Alle origini della filosofia greca. Una revisione storica 9788842049159


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Alle origini della filosofia greca. Una revisione storica
 9788842049159

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ERIC A. HAVELOCK ALLE ORIGINI DELLA FILOSOFIA GRECA UNA REVISIONE STORICA

LATERZA

Concepito per fungere da introduzio¬ ne ad una più ampia opera sulla storia della filosofia antica, questo saggio di Havelock esamina i documenti e le te¬ stimonianze sui più antichi pensatori greci - da Talete a Pitagora, dagli ato¬ misti alla sofistica - per offrire un’al¬ ternativa «revisionista» all’interpre¬ tazione «ortodossa» del pensiero «pre¬ platonico». Secondo Havelock, infat¬ ti, i maestri di sapienza greci che han¬ no preceduto Platone non devono es¬ sere considerati solo come precursori di Platone o di Aristotele, ma soprat¬ tutto come gli autori che hanno se¬ gnato il passaggio dalla cultura orale, narrativa, concreta alla cultura scritta, astratta, filosofica.

In sovraccoperta: Atena e Brade. Anfora ate¬ niese del VI secolo a.C.

COLLEZIONE STORICA

Titolo dell’edizione originale The Preplatonic Thinkers of Greece. A Revisionisi History © 1996, Gius. Laterza & Figli Traduzione di Liana Lomiento

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un Ubro è il¬ lecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni del¬ la cultura.

Eric A, Havelock

ALLE ORIGINI DELLA FILOSOEIA GRECA UNA REVISIONE STORICA Introduzione, revisione e note a cura di Thomas Cole Premessa di Bruno Gentili

Editori Laterza

1996

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 1996 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari GL 20-4915-5 ISBN 88-420-4915-8

kalòs ho kìndynos

PREMESSA di Bruno Gentili

Questo ultimo saggio, sino ad oggi inedito, di Eric A. Havelock che, come apprendiamo da Tho¬ mas Cole (che fu suo allievo), doveva essere parte di un’opera molto più ampia sui presocratici o me¬ glio, per dirla con l’autore, preplatonici è, non di¬ versamente dalle altre sue opere, «piena di ossige¬ no»: aggressivo, a tratti persino «eretico», certa¬ mente di stimolo a una revisione del pensiero preplatonico secondo le linee della sua effettiva evoluzione storica. Di qui la protesta contro For¬ mai canonica denominazione «presocratici», im¬ postasi con La filosofia dei Greci di Eduard Zeller (1846-52), sebbene già Friedrich Nietzsche nei suoi corsi accademici a Basilea (1869-70; 1872; 1876) avesse avvertito l’esigenza di chiamarli «pre¬ platonici». E non si tratta di una mera precisazio¬ ne cronologica, bensì di una più esatta contestua¬ lizzazione di questa schiera di pensatori, che furo¬ no coevi e interlocutori del Socrate storico, e in taluni casi più giovani di lui, e che costituì l’am¬ biente originale nel quale egli fu attivo. 11 punto di vista che è al centro della tesi di Ha¬ velock è che, nelle trattazioni, manualistiche e

Premessa

X

non, relative a quel periodo storico, l’analisi del pensiero preplatonico abbia solitamente procedu¬ to attraverso lo specchio deformante (cfr. il titolo della Introduzione, p. 3) della esegesi platonica e aristotelica, con la conseguenza che gli ipsissima verta

di questi pensatori si siano, per così dire,

adulterati al contatto con il linguaggio più evoluto di Platone e di Aristotele. La struttura e il linguag¬ gio del loro pensiero operavano ancora nel solco della cultura orale e della tradizione poetica, sia epica, sia lirica, e l’esposizione delle loro dottrine non consisteva di estese trattazioni scritte, ma era divulgata oralmente, attraverso sentenze, apoftegmi, a volte anche versi, sì da serbare ancora una sorta di andamento formulare, prossimo alla formularità della poesia epica. È indubbio che sia Platone che Aristotele han¬ no contribuito a offuscare l’immagine autentica dei loro predecessori, il primo con la seduttiva for¬ ma del dialogo mimetico ovvero con il «teatro del¬ le idee», come argutamente lo definisce Havelock (p. 36), che mette in scena persone parlanti, tra ve¬ rità storica e finzione, l’altro con la possente siste¬ maticità del suo discorso e il quadro «storico» del¬ la sua ricostruzione. Con ragione dunque Havelock osserva che la cosiddetta «scuola milesia» non fu un «parto virgi¬ nale», nel senso che essa non nacque dal nulla: at¬ tingendo al linguaggio dell’epica e della lirica

Premessa

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cercò di dare un assetto razionalistico, e conforme alla struttura della società, all’ambiente e ai feno¬ meni naturali. Valga per tutti l’uso di dike nel si¬ stema cosmologico di Anassimandro (D-K 12 B 1): qui la parola «giustizia» è assunta a significare la legge comune deWàpeiron, 1’«illimitato», che im¬ pone a ciascuno degli elementi in esso compresi i limiti del proprio dominio sugli altri, ovvero l’abu¬ so del proprio potere. Una nozione di dike come «reciprocità ed equilibrio» che costituì nel pensie¬ ro greco arcaico l’elemento comune alle varie for¬ mulazioni di «giustizia», pur nella diversità delle sue implicazioni e nelle specificità dei diversi cam¬ pi semantici, socio-politico, giuridico, medico, amo¬ roso ecc.^ Sempre sul piano del linguaggio, è acu¬ to il riferimento (p. 27) a Senofane (di circa ottant’anni posteriore ad Anassimandro), laddove il poeta afferma (fr. 7, 1 sg. Gent.-Pr.) di «trascinare» già da molti anni qua e là per l’Ellade la propria phrontìs, cioè il proprio «pensiero» (e non «preoc¬ cupazione», come alcuni hanno inteso): è un’e¬ spressione che illumina un dato oggettivo, il nar¬ rare, cioè, non più le imprese degli uomini, ma una propria dottrina. Un tentativo eloquente di co¬ me i preplatonici si adoperassero a varcare i limiti del tradizionale linguaggio poetico, attraverso una metafora che materializza ancora un’idea astratta, e quasi personifica il pensiero. Si può allora con¬ dividere il dubbio di Havelock, se davvero Anassi-

