdegnerebbe il titolo, sbertucciandolo su un foglio di via Veneto, con una battuta delle sue da Café Doney o de Paris: «La vita è un Hemingway
inimitabile»; «L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori»; «Ha fatto un altro film? Non vedo l’ora di perdermelo!». Tuttavia il carattere aforistico, frammentario, esperienziale, diaristico, assorto e caustico delle note sparse e dei pezzi facili (in apparenza, facili), quel carattere da lacerto agile e sfuggente quando non si bea al sole è pur sempre epigonico di un canone italiano – lo Zibaldone di pensieri di Leopardi – che spesso dimentichiamo di poter giocare nella comparazione letteraria europea. Il provinciale Flaiano, inurbatosi precocemente rispetto ai «vitelloni» del dopoguerra, adotta la prospettiva dell’«inazione», lemma leopardiano per eccellenza, che s’incarna in Marcello Rubini (Mastroianni), protagonista di La dolce vita. Marcello, che si sarebbe ben potuto chiamare Ennio, è tanto ozioso quanto vigile nel cogliere un umore, un passaggio e una «notizia» sul fronte di via Veneto. Il suo fascino sensuale è afflitto da una noia incurabile, del resto coerente con l’orizzonte nazionale: «L’Italia? Un enorme mostro di noia», dirà Flaiano poco prima di morire. Ma perdere tempo davvero equivale a perdersi? Per gli autori di La dolce vita l’inerzia è una virtù o un antidoto plausibile al tedio. Longoni riscontra l’elemento salvifico dell’accidia in Flaiano e ne ricorda la predilezione per un aforisma di Jules Renard: «La vita è corta, ma la noia l’allunga». A proposito di arte e vita, una volta gli chiedono quale opera salverebbe se il Louvre andasse a fuoco e lui, d’istinto: «Quella più vicina all’uscita». Atrabiliare in primis verso sé stesso, per esempio quando predice la voce «Flaiano» di un’immaginaria enciclopedia del 2050: «Giornalista e sceneggiatore, autore anche di un romanzo, Tempo di morire. Scrittore minore
satirico dell’Italia del Benessere». Lo ricorda Leonardo Sciascia in Nero su nero, facendo notare la sublime autocitazione errata: Tempo di morire, invece di Tempo di uccidere. Eppure è il cinema, sul quale pesa il sospetto crociano verso la «roba» poco o punto grave, ad aver lungamente velato Flaiano, reo di incassi al botteghino e di un’insuperabile freddura nella quale non pochi debbono essersi riconosciuti: «L’insuccesso mi ha dato alla testa». Egli sceneggia non solo le pellicole felliniane da Luci del varietà (regia a due con Lattuada, 1951) fino a 8 ½ (1963) e a Giulietta degli spiriti (1965), ma anche un exploit di Marcello Pagliero dell’immediato dopoguerra, Roma città libera (La notte porta consiglio), e alcune fortunatissime commedie anni Cinquanta di Steno e Monicelli (Guardie e ladri, Totò e Carolina) e di Blasetti (Peccato che sia una canaglia, tratto da Moravia, e La fortuna di essere donna; entrambe con l’aurea coppia LorenMastroianni). Flaiano contribuisce, fra molti altri, a film di Rossellini, Eduardo De Filippo, Majano, Risi, Quilici, Pietrangeli, Emmer, Berlanga, Petri, Deray e al Tonio Kröger di Thiele dal racconto di Thomas Mann. Così, l’ombra bianca dello schermo s’allunga a infirmare la qualità dello scrittore, oltretutto aforista. Il che tradisce la persistenza di un’idea del «letterario» a dir poco scolastica: soltanto il Romanzo – maiuscolo, di derivazione ottocentesca e magari francese o russo – meriterebbe lo statuto di letteratura. Eppure già nei primi anni Sessanta Arbasino, Sanguineti e Balestrini considerano La dolce vita e 8 ½ di Fellini, con La notte di Michelangelo Antonioni, i capitoli vivi della cultura italiana. Parimenti sceneggiati da Flaiano, questi film mostrano l’Italia
del miracolo economico quale un mosaico in frantumi. «La civiltà del benessere porta con sé proprio l’infelicità», sentenzia Flaiano. E sul «Corriere della Sera» il 13 marzo 1969 annota: La stupidità ha fatto progressi enormi. È un Sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé.
Sembra o no vergata poco fa, magari per glossare certe performance elettorali su Facebook? Invero è Flaiano il Marziano a Roma dell’omologa pièce. Motteggia per non morire di noia. Milita nella Dolce vita perché, con Bianciardi, trova che la vita sia «agra». Alla vigilia dell’uscita di quel film epocale, ne scrive a Enzo Forcella: Vuotando il bicchiere abbiamo visto che in fondo c’era il verme. Ognuno ha reagito secondo la sua natura: chi ha ingollato anche il verme, chi ha gettato via il bicchiere, chi ha vomitato. Io continuo a vomitare. Ma senza recriminazioni. Non mi è restato che la libertà di capire e il conforto di amare il prossimo per quello che mostra di essere, senza più giudicarlo, nella certezza che la disperazione è nell’animo di tutti, come nel nostro, e che viene «da più lontano».
Flaiano litigherà con Fellini per futili motivi (la miccia sarebbe stata un posto in economy sul volo per gli Usa in occasione dell’Oscar a 8 ½, mentre Federico viaggiò in business), riconciliandosi qualche anno dopo in nome della «vecchia amicizia che ci disunisce». Il titolo dell’ultima opera,
rappresentata al Festival dei Due Mondi di Spoleto nell’estate del 1972, pochi mesi prima della morte – La conversazione continuamente interrotta – esprime la sfiducia in una drammaturgia salda e tetragona, impermeabile alla realtà. Flaiano invece è poroso, permeabile, assorbe e restituisce senso e nonsenso attraverso il suo «intuito randagio». Un intellettuale di specie rara, un satiro malinconico rassegnato al futuro: «Coraggio, il meglio è passato».
G
Giulietta
G come Giulietta, tenera e piccola, fedele al diminutivo battesimale fin sulla soglia del mistero. «Non voglio sapere cos’ho», diceva del mostro che l’avrebbe stroncata il 23 marzo 1994. Aveva il cancro, Anna Giulia Masina, per tutti Giulietta e per Fellini «Giuliettina», ma forse si sarà ricordata delle divagazioni del marito scomparso solo cinque mesi prima, che spesso ammoniva sul potere salvifico della finzione: le bugie come via di scampo da realtà crudeli. «Era serena e non ha sofferto molto», rivelarono la sorella minore Mariolina, il nipote radiologo Riccardo Tavanti e il medico di famiglia Gianfranco Turchetti, i pochi intimi che da settimane ne custodivano l’esile figura adagiata in un letto della clinica Columbus di Roma. Sin da prima del calvario ospedaliero di Fellini, nell’ottobre del 1993, Giulietta era apparsa provata da qualcosa di oscuro e di implacabile, che era stato facile attribuire al dolore per il primo ictus del regista, nell’agosto di quell’anno. Aveva diradato le inseparabili sigarette, unico vizio di una donna orgogliosamente virtuosa (nella casa di via Margutta 110 un salotto conteneva il fumoir riservato a lei), sempre confortata da un’educazione cattolica molto salda, che fra l’altro nel 1980 le fa incidere a due voci con Romolo Valli un disco delle poesie di papa Wojtyla. In un’intervista che Fellini concede poco prima della fine gli chiedono se abbia mai pensato a Dio. «Perché, è mai possibile pensare ad altro?», risponde. Padre Angelo Arpa, gesuita cinefilo e amico della coppia, dirà:
Fellini è altamente cristiano, ma è estraneo, più che ribelle, estraneo al dogmatismo di un Cristianesimo storicamente codificato. Ne sono certo: il Signore riconosce i suoi prediletti. Lui lo era, come i bambini. Al suo funerale abbiamo letto questo: «Se non diventerete come i bambini non entrerete». Insieme con la fede di Giulietta è il suo lasciapassare.
Giulietta viene al mondo il 22 febbraio 1921 a San Giorgio di Piano, a 20 chilometri da Bologna, un anno e un mese dopo l’uomo della sua vita. È la prima di quattro figli in una famiglia piccolo-borghese, la mamma Angela Flavia Pasqualini è un’insegnante elementare nella scuola di San Venanzio di Galliera, il papà fa il cassiere in una fabbrica della Montecatini, ma è anche violinista e liutaio. I suoi acconsentono a mandarla a Roma quando è ancora una bimbetta perché conviva con una zia rimasta vedova, Giulia Sardi, appartenente alla famiglia lombarda proprietaria del Calzaturificio di Varese e appassionata di teatro, tanto che già nel 1925 porta la nipotina su un palco affinché veda da vicino un certo… Luigi Pirandello. Nella capitale papalina e fascista Giulietta studia dalle Orsoline e abita nella bella casa di zia Giulia ai Parioli, in via Lutezia 11, la stessa in cui verrà celebrato il «matrimonio di guerra» con Federico. La Masina comincia ad appassionarsi allo spettacolo bazzicando compagnie teatrali universitarie e dopo la laurea in Lettere, in pieno conflitto, mette piede negli studi della favolosa Eiar nel Palazzo della Radio di via Asiago 10, un orgoglio del regime progettato da Carlo Marchesi Cappai, ancora oggi sede Rai. La giovane attrice interpreta le scenette comiche della coppia di fidanzatini Cico e Pallina in una rubrica intitolata Terziglio, varata nel settembre del 1942. Pallina naturalmente è lei, Cico
ha la voce di Angelo Zanobini. Il fantasioso autore dei testi è il dinoccolato, allampanato e affamatissimo Federico con dimora romana ben più modesta in un residence di via Nicotera 26, che la ragazza è felice prima di saziare con porzioni extra di tagliatelle o tortellini e quindi di sposare, sabato 30 ottobre 1943. Il fascismo è caduto, ma quello è un giorno di coprifuoco come gli altri nella Roma città aperta che nel 1945 darà il titolo al capolavoro di Roberto Rossellini, grazie al quale l’anno successivo il ventiseienne Fellini, incredulo, riceve la prima nomination all’Oscar per la sceneggiatura insieme con Sergio Amidei, più esperto e impegnato politicamente a sinistra (la statuetta per lo screenplay fu poi vinta da I migliori anni della nostra vita del commediografo Robert E. Sherwood, con la regia di William Wyler). Roma è occupata dai tedeschi e sabato 16 ottobre 1943 le squadre speciali della Gestapo hanno circondato e rastrellato il Ghetto: saranno 1.023 gli ebrei romani deportati nei campi di sterminio in Germania e in Polonia, donde ne torneranno 16, nessuno dei circa 200 bambini catturati. Intanto si moltiplicano le azioni resistenziali, come l’assalto del 20 ottobre al Forte Tiburtino presidiato dalle SS: i partigiani di Pietralata della formazione «Bandiera Rossa» vengono respinti e 9 di loro giustiziati due giorni dopo con un colpo alla nuca, insieme a una decima vittima, un ragazzo di 14 anni che passava per caso in bicicletta nella zona dell’eccidio, nei pressi di Rebibbia. Questa è la temperie in cui Federico e Giulietta si sposano. I testimoni sono l’attore Vittorio Caprioli per lei e il pittore Rinaldo Geleng per lui. Giuliettina in persona prepara le lasagne e la zuppa inglese per il pranzo nuziale e Federico ha disegnato la partecipazione raffigurandosi con una testa a forma di cuoricino, come ha raccontato in anni recenti la
nipote Francesca Fabbri Fellini, figlia di Maddalena, la sorella del regista. In «viaggio di nozze» vanno al cinema Galleria in piazza Colonna – scrive Tullio Kezich nella sua biografia felliniana – dove è di scena Alberto Sordi, che avrebbe dovuto fare da testimone di Federico, ma non si presentò perché aveva lo spettacolo pomeridiano. Accorgendosi dell’arrivo della coppia in platea, Sordi invita ad accendere le luci in sala e chiama l’applauso: Si è sposato proprio oggi il più grande amico mio, io non sono potuto andare al suo matrimonio e allora è venuto lui qui in teatro. Si chiama Federico Fellini, è un grande umorista e un giorno forse sarà un regista. Non so se lo diventerà, ma il vostro applauso sarà sicuramente di buon auspicio per lui.
L’Urbe era anche questa immediatezza o disponibilità al sodalizio colto e popolano al tempo stesso, in auge nel cinema, nelle lettere e nell’arte fino agli anni Settanta, come documenta Sandra Petrignani nel suo libro Addio a Roma. Meno di un anno dopo, Giulietta perde un bambino cadendo per le scale. Porta a termine una seconda gravidanza il 22 marzo 1945, dando alla luce Pierfederico detto Federichino, che, colpito da encefalite letargica, muore undici giorni dopo, il 2 aprile. Oggi è sepolto con il papà e la mamma nella tomba monumentale del cimitero di Rimini, una scultura bronzea di Arnaldo Pomodoro a forma di prua su una lama di acqua, che evoca il Rex. Il dolore per quella perdita cementa l’unione di Giulietta e Federico, il Maestro Giocoliere e la sua buffa compagna. Già, la «clownerie» di Giulietta, Female-Chaplin come la definirono i britannici dopo che l’immenso Charlot ebbe a dichiarare: «È l’attrice che ammiro di più». A lei in
principio non andò affatto bene che Federico la rendesse grottesca imbruttendola in La strada (1954), nel quale è Gelsomina, orfanella lunare e stupefatta che girovaga per paesi e campagne col rozzo Zampanò-Anthony Quinn. Oltretutto, non deve essere stato confortante per la giovane moglie che il coniuge cominciasse a essere attorniato e lusingato da fantasmagoriche carnalità, anche se Fellini non tradirà mai il cuore e la fiamma della loro relazione. Una storia d’amore intensa come una promessa contro la morte: «Tu sai di essere veramente la mia vita… Tu soltanto mi fai tornare sereno e sai farmi veramente compagnia, sempre insieme dolce Giulietta. Auguri di mille stagioni con me». Sono stralci delle lettere inedite di Fellini inviate alla moglie nel 1992 e rese pubbliche solo dopo la scomparsa di Mariolina, la sorella di Giulietta, che le aveva in custodia. Per non parlare delle «fughe d’amore», come le definirono i giornali, nell’estate e nell’autunno del 1993, quando Federico si fa portare con una spaziosa autovettura, di quelle a noleggio per le esigenze del set, da Ferrara, dove era ricoverato, a Roma, pur di trascorrere qualche ora con Giulietta, che a sua volta sta male. Pochi giorni dopo è lei a ricambiare, recandosi a Ferrara nonostante la chemioterapia in corso. La Masina era apparsa sul grande schermo per la prima volta nel 1946 in Paisà di Rossellini, co-sceneggiato da Fellini che ne è anche aiuto regista. Il film ripercorre in sei episodi l’avanzata degli Alleati angloamericani dalla Sicilia al Po e costituisce il seguito ideale di Roma città aperta, girato a pochi mesi dai tragici eventi che racconta. «Creare Paisà – scrive lo storico John Foot – fu in un certo senso una rinascita. La materia prima del film venne raccolta tra le macerie».
Giulietta, che Rossellini chiama «Patatina» (altro diminutivo), è una comparsa non accreditata nei titoli di coda di Paisà: scende le scale quando la coppia protagonista lascia di corsa l’appartamento fiorentino in cerca del partigiano Lupo (scena girata nel palazzo romano di via Lutezia 11, grazie al placet di zia Giulia). Nell’episodio di Firenze si vede il cinquecentesco Corridoio del Vasari, realizzato per gli spostamenti di Cosimo de’ Medici tra Palazzo Pitti e la Galleria degli Uffizi, che i partigiani percorrono per attraversare la linea dell’Arno nella città occupata dai nazisti nel 1943-44. Al numero 14 di piazza de’ Pitti su cui si affaccia il Palazzo, in quei mesi di guerra si nasconde lo scrittore, pittore e medico Carlo Levi, ebreo torinese e antifascista, ospite della partigiana Anna Maria Ichino, con la quale Levi intreccerà una relazione amorosa mentre scrive con un lapis Cristo si è fermato a Eboli, una memoria del suo confino in Lucania di otto anni prima. Il Cristo esce nel 1945 per Einaudi e già nel ’48 Fellini cerca di comprare i diritti per farne un film, che invece sarà realizzato soltanto nel 1979 da Francesco Rosi. Anche Federico fa una comparsata in Paisà, nell’episodio romano, mentre Carlo Pisacane, il «Capannelle» de I soliti ignoti di Mario Monicelli (1958) e di tante altre pellicole di successo, appare in una minuscola parte nell’episodio siciliano. Paisà è insomma un’opera germinale del neorealismo italiano, che gli americani chiamano Paisan e del quale nel 1949 candidano la sceneggiatura all’Oscar, ma per Fellini neppure quella è la volta buona (vincerà un altro film di guerra, Bastogne, scritto da Robert Pirosh, con la regia di William A. Wellman). Intanto Giulietta nel ’48 è stata valorizzata da Alberto Lattuada in Senza pietà e nel 1950 è tra le ragazze di Persiane
chiuse di Luigi Comencini, che si inserisce nel dibattito per l’abolizione dei postriboli avviato dalle prime proposte parlamentari della senatrice socialista Lina Merlin (bisognerà attendere il 1958 affinché venga approvata la legge che porta il suo nome, tutt’oggi vituperata dall’Italietta maschietta). Ancora, nel 1951, la Masina figura nella parte della soubrette Melina illuminata dalle pallide Luci del varietà, film diretto da Lattuada e dall’esordiente co-regista Fellini. Eccola quindi in Lo sceicco bianco, l’autentica opera prima di Federico, dove si presta a una fugace apparizione nei panni della prostituta Cabiria. Un nome quasi «profetico» per la Masina, che grazie all’elegia da marciapiede di Le notti di Cabiria nel 1957 vincerà il premio per la migliore interpretazione femminile ai Festival di Cannes e di San Sebastian, il Nastro d’argento e la Grolla d’oro (il film si aggiudica l’Oscar nel 1958). Meno icastiche, ma altrettanto eccelse saranno le sue altre interpretazioni felliniane, da Il bidone (1955) a Giulietta degli spiriti (1965), fino all’amarcord di due ballerini melanconici ma felici di ritrovarsi nel circo televisivo di Ginger e Fred (1985, lui è naturalmente Marcello Mastroianni). Non tantissime, meno di trenta, le sue prove d’attrice con altri registi, italiani e stranieri, da Eduardo De Filippo (Fortunella) a Renato Castellani (Nella città l’inferno), da Jurai Jakubisko (Frau Holle – La signora della neve) a Julien Duvivier, che la trasforma in una bionda platino pseudo-Marilyn in La gran vita, fino a Jean-Louis Bertuccelli, col quale nel 1991 recita per l’ultima volta in Un giorno forse. Per molti spettatori ormai di una certa età il volto della Masina resta legato a due popolari serie televisive: lo sceneggiato Eleonora, scritto dall’amico di sempre Tullio Pinelli e diretto da Silverio Blasi
(1973), ritratto di una donna nell’Ottocento milanese della Scapigliatura e dei fermenti risorgimentali; e Camilla, con la regia di Sandro Bolchi (1976), tratto da Un inverno freddissimo, il romanzo di Fausta Cialente sulla difficile vita di una madre nel dopoguerra. E la sua voce un po’ cantilenante è rimasta cara agli ascoltatori delle Lettere a Giulietta Masina, fortunata rubrica radiofonica andata in onda dal 1966 al 1969. «Spippolo» è il nomignolo romagnolo che le affibbia Federico, per alludere ancora una volta alla sua piccolezza, a una fragilità invero solo apparente che cela il rigore dell’attrice e il coraggio della donna. Giulietta non smetterà per un attimo di accudire il marito malato, raggiungendolo e lasciandosi raggiungere su e giù per l’Italia, fra Roma e Rimini, durante quelle «evasioni» dai reparti ospedalieri – s’è detto di Ferrara – che commossero l’opinione pubblica. Il 29 marzo 1993, un anno prima di morire, la Masina è in prima fila nella grande sala di Los Angeles dove l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences premia Fellini con l’Oscar alla carriera in virtù delle sue «qualità cinematografiche che hanno entusiasmato e deliziato il pubblico di tutto il mondo». Sul palco, Sophia Loren chiama prima Marcello Mastroianni, e quindi fa entrare Federico, che avanza un po’ sghembo, quasi timidamente, accolto da una standing ovation. Scherza con Sophia («Certo che voglio un bacio») e stringe la mano al vecchio amico: «Grazie Marcellino, sei venuto ad onorarmi». Fellini pronuncia il suo breve discorso di ringraziamento in inglese, con il fiato che a tratti gli manca: Per favore, sedetevi, restate a vostro agio! Se c’è uno qui che deve sentirsi un po’ a disagio, quello sono io. Vorrei avere la voce di Placido Domingo per dirvi un lungo, lungo grazie. Che
posso dire? Bè, non me lo aspettavo davvero… O forse sì, ma non prima di altri venticinque anni! In ogni caso, è meglio che arrivi ora. Vengo da un paese e appartengo a una generazione per i quali l’America e il cinema erano quasi sinonimi, e ora essere qui con voi, miei cari americani, mi fa sentire a casa. Voglio ringraziarvi tutti per questa sensazione. In queste circostanze è facile essere generosi e ringraziare tutti. Vorrei naturalmente, prima di tutto, ringraziare tutte le persone che hanno lavorato con me. Non posso nominare tutti, quindi lasciate che faccia un solo nome, quello di un’attrice che è anche mia moglie. Grazie, carissima Giulietta, e per favore, smettila di piangere!
«Thank you, dearest Giulietta, and please, stop crying!». Un rimbrotto amorevolissimo che resterà, forse persino più di tante immagini cinematografiche, al pari del braccio alzato – il rosario serrato fra le dita – con il quale Giulietta saluta Federico nella basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma, il 31 ottobre 1993, il giorno dopo il loro cinquantesimo anniversario di nozze, il giorno in cui pure lei comincia ad andar via. «Se una fa la diva non ha proprio capito niente, vuol dire che è una stronza… Ma come si fa, dico io: il pubblico ti dà tanto e tu fai anche l’altezzosa?», disse una volta al giornalista Umberto Rondi, figlio di Brunello. E Federico confidò: «C’è una parte di incantesimi e magie, visioni e trasparenze, la cui chiave è proprio Giulietta, proprio così. Mi prende per mano e mi porta in zone dove da solo non sarei mai arrivato». Un amore lungo la strada.
H
Hollywood
29 marzo 1993. The visionary is the only true realist, recita l’epigrafe al breve montaggio di stralci dei film felliniani che prelude all’ingresso di Federico sul palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, introdotto da Sophia Loren, per la consegna dell’Honorary Academy Award, il premio Oscar alla carriera. Prima di quel giorno Fellini ha vinto quattro Oscar al miglior film non in lingua inglese nel 1957, 1958, 1964 e 1975, rispettivamente per La strada, Le notti di Cabiria, 8 ½ e Amarcord. Complessivamente, Fellini è stato candidato dodici volte come regista e sceneggiatore di film suoi, nonché per lo script di Roma città aperta e Paisà di Roberto Rossellini nell’immediato dopoguerra. È «di casa» a Hollywood, insomma, sebbene la sua vena aurea non potrebbe essere più italiana e provinciale, più estranea al cuore dell’Impero, come conferma una gustosissima sequenza di Il tassinaro diretto da Alberto Sordi che ne è pure protagonista (1983). Albertone prende Fellini a bordo del taxi «Zara 87» in via Margutta e festeggia il cliente di prestigio in un crescendo iperbolico da cui Federico un po’ si schermisce e un po’ no. Qui il meta-testo dice di due vecchi amici che si sfotticchiano con il medesimo affetto degli esordi, quando insieme facevano la fame e insieme talora la ingannavano, grazie alla benevolenza della cuoca di una latteria di via Frattina che, racconterà Sordi, nel piatto di spaghetti «con due forchette», sotto la pasta nascondeva una bistecca e un paio di uova. Alla fine della corsa diretta a Cinecittà, il tassinaro insiste sulla
distanza dei sogni dell’eterno bambino riminese da «tutti quei film spaziali con Frankenstein e Mazingo che s’incendiano per aria, si inabissano nel profondo del mare…». E conclude in puro carattere romanesco: Scusi dottor Fellini, a lei je potrebbe servì un ingegnere con tutti quei mari artificiali, le navi, i palazzi, i ponti… Je lo posso mannà? Si chiama Luca, mio figlio, ingegner Luca Marchetti, er figlio del tassinaro. Je lo mando. Grazie dottor Fellini. Già che c’è, mi dia un bacione a quel gran chiappone di Sophia Loren, me fa diventa’ matto a me.
Già, Federico Fellini, Alberto Sordi e Sophia Loren. Nel configurare l’identità italiana oltreconfine, e non soltanto negli Usa, il cinema gioca un ruolo primario, come ribadirà l’Oscar attribuito nel 2014 a La grande bellezza di Paolo Sorrentino, il quale conclude il discorso di ringraziamento esprimendo gratitudine per le sue «fonti di ispirazione: Federico Fellini, Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona». Nel solco felliniano, ma decisamente più barocco, Sorrentino affida al protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo) il compito del rabdomante dell’agonia tricolore che si estenua tra feste frenetiche e disperate con «trenini che non vanno da nessuna parte», nobili decaduti, turisti giapponesi, belle ragazze invecchiate, prelati più interessati a Masterchef che al Paradiso, cascami di stagioni «impegnate», nella Roma dove tutto muore eppure non muore, come i resti dell’acquedotto Claudio cantati da Pasolini. La Roma degli zombie e delle rovine – intuì Fellini – è stigma e metafora della postmodernità. Dappertutto nel mondo capita di sentirsi definire italiani, o di definirli, con poche e incisive parole. Italia? «Dolce vita, Fellini». Italia? «Neorealismo». Italia?
«Sophia Loren». Sono icone che rappresentano il paese nel segno della fantasia, dell’esuberanza e del riscatto da stagioni avverse come la Loren di La ciociara, Oscar per la migliore attrice nel 1962 (Sophia vincerà l’Oscar onorario nel 1991). Il cinema, la moda, l’opera lirica e il cibo, che nella lingua di Dante ormai si dice food, contribuiscono a delineare un «sogno italiano» impastato di arcaismi e futuro. È una dimensione collegata all’amabilità del vivere, ovvero alla nostalgia di un piacere perduto e forse recuperabile almeno nel tempo libero, al rallentamento dei ritmi, alla sapienza artigianale,
a
un
orizzonte
poetico,
a
una
melodia
dell’esistenza. In definitiva, a una contemplazione estetica ed estatica del mondo. La percezione dell’Italia povera ma bella nell’immaginario internazionale è confermata dall’ambientazione, dai temi, dai personaggi di numerosi film premiati con l’Oscar, in aggiunta alle statuette vinte da Fellini. Un breve elenco: Sciuscià (1948) e Ladri di biciclette (1950) di Vittorio De Sica, Anna Magnani per La rosa tatuata di Daniel Mann (1956), Divorzio all’italiana (sceneggiatura, 1963) di Pietro Germi, Ieri, oggi, domani (1965) ancora di De Sica, Nuovo cinema Paradiso (1990) di Giuseppe Tornatore, Mediterraneo (1992) di Gabriele Salvatores, Il postino di Michael Radford con Massimo Troisi (cinque nomination e Oscar per le musiche di Luis Bacalov nel 1996). Girato tra Procida e Salina, Il postino rovescia la nozione insulare nel suo contrario: soltanto un’isola mediterranea consente al celebre scrittore Pablo Neruda, interpretato da Philippe Noiret, e al portalettere Troisi di non essere più soli o isolati, di stringere legami di affetto e di amicizia che altrove andrebbero e andranno dissipati. Il mito della Dolce vita prende piede in una stagione ancora segnata dall’eredità del dopoguerra di un
paese sconfitto e dalla speranza di affrancarsene. E negli ultimi decenni l’Italian dream – ma sì, in inglese – rincuora e spesso tradisce centinaia di migliaia di migranti asiatici e africani che al largo delle nostre coste, da Brindisi a Lampedusa, vagheggiano uno straccio di terra promessa. Lungo le frontiere da sempre il Cinema prospera: è il lato visionario del Capitale, ne serba l’iridescenza del profitto e la rapacità, e, d’altro canto, è il culto delle storie senza confini. Gli stessi pionieri dell’industria cinematografica statunitense scelsero Los Angeles invece della più evoluta ed «europea» New York, argomenta lo storico Silvano Cavatorta, «perché vicina al Messico, dove i produttori indipendenti potevano riparare velocemente quando venivano scoperti dai detective dei trust, e dove il mercato del lavoro era molto più conveniente: Los Angeles era una città senza sindacati». L’esodo segna la storia del XX secolo, ricorda la scrittrice americana Susan Sontag, e l’Italia è uno dei passaggi a nordovest, al pari del Messico non a caso fecondo di talenti visionari spesso calamitati da Hollywood (Alfonso Cuarón, Alejandro Gonzáles Iñárritu, Guillermo Del Toro, Guillermo Arriaga, Carlos Reygadas, Rodrigo Plá). Hollywood identifica l’Italia quale mediterranea tout court, nella scia lunga del classico Grand Tour che nel Novecento annovera viaggiatori letterati come André Gide in cerca di pace nella «persistenza dell’azzurro» e George Gissing, Wilhelm von Gloeden e Norman Douglas, Norman Lewis e a suo modo Carlo Levi, fino a Ingeborg Bachmann e a Julian Barnes. Per non parlare dei viaggi meridiani di grandi registi, dall’«olandese volante» Joris Ivens, che nel 1960 realizzò L’Italia non è un paese povero prodotto dall’ENI di Enrico Mattei, fino al «filosofico»
maestro americano Terrence Malick, che a forza di girovagare in motocicletta nelle lande più brulle del Sud, nel 2019 ha deciso di ambientare tra Matera e Gravina in Puglia parte di un suo film. La fortuna mondiale di Elena Ferrante, corroborata dalla serie Tv L’amica geniale diretta da Saverio Costanzo (un’intuizione produttiva di Domenico Procacci), cos’altro è se non il portato di quel medesimo desiderio di visioni misere e ardenti, laconiche e incantate? Da Rimini a Napoli, da Milano a Palermo, l’Italia è innanzitutto luce, ma conosce la saggezza dell’ombra, della pausa, della comunità; è aliena dal teorema del dimostrare, cui preferisce di gran lunga il mostrare. Nulla di più felliniano! «Una mischia di lutto e luce» per dirla con lo scrittore Gesualdo Bufalino, che parlava della sua Sicilia; oppure a metà strada fra… la miniserie e il sole, parodiando Camus. Per gli italiani La vita è bella persino in pieno nazifascismo o nel lager, e il lavoro di Roberto Benigni nel 1999 si aggiudica tre Oscar: al film, al protagonista e alla colonna sonora di Nicola Piovani, uno degli eredi di Nino Rota, benché in quel caso a conquistare l’Academy – crediamo – fu soprattutto la redenzione in chiave lieve dagli orrori della Shoah. Sophia Loren è sul palco anche nel ’99. «And the Oscar goes to… Robberto», dice raddoppiando la B alla napoletana e sventolando il foglietto con il nome del vincitore, preludio di un irresistibile stravolgimento del cerimoniale che vede Benigni balzare in piedi sullo schienale delle sedie e camminarvi sopra, di fila in fila, fino a raggiungere il palco, dove cita fra l’altro l’ultimo verso della Divina Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Italo Calvino nel 1984 inserisce la «Visibilità» tra le sei proposte per il prossimo millennio raccolte postume nelle Lezioni americane e spiega l’immaginazione dantesca
sotto forma di visioni che si presentano a mo’ di proiezioni cinematografiche. «Secondo Dante – scrive Calvino – c’è una specie di sorgente luminosa che sta in cielo e trasmette delle immagini ideali, formate o secondo la logica intrinseca del mondo immaginario o secondo il valore di Dio». Sembra scritto per La voce della luna, l’ultimo film di Fellini, che ha proprio Benigni quale protagonista insieme a Paolo Villaggio. Nel 2016 Jim Jarmusch, regista statunitense che diresse Benigni in Daunbailò (1986), concepisce l’idea di un’immaginetta «votiva» di Dante Alighieri custodita nella borsa della colazione di un giovane autista di pullman (Adam Driver) che si chiama come la città nel New Jersey in cui vive, Paterson, titolo del film. È la città cara ai poeti William Carlos Williams e Allen Ginsberg, e agli anarchici italiani che vi trovarono rifugio, tra cui Enrico Malatesta, appena fuggito dal confino a Lampedusa, e Gaetano Bresci che da Paterson muoverà verso l’Italia per il regicidio di Umberto I. È un anarchico il capomastro Aurelio (Armando Brancia), il padre di Titta in Amarcord, al quale i fascisti fanno bere l’olio di ricino nella scena più drammatica e toccante del film che vincerà l’Oscar nonostante in un altro passaggio risuonino le note dell’Internazionale. L’idealismo di Aurelio è congruo con la tradizione garibaldina e cospiratoria di Rimini al culmine nella Conferenza anarco-socialista dell’agosto 1872 presieduta da Carlo Cafiero, la cosiddetta «Internazionale riminista» cui partecipò Bakunin e che perciò fu subito invisa a Engels. Poesia e anarchia… Il Fellini di 8 ½ in fondo è tutto qui. Non si può dire lo stesso di Nine di Rob Marshall, tratto dal musical omonimo di Arthur Kopit e Maury Yeston ispirato a un testo teatrale di Mario Fratti, con cui Hollywood nel 2009
pensa di rendere omaggio al genio riminese. Nonostante le parentele del Guido di Nine (Daniel Day-Lewis) con i caratteri del personaggio felliniano interpretato da Mastroianni, Marshall non ha la raffinatezza necessaria per rivisitare un testo talmente complesso da essere quasi ineffabile. Piuttosto, adotta 8 ½ quale pretesto drammaturgico, ricalcandone i personaggi femminili che affollano l’harem del tormentato protagonista: la moglie Luisa (Marion Cotillard), l’amante Carla (Penélope Cruz), la sensuale e angelica Claudia (Nicole Kidman), la prostituta Saraghina (Fergie). E ancora: una sorta di «grillo parlante» della coscienza del regista che è anche la sua costumista (l’eccellente Judi Dench), e la madre defunta di Guido (Sophia Loren, guarda caso). Con l’aggiunta di una provocante giornalista di moda d’oltreoceano, ruolo affidato a Kate Hudson, e di un produttore che si chiama… Dante (Ricky Tognazzi). Nine è «felliniano» nella maniera più scontata del termine, quindi è sì sovrabbondante, smisurato, polifonico come 8 ½, tuttavia privo della tensione interiore verso il silenzio agognato da Federico. Il protagonista è egocentrico come l’originale, senza però l’approdo comunitario del finale, il celeberrimo girotondo in cui tutti si prendono per mano, unico antidoto al mal di vivere. Sullo sfondo l’Italia è una cartolina della Dolce vita, una meta da «vacanze romane» al ritmo di canzoni che s’intitolano Be Italian e Cinema italiano. Delude anche l’appuntamento «felliniano» di Woody Allen, che dell’Italia frequenta soprattutto Venezia, ma fa una puntata… To Rome with Love nel 2012, quando molti scomodano il paragone con La dolce vita. Invero To Rome with Love riecheggia Lo sceicco bianco (1952), storia di un bislacco viaggio di nozze nella capitale. Ricordate il film del giovane Fellini? Lei si chiama Wanda Cavalli (Brunella Bovo)
e nella città eterna si mette sulle tracce del protagonista dei fotoromanzi Nando Rivoli detto «lo sceicco bianco» (Alberto Sordi), incontrandolo nella pineta di Fregene, dove Fellini avrebbe comprato un villino e che gli è stata intitolata nel 2014. Nella giostra di episodi di To Rome with Love c’è la sposina di provincia Alessandra Mastronardi in visita col marito agli zii influenti e benpensanti, tentata dall’avventura con il bellimbusto dello spettacolo Antonio Albanese, mentre lui è irretito dalla ragazza-squillo Penélope Cruz. A Hollywood ha assunto i contorni di un progetto «infinito» il copione del 2012 intitolato Fellini Black and White, che avrebbe dovuto essere portato sullo schermo dallo sceneggiatore e producer Henry Bromell, con il brasiliano Wagner Moura nel ruolo di Federico (Moura è stato Pablo Escobar nella popolare serie televisiva Narcos). Bromell è morto nel 2013 e da allora lo sviluppo del film, passato di mano in mano, viene periodicamente annunciato prossimo al ciak. Poi, se ne perdono le tracce. Fellini Black and White dovrebbe raccontare la storia, ambientata nella California del 1957, del primo viaggio americano di Fellini in occasione dell’Oscar assegnato a La strada, durante il quale scomparve per due giorni. Cosa accadde in quelle quarantotto ore resta un mistero, come il film che vorrebbe scandagliarle (incautamente?). Ritardi notevoli ha accumulato anche l’Academy Museum of Motion Pictures, in via di completamento nell’area Miracle Mile di Los Angeles, là dove c’era il centro commerciale in disuso May Co. Il progetto di Renzo Piano per il museo del cinema più grande del mondo voluto dall’Academy of Motion Pictures, Art and Sciences che assegna gli Oscar, include una sfera di cristallo con un
migliaio di posti a sedere per le premiazioni e altri eventi. Preventivo 250 milioni di dollari, costo finale stimato intorno ai 390 milioni. I vertici dell’Academy, David Rubin e Dawn Hudson, e il neodirettore del museo Bill Kramer, tra le prime iniziative hanno annunciato per il 2020 un tributo a Fellini nel centenario della nascita. L’omaggio è stato promosso in partenariato con Istituto Luce – Cinecittà presieduto da Roberto Cicutto, che ha già attinto dal suo archivio i brevi filmati del «Fellini in pillole» presentati nel 2019 alla Biennale Cinema di Venezia presieduta da Paolo Baratta e diretta da Alberto Barbera. Infine, Federico torna a Hollywood. Era ora.
I
Infanzia
«Amor di fratelli, amor di coltelli», recita l’adagio. Le cose però sono spesso più complicate. Metti il caso dei due ragazzi nati dall’unione di Urbano Fellini e Ida Barbiani. Lui era commerciante di generi alimentari a Gambettola nel Cesenate, il paese anche del sindacalista Luciano Lama. Fellini conosce la giovane Ida durante un viaggio di lavoro a Roma e la sposa contro il parere dei genitori di lei. Si stabilirono a Rimini, una buona «piazza» grazie al nascente turismo, all’epoca di élite, prima che Benito Mussolini desse la spinta decisiva alla riviera romagnola. I fratelli Fellini sono quasi coetanei (1920 e 1921), entrambi interessati al cinematografo e il maggiore – Federico – diventerà il regista italiano più famoso nel mondo. Ebbene, quale condizione pensate abbia vissuto il fratello minore, Riccardo, l’«altro Fellini»? Per dirne solo una, nel 1963-64 Federico fa su e giù tra l’Italia e l’America, la Russia e vattelappesca, scendendo dalle scalette degli aeroplani con il sorriso del quarantenne di genio seppur in crisi esistenziale e in mano l’ennesima statuetta ottenuta grazie a 8 ½, che s’aggiudicò pure l’Oscar ai costumi di Piero Gherardi. Riccardo nel medesimo 1963 si presenta al Lido di Venezia col suo esordio da regista, Storie sulla sabbia. L’accoglienza non è delle migliori. Ecco per esempio la recensione di Francesco Dorigo su «Cineforum»: «Essenzialmente gracile, il film s’imposta su tre racconti. Di gusto felliniano, Riccardo riesce a prenderne qua e là qualche
spunto felice, qualche intuizione intelligente». Per certi versi, è peggio di una stroncatura feroce, soprattutto per quel riferimento al «gusto felliniano» che ascrive un’estetica nascente, le fatiche poetiche e il destino di un autore a una dimensione familiare, punto. Storie sulla sabbia è appena un’eco di Federico e Riccardo ne è un epigono. Terribile, vero? D’altronde Riccardo, fino a quel momento attore, aveva ottenuto il primo ruolo importante grazie a Federico, interpretando praticamente sé stesso in I vitelloni del 1953. Era reduce da una gavetta decennale di particine in pellicole magari di successo, come I tre aquilotti e I bambini ci guardano. E per un altro ruolo di rilievo avrebbe dovuto attendere il 1963, quando recita in L’ape regina di Marco Ferreri, da un’idea di Goffredo Parise. L’altro Fellini si intitola un bel documentario dei romagnoli Stefano Bisulli e Roberto Naccari (2013): mostra Federico e Riccardo bambini e adolescenti nella Rimini degli anni VentiTrenta del secolo scorso (la sorella Maddalena nasce nel 1929), poi giovanotti inurbati nella capitale alla vigilia della Seconda guerra mondiale, aspiranti artisti a Cinecittà e dintorni. Riccardo frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia in via Tuscolana, a poche centinaia di metri da Cinecittà, ma Federico anni dopo eleggerà a «fratellino più piccolo» un altro ex allievo del Centro, il regista catalano Jordi Grau Solà. I due si conoscono a Roma nel 1959 e Fellini lo chiama «Giorgino» assecondando la sua predilezione «pascoliana» per il diminutivo (Pasolini dixit). «Caro Giorgino – gli scrive nel maggio 1961 a proposito della perdita di un bambino appena nato – mi dispiace di quello che ti è accaduto, anche a Giulietta e a me molti anni fa successe la stessa triste
cosa… Buon lavoro e buona fortuna e un bacetto sulla fronte a tua moglie». All’indomani della Liberazione, Federico – che si è fatto un nome quale autore radiofonico e vignettista del «Marc’Aurelio» con lo pseudonimo Fellas – prende a collaborare con Rossellini: è l’inizio di una carriera straordinaria. Frequenta gli amici Ruggero Maccari e Aldo Fabrizi che lo introduce nel mondo del cinema e intanto ha sposato Giulietta Masina. Riccardo invece si arrabatta con scarsa fortuna sui set. È andato a nozze anche lui, ma il matrimonio fallisce per incompatibilità caratteriali, come racconta la figlia nel documentario di Bisulli e Naccari. Dopo il fiasco di Storie sulla sabbia, Federico chiede a Riccardo di rinunciare a usare il cognome Fellini per firmare eventuali altri film. La richiesta è in verità assurda e provoca una lacerazione tra i fratelli sanata soltanto negli ultimi anni di vita di entrambi. L’«altro Fellini» nei decenni successivi realizzerà alcuni documentari televisivi dedicati al mondo degli animali, una sua grande passione (il circo e i clown nel cuore anche di Federico). Riccardo muore nel marzo 1991, rasserenato dal connubio con una giovane compagna, sognando di dirigere finalmente l’opera seconda, una favola zoofila dal titolo Stella cavalla da circo. Federico, che nelle settimane finali lo aveva assistito con amore, due anni e mezzo dopo – è il 31 ottobre 1993 – spira nelle stesse stanze del policlinico romano Umberto I in cui era deceduto il fratello. Una coincidenza? Chissà. Mica tanto, si direbbe, alla luce del documentario, quanto mai accurato nella filologia degli affetti. Gli autori evocano la figura chiave dello psicoanalista junghiano Ernst Bernhard, che fu il terapeuta di Federico e,
simbolicamente, il suo «vero padre». Così viene definito nel Libro dei sogni del grande regista. Nelle pagine istoriate di disegni onirici nell’arco di un trentennio e fitte di appunti del dormiveglia, Federico rappresenta il giovane Riccardo come lo vedeva il papà e quale in effetti fu: bello, atletico, elegante, sensuale, accattivante. In quel disegno Federico – da ragazzo soprannominato «Gandhi» per la magrezza e il pallore – si relega in un angolo, molto più basso di quanto non fosse, e si ritrae nero di rabbia al cospetto dell’erede al trono, del fratello prediletto da Urbano, di Riccardo cuor di leone. La vita fa e disfa: come è andata lo sappiamo. Federico raccontava di essere stato in collegio con la divisa da soldatino che vediamo indossata dal piccolo Guido in 8 ½ e costretto dai preti a inginocchiarsi sui ceci. Tutto falso! Quei ricordi appartenevano a Riccardo, alla sua infanzia. Per carità, nel cinema felliniano solo la finzione esprime una paradossale verità: nell’ombra fraterna, Federico avrà sognato splendori che finiranno per oscurare l’«altro Fellini», autentico alter ego. «Sii felice», amava ripetere Federico agli amici, pensando forse alla propria infelicità rispetto al fratello (e viceversa). Da vecchi, si somigliavano moltissimo: guardare le foto per credere. Del resto, la fratellanza ritrovata o finalmente avvalorata è un topos in grado di sospendere il tempo consueto, prosaico e sofferente degli adulti in nome dell’infanzia e dell’adolescenza ritrovate, con il candore poetico e l’energia vitale di allora, talvolta in vista della fine di uno dei due, ovvero di un genitore. Esempi se ne potrebbero fare a iosa: da Fratelli di Carmelo Samonà, un capolavoro non abbastanza conosciuto, alla commovente agnizione del talento altrui nel film La famiglia di Ettore Scola, da La casa nel
bosco di Gianrico e Francesco Carofiglio al graphic novel Fratelli di Alessandro Tota. A Riccardo e Federico sopravvive Maddalena, a sua volta attrice con Marco Tullio Giordana, Damiano Damiani e Carlo Verdone, moglie del pediatra Giorgio Fabbri, amatissimo a Rimini, e fondatrice della Fondazione Fellini. Un’eredità culturale curata oggi da sua figlia Francesca Fabbri Fellini, che al celebre «zio Chicco» ha dedicato un cortometraggio onirico e svagato, Fellinette, in programma come prologo in molte manifestazioni del centenario nel 2020.
J
Jung
La J è l’i lunga, la iota, una variante grafica della I di Infanzia. J come Jung, Carl Gustav Jung, «uno dei grandi spiriti dell’umanità» secondo Federico Fellini, che ne legge avidamente i trattati teorici e clinici quando approda in psicoterapia dallo junghiano Ernst Bernhard. Questi è un ebreo berlinese già allievo e assistente dello stesso Jung a Zurigo, fuggito dalla Germania nazista per sottrarsi alle persecuzioni razziali e stabilitosi a Roma con la moglie e collega Dora Friedlaender a metà degli anni Trenta, dopo che il governo britannico gli ha rifiutato il visto d’ingresso perché sospettoso, si favoleggia, delle sue pratiche astrologiche ed esoteriche. Il fascismo lo confina nel 1940 nel campo di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, una sorta di involontario e grande «kibbutz» per ebrei di mezza Europa, fra i quali il greco Moris Ergas, che diventerà un importante produttore cinematografico e il marito di Sandra Milo, l’attrice poi a lungo amante per così dire «ufficiale» di Federico. Ma a Ferramonti furono internati anche una settantina di cinesi che si trovavano in Italia al momento dell’inizio della guerra e chissà che non siano stati loro a introdurre Bernhard allo studio di I King – Il Libro dei Mutamenti. Sarà Bernhard a far pubblicare I King dall’Astrolabio, la medesima casa editrice della prima traduzione italiana de L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, propiziata dal letterato triestino Bobi Bazlen, a sua volta paziente dell’analista berlinese. Tra l’altro Bazlen nei suoi primi tempi romani, scrive Cristina Battocletti, risiede in
una camera ammobiliata di via Margutta, di fronte al palazzo dove sarebbe andato a vivere Fellini. A parlare di Bernhard a Fellini nel pieno del successo di La dolce vita è il regista Vittorio De Seta, uno dei discepoli intellettuali del «guru» che aveva la casa-studio in via Gregoriana 20, frequentata anche da Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Cristina Campo, Adriano Olivetti… De Seta, aristocratico siciliano attratto dal mondo degli ultimi cui ha dedicato magnifici documentari, nel 1960 porta la sceneggiatura di Banditi a Orgosolo alla neonata società di produzione Federiz, battezzata dalle iniziali di Federico e di Angelo Rizzoli, con una partecipazione del produttore esecutivo Clemente Fracassi. Grazie all’amicizia fraterna con Fellini, Pier Paolo Pasolini conta sulla Federiz per esordire al cinema con il suo Accattone, e un altro giovane documentarista, Ermanno Olmi, si rivolge alla società alla ricerca di risorse per dirigere il suo primo lungometraggio, Il posto. Tullio Kezich ricorda che i tre film costituiranno la selezione italiana della Mostra di Venezia nel 1961, ma che nessuno dei tre è infine varato dalla Federiz per le riserve puntigliose di Fracassi, mentre Fellini, «concentrato sulle cose sue, non legge neppure i copioni». Le «cose sue» in quel periodo coincidono in parte con il tormento esistenziale del quarantenne di successo e con l’estasi della psicologia analitica che durerà fino alla morte di Bernhard nel 1965. Così Federico «scopre» Jung e addirittura si reca a visitarne la dimora a Zurigo, si avvicina allo gnosticismo e, soprattutto, comincia ad annotare appunti e a disegnare bozzetti sui sogni nei quaderni che confluiranno in Il libro dei sogni. È Bernhard a parlargli per primo del puer aeternus, di cui, gli dice, Federico sarebbe un’incarnazione. Per un altro psicoanalista junghiano, James Hillman, ch’era ammirato da Fellini e a sua
volta ammirava il maestro del cinema, «la figura del Puer aeternus è la visione della nostra natura prima, la nostra primordiale Ombra d’oro, la nostra affinità con la bellezza, la nostra essenza angelica come messaggera del divino, come messaggio divino». Quell’aurea Ombra è la qualità prima del cinema di Fellini: una fonte limpida di suggestioni, pensieri, visioni che si rinverdiscono nel corpo a corpo con il Tempo e con l’età del regista, ma anche dello spettatore, perché un film non è una sostanza ristagnante o un verbo sempiterno, «cambia» in relazione al vissuto di chi lo guarda. Il cinema di Fellini – esemplare resta 8 ½ – setaccia il caos alla ricerca di un senso e, aderendo a uno sperimentalismo che Alberto Arbasino riconobbe fra i primi, fa del perdersi il presupposto del ritrovarsi (come nelle fiabe), è un provvido esorcismo del delirio di onnipotenza insito nelle linee rette del racconto, nei metodi «infallibili», nelle geometriche potenze, nella ragione tetragona e nella rimozione della memoria. Certo, Fellini prende le mosse dal neorealismo «americano» di cui scrive Vittorio Boarini riferendosi all’influenza che Steinbeck, Caldwell, Dos Passos esercitarono sulla cultura italiana dei Pavese e dei Vittorini, e certo Fellini non può non dirsi rosselliniano, ma, annota in un saggio essenziale l’italianista americano Peter Bondanella, progressivamente tende a distaccarsi dalla mimesi della realtà. La rabdomanzia felliniana si esercita dai primi anni Sessanta in un mondo interiore, onirico, via via più metafisico, sia pure senza rinunciare a echi sociali, politici e religiosi come in La dolce vita.
In tale approccio non razionalistico di Fellini non v’è alcunché di «misticheggiante», a dispetto dei detrattori dell’eredità di Jung. Fellini, prima di incontrare Bernhard, a metà degli anni Cinquanta era stato per un breve periodo paziente del freudiano Emilio Servadio, ebreo fuggito in India durante la guerra e interessatissimo alle discipline orientali, che una decina di anni più tardi farà assumere al regista sotto stretto controllo medico una dose di acido lisergico, l’Lsd, che nella controcultura beat è la chiave per aprire le porte della percezione: un’esperienza, secondo Servadio, in parte confluita nella genesi di Giulietta degli spiriti. Per non parlare dell’amicizia di Fellini con il sensitivo torinese Gustavo Adolfo Rol, un’altra prova dell’estremo interesse che il Nostro riserva al mistero con la sua straordinaria valenza «spettacolare». Fellini, intervistato da Giovanni Grazzini in un volume edito da Laterza nel 1983, definisce Carl Gustav Jung «un compagno di viaggio, un fratello più grande, un saggio, uno scienziato veggente». Per lui l’universo simbolico e gli archetipi sono forme primitive dell’Essere e del pensiero, alle radici dell’inconscio collettivo che del resto diventerà oggetto di studio nella Hollywood del dopoguerra in cerca di nuovi modelli narrativi, in verità arcaici, alla luce del saggio dello psicologo junghiano Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti (1949). In effetti non v’è film americano di successo che esuli da un mitologico «viaggio dell’eroe» con le classiche prove da superare e la relativa ricompensa finale. Tuttavia Fellini nella sua ricerca onnivora non nega l’anima, ovvero la dimensione religiosa, latina e mediterranea, a dispetto della proverbiale alternativa tra la «scienza ebraica» fondata da Freud e la tradizione cattolica. Al centro di tutto c’è sempre l’infanzia, com’è evidente ancora una volta in Giulietta degli spiriti, con
una Masina tanto essenziale da essere eponima e impegnata suo malgrado in un «dialogo» tortuoso, fantasmagorico, inquietante con sé stessa bimbetta. Può darsi che Giulietta degli spiriti sia, come vuole una vulgata, la versione femminile di 8 ½, oppure che sia il film «femminista» di Fellini in cui confluirono il disagio, l’inadeguatezza, l’ansia libertaria di stagioni già segnate dalla ribellione delle donne. In favore di quest’ultima dall’autore:
ipotesi
deporrebbe
un
intento
dichiarato
Penso ora all’osservazione di Jung sulla difficoltà per l’uomo di parlare della donna e mi chiedo se sono stato onesto […] L’ambizione del film è comunque di voler restituire alla donna una sua indipendenza vera, una sua indiscutibile e inalienabile dignità. L’uomo libero, voglio dire, non può fare a meno di una donna libera. Forse Giulietta degli spiriti non è ancora un discorso onesto, esauriente, completo che si può fare sull’argomento. Forse non riesce ad affermar con forza neppure una mezza verità, ma tenta di farlo. L’indipendenza della donna è il tema degli anni futuri.
Certo è che il clima del film è completamente onirico, scandito da un senso del barocco portato a sontuose estremità figurative e dal bric-à-brac erotizzato di situazioni torbide o di incursioni morbose nell’immaginario coniugale. Al professore nonno della protagonista (Lou Gilbert) – in fuga con una ballerina a bordo di una macchina volante leonardesca alla maniera di Luca Ronconi – bastava declamare, con sommo disdoro del suo preside: «Una bella donna mi fa sentire più religioso». Ma per Giulietta Boldrini, come si chiama il personaggio, quella trasgressione è addirittura rassicurante,
non desta scandalo, è un’eredità familiare, come dimostrano l’esuberanza e la sensualità della madre (Caterina Boratto) e delle sorelle Sylva Koscina e Luisa Della Noce, tutte e tre elegantissime, curatissime e inclini a rimproverarle la sciatteria nel vestire nonché, s’intende, una certa apatia nel ménage con il marito Giorgio (Mario Pisu, il Mezzabotta di 8 ½, che in entrambi i film ha un’amante molto più giovane di lui). Fossero ancora solo quelli gli spiriti! Qui invece s’agitano ossessioni più oscure che scompigliano la vita quotidiana della «tranquilla» signora borghese nella sua linda villa di Fregene. Nella ricorrenza dell’anniversario di matrimonio di Giulietta e Giorgio, viene organizzata una seduta spiritica. Dall’aldilà si fanno vivi, alla lettera, fantasmi di ieri e di oggi che non le daranno più tregua, mentre l’assale il dubbio che il marito la tradisca, poi certificato dalle prove conseguite tramite un’agenzia di investigazioni. Giulietta ne è turbata, divisa tra la tentazione di assecondare certi impulsi e un sostanziale perbenismo. Non l’aiuta il milieu, tipicamente felliniano, nel quale spicca la vicina di casa Susy (Sandra Milo, interprete anche di altri ruoli), che pare essere lì apposta per far aumentare la sua «brutta confusione». Né sembra giovarle il ricorso a uno psicoanalista, giacché in presenza di questi, sulla spiaggia, Giulietta è vittima di uno dei suoi incubi peggiori, che resta forse la visione più funerea e terrificante del cinema felliniano. Uno sconosciuto le offre di tirare una corda in riva al mare e, in acqua, ecco un corpo affiorante, un barcone con la stiva colma di zombie, una tavola alla deriva sulla quale vi sono dei cavalli ma anche presenze cadaveriche con un sentore della Zattera della Medusa, il celebre dipinto di Théodore Géricault (1819). Giulietta chiede aiuto al dottore che vede lì a pochi passi, ma il suo grido implode in un sussurro sillabato, e
soltanto il rombo di un aeroplano a bassa quota spezza il sortilegio e la riporta alla realtà. Gli occhi aperti e quelli chiusi coincidono in Giulietta degli spiriti, che a ben vedere può considerarsi una matrice del capolavoro testamentario di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut (1999), apologo erotico e odissea nella coppia ispirato al racconto Doppio sogno di Arthur Schnitzler (1926). Le angosce di Giulietta non si placano quando è vigile. Anzi, basta un dettaglio, uno sguardo, un incontro, un soffio di vita a suscitarne la regressione. I fantasmi di ieri sono ovunque intorno a lei, adesso. Dio, per esempio. Dio si cela dietro «un grande sportello sempre chiuso nel teatrino delle monache» e quel passaggio è la porticina per un’infanzia pervasa di apprensioni e di rappresentazioni che si concretano nella figura della piccola Giulietta legata a un’altalena e circondata dalle fiamme di carta, vittima sacrificale in uno spettacolo da oratorio. Una «graticola» sulla quale la bambina non ha mai smesso di ardere, finché non viene liberata dalla Giulietta adulta, in uno dei sogni più toccanti del film. L’epilogo è prossimo e una sorridente Giulietta in abito bianco si offre al vento che spira dal mare verso di lei, sfiorata dall’improvvisa grazia ereditata, forse per vie magiche, dal primo piano finale di Cabiria. Come in Le notti di Cabiria, non c’è di certo un happy end, ma nel suggello di una storia amara vibra una speranza, forse la consapevolezza – tutta analitica – che la «guarigione» consista nell’aver capito che è impossibile guarire da sé stessi e dal Tempo. Ricorda l’attore Sergio Rubini, interprete del giovane Federico di Intervista (1987) e amico del maestro, che negli ultimi tempi Fellini era tornato da uno psicoanalista, lo
junghiano Giovanni Caputo. In uno dei primi colloqui aveva estratto una fotografia di sé stesso quattordicenne e mostrandogliela aveva detto: «Ecco, dottore, io vengo da lei perché vorrei tornare a essere così».
K
Kezich
Annoverato a suo tempo dalla storica rivista statunitense «Variety», per quel che contano certe classifiche, tra i dieci maggiori critici cinematografici del mondo, Tullio Kezich è stato anche drammaturgo, sceneggiatore, scrittore, nonché biografo di Federico Fellini, più che «autorizzato» in virtù d’una lunga amicizia personale con il regista. «No, non voglio prenderne atto», dice la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico quando le danno la notizia della scomparsa di Kezich, il 17 agosto 2009, frase scelta come titolo per un fascicolo in memoriam che gli dedica due mesi dopo il Festival Internazionale del Film di Roma, con brevi scritti di Raffaele La Capria, Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Italo Moscati, Ermanno Olmi, Gian Luigi Rondi, Francesco Rosi, Armando Trovajoli, Lina Wertmüller, Paolo e Vittorio Taviani. Praticamente tutti i «senatori» del cinema italiano o almeno i superstiti degli anni d’oro. Ma ad aprire la galleria dei ricordi è il collega Callisto Cosulich, che nel 1947 con Kezich aveva fondato la sezione cinematografica del Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste. Entrambi sono triestini e nella combriccola cinefila ci sono anche Lelio Luttazzi e il più giovane Franco Giraldi, destinati a diventare famosi l’uno come musicista-showman e l’altro come regista. Callisto è nato nel 1922 e Tullio nel 1928 da una famiglia istriana con papà avvocato antifascista; abbandonano gli studi universitari rispettivamente in Ingegneria navale e in Lettere per dedicarsi al cinema (Cosulich, scomparso nel 2015, era un erede della
dinastia lussignana di armatori, pionieri della navigazione mercantile nell’Adriatico). I due sono i primi critici cinematografici della nuova Italia dai microfoni di Radio Trieste o sulle colonne del «Piccolo», non foss’altro perché i film a stelle e strisce, dopo i lunghi anni di autarchia culturale del fascismo e la guerra, ricominciano a circolare a partire dal Territorio Libero di Trieste, delineato nel 1947 in seguito ai trattati di pace e posto sotto il controllo civile e militare degli angloamericani (agli jugoslavi fu attribuita la zona di Capodistria). Non a caso, il cinema Usa sarà il grande amore di entrambi, in particolare il western per Kezich, che nei primi anni Cinquanta si trasferisce a Milano dove collabora con Roberto Leydi. Questi è il critico musicale dell’«Avanti!», appassionato di jazz, e con Kezich pubblica un libretto per le edizioni del quotidiano socialista, Ascolta, mister Bilbo!, che raccoglie i testi dei canti popolari americani di protesta contro il senatore Theodore G. Bilbo, il campione del suprematismo bianco dell’epoca. «Con Tullio ci chiedemmo perché in Italia non ci fossero analoghe esperienze. La risposta fu che nessuno le aveva mai cercate», racconterà Leydi, in seguito partecipe delle spedizioni antropologiche nel Mezzogiorno con Ernesto De Martino, Diego Carpitella, il fotografo Franco Pinna e la giovane Annabella Rossi, e a fine anni Settanta tra gli animatori del neonato Dams di Bologna con il grecista e fondatore Benedetto Marzullo, Umberto Eco, Adelio Ferrero, Luciano Anceschi, Ugo Volli, Gianni Celati e Giuliano Scabia. Quella piccola antologia antirazzista incoraggia gli studi etnomusicologici in Italia, ma è il Cinema il nord della bussola di Kezich, che già nel 1952 è «consigliere redazionale» al pari di Renzo Renzi del neonato quindicinale «Cinema nuovo» diretto da Guido Aristarco, per poi passare al rotocalco
«Settimo giorno». Nel 1961 eccolo attore, in camice bianco nel ruolo dell’«esaminatore psicotecnico» di Il posto, l’esordio di Ermanno Olmi, il quale sul set s’innamora di Loredana Detto, sposandola nel ’63. Olmi e Kezich fondano la piccola e combattiva casa di produzione «22 dicembre», partecipata dalla Edison (il cinema a Milano era allora più o meno una coraggiosa eresia), e il critico ne diventa direttore artistico, realizzando, fra gli altri titoli, Il terrorista di Gianfranco De Bosio sulla Resistenza a Venezia, con Gian Maria Volonté e Anouk Aimée, e I basilischi, esordio dietro la macchina da presa di Lina Wertmüller, che sarà la prima donna candidata all’Oscar per la migliore regia con Pasqualino Settebellezze nel 1977, premiata con la statuetta alla carriera nel 2019. Wertmüller è nata a Roma da un’aristocratica famiglia lucana e ha collaborato ai testi di Canzonissima nel 1959, quando la sua amica più cara, l’attrice Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, la presenta a Federico Fellini, di cui è aiuto regista per 8 ½ nello stesso 1963 di I basilischi, nient’altro che i vitelloni del Sud, persino più accidiosi dei fratelli maggiori riminesi. Alla fine dell’esperienza della «22 dicembre», Kezich diventa produttore e sceneggiatore in Rai, dove vara Sandokan di Sergio Sollima e le cinque puntate di L’età del ferro di Roberto Rossellini, che ne affida la regia al figlio Renzo. Continua tuttavia a collaborare con l’amico Olmi del quale firmerà La leggenda del santo bevitore, Leone d’oro alla Mostra di Venezia nel 1988, dedicato alla moglie di Tullio, la scrittrice Lalla Kezich, scomparsa da poco, che aveva suggerito a Ermanno la lettura del racconto di Joseph Roth cui il film è ispirato. A proposito di Venezia, Tinto Brass nel 1985
porta sullo schermo la sua versione erotica e contemporanea della settecentesca Locandiera di Carlo Goldoni: s’intitola Miranda, e lancia Serena Grandi nel firmamento delle grandi forme. Nel finale quel mattacchione di Brass inquadra un monumento ai caduti e sulla lapide si leggono distintamente i nomi di Kezich e di Cosulich, che più volte avevano stroncato i suoi film: «Tullio non la prese bene, invece Callisto accettò lo scherzo». I punti cardinali del lavoro eclettico e incessante di Kezich nella nascente industria culturale sono, da una parte, la Trieste mitteleuropea di Italo Svevo, del quale nel 1964 riduce per il teatro La coscienza di Zeno, con la regia di Luigi Squarzina e Alberto Lionello protagonista; dall’altra, la Roma della Dolce vita e di Federico Fellini. Firma prestigiosa di «Panorama», «la Repubblica» fin dal primo numero nel 1976 e quindi del «Corriere della Sera» dal 1990, Kezich è tra i primi «fellinologi» che si dedicano alla Biografia infinita, titolo della sapida rubrica che teneva sulla rivista «Fellini Amarcord» della Fondazione riminese intitolata al Nostro. Tra i fellinologi di varie generazioni, chiedendo venia per le inevitabili dimenticanze (maddeché, mi toglieranno il saluto), menzioniamo in ordine sparso: Sergio Zavoli da sempre amico e confidente di Federico, Mario Verdone, Enzo Biagi, Giovanni Grazzini, Lietta Tornabuoni, Gideon Bachmann, Italo Moscati, Beniamino Placido, Vittorio Boarini, Paolo Fabbri e Mario Guaraldi che hanno curato una provvida edizione digitale integrale del Libro dei sogni, Aldo Tassone, Goffredo Fofi e Gianni Volpi, Pier Marco De Santi dedicatosi soprattutto alla disamina dei disegni felliniani, Claudio G. Fava, Gian Piero Brunetta, Vincenzo Mollica, Marco
Missiroli, Alessandro Nicosia, Pietro Citati, Milan Kundera, Felice Laudadio che ha istituito il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence assegnato ogni anno al Bif&st di Bari, Ennio Cavalli, Oreste Del Buono che con Liliana Betti scrisse un libro dal titolo Federcord, Jean Antoine Gili, Irene Bignardi, Françoise Pieri, Jean-Paul Manganaro, Paolo Mereghetti, Adriano Aprà, Peter Bondanella, Francesco Casetti, Mario Sesti, Hollis Alpert, Tatti Sanguineti, i gesuiti Angelo Arpa, Nazareno Taddei e Virginio Fantuzzi, Costanzo Costantini, Silvio Danese che ha raccontato il romanzo del cinema italiano in Anni fuggenti, Antonio Costa, Natalia Aspesi, Patrizia Carrano, Gian Luca Farinelli che dirige la Cineteca di Bologna cui si deve il restauro di Amarcord e Lo sceicco bianco, Gérald Morin, Andrea Minuz, Orio Caldiron, Stefania Miccolis, Marina Sanna, Fabrizio Natalini, Gianfranco Angelucci che fu stretto collaboratore di Federico, la tenace produttrice Tilde Corsi che cominciò sul set di Casanova, Sam Stourdzé, Alessandro Carrera, Jacqueline Risset, il poeta Andrea Zanzotto che raccolse in Filò le filastrocche in dialetto veneto votate a Il Casanova di Federico Fellini, Gianni Canova, Emiliano Morreale… E naturalmente c’è l’amico bolognese Dario Zanelli, critico di «il Resto del Carlino», che nel 1982 riuscì a «strappare» a Federico una lista dei suoi film prediletti di tutti i tempi: «Cinquanta, ma vuoi scherzare? Mai visti tanti…». Alla fine furono 42 titoli, tra cui figurano Chaplin, Bergman, Visconti, Rossellini, Capra, Ford, Disney, Wilder, Polanski, Losey, Kubrick, Germi, ben due film della serie 007, Totò, Peppino e… la dolce vita di Sergio Corbucci (1961); invece mancano Ejzenštejn, Dreyer e von Stroheim, «perché non li ho proprio visti». Oriana Fallaci, Nello Ajello, Giovannino Russo,
Eugenio Scalfari, Stephen Gundle, Aurelio Magistà, nonché Domenico Monetti e Giuseppe Ricci sul fronte dell’archivio delle fonti sono tra gli autori di volumi utili a cogliere l’atmosfera degli anni della Dolce vita, laddove Roberto Cotroneo nello struggente romanzo-memoir Niente di personale racconta il tramonto del mondo di Fellini e Moravia, Calvino e Sciascia. Ci sarebbero poi i registi «felliniani», un elenco lunghissimo dal quale estraiamo almeno i nomi di Ettore Scola e Pupi Avati, Marco Ferreri e David Lynch, Gianfranco Mingozzi, Emir Kusturica con i suoi fellinismi balcanici, Pedro Almodóvar il cui recente Dolor y gloria appare modellato su 8 ½, Giuseppe Tornatore che nel finale di Baarìa sospeso tra passato e presente evoca Amarcord e 8 ½, Nanni Moretti e Woody Allen per il geniale autobiografismo di fondo, Sergio Rubini e Ferzan Özpetek per la passione nel racconto di gruppo, il Matteo Garrone di Reality e Dogman, François Truffaut di Effetto notte, Wes Anderson, Eugenio Cappuccio, Juan Manuel Chumilla-Carbajosa che rivisita la Saraghina nel cortometraggio ¡La Rumba!, Roberto Andò che in Viva la libertà mostra un Fellini sdegnato per gli spot durante i film, Gabriele Mainetti nei meandri dell’amara vita a Tor Bella Monaca di Lo chiamavano Jeeg Robot, Peter Greenaway autore di un lascivo 8 ½ Women, Ken Russell, Tim Burton, Alexander Payne, Paul Mazursky che diresse Federico nel ruolo di sé stesso in Alex in Wonderland, Juan José Bigas Luna e naturalmente Sorrentino… Per non parlare delle maestranze di Cinecittà, dei fotografi di scena e dei paparazzi, dei cronisti, delle comparse, persino di una serie di simpatici o canaglieschi affabulatori/impostori
della provincia italiana. A sentir loro, ci fu chi una notte si mise alla guida da San Pietro Vernotico per portare al mattino i taralli pugliesi a Federico o chi in una balera di Piacenza presentò al maestro una bellissima aspirante attrice veneta. Una sorta di bizzarro cerchio magico a cerchi concentrici, di cui scrive ironicamente in Lo sciamano di famiglia il poeta e francesista Valerio Magrelli, figlio di un’allieva dell’omeopata Antonio Negro da cui Fellini si recò qualche volta negli anni Settanta. Negro segnala al regista il giovane Magrelli, che così diventa «assistente raccomandato» durante le riprese di Casanova: Ero inserito nel cerchio più esterno (a occhio e croce sarà stato il ventesimo) di quella rosa mistica formata dal set. Perché Fellini, Fellini il Tolemaico, occupava il cuore di un vastissimo sistema gerarchico che si diradava via via alle estreme propaggini.