Premessa

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mandro abbia potuto concepire 1’«indefinito» nel¬ la forma così astratta ( tó àpeiron) che gli attribuisce la tradizione aristotelica. Sarà invece da pensare, piuttosto, all’uso concreto dell’aggettivo àpeiros co¬ me attributo di un dato naturale e percepibile, quale terra, cosmo, o simili. In realtà l’attività speculativa dei primi pensato¬ ri ionici, dai quali si è soliti far nascere la «filosofia», non fu in senso stretto «filosofica» nell’accezione platonica e aristotelica. Il locus classicus al quale spesso si fa riferimento è quello della Metafisica (1, 982 b) di Aristotele, dove il filosofo dichiara che la sapienza, da lui identificata come la prima forma del filosofare, sarebbe una conseguenza del benes¬ sere economico, unitamente a un particolare stato psicologico della natura umana, che egli identifica come «meraviglia»: due componenti che indur¬ rebbero persone di intelligenza superiore a dedi¬ carsi alla più importante e più alta delle attività umane, la filosofia. Di qui la conclusione, cui gli studiosi moderni in genere pervengono, che la fi¬ losofia sia nata nel VI secolo a.C., a Mileto, con Talete, Anassimandro e Anassimene, conformemen¬ te al dettato aristotelico. Ma le ragioni addotte da Havelock appaiono molto più plausibili; l’attività intellettuale a Mileto in quel periodo si esplicò in rapporto agli aspetti ambientali, che furono l’a¬ stronomia, le condizioni atmosferiche e la superfi¬ cie della terra con i suoi abitanti, aspetti tutti con-

Pretnessa

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nessi con le necessità pratiche della navigazione, scaturita dal commercio marittimo milesio. Una conferma di questa tesi è nell’uso stesso dei termini philòsophos e philosophia, che nella loro accezione tecnica compaiono per la prima volta in Platone e in Aristotele. Il termine che connotava in età arcaica e tardo-arcaica l’attività intellettuale in senso lato, cioè persone esperte di un’arte, che fos¬ sero poeti, musici, ministri del culto, legislatori o artigiani, era sophistès, e tali erano anche i cosiddet¬ ti «filosofi preplatonici»^. Qui, ancora una volta, l’opera di Platone e di Aristotele ha portato a un ve¬ ro e proprio rovesciamento di prospettiva storica. Particolare attenzione meritano le pagine che l’autore dedica agli atomisti e al loro significato nella storia del pensiero scientifico e antropologi¬ co. Egli sottolinea l’originalità della ricerca demo¬ critea, che sembra davvero anticipare, con il solo sostegno della osservazione, la conclusione mo¬ derna che nei fenomeni fisici interagiscono, quali componenti invisibili, materia ed energia, su un preciso fondamento matematico. E’ un peccato che Havelock non abbia avuto la possibilità di esporre in forma più completa il risultato delle sue ricerche su Democrito {infra, cap. IX, n. 3). Avreb¬ be potuto anche dare un suo significativo contri¬ buto alla dottrina antropologica di Democrito, il primo grande antropologo della cultura europea. Colpisce la modernità della definizione - tuttora

Premessa

xrv

valida - che egli dà di questa disciplina quando af¬ ferma che sono affini natura (physis) e cultura (didachè), perché la cultura «dà un nuovo ritmo», ri¬ modella l’uomo, e nel rimodellarlo crea una nuo¬ va natura (D-K 68 B 33). Sono questi soltanto alcuni tra i molti aspetti ori¬ ginali del saggio, di cui una sintesi esauriente è of¬ ferta da Thomas Cole nella Prefazione. Resta l’au¬ gurio che questo studio sui preplatonici, rimasto incompiuto - al pari del volume Preface to Platee', di¬ venuto ormai classico in Italia grazie alla traduzione di Mario Carpitella pubblicata dalla Casa Editrice Laterza -, abbia la stessa favorevole accoglienza presso il pubblico dei lettori e degli studiosi, no¬ nostante l’arditezza di alcuni suoi assunti. Si po¬ trebbe concludere con l’espressione usata dallo stesso Havelock (p. 90), kalòs ho kindynos: vale la pe¬ na di affrontare il rischio.

ABBREVIAZIONI

Bernabé

Poétarum Epicorum Graecorum Testimonia et Fragmenta. Pars I, a cura di A. Ber¬

nabé, Leipzig 1987 Calarne

Alcman, Introductìon, texte critìque, traduction et commentaire par C. Cala¬ rne, Roma 1984

D(iels)-K(ranz)

H. Diels-W. Krsinz, DieFragmente der Vorsokratiker, Zùrich-Berlin 1964’'

Gent(ili)-Pr(ato)

Poétarum elegiacorum testimonia et frag¬ menta. Parsi, a cura di B. Gentili-C. Pra¬

to, Leipzig 1988^ K(assel)-A(ustin)

Poètae Comici Graeci IV, V, VII, a cura di R. Kassel-C. Austin, Berolini et Novi Eboraci 1983, 1986, 1989

KR

G.S. Kirk-J.E. Raven, The Presocratic Philosophers, Cambridge 1957

KRS

G.S. KirkJ.E. Raven-M. Schofield, The Presocratic Philosophers, Gambridge 1983^

Nauck

A. Nauck, Tragicorum Graecorum Frag¬ menta, Hildesheim 1964^, ristampa con

un supplemento a cura di B. Snell

XVI

Page-Davies

Abbreviazioni

Poétarum Melicorum Graecorum Fragmenta I, post D.L. Page ed. M. Davies, Oxford 1991

TrGF

Tragicorum GraecorumFragmenta II. Fragmenta adespota. Testimonia volumini 1. Ad¬ denda. Indices ad volumina I et II, a cura di R. Kannicht-B. Snell, Gòttingen 1981

PREFAZIONE di Thomas Cole

Il saggio tradotto nelle pagine che seguono è Tultimo scritto di Eric Havelock: l’unica parte con¬ dotta a termine di un progetto molto più grande, nel quale l’insigne classicista anglo-americano, con la collaborazione di tre allievi, intendeva offrire ai lettori anglofoni una nuova traduzione, corredata di saggi introduttivi e di commenti, degli ipsissima verta dei cosiddetti «presocratici» e dei «sofisti» del