Di quel sistema Kezich era a sua volta una specie di «governatore», in grado di distinguere il vero e il falso sul conto del maestro, tuttavia indulgente verso le fandonie (non le perfidie), visto che lo stesso Fellini si divertiva ad alimentare sapide frottole sul proprio conto: «Mai conosciuto un uomo più bugiardo di Federico!», diceva con affetto Alberto Sordi. La critica di Kezich, scrive Bruno Roberti nell’Enciclopedia del Cinema Treccani, è concepita anche come una sorta di «diario in pubblico», che compendia riflessione, profilo biografico, dialogo con personaggi cinematografici eletti interlocutori privilegiati. È il caso del suo rapporto con Federico Fellini, protrattosi nel tempo e cominciato proprio con un diario Su La dolce vita con Federico Fellini.
Seguiranno vari tomi di fellinologia culminati nelle biografie per le edizioni Camunia di Raffaele Crovi (1987) e quindi per i tipi di Feltrinelli (2002), come pure altri libri, tra i quali vi sono le raccolte Il MilleFilm e Il CentoFilm edite dal Formichiere a mo’ di pendant alle antologie laterziane di Grazzini, e Dino De Laurentiis, la vita e i film scritto da Tullio insieme alla seconda moglie Alessandra Levantesi. Quando e come diventano amici Kezich e Fellini? Nel 1958 Pietro Bianchi, il mitico «Pietrino» direttore del «Settimo giorno» e critico cinematografico del rivoluzionario quotidiano milanese «Il Giorno» di Italo Pietra, spedisce il giovane inviato a Roma per un’inchiesta sul cinema italiano: Avevo appena pubblicato un articolo dal titolo lacrimevole, Il caro estinto, alludendo al neorealismo, la gloriosa bandiera del nostro recente passato. Ma Pietrino, che non era stato mai neorealista, mi strillò dietro: «Sei un pesce! Vai, informati e butta giù un servizio ottimista!». Aveva ragione, come spesso succedeva. In pochi giorni parlai con tanti registi, produttori, attori […] Ma l’incontro fatale in un luminoso ufficio sul Palatino, fu quello con Federico Fellini, aureolato da decine di fotografie di cronaca (spogliarelli, zuffe in via Veneto, echi di mondanità e una statua di Cristo appesa a un elicottero…) che sulla parete dietro la scrivania componevano una specie di affresco. Quante volte sarebbe tornata questa parola riferita al nuovo film, che si intitolava La dolce vita? […] Passammo insieme un paio di giornate, tipiche delle molte che avremmo trascorso (o dovrei dire dissipato?) in modo analogo. Lui sulla pista del suo film, ma non era un sentiero solo: erano dieci, cinquanta, cento […] Telefonai a Bianchi che ci sarebbe voluto un po’ di tempo e
intanto, non più in lutto per il neorealismo, trotterellavo dietro a Federico fra palazzi e baracche, a scoprire ambienti e personaggi, a incontrare un film che sembrava annidato dappertutto e pronto a balzar fuori dalle pieghe della realtà.
Lo stesso Bianchi, due anni dopo, sarà tra i recensori più lucidi di La dolce vita: Senza certo volerlo, perché nessuno è più lontano di lui dall’atteggiarsi a moralista o a profeta, Fellini ha ribadito una vecchia verità cara ai romantici; che cioè negli anni di crisi, di trapasso da una civiltà troppo conosciuta a un’altra che si intuisce, solo l’artista riesce a conferire stile e coerenza vitale ai fatti immotivati della realtà che lo circonda. Ecco perché La dolce vita, oltre ad essere un film eccezionale, è anche uno spettacolo che non dà un minuto di respiro, che trasporta lo spettatore oltre i limiti della favola lunga e potente rappresentata sullo schermo.
Federico Fellini. Il libro dei film è il titolo dell’ultimo volume di Kezich, apparso postumo nell’autunno del 2009, un viaggio «dentro un labirinto illustrato con 25 stazioni» per dirla con la premessa che rinverdisce il gioco del computo dei titoli felliniani, ingarbugliato a bella posta da Federico sin dai tempi di 8 ½. Ottavo film «e mezzo» del regista che allude forse al suo esordio in coppia con Alberto Lattuada (Luci del varietà) o, chissà, ai due cortometraggi Agenzia matrimoniale e Le tentazioni del dottor Antonio nei film a episodi Amore in città (1953) e Boccaccio ’70 (1962), quest’ultimo con l’irresistibile Peppino De Filippo ossessionato dall’icona gigante della sensuale Anita Ekberg.
Rossellini dà il via alle riprese di Roma città aperta il 17 gennaio 1945 in uno studio cinematografico di fortuna in via degli Avignonesi 30, a 500 metri dalla fontana di Trevi. Per Fellini, lì presente, è la nascita di una vocazione per la regia. Negli stessi mesi a Trieste, sotto le bombe, per Kezich scocca una chiamata speculare e non meno utile alle arti. Rispetto al luogo comune secondo cui il critico spara sull’esercito di cui fa parte, Kezich s’iscrive al partito paradossale dello storico dell’arte Roberto Longhi: «Critici si nasce, artisti si diventa». «E io modestamente lo nacqui», scherzerebbe magari Tullio, citando Totò, se oggi fosse qui ad assistere alla progressiva scomparsa della critica dai giornali, che anche per questo sono quasi scomparsi.
L
Luna
La voce della luna nell’omonimo film di Fellini è davvero l’unica a parlarci o forse a zittirci. Ma l’elogio della follia, e della semplicità degli idioti, non è tutto quel che resta di un capolavoro. L’ultima opera di Federico, sceneggiata con lo scrittore Ermanno Cavazzoni dal cui Poema dei lunatici prende le mosse, e con il vecchio amico Tullio Pinelli, esce il 31 gennaio 1990. Non pochi recensori avanzano una serie di cautele, distinguo, raffronti con i titoli precedenti del maestro settantenne, tentando di non perdersi nella fitta trama di luoghi, figure e macchiette della pellicola. D’altro canto, le reverenze sui giornali si traducono in un’accademia dell’entusiasmo quasi timorosa di lasciarsi sedurre dal fortunato incontro con la creatività felliniana. Sono articoli «con le pinze» sotto titoli soggiogati dal fascino dell’astro notturno, proni di fronte alla luce lattea che il visionario Federico mostra imprigionata sulla Terra in una delle sequenze più suggestive. La voce della luna arriva nelle sale a un anno di distanza dalla manifestazione della sinistra contro le interruzioni pubblicitarie nei film trasmessi in Tv, che si tenne nel Teatro Eliseo di Roma il 13 febbraio 1989. Fellini conia lo slogan «Non si interrompe un’emozione» che sarà poi utilizzato nella campagna referendaria del 1995, ma infine il voto popolare sulla legge Mammì si esprime a favore degli spot durante la trasmissione dei film: le emozioni si possono interrompere. Fra l’altro, Fellini non si era sottratto alle regie pubblicitarie, da Oh, che bel paesaggio, con Silvia Dionisio e
Victor Poletti (Bitter Campari, 1984), al celebre Rigatoni Alta Società, con l’allusione erotica finale, per la pasta Barilla nell’85, fino ai tre episodi di Il sogno, con Paolo Villaggio, Fernando Rey, Anna Falchi, Michele Giovanni Di Castro per Banca di Roma (1992 – ultimo impegno felliniano). Mentre rifiuta con garbo, perché già malfermo nella salute, di girare il videoclip Rain per la canzone tratta dall’album Erotica di Madonna (1993). Il Fellini «politico» certo in quegli anni ha in uggia il «decisionismo» craxiano e il berlusconismo trionfante nei costumi ben prima che nelle urne (la «discesa in campo» di Berlusconi ci sarà solo nel gennaio 1994). Sono dimensioni caratterialmente lontane dalle sue corde di eterno indeciso e di svagato satirista, come certifica la sublime battuta scritta per La dolce vita: «Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi stessi». Amico personale di Giulio Andreotti e cattolico inquieto, vicino ai repubblicani sia pure in pigro ossequio alla tradizione romagnola di un Pri anarcheggiante, Fellini si dichiarava «riminese e politicamente esquimese» e, di tanto in tanto, di sinistra, senza esserlo mai stato, ovvio, almeno non nei termini dell’ideologia marxista che tramonta nel 1989, con il crollo del Muro di Berlino. Come non riconoscere, in ogni caso, che egli sa cogliere l’Italia presente e indovinare quella a venire? Ancora una volta Fellini inquadra la deriva grottesca che altri – beffardamente – definiranno «felliniana», scambiando la diagnosi per la malformazione! Il degrado irreparabile fa capolino tra i lustrini senili di Ginger e Fred (1985) con la vecchia coppia formata da Amelia e Pippo (Masina e Mastroianni), che torna a ballare insieme per un programma sul piccolo schermo a trent’anni dall’ultima
esibizione, in una vigilia natalizia magmatica e poco promettente, se non minacciosa, a giudicare dai centauri che circondano Amelia. È una metafora lungimirante dell’antropologia culturale che andava appena affacciandosi e il finale di Ginger e Fred, col martellare degli spot nelle reti televisive dopo il successo degli anziani ballerini ormai in partenza da Termini, fa il paio con lo strepitoso epilogo di Intervista di due anni dopo. Qui il commiato è un attacco degli indiani d’America al piccolo mondo antico dei cinematografari e le lance dei «selvaggi» sono semplicemente delle antenne televisive! Tra le «ideuzze» accarezzate negli ultimi tempi da Fellini c’era uno spunto su Silvio Berlusconi che compra Venezia e ribattezza «Canale 5» il Canal Grande. In La voce della luna il Cavaliere in qualità di presidente del Milan viene effigiato sull’anta di una porta va e vieni tipo saloon, presa a calci dai camerieri del ristorante. Nel contesto di un’Italia involgarita giganteggiano lo stralunato prefetto Gonnella (Paolo Villaggio) e il lunatico Ivo Salvini (Roberto Benigni). E vi sono la lunare Aldina (Nadia Ottaviani) che ha lo stesso nome di una ragazzina di Amarcord, il luna park quotidiano che qui prende il posto della classica galleria circense felliniana, ovvero un lunario padano di timori, superstizioni, speranze. Ma qualcuno, o qualcosa, cerca continuamente di rubare la scena alla luna. Improvvise eclissi ne oscurano l’estro. La vecchia civiltà contadina risulta confusa da comportamenti e valori odierni: ecco, qualcuno addirittura spara alla luna… Quel mondo che si basava sulla luna per la semina come per il raccolto, per riconoscere la follia e la ragione, perfino per alludere alla fecondità femminile, ora ha la luna di traverso. È corrotto scenograficamente da una babele urbanistica, aggredito linguisticamente dalla babilonia di
gerghi esotici di «vu’ cumpra’» o giapponesi, di allocuzioni roboanti (il vescovo, il sottosegretario), di congiunzioni senza senso (Salvini: «Vengono e mi dicono solo: quindi, comunque, dunque…»), dei suoni assordanti della discoteca. Non c’è il rimpianto pasoliniano per la fine della solidarietà dell’Italia preindustriale, e il film è punteggiato dalle lucciole, che invece Pier Paolo in un famoso articolo del febbraio 1975 lamentava scomparse per sempre insieme alla pietas. Ma egualmente Fellini appunta strali contro un potere più anarchico della società che domina. Un potere radicato nella frenesia del mercato, del consumo, delle ganasce spalancate, del diffuso strapaese. Come interpretare altrimenti, nel film, la grande abbuffata di cibi e di sensi durante la «gnoccata»? Davvero vale attribuirla a un improvviso fumettistico? Pietà l’è morta, per Fellini, e nel film il parroco dice: «Del Paradiso non si sente parlare da un bel po’ di tempo, forse esiste al cinquanta per cento». L’apocalisse in La voce della luna è tutt’uno con la rassegnazione e l’integrazione. Gli unici sani sono i matti, perché naturalmente disinteressati al resto del mondo, non corrotti dal commercio di dialoghi «sensati», perennemente ignari dell’attualità e della cronaca. Ma se il personaggio interpretato da Benigni è un rapsodo che s’interroga nel paese degli orrori, rassegnato ad attraversarlo con animo leggiadro, il prefettizio Villaggio brilla per furore. L’ex alto funzionario statale è un fantasma roso dal tradimento dello Stato che ha servito per tutta la vita: immagina d’ingaggiar battaglie, un’armata in rivolta dietro il suo ombrello, una riscossa contro il caos. Sogna, Gonnella, quell’ordine di una comunità che non poteva prevedere il governo del disordine, o fantastica di un
valzer subito negato dal rock. In un dialogo c’è l’eco del «meglio ricordare che vivere» spesso appioppato frettolosamente a Fellini tout court e in un altro passaggio risuona l’aforisma «nulla si sa, tutto si immagina». Un muto colloquio dell’autore con la luna è il sottotesto di un film dall’impressionante semplicità, tragico ma gioioso, impastato con il coraggio degli umili, degli eroi silenziosi del Novecento – come il padre di Titta in Amarcord – che hanno lavorato e si sono battuti per ritrovarsi infine in un mondo senza misure né valori. Fellini non è uno di loro. Ha avuto molto dalla fortuna grazie a una vena aurea che qualcuno riteneva esaurita; invece, in La voce della luna, squarcia le nebbie che avvolgono il film e parla all’ostinata volontà di capire dove vanno i vivi e i morti. Chiede silenzio, Federico. L’«inventore» della Dolce vita mostra quanto sia diventata assai più crudele rispetto ai tempi di via Veneto: una notte buia, dove la luna rischia di scomparire per sempre. Ritornano le domande radicali di Leopardi: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? / Sorgi la sera, e vai, / Contemplando i deserti; indi ti posi». La luna di Fellini è un timido monito a non oscurare quella sorgente con l’eccesso di visioni domestiche, claustrali, fobiche. A non dimenticare che solo oltre la frenesia della «realtà» (da scrivere tra virgolette come ammoniva Nabokov) v’è forse una felicità che nessuna Tv potrà mai darci e che va perseguita tutti i giorni. In altri termini, la politica come ricerca del bene. Una luna nel pozzo? Restate con noi, la risposta dopo la pubblicità…
M
Marcello
M come Mastroianni? Meglio M come Marcello o Marcellino, all’anagrafe felliniana vedi anche alla voce: «vecchio Snaporaz». Il soprannome fumettistico risuona per la prima volta in una battuta sussurrata fra sé e sé dal protagonista di 8 ½, Guido Anselmi, diventando poi cognome e mantra di Marcello in La città delle donne (1980). Nel cinema di Fellini qualunque azione non vale un gesto giocoso né può eguagliare la forza e il mistero di un volto. È il prodigio di un incanto che produce disincanto, e, viceversa, di un disincanto che perpetua l’incanto. L’autobiografia immaginaria del corpus felliniano diventa a suo modo un antidoto alla «timidezza rispetto al caos del mondo» di cui parla il sociologo tedesco Niklas Luhmann, tra i primi a cogliere l’aporia di quanti – studiosi o artisti – analizzino la società senza considerare di far parte dell’orizzonte osservato. Non è il caso di Fellini, che d’istinto corre il rischio di mettersi in campo; anzi, è esattamente questa la leva del suo affabulare, al culmine in 8 ½, «con l’improvvisa e quasi magica capacità di riordinare gli elementi e trovare la chiave per ricongiungere i fili sparsi e incomprensibili del reale e del vissuto», come scrive Brunetta. Tra i mille e mille fotogrammi che lo testimoniano, il più «iconico», com’è di moda dire oggi, è un fermo immagine tratto da La dolce vita. Mastroianni indossa una giacca bianca a due bottoni che gli viene giù morbida su una camicia scura
chiusa da un piccolo foulard in tinta. Dimostra una mezza età indefinibile, ha gli occhi illuminati da una specie di sorriso e un riccio sulla fronte, con gli avambracci verso l’alto in un gesto che somiglia a una preghiera postconciliare. Un’istantanea di scena scattata prima del ciak sulla spiaggia di Fregene mostra Fellini che indica a Mastroianni l’espressione da assumere davanti alla macchina da presa. Ricordate, vero? In quella inquadratura Marcello sta tentando invano di comunicare con la ragazzina nel finale di La dolce vita: il rumore delle onde e il sibilo del vento impediscono che si sentano, ma forse si capiscono egualmente. La sua è un’espressione ineffabile di nichilismo mite: vanitas vanitatum, et omnia vanitas («Vanità delle vanità, e tutte le cose vanità», Ecclesiaste 1,2). Nell’apparente vuoto di senso fa capolino una rassicurante ironia; nello sconcerto, un lampo di conforto: è la marachella del cinema, è il segreto di Federichino illuminato dal volto di Marcellino. Fra i due amici correvano poco più di quattro anni, visto che l’attore era nato il 28 settembre 1924 a Fontana Liri, in provincia di Frosinone, a metà strada fra Roma e Napoli. La sua è una famiglia di artigiani e falegnami come il nonno Vincenzo, dipendente del Polverificio militare di Fontana Liri, che avrà due mogli e dieci figli, tra i quali Umberto Mastroianni, destinato a diventare un importante scultore. Il padre di Marcello, Ottorino, è a sua volta un impiegato del Polverificio che viene assorbito dall’Arsenale di Torino, dove nel 1928 si trasferiscono tutti i Mastroianni, in cerca di lavoro, scarseggiante in quella provincia tra Campania, Molise e Lazio che pure allora si chiamava Terra di Lavoro. Ma sotto la Mole le cose non vanno bene e la famiglia nel ’33 si stabilisce a Roma, nel quartiere Tuscolano. Da quelle parti sta per sorgere
Cinecittà e Marcello, appena quattordicenne, prende a bazzicarla grazie ai buoni pasto per le comparse che gli passano gli amici della famiglia De Mauro, gestori del ristorante nel recinto dei teatri di posa. Le sue prime fugaci apparizioni sono nel 1939 in Marionette di Carmine Gallone e nel 1941 in Tosca di Jean Renoir (sul set conosce l’assistente alla regia Luchino Visconti). Comincia così la carriera del giovane Mastroianni, ciociaro come Vittorio De Sica e come Nino Manfredi al quale «soffia» Flora Carabella: entrambi s’innamorano della raffinata attrice, allieva di Orazio Costa e già diretta in teatro da Visconti, ma Marcello è più lesto nel dichiararsi e la sposa nel 1950. I due avranno una figlia, Barbara, costumista, e di fatto si separano quando lui si trasferisce a Parigi per vivere la storia d’amore con Catherine Deneuve, che nel 1972 mette al mondo Chiara Mastroianni: diventerà una bravissima attrice e la sosia al femminile del papà. Marcello e Flora non divorzieranno mai. Era un rubacuori involontario, Mastroianni: «Non mi piaccio, non mi sono mai piaciuto, neanche fisicamente», dichiara a «L’Europeo» nel 1971. Un divo suo malgrado, un uomo scanzonato, scettico e autoironico al pari di Fellini. Fra i due – bellissima battuta di Federico – vige «un rapporto di grande lealtà e fedeltà, basato sulla reciproca sfiducia». Il vecchio Snaporaz non incarna certo l’autobiografia della nazione, come toccò in sorte ad Alberto Sordi, sebbene due studiose anglosassoni della mascolinità nel cinema italiano, Jacqueline Reich e Catherine O’Rawe, annotino che sullo schermo i personaggi di Marcello Mastroianni incarnano la natura instabile della virilità italiana attraverso la figura dell’inetto, in un clima politico, sociale, sessuale,
economico e culturale in rapido sviluppo nell’Italia del secondo dopoguerra… L’inetto non è attivo ma passivo, non coraggioso ma codardo, ed è fisicamente o emotivamente impotente, sempre in chiara opposizione con i modelli virili codificati dalla cultura italiana.
Ecco, il latin lover è servito, altro che maschilismo! Impotente in Il bell’Antonio di Bolognini e omosessuale in Una giornata particolare di Scola, per non parlare della costante crisi esibita nei sei film che interpretò con Fellini, Mastroianni è in effetti un campione dell’inazione, lemma ricorrente nello Zibaldone leopardiano, che preferiamo a «inettitudine». È un Oblomov novecentesco, un pigrone che Salman Rushdie eleggerà a «suprema incarnazione» dell’accidia mentre, in via Veneto e dintorni, «vaga tra feste immobili e decadenti, rapito dall’ozio, da un’incapacità di compiere scelte o di far progredire la sua vita, una paralisi dello spirito». Del resto, La dolce vita segna il cambio di registro antinarrativo di Fellini che sarà «perfezionato» in 8 ½, e, in pieno boom economico anni Sessanta, nega l’idea del progresso quale linea retta, inarrestabile, inesorabile; contraddice «le magnifiche sorti e progressive» di un Novecento «superbo e sciocco» almeno quanto l’Ottocento di cui dubitava Leopardi. «Non ho nulla da dire, ma voglio dirlo lo stesso», sarà il motto di Guido in 8 ½ sotto il segno di una sublime imperfezione. Una decostruzione narrativa e simbolica che anticipa gli approcci contro il metodo di Jacques Derrida e Paul Feyerabend. Se volete, il postmoderno al lavoro sul volto di Marcello… «Sono stato fortunato», diceva Mastroianni con il sorrisetto di ordinanza per schermare l’imbarazzo nel ricevere uno dei
tanti riconoscimenti, inclusi il Leone d’oro alla carriera di Venezia 1990, la Légion d’honneur consegnatagli nel 1993 dal ministro francese della Cultura Jack Lang, e tre candidature all’Oscar per Divorzio all’italiana (1963), Una giornata particolare (1978) e Oci ciornie (1988), senza però mai vincere la statuetta (premi che teneva in bagno, stando a un’indiscrezione di Alfonso Signorini rivelata in un programma di Piero Chiambretti). Fortunato pure con le bellissime donne amate: Flora e Catherine, e le altre prima, dopo e durante. La sua compagna di speranze negli anni squattrinati si chiama Silvana Mangano, l’unica per la quale Sordi avrebbe rinunciato al celibato, che invece sposerà il produttore Dino De Laurentiis. La relazione con Faye Dunaway, esplosa in pieno Sessantotto sul set di Amanti, titolo galeotto di uno dei film meno riusciti di Vittorio De Sica, rinverdisce oltreoceano la leggenda dell’amante latino, nonostante Marcello provi in ogni modo a spogliarsi dell’«eredità» di Rodolfo Valentino e Rossano Brazzi. E poi c’è l’eterna complicità, un’intesa umana e professionale perfetta, con Sophia Loren, da Peccato che sia una canaglia di Blasetti (1954) a Ieri, oggi, domani di De Sica (1963), nel quale Marcello ulula assistendo al leggendario striptease di lei, rimesso in scena dalla stessa coppia trent’anni dopo in Prêt-àporter di Robert Altman (1994). Fino a Una giornata particolare di Scola, in cui l’omosessualità del radiocronista viene rivelata alla casalinga disperata sul terrazzo del Palazzo Federici mentre Hitler è in visita a Roma. Il tratto innegabilmente italiano – e felliniano – di Mastroianni è il principio di piacere assecondato per andare oltre gli affanni e i dolori. È l’idea che, dopo tutto, la vita sia una festa collettiva (il suggello di 8 ½), l’inclinazione a coltivare il «fanciullino»
di Giovanni Pascoli, sfuggendo alle responsabilità dell’età adulta e alla crescita della psiche. «Noi mediterranei abbiamo l’anima, non la psiche», ricorda Mastroianni in Sostiene Pereira, diretto nel 1995 da Roberto Faenza e tratto dal romanzo omonimo di Antonio Tabucchi, una fra le sue ultime interpretazioni. Ma ciò che nella vita può essere un problema, nell’arte diventa una risorsa: è la felicità del mestiere dell’attore, un destino che Marcello non smette di ringraziare, senza prendersi sul serio, anzi, sfotticchiando certe manie perfezionistiche alla De Niro. Per Mastroianni il cinema significa viaggiare, conoscere persone nuove e, naturalmente, fumare tra un bicchiere di vino e l’altro con la troupe dopo le riprese nella Grecia arcaica di Anghelopoulos, nella Lisbona di Pessoa, o in qualche remoto e ventoso angolo del Sud argentino. Neanche l’incipiente senilità e il cancro riescono a fermarlo. Poco tempo prima della fine dichiara in un’intervista: «Sento l’alito della morte sul collo». Il fratello minore, il montatore Ruggero Mastroianni che lo precederà di qualche mese nell’ultimo viaggio, gli telegrafa la replica: «Mettiti un maglione col collo alto». E sia, lui indossa un «dolcevita» e torna a recitare in teatro dov’era nato attore con Luchino Visconti. In Le ultime lune, un testo di Furio Bordon per la regia di Giulio Bosetti, Mastroianni è un anziano professore che si risolve a lasciare la casa del figlio per trasferirsi in un ospizio, e ogni sera chiude lo spettacolo con la battuta «Vorrei andarmene verso Natale». Muore a Parigi il 19 dicembre 1996. «Quando si dice il culo, eh Marcellino?», avrebbe scherzato Fellini. Al titolo Amarcord s’affratella il commovente documentario-monologo di Mastroianni già malato, realizzato
dalla sua ultima compagna, la regista Anna Maria Tatò: Mi ricordo, sì, io mi ricordo viene presentato postumo al Festival di Cannes nel 1997 e nella versione integrale di quasi quattro ore alla Mostra di Venezia di quello stesso anno. Il film si apre con il ricordo di un grande albero di nespole e va avanti con le memorie del bacio dato a una sconosciuta sul treno, una notte del 1943, l’anno in cui fugge dalla Germania nazista, dove era finito a lavorare, e ripara a Venezia insieme al pittore Remo Brindisi. Poi ecco gli amici amatissimi a cominciare da Federico, la madre e il padre, il fratello Ruggero, le figlie, gli incontri con i maestri dello schermo. Non mancano dettagli, flash, epifanie, città, casi della vita che costituiscono la trama imponderabile della memoria, apparentemente rapsodica nelle scelte, in realtà selettiva nei meandri del tempo: «Tutto quello che hai visto ricordalo, perché quello che dimentichi ritorna a volare nel vento». Una volta il giornalista del «Tempo» Enrico Roda gli chiede: «Qual è la cosa che la spaventa di più?» – «Il domani», risponde (citata da Enzo Biagi nel libro La bella vita. Marcello Mastroianni). Bravissimo a fare le pernacchie improvvisando spettacolini nel Teatro 5 di Cinecittà, a volte in coppia con Paolo Panelli, che mandavano Fellini in brodo di giuggiole, l’attore viene colto dall’obiettivo di Paolo Di Paolo in un clic senza data – saranno gli anni Sessanta – nel bar di Cinecittà dove, compitissimo e con lo sguardo nel vuoto, sorseggia un caffè. Potrebbe essere tranquillamente il perito edile Marcello Mastroianni impiegato da disegnatore tecnico all’Istituto Geografico Militare di Firenze, diploma e lavoro ottenuti durante la guerra, se non fosse per i raggi di luce che, filtrando dai finestroni, tratteggiano l’aura di un mito controvoglia.
N
Nino, l’amico magico
Non si riesce a pensare ai film di Fellini senza avere nella testa e nel cuore le note di Nino Rota, il maestro milanese, barese d’adozione, scomparso a 67 anni nel 1979 per un attacco cardiaco. Insieme, dal 1952 al 1979, Federico e Nino realizzano una galleria di meraviglie che allinea Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, La dolce vita, Le tentazioni del dottor Antonio, 8 ½, Giulietta degli spiriti, Toby Dammit (episodio di Tre passi nel delirio), Block-notes di un regista, Fellini Satyricon, I clowns, Roma, Amarcord, Il Casanova di Federico Fellini e Prova d’orchestra. Una lunga collaborazione che per ogni film comincia ben prima delle riprese, quando i due si ritrovano per scambiarsi visioni, idee e suggestioni, finché Nino al pianoforte non accenna a una melodia o al tema di una certa scena, infondendo un tono e contribuendo allo spirito stesso del cinema di Fellini. A saldarli in un legame tanto scanzonato quanto profondo contribuì fra l’altro il comune interesse per l’esoterismo e la teosofia, che soprattutto Rota coltivò per tutta la vita. La grande sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico era tra le amicizie più strette del musicista fin dal 1927, quando questi venne accolto a Roma nella casa del padre di lei, lo scrittore Emilio Cecchi, e raccontava delle nottate trascorse con Nino Rota a interrogare carte e tarocchi per entrare in contatto con una dimensione «altra» che, a ben vedere, aleggia nella prodigiosa leggiadria dei suoi motivi musicali. Il maestro fra l’altro collezionò insieme allo scrittore Vinci Verginelli una
mole di testi alchemici, poi donati all’Accademia dei Lincei, mentre l’Archivio Rota è inventariato presso la Fondazione Cini dell’isola di San Giorgio a Venezia, testimonianza di una produzione poderosa: composizioni da concerto, da camera e per il teatro (195 dossier contenenti materiali preparatori, stesure ed edizioni a stampa); composizioni per il cinema e la televisione (152 dossier contenenti materiali preparatori e di supporto all’esecuzione, stesure, edizioni a stampa e supporti audio); corrispondenza (circa 1.000 documenti tra lettere e telegrammi, in originale e fotocopia). Fu Gabriele D’Annunzio a denominare con l’esortativo «Vinci» il sedicenne pugliese Vincenzo Verginelli accorso ad arruolarsi nell’impresa di Fiume, prima di diventare un discepolo dell’alchimista Giuliano Kremmerz (alias Ciro Formisano di Portici), i cui scritti godettero di ampia fortuna sino alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Sarà Verginelli a scegliere e tradurre i testi – da Virgilio e Orazio fino a Belli e Goethe – di Roma capomunni, la cantata per baritono, coro e orchestra commissionata a Rota dalla Rai nel 1971 per il centenario di Roma capitale d’Italia, ma che lui riesce a comporre solo l’anno dopo: «L’evento e il carattere celebrativo non suscitavano in me alcun motivo di ispirazione, anzi lo inceppavano». Il fecondo sodalizio con Fellini non esclude affatto dal panorama musicale tradizionale Giovanni Rota Rinaldi, come si chiamava all’anagrafe con l’aggiunta del cognome materno in omaggio al nonno, il pianista e compositore ottocentesco Giovanni Rinaldi. Stando alle memorie della madre Ernesta Rinaldi, anche lei pianista, confluite nel volume Mio padre e Storia di Nino, a 8 anni Nino compone un pezzo per pianoforte
a mo’ di colonna sonora di una fiaba testé inventata, Storia del mago doppio e della fata Giglia, e a undici il primo oratorio, L’infanzia di san Giovanni Battista, su libretto di Silvio Pagani, eseguito in pubblico con successo a Milano e a Tourcoing in Francia, nonché una lirica per voce e pianoforte ispirata al poeta indiano Rabindranath Tagore, premio Nobel per la Letteratura nel 1913. Molto tempo dopo, quando Rota è già direttore del conservatorio di Bari, riconoscerà una precoce vocazione simile alla propria in un quindicenne di Molfetta candidatosi agli esami di ammissione al quinto corso con un’esecuzione strepitosa della Polacca in sol diesis minore di Chopin: «Questo è un ragazzo di cui si parlerà in tutto il mondo», dice dello studente, un tale Riccardo Muti… Allievo di Ildebrando Pizzetti e a Roma del torinese Alfredo Casella (fra l’altro, a sua volta nonno materno dell’attrice Daria Nicolodi), nel 1930 Rota vince una borsa di studio al Curtis Institute of Music di Filadelfia, dove prosegue gli studi con Rosario Scalero e Fritz Reiner. Negli Usa, oltre a Toscanini che lo aveva segnalato a Filadelfia, frequenta Gian Carlo Menotti e Aaron Copland, autori connessi alle avanguardie e alle sovversioni linguistiche della melodia tradizionale che invece Rota non abbandonerà mai, sebbene la sua propensione per il centone, la giocosa libertà e il candore essenziale nei temi felliniani, secondo il musicologo Fedele d’Amico (marito di Suso), lo avvicinino a Ravel e a Stravinskij (che conobbe di persona a Roma) nell’alveo del modernismo che trascolora nel postmoderno. «Plagio e pastiche, genere e convenzione, ironia e sentimento» costituiscono la cifra autentica di Rota, anche secondo lo
studioso britannico Richard Dyer. Alberto Arbasino ricorda che nella prima proiezione di prova di La dolce vita, una copia del montaggio non ancora doppiata, ogni attore parlava la sua lingua, nel sottofondo c’era la voce di Fellini che dava indicazioni, invece della musica di Nino Rota c’era in modo ossessivo L’opera da tre soldi di Kurt Weill che aiutava a fare atmosfera durante le riprese: affascinantissimo.
Insomma, al contrario di quanto solitamente si ritiene, Rota non è meno sperimentale di Ennio Morricone, a sua volta di estrazione accademica e compositore di avanguardia con il gruppo Nuova Consonanza, il quale ha introdotto chitarre, trombe, organi da chiesa, scacciapensieri nella musica da film, e concepito per Sergio Leone sia il brano «fischiato» da Alessandro Alessandroni in Per un pugno di dollari sia l’urlo finale di Il buono, il brutto, il cattivo. Lo stesso Morricone che, a colloquio con Francesco Merlo, gli confida quale colonna sonora vorrebbe per il suo funerale: «Solo silenzio». C’è una scuola italiana nelle «visioni sonore» che va da Goffredo Petrassi a Ludovico Einaudi, passando per Mario Nascimbene, Armando Trovajoli, Franco Mannino, Giorgio Gaslini, Pino Donaggio, Piero Piccioni, Carlo Siliotto, Roman Vlad, Riz Ortolani, Carlo Rustichelli, Dario Marianelli, i fratelli Guido e Maurizio De Angelis, Fabio Frizzi, e naturalmente Nino Rota, per il quale però contano innanzitutto l’afflato «magico» dell’ispirazione, il segno dell’orchestra, l’allegria del ritmo… Ed è subito Fellini. A dispetto dell’epiteto di «cinematografaro» affibbiatogli dagli invidiosi, Rota non ha composto soltanto «musica applicata», ma ha lasciato opere liriche tutt’oggi molto
eseguite come Il cappello di paglia di Firenze dalla commedia ottocentesca di Eugène-Marin Labiche (1945, prima esecuzione al Massimo di Palermo nel 1955), balletti, musica sacra e strumentale, sebbene il suo nome sia legato al cinema fin dal 1933, quando dagli Stati Uniti torna a Milano e lavora alla sua prima colonna sonora, per Treno popolare di Raffaello Matarazzo (1933). Qualche anno dopo comincia a insegnare Armonia e Solfeggio nel liceo musicale Paisiello di Taranto e quindi nel 1939 ottiene la cattedra di Composizione al conservatorio Piccinni di Bari, dove si stabilisce con la madre – fino alla morte di lei nel ’54 – in una casa a piano terra nella frazione di Torre a Mare, in via Leopardi 40, a pochi passi dal porticciolo di pescatori, oggi frequentato dai turisti che spesso ignorano quel genius loci. Dal 1950 al 1978 sarà anche direttore del conservatorio barese, che spesso raggiungeva in bicicletta all’alba coprendo i 10 chilometri di distanza da casa e talora restandovi a dormire pur di non sacrificare l’organizzazione della didattica rispetto ai successi che intanto coglieva in tutto il mondo. Un direttore amatissimo, come testimonieranno allievi quali Michele Marvulli, Anselmo Susca, Pierfrancesco Moliterni, Rino Marrone, Elena Vigliano, Franco Giannelli, Adriano Cirillo, Benedetto Lupo, Paolo Lepore, Agostina Zecca Laterza e Nicola Scardicchio. Pianisti del valore di Emanuele Arciuli e Angela Annese, fra gli altri, eseguono o studiano le composizioni rotiane, mentre a Bari la musica da film, sebbene assai lontana da tale matrice, annovera compositori come Ivan Iusco o il giovanissimo Mattia Vlad Morleo. Scardicchio, che al maestro ha dedicato vari saggi, considera riduttiva l’etichetta di «esoterista» per Rota, visto l’orizzonte filosofico cui era interessato fin dalla laurea in Lettere conseguita a Milano nel 1936. Vero. Tesi in
Estetica sulla musica rinascimentale del veneziano Gioseffo Zarlino, relatore il filosofo Antonio Banfi, maestro di antifascismo per un paio di generazioni di studenti fra i quali c’erano Vittorio Sereni, Enzo Paci, Remo Cantoni, Antonia Pozzi, Raffaele De Grada, Giancarlo Vigorelli, Alberto Mondadori, Luciano Anceschi e la più giovane Rossana Rossanda. Il professor Banfi scrive ad Anceschi che nel 1937 ha avuto la docenza all’istituto magistrale di Taranto, dove si trova anche Rota per insegnare al liceo musicale: «Mi saluti Nino e cercate di farvi compagnia». «L’angelico Nino», lo definisce Suso Cecchi d’Amico che sovente è sua ospite a Torre a Mare, mentre nei periodi romani il compositore abita in piazza delle Coppelle 64, in pieno centro, in un appartamento colmo di simboli arcani e di tomi cabalistici, le cui finestre s’affacciano dirimpetto alla casa in cui viveva l’amico Ugo Gregoretti, cui si deve la regia della magnifica edizione televisiva di Il cappello di paglia di Firenze (1974). Rota scrive colonne sonore di altri film celeberrimi, a cominciare dai capolavori di Visconti, una collaborazione avviata con l’adattamento della Settima sinfonia di Anton Bruckner per Senso (1954) e proseguita con Le notti bianche (1957), Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il gattopardo (1963) nella cui partitura riluce la rielaborazione da Verdi del «valzer brillante», il ballo di Burt Lancaster e Claudia Cardinale, scena clou del film. Il Padrino – Parte II nel 1975 frutta a Rota il premio Oscar per la colonna sonora a metà con Carmine Coppola, a parziale risarcimento di quanto accaduto nel ’72, quando Rota era stato prima inserito e poi estromesso dalla cinquina delle nomination perché alcuni temi di Il Padrino non risultarono originali, incluso il leggendario
Parla più piano, adattamento di un suo brano composto per Fortunella di Eduardo De Filippo (1958). Un’abitudine artigianale al riciclo, all’auto-plagio e alla citazione non acribiosa che quella volta gli costò cara, ma che è con ogni evidenza la sapienza prima del lavoro di Rota, nella filmografia felliniana e oltre. Dal motivo della tromba di Gelsomina in La strada (1954) alla commovente marcia circense di 8 ½ (1963), fino agli accordi/disaccordi di Prova d’orchestra (1979), egli crea per l’universo di Federico un’inesausta partitura di melodie e di variazioni armoniche della tradizione melodrammatica, dando fiato a un debito d’amore verso il repertorio bandistico che ha modo di conoscere bene nei lunghi anni pugliesi. Bande chiamate nelle piazze di paese – amarcord la provincia – a colmare la distanza mai certa tra il sacro e il profano, a scandire un senso del tempo disancorato dalla storia e dominato piuttosto dalla natura, dai giochi del caso, dall’imprevedibile altalenare di felicità e angoscia. Come avrebbero mai potuto le bande del Sud essere estranee al mondo di Fellini? Dopo la morte dell’«amico magico», il regista si rivolge a Luis Bacalov per La città delle donne, a Gianfranco Plenizio per E la nave va e stringe quindi un sodalizio con Nicola Piovani che firma le colonne sonore di Ginger e Fred, Intervista e La voce della luna. Grandi musicisti, per carità, ma nulla riserverà più l’incanto della sequenza finale di 8 ½ in cui «precipita» la crisi creativa ed esistenziale di Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), incalzata dalla musica ansiogena di Rota con una serie di note che si rincorrono fino a stridere e ricominciano daccapo. La colonna sonora di 8 ½ è decisiva sia nel restituire la tensione del protagonista sia nel
placarla, poco oltre, quando sulla spiaggia si concretano figure in bianco: le donne del passato che camminano (una con un bimbo in braccio), la Saraghina, i genitori di Guido, l’amante Carla (Sandra Milo), il cardinale e un altro prelato, la moglie Luisa (Anouk Aimée)… Una sinfonietta per flauto e trombone è suonata da quattro clown con il piccolo Guido al seguito, col vestito e il cappellino da collegiale che abbiamo visto nelle scene dedicate all’infanzia, ma stavolta la divisa è bianca invece che nera. L’esigua banda avanza, un cagnolino vi si accoda per un istante. Guido allarga le braccia in una definitiva resa a sé stesso e chiama i clown, li sprona a proseguire, si affianca per un attimo al Guido bambino e, senza fermarsi, gli sussurra qualcosa in un orecchio. Il bambino continua a marciare e a suonare. È un attimo, ma basta affinché il passato e il presente si ricongiungano e si riconcilino. L’infanzia è il futuro. Guido afferra il megafono, ha il cappello in testa, viene verso lo schermo ed è già in piena «Azione!», mentre le note dell’orchestra sul palco si aggiungono a quelle della piccola banda. «Aspetta, te lo do io il segnale», dice al bambino che intanto si sposta. «Ecco, adesso vai verso la tenda… Aprite!». Il piccolo Guido non smette di suonare il suo flauto, la macchina da presa indugia un paio di secondi su di lui, quindi il sipario si apre e mostra una grande scalinata in tubi Innocenti donde scende un’autentica folla: i personaggi di 8 ½ sfilano, parlando tra loro davanti all’obiettivo ed escono di campo. Sta imbrunendo. Con il megafono Guido invita tutti a prendersi per mano e ad allargare il cerchio. Tre squilli di tromba danno il la alla vera e propria marcetta finale, il girotondo è cominciato. Guido si toglie il cappello e va verso la moglie Luisa, la prende per mano e con dolcezza si muove con lei: entrambi si inseriscono
nella catena. È notte, ormai. Un occhio di bue isola i quattro clown e il piccolo Guido che, indefessi, continuano a suonare e a marciare. Il bambino alza il braccio e sembra dirigere la «sua» minuscola banda che fa retromarcia, mentre la cinepresa «allarga» l’inquadratura a mostrare la pista circense e il cordolo del girotondo ormai deserti. I clown escono di scena. Il bambino col flauto li segue subito dopo, sempre inquadrato dal fascio di luce. Procede baldanzoso e tenerissimo, solo nel buio. L’occhio di bue si spegne. Il piccolo Guido svanisce nella tenebra, ma il suo flauto si ascolta ancora… Titoli di coda. Mario Soldati scrisse: «È un momento indimenticabile […]: una manina tiene il piffero, l’altra batte il tempo con prodigiosa energia, con trionfale autorità». Invece quell’autorità è andata perduta, insieme alla speranza, in Prova d’orchestra, l’apologo di Fellini e Rota ispirato dall’omicidio di Aldo Moro: un paese che non riesce più ad accordare i suoi suoni, se non sotto diktat; una parabola del caos. Il film si apre sulla vigilia di un concerto sinfonico in un antico oratorio, là dove i musicisti prima dell’inizio vengono intervistati da un giornalista della Tv, finché non giunge il maestro che impartisce le prime direttive con accento tedesco. La prova comincia nella calma. All’improvviso scoppiano le proteste degli orchestrali e il maestro abbandona il podio, mentre nella sala impazza un clima «rivoluzionario» che non risparmia alcunché: l’anarchia regna sovrana persino sulle pareti imbrattate di slogan ribelli. D’un tratto le mura tremano, scosse dai colpi sempre più forti di una gigantesca palla di acciaio. Crollano le pareti e c’è una vittima fra gli orchestrali. Dopo la confusione e le grida e la paura, torna il silenzio e la prova riprende. Di nuovo sul podio, il direttore
d’orchestra scandisce gli ordini come un dittatore. Al netto degli equivoci politici che costarono a Fellini accuse di filototalitarismo, la metafora è tanto fosca quanto chiara e, più che il Sessantotto, che molti vollero individuare quale tardivo bersaglio felliniano, mette in luce l’individualismo imperante nelle stagioni del «riflusso», speculare alla violenza degli anni di piombo. Il tema del film è il declino della ragione, accompagnato dalla virulenza delle parole e dei comportamenti. Altro che film «fascista»! È la fine dell’armonia il basso continuo di Prova d’orchestra, un incubo forse più che mai nelle corde di Nino Rota, che muore poco prima dell’uscita della pellicola in sala.
O
8½
Avrebbe dovuto essere «La bella confusione» il titolo di 8 ½ che nel 1963 rivoluzionò la struttura del racconto e tra l’altro ottenne due premi Oscar, assegnati al miglior film straniero (la terza statuetta hollywoodiana delle cinque che avrebbe vinto Fellini) e ai costumi di Piero Gherardi. Il titolo suggerito dal co-sceneggiatore Ennio Flaiano fu scartato da Fellini che lo ritenne didascalico. Eppure, Federico il Grande si divertiva a raccontare di quando un tassista – che aveva visto 8 ½ in occasione della tesi di laurea della figlia – gli disse: «A dotto’, mi scusi se glielo dico, ma non ci ho capito un cazzo!». Il regista postillava: «È la migliore recensione che abbiano mai fatto per questo film» (sempre che la storiella sia vera). In 8 ½ Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) è un famoso regista alla ricerca di riposo in una stazione termale. Realtà e fantasia si mescolano nella sua mente, e il luogo che dovrebbe garantirgli un po’ di relax si trasforma invece in un’angosciante ribalta di personaggi, memorie e chimere. L’arrivo dell’amante Carla (Sandra Milo), poi della moglie Luisa (Anouk Aimée) e dell’attrice Claudia (Cardinale), nonché i colloqui con il suo produttore e con altri ospiti delle terme, aumentano il turbamento di Guido e ne fanno venire a galla i ricordi: il collegio dell’infanzia e i genitori scomparsi da tempo. Quando il regista appare sul punto di rinunciare al film cui intanto sta lavorando, sul set occupato dalla scenografia di una rampa di lancio per un’astronave, un
momento magico dà vita a una sorta di «social catena» leopardiana. È il celebre girotondo dei personaggi del film, scandito dalla musica circense di Nino Rota. Come La dolce vita tre anni prima, 8 ½ si accosta al reale con infinita curiosità, senza preconcetti, attento a registrarne i battiti nascosti, i chiaroscuri, l’enigma. Molti, allora, per partito preso (cattolico o comunista) intravidero nella «bella confusione» felliniana una minaccia per quelle «grandi narrazioni» (illuminismo, idealismo, marxismo) invero già in declino. In tal senso, involontariamente, Fellini anticipa la condizione postmoderna senza però compiacersi della «debolezza» del pensiero. E lo fa d’istinto, di pancia, di cuore, grazie al suo onnivoro desiderio di conoscere, di toccare, di smontare il giocattolo della vita e di toccare con mano un oggetto, una forma, un’idea e lasciarli cadere per vedere l’effetto che fa, per scoprire la vertiginosa bellezza dell’ignoto nel noto. Non un intellettuale, ma, sia concesso il neologismo, un principe «affettuale» bravissimo a percepire prima che a razionalizzare, a proiettare l’infanzia nell’età adulta, a scommettere sul sorriso del bambino, il piccolo Guido del finale di 8 ½, unico rimedio alla malinconia del vivere. D’altro canto, possono ben poco i rimedi della società affluente o piccolo-borghese che sul farsi degli anni Sessanta sembrano coincidere, mentre proprio lì si gettano le premesse dell’attuale impoverimento del ceto medio. Le acque curative, i bagni turchi, i fanghi terapeutici di 8 ½ dovrebbero ristorare il protagonista, esplicito alter ego felliniano sin dal titolo che riepiloga il numero dei film girati da Federico fino ad allora, ma l’andirivieni di emozioni, ansie, aspettative, passioni procura a Guido un’ulteriore spossatezza. Egli è alla ricerca
del dono di un senso. Fa testo la beffarda domanda del medico termale al regista paziente-impaziente: «Che ci prepara di bello? Un altro film senza speranza?». Anselmi ha 43 anni, esattamente l’età di Federico, ed è in preda a un autentico ingorgo esistenziale oggetto dell’incubo claustrofobico nell’incipit del film, allorché lo vediamo imprigionato in un’automobile circondata da altre vetture nelle quali persone che scopriremo essergli familiari lo guardano stupefatte, indifferenti, o addirittura amoreggiano tra loro. Guido non riesce a uscire dalla macchina, se non librandosi verso l’alto fra nebbie e nuvole. Eccolo, sorvola una torre-scenografia sulla spiaggia, dove però un uomo a cavallo ingiunge a un altro che ha in mano una fune di metter fine al volo strattonandolo verso il basso: «Giù definitivamente». Perfino il ricorso alla gioia dell’infanzia contadina, con il bagno nella grande botte, il letto riscaldato ad arte e l’avvolgente affetto materno, non basta più. L’ineffabile sciarada/ritornello «Asa Nisi Masa» del film evoca misteriosamente le radici popolari nella domestica penombra vespertina. È la medesima cifra delle sequenze dedicate alla «mostruosa» Saraghina (Edra Gale) sulla spiaggia di Rimini: fotogrammi accelerati come in una comica da cinema muto, gioia e tremori per l’iniziazione erotica. Intanto tornano alla luce altri episodi dell’infanzia in famiglia e nel collegio improntato a una rigida educazione cattolica. «Eminenza, io non sono felice», confessa Guido al cardinale che gli concede udienza nelle terme. L’alto prelato lo gela: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?». Tuttavia Guido, in mezzo ai «suoi» personaggi che sono in fondo altrettante proiezioni di
un’identità moltiplicata e frammentata (più di Pirandello, qui conta Pinocchio), alla fine impartisce direttive con un megafono e tutti gli danno retta, si prendono per mano. Così 8 ½ accompagna lo spettatore nell’esplorazione della zona grigia del genio, ma anche nelle incertezze e negli affanni di chiunque. Il film, grazie al restauro in digitale della Cineteca Nazionale e della Medusa, nel 2013 è stato restituito all’originario splendore in bianco e nero opera del direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, con Mastroianni silhouette più glamour che mai nel candore delle sovraesposizioni (Marcello con gli occhiali da sole fu l’icona scelta da Cannes quale poster del Festival 2014). All’anteprima della versione restaurata del Torino Film Festival, Sandra Milo rivelò svagatamente: «Federico sapeva parlare di tutto meno che di amore». Certo, Fellini riesce a comporre la confusione in una summa catartica, in un’autentica liberazione, in un ilare agnosticismo senza conversioni né pentimenti. È come se la fune iniziale che nell’incubo àncora Guido/Federico alla terra fosse recisa e gli permettesse finalmente di prendere il volo. Il modo stesso di girare e di narrare, quell’episodieggiare fascinoso e pigro all’insegna dell’improvvisazione, dell’occhio di bue puntato su figure in apparenza minori, ovvero sui capricci dell’arabesco, testimoniano la straordinaria capacità sintetica di Fellini, il suo canone anti-sistemico, la sua sofferta e feconda «esperienza della modernità». Sì, 8 ½ è un film immenso per grazia ricevuta dall’artista, vivificato dalla visione baluginante di Guido bambino che dirige la banda dei clown con il suo abito da collegiale. Lasciamo infine che sia il protagonista a parlare:
Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo, com’è giusto accettarvi, amarvi, e com’è semplice… Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso, ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere, e non mi fa più paura. Dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. È una festa la vita, viviamola insieme.
P
Paparazzo
«Paparazzo» è il soprannome del fotografo interpretato da Walter Santesso in La dolce vita, che Ennio Flaiano definisce «compagno indivisibile» del giornalista Marcello Rubini (Mastroianni). Ma Paparazzo è esistito davvero e si chiamava Tazio Secchiaroli, scomparso a 72 anni nel 1998, fotoreporter d’assalto battezzato con il nome che fu dell’adrenalinico pilota Nuvolari. E questa è una storia di nomi nella Roma fine anni Cinquanta e in particolare sulla ribalta di via Vittorio Veneto, là dove, secondo il titolo di un quotidiano dell’epoca, «l’intellighentia strizza l’occhio ai bassifondi» (Fellini però ricostruirà il set di via Veneto negli studi di Cinecittà). Una vulgata fa risalire la nascita stessa della Dolce vita alla sera del 14 agosto 1958, quando Secchiaroli bersaglia di flash il re egiziano Faruq in esilio romano dal ’52, dopo il colpo di Stato del colonnello Nasser. Faruq è seduto ai tavolini del Café de Paris con la giovanissima fiamma Irma Capece Minutolo, una nobile d’origine pugliese che diventerà la sua terza moglie, oddio presto vedova, e in seguito apprezzata cantante d’opera. Il fotografo subisce addirittura un goffo tentativo di reazione muscolare da parte del sovrano in sovrappeso. Aveva rischiato di peggio l’anno precedente, quando a inseguirlo lungo via Veneto era stato l’atletico e infuriato Walter Chiari, sorpreso in compagnia di Ava Gardner: una scena immortalata da un altro paparazzo, Elio Sorci. Più di una volta Secchiaroli rischia di buscarle anche dall’attore londinese Anthony Steel, ex paracadutista dell’esercito britannico dal bicchiere facile,
marito di Anita Ekberg tra il ’56 e il ’59, per aver fissato su pellicola le frequenti liti della coppia a causa della gelosia di lui, non proprio ingiustificata. Secchiaroli è il figlio di un muratore marchigiano cresciuto a Centocelle, la più antica delle borgate romane risalente a prima del fascismo, e non a caso Pier Paolo Pasolini chiede a lui di fotografare volti e luoghi delle periferie, in vista del suo travagliato esordio nella regia con Accattone (1961). Mauro Bolognini ha da poco diretto Il bell’Antonio e La giornata balorda sceneggiati da Pasolini quando vede nello studio di Pier Paolo la galleria delle facce impresse da Secchiaroli, restandone conquistato, tanto da proporre con successo al produttore Alfredo Bini la sceneggiatura di Accattone, appena rigettata dalla Federiz di Fellini e Rizzoli. È ancora Secchiaroli a scattare il 5 novembre 1958 la storica sequenza dello striptease dell’attrice e ballerina Aïché Nana, un’audace Sherazade turca-armena-libanese che eccita gli invitati di una festa privata nel ristorante Rugantino di Trastevere, affittato da un miliardario americano per celebrare il venticinquesimo compleanno della contessa Olghina di Robilant. Il rullino fotografico del sabba trasteverino viene portato fuori dal locale grazie all’abilità di Matteo Spinola, in quegli anni ancora impegnato come attore, ma destinato a diventare un famoso press agent del cinema italiano in coppia con il pirotecnico Enrico Lucherini, il geniaccio che avrebbe brevettato il gossip quale veicolo promozionale. Il «Rugantino» è uno scandalo epocale, con tanto di processo a carico del ristoratore, che Fellini richiama in La dolce vita inscenando lo spogliarello di Nadia Grey nella villa di Fregene. Invece il nome «Paparazzo» si deve a uno degli sceneggiatori del film, Ennio Flaiano, che
lo scova in un libro pubblicato nel 1901, Sulle rive dello Jonio: appunti di un viaggio nell’Italia meridionale del classicista britannico George Gissing, un tour della Magna Grecia. L’autore racconta di aver fatto tappa nel 1887 a Catanzaro, soggiornando nell’Albergo Centrale di cui è proprietario tale Coriolano Paparazzo (una targa sull’ex facciata dell’hotel in corso Mazzini, un tempo corso Vittorio Emanuele, evoca l’origine del termine felliniano). Lo stesso Flaiano dà conto della genesi del fortunatissimo neologismo in un articolo su «L’Europeo» del 15 luglio 1962, poi confluito in La solitudine del satiro: Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio «vivrà». Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non sappiamo che inventare: finché, aprendo a caso quell’aureo libretto di George Gessing (sic) che si intitola Sulle rive dello Jonio troviamo un nome prestigioso: «Paparazzo». Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gessing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino.
I paparazzi vanno su e giù a piedi, in Vespa o in Lambretta lungo i 300-400 metri di via Veneto fra porta Pinciana, adesso preceduta da largo Federico Fellini, e il curvone che costeggia l’ambasciata degli Stati Uniti, poco oltre l’Excelsior con i suoi portieri in livrea e cilindro, prima della discesa verso piazza Barberini, dove l’Hard Rock Cafe, brand globale acquistato dagli indiani d’America della tribù Seminole, ormai da un
ventennio è l’unica attrazione di uno stradone altrimenti desertico e alla sera un po’ spettrale. E dire che negli anni d’oro della Dolce vita quel breve tragitto è una festa mobile, un febbrile andirivieni di ambizioni e vocazioni, amori e tradimenti, fan e divi, stelline e curiosi, perdigiorno e saltimbanchi del barnum romano. Qui sbocciano o vengono rivelate love story da copertina, grazie ai paparazzi che in fondo assecondano la voglia dei protagonisti di far sapere a tutti di un nuovo partner o di una maliziosa scappatella. Altrimenti, perché mai andare a cena proprio in via Veneto? Ecco Mario Bandini, conte, ingegnere e playboy che avrebbe volentieri sposato Kim Novak – dice – se solo non fosse stata un’attrice (son problemi!). Alain Delon e Romy Schneider mangiano spaghetti guardandosi occhi negli occhi, perdutamente innamorati. E poi Brigitte Bardot, Rock Hudson, Elsa Martinelli, Charlton Heston, la strip-teaseuse Dodò d’Hamburg e Nadia Parr che una notte prende a spogliarsi in piena via Veneto, Pelé, Rita Hayworth, Warren Beatty e Nathalie Wood, la transessuale salentina Giò Stajano, nipote del gerarca fascista Achille Starace, che negli ultimi anni di vita, da signora dedita agli esercizi spirituali, si disse comunque fiera di aver anticipato il Gay Pride: «Ero l’unico frocio d’Italia!». Ai tavoli del Doney Richard Burton e la plurimaritata Liz Taylor bevono un Dry Martini dopo l’altro brindando alla passione nata nella Hollywood sul Tevere, dove stanno girando Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz (Fellini citerà La contessa scalza di Mankiewicz del ’54 tra le fonti di ispirazione di La dolce vita). Sul set, dopo averla baciata per esigenze di copione, Antonio dice a Cleopatra: «Sei troppo
grassa, ma te l’hanno mai detto che sei bellissima?». Annamo, daje!, commentano gli elettricisti di Cinecittà, i primi a capire che tra i due è fatta, complici i sensuali costumi plissettati di Cleopatra concepiti dalle sorelle Antonini, lo storico atelier di via Quintino Sella a due passi da via Veneto, chiuso nel 2019, che realizzò anche il fatale abito bianco di Marilyn Monroe in Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955). E di una certa Faustina Antonini, figlia di un oste, si era invaghito Goethe che annota nelle sue Elegie romane di fine Settecento: «Un mondo in verità, o Roma, sei tu; infatti senza l’amore il mondo non sarebbe il mondo. E anche Roma non sarebbe Roma». La coppia Burton-Taylor sarà una delle più ardenti e di gran lunga la più burrascosa della storia del cinema: «Liz è la mia perenne notte in piedi», confessa l’attore gallese ai cronisti. La frase potrebbe valere per Roma e magari per l’Italia tutta fremente di futuro nelle stagioni della Dolce vita e del miracolo economico con incrementi del Pil che oggi definiremmo «cinesi». La sera andavamo in via Veneto, recita il titolo di un fortunato memoir politico-giornalistico di Eugenio Scalfari, il quale è tentato dall’accreditare l’idea che Marcello Rubini sia «un giornalista “impegnato” sia pure a modo suo, dalle cui tasche ogni tanto spuntava un “Espresso”». Chissà. Si riconoscono in Marcello anche il giornalista e regista Gualtiero Jacopetti che lancia la moda dei film-verità tipo Mondo cane (1962) e Victor Ciuffa, giornalista e piccolo editore che all’epoca seguiva la cronaca mondana della capitale per il «Corriere d’Informazione» milanese, sebbene Ciuffa ammetta che la rubrica La Dolce vita nella capitale apparve su «La Notte» a firma di un suo ex collaboratore, Nino Vendetti. D’altro canto, abbiamo certezza dei nomi degli autori delle fotocronache innovative e
aggressive che annunciano una rivoluzione del costume e una trasformazione dell’immaginario. Sì, i flash dei paparazzi scandiscono il passaggio dal paese retrogrado e contadino, cattolico e comunista, neorealista e postbellico, all’Italia mondana, attrattiva, erotica, piena di contraddizioni che sarebbero esplose solo in seguito, eppure fascinosa. Voilà, la Dolce vita! Dunque, oltre a Secchiaroli e Sorci, tra i paparazzi più attivi troviamo Velio Cioni, Marcello Geppetti, Sergio Spinelli, Bruno Tartaglia, Massimo Vergari, Marco Pelosi, Bruno Bruni, il giovanissimo Rino Barillari detto poi «Il principe» o «The King of Paparazzi». Già, perché molti avevano un soprannome, ricorda lo storico della fotografia Italo Zannier nell’introduzione al catalogo Alinari di una mostra veneziana dell’88, uno dei tanti omaggi che i musei di mezzo mondo negli ultimi decenni hanno reso ai paparazzi. Secchiaroli era «Bounty Killer» sebbene non ne abbia affatto l’aspetto nella foto del 1952 che lo ritrae in motocicletta con il collega Luciano Mellace, scattata da Franco Pinna. Lo stesso Pinna, sodale di Ernesto De Martino nelle prime spedizioni etnoantropologiche nel Sud della taranta e dei riti ancestrali, di lì a poco sarà fotografo di scena dei film felliniani. Debuttano da paparazzi altri grandi nomi del fotogiornalismo o della fotografia d’arte: Arturo Zavattini, figlio del grande scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, a sua volta partecipe delle ricerche demartiniane a Tricarico e poi operatore alla macchina da presa dei film felliniani Il bidone, La dolce vita, Le tentazioni del dottor Antonio, Carlo Bavagnoli, Pierluigi Praturlon, Ugo Mulas e Chiara Samugheo che diventerà la ritrattista preferita del Fellini privat, come s’intitola una sua mostra del 2007. Un ex paparazzo è Carlo Riccardi, grande fotografo che ha documentato settant’anni di storia italiana
raccolti in uno straordinario archivio che allinea pontefici, presidenti, cineasti, artisti, scrittori e gente comune, oggi curato dal figlio ed erede del flash Maurizio Riccardi. Da Carlo Riccardi viene un’interpretazione lessicale alternativa sulla genesi di «paparazzo»: Un giorno incontrai Fellini e Flaiano fuori da Cinecittà. All’epoca non stavano ancora lavorando alla sceneggiatura di La dolce vita ma credo stessero studiando il soggetto. Chiesi a Flaiano – frequentavo entrambi dai tempi della guerra, Flaiano in particolare perché conoscenza di mio padre libraio –: Professore, Fanfani mi definisce «pappatacio/paparazzo», ma che vuol dire? Lui rispose che probabilmente si riferiva al fastidio arrecato da quell’insetto.