VI e V secolo a.C. Con la traduzione si intendeva ri¬ vendicare ai testi di quei pensatori parte di ciò che l’autore in altro contesto^ definì «il dinamismo, la fluidità e la concretezza» del discorso greco quale si articolava nel V secolo a.C. Si intendeva anche conservare intatta l’immagine talvolta primitiva e grossolana che i loro testi possono presentare frutto del tentativo di introdurre in quel discorso per la prima volta un linguaggio astratto, fatto di idee e concetti. Con i commenti e i saggi introdut¬ tivi si sperava di offrire un’alternativa «revisionista» all’interpretazione «ortodossa» del pensiero «pre¬ platonico» - quello, cioè, dei suddetti pensatori, ma anche del loro coetaneo Socrate - quale si può

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Prefazione

trovare nei più autorevoli manuali apparsi in lin¬ gua inglese negli ultimi decenni: The Presocratic Philosophers, di G.S. ICirk, J. E. Raven e M. Schofìeld (KRS), e i primi tre volumi dell’opera di W.KC. Guthrie, A History of Greek Philosophy (1962-69). Havelock stesso si era assunto il compito di scri¬ vere un’introduzione generale, nonché i capitoli sui cosiddetti «Milesii» (Talete, Anassimandro e Anassimene), su Anassagora e su Democrito «fisi¬ co»; io mi ero fatto carico dei capitoli sui «sofisti» e su Democrito «etico»; altri due allievi - Jackson Hershbell (ora professore di Lingue classiche al¬ l’Università di Minnesota) e Kevin Robb (profes¬ sore di Filosofia all’Università di Southern Califor¬ nia) - dei restanti argomenti: Empedocle e gli Eleati, Eraclito, Diogene di Apollonia e Archelao. I commenti erano stati concepiti come un’impresa collettiva e dialettica: annotazioni a ciascun capi¬ tolo a opera del diretto responsabile, con inter¬ venti degli altri tre collaboratori, e repliche del¬ l’autore stesso. Il «revisionismo» era una formula condivisa da tutti noi, ma non c’era sempre con¬ senso sul modo e la direzione in cui condurre il la¬ voro di revisione. I piani per il libro, definiti già da anni con i rap¬ presentanti americani della Oxford University Press, furono ultimati nel gennaio del 1988, nel corso di una riunione dei quattro collaboratori te¬ nuta nella casa degli Havelock, a Poughkeepsie,

Prefazione

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New York. Fu questa la prima volta in cui vidi il te¬ sto qui tradotto (la prima parte dell’introduzione generale, che fu distribuita agli altri collaboratori per critica e commento) e anche, purtroppo, l’ultima volta che vidi l’ciutore. Tre mesi più tardi ri¬ cevetti, in Italia, la notizia della sua scomparsa, po¬ che settimane prima del suo ottantacinquesimo compleanno^. Di quel progetto di lavoro, interrotto così, im¬ provvisamente, restavano 140 pagine di introdu¬ zione generale e un contratto con la Oxford Uni¬ versity Press. In un primo tempo s’era pensato di condurre a termine il disegno originale, ridistri¬ buendo i capitoli assegnati a Havelock tra gli altri collaboratori. Poiché altri impegni avevano reso impossibile a Robb e a Hershbell questo program¬ ma, abbandonammo il progetto e, di conseguenza, anche il contratto originale. Ne risultò che toccas¬ se infine a me, insieme alla professoressa Christine Havelock, vedova ed esecutrice letteraria dell’au¬ tore, di decidere come pubblicare il frammento, e se non si dovesse affatto pubblicarlo. Mancava l’ul¬ tima mano dell’autore e, benché si trattasse di una presentazione più o meno completa di quelle che egli riteneva le deficienze principali nella conce¬ zione del pensiero preplatonico, quale si profila nelle opere di Platone stesso e dei suoi successori fino a oggi, l’argomentazione era in gran parte confutatoria: una preparazione ovvero, come lui

Prefazione

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stesso soleva qualificarla, una «pulizia del terreno» ( clearing thè ground), preliminare al lavoro positivo e costruttivo che doveva seguire nella seconda par¬ te dell’introduzione. Lì sarebbero stati presentati i lineamenti essenziali di quello che per lui era il contributo principale dei preplatonici, un passag¬ gio, cioè, lento e difficile, da un tipo di lessico e di sintassi narrativo, orale e concreto, qual era quello tramandato dai poeti, ad un altro, analitico, scritto e astratto. Questo lessico, il cui sviluppo si può se¬ guire attraverso una lettura attenta dei loro fram¬ menti, era destinato a costituire l’eredità di tutti quei pensatori che, da Platone in poi, si chiamaro¬ no filosofi o scienziati. D’altra parte, come ebbe a dire un consulente americano della Oxford University Press a propo¬ sito del progetto originale, la cosa più importante era il fatto che «tutto quello che Havelock ha scrit¬ to merita d’esser letto», e che questa introduzione «a metà» colma un’importante lacuna nell’opera di Havelock. Nell’ultimo dei libri pubblicati in vi¬ ta, egli dice dei preplatonici: «questi filosofi erano stati il mio primo amore, e lo sono tuttora»^, e ag¬ giunge: «il punto di partenza di tutto quanto ho fi¬ nora pubblicato circa il problema dell’oralità in Grecia e fuori della Grecia» fu la lettura, nel lonta¬ no 1925, dei loro frammenti in «un manuale [...] in cui una scelta di citazioni dagli originali si me¬ scolava con il linguaggio ermeneutico applicato

Prefazione

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dairantichità dopo la loro scomparsa». Da tale let¬ tura era nato il desiderio di spiegare il «contrasto tra i due linguaggi, nel lessico e nelle espressioni». La cosiddetta «ipotesi orale» non fu però concepi¬ ta da lui come spiegazione di quel contrasto se non parecchi anni più tardi: si presentò per la prima volta in A Preface to Plato'^, che risale soltanto al 1963. Ciò nonostante, mancava finora nelle opere che aveva pubblicato un panorama complessivo di questo corpo di testi prediletti, se non addirittura fonti prime di ispirazione. Ciò che possedevamo erano soprattutto studi su determinati autori (Se¬ nofane®, Parmenide®, la cosiddetta «scuola milesia»^), o su aspetti particolari del linguaggio proto¬ filosofico dei preplatonici, e della sua relazione con il linguaggio poetico®. Il panorama che si offre in questo saggio, seppure «indiretto», poiché si tratta di una serie di revisioni, sostituzioni e corre¬ zioni a osservazioni altrui (platoniche, aristoteli¬ che o moderne), può darci un’idea di quello che sarebbe stato il punto di arrivo di un insieme di in¬ tuizioni, scoperte e posizioni sui preplatonici che, sempre in evoluzione e rinnovamento, non si era mai potuto strutturare in una formulazione con¬ clusiva durante la vita dell’autore. Il suo progetto originale, come si può desumere dall’introduzione a Preface toPlato^, era stato una serie di quattro Prefaces, delle quali quel volume era soltanto il primo.