Il termine «paparazzo» passa alla storia, è utilizzato in molte lingue del mondo e si carica di valenze farsesche, e persino tragiche come nel caso della morte di Lady Diana Spencer e del suo compagno Dodi Al-Fayed, il 31 agosto 1997, in un incidente stradale avvenuto nella galleria sotto il Pont de l’Alma a Parigi, mentre la coppia era in fuga dai fotografi. Sebbene talune ricostruzioni considerino i paparazzi il capro espiatorio piuttosto che la causa della disgrazia. Sul momento non la pensa così «l’Unità», quotidiano fondato da Antonio Gramsci, che titola a tutta pagina: Scusaci, Principessa. In ogni caso, Fellini con La dolce vita intuisce la deriva a venire del giornalismo coincidente con l’immagine, di cui costituisce poco più della didascalia. Siamo già sulla soglia dell’infotainment, la miscela di information (informazione) ed entertainment (intrattenimento) che ha soppiantato l’inchiesta. Per Marcello Rubini non vi è più alcunché da raccontare, nulla
è degno di essere scritto nero su bianco, approfondito, analizzato, e quindi mediato come sarebbe nelle corde del giornalismo in rapporto con l’opinione pubblica. Egli è il testimone reticente, insaturo, restio alle altrui interrogazioni, di un orizzonte rannuvolato dalla fine di un’epoca e abbagliato da un indefinito nuovo corso. In La dolce vita difatti convivono «pratiche alte» e «pratiche basse» secondo le categorie sociologiche che Alberto Abruzzese contribuirà a diffondere: letteratura e giornalismo, divismo e pettegolezzo, centro e periferie, arcaismo e postmodernità… Il testimone e la sintesi di questo milieu è Paparazzo. Sì, i paparazzi presagiscono il primato della finzione, pur senza il tono oracolare di Andy Warhol che ispirava una certa simpatia a Fellini: «Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti». Fellini pronostica lo tsunami pop e l’involgarimento dell’immaginario su cui tornerà a riflettere in Ginger e Fred e La voce della luna, e fiuta l’invecchiamento precoce di una serie di ruoli: il giornalista, il fotoreporter, il regista stesso… Oggi ciascuno di noi può «paparazzare» chicchessia a cominciare da sé stesso, pubblicando le foto un secondo dopo sui social network: Facebook, Instagram, Twitter. Gli stessi divi e i politici in primis si avvalgono di social media manager e spin doctor che sono determinanti, sulla base dei like ottenuti od ottenibili, nelle scelte di che cosa dire fare baciare, non escluso il santo rosario mariano esibito in Parlamento dal leader leghista Matteo Salvini. Il blog di Chiara Ferragni – sia detto senza scandalo – muove quote crescenti di mercato e i modi per diventare influencer sono l’oggetto di una laurea triennale appena istituita. La modalità del clic e del post (modalità postnovecentesca per eccellenza) in un amen determina mode, crea carriere, fa vincere le elezioni… Fabrizio Corona,
denominato «re dei paparazzi» benché impegnato piuttosto su altri fronti, qualche anno fa ha scritto il giallo Chi ha ucciso Norma Jean?, protagonista appunto un paparazzo-detective sulle tracce dell’assassino di una sua vecchia fiamma. Ebbene, si direbbe che a eliminare il fantasma di Marilyn Monroe (nome d’arte di Norma Jean Baker, morta nel 1962 sul finire della Dolce vita) sia stato lo stesso «mondo nuovo» che ha reso superflui Tazio e i suoi fratelli. D’altronde, quali segreti potrebbero mai carpire i fotografi in uno scenario che include l’#Aftersex, il selfie di coppia o partouze dopo aver fatto l’amore? Eppure i paparazzi esistono ancora, talvolta convocati fuori dell’albergo o del ristorante dalle medesime «vittime» in vena di pubblicità, talaltra avventurosamente a caccia di un nuovo amore o di una passione clandestina delle maschere della Tv, del cinema e della politica. Ecco, nella vocazione a cogliere l’attimo ovvero uno status nascente c’è forse la residua essenza felliniana del paparazzo digitale, quel tocco «profetico» ma con disincanto, molto molto romano, che anima La dolce vita. Il Café de Paris, serrato da tempo, appare intatto negli interni polverosi e fermi nel passato come gli ambienti di una moderna Pompei, i cui splendori sono riprodotti nelle vestigia fotografiche rimaste sulle vetrine. Qui Orson Welles si dissetava con una mezza dozzina di Bloody Mary – vodka, succo di pomodoro, limone, pepe e altre spezie – nelle pause della lavorazione di La ricotta di Pasolini (1963), uno dei quattro episodi di RoGoPaG, titolo che mette insieme le iniziali di Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti. Welles interpreta un regista al quale chiedono: «Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?». «Egli
danza… Egli danza!», è la risposta sarcastica del genio americano, doppiato dalla voce dello scrittore Giorgio Bassani. Con Fellini, i paparazzi entrano in ballo e presto escono di pista a nome dell’Italia che verrà: «Via Veneto sempre più irriconoscibile – annota il satiro Flaiano già nel giugno 1962 –, travolta dalla sua stessa fama, lasciata ai turisti, ai facili incontri e al cinematografo».
Q
Quid
Un quid in Fellini? V’è «un certo che» di incantevole e pur sempre sfuggente nei suoi film, dove la felicità e l’angoscia sono le braccia di un unico amplesso. Svagato cronista come il Marcello di La dolce vita o narratore «proustiano» del tempo perduto (e perso), tuttavia Federico è – suo malgrado – l’autore italiano del secondo Novecento che forse più di chiunque ha interiorizzato, elaborato e oltrepassato il lascito delle avanguardie storiche. Lo testimoniano la primazia e l’ossessione del linguaggio e della forma rispetto alla trama e al contenuto, in maniera particolare nell’unò-duè che scandisce l’andatura dei primi anni Sessanta, La dolce vita e 8 ½, proprio quando sembra rallentarla con i dubbi e i tormenti del Nostro. «Mi ha guardato come Socrate avrebbe guardato Critone scoprendo che il discepolo era improvvisamente impazzito», raccontò Fellini a proposito della reazione di Roberto Rossellini, il suo maestro, all’uscita dalla visione di La dolce vita. Ma Federico non è impazzito. D’istinto e anche per cultura, nonostante simulasse d’essere un po’ selvatico, sa di vivere da «uomo postumo», e non soltanto perché è scampato all’immane tragedia della guerra, visto che era riuscito a non farsi arruolare a forza di rinvii concessi agli universitari e ai giornalisti, nonché certificando la patologia dell’occhio basedowiano, cioè sporgente (in effetti, metaforicamente ne fu affetto). Egli è «postumo» nei termini di un altro Federico, Herr Nietzsche:
Gli uomini postumi – io, per esempio – sono meno ben compresi di coloro che si sono conformati alla loro epoca, ma li si intende meglio. Per esprimermi ancora più esattamente: non ci si comprende mai – ed è da ciò che viene la nostra autorità.
Senza farla troppo lunga, la Roma felliniana può evocare in tal senso i paradossi della Vienna di Wittgenstein e Musil, di Hofmannsthal e Roth, di Schiele e Schönberg, e dell’aforista Kraus, che, volendo, sarebbe un antenato di Flaiano. «Un paesaggio di pellegrinaggi infiniti e follie interminabili», la definisce Massimo Cacciari nel suo classico Dallo Steinhof che si apre con un’epigrafe perfetta anche per dire Fellini: «Merita di essere raggiunto dalla sua epoca colui il quale si limita ad anticiparla» (Ludwig Wittgenstein). Via Veneto come la chiesa di San Leopoldo della capitale austriaca? Due imperi in disfacimento, rovine che guardiamo e ci riguardano, assenze/presenti nel labirinto del pensiero. «Noi non sappiamo se nel labirinto vi sia un centro edenico o demoniaco», ammoniva Jorge Luis Borges, l’aedo dantesco che trasognò quel centro sotto forma di anfora: un totem dell’infanzia, chissà se salvifico. Fellini «abita la distanza» dal centro smarrito (Rovatti) e sogna Borges: «Davanti a me al di là del tavolo c’è Borges che vuol parlare con me, anzi vuol sentirmi parlare e si sporge in avanti per ascoltare meglio. Ma io non so cosa dire». Così come fa con Picasso, che ricorre quattro volte nel Libro dei sogni: «Tutta la notte con Picasso che mi parlava, mi parlava… Eravamo molto amici, mi dimostrava un grande affetto, come un fratello più grande, un padre artistico, un collega che mi stima alla pari, uno della stessa famiglia, della stessa casta…». Fellini e Picasso erano accomunati dalla passione per il circo, ma non s’incontrarono mai. Il regista era
ammaliato dallo stregone spagnolo della scomposizione figurativa e della «quarta dimensione» simbolica, ne subiva la malia demiurgica. Audrey Norcia, curatrice della mostra parigina Quand Fellini rêvait de Picasso (Cinémathèque française, 2019) riscontra quest’influenza in due scene del Satyricon: quella di Encolpio nella pinacoteca dove «la coppia Marte e Venere è un richiamo al Picasso classico degli anni Venti» e il labirinto, considerato dalla storica dell’arte «una discendenza del Picasso surrealista degli anni Trenta». «Avete fatto voi questo orrore, maestro?», chiede un ufficiale nazista davanti alla grande tela di Guernica. «No, l’avete fatto voi», risponde Picasso, riferendosi al bombardamento della Luftwaffe che il 26 aprile 1937 devastò la piccola città dei Paesi Baschi. Avete fatto voi la Dolce vita? No, l’avete fatta voi… «È una cafonata, il sogno di un provinciale», sbottò Vittorio De Sica. È vero che solo il provinciale si accosta al nuovo con divorante curiosità, attento a registrarne i battiti nascosti, i chiaroscuri e l’enigma. Perciò Fellini diventa il cronista partecipe e visionario di una trasformazione radicale dell’Italia, la cosiddetta «cafonata», in cui i famosi per il lampo di un flash e i non famosi cominciano ad anelare a un’ambigua nomea, convivono in un’alternanza di esuberanza e di depressione, di fiction e di scaltrezza cinica. Un processo, colto nel suo nascere, che finirà per congiurare ai danni del principio di realtà, oggi infermo in ogni dove, labile, difficile da distinguere in mezzo alle menzogne spacciate per autentiche (le fake news). Il raffinato scrittore britannico Aldous Huxley – che negli anni Venti risiede a lungo in Italia e trascorre più di un periodo di vacanza a Rimini – è un precursore del misticismo
filosofico e nell’uso degli allucinogeni per allargare i confini della mente (ante litteram un approccio in stile Castaneda). Morirà a Hollywood, dopo aver sofferto per tutta la vita di seri problemi alla vista, cui dedica il trattatello «terapeutico» L’arte di vedere: «Esiste un rapporto indissolubile, per il bene come per il male, tra l’immagine visiva prodotta dalla memoria, dall’immaginazione o dall’interpretazione dei sensa, e la condizione fisica degli occhi». In quelle pagine Huxley scrive anche di cinema con tocchi simili a quelli di Lo spettatore addormentato di Flaiano, di cui anticipa l’invito all’occasionale e salubre assopimento in sala, e conclude asseverando il bisogno di una «vigile passività» che più felliniana non potrebbe essere… Vigile quando si dice inerte, attento al quadro d’insieme, alle facce del mondo e alle possibili moltiplicazioni del reale, inattuale nella temperie della cronaca: ce n’è abbastanza per un quid, forse due.
R
Rex
L’apparizione notturna del favoloso piroscafo Rex al largo di Rimini in Amarcord (1973) chiude una sequenza che comincia in piena luce. «Buongiorno, mezzanotte», potremmo dire con il verso struggente di Emily Dickinson. Un’epifania impossibile perché il sole non tramonta nel mare Adriatico. Racconta il direttore della fotografia del film Giuseppe Rotunno: La scena fu girata dentro le piscine di Cinecittà. Invece l’imbarco per la serata del passaggio del Rex l’abbiamo realizzato a Fiumicino, stavamo girando un tramonto e gli ho detto: «Federico, abbiamo il sole dalla parte sbagliata! A Rimini non tramonta in mare» – «Sto qui per quello!», mi ha risposto.
Geografico e antropologico come pochi, il cinema di Federico Fellini spiazza proprio quando sembra essere più rassicurante nel segno della nostalgia. Del resto, l’Adriatico si presta a tale ambivalenza: orienta e disorienta. Mare «chiuso» e verticale fino alla «strozzatura» all’altezza di Otranto, dirimpettaia delle montagne albanesi donde viene la «sessa», come si definisce l’onda lunga che provoca l’acqua alta in laguna, l’Adriatico fu propaggine della Serenissima che per secoli lo dominò e ribattezzò «golfo di Venezia» o «nostro canal». Ma l’ipoteca linguistica non è bastata a farne limaccio per gondolieri e se la Venezia dell’era postmoderna appare a Régis Debray come una lugubre Disneyland scandita dal minaccevole passaggio delle grandi navi da crociera (la libido
al crepuscolo è anche lo stigma del Casanova di Fellini, 1976), l’Adriatico resta pur sempre un mare di storie vivide, tramandate nel congedo del Novecento e oltre. Così è nel Breviario mediterraneo di Predrag Matvejević, nelle raccolte di saggi di Sergio Anselmi, nel Pensiero meridiano di Franco Cassano, nell’homo Adriaticus di Sante Graciotti e nei reportage di frontiera di Alessandro Leogrande: pagine variamente in debito con Albert Camus, per il quale perdersi significa ritrovarsi. Non v’è portolano che tenga per racchiudere l’Adriatico fra margini sicuri o segni tranquillizzanti. Scrive lo storico Egidio Ivetic: «Ragionare sull’Adriatico (come per ogni contesto del Mediterraneo) significa fare i conti con il suo essere un confine. Ogni pensiero adriatico, ogni ricerca sulle sue identità, diventa un pensiero di confine». Il cinema di Fellini non fa eccezione. Da parecchi anni ormai a Rimini persino le marine ansiolitiche formato famiglia care alla Gradisca o alla prostituta Volpina di Amarcord sono punteggiate di caratteri in cirillico per i russi della classe media, trasportati con i charter nell’aeroporto intestato a Fellini al pari delle pizzerie e degli hotel nella sua città natale, mentre i ricchi moscoviti prediligono Forte dei Marmi e gli oligarchi del gas svernano su yacht più lunghi del Rex. La lingua slava, apparentemente paradossale alla foce del Marecchia (deviato artificialmente, oggi costeggia San Giuliano Mare, il quartiere che contiene il borgo di Amarcord), è una conferma turistica dell’Adriatico quale propaggine del Muro di Berlino: una barriera fluttuante e invisibile che, senza subire crolli apparenti, fluidificò frontiere e confuse mondi laddove la geopolitica non aveva neppure immaginato potessero lambirsi, come in un film… L’esodo
comincia proprio in Adriatico con l’eclatante arrivo l’8 agosto 1991 della Vlora nel porto di Bari. Ammassati a bordo i 20.000 albanesi in fuga dalla satrapia comunista del Paese delle Aquile, sognavano di raggiungere Lamerica che sarà evocata poi nel titolo del film di Gianni Amelio (1994). Quel trauma fra le due sponde dell’Adriatico, raccontato in altri film tra cui La nave dolce di Daniele Vicari (2012), fu il preludio dei naufragi di Lampedusa raccontati da Fuocoammare di Gianfranco Rosi (2016), dei campi profughi di Lesbo e del Mediterraneo quale via di fuga e incerto approdo, esilio e speranza. Simbolicamente la Vlora resta un drammatico controcampo del Rex: il punto di vista è ribaltato, dalla nave si fantastica la terraferma – un po’ come in Novecento di Alessandro Baricco (1994) –, dopo aver attraversato un mare di storie che imporrebbe un bagno di umiltà, sapendo che il sole può tramontare là dove sorge… Ma il Rex è una visione di confine anche tra realtà e sogno. Rivela ancora Rotunno: La sagoma del Rex fu costruita come un puzzle, migliaia di pezzi realizzati in un teatro di posa e poi incollati sul fondale della piscina di Cinecittà. Le uniche cose vere del Rex erano il fumo dei fumaioli, direzionato dai ventilatori, le lampadine dei pavesi e degli oblò e un getto d’acqua che io osai mettere davanti alla prua per dare l’impressione del movimento della nave. Quando Federico l’ha vista, mi ha chiesto preoccupato: «Non sembrerà vera?». Gli risposi: «No, stai tranquillo, darà solo l’emozione del movimento». La cinepresa che inquadrava il passaggio del Rex era posizionata su una grande piattaforma con sopra sistemate le sezioni di alcune barche sulle quali erano seduti i personaggi del film
per assistere e festeggiare il passaggio della fantastica nave. Per dare l’impressione del movimento, la piattaforma carrellava nella direzione opposta a quella del Rex con tutto il suo carico, cinepresa e sezioni di barche con dentro alcuni personaggi. Lo stesso artificio lo abbiamo usato in misura più vasta nella partenza della nave nel film E la nave va.
«Trenta piani, ha undici fumaioli», dice un ragazzo nella prima gioiosa inquadratura di una serie di riprese sul lungomare o nei pressi della casa della famiglia di Titta Biondi (Bruno Zanin), scandite da un brioso crescendo musicale di Nino Rota. «Giudizio» si rivolge direttamente alla macchina da presa e s’interroga in un italiano gergale: «Ma dovo va tutta questa gente? Dovo va col cuore in subbuglie?». Sui bianchi terrazzamenti del Grand Hotel, che Fellini ricostruisce nell’edificio liberty del «Paradiso sul Mare» di Anzio lungo il litorale romano, qualcuno ha installato un cannocchiale. La Volpina sopraggiunge fra i massi frangiflutti di un molo, osservando in prospettiva le barche già lontane e su uno scafo i passeggeri si domandano «quanto peserà» (il Rex, che nessuno ha ancora nominato), concludendo che sarà «due volte e mezzo il Grand Hotel». Non manca l’iperbole, tipica della provincia: «Due volte e mezzo il Grand Hotel, più l’Arco di Augusto». Su un altro natante il bagnino grasso e rauco intona/stona «Sul mare luccica…», i primi versi della canzone Santa Lucia di Nisa e Calzia (1948). L’erudito del borgo declama invece i versi «tu passi – e il tuo fato / io seguo nel flutto guardando la scia luccicare», dalle Odi navali di Gabriele D’Annunzio e in particolare da A una torpediniera nell’Adriatico (1892), la nave ammirata dal vate nel porto di
Ancona nel 1887 in occasione di una parata della risorta squadra navale italiana dopo la sconfitta di Lissa. Il «Pataca» zio di Titta (Nandino Orfei) con la cuffia da nuotatore ha raggiunto una barca dalla riva a forza di bracciate «stile libero». Un’impresa che gli ha fatto diventare «le palle come due fagioli sfritti», confessa accasciandosi stremato sul ponte prima d’intonare strofe malinconiche: «Voglio ballare con te, tutta la notte così». Qualcuno fuma, una coppia danza, un omino strampalato mangia una fetta d’anguria e racconta che una volta un delfino si è sporto sulla sua barca e lo ha chiamato «mamma». Nel crepuscolo assistiamo al dialogo tra la madre e il padre di Titta: Aurelio il capomastro (Armando Brancia) almanacca sulle stelle che si reggono senza mattoni né calcestruzzo e si offre di coprire con la sua giacca la moglie Miranda (Pupella Maggio) stanca di attendere: «Dobbiam star qui ancora molto? È l’una!». E lui: «E che ne so, avevan detto verso mezzanotte… E poi anche se tarda un po’, sta venendo dall’America, oh». Ecco il cieco di Cantarel (Domenico Pertica) che, imbracciando la fisarmonica, intona una nenia che fa da preludio alla confessione della Gradisca (Magali Noël), in abito bianco da marinaia con le stelline in rosso, una maglietta da gondoliere e una lunga collana di perle: Ogni volta mi sono illusa e invece finiva tutto subito… Vorrei avere una famiglia, dei bambini, un marito, qualcuno con cui scambiare due parole alla sera, magari bevendo il caffellatte. E poi ogni tanto fare anche l’amore, perché quando ci vuole, ci vuole. Ma più che l’amore, contano i sentimenti. E io ne ho tanto di sentimento dentro di me, ma a chi lo do? Chi è che lo vuole?
La Gradisca si commuove fino alle lacrime, consolata da un’amica più giovane che le sta accanto. Ora dormono tutti nella nebbia, in mezzo al mare. Il primo a vedere la sagoma del Rex è quindi lo spettatore: imponente e solenne, eppur tenue lucore nelle tenebre, Moby Dick mansueta, profilo di una bellezza folgorante nella sua estrema semplicità. La nave lancia un suono acuto e prolungato e solo allora un bambino urla: «Eccoloooo». Titta si risveglia: «Babbo, il Rex, il Rex!». Sagome festose, riprese di spalle, si sbracciano per salutare il passaggio e qualcuno grida: «Viva l’Italia!». Il cieco con la fisarmonica, appoggiato all’albero maestro dello scafo e attorniato da compaesani che sorridono e saltano, chiede «Com’è? Com’è?». Si toglie gli occhialini neri e, accennando a sua volta a un sorriso, chiede di nuovo: «Com’è?». Adesso vediamo più da vicino le luci delle cabine, i pavesi inghirlandati di lampadine, il ponte gigantesco sul quale s’innalza un edificio che, pur esibendo tre file di finestre, appare poco più di una miniatura, e i due grandi fumaioli da cui si librano pennacchi bianchi di vapore, verso cui si dirige impercettibilmente la macchina da presa. Tocca a un primo piano della Gradisca che sta ancora piangendo, ma non sappiamo più se per il marito di là da venire o per il prodigio del Rex, cui manda baci con le mani dopo averle congiunte in una preghiera, in un voto. Ancora il sibilo della nave giunge a scandire la colonna sonora, mentre il papà di Titta accenna a un saluto con la paglietta e c’è di nuovo la Gradisca che adesso si asciuga le lacrime. Poi una panoramica va dal Rex – che già si allontana – verso il buio, verso il nulla. La festa è finita. L’ondeggiare minaccioso e rumoroso del mare, vistosamente finto come
nella scena iniziale di Casanova, conclude la sequenza. Le immagini successive, a conferma della libertà creativa di Fellini anche in moviola, non sono affatto solari come prescriverebbe la canonica alternanza tra il giorno e la notte, anzi… Il nonno di Titta si perde nella nebbia davanti a casa sua, un’allegoria citata nel romanzo Il colibrì di Sandro Veronesi (2019). All’indomani della vittoria del suo quarto Oscar per Amarcord, nel 1975, Fellini concede un’intervista svogliata o reticente al giornalista della Rai Alberto Michelini e, un po’ infastidito dall’incalzare delle domande, dichiara: «La verità è che io non ho voluto dimostrare un bel niente. Non ho messaggi da inviare all’umanità. Mi dispiace proprio. Considero il cinematografo un giocattolo meraviglioso, un favoloso passatempo». È il giocattolo che gli permette di dare vita a una nave e a un popolo in festa fin da terra per il passaggio lungo la costa di Rimini e di farlo in una piscina di Cinecittà o sulle rive del Tirreno. Fellini suscita lo stupore della sua infanzia ed evoca l’indugio adolescenziale dell’Italietta fascista, incerta tra colonialismo straccione e inconsapevole voglia di lontananza: Dux et Rex. Amarcord è ambientato nel 1932, sette anni dopo Mussolini occupa l’Albania e vagheggia di un Adriatico «imperiale» che avrà la sua nemesi storica con la Vlora, l’8 agosto 1991, il giorno in cui «naufraga» la cortina di ferro tra Est e Ovest d’Europa, e i russi cominciano a preparare i bagagli per le vacanze a Rimini.
S
Sogno
Il sogno è un segno, anzi un disegno. Nella prima pagina del Libro dei sogni, datata 30 novembre 1960, Federico Fellini appunta: «Nei sogni io mi vedo quasi sempre di spalle e coi capelli e più magro, così com’ero venti o trenta anni fa. Ecco mi vedo così, e così mi disegnerò nei sogni che appunterò in questo libro. Invece dovrei disegnarmi così…». E tratteggia un uomo ben più corpulento e vistosamente affetto da calvizie. Mica male come incipit per la favolosa raccolta dei disegni onirici di Fellini riportati in due libri mastri dal 1960 al 1982, con un «buco» di circa quattro anni e mezzo, tra l’estate del 1968 e il febbraio del ’73, forse per una lunga pausa «onirica» o perché gli originali sono andati smarriti in uno dei traslochi dello studio del maestro, prima di stabilirsi in Corso d’Italia angolo via Po, a 150 metri dalla sede nazionale della Cgil («Lavoratoriii…» – lo sberleffo iniziale di I vitelloni). Ampia opera postuma, data alle stampe solo nel 2007 dopo talune traversie ereditarie (l’originale è custodito dal Comune di Rimini), Il libro dei sogni prende le mosse dalla terapia di Fellini con lo psicoanalista junghiano Ernst Bernhard e fra l’altro contiene una pagina in cui Federico presagisce la morte del terapeuta, meno di due mesi prima che accada, il 29 giugno 1965: Dal cadavere si alza evanescente, altissimo lo spirito del professore che mi stringe le mani con grande forza come a testimoniare che l’anima è immortale ed è più forte di tutto. «Amore mio!» dico travolto dalla
commozione, ma temo che Bernhard possa notare nel mio dolore una sfumatura istrionesca, di compiacimento letterario.
Un altro brogliaccio onirico felliniano, molto significativo, è datato 18 ottobre 1974: Giuseppe Garibaldi è sul letto di morte «con la sua faccia di sempre, quella dei libri di storia e dei francobolli. Solo un po’ più gonfia e rossa. Sembra quasi una maschera di plastica». All’improvviso il generale urla «Basta! Via! Via questa maschera che porto da sempre! Voglio morire con la mia vera faccia» e se la strappa dal volto, mostrando sotto «un altro volto più giovane, più simpatico, più virile». Un omino calvo applaude: «Bravo Garibaldi!! Bravo! Hai fatto benissimo! Evviva!!». Nella vignetta figura anche «la solita Betti», l’assistente del regista Liliana Betti, citata con il nome proprio nel testo che affianca lo schizzo. A parte la «premonizione» di un effetto spettacolare sulla doppia identità divenuto ricorrente a Hollywood almeno a partire da Face/Off di John Woo (1997), il giubilo per la catarsi garibaldina dice tutto il desiderio felliniano di non aderire al «copione» che la vita può importi, per quanto eroico sia. La realtà e il sogno per Fellini hanno il tratto giocoso del fumetto e della parodia che esaltano una caratteristica o un dettaglio del personaggio, rivelandone la sua natura autentica di là dalle convenzioni sociali e dalla percezione diffusa, foss’anche Garibaldi! Del resto, questa propensione all’ilarità è contenuta nell’aggettivo «felliniano», che, secondo il vocabolario Zingarelli, «ricorda l’atmosfera onirica, le situazioni o i personaggi grotteschi o caricaturali dei film di Fellini», donde derivano l’avverbio «fellinianamente» e il neologismo fellinesque coniato da Roberto Benigni in un’intervista nel
1999 e puntualmente registrato nei repertori linguistici. Scherzava Federico: «Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia mamma voleva che facessi il dottore, ma io ho fatto l’aggettivo: il felliniano». Nel febbraio del 1993, pochi mesi prima di morire e alla vigilia della cerimonia di Los Angeles in cui avrebbe ritirato il premio Oscar alla carriera, Fellini confida all’amico giornalista Vincenzo Mollica: Se dovessi scrivere delle battute per un attore chiamato a interpretare la parte di un regista premiato con l’Oscar, probabilmente me la caverei abbastanza bene. Ma il fatto che sono proprio io coinvolto in questa vicenda mi rende balbettante e insicuro. Inoltre, devi essere: spiritoso, intelligente, grato, appassionato, elegantemente distaccato e anche felliniano. Quest’ultimo è il ruolo più difficile, perché nonostante sia lusingato di essere diventato anche un aggettivo, non so cosa voglia dire.
Un aggettivo che rischia di diradare l’opera dell’artista, ridimensionandola
sul
geniale
caricaturista
intento
a
spilluzzicare il mondo intorno a sé. «La natura non mente, ognuno ha la faccia che si merita» è uno dei motti di Fellini, perfetto per i volti e i caratteri della commedia umana da cui attingere ispirazione fin dalla scelta degli attori e delle comparse. A proposito di comparse, vanno almeno ricordati i cinque fratelli Spoletini, trasteverini doc, che dal dopoguerra in avanti hanno cercato «le facce giuste» per il cinema italiano o per i film americani girati a Roma. In particolare, Antonio Spoletini era legatissimo a Federico, come testimonia il documentario Nessun nome nei titoli di coda di Simone Amendola (2019), in cui una vita è detta in una battuta: «Sono
più vecchio di Cinecittà. Siamo tutti e due del ’37, ma lei è di aprile e io sono di marzo». Nel «fatale» 1937 Fellini sta frequentando il liceo classico Giulio Cesare di Rimini e fra i banchi sboccia il suo talento per il ritratto canzonatorio dei professori e dei compagni di classe, che gli frutterà i primi piccoli guadagni allorché il gestore del cinema Fulgor, oggi fra le strutture partecipi del sistema museale riminese intitolato al Nostro, lo ingaggia per abbozzare i profili dei divi dell’epoca da esporre nelle vetrine per attirare il pubblico: Jean Gabin, Katharine Hepburn, la scandalosa Doris Duranti che qualche anno dopo si mostrerà a seno nudo sullo schermo al pari di Clara Calamai, il Paul Muni di Scarface – Lo sfregiato, Stanlio e Ollio in Italia noti all’epoca come Cric e Croc (Ollio dal 1939 verrà doppiato con tono baritonale e buffissimo da Alberto Sordi). Giusto nell’estate del ’37, lo stesso Sordi – diciassettenne, coetaneo di Federico – debutta nel cast del film La principessa Tarakanova, diretto da Mario Soldati e dal russo Fëdor Ozep alias Fëdor Aleksandrovič Ocep, recitando la minuscola parte di un ragazzo condotto al patibolo (qualche mese prima aveva fatto la comparsa in Il feroce Saladino di Mario Bonnard, nei panni di un… leone). In quell’estate Federico dà vita alla bottega Febo con l’amico pittore Demos Bonini che propone caricature dei villeggianti; poi nel 1938 comincia a disegnare vignette su «La Domenica del Corriere», da affezionato lettore-autore della rubrica epistolare Cartoline dal pubblico. Ma
la
predisposizione
di
Fellini
verso
il
mosaico
carnascialesco non è solo un gergolo goliardico che, una volta a Roma, gli farà riconoscere in Sordi uno dei primi compagni d’avventura. Il fumetto è una chiave di traduzione e lettura del
mondo onirico, che continuerà ad appassionarlo per tutta la vita. A ispirare Federico è il ritorno all’età del «vitellino», dello scugnizzo riminese che nelle stringhe a colori allude a un’invincibile vitalità. Tornare bambino e restarlo per sempre? Suvvia, sarà pur possibile, in modo che la perdita insita nel crescere e i difetti, i peccati, i disastri della vita adulta siano quanto meno esorcizzati. Scrive Tullio Kezich: Per tutta la vita Federico ha anelato al sonno e al sogno, considerato un sollievo, uno spazio aperto della mente, un progetto libertario. Qualcosa che da un certo momento diventa difficile, una consolazione sempre più rara nell’aumentare di una forma progressiva di impotenza psicologica. Nell’ultimo Fellini avviene una fatale convergenza fra pubblico e privato. Il sistema cinema non gli produce più i film, il suo fisico indebolito ha smesso di servirgli il sonno che permette di sognare […] Nel tempo Fellini perde colpi: il suo brio si smorza, l’umorismo senza mai scomparire si fa più intermittente. Aumentano l’indecisione nelle scelte, i tratti superstiziosi, il fatalismo, una perenne scontentezza di ciò che lo circonda e la conseguente rassegnazione.
La deriva malinconica coincide con la fine dell’abitudine di Fellini di trascrivere e disegnare i sogni nel Libro, che «si chiude» nel 1982, e ha dei riflessi evidenti sul grande schermo. Un film di certo senile, sebbene il regista abbia soltanto 63 anni, è E la nave va (1983). Susciterà una ridda di ipotesi sulla metafora del rinoceronte nella stiva, tra cui le più acute restano quella di Giovanni Festa che accosta l’animale ad Alien di Ridley Scott (1979) e l’interpretazione del semiologo Paolo Fabbri, il quale ricorda
l’enorme figura femminile che infesta i sogni del protagonista nelle Tentazioni del dottor Antonio: «Bevete più latte, il latte fa bene, il latte conviene a tutte le età». Figura complessa, angelo e demone, come la Saraghina, che ha il seno materno e la faccia da drago. Anche il nostro pachiderma è ambivalente.