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Prefazione

Il volume consacrato a Esiodo e ai poeti, e pubbli¬ cato da ultimo con il titolo Dike. La nascita della co¬ scienza (1983), era senz’altro il secondo della serie. L’ultimo, dedicato a Socrate, non è mai apparso; ma, forse per la consapevolezza che il pensiero «preplatonico» costituiva un’unità che non poteva essere spezzata, fu concepito come parte del pro¬ getto la cui introduzione si presenta qui, accanto a quello sui «presocratici» e i «sofisti». L’assurdità cronologica di questo frazionamen¬ to, ovvia, ma finora prevalentemente trascurata dagli studiosi, costituisce il punto di partenza (cap. I) di tutta la discussione. Nel sottolineare la con¬ temporaneità tra Socrate e la maggioranza dei «presocratici», e il carattere anacronistico (pro¬ prio del rV anziché del V secolo a.C.) di quasi tut¬ to ciò che il ritratto platonico di Socrate potrebbe suggerire, l’esistenza, cioè, di una diversità qualita¬ tiva dei suoi interessi e attività rispetto a quelli dei coetanei («sofisti» e «presocratici»), si gettano le fondamenta per la concezione di un «preplatoni¬ smo» unitario che va a sostituire, nei capitoli se¬ guenti, la consueta distinzione tra presocratici, so¬ fisti e Socrate, descritta nelle storie «ortodosse» del periodo. Le dimensioni testuali molto ristrette di queste fondamenta e quelle, per contrasto, immense dei testi sui quali si basa la nostra conoscenza del pla¬ tonismo e della critica platonica ai predecessori in-

Prefazione

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troducono a una discussione (cap. II) delle ragio¬ ni principali per cui l’ortodossia dossografica negli studi «preplatonici» si è potuta imporre con tanto successo attraverso due millenni. Non si tratta sol¬ tanto dello straordinario vantaggio quantitativo conferitole dalla grandezza e dalla unicità del cor¬ pus platonico, ma anche (cap. Ili 1) del talento drammaturgico ivi dimostrato da Platone; della re¬ putazione (cap. Ili 2) di fonti imparziali e autore¬ voli goduta dai suoi successori, Aristotele e Teofrasto, i primi storici del pensiero greco; e infine (cap. Ili 3) dei successi della filologia moderna nei suoi tentativi di liberare i testi arcaici da interpretazio¬ ni e riformulazioni più tarde, tentativi che, essen¬ do a un tempo importantissimi (si pensi soprattut¬ to ai nomi di Diels, Cornford, Cherniss, Kirk e Me Diarmid) ma anche parziali, hanno creato l’im¬ pressione che la documentazione di questo perio¬ do sia meno problematica e complicata di quanto non sia in realtà. I preplatonici come personaggi in un dialogo platonico, i preplatonici come promul¬ gatoli di approssimazioni successive a una verità fi¬ losofica che si è pienamente rivelata solo con l’av¬ vento della scuola di Aristotele, i preplatonici co¬ me «banco di prova» della prodezza ermeneutica della filologia moderna: tali sono i protagonisti delle tre versioni della storia analizzate in questi ca¬ pitoli. Esse sono state scritte non procedendo in avanti, a partire da chi ha creato la storia, ma al-

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Prefazione

l’indietro, dal punto di vista «egocentrico» di chi vi cerca precedenti, spiegazioni, giustificazioni in rapporto al ruolo, nella storia, che crede d’esser destinato ad avere, o di avere avuto. Con i capitoli FV e V si passa dal generale al det¬ taglio: si critica la nozione tradizionale di una sor¬ ta di «parto virginale» della filosofia nella città di Mileto quale risultato di uno sforzo, da parte di Ari¬ stotele, di attribuire ai più antichi preplatonici la creazione di una scuola che servisse da modello per queir ambiente di ozio collettivo e contempla¬ tivo che egli stesso riteneva necessario alla ricerca filosofica, e si suggeriscono ragioni per considera¬ re le attività intellettuali dei Milesii come «uno dei primi frutti del proto-alfabetismo» greco. Un ulte¬ riore risultato della ricerca dei precedenti delle dottrine e degli asserti filosofici più tardi è la tra¬ dizionale interpretazione «metafisica» (non ante¬ riore a Teofrasto) del pensiero di tutta la «scuola», giacché nulla assicura che il famoso «illimitato» {àpeiron) dell’unico frammento dei Milesii traman¬ datoci (D-K12 B 1) sia da interpretare come un no¬ me astratto: esso può avere funzione di aggettivo, mentre l’espressione «daH’illimitato» {ex apèirou) potrebbe avere un significato esclusivamente tem¬ porale: «da tempo immemorabile». Del pari dedicato a un momento particolare nella storia dei preplatonici è il capitolo VI, dove si offre un’analisi dettagliata dei numerosi punti di