Ma chissà che Fellini non sia stato semplicemente impressionato dal meraviglioso Rinoceronte di Pietro Longhi (1751), un pittore «goldoniano» per ironia e attenzione alla vita quotidiana della Venezia settecentesca, custodito nel museo Ca’ Rezzonico. E la nave va comincia a bordo del transatlantico Gloria N., deliberatamente artefatto nello sfarzo scenografico di Dante Ferretti: è una scia funerea del Rex di Amarcord che sta trasportando le ceneri di una famosa cantante d’opera da Napoli al largo dell’isoletta di Erimo, nel mar Egeo. Fra i passeggeri il giornalista Orlando (Freddie Jones) ha il sufficiente distacco per descrivere un mondo al crepuscolo – siamo nel luglio del 1914, quando già incombe la Prima guerra mondiale –, e infine per rassegnarsi alla condizione di naufrago. Difatti nel corso d’una caotica battaglia navale scoppiata quasi per caso vanno a picco sia la Gloria N. sia la corazzata austroungarica che l’ha cannoneggiata per intimare al suo capitano la consegna di un gruppetto di profughi serbi. Orlando su una scialuppa rema verso chissà dove e con lui a bordo c’è il rinoceronte che appuzza la stiva, il cui latte – «Non lo sapevate? È ottimo», dice rivolgendosi al pubblico – gli consente di sopravvivere in mezzo al mare. Intanto, un movimento di macchina all’indietro svela il set, scopre il gioco, sottolinea la finzione manifesta nelle immagini cinematografiche, in precedenza proiettate da un solitario ammiratore della cantante mentre
l’acqua invade le cabine e i grandi ambienti comuni. Declinazione tragica del festoso elogio del cinema di La città delle donne (1980) in cui Snaporaz-Mastroianni rievoca i film visti con una platea di ragazzini sotto un gigantesco lenzuolo, una vela ondeggiante di emozioni rispetto ai volti mitici e caricaturali, appunto, di Greta Garbo e Marlene Dietrich. E la nave va è insomma un Titanic felliniano con la principessa cieca che tuttavia «vede» la gamma dei colori attraverso la musica, interpretata dalla grande coreografa tedesca Pina Bausch. Sarà lei a intonare una nenia con riferimenti all’infanzia per rincuorare il fratello granduca (Fiorenzo Serra) quando il disastro è imminente. «Un film tutto posto sotto il segno del lutto, ma sereno e come dolcemente distaccato», scriverà Morando Morandini. Ma già in 8 ½ la crisi emotiva del protagonista Guido si aggrava dopo un sogno edipico di sconcertante nitore sui genitori scomparsi: il papà si congeda entrando in una fossa nella nuda terra, la mamma lo bacia e si trasforma in sua moglie Luisa. Checché se ne dica, Fellini non è mai stato «felliniano» nel senso di un’allegra semplificazione esistenziale o di un’erotizzazione grottesca della vita quotidiana. Anzi, egli di fondo avrebbe un temperamento malinconico se non fosse mitigato dalla disponibilità a sognare ad occhi chiusi spalancati (Eyes Wide Shut, per dirla con Kubrick) e dalla brulicante passione per il disegno. Quest’ultima è coltivata persino al ristorante sui tovaglioli scarabocchiati di ritrattini e vignette per far sorridere i commensali ai tavoli della Cesarina di via Piemonte o di Al 59 dalle parti di piazza del Popolo (entrambi di tipica cucina emiliana) e del Fico Vecchio di Grottaferrata, prediletto quando l’autore sta lavorando a
Cinecittà. L’interesse per disegni e fumetti non verrà mai meno, come provano le tavole di Topor realizzate per il Casanova e gli incontri del regista con Charles Schulz e Milo Manara richiamati da un illuminante collage di interviste, dialoghi, appunti e abbozzi inediti curato da Vincenzo Mollica. Federico amava valorizzare giovani talenti come Andrea De Carlo, Susanna Tamaro e Sergio Rubini, talora chiamandoli al telefono nelle prime ore del mattino (dormiva poco). A un certo punto nel suo radar di Gran Curioso entra Andrea Pazienza detto «Paz», protagonista emblematico della rivolta nel movimento del Settantasette a Bologna, autore di fumetti con personaggi libertini anarchici lisergici chiamati Pentothal, Zanardi e Pompeo, scomparso appena trentaduenne nel 1988. Pazienza firma la locandina di La città delle donne di Fellini: il primissimo piano di una fanciulla dalla memorabile chioma medusea, simbolo dell’ennesima incursione e sublimazione onirica nelle difficoltà o forse nell’impossibilità di un rapporto felice con l’altro sesso. Protagonista del film è appunto l’alter ego felliniano Snaporaz-Mastroianni, sedotto e irretito in un vagone ferroviario da una bella sconosciuta (Bernice Stegers) che lo conduce in una specie di castello o Grand Hotel affollato di presenze e di ritualità femminili allegre, combattive e radicalmente ostili al Maschio. Un harem di segno diverso rispetto a 8 ½: lì il protagonista vagheggiava di far schioccare la frusta, qui viene sottoposto a interrogatori da ragazze col volto mascherato dal passamontagna come se fossero delle brigatiste rosse! Così, la curiosità del vecchio Snaporaz lascia presto il posto alla paura di non riuscire a sottrarsi a un sortilegio che oscilla fra le grazie di una formosa e ambigua soubrette ventenne (Donatella Damiani) e il tentativo di amplesso cui lo sottopone un’orrida lavorante.
L’incontro con quest’ultima avviene nei sotterranei della villa del dottor Santino Katzone (Ettore Manni), il fallocrate assediato dalle baccanti ed ex compagno di classe di Snaporaz. Nella festa organizzata da Katzone c’è anche la moglie di Snaporaz (l’interpreta la cantante franco-polacca Anna Prucnal) che gli rinfaccia tutte le inadeguatezze coniugali, la viltà, la mancanza di libido, l’indifferenza, l’incapacità di dialogare. Che fare? Lui crede di trovare una via di fuga nel sogno all’interno del sogno, nel passato favolistico di sé bambino intento a spiare le gambe della donna di servizio mentre stira, ovvero nella sempiterna clownerie del circo e del cinema, sull’ottovolante della fantasia che infine prende il volo su una gigantesca mongolfiera dalle fattezze dell’agognata soubrettina. La stessa che spara sul… pallone gonfiato facendolo precipitare e provocando il risveglio di Snaporaz nella carrozza ferroviaria, dove ora c’è la moglie e, poco prima che il treno entri in una galleria, sopraggiunge la seduttrice del prologo: entrambe gli sorridono, sottilmente beffarde. Sorride anche lui, provvisoriamente «salvo». Un sogno. E un sogno o un incubo avrebbe dovuto essere Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, il soggetto «maledetto» risalente a metà anni Sessanta e alla cui sceneggiatura Fellini lavorò con lo scrittore Dino Buzzati, con il regista Brunello Rondi, amico tra i più cari di Federico, e con il giornalista televisivo Alfredo Pigna, in seguito a lungo conduttore di La domenica sportiva. Il film, mai realizzato nonostante i provini documentati in un volume fotografico di Tazio Secchiaroli, è una «Dolce morte» dal sapore metafisico tra Pirandello e Kafka, in grado di nutrire le successive visioni di Fellini da Toby Dammit, con il capo mozzato del divo Terence Stamp raccolto da una
bambina come se fosse una palla (il Sessantotto perde la testa…), fino a E la nave va, come scrive Aldo Tassone, tra i massimi esperti del cinema di Fellini. Il regista concederà a Milo Manara di pubblicare una versione a fumetti del Mastorna, il cui protagonista ha le sembianze di Paolo Villaggio, a differenza dell’idea iniziale che vedeva Mastroianni nei panni del violoncellista disperso nell’Ade innevato. Alla fine dell’album magnificamente illustrato da Manara per un errore di stampa uscì la parola «Fine» al posto di «Continua» e Federico, scaramantico, non volle che fossero pubblicate le parti successive. Già, non vedrete mai il cartello «Fine» nei suoi film: «Era tale la delusione che avevo da ragazzo quando veniva fuori questa parola Fine, che ho giurato a me stesso, se avessi fatto film, di non scriverla in fondo ad un film». Fellini fine mai s’intitola un commovente documentario che nel 2019 gli ha dedicato il regista Eugenio Cappuccio, ex giovane assistente e amico di famiglia di Federico sin da piccolo perché sua madre e Maddalena Fellini si frequentavano in quel di Rimini. Lo stesso Manara aveva elaborato qualche tempo prima del Mastorna un altro copione felliniano non giunto fino al ciak: è Viaggio a Tulum, ispirato alle atmosfere sciamaniche dello scrittore peruviano e guru della controcultura Carlos Castaneda. La storia è frutto di una misteriosa scorribanda di Fellini dalla California al Messico in compagnia di De Carlo, il quale ne scriverà nel romanzo Yucatan (1986), suscitando il disappunto del maestro. I due lavori attestano un’amicizia di Manara con Fellini sbocciata nei primi anni Ottanta sotto il segno dell’eros e del perenne gioco – Il gioco s’intitola una famosa serie erotica del fumettista – con la Venere di turno o di Milo nel senso di
Sandrocchia. Il Riminese riconosce in Manara la stessa febbre per il fantastico e l’onirico. Oltretutto, gli chiederà di dipingere le locandine di Intervista (1987) e La voce della luna (1990). Dice Fellini: Pensiamo che il bambino sia un grande errore che ha sempre bisogno di essere corretto. E invece abbiamo proprio a che fare con un essere un po’ strano, insolito… che è ancora consapevole di cose con le quali noi abbiamo perso il contatto, e che conosce cose che noi abbiamo dimenticato, forse cancellate per sempre dalla nostra memoria.
Cose che rivivono solo in sogno… Ma sarà poi vero? Wanda Cavalli (Brunella Bovo), la sposina in viaggio di nozze a Roma che fugge dal marito (Leopoldo Trieste) per conoscere il bellimbusto Fernando Rivoli (Alberto Sordi) alias «lo sceicco bianco», a un certo punto chiama in hotel per dare finalmente sue notizie e, in lacrime, si confessa: «La vera vita è quella del sogno. Ma a volte il sogno è un baratro fatale». Il portiere d’albergo indolente le risponde: «Baratro?… B come Bologna? Vuole ripetere?».
T
Teatro 5 – Cinecittà
Che strano chiamarsi Federico, ovvero c’eravamo tanto divertiti. L’ultimo film di Ettore Scola, scomparso il 19 gennaio 2016, è un omaggio a Fellini presentato alla Mostra di Venezia nel 2013. Di scena l’amarcord di un’amicizia tra due provinciali a Cinecittà – Scola era nato nel 1931 a Trevico nella Campania irpina – sotto il segno dell’autoironia, dei vagabondaggi notturni, di un disincanto non privo di tenerezza. Sergio Rubini, già interprete del giovane Federico nell’autobiografia felliniana Intervista (1987), nel film di Scola è un madonnaro che ha appena disegnato per terra un san Nicola di Bari, «nero, anzi marrone», del quale è scontento perché non riesce a rendere bene le mani nei dipinti: «Solo Caravaggio e Michelangelo sanno disegnare le mani». Il madonnaro accetta un passaggio da Scola e Fellini, li riconosce e – sorseggiando vino da un fiasco – parla con loro del primato della pittura rispetto al cinema, dell’ispirazione e dei segreti dell’arte. Rubini venne scelto cabalisticamente per il ruolo di Federico in Intervista anche perché ha lo stesso cognome del protagonista di I vitelloni, Moraldo Rubini, e di La dolce vita, Marcello Rubini. E, a proposito di «pittura», quando in Intervista Rubini mette piede per la prima volta nel Teatro 5 di Cinecittà assiste alla scenetta di due imbianchini che, sospesi sui ponteggi, stanno affrescando il cielo azzurro su una grande parete scenografica. Il laconico dialogo tra i due riportato sulla pagina non potrebbe mai renderne il tono che è tutt’uno con il cinismo e il fascino di Roma e di Cinecittà,
all’insegna di un ripetuto Vattela a pija… D’altronde, come dice Fellini all’amico Simenon nel 1977, «a Roma gli operai del cinema sono i discendenti diretti degli uomini che andavano al circo a vedere i cristiani sbranati dai leoni». Che strano chiamarsi Federico inizia con i versi del poeta spagnolo Federico García Lorca: Vengono le mie cose essenziali. Sono ritornelli di ritornelli. Fra i giunchi e la sera bassa, che strano chiamarsi Federico!
Il film si sfoglia come un album dei ricordi, una mescolanza immaginifica secondo la formula felliniana della raccolta di pensieri, visioni, aneddoti, vincoli, sodalizi, amori (sebbene per pudore non vi sia che un accenno a Giulietta Masina). Federico era un fratello maggiore per Ettore: si riconobbero grazie alla comune passione per le vignette, le storielle e quindi per i sogni in celluloide. Entrambi muovono i primi passi, come il film racconta, nella redazione della rivista umoristica «Marc’Aurelio». Il prosieguo li mostra già affermati e quindi anziani, tuttavia mai privi di curiosità quando incontrano alcuni dei personaggi della filmografia felliniana, per esempio la prostituta di La dolce vita. Scola ricostruisce alcune tappe della biografia felliniana nel Teatro 5 di Cinecittà. «Un reclusorio, un rifugio antiatomico» secondo Federico, che elegge a suo regno onirico lo studio più grande d’Europa, 3.000 metri quadri, all’epoca dotato di una piscina nascosta sotto il pavimento. Qui Fellini gira molti dei suoi film e si ricava addirittura un microappartamento «segreto» nel sottotetto, con una brandina per riposare e il fornello per
improvvisare una spaghettata con l’organizzatore generale Pietro Notarianni, amico e confidente, o con l’assistente personale Fiammetta Profili. Notarianni era comunista, cugino di Pietro Ingrao (a sua volta diplomato in Regia al Centro Sperimentale nel 1937), da sempre vicino a Luchino Visconti e a Michelangelo Antonioni, prima di diventare l’insostituibile fiduciario di Federico, che, beffardamente, in Intervista gli fa recitare un ruolo da gerarca fascista in stivali e orbace. Al marxista Scola riuscirà il prodigio di commediare la lotta di classe in C’eravamo tanto amati (1974), struggente elegia del trasformismo, in cui fra l’altro Fellini compare nel ruolo di sé stesso sul set di La dolce vita, alla fontana di Trevi. Nel Teatro 5 il Nostro concedeva interviste con la sua vocina, spesso riluttanti o menzognere su questo o quell’argomento, o sottoponeva a provini esilaranti e un po’ crudeli gli amici Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni quand’invece aveva già scelto Donald Sutherland per il ruolo di Casanova (Mastroianni un po’ se la prese e avrebbe interpretato in seguito il Veneziano in Il mondo nuovo dello stesso Scola). Nel Teatro 5 Fellini può essere quel che sempre fu: un sempiterno Pinocchio. Ed è davvero degno di Collodi il finale di Che strano chiamarsi Federico: durante l’estremo saluto che i romani tributarono a Fellini sfilando per tre giorni davanti al feretro, il morto rivive e scappa, inseguito da due carabinieri in alta uniforme fra le scenografie di Cinecittà. Bisognerebbe percorrere a piedi almeno il tratto finale prima di Cinecittà, il cui indirizzo è via Tuscolana 1055, non lontano dal Centro Sperimentale di Cinematografia, al civico 1520. Perché soltanto camminando e guardandosi intorno si riesce a
intuire il viaggio che un tempo s’intraprendeva verso questi luoghi «fuori porta». I volumi architettonici di stampo modernista progettati su mandato del duce da Gino Peressutti (Cinecittà, 1937) e da Antonio Valente (Centro Sperimentale, 1940) instaurano una paradossale relazione con le aree periurbane verso i Castelli romani, all’insegna di una dimensione atemporale, ai confini della realtà o del reality… Infatti oggi Cinecittà è in parte «colonizzata» dagli show televisivi realizzati negli studi di Quo vadis?, Ben-Hur e Cleopatra. Correvano i tempi della fastosa «Hollywood sul Tevere» di Vacanze romane di William Wyler (1953), i cui interni furono girati in un palazzo di via Margutta 51, a pochi passi dal numero 110 dove una targa ricorda la casa di Fellini e della Masina, venduta poco dopo la morte di Giulietta. Da qualche anno è sorto un parco divertimenti chiamato «Cinecittà World», oltre Ciampino, lungo la statale Pontina sui terreni dove c’era la Dinocittà di Dino De Laurentiis, che Fellini scelse per ambientarvi La voce della luna. Però si va perdendo la memoria delle generazioni di comparse che si tramandavano aneddoti prendendo il cappuccino al bar vestiti da centurione o da schiava dell’antica Roma. I turisti associano Fellini a via Veneto o alla fontana di Trevi, giusto. Ma il suo perenne carnevale senza quaresima era Cinecittà, in particolare il Teatro 5 andato a fuoco nel 2007 e nel 2012, per fortuna con danni non gravi, dove Paolo Sorrentino ha ricostruito le segrete stanze vaticane e la Cappella Sistina per le serie Tv The Young Pope (2016) e The New Pope (2020). Grazie a Fellini, il cinematografo si rivela un mezzo espressivo
prezioso
perché
disarmato,
scompaginato,
anarchico in dispetto alla definizione mussoliniana – mutuata da Lenin! – di «arma più forte», che campeggiava su un muro
della Cinecittà concepita dal fascismo per centralizzare il controllo del regime sulla propaganda, strappando a Torino lo storico primato nella produzione cinematografica. Quella propaggine urbanistica capitolina in fondo alla Tuscolana avrebbe stregato anche Pier Paolo Pasolini: Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta…
D’altronde, tra il 1944 e il 1950, Cinecittà è stata un campo profughi per gli sfollati della capitale, gli esuli giulianodalmati e i reduci dei lager nazisti, che trovano alloggio nel dormitorio del Teatro 5, come racconta il cortometraggio Israel che visse a Cinecittà (2019). Cinecittà è un recinto di assenze metafisiche e di scenografie sopravvissute all’effimero delle riprese, è una sequela di rovine e di simulacri, che possono evocare le pagine di Walter Benjamin e di Jean Baudrillard sulle macerie del Novecento angelico e terribile. Non a caso, Fellini ricostruisce qui persino la Venezia di Casanova, iscrivendo in tal modo
sotto il segno della simulazione assoluta la virilità del protagonista: deliberatamente scenografico è l’isolotto del primo amplesso con la monaca allegra; artificiosi appaiono la laguna, le procelle, gli alberi, le calli e i campielli della Serenissima settecentesca. Per non parlare della gigantesca polena con il volto di donna, la «Venusia» (Venezia), realizzata da Giantito Burchiellaro per le scenografie di Danilo Donati (Oscar per i costumi nel 1977). Per anni dopo le riprese la Venusia continuò a «galleggiare» in un angolo di Cinecittà, tenace persistenza felliniana, e oggi fa bella mostra di sé al centro di un prato all’ingresso. La lavorazione di Intervista, racconta il fidato Gianfranco Angelucci, iniziò in piena estate, giacché Fellini detestava l’idea delle vacanze, e nella notte lungo i viali di Cinecittà si creavano meravigliosi bivacchi, arrivavano amici e conoscenti con la prospettiva di godersi il venticello e di assistere in diretta, da privilegiati, alla nuova creazione.
Il Teatro 5 è per Fellini il teatrino delle marionette dove mettere in scena l’infanzia, l’eros, il circo dell’esistenza, e misurarsi con la finitezza dell’essere al mondo. Perciò, come trascrive nel Libro dei sogni, l’annuncio onirico della morte sopraggiunge con l’allontanarsi involontario da Cinecittà. Ho vissuto a Cinecittà e continuo a viverci perché è la casa del mio lavoro, è il posto dove faccio i miei film che fra preparazione, riprese, montaggio, doppiaggio e missaggio durano l’un per l’altro circa un anno, che io passo tutto a Cinecittà uscendone solo la notte per andare a letto… La prima volta che ci sono arrivato in tram, un tramvetto azzurro che partiva dalla stazione attraversando chilometri e chilometri di campagna, costellata da rovine dell’acquedotto romano, alla vista del lungo
muro di cinta che racchiudeva tutti quei casermoni rossastri, rimasi un po’ deluso…
Il tramvetto azzurro… Sembra il titolo di una favola. Nel vezzeggiativo, un universo. Il viaggio per diventare adulto – o «grande» – è rievocato sotto il segno della piccolezza e della favola, istoriato di un azzurro marino e leggendario, qualunque fosse davvero il colore del veicolo. È un tragitto deliberatamente regressivo, il suo, verso una Roma non più Roma, insediamento extra moenia nel quale il diciannovenne Federico mette piede all’inizio del 1939. Fellini lo ricostruisce appunto in Intervista, laddove il suo alter ego da giovane, il cronista alle prime armi Sergio Rubini, e l’aspirante attrice Antonella Ponziani, a bordo del mitico tramvetto costeggiano delle cascate, vengono spiati dagli indiani d’America sulle alture delle vestigia lungo l’Appia antica, incrociano gli elefanti… Ciak, si sogna.
U
Urbe
Oltre un varco appena aperto, in una camera stagna si palesano dei magnifici affreschi, che subito svaniscono al contatto con l’aria, nello stupore impotente degli studiosiesploratori. È una sequenza di Roma (1972) di Federico Fellini, dedicata alla scoperta casuale di vestigia dell’età imperiale durante gli scavi per la costruzione della metropolitana, un’attività perennemente in corso nella capitale fino ai giorni nostri. L’archeologia «felliniana» è una metafora della disparizione che riguarda la storia, l’arte e la bellezza, non meno dei sentimenti. In 8 ½ i fantasmi dei genitori parlano al protagonista Guido (Marcello Mastroianni) aggirandosi fra i resti dell’acquedotto Claudio nel parco delle rovine fra l’Appia e la Tuscolana, ma della rivelazione presto non resta nulla: solo le pietre del tempo, mute. Contro quelle stesse millenarie pietre si coltiva l’arte di battere la testa in La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, film sapido di maschere ed episodi à la manière de Fellini, ambasciatore nel mondo del masochismo nirvanico di cui Jep Gambardella/Toni Servillo è un osservatore, nonché un elegante interprete con tanto d’abito di lino bianco e l’immancabile Borsalino. L’incipit di L’orologio del torinese Carlo Levi, il grande romanzo sul dopoguerra italiano (1950), rinnova l’aura della città eterna: La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse
vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case.
Selvatica Roma, anzi «l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo», scherza Ennio Flaiano, ch’era abruzzese di Pescara, un altro provinciale adriatico, come Fellini soggiogato dalla sensuale capitale. Il diciannovenne Federico ne è preda fin da quando vi mette piede – non da turista – nel gennaio del 1939. Il giovanotto lascia Rimini e il mare dove non si bagnava che di rado («Federico non sapeva nuotare», raccontò Luigi «Titta» Benzi). Lui e la sorellina Maddalena si trasferiscono a Roma con la madre Ida Barbiani, romana di nascita, andata in sposa al commerciante romagnolo Urbano Fellini, il quale rimane a casa con l’altro figlio, Riccardo. Siamo alla vigilia della guerra e Fellini, firmandosi Fellas, da un po’ pubblica le sue cose sul settimanale fiorentino fascista «420» edito da Nerbini. Nell’Urbe comincia la collaborazione – via via più stabile – con alcune testate satiriche dal largo seguito: «Il travaso delle idee», già orfano del suo primo direttore Filiberto Scarpelli (futurista napoletano, padre dello sceneggiatore Furio Scarpelli), e il «Marc’Aurelio – Bisettimanale romano» fondato nel 1931 da due giornalisti del fascistissimo «Popolo d’Italia», Oberdan Cotone e Vito De Bellis. Sul «Marc’Aurelio» il 18 settembre 1940 Fellini disegna una vignetta che rivela un mondo: «Io faccio il regista», dice un uomo e un altro ribatte: «Anch’io non so far niente». In redazione bazzicano personalità destinate a diventare famose sul grande schermo e qualcuno già popolare in teatro: Steno,
Totò, Cesare Zavattini, Agenore «Age» Incrocci, che con Furio Scarpelli darà vita alla premiata ditta della commedia all’italiana, e in seguito il giovane Ettore Scola. Il Nostro intanto si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, senza sostenere neppure un esame… La sua Sapienza si raffina piuttosto nel retrobottega dell’avanspettacolo che sta cedendo il posto alla rivista e al primato della radio, mentre stringe legami di amicizia e lavoro con Aldo Fabrizi, Erminio Macario e Marcello Marchesi, cominciando a scrivere gag e brevi storie. Negli studi dell’Eiar conosce Giulietta Masina e presto la sposa. Durante la guerra Fellini collabora ad Avanti c’è posto e Campo de’ Fiori di Mario Bonnard e a Chi l’ha visto? di Goffredo Alessandrini, e all’indomani della Liberazione è fra i protagonisti del neorealismo, il carattere poetico della nuova Italia, sceneggiando con Roberto Rossellini Roma città aperta e Paisà, con Pietro Germi In nome della legge, Il cammino della speranza e La città si difende, con Alberto Lattuada Il delitto di Giovanni Episcopo, Senza pietà e Il mulino del Po. Con Rossellini fa anche un’esperienza da interprete nell’episodio Il miracolo del dittico L’amore (1948). Di quel film si tende a ricordare il primo episodio, Una voce umana, dall’omonimo atto unico teatrale di Jean Cocteau, per il virtuosismo del monologo telefonico di Anna Magnani. Fellini firma il soggetto di Il miracolo tratto da un suo racconto originale e a Maiori nella costiera amalfitana è impegnato da aiuto regista e nel ruolo di un barbuto vagabondo biondo. Questi viene scambiato per san Giuseppe da una contadina insana di mente (la stessa Magnani) che si è fatta mettere incinta da lui e attende la
nascita del bimbo come un prodigio: sbeffeggiata da tutti nel paese, la donna partorirà da sola in una torre campanaria. Fellini esordisce nella regia con Luci del varietà (1951), firmato con il più esperto e affermato Alberto Lattuada e prodotto grazie a un’innovativa formula in cooperativa di cui sono partecipi le mogli-attrici di entrambi, Giulietta Masina e Carla Del Poggio. Il film è un insuccesso, ma rende palese sia l’autobiografismo di fondo del regista sia la sua attenzione per gli ambienti dello spettacolo dietro le quinte: due costanti d’ora in poi. Il fiasco al botteghino avrebbe spinto più d’uno a lasciar perdere il ciak e a rientrare nei ranghi della scrittura, se non che l’industriale piemontese del legno e produttore per caso Luigi Rovere persuade Fellini a dirigere un soggetto di Michelangelo Antonioni – Caro Ivan il titolo –, che da qualche mese nessuno vuole realizzare. Sposini meridionali in viaggio di nozze nella capitale con tragicomica incursione di lei, che si firma «bambola appassionata», nel mondo del fotoromanzo dove viene semi-sedotta e abbandonata dallo «sceicco bianco»; finale tra le coppie in fila a piazza San Pietro per un’udienza papale al ritmo della «marcetta» di Nino Rota, la prima di una lunga serie cine-musicale. Il set è un canto delle sirene per il trentaduenne Federico, che ha il timore/furore panico di Fare un film, come intitolerà un suo libro per Einaudi nel 1980. Mette conto riportarne una pagina: Il primo giorno della lavorazione dello Sceicco bianco cominciò male, proprio male. Si doveva girare in esterni. Ero partito da Roma all’alba, salutando Giulietta con il batticuore di chi va a sostenere un esame. Avevo una Cinquecento e l’avevo fermata davanti a una chiesa, ero entrato addirittura a pregare. Nell’ombra mi era parso di intravedere un catafalco, e mi ero
lasciato prendere dalla superstizione che si trattasse di un cattivo presagio, ma poi il catafalco non c’era, nella chiesa non c’era nessuno, né morto né vivo. C’ero solo io, che non mi ricordavo più nemmeno una preghiera. Feci alcune vaghe promesse di ravvedimento e uscii un po’ inquieto. Sulla strada di Ostia, alla Cinquecento era scoppiata una gomma, allora quando scoppiava una gomma bisognava cambiarla con le proprie mani. Io comunque non me ne sentivo capace, così stavo lì, abbastanza disperato, pensando che ero già in ritardo per la mia prima regia. Per fortuna passò un camionista siciliano di buon umore, e fece il cambio lui. Arrivai a Fregene alle nove e tre quarti mentre l’appuntamento era per le otto e mezza. Si erano imbarcati tutti in un barcone che era a un chilometro di distanza su un mare immenso. Mi parevano lontanissimi, irraggiungibili. Mentre un motoscafo mi portava verso di loro, il barbaglio del sole mi confondeva gli occhi. Non solo erano irraggiungibili, non li vedevo più. Mi domandavo «E ora cosa faccio?». Non ricordavo la trama del film, non ricordavo nulla, desideravo tagliare la corda e basta. Dimenticare. Poi, però, di colpo tutti i dubbi mi svanirono quando posai il piede sulla scala di corda. Mi issai sul barcone. Mi intrufolai tra la troupe. Ero curioso di vedere come sarebbe andata a finire.
Qui comincia l’avventura felliniana, perché Lo sceicco bianco contiene in nuce una serie di temi, personaggi, situazioni, archetipi, e addirittura il nome o l’agnizione di Cabiria, attribuito qui al personaggio della prostituta di buon cuore Giulietta Masina. Sono parecchie, infatti, le situazioni che ritroveremo nei film successivi di Fellini: l’arrivo in treno di una coppia alla stazione Termini, le scene del ballo in
spiaggia con la relativa sospensione della realtà in virtù del primato onirico, il sopraggiungere improvviso del maltempo come cambio di sequenza… Sicché, Fellini può tornare con la sicurezza di essere un regista dai suoi amici ai tavoli di Otello alla Concordia o della Fiaschetteria Beltramme, immortalata da una rima sarcastica di Flaiano: «Tra una coscia di pollo / e la cicoria / da Cesaretto aspetto la gloria». Roma, Cinema, Fellini diventa una triade sillabata dagli stranieri in vacanza. La dolce vita sarà identificata ambiguamente con Roma per una lunga stagione non ancora del tutto conclusa. Nel Fellini Satyricon (1969) la Roma imperiale di Petronio incornicia la decadenza del presente con una lettura non benevola degli hippie, di recente rilanciata in chiave truculenta da Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood (2019), forse il più «felliniano» dei suoi film per la giocosa analisi delle contraddizioni della Mecca del cinema negli anni Sessanta. «Potrei dire che gli eroi del Satyricon, Encolpio e Ascilto, rassomigliano molto agli hippies, come loro obbediscono unicamente al proprio corpo, cercano una nuova dimensione nella droga, rifiutano i problemi», scrive Fellini. La frammentarietà della narrazione di Petronio non viene rimossa, anzi, nel film è rivendicata: un’avventura «fantascientifica nel passato» che coincide con la disponibilità a immergersi in un sogno o un incubo dell’antica Roma. Un viaggio visionario popolato di immagini, colori, volti, anticipato da una messe di disegni che prefigurano icasticamente, come nota Pier Marco De Santi, «una specie di contaminazione tra la temperie delirante della fantasia e la realtà di un mondo scomparso». Invece in Roma un ragazzo di nome Federico (Peter Gonzales) scopre il volto prosaico e il fascino contagioso
dell’Urbe – degno dei sonetti plebei e struggenti di Giuseppe Gioachino Belli – nella pensione popolare dove dorme avendo tra i coinquilini un cinese (con uso e abuso di cucina orientale), durante i pranzi in trattoria all’aperto a base di rigatoni con la pajata o spaghetti alla carbonara, nelle strade affollate di umanità: «A Fernanda, vie’ giù», urla il fidanzato all’apice della galanteria di cui è capace. Il film è un amarcord romano e la carrellata della macchina da presa con cui viene reso l’arrivo del protagonista alla stazione Termini è evocativa del passo decisivo nella biografia felliniana: un battesimo di fuoco (o di fuco?) che non a caso è suggellato dal manifesto di una pellicola del 1939, Grandi magazzini di Mario Camerini, con Assia Noris e Vittorio De Sica, cui collaborarono letterati o giornalisti di prestigio come Mario Pannunzio e Giacomo Debenedetti, che non firmò la sceneggiatura per via delle leggi razziali antiebraiche. Ma Roma è anche un’incursione nell’atmosfera del 1972. Ecco infatti una sorta di apocalisse sul grande raccordo anulare di una metropoli levantina e panciuta, arcana e per certi versi futuribile: il delirio del traffico e delle auto incolonnate sotto la pioggia, l’astrattismo delle luci prossime a un’immagine della pop art, gli animali trasportati su veicoli bizzarri, l’ingorgo memore dell’incubo iniziale di 8 ½, e poi i cortei di protesta e il contenimento sbirresco, il caos all’ombra d’un Colosseo emblematico della città madre e mignotta che non riesce più a governare il viavai dei suoi figli o clienti, un’eccentrica sfilata di moda ecclesiastica, la Festa de’ Noantri a Trastevere, e i centauri rombanti nella notte… C’è un’eco della proustiana Recherche del tempo perduto, però le madeleines sono «maritozzi spesso con la panna. Indigesti magari, ma che fanno gola, e attraggono lo spettatore con un tanto di morboso» (Goffredo
Fofi). Mentre gli Alleati bombardano il quartiere di San Lorenzo il 19 luglio 1943 – un evento cruciale nella memoria popolare – i personaggi del film si ritrovano nel rifugio in pigiama e ne riaffiorano come sagome stordite, terrorizzate, fuggitive, evanescenti; ombre quasi espressionistiche con un che dei lemuri di Murnau o Lang, che si sfiorano nel tunnel. Il genius loci è l’illusione, afferma lo scrittore Gore Vidal, in libera uscita dalla sua magnifica villa «La Rondinaia» di Ravello per sunteggiare lo spirito romano: Qua c’è il cinema, la Chiesa, il governo; la fabbrica delle illusioni; il mondo si avvicina alla fine perché è troppo popolato, ci sono troppe macchine, c’è l’inquinamento. Quale posto migliore, perciò, di questa città morta tante volte e tante volte rinata, per aspettare la fine e per vedere se tutto finisce o no.
L’epilogo di Roma è affidato al disincanto di Anna Magnani, nella sua ultima apparizione (muore il 26 settembre 1973 a 65 anni). Fuori campo la voce di Fellini scandisce: «Anna Magnani è un’attrice romana, simbolo stesso di Roma, vista come lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra, buffonesca, potrei continuare all’infinito». Lei si gira e con un accenno di sorriso replica: «A Federi’, vattene a dormi’». Lui insiste: «Ti posso fare una domanda?». «No, non mi fido. Buonanotte». Già, buonanotte Roma, i leoni ruggiscono per te.