Prefazione

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contatto tra Socrate e i «sofisti», che rafforza l’argomento cronologico (cap. I) della loro contem¬ poraneità. I molteplici contatti rendono sospetti gli sforzi di Platone e, sulle sue orme, di quasi tut¬ ta la tradizione dossografica antica e moderna, per stabilire un contrasto netto tra due momenti nella cultura intellettuale del tardo V secolo a.C. Il ri¬ tratto di un Socrate sempre oppositore dei «sofi¬ sti», di cui Platone si serve a questo scopo, è un ri¬ tratto del quale non esiste traccia nei documenti dell’epoca. Si colmano così certe lacune - non tutte, ma al¬ cune tra le più importanti - nel pensiero di Havelock quale ci è noto dai suoi scritti già pubblicati. Se ne avesse avuto il tempo, l’autore avrebbe senz’al¬ tro scritto non soltanto di questi argomenti, ma an¬ che di altri - «Pindaro [... ] i più antichi poeti lirici [...] Euripide [...] gli storici»^®. Ma a prescindere da queste lacune, ve ne sono altre volute, se non addirittura cercate dall’autore: quelle che avreb¬ bero interessato quasi tutto ciò che, della storia dei preplatonici, viene trasmesso nella tradizione più tarda come legato alla «religione» dei Greci, o alle correnti di pensiero orfiche, pitagoriche o di altro tipo, che sono o si ritengono ispirate o influenzate da un sentire «religioso». La protesta vigorosa del¬ l’autore contro l’idea che sia esistito in Grecia (pri¬ ma del periodo ellenistico, cioè prima del sincreti¬ smo tra culti e credenze greci e orientali) un feno-

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Prefazione

meno che possa correttamente designarsi con la parola moderna «religione» è esposta nel capitolo VII. Un’ulteriore protesta, contro la sopravvaluta¬ zione dell’importanza del pitagorismo (l’unica corrente nel pensiero preplatonico che mostra qualche punto di contatto con ciò che ora si chia¬ ma «religione»), si legge invece nel capitolo Vili. Benché questi punti di vista non siano nuovi (difat¬ ti non sono troppo diversi da quello del Wilamowdtz per quanto riguarda la religione^\ o da quelli del Linforth^^ e dello Shorey^^ per quanto riguarda movimenti come l’orfismo e il pitagorismo), Havelock è senz’altro colui che ha finora messo più chiaramente in evidenza l’eccessiva importanza at¬ tribuita dai grecisti del nostro secolo sia alla reli¬ gione sia alla nozione di «carattere» o di «tenden¬ za» «religiosa». Che la ragione di questa sopravvalutazione sia da cercare, come egli ritiene, nel carattere spicca¬ tamente conservatore del mondo dei classicisti (al¬ meno nei suoi quartieri anglosassoni) e nell’im¬ portanza che tuttora assume, in questo mondo, quella «coscienza religiosa che è rimasta tipica¬ mente europea fino alla prima guerra mondiale» (cap. VII), può parere ad alcuni poco probabile. Si potrebbero suggerire, come spiegazioni alternati¬ ve, l’importanza della corrente antropologica ne¬ gli studi classici di questo secolo, o il maggiore in¬ teresse per il mito, che si è manifestato con lo strut-

Prefazione

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turalismo, o anche la maggiore possibilità, legata alla scoperta di nuovi testi, di studiare i riscontri che certi aspetti del pensiero greco trovano nelle speculazioni (per lo più conservate in contesti di carattere religioso) dei popoli del Medio Oriente. Qualunque sia la causa, il fatto è innegabile, come anche è innegabile la sottovalutazione dell’atomismo, strettamente legata, secondo Havelock, alla sopravvalutazione della tradizione religiosa (cap. IX). E la situazione non è cambiata in alcun modo nel periodo della composizione di questi tre capi¬ toli, né nel decennio successivo. Per dimostrarlo basta fare riferimento ai Poems of Orpheus di M. L. West (Oxford 1982) o alle 200 pagine consacrate da H.A. Schibli alle «aberrazioni fantastiche» {in¬ fra, p. 129) attribuite a Ferecide dalla tradizione tarda (Pherekydes ofSyros, Oxford 1990). Su Demo¬ crito, invece, non è apparsa alcuna opera di rilievo dopo il Demokrit. Teksty, peravod, issledovanija (Leningrad 1970) di S. Furia, un evidente prodotto degli studi classici condotti secondo i criteri di una tradizione ben diversa da quella anglosassone. Istruttivo è anche il contrasto, nel più recente stu¬ dio complessivo sui preplatonici pubblicato in in¬ glese, tra l’ostinata volontà di estrarre dai fram¬ menti attribuiti al pitagorico Filolao qualche pre¬ cedente della dottrina aristotelica della causa formale, e il rifiuto, nella stessa opera, di allargare le nostre prospettive su Democrito attraverso una

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Prefazione

considerazione della possibilità che Tatomismo si trovasse in qualche modo alla base delle sue spe¬ culazioni psicologiche e politiche Se il capitolo sull’«illusione» di una coscienza religiosa greca può apparire giustificato più nelle sue constatazioni che nelle motivazioni che addu¬ ce, il capitolo che segue, sul «fantasma» pitagorico, non si espone a tale critica. Qui si dimostra, in po¬ che pagine, la fragilità o addirittura la nullità del fondamento su cui si è costruito quasi tutto ciò che crediamo di sapere su questa corrente «filosofica» in seno al pensiero preplatonico. E’ facile capire l’evidente desiderio dell’autore che 1’«illusione» e il «fantasma» spariscano entrambi dalla storiogra¬ fia dedicata a quel periodo, come pure, per la mag¬ gior parte, la «scuola milesia» e i vari «precursori» mitologici della cosmologia ionica. Il profilo del preplatonismo che ne sarebbe emerso sarebbe sta¬ to quello del sorgere del razionalismo greco, a par¬ tire dalla critica a Omero e a Esiodo, quale può leg¬ gersi chiaramente per la prima volta in Senofane, continuando attraverso Eraclito e Parmenide^^, per culminare con la generazione di Democrito, Tuci¬ dide, i grandi «sofisti» e, forse più importante di tutti, Socrate che, per la sua ossessione sul signifi¬ cato esatto delle parole e sulla coerenza sistemati¬ ca del vocabolario etico, politico e logico che uti¬ lizzavano i suoi coetanei^®, si rivela non tanto il pri¬ mo dei filosofi, quanto piuttosto l’ultimo, e forse il

Prefazione

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più grande, dei sophistài - quei pensatori che da due secoli lavoravano per cambiare, attraverso una serie di trasformazioni linguistiche, i modi di per¬ cepire il mondo e la natura deH’uomo^^, Naturalmente qui si tratta di un abbozzo appe¬ na tracciato in talune sue parti, ma sufficiente¬ mente chiaro nei suoi lineamenti essenziali per co¬ stituire un’introduzione (la migliore che abbia¬ mo) a un aspetto del pensiero di Havelock che è importante, ma anche difficile da rintracciare nel¬ le sue opere già pubblicate, impegnate come sono a sottolineare il contrasto tra il mondo orale della poesia greca e il mondo alfabetizzato della prosa platonica e post-platonica, piuttosto che a rico¬ struire il processo per cui, attraverso quattro seco¬ li, l’uno arrivò a rimpiazzare l’altro^®. Queste, insomma, le considerazioni che ci han¬ no indotto ad accettare l’offerta generosa dell’Edi¬ tore Laterza di pubblicare questo frammento, nel¬ la lingua e nel paese di quei lettori che, a partire dalla pubblicazione di Cultura orale e civiltà della scrit¬ tura (1973), hanno continuato a leggere l’opera havelockiana con il maggior interesse, a farla oggetto della critica più acuta e costruttiva, e a integrare le sue ipotesi con il maggior successo attraverso le proprie ricerche (soprattutto negli importanti la¬ vori di Bruno Gentili e dei suoi allievi). L’intenzione dell’autore era stata di presentare nell’edizione inglese un testo senza note. «Nessu-

XXXII

Prefazione

no le legge», era la sua giustificazione: una convin¬ zione nutrita da mezzo secolo di esperienza di scrittore. Si trattava allora di un saggio che doveva far parte di un’opera più grande, in cui i diversi te¬ mi, appena toccati nell’introduzione, erano desti¬ nati a una presentazione più articolata; alcuni pas¬ si, citati senza l’esatta indicazione di provenienza, erano destinati a una traduzione commentata; al¬ cune affermazioni, brevi e perentorie, a una docu¬ mentazione più ampia. Ora, invece, giacché man¬ cano questi supplementi, ho ritenuto necessario introdurre citazioni esatte (nel testo stesso ovun¬ que possibile), informazioni bibliografiche qualo¬ ra mancassero nel manoscritto dell’autore, e - for¬ se la cosa più importante - riferimenti alle sue ope¬ re già pubblicate (o, qualche volta, a pubblicazioni dei suoi allievi) nelle quali gli argomenti destinati a una presentazione più completa nei capitoli che dovevano seguire l’introduzione ricevono un trat¬ tamento non troppo diverso, mi è sembrato, da quello che avrebbero ricevuto dall’autore nei suoi contributi al volume progettato. Che nel frattem¬ po egli avesse cambiato idea su certi punti è una possibilità che non si può escludere; ad ogni modo le note costituiscono, per quanto riguarda tutti gli argomenti progettati per il volume, una specie di indice del pensiero havelockiano, come si può de¬ sumere dalle sue opere già pubblicate. Delle risposte, correzioni e obiezioni dei tre

Prefazione

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collaboratori, destinate esse pure, in un primo tempo, a far parte del volume, non compare qui al¬ cuna traccia, benché siano parecchi i punti, spe¬ cialmente nella discussione relativa ai «sofisti», in cui non condivido l’opinione dell’autore^®, e lo stesso può senz’altro valere per gli altri due colla¬ boratori all’impresa d’origine, riguardo ad argo¬ menti trattati in altri capitoli. Il dialogo che si pro¬ gettava per l’edizione inglese è ancora da iniziare; i punti di partenza che offre il testo erano molti nelle previsioni di Havelock, e ci auguriamo che adesso saranno più di quattro gli studiosi che vor¬ ranno parteciparvi.

ALLE ORIGINI DELLA FILOSOFIA GRECA

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Introduzione

«ATTRAVERSO UNO SPECCHIO, IN UN’IMMAGINE OSCURA»

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13, 12

Per chi abbia interessi filosofici, un tratto tipi¬ co del panorama culturale sono da sempre i dialo¬ ghi di Platone. Persino chi non li ha mai letti mo¬ stra di avere familiarità con essi. Nella lunga storia della scrittura filosofica daH’antichità a oggi essi costituiscono una «prima». Parimenti familiare è il nome di «Socrate»: esso identifica un personag¬ gio che svolge un ruolo-guida nella maggior parte di questi dialoghi, un personaggio che, molto più anziano di Platone, si immagina sia in essi ricorda¬ to dopo la morte, affrontata da martire prima che fossero scritti. Platone morì intorno al 347 a.C. A quel tem¬ po il corpus di scritti speculativi che lasciava die¬ tro di sé era unico per dimensioni e complessità. C’erano state in precedenza speculazioni che ri¬ salivano indietro di due secoli e mezzo la storia greca. E tuttavia, nella loro forma scritta, risulta¬ vano al confronto esigui tentativi, goffi, incerti. Non sarebbero state mai in grado di rivaleggiare con Platone nell’esigere una attenzione diffusa, tanto più se si pensa che i testi originali non so¬ pravvissero a lungo, e hanno potuto essere noti a

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Alle origini della filosofia greca

noi soltanto parzialmente, da citazioni e parafrasi. Assunto della presente ricerca è che ne posse¬ diamo tuttavia una quantità sufficiente, che con¬ sente di comprendere come la loro elaborazione segnasse una rivoluzionaria rottura col passato. I loro autori affrontarono la necessità di inventare un uso nuovo della lingua greca, consono alla co¬ stituzione di concetti astratti e di un pensiero concettuale. E oggi opinione diffusa che una simile fa¬ coltà sia sempre stata connaturata all’uomo, con l’inclusione - è ovvio - di ciascuno di noi. Soster¬ remo, al contrario, che il pensiero dell’uomo pri¬ mitivo nel corso dei millenni che precedettero i Greci fu pienamente pago di intendere se stesso e il proprio contesto sotto forma di personaggi in un racconto, e non come entità o realtà da definire nel quadro di un sistema teorico. Le prime forme del modo di pensare teoretico, e del linguaggio adeguato a esprimerlo, parzialmente inventati pri¬ ma di Platone, furono tramandati a lui in eredità per un progresso e una sistematizzazione, ed egli a sua volta, insieme ad Aristotele, tramandò all’Eu¬ ropa questi risultati. La miccia che innescò questa rivoluzione fu l’invenzione dell’alfabeto greco, che consentì il passaggio, in Grecia, dalla oralità alla scrittura. Di¬ scuterò più avanti come abbia funzionato in con¬ creto il rapporto tra questi due livellif In breve, fu una rivoluzione a un tempo mentale e linguistica.