V
Vitelloni
«Lavoratoriii…». È lo sberleffo di Alberto Sordi, imbacuccato a foggia di bebè con una sciarpa in testa contro il freddo padano, sul sedile posteriore di una decappottabile. A bordo con lui ci sono Leopoldo Trieste e Riccardo Fellini, nel film I vitelloni (1953), il più personale e speranzoso del giovane regista riminese. Spavaldo e vile, infingardo e subito pentito, l’attore che tutti avrebbero appellato Albertone è qui un Albertino che coltiva l’eterna incoscienza-adolescenza di una vita senza sforzo, distinguendosi da quei «lavoratori della mazza» («malta» o «massa», secondo altre versioni) che stanno faticando sul ciglio della strada. Rivolge loro il gestaccio dell’ombrello e va oltre, verso la prossima beffa, chissà. Però l’automobile si blocca dopo qualche decina di metri, è in panne, e gli operai accorrono per vendicarsi dell’insulto. Il cuor di leone prova a battersela nei campi, mentre l’intellettuale del gruppo, Leopoldo, non trova autodifesa migliore che farfugliare d’essere «socialista» quando già viene preso a pedate. La scena è il sigillo di un carattere italiano, almeno dalle novelle secentesche degli emiliani Adriano Banchieri e Giulio Cesare Croce, che nel corso del tempo si è «perfezionato» allargando il divario generazionale fra Bertoldo e Cacasenno, senza neppure la «mediazione» di Bertoldino. Cacasenno oggi fa valere l’etimo sui social, è il cortigiano che primeggia nel codazzo virtuale, ignaro della fatica di campare. Nell’Italia dei
poveri ma bulli, presagita da Fellini, siam tutti più o meno spavaldi sui tasti del telefonino e inermi nella realtà. Forse si combatte così la malinconia dell’invecchiare cui i vitelloni tentano di opporsi scadendo nel patetico. Essi indugiano in vari modi lungo la linea d’ombra invernale e padana di un’adolescenza perpetuata ben oltre il limite naturale o consentito. La presunzione di impunibilità e il cullarsi nell’idea di una persistente età aurea in cui tutto è possibile senza pagarne le conseguenze, nel film attengono in primis a Fausto (Franco Fabrizi, doppiato da Nino Manfredi). Nonostante sia diventato papà, Fausto continua a tradire la moglie Sandra (Leonora Ruffo), infine fuggitiva col neonato a casa del suocero, che prenderà a cinghiate il rampollo dissoluto. Né gli viene riservato un trattamento meno sprezzante dal titolare del negozio di arredi sacri (Carlo Romano), del quale Fausto prova a sedurre la bella moglie Giulia (Lida Baarova, l’attrice praghese che era stata l’amante del ministro nazista Joseph Goebbels). Un tentativo fallimentare, ad onta delle apparenze, che inoltre procura a Fausto il precoce licenziamento. Altre illusioni s’infrangono: Leopoldo cerca invano di persuadere della bontà di un suo testo teatrale un vecchio capocomico che è interessato invece a un incontro omosessuale; una festa carnascialesca finisce in sbronza triste per Alberto, che per di più scopre la sorella pronta a fuggire con un uomo sposato. Soltanto il fratello di Sandra, Moraldo (Franco Interlenghi), riuscirà finalmente ad andarsene e quando il treno in partenza sferraglia (verso Roma?) egli ripensa ai suoi amici per i quali nulla cambia. «E state attenti, a Roma, ad attraversare le strade…» ingiunge dal marciapiede della stazione di Rimini la signora Rubini (Paola Borboni) agli sposini Fausto e Sandra in partenza per il
viaggio di nozze. Di Roma in I vitelloni non c’è una sola immagine eppure l’afflato della fuga verso la metropoli coincidente con l’«addio alla giovinezza», come lo definirà Tullio Kezich, è ovunque nel film. E il punto di vista di Moraldo si può senza dubbio assumere quale autobiografico da parte di Fellini, che nel nome del protagonista rende affettuosamente omaggio al suo amico Moraldo Rossi, veneziano a Roma e fratello dell’attrice Cosetta Greco, in quegli anni collaboratore inseparabile, tanto che tra i progetti non realizzati dal Nostro giace il copione di Moraldo in città, seguito ideale di I vitelloni. Alla luce della carriera di Fellini, il distacco di Moraldo è l’unico modo per rimanere fedeli all’infanzia, per continuare a giocare, per rinverdire lo stupore che si sarebbe altrimenti inaridito nel lento, inesorabile rientro nei ranghi che attende al varco i vitelloni stanziali, destinati nel migliore dei casi a diventare una banda di goliardi alla maniera di Amici miei di Mario Monicelli (1975). La provincia non perdona, assegnando a ciascuno un ruolo in commedia. Il giovane Federico lo sa e preferisce il commiato subito al rimpianto futuro di ciò che non fu osato. Perciò… A Roma, a Roma! Il «nostalgico» Fellini, a lungo considerato il cantore di un fazzoletto di spiaggia romagnola, è in realtà un giovane artista che nell’inurbamento intravede l’unica chance di esprimersi. «Venga il mattino per i giovani del 1953 / e sulle bocche arse rispunti il sorriso». Sono gli ultimi versi del lucano Rocco Scotellaro, poeta e sindaco contadino, morto trentenne nell’anno di I vitelloni, a sua volta tentato dal cinema nonostante il contesto della natia Tricarico fosse molto differente da quello riminese. Naturalmente il buon esito della
carta romana non è scontato neppure nella finzione, se ricordiamo che dieci anni dopo il protagonista di I basilischi di Lina Wertmüller (1963), dalla capitale torna nel Sud immobile dei lucertoloni-vitelloni che all’azione prediligono il sogno impotente: Parla, parla… Tanto che non partirà più tutti l’hanno capito, e pure lui. Perché? Eh, e ci u sape! Può essere che ad Antonio gli manca qualche cosa, o forse ci manca a tutti noi… Oppure può essere che siamo quelli che la razza, il clima, il luogo, la storia hanno voluto che fossimo, come dice quel grand’uomo del Sud. Bah…
D’altro canto, la dinamica di Moraldo presagisce il movimento che investirà migliaia di migranti acculturati negli anni Sessanta del boom, dal Mezzogiorno verso Roma, Milano e Torino. Per Fellini lo spirito «fanciullesco» non può rimanere immobile nell’età anagrafica ma neanche nella geografia originaria. I vitelloni esce nelle sale il 17 settembre 1953. Meno di un mese prima, il 19 agosto, Nanni Moretti nasce in quel di Brunico. Uno dei suoi tormentoni diventerà «Ma che siamo, in un film di Alberto Sordi? Te lo meriti, Alberto Sordi!», rivolto all’avventore di un bar che sta blaterando improperi sull’Italia dove… «rossi, neri, alla fine sono tutti uguali». Il film è Ecce bombo (1978), lo stesso di un altro dialogo proverbiale, l’ironico «manifesto» di una generazione che rifiutava il lavoro, prima che il lavoro rifiutasse le generazioni successive: – Come non sai, cioè, che lavoro fai? – Nulla di preciso. – Be’, come campi?
– Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose. – E l’affitto? – Vivo con mio fratello e non lo pago. – Be’, dico, i vestiti? – Eh, a un amico, per esempio, che va a Londra, gli dico di portarmi delle cose, degli abiti…
Nel paese della pernacchia, prosaico surrogato del pernacchio che per Eduardo De Filippo vale una rivoluzione (L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, 1954), ce la siamo meritata la maschera di Alberto Sordi. Sì, perché lungo quella strada lo sfregio del vitellone ai lavoratori è una pernacchia allo specchio. Presto arriveranno gli ombrelli di Cipputi nei disegni del geniale Altan: l’autolesionismo è made in Italy, inimitabile, non v’è prodotto cinese in grado di simulare quel «Lavoratoriii».
Z
Zampanò
E se fosse Zampanò l’alfa e l’omega dell’immaginario felliniano? È lo zingaro di La strada nel 1954, interpretato da Anthony Quinn (doppiato da Arnoldo Foà) che solo un anno prima s’è aggiudicato l’Oscar come migliore attore non protagonista di Viva Zapata! nella parte di Eufemio, il fratello del capo rivoluzionario messicano Emiliano Zapata (Marlon Brando), con la regia di Elia Kazan e la sceneggiatura di John Steinbeck, e scusate se è poco. Di origini messicane, con passaporto statunitense, Quinn si è appena trasferito in Italia per interpretare Antinoo, il più tracotante dei Proci omerici (sarà doppiato da Mario Pisu) nell’Ulisse di Mario Camerini, protagonista Kirk Douglas, con Silvana Mangano nella doppia veste di Penelope e di Circe, sì da far risparmiare il marito Dino De Laurentiis, produttore della pellicola insieme a Carlo Ponti, in sodalizio con la leggendaria Lux Film ormai declinante, fondata a Torino nel 1934 da Riccardo Gualino. Quest’ultimo è l’imprenditore di Biella, magnate e grande collezionista d’arte spedito al confino da Mussolini nel 1931, che sarà anche vicepresidente della FIAT e fondatore della SNIA-Viscosa. È lui ad avere assunto sia Ponti sia De Laurentiis come produttori esecutivi della Lux. Dino, in particolare, viene convocato a Roma dal musicologo Guido Maggiorino Gatti, torinese d’adozione e fiduciario di Gualino. A Gatti deve il primo contratto con la Lux Tullio Pinelli, compagno di banco di Cesare Pavese e amico di Leone Ginzburg all’ombra della Mole, e futuro sceneggiatore di
alcuni capolavori felliniani, che al momento della selezione per l’unico posto in ballo viene preferito agli scrittori Vitaliano Brancati ed Elio Vittorini. Nella cerchia della Lux postbellica, ancora grazie a Gatti, gravitano anche il critico musicale Fedele d’Amico e soprattutto Nino Rota, che per una ventina d’anni sarà sotto contratto con la società di Gualino. Messisi in proprio già da un po’, Ponti e De Laurentiis nel 1954 oltre all’Ulisse producono Attila di Piero Francisci, ancora con Quinn, e Senso di Visconti. Federico conosce l’attore americano sul set di Donne proibite prodotto e diretto dal verace Peppino Amato, non proprio un esponente dell’intellighenzia. Nel cast di Donne proibite, un melodramma sulla redenzione di alcune ex prostitute, figura Valentina Cortese, all’epoca sposata con un altro attore americano, Richard Basehart, che Fellini chiama per il ruolo del «Matto» in La strada, facendolo doppiare dal livornese Stefano Sibaldi con un toscanismo di fondo nella cadenza. La scelta di Basehart è un’amarissima delusione, racconta Tullio Kezich, per le aspettative di Alberto Sordi che all’uopo aveva invocato un provino con l’amico regista: «Nella sua concreta grintosità, Alberto al limite potrebbe fare Zampanò (e in qualche modo lo rifarà in Fortunella), ma è l’opposto esatto del Matto aereo e poetico». Il ruolo di Gelsomina era destinato a Silvana Mangano, finché De Laurentiis non decise di scommettere sulla Masina, consacrata così in una dimensione tragicomica e grottesca, dolce e vagamente surreale che le resterà addosso per tutta la vita, soprattutto dopo che La strada ebbe vinto l’Oscar per il miglior film straniero il 27 marzo 1957, il primo passo della marcia trionfale di Federico a Hollywood. È semplice la storia
di Gelsomina, misera ragazza di paese, venduta da una vedova per 10.000 lire al gitano Zampanò. Questi si esibisce nelle piazze in numeri circensi da mangiafuoco e spezzacatene grazie alla capacità di gonfiare la cassa toracica fino allo spasimo, o, ripete lui con l’enfasi dell’imbonitore, fino al rischio di far scoppiare una vena o collassare il nervo ottico. Tanto lei è fragile, sensibile, tenera, volubile nell’umore, lunare nelle esplicite fattezze clownesche che – a partire dal trailer di lancio del film – ne fanno parlare come di una versione femminile di Charlot; quanto lui è rude, massiccio, con tratti animaleschi, terrigeno in tutto, sebbene insegni a suonare la tromba alla compagna di viaggio. Zampanò è un gigante burbero lungo le strade di un paese povero, un’Italia «di rive sterpose e borghi assopiti nella neve o nel sole», chiosa lo scrittore Giuseppe Marotta, che tuttavia contesta si possa scomodare l’appellativo «poetico» per il film in un articolo su «L’Europeo» intitolato Dio salvi Federico Fellini. Il principale di quei borghi della Tuscia romana è Bagnoregio dove, fra piazza Cavour e la chiesa di San Nicola e San Donato, sono ambientate le scene più importanti di La strada, con incursioni nella frazione di Civita sospesa sui calanchi, uno dei luoghi più vividi nell’immaginario collettivo degli ultimi lustri, a dispetto della fama del «paese che muore». Fra i due personaggi principali, nonostante il trasporto emotivo della giovane donna, alla lunga non v’è connubio possibile e Gelsomina vorrebbe andarsene, smettere di suonare tre volte il suo tamburello per annunciare il numero di Zampanò e finalmente liberarsi di quel brutale compagno di viaggio. Ma un altro girovago del circo, il soave equilibrista toscano detto «il Matto», riesce a persuaderla che ogni cosa
corrisponde a un disegno celeste, per quanto enigmatico possa apparire, persino «questo sassetto… E anche tu, anche tu servi a qualcosa con la tu’ testa di carciofo». È così, le dice, anche per il legame con Zampanò al quale lei deve restar vicina, dunque. Lo storico del cinema Roberto Campari fa notare che l’apparizione del «Matto» agli occhi di «una specie di angelo inconsciamente toccato dalla Grazia come Gelsomina» ricorda la soluzione scelta da Fellini in Lo sceicco bianco: Con la differenza che lui è davvero in alto, sta camminando su una corda tesa fra due case del paese, si esibisce nelle sere di festa e porta, sul trucco e sul costume da clown, due candide ali. Gelsomina lo vede come un angelo, lo mitizza come Wanda aveva mitizzato il suo «sceicco»; ma questa volta non si tratterà di una vuota illusione: sarà infatti proprio il Matto a dare alla giovane infelice, nel momento della sua disperazione, il senso del significato e del valore dell’esistenza col famoso esempio del sassolino.
Gelsomina rimane, finché un giorno Zampanò viene alle mani col «Matto» e lo uccide. Lei ne soffre al punto da rischiare di impazzire e di lì a poco prende a pronunciare parole che, nella loro inconcludenza, lasciano intendere la colpa di Zampanò e quindi rischiano di farlo finire dietro le sbarre. Lo zingaro allora decide di piantare in asso la sua compagna di strada. Tre/quattro anni dopo gli diranno che Gelsomina è morta e Zampanò ha di colpo la rivelazione del significato di quella vita che abbandonò a sé stessa e dell’assurdità della propria esistenza. Piange disperatamente su una spiaggia deserta, in un finale struggente.
Il film si aggiudica il Leone d’argento della 15a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ex aequo con ben altre tre pellicole parimenti non trascurabili, visto che si tratta di Fronte del porto di Elia Kazan, I sette samurai di Akira Kurosawa e L’intendente Sansho di Kenji Mizoguchi, mentre l’oro va al non memorabile Giulietta e Romeo di Renato Castellani, e la Coppa Volpi di Misurata per l’interpretazione maschile incorona il francese Jean Gabin in gara con due film (Grisbi e Aria di Parigi). Non viene assegnata la Coppa Volpi femminile, sebbene la meritassero pienamente sia la Masina sia Alida Valli, la contessa Livia Serpieri di Senso di Luchino Visconti, a sua volta in concorso. E sono ignorati dal verdetto film come La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock e Il fiume e la morte di Luis Buñuel. Insomma, una cappella dopo l’altra da parte della giuria internazionale presieduta dallo scrittore Ignazio Silone, nella quale c’erano altri quattro italiani su nove membri, tutti letterati ed esperti di cinema: Pasquale Ojetti, Mario Gromo, Filippo Sacchi e Piero Regnoli. La cerimonia finale della Mostra si trasforma in un putiferio soprattutto per il mancato premio a Visconti, il conte rosso e beniamino della cinefilia di sinistra che considera Fellini alla stregua di un bigotto o giù di lì. La sera del 7 settembre 1954 al Lido di Venezia i «compagni» in platea e il clan Visconti scatenano le proteste all’annuncio dell’argento assegnato a La strada, che tra l’altro era stato accolto tiepidamente alla proiezione ufficiale del giorno prima. È la premessa di un’inimicizia quasi decennale tra Fellini, comunque gratificato da un premio, e Visconti che invece lascerà la Laguna a mani vuote. Anche per questo La strada non viene accolto con favore dalla critica marxista, ma, attenzione, neppure da quella cattolica. Da una parte fa testo
Guido Aristarco che su «Cinema nuovo» il 10 novembre 1954 decreta: Il fenomeno Fellini va ricollegato con tutto un modo di concepire e intendere l’arte, di assumere verso di essa e la vita un atteggiamento simile a quello della nostra letteratura d’anteguerra, e anche in parte e per molti versi, di quella contemporanea. In questo senso Fellini appare come un regista anacronistico, irretito com’è in problemi e dimensioni umane largamente superate.
Sul côté vaticano basterà ricordare che il Centro Cattolico Cinematografico consiglia di riservare la visione al solo pubblico adulto. Ma Federico è e rimarrà convinto di avere realizzato «un film coraggioso», rivendicando una tantum il giudizio di un critico, il raffinato Pietro Bianchi. Ancora trent’anni dopo, nel 1983, Fellini ne fa menzione a Giovanni Grazzini nell’Intervista sul cinema, argomentando con un piglio storico-sociologico per lui abbastanza inusuale: In mezzo a questa esaltata, tumultuosa, contrastata accoglienza, mi sembrò che il commento di Pietrino Bianchi fosse diverso da tutti gli altri: «Che film coraggioso!», disse, e ripensandoci, anche oggi mi sembra che almeno in quel momento il suo giudizio fosse il più giusto. La strada era un film che raccontava contrasti più profondi, infelicità, nostalgie e presentimenti del trascorrere del tempo non puntualmente riconducibili a problematiche sociali ed impegno politico; quindi, in piena ubriacatura neorealistica, La strada era un film da rinnegare, decadente e reazionario. Mi sembra che Bianchi avesse scorto nel mio film il coraggio di andare controcorrente.
Quanto a Zampanò, può ricordare il Mangiafoco di Pinocchio, passione di una vita del Nostro. Ve n’era traccia già nel personaggio minore del figurante beduino Oscar di Lo sceicco bianco, senza trascurare, a proposito di beduini, che nel 1942 Fellini contribuisce a I cavalieri del deserto (Gli ultimi tuareg), esordio dietro la macchina da presa del divo Osvaldo Valenti in coppia con Gino Talamo, il quale però si ammala durante le riprese in Libia. Federico vola a Tripoli nel tentativo di dare manforte al comparto regia e – sostiene – poco dopo torna rocambolescamente in Italia, ottenendo un passaggio su un aereo militare tedesco diretto in Sicilia. Vero? Falso? Chissà. Certo è che il film non fu ultimato a causa della guerra e che la sceneggiatura, tratta da un romanzo di Emilio Salgari, porta le firme di Fellini, di Tito Silvio Mursino (alias Vittorio Mussolini, figlio del duce) e dello stesso Valenti. Quest’ultimo, reo di collaborazionismo con i nazisti, insieme alla compagna Luisa Ferida sarà giustiziato dai partigiani il 30 aprile 1945 a Milano, per ordine di Sandro Pertini (negli ultimi decenni la storiografia e alcuni film sulla tragica vicenda hanno riabilitato in parte la Ferida). Del film tripolino, che aveva nel cast anche Primo Carnera, restano una dozzina di disegni fatti da Fellini raffiguranti scene del set, caricature dei personaggi e due autoritratti, uno a dorso di un cammello e il secondo a passeggio nel deserto. Il y a encore un dernier moment d’émotion, quand une trompette s’époumone dans une variation sur le thème de Gelsomina: la note monte, monte dans le choeur, dernier soupir d’un génie qui disparaît – et tout un monde avec lui. [C’è ancora un ultimo momento di emozione, quando una tromba suona a perdifiato in una
variazione sul tema di Gelsomina: la nota sale, sale nel coro, l’ultimo respiro di un genio che scompare e un intero mondo con lui].
È Gilles Jacob, all’epoca direttore del Festival di Cannes, a restituire la commozione del motivo musicale eseguito ai funerali di Fellini, il 2 novembre 1993 nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. La variazione sul tema di Gelsomina è L’improvviso dell’angelo, dall’opera La visita meravigliosa (1970) di Nino Rota, eseguito da Mauro Maur alla tromba e Luigi Celeghin all’organo. L’assolo di tromba per Gelsomina, che in La strada era suonato da Nini Rosso, echeggia qualche mese dopo a Santa Maria in Montesanto in piazza del Popolo, la Chiesa degli Artisti, per l’addio a Giulietta Masina, affidato ancora una volta a Maur su espressa volontà di… Gelsomina. A ricordare Zampanò provvede un altro musicista, il cantautore Vinicio Capossela, con un brano a lui intitolato dell’album Camera a sud (1994): Esco da me in tutto non m’amavo granché il nano mi guarda felice non sa quel che dice e se la canta per sé Tutta per me la giostra di Zampanò tace e gira con gli occhi di brace il cavallo di Troia che alla zingara piace…
Poi, Zampanò esce di scena. Troppo lontana la «sua» Italia perché oggi possa essere ricordato da qualcuno, figurarsi dai più giovani. Durante uno dei periodici scioperi della fame e
della sete come forma di battaglia politica, ai primi di luglio del 2002, il leader radicale Marco Pannella (scomparso nel 2016) se ne esce con questa dichiarazione: «Io forse sono Zampanò. La strada, il marciapiede sono gli alti luoghi della storia radicale. Come diceva Pasolini, abbiamo frequentato gli angoli più oscuri, non abbiamo avuto paura di niente, di puttane e fascisti. Noi andiamo avanti». Singolare l’accostamento di Zampanò a Pasolini, ma neanche tanto: sua è la «disperata vitalità» che in forme diverse anima e tormenta Pier Paolo e Federico, i quali per un certo periodo si contagiano a vicenda, in un dialogo con la vita della strada, persino la più fragile e dannata, dai borghi alle borgate, fino a via Veneto. Chi dovesse capire il forzuto, prepotente, allucinato Zampanò, che oggi traluce come uomo-massa nel nostro circo quotidiano, saprebbe qualcosa delle risposte all’incarognirsi della vita pubblica che invano cerchiamo da un bel po’.
Nota bibliografica
Ogni film è riportato nel testo con il titolo italiano e fra parentesi l’anno della prima proiezione pubblica. I riferimenti bibliografici sono citati «in ordine di apparizione», oppure in progressivo riferimento al testo nei singoli capitoli. La bibliografia felliniana è smisurata e in costante crescita, da Federico Fellini. Romance di Jean-Paul Manganaro apparso in Francia nel 2009 e tradotto dal Saggiatore (Milano, 2014) a L’Italia vista dalla luna. Un paese in divenire tra letteratura e cinema di Marco Antonio Bazzocchi (MilanoTorino, Bruno Mondadori, 2012); da Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, di Andrea Minuz (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014) a Nino Rota: La dolce vita. Sources of the Creative Process di Giada Viviani (Turnhout, Brepols Publishers, 2018); dall’inedito soggetto felliniano L’Olimpo. Il racconto dei miti, a cura di Rosita Copioli e Gérald Morin (Milano, Sem, 2016) a Fellini’s Eternal Rome: Paganism and Christianity in the Films of Federico Fellini di Alessandro Carrera (London-New York, Bloomsbury Academic, 2018); da L’Italia secondo Fellini di Goffredo Fofi, Piergiorgio Giacchè, Emiliano Morreale e Gianni Volpe (Roma, e/o, 2019) al Dizionario intimo per parole e immagini di Federico Fellini, a cura di Daniela Barbiani (Milano, Piemme, 2019). Per i riferimenti aggiornati fino al 2004 si rinvia ai tre puntuali volumi della BiblioFellini a cura di Marco Bertozzi,
con la collaborazione di Giuseppe Ricci e Simone Casavecchia (Scuola Nazionale di Cinema e Fondazione Federico Fellini, Roma-Rimini, 2002-04), che raccolgono rispettivamente: Monografie, soggetti e sceneggiature, saggi in volume (vol. I); Saggi, recensioni e articoli nella stampa periodica (vol. II); Recensioni sui quotidiani, vignette e scritti umoristici, programmi radiofonici, regie e collaborazioni cinematografiche, pubblicità, film e documentari, programmi televisivi su Fellini, scritti di Fellini (vol. III).
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Leogrande,
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nel
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Urbe Carlo Levi, L’orologio, Torino, Einaudi, 1950. Federico Fellini, Racconti umoristici, a cura di Claudio Carabba, Torino, Einaudi, 2004 contiene una raccolta dei pezzi scritti per il «Marc’Aurelio» tra il 1939 e il 1942. Federico Fellini, Fare un film, cit. Pier Marco De Santi, I disegni di Fellini, cit. Goffredo Fofi, in «Quaderni piacentini», n. 48-49, 1973.
Vitelloni Oscar Iarussi, Rocco Scotellaro, in «Belfagor», LXI, n. 362, 2006.