Introduzione

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che stravolse il sistema della conservazione del sa¬ pere. Nella fase di cultura orale essa ha luogo per il tramite della memoria umana, e il materiale mne¬ monico è di tipo narrativo, ovvero è in forma di racconti di eventi «agiti» da personaggi, non di enunciati astratti, sostanziati di categorie e princì¬ pi. Nella fase alfabetizzata della Grecia, l’immagaz¬ zinamento del sapere fu garantito invece dall’ausi¬ lio materiale della parola scritta, nella forma del documento che poteva essere usato e riusato senza necessità di ricorrere alla memoria. E dal momen¬ to che l’urgenza del memorizzare venne meno, la mente fu libera di elaborare concetti. I pionieri cominciarono innanzitutto a concen¬ trare la loro attenzione sull’ambiente circostante, ovvero il cielo, la terra e tutto ciò che è in essi. In¬ tesero rinunciare al modo di descriverlo proprio dei cantastorie, che narravano come esso fosse sta¬ to creato da agenti ultraterreni, dai quali sarebbe ancora popolato: racconti, in sostanza, delle gesta di dèi. Ciò che cercarono di sostituirvi fu l’idea di un sistema (kosmos) costituito da parti definibili in base a relazioni stabili esistenti tra esse. Un simile processo esigeva un lessico fondato sui concetti di «materia», «spazio», «corporeità», «vuoto», «mo¬ vimento», «stasi», «permanenza», «mutamento», «quantità», «qualità» e simili, regolato da una sin¬ tassi tale da rendere questi concetti parti costitutive di una struttura immutabile^. Ma un lessico e una

Alle origini della filosofia greca

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sintassi di tal genere non c’erano mai stati prima, né nella cultura greca né in alcun’altea cultura. L’ambiente, in quanto visibile «fuori» di noi, è un ovvio oggetto di attenzione. Meno ovvio in tal senso era l’essere umano. Il quale poteva in modo duplice costituire oggetto di riflessione: come esse¬ re sociale o considerato nella sua individualità. Pri¬ ma che avesse termine la fase pionieristica, que¬ st’area dell’umano (in quanto distinta da quella del cosmo) divenne a sua volta oggetto di riflessione teorica: ciò comportò lo sforzo di invenzione di un lessico capace di organizzare il precedente sistema percettivo del comportamento umano, con un pro¬ cedimento analogo a quello che aveva avuto luo¬ go in rapporto all’ambiente. Un lessico di concet¬ ti quali «bene», «male», «utile», «nocivo» «giusti¬ zia», «ingiustizia»^, «verità», «menzogna», «bellezza», «bruttezza», «piacere», «dolore», «sensazione», «in¬ telletto», «conoscenza», «opinione», e simili, fu dunque forgiato sulla stessa incudine della comu¬ nicazione scritta. Questo processo, che forniva un complemento al lessico della fisica, ottenne i rico¬ noscimenti che doveva al tempo di Socrate, il qua¬ le ne fu completamente coinvolto, pur non essen¬ done egli stesso iniziatore, e ricorrendo ai metodi consueti alla fase prealfabetizzata per adattarlo al¬ le proprie esigenze. Il termine «revisionista», nel titolo di quest’o-

Introduzione

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pera*, vi si trova dunque per ragioni serie. Esso po¬ sa su un assunto fondamentale: lo sviluppo della più antica attività speculativa in Grecia può spie¬ garsi soltanto nell’ambito del passaggio dall’oralità alla scrittura. Se sarà accolto nelle future trattazio¬ ni storiche (ma ciò accadrà - prevedo - con qualche riluttanza), questo assunto costringerà a modificare tutto un insieme di presupposti, che persistente¬ mente hanno informato la stesura dei resoconti moderni relativi a quella fase del pensiero antico, a torto nota come «presocratica». Un semplice elenco mostrerà fino a che punto sia arduo il com¬ pito di rimuoverli. Possono essere paragonati a un assortito mucchio di detriti accatastati così in alto, sopra la sostanza originaria deH’antica attività spe¬ culativa, da occultare ciò che giace al di sotto. Prima di tutto il presupposto cronologico im¬ plicito nella parola «presocratico», l’etichetta che usualmente si applica al periodo in esame; e poi il presupposto implicito nei termini «filosofia» e «fi¬ losofo», che cioè nel suddetto periodo abbiamo a che fare con una disciplina sofisticata, esposta per iscritto in libri e trattati, che avrebbe offerto «posi¬ zioni» dottrinali in risposta a - o in considerazione di — altre, diverse posizioni dottrinali, al modo dei moderni. Ancora, c’è il presupposto della «ricerca all’indietro», secondo cui, poiché di quel periodo *11 riferimento è ovviamente al titolo originale del volume [N.d.T.].

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Alle origini della filosofia greca

non sopravvivono che frammenti, il miglior meto¬ do per interpretarlo sia innanzitutto quello di pas¬ sare ai successori superstiti (a partire da Platone e Aristotele), leggere ciò che scrissero su chi li ave¬ va preceduti, e poi - all’indietro, appunto - appli¬ care questi giudizi agli originali. Queste tre linee-guida (erronee come sono) non sono state inventate dagli studiosi moderni di quell’epoca; esse furono escogitate dagli antichi stessi, a cominciare da Platone, e condussero all’a¬ dozione di ulteriori presupposti inerenti ad aspetti specifici della storia arcaica: il primo, che questa di¬ sciplina denominata «filosofia» partisse già come evoluta «metafisica» materialistica (opposta a «idea¬ listica»), che cercava una spiegazione di tipo con¬ cettuale per il mondo delle «apparenze», e la tro¬ vava in forme «materiali»; il secondo, che tale di¬ sciplina nascesse dal nulla - in una sorta di «parto virginale» - al principio del VI secolo a.C. a Mileto. Questi due assunti inerenti alla dottrina riguar¬ davano il modo in cui si immaginava che quell’e¬ poca avesse avuto inizio. Un terzo presupposto si riferisce invece alla sua fase conclusiva: esso isola un gruppo di individui (artificialmente) identifi¬ cati come sofisti, le cui capacità speculative si raffi¬ guravano dirottate verso la retorica, e dunque compromesse. Ciò rese necessaria una rinascita del vigore filosofico, attuata proprio da Platone, attra¬ verso il ritratto di un pensatore di nome «Socrate».

Introduzione

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Non agli antichi invece, ma ai moderni, ancora di recente, si devono altre tre linee-guida, che for¬ se sarebbe più corretto definire «pregiudizi». Il pri¬ mo ha carattere generale, e consiste nell’assumere che i Greci fossero un popolo religioso nel senso giudaico-cristiano, il che induce a cercare relazio¬ ni strette, nella fase più arcaica, tra pensiero filo¬ sofico e pensiero religioso. Applicato in concreto, questo pregiudizio identifica come «pitagorica» una corrente di pensiero arcaica, le attribuisce una certa propensione religiosa e - come può osser¬ varsi nei manuali di storia in circolazione - le con¬ ferisce un rilievo che non trova conferma nelle te¬ stimonianze antiche. Questo pregiudizio ne pro¬ duce, per contraccolpo, un altro, che opera in opposizione speculare alla «tesi pitagorica», smi¬ nuendo di importanza le rivoluzionarie teorie de¬ gli atomisti sorte verso la fine di quell’epoca, dedi¬ cando non più che scarni riconoscimenti alle con¬ sistenti testimonianze che di esse rimangono, e ignorando del tutto alcuni aspetti della loro porta¬ ta teorica. Tale è il detrito che incrosta la superficie della storia autentica, qualunque essa sia stata. È facile dedurre che il suo peso, a parte distorsioni specifi¬ che inerenti a singoli pensatori, ha avuto Teffetto di svilire quella fase storica considerata nel suo complesso. Nel corso di queste pagine sosterrò la tesi che in quel periodo furono operanti individui

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Alle origini della filosofia greca

dotati di energie mentali d’eccezione, e dell’auda¬ cia che è il segno peculiare del pensiero greco, un’audacia che per qualche ragione ebbe modo di manifestarsi nel corso di un periodo limitato della storia greca, e che impresse una svolta definitiva a quel processo per cui la nostra specie sente e pen¬ sa. Ma non è questa l’impressione complessiva che trae chiunque abbia presente la messe di ricerche (alcune delle quali prossime alla pedanteria) con¬ dotte sull’argomento, neanche quando legga le due canoniche trattazioni, apparse di recente in lingua inglese, di Guthrie"* e di KRS. In entrambi i lavori un cauto temporeggiare e una certa insensi¬ bilità al lessico innovativo e audaci generalizzazio¬ ni speculative sembrano prevalere su qualsiasi sim¬ patia intuitiva per la situazione complessa quanto unica nella quale vennero a trovarsi individui ec¬ cezionali, da Talete, nella prima metà del VI seco¬ lo a.C., fino a Socrate, alla fine del V secolo a.C. Di tutti i periodi che si sono avvicendati nella storia del pensiero speculativo, nessuno ha avuto conse¬ guenze così sensazionali. Ma limitarsi a elencare questi nove presupposti e a caratterizzarli come ostacoli per la ricerca non potrà certo convincere i lettori, che ormai da mol¬ to tempo li hanno assunti come usuali criteri orien¬ tativi. Si impone allora una più dettagliata disami¬ na di ciascuno di essi.

Capitolo primo IL MIRAGGIO CRONOLOGICO

L’opportunità di preferire il termine «preplato¬ nico» per classificare la più antica fase del pensiero teoretico greco fu già avvertita da Friedrich Nietzscheh Tuttavia la denominazione «presocratico» era già stata resa normativa ne La filosofia dei Greci di Eduard Zeller, i cui primi due volumi (che in¬ cludevano i «presocratici») erano apparsi nel 1846. Tradotta in inglese^ e (molto più tardi) in italia¬ no^, e più volte riedita in successive versioni ampliate"^, quest’opera ha esercitato sugli studi del pensiero greco arcaico un’influenza che è difficile esagerare. In primo luogo col semplice identificare il periodo in questione per mezzo di un titolo, quel¬ lo di «presocratico», che ha tutto l’aspetto di un’in¬ venzione. Il favore incontrato da questa designa¬ zione trovò conferma quando nel 1903 Hermann Diels lo scelse per la sua prima edizione degli ipsissima verta di questi pensatori, raccolti integralmen¬ te e separati dalla seriore tradizione dossografica. Conservata dagli storici recenti, essa è rimasta fino a oggi canonica. E tuttavia comporta una incongruenza crono¬ logica. Cominciamo dall’ovvio. Se ci si volge ai da-

Alle origini della filosofia greca

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ti biografici forniti da KRS relativamente agli ulti¬ mi nove filosofi «presocratici», si riscontrano le in¬ dicazioni che seguono^:

Parmenide

nato ca. 515 a.C.; incontrò Socrate ad Atene ca. 450 a.C.; ignoto l’anno

Anassagora Empedocle Zenone Archelao

della morte nato ca. 500 a.C.; fu ad Atene ca. 480 a.C.; morì a Lampsaco 428 a.C. nato 495 a.C.; morto 435 a.C. nato 490 a.C.; ignoto l’anno della morte non sono registrati gli anni della nascita e della morte; ca.450 a.C. lui e Socrate narravano d’essere stati assieme (come amanti?) durante un soggiorno a Samo

Melisso

nato 500 a.C. (o più tardi; «verosi¬ milmente non più giovane di Anas¬ sagora» [KRS p. 391]); 441 a.C. in qualità di comandante della flotta samia difese la sua isola nativa scon¬ figgendo una flotta ateniese (don¬ de il floruit ca. 440 a.C.)

Leucippo Diogene DI Apollonia

ignote le date di nascita e di morte; floruit 440-435 a.C.? floruit 440-430 a.C. (perché viene schernito insieme a Socrate nelle Nuvole di Aristofane)

Democrito

nato 460-57 a.C.; i suoi scritti furo¬ no pubblicati dopo il 440 a.C.

I. Il miraggio cronolo^co

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Se la datazione di molti eventi pubblici dell'Ate¬ ne del V secolo a.C. (inclusi Maratona, Salamina, la guerra del Peloponneso) è nota, non può dirsi lo stesso riguardo a numerose personalità di spicco (possiamo per esempio soltanto ipotizzare le date esatte