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Indice dei film
Accattone, P.P. Pasolini (Italia, 1961), 14, 44, 90, 138 Agenzia matrimoniale, F. Fellini, episodio di Amore in città, 105 Alien, R. Scott (Usa, 1979), 163 L’altro Fellini, R. Naccari, S. Bisulli (Italia, 2013), 84 Amanti, V. De Sica (Italia, 1968), 117 Amarcord, F. Fellini (Italia 1953), 8, 10, 13-20, 22, 26, 35, 73, 78, 101, 102, 109, 111, 118, 121, 151, 152, 157, 164 L’amica geniale, S. Costanzo, serie Tv (Italia-Usa, 2018), 77 Amici miei, M. Monicelli (Italia, 1975), 189 L’amore, R. Rossellini (Italia, 1948), 181 Amore in città, M. Antonioni, F. Fellini, A. Lattuada, C. Lizzani, F. Maselli, D. Risi, C. Zavattini (Italia-Francia, 1953), 105 L’ape regina, M. Ferreri (Italia-Francia, 1963), 84 Aria di Parigi, M. Carné (Francia-Italia, 1954), 197 Attila, P. Francisci (Italia-Francia, 1954), 194 Avanti c’è posto, M. Bonnard (Italia, 1942), 181 L’avventura, M. Antonioni (Italia, 1960), 17 Baarìa, G. Tornatore (Italia-Francia, 2009), 102 I bambini ci guardano, V. De Sica (Italia, 1943), 84 I basilischi, L. Wertmüller (Italia, 1963), 99 Bastogne, W.A. Wellman (Usa, 1949), 68 Il bell’Antonio, M. Bolognini (Italia-Francia, 1960), 116, 138 Ben-Hur, W. Wyler (Usa, 1959), 174
Il bidone, F. Fellini (Italia, 1955), 35, 69, 121, 142 Block-notes di un regista, F. Fellini (Usa, 1969), 32, 43, 121 Boccaccio ’70, V. De Sica, F. Fellini, M. Monicelli, L. Visconti (Italia, 1962), 49, 105 Il buono, il brutto, il cattivo, S. Leone (Italia-SpagnaGermania Ovest, 1966), 124 Camilla, S. Bolchi, sceneggiato Tv (Italia, 1976), 69 Il cammino della speranza, P. Germi (Italia, 1950), 181 Campo de’ Fiori, M. Bonnard (Italia, 1943), 181 Il Casanova di Federico Fellini, F. Fellini (Italia, 1976), 8, 13, 35, 101, 103, 121, 152, 156, 165, 173, 175 C’era una volta a… Hollywood, Q. Tarantino (Usa, 2019), 184 C’eravamo tanto amati, E. Scola (Italia, 1974), 173 Che bella giornata, G. Nunziante (Italia, 2011), 26 Che strano chiamarsi Federico, E. Scola (Italia, 2013), 171173 Chi l’ha visto?, G. Alessandrini (Italia, 1945), 181 Chung Kuo, Cina, M. Antonioni (Usa, 1972), 33 La ciociara, V. De Sica (Italia, 1960), 75 La città delle donne, F. Fellini (Italia-Francia, 1980), 113, 127, 164, 166 La città si difende, P. Germi (Italia, 1951), 181 Cleopatra, J.L. Mankiewicz (Usa-Regno Unito-Svizzera, 1963), 140, 174 I clowns, F. Fellini (Italia, 1970), 11, 32-34, 51, 121 Da zero a dieci, L. Ligabue (Italia, 2002), 27 Daunbailò, J. Jarmusch (Usa-Germania Ovest, 1986), 78 Il delitto di Giovanni Episcopo, A. Lattuada (Italia, 1947), 181 Deserto rosso, M. Antonioni (Italia-Francia, 1964), 25 Divorzio all’italiana, P. Germi (Italia, 1961), 75, 117
Dogman, M. Garrone (Italia-Francia, 2018), 102 La dolce vita, F. Fellini (Italia, 1960), 10, 15, 21, 35, 39-42, 44, 47, 49, 50, 59, 60, 90, 91, 104, 105, 108, 113, 114, 116, 121, 123, 132, 137, 138, 140, 142-145, 147, 149, 171-173, 184 Dolor y gloria, P. Almodóvar (Spagna, 2019), 102 Donne proibite, G. Amato (Italia, 1954), 194 E la nave va, F. Fellini (Italia, 1983), 8, 127, 154, 163-165, 167 Ecce bombo, N. Moretti (Italia, 1978), 190 Effetto notte, F. Truffaut (Francia-Italia, 1973), 102 Eleonora, S. Blasi, sceneggiato Tv (Italia, 1973), 69 L’età del ferro, R. Rossellini, programma Tv (Italia, 1965), 99 Eyes Wide Shut, S. Kubrick (Usa-Regno Unito, 1999), 95, 165 Face/Off – Due facce di un assassino, J. Woo (Usa, 1997), 160 La famiglia, E. Scola (Italia-Francia, 1987), 86 Fellinette, F.F. Fellini (Italia, 2019), 87 Fellini Satyricon, F. Fellini (Italia, 1969), 9, 32, 121, 149, 184 Il feroce Saladino, M. Bonnard (Italia, 1937), 162 La finestra sul cortile, A. Hitchcock (Usa, 1954), 197 Il fiume e la morte, L. Buñuel (Messico, 1954), 197 La fortuna di essere donna, A. Blasetti (Italia, 1956), 60 Fortunella, E. De Filippo (Italia-Francia, 1958), 69, 126, 194 Fratelli, A. Ferrara (Usa, 1996), 86 Frau Holle – La signora della neve, J. Jakubisko (Cecoslovacchia, 1985), 69 Fronte del porto, E. Kazan (Usa, 1954), 196 Fuocoammare, G. Rosi (Italia, 2016), 153 Il gattopardo, L. Visconti (Italia-Francia, 1963), 126 Ginger e Fred, F. Fellini (Italia, 1986), 8, 69, 108, 109, 127, 144
La giornata balorda, M. Bolognini (Italia, 1960), 138 Una giornata particolare, E. Scola (Italia, 1977), 116, 117 Un giorno forse, J.L. Bertuccelli (Francia, 1991), 69 Giulietta degli spiriti, F. Fellini (Italia, 1965), 15, 60, 69, 92, 93, 121 Giulietta e Romeo, R. Castellani (Italia-Regno Unito, 1954), 197 La gran vita, J. Duvivier (Italia-Francia-Germania Ovest, 1960), 69 La grande bellezza, P. Sorrentino (Italia-Francia, 2013), 40, 74, 179 Grandi magazzini, M. Camerini (Italia, 1939), 185 Grisbi, J. Becker (Francia, 1954), 197 Guardie e ladri, M. Monicelli, Steno (Italia, 1951), 60 Guerra e pace, K. Vidor (Italia-Usa, 1956), 39 Ieri, oggi, domani, V. De Sica (Italia-Francia, 1963), 75, 117 In nome della legge, P. Germi (Italia-Francia, 1949), 181 L’intendente Sansho, K. Mizoguchi (Giappone, 1954), 196, 197 Intervista, F. Fellini (Italia 1987), 10, 95, 109, 127, 168, 171, 173, 176, 177 Joker, T. Phillips (Usa, 2019), 31 Ladri di biciclette, V. De Sica (Italia 1948), 75 Lamerica, G. Amelio (Italia-Francia-Svizzera, 1994), 153 La leggenda del santo bevitore, E. Olmi (Italia-Francia, 1988), 99 Lo chiamavano Jeeg Robot, G. Mainetti (Italia, 2016), 102 Luci del varietà, A. Lattuada, F. Fellini (Italia, 1950), 60, 69, 105, 182 Made in Italy, L. Ligabue (Italia, 2018), 27, 28
Mi ricordo, sì, io mi ricordo, A.M. Tatò (Italia, 1997), 118 Mia madre, N. Moretti (Italia-Francia, 2015), 49 I migliori anni della nostra vita, W. Wyler (Usa, 1946), 65 Il miracolo, R. Rossellini, episodio di L’amore, 181 Il mondo di Alex (Alex in Wonderland), P. Mazursky (Usa, 1970), 102 Il mostro è in tavola… barone Frankenstein, P. Morrisey, A. Warhol, A. Margheriti (Italia-Francia-Usa, 1973), 24 Il mulino del Po, A. Lattuada (Italia, 1949), 181 Narcos, C. Brancato, C. Bernard, D. Miro, serie Tv (UsaColombia, 2015-17), 80 La nave dolce, D. Vicari (Italia-Albania, 2012), 153 Nessun nome nei titoli di coda, S. Amendola (Italia, 2019), 161 The New Pope, P. Sorrentino, serie Tv (Italia-Francia-Spagna, 2020), 174 Nine, R. Marshall (Italia-Usa, 2009), 78, 79 La notte, M. Antonioni (Italia, 1961), 17, 60 Le notti bianche, L. Visconti (Italia, 1957), 126 Le notti di Cabiria, F. Fellini (Italia-Francia, 1957), 41, 69, 73, 95, 121 Novecento, B. Bertolucci (Italia-Francia-Germania Ovest, 1976), 20 Nuovo cinema Paradiso, G. Tornatore (Italia-Francia, 1988), 13, 75 Oci ciornie, N.S. Michalkov (Italia-Urss, 1987), 117 L’oro di Napoli, V. De Sica (Italia, 1954), 191 8 ½, F. Fellini (Italia, 1963), 15, 18, 22, 34, 35, 41, 60, 61, 73, 78, 79, 83, 86, 91, 93, 94, 99, 102, 105, 113, 116, 117, 121, 127, 128, 131, 132, 134, 147, 165, 166, 179, 185 Il padrino – Parte II, F.F. Coppola (Usa, 1974), 14, 126
Paisà, R. Rossellini (Italia, 1946), 67, 68, 73, 181 Pasqualino Settebellezze, L. Wertmüller (Italia, 1975), 99 Paterson, J. Jarmusch (Usa, 2016), 78 Peccato che sia una canaglia, A. Blasetti (Italia, 1954), 60, 117 Per un pugno di dollari, S. Leone (Italia-Spagna-Germania Ovest, 1964), 124 Persiane chiuse, L. Comencini (Italia, 1950), 68 Il postino, M. Radford, M. Troisi (Italia-Francia-Belgio, 1994), 75 Il posto, E. Olmi (Italia, 1961), 90, 99 Prêt-à-porter, R. Altman (Usa, 1994), 117 La principessa Tarkanova, F. Ozep, M. Soldati (Italia-Francia, 1938), 162 Prova d’orchestra, F. Fellini (Italia, 1979), 8, 121, 127, 129, 130 Quando la moglie è in vacanza, B. Wilder (Usa, 1955), 141 Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, M. Laurenti (Italia, 1972), 16 Quo vadis?, M. LeRoy (Usa, 1951), 174 Radiofreccia, L. Ligabue (Italia, 1998), 27 Reality, M. Garrone (Italia, 2012), 102 La ricotta, P.P. Pasolini, episodio di RoGoPaG, 145 Rocco e i suoi fratelli, L. Visconti (Italia-Francia, 1960), 126 RoGoPaG, R. Rossellini, J.-L. Godard, P.P. Pasolini, U. Gregoretti (Italia, 1963), 145 Roma, F. Fellini (Italia-Francia, 1972), 121, 179, 184-186 Roma città aperta, R. Rossellini (Italia, 1945), 65, 67, 73, 105, 181 Roma città libera (La notte porta consiglio), M. Pagliero (Italia, 1946), 60
La rosa tatuata, D. Mann (Usa, 1955), 75 ¡La Rumba!, J.M. Chumilla-Carbajosa (Spagna, 2013), 102 Sandokan, S. Sollima, sceneggiato Tv (Italia-FranciaGermania Ovest-Regno Unito, 1976), 99 Lo sceicco bianco, F. Fellini (Italia, 1952), 35, 69, 79, 101, 121, 182, 183, 196, 198 Sciuscià, V. De Sica (Italia, 1946), 75 Senso, L. Visconti (Italia, 1954), 126, 197 Senza pietà, A. Lattuada (Italia, 1948), 68, 181 I sette samurai, A. Kurosawa (Giappone, 1954), 196 I soliti ignoti, M. Monicelli (Italia, 1958), 68 Sostiene Pereira, R. Faenza (Portogallo-Italia-Francia, 1994), 118 Storie sulla sabbia, R. Fellini (Italia, 1963), 83-85 La strada, F. Fellini (Italia, 1954), 18, 35, 36, 41, 67, 73, 80, 121, 127, 193-195, 197, 198, 200 Il tassinaro, A. Sordi (Italia, 1983), 73 Le tentazioni del dottor Antonio, F. Fellini, episodio di Boccaccio ’70, 49, 105, 121, 142, 163 To Rome with Love, W. Allen (Italia-Usa, 2012), 79, 80 Toby Dammit, F. Fellini, episodio di Tre passi nel delirio, 121, 167 Tonio Kröger, R. Thiele (Germania Ovest, 1964), 60 Totò, Peppino e… la dolce vita, S. Corbucci (Italia, 1961), 101 Totò e Carolina, M. Monicelli (Italia, 1955), 60 I tre aquilotti, M. Mattoli (Italia, 1942), 84 Tre passi nel delirio, F. Fellini, R. Vadim, L. Malle (FranciaItalia, 1968), 121 Treno popolare, R. Matarazzo (Italia, 1933), 125 Ulisse, M. Camerini (Italia, 1954), 193
Umberto D., V. De Sica (Italia, 1952), 43 Vacanze romane, W. Wyler (Usa, 1953), 47, 174 La vita è bella, R. Benigni (Italia, 1997), 77 I vitelloni, F. Fellini (Italia, 1952), 14, 17, 35, 41, 84, 121, 159, 171, 187, 189, 190 Viva Zapata!, E. Kazan (Usa, 1952), 193 La voce della luna, F. Fellini (Italia, 1990), 8, 18, 23, 78, 107, 109-111, 127, 144, 168, 174 Una voce umana, R. Rossellini, episodio di L’amore, 181 The Young Pope, P. Sorrentino, serie Tv (Italia-FranciaSpagna, 2016), 174
Indice dei nomi
Abruzzese, A., 144 Agnelli, G., 50 Aimée, A. (F. Sorya Dreyfus), 42, 99, 127, 131 Ajello, N., 101 Albanese, A., 80 Alessandrini, G., 181 Alessandroni, A., 124 Allen, W. (A.S. Königsberg), 79, 102 Almodóvar, P., 102 Alpert, H., 101 Altman, R., 117 Amaldi, E., 57 Amato, P., 39, 194 Amelio, G., 27, 153 Amendola, S., 161 Amidei, S., 65 Anceschi, L., 98, 126 Anderson, W., 102 Andò, R., 102 Andreotti, G., 43, 108 Angeli, F., 50 Angelucci, G., 101, 176 Anghelopoulos, T., 24, 118 Annese, A., 125
Anselmi, S., 152 Antonelli, L., 27 Antonioni, M., 17, 23-25, 33, 60, 173, 182 Aprà, A., 101 Araya, Z., 13 Arbasino, A., 58, 60, 91, 123 Arciuli, E., 125 Aristarco, G., 17, 99, 197 Arpa, A., 64, 101 Arriaga, G., 76 Aspesi, N., 101 Avati, P., 102 Baarova, L., 188 Bacalov, L., 75, 127 Bachmann, G., 100 Bachmann, I., 76 Bakunin, M., 78 Balestrini, N., 60 Banchieri, A., 187 Bandini, M., 140 Banfi, A., 125, 126 Baratta, P., 81 Barbato, A., 33 Barbera, A., 81 Barbiani, I., 83, 180 Bardot, B., 49, 140 Baricco, A., 153 Barillari, R., 142
Barnes, J., 76 Base, G., 27 Basehart, R., 194 Bassani, G., 56, 145 Battocletti, C., 90 Baudrillard, J., 175 Bausch, P., 165 Bavagnoli, C., 142 Bazlen, B., 89 Beatty, W. (H.W. Beaty), 140 Belli, G., 122, 184 Bellocchio, M., 24 Benedetti, A., 58 Benigni, R., 7, 77, 78, 109, 110, 160 Benjamin, W., 175 Benzi, L. detto Titta, 14, 180 Bergman, Ingmar, 101 Bergman, Ingrid, 25, 50 Berlanga, L.G., 60 Berlusconi, S., 9, 26, 40, 42, 108, 109 Bernhard, E., 85, 89, 90, 92, 159, 160 Berté, L., 17 Bertolucci, B., 20 Bertuccelli, J., 69 Betti, L. (L. Trombetti), 101, 160 Biagi, E., 100, 119 Bianchi, P., 104, 198 Bianciardi, L., 44, 61
Bignardi, I., 101 Bilbo, T.G., 98 Bini, A., 138 Bisulli, S., 84, 85 Blasetti, A., 60, 117 Blasi, S., 69 Bo, C., 24 Boarini, V., 91, 100 Bobbio, N., 22 Bolchi, S., 70 Bolognini, M., 24, 116, 138 Bondanella, P., 91, 101 Bonini, D., 162 Bonnard, M., 162, 181 Boratto, C., 93 Borboni, P., 188 Bordon, F., 118 Borges, J.L., 148 Bosetti, G., 118 Bovo, B., 79, 169 Brancati, V., 58, 194 Brancia A., 15, 78, 155 Brando, M., 193 Brass, G. detto Tinto, 99, 100 Brazzi, R., 117 Brecht, B., 23 Bresci, G., 78 Brindisi, R., 119
Bromell, H., 80 Bruckner, A., 126 Brunetta, G.P., 33, 41, 100, 113 Bruni, B., 142 Bufalino, G., 77 Buñuel, L., 197 Burchiellaro, G., 176 Burton, R., 140, 141 Burton, T., 102 Buscaglione, F., 50 Buzzati, D., 167 Cacciari, M., 148 Cafiero, C., 78 Calamai, C., 162 Caldiron, O., 101 Caldwell, E., 56, 91 Caligari, C., 27 Calvino, I., 24, 77, 78, 102 Calzia, E., 154 Camerini, M., 185, 193 Campari, R., 16, 108, 196 Campbell, J., 92 Campo, C., 90 Camus, A., 77, 152 Canova, G., 101 Cantoni, R., 125 Caporale, A., 26 Capossela, V., 200
Cappuccio, E., 102, 168 Capra, F., 101 Caprioli, V., 65 Caputo, G., 95 Carabella, F., 99, 115 Carati, L., 27 Caravaggio, Michelangelo Merisi detto il, 171 Cardinale, C., 13, 126, 131 Carlei, C., 27 Carofiglio, F., 86 Carofiglio, G., 86 Carpignano, J., 27 Carpitella, D., 98 Carrano, P., 101 Carrera, A., 101 Casetti, F., 101 Cassano, F., 152 Castaneda, C., 41, 150, 168 Castellani, R., 24, 69, 197 Cavalli, E., 101 Cavatorta, S., 76 Cavazzoni, E., 25, 107 Cecchi, E., 54, 121 Cecchi d’Amico, S., 97, 121, 123, 126 Cederna, A., 58 Celati, G., 17, 19, 25, 98 Celeghin, L., 200 Celentano, A., 48
Ceroli, M., 50 Chaplin, C.S., 101 Chiambretti, P., 117 Chopin, F., 123 Chumilla-Carbajosa, J.M., 102 Cialente, F., 70 Ciangottini, V., 44 Cicutto, R., 81 Cioni, V., 142 Cirillo, A., 125 Citati, P., 100 Ciuffa, V., 141 Cocteau, J., 181 Comencini, L., 68 Contini, G., 24 Cooper, G., 26 Copland, A., 123 Coppola, C., 14, 126 Coppola, F.F., 14 Corbucci, S., 101 Corona, F., 144 Corsi, T., 101 Cortese, V., 194 Corti, M., 54 Costa, A., 101 Costa, O., 115 Costantini, C., 101 Costanzo, S., 27, 77
Cosulich, C., 97, 98, 100 Cotillard, M., 79 Cotone, O., 180 Cotroneo, R., 102 Cristaldi, F., 13 Croce, B., 53, 58 Croce, G.C., 187 Crovi, R., 103 Cruz, P., 79, 80 Cuarón, A., 76 Cuny, A., 21 Damiani, Damiano, 24, 87 Damiani, Donatella, 166 d’Amico, F., 123, 194 Danese, S., 101 D’Annunzio, G., 122, 154 Dante Alighieri, 75, 77, 78 Day-Lewis, D., 78 Dean, J., 7 De Angelis, G., 124 De Angelis, M., 124 De Bellis, V., 180 Debenedetti, G., 185 De Bosio, G., 99 Debray, R., 151 De Carlo, A., 166, 168 De Feo, S., 58 De Filippo, E., 60, 69, 126, 191
De Filippo, P., 49, 105 De Grada, R., 125 De Laurentiis, D., 117, 174, 193, 194 Del Buono, O., 101 Deleuze, G., 22 Della Noce, L., 93 De Lollis, O., 16 Delon, A., 140 Del Poggio, C., 182 Del Toro, G., 76 De Martino, E., 98 De Mauro, famiglia, 115 Dench, J., 79 Deneuve, C. (C.F. Dorléac), 115 De Niro, R., 118 Deray, J., 60 Derrida, J., 41, 116 De Santi, P.M., 100, 184 De Seta, V., 24, 90 De Sica, V., 24, 43, 44, 75, 115, 117, 149, 185, 191 Detto, L., 99 D’Hambourg, D. (D. Slavinsky), 140 Di Castro, M.G., 108 Dickinson, E., 151 Dietrich, M., 25, 165 Di Folco, M., 16 Di Giacomo, F., 18 Dionisio, S., 108
Disney, W., 101 Di Venanzo, G., 134 Donaggio, P., 124 Donati, D., 176 Dorigo, F., 83 Dos Passos, J., 91 Douglas, K., 193 Douglas, N., 76 Dreyer, C.T., 101 Driver, A., 78 Duggan, C., 42 Dunaway, F., 117 Duranti, D., 162 Duvivier, J., 69 Dyer, R., 123 Dylan, B. (R.A. Zimmerman), 49 Eco, U., 9, 98 Einaudi, G., 22 Einaudi, L., 124 Ejzenštejn, S.M., 101 Ekberg, A., 9, 36, 40, 43, 47-51, 105, 138 Emmer, L., 60 Engels, F., 78 Ergas, M., 16, 89 Fabbri, G., 87 Fabbri, P., 10, 22, 100, 163 Fabrizi, A., 85, 181 Fabrizi, F., 188
Faenza, R., 118 Falchi, A., 108 Fallaci, O., 101 Fanfani, A., 143 Fantuzzi, V., 101 Farinelli, G., 101 Fava, C.G., 100 Al-Fayed, D., 143 Fellini, F. Fabbri, 66, 87 Fellini, M.M., 28, 66, 84, 87, 168, 180 Fellini, R., 83-87, 180, 187 Fellini, U., 83, 86, 180 Fenech, E., 16, 27 Fenoglio, B., 24 Fergie (S.A. Ferguson), 79 Ferida, L., 199 Fermi, E., 57 Ferragni, C., 144 Ferrante, E., 77 Ferrario, D., 27 Ferreri, M., 84, 102 Ferrero, A., 98 Ferretti, D., 164 Ferro, M., 16 Festa, G., 163 Festa, T., 50 Feyerabend, P., 41, 116 Fioroni, G., 50
Firpo, L., 22 Flaiano, E., 40, 41, 47, 53-61, 131, 137, 139, 143, 145, 148, 150, 180, 184 Flaiano, L., 56, 57 Flaubert, G., 139 Foà, A., 193 Foa, V., 22 Fofi, G., 100, 185 Foot, J., 67 Forcella, E., 61 Ford, J., 34, 101 Fracassi, C., 90 Frammartino, M., 27 Francesco d’Assisi, 32 Franchi, F. (F. Benenato), 31 Francisci, P., 194 Fratti, M., 78 Freud, S., 37, 89, 92 Friedlaender, D., 89 Frizzi, F., 124 Gabin, J., 162, 197 Gale, E., 133 Gallone, C., 115 Garbo, G. (G.L. Gustafsson), 165 García Lorca, F., 172 Gardner, A., 137 Garibaldi, G., 160 Garrone, M., 27, 102
Gaslini, G., 124 Gassman, V. (V. Gassmann), 173 Gatti, G.M., 193, 194 Geleng, G., 19 Geleng, R., 19, 65 George, S., 13 Geppetti, M., 142 Géricault, T., 94 Germi, P., 75, 101, 181 Gherardi, P., 83, 181 Ghirri, L., 17 Giammattei, E., 53 Giannelli, F., 125 Gide, A., 76 Gilbert, L., 93 Gili, J.A., 101 Ginsberg, A., 78 Ginzburg, L., 22, 193, 194 Ginzburg, N., 90 Giordana, M.T., 87 Giovanni Paolo II (K. Wojtyła), 63 Giraldi, F., 97 Gissing, G., 76, 139 Gitai, A., 24 Gloeden, W., 76 Gnassi, A., 27 Godard, J.-L., 145 Goebbels, J., 188
Goethe, J.W., 122, 141 Goldfarb, P., 32 Goldoni, C., 100 Gonzales, P., 184 Graciotti, S., 152 Gramsci, A., 143 Grandi, S., 100 Grazzini, G., 36, 92, 100, 104, 198 Greco, C., 189 Greenaway, P., 102 Gregoretti, U., 126, 145 Grey, N., 138 Gromo, M., 197 Guadagnino, L., 27 Gualino, R., 193, 194 Guaraldi, M., 29, 100 Guareschi, G., 27 Guattari, F., 22 Guccini, F., 25 Guerra, T., 14, 18, 22-25 Guida, G., 27 Gundle, S., 101 Hayworth, R. (M.C. Cansino), 140 Hemingway, E., 59 Hepburn, A. (A.K. Ruston), 47 Hepburn, K., 162 Heston, C. (J.C. Carter), 140 Hillman, J., 35, 37, 91
Hitchcock, A., 197 Hofmannsthal, H., 148 Hudson, D., 79, 81 Hudson, K., 140 Huxley, A., 149, 150 Ichino, A.M., 68 Iñárritu, A.G., 76 Incrocci, A., 181 Ingrassia, C. detto Ciccio, 25, 31 Interlenghi, F., 188 Isherwood, C., 56 Iusco, I., 125 Ivens, J., 76 Ivetic, E., 152 Jablockina, E., 23 Jacob, G., 199 Jacopetti, G., 141 Jakubisko, J., 69 Jarmusch, J.R., 78 Jones, F., 164 Jung, C.G., 22, 31, 37, 89-95 Kafka, F., 10, 167 Kazan, E. (E. Kazanjoglous), 193, 196 Kezich, L., 99 Kezich, T., 11, 66, 90, 97-106, 163, 189, 194 Kidman, N., 79 King, S., 31 Klein, W., 50
Kopit, A.L., 78 Koscina, S., 93 Kounellis, J., 50 Kramer, B., 81 Kraus, K., 148 Kremmerz, G., pseud. di C. Formisano, 122 Kubrick, S., 10, 95, 101, 165 Kundera, M., 100 Kurosawa, A., 10, 196 Kusturica, E., 102 Labiche, E.M., 124 La Capria, R., 97 Lama, L., 83 Lancaster, B., 126 Landolfi, T., 58 Lang, F., 186 Lang, J., 117 Lao Tse, 32 Lattuada, A., 60, 68, 69, 105, 181, 182 Laudadio, F., 100 Laurenti, M., 16 Leary, T., 41 Leogrande, A., 152 Leone, S., 124 Leopardi, G., 59, 111, 116 Lepore, P., 125 Levi, C., 68, 76, 179 Lewis, N., 76
Leydi, R., 98 Ligabue, L., 27, 28 Lionello, A., 100 Lisi, V. (V. Pieralisi), 49 Littín, M., 24 Lizzani, C., 97 Longanesi, L., 56 Longhi, P., 164 Longhi, R., 105 Longoni, A., 54, 59 Loren, S. (S. Villani Scicolone), 49, 60, 70, 73-75, 77, 79, 117 Losey, J., 101 Lucentini, F., 24 Lucherini, E., 138 Luna, B., 102 Lupo, B., 125 Luttazzi, L., 97 Lynch, D., 102 Macario, E., 181 Maccari, M., 58 Maccari, R., 85 Madonna (L.V. Ciccone), 108 Maggio, P., 15, 155 Magistà, A., 101 Magnani, A., 75, 181, 186 Magrelli, V., 103 Mainetti, G., 27, 102 Majano, A.G., 60
Majorana, E., 57 Malatesta, E., 78 Malick, T., 76 Manara, M., 165, 167, 168 Manfredi, N., 115, 188 Manganaro, J.P., 101 Manganelli, G., 53, 90 Mangano, S., 117, 193, 194 Mankiewicz, J.L., 140 Mann, D. (D. Chugerman), 75 Mann, T., 58, 60 Manni, E., 166 Mannino, F., 124 Mao Tse-tung, 33 Maradona, D.A., 74 Marchesi, M., 64, 181 Marchesi Cappai, C., 64 Margheriti, A., 24 Marianelli, D., 124 Marini, V., 47 Marotta, G., 195 Marrone, R., 125 Marshall, R., 78, 79 Martelli, O., 40 Martinelli, E., 140 Martone, M., 27 Marvulli, M., 125 Marzullo, B., 98
Masina, G., 7, 9, 63-71, 84, 85, 92, 108, 172, 174, 181-183, 194, 197, 200 Mastroianni, B., 115 Mastroianni, C., 115 Mastroianni, M., 10, 15, 23, 40, 45, 48, 51, 59, 60, 69, 70, 79, 99, 108, 113-119, 127, 131, 134, 137, 164, 166, 168, 173, 179 Mastroianni, O., 114 Mastroianni, R., 118 Mastroianni, U., 114 Mastroianni, V., 114 Mastronardi, A., 80 Matarazzo, R., 125 Mattei, E., 76 Matvejević, P., 152 Maur, M., 200 Mazursky, P., 102 Mellace, L., 142 Menotti, C., 123 Mereghetti, P., 101 Merlin, L., 69 Merlo, F., 124 Miccolis, S., 101 Michalkov, N.S., 25 Michelangelo Buonarroti, 171 Michelini, A., 157 Milo, S. (E.S. Greco), 15, 16, 89, 94, 127, 131, 134, 168 Mingozzi, G., 24, 102 Minuz, A., 101 Missiroli, M., 100
Mizoguchi, K., 197 Moliterni, P., 125 Mollica, V., 100, 161, 166 Mondadori, A., 126 Monetti, D., 101 Monicelli, M., 24, 60, 68, 189 Monroe, M. (N.J. Baker), 50, 141, 144, 145 Montaldo, G., 97 Monti, A., 22 Morandini, M., 165 Moravia, A. (A. Pincherle), 55, 56, 60, 102 Moretti, N., 27, 49, 102, 190 Morin, G., 101 Morleo, M.V., 125 Moro, A., 8, 129 Morreale, E., 101 Morricone, E., 124 Morrisey, P., 24 Moscati, I., 97, 100 Moura, W., 80 Mulas, U., 142 Muni, P., 162 Murnau, F.W., 186 Mursino, T.S., pseud. di V. Mussolini, 199 Musil, R., 148 Mussolini, B., 20, 83, 157, 193 Muti, R., 123 Nabokov, V., 111
Naccari, R., 84, 85 Nana, A., 138 Nascimbene, M., 124 Natalini, F., 101 Negro, A., 103 Neruda, P., 75 Nicolodi, D., 123 Nicosia, A., 100 Nietzsche, F., 147 Nisa, pseud. di E. Salerno, 154 Noël, M. (M.N. Guiffray), 15, 26, 155 Noiret, P., 75 Norcia, A., 149 Nori, P., 25 Noris, A. (A. Noris von Gerzfeld), 185 Notarianni, P., 173 Novak, K., 140 Nunziante, G., 26 Ojetti, P., 197 Olivetti, A., 90 Ollio (O. Hardy), 162 Olmi, E., 24, 90, 97, 99 O’Rawe, C., 115 Orazio Flacco, Quinto, 122 Orfei, L., 36 Orfei, N., 15, 154 Ortese, A.M., 24 Ortolani, R., 124
Orwell, G. (E.A. Blair), 58 Osiris, W. (A. Menzio), 50 Ottaviani, N., 109 Ozep, F., 162 Özpetek, F., 27, 102 Paci, E., 125 Pagani, S., 123 Pagliero, M., 60 Pampaloni, G., 53 Panelli, P., 119 Pannella, M., 200 Pannunzio, M., 57, 58, 185 Papaleo, R., 27 Paparazzo, C., 139 Parise, G., 84 Parr, N., 140 Pascali, P., 50 Pasolini, P.P., 9, 14, 21, 23, 34, 42, 44, 74, 84, 90, 110, 138, 145, 175, 200, 201 Pasqualini, A.F., 64 Pavese, C., 21, 22, 24, 28, 54, 91, 193 Payne, A., 102 Pazienza, A., 166 Peck, G., 47 Pelé (E.A. do Nascimento), 140 Pelosi, M., 142 Peressutti, G., 174 Pertica, D., 155
Pertini, S., 199 Pessoa, F., 118 Petrassi, G., 124 Petri, E., 60, 66 Petrignani, S., 66 Petronio Arbitro, 9, 184 Phillips, T., 31 Phoenix, J., 31 Piano, R., 80 Picasso, P., 148, 149 Piccioni, P., 27, 124 Pieri, F., 101 Pietra, I., 104 Pietrangeli, N., 60 Pigna, A., 167 Pinelli, T., 21, 40, 69, 107, 193 Pinna, F., 98, 142 Piovani, N., 77, 127 Pirandello, L., 64, 134, 167 Pirosh, R., 68 Pisacane, C., 68 Pisu, M., 94, 193 Piva, A., 27 Pizzetti, I., 123 Plà, R., 76 Placido, B., 100 Plenizio, G., 127 Poe, E.A., 55
Polanski, R., 101 Poletti, V., 108 Pomodoro, A., 66 Pontecorvo, B., 57 Ponti, C., 193, 194 Ponziani, A., 177 Pozzi, A., 125 Praturlon, P., 142 Presley, E., 48 Procacci, D., 23, 77 Profili, F., 173 Prucnal, A., 167 Quatriglio, C., 27 Quilici, F., 60 Quinn, A., 67, 193, 194 Radford, M., 75 Ramazzotti, E., 18 Ravel, M., 123 Reich, J., 115 Reiner, F., 123 Rémy, T., 36 Renard, J., 59 Renoir, J., 115 Renzi, R., 16, 17, 98 Rey, F., 108 Reygadas, C., 76 Riccardi, C., 142, 143 Riccardi, M., 142
Ricci, G., 101 Rinaldi, E., 122 Rinaldi, G., 122 Risi, D., 50, 60 Risset, J., 101 Rizzoli, A., 39, 90, 138 Roberti, B., 103 Roda, E., 119 Rol, G.A., 92 Romano, B., 99 Romano, C., 188 Ronconi, L., 93 Rondi, B., 40, 71, 167 Rondi, G.L., 97 Rondi, U., 71 Rosato, G., 53 Rosi, F., 24, 68, 97 Rosi, G., 153 Rossanda, R., 126 Rossellini, Renzo, 99 Rossellini, Roberto, 43, 50, 60, 65, 67, 68, 73, 85, 99, 101, 105, 145, 147, 181 Rossi, A., 98 Rossi, E., 58 Rossi, M., 189 Rosso, N., 200 Rota, R., 57 Rota Rinaldi, N., 8, 14, 33, 36, 40, 49, 77, 121-130, 132, 154, 182, 194, 200
Roth, J., 99, 148 Rothko, M., 20 Rotunno, G., 151, 153 Rovere, L., 182 Rubin, D., 80, 81 Rubini, S., 27, 95, 102, 166, 171, 177 Rüesch, D., 57 Ruffo, L., 188 Ruggeri, E., 17 Rushdie, S., 116 Russell, K., 102 Russo, G., 101 Rustichelli, C., 124 Sacchi, F., 197 Salgari, E., 199 Salvatores, G., 27, 75 Salvemini, G., 58 Salvemini, M., 26 Salvini, M., 144 Samonà, C., 86 Samugheo, C., 142 Sanguineti, E., 60 Sanguineti, T., 101 Sanna, M., 101 Santesso, W., 44, 137 Sardi, G., 64, 68 Savinio, A. (A. De Chirico), 8 Scabia, G., 98
Scalero. R., 123 Scalfari, E., 58, 101, 141 Scalfaro, O.L., 39, 40 Scardicchio, N., 125 Scarpelli, Filiberto, 180 Scarpelli, Furio, 180, 181 Schiele, E., 148 Schifano, M., 50 Schneider, R. (R.M. Albach-Retty), 140 Schnitzler, A., 95 Schönberg, A., 148 Schulz, C.M., 165 Scola, E., 86, 102, 116, 117, 171-173, 181 Scorsese, M., 40, 74 Scotellaro, R., 189 Scott, R., 163 Secchiaroli, T., 44, 137, 138, 142, 167 Segrè, E., 57 Sereni, V., 125 Serra, F., 165 Servadio, E., 92 Servillo, T., 74, 179 Sgarbi, E., 53 Shelley, M. Wollstonecraft, 24 Sherwood, R.E., 65 Sibaldi, S., 194 Siciliano, E., 53 Signorini, A., 117
Silone, I., 197 Simenon, G., 9, 40 Sinatra, F., 50 Socrate, 147 Sokurov, A., 25 Solà, J.G., 84 Soldati, M., 54, 129, 162 Soleri Brancaleoni, G., 29 Sollima, S., 27, 99 Sontag, S., 76 Sorci, E., 16, 137, 142 Sordi, A., 66, 73, 74, 79, 80, 103, 115, 117, 162, 169, 173, 187, 190, 191, 194 Sorrentino, P., 40, 74, 174, 179 Spadolini, G., 58 Spencer, D., 143 Spinelli, S., 142 Spinola, M., 138 Spoletini, fratelli, 161 Spoletini, A., 161 Squarzina, L., 100 Stajano, G., 140 Stamp, T., 167 Stanlio (Stan Laurel, pseud. di A.S. Jefferson), 162 Starace, A., 140 Stecchetti, L. pseud. di O. Guerrini, 24 Steel, A., 50, 138 Stegers, B., 166
Steinbeck, J., 91, 193 Steno (S. Vanzina), 60, 181 Stourdzé, S., 101 Stravinskij, I., 123 Stroheim, E. von, 101 Susca, A., 125 Sutherland, D., 8, 173 Svevo, I. (A.H. Schmitz), 100 Tabucchi, A., 118 Taddei, N., 101 Tagore, R., 123 Talamo, G., 198 Tamaro, S., 166 Tarkovskij, A., 23, 24 Tartaglia, B., 142 Tassone, A., 100, 167 Tatò, A.M., 118 Tavanti, R., 63 Taviani, P. e V., 24, 97 Taylor, E., 140, 141 Thiele, W., 60 Tognazzi, R., 79 Tognazzi, U., 173 Tolstoj, L., 23 Tondelli, P.V., 27 Topor, R., 165 Tornabuoni, L., 100 Tornatore, G., 13, 24, 27, 75, 102
Toscanini, A., 14, 123 Tota, A., 87 Troisi, M., 75 Trombadori, A., 33 Trovajoli, A., 97, 124 Truffaut, F., 102 Turchetti, G., 63 Tullio Altan, F. detto Altan, 191 Twombly, C., 50 Valente, A., 174 Valenti, J., 13 Valenti, O., 198, 199 Valentino, R., 117 Valli, A., 197 Valli, R., 63 Vendetti, N., 141 Verdi, G., 28, 126 Verdone, C., 87 Verdone, M., 100 Verga, G., 51 Vergari, M., 142 Verginelli, V., 121, 122 Verlaine, P., 7 Veronesi, S., 157 Vicari, D., 153 Vico, G., 20 Vidal, G., 186 Vidor, K., 39
Vigliano, E., 125 Vigorelli, G., 125, 126 Villaggio, P., 78, 108-110, 168 Virgilio Marone, Publio, 122 Virzì, P., 27 Visconti, L., 44, 101, 115, 118, 126, 173, 194, 197 Vitti, M., 17, 25 Vittorini, E., 21, 24, 54, 91, 194 Vlad, R., 124 Volli, U., 98 Volonté, G.M., 99 Volpi, G., 100 Warhol, A. (A. Warhola), 24, 144 Weill, K., 124 Welles, O., 145 Wellman, W.A., 68 Wenders, W., 24 Wertmüller, L., 97, 99, 190 Wilder, B., 101, 141 Williams, W.C., 78 Winspeare, E., 27 Wittgenstein, L., 147 Wolinski, G., 49 Woo, J., 160 Wood, N., 140 Wyler, W. (W. Weiller), 47, 65, 174 Yeston, M., 78 Zalone, C. (L.P. Medici), 26
Zampa, L., 56 Zanelli, D., 101 Zanin, B., 14, 154 Zannier, I., 142 Zanobini, A., 65 Zanzotto, A., 101 Zapponi, B., 33 Zarlino, G., 125 Zavattini, A., 142 Zavattini, C., 142, 181 Zavoli, S., 100 Zecca Laterza, A., 125
Crediti
FIGG.
1, 2, 5, 6: Foto di Carlo Riccardi. Fonte: Archivio Riccardi di Maurizio Riccardi; ricerca iconografica Marino Paoloni e Giovanni Currado (Agr). FIGG. FIG.
3, 8, 9, 10, 11: Alamy Stock Photo.
4: Cineteca di Bologna.
Figure
Roma, primi anni Sessanta. Due ragazzine alla fontana di Trevi, sognando la Dolce vita. 1.
2.
Roma, 1959. Anita Ekberg arriva sul set della Dolce vita.
Roma, 1960. Federico Fellini con Anita Ekberg ed Ennio Flaiano. 3.
Marcello Mastroianni nella scena finale de La dolce vita (1960). 4.
Roma, 1957. Giulietta Masina in aeroporto con il cognato Riccardo Fellini, fratello minore di Federico. 5.
Di ritorno da Los Angeles, marzo 1958. Con aria furbetta, Giulietta Masina mostra ai fotografi l’oscar vinto da Le notti di Cabiria. 6.
La locandina di Amarcord pittore Giuliano Geleng, ispirato Federico Fellini: «Il manifesto sprigionare la lietezza squillante meglio pasquale…». 7.
(1973) venne disegnata dal dalle suggestioni dello stesso dovrebbe a colpo d’occhio di una cartolina natalizia o
I vitelloni scrutano l’orizzonte in una scena del film (1953). Da sinistra: Alberto Sordi, Franco Interlenghi, Leopoldo Trieste, Riccardo Fellini. 8.
Marcello Mastroianni nel carosello finale di 8 ½, sulle celebri note di Nino Rota (1963). 9.
Amarcord. Una folla «galleggiante» saluta il passaggio del Rex dinanzi alle coste di Rimini. Nella realtà il più grande 10.
transatlantico italiano non solcò mai le acque dell’Adria- tico, se non in occasione del suo affondamento da parte dell’aviazione britannica, nei pressi di Trieste (1943).
11.
Federico Fellini, appunti e disegni per il suo libro dei sogni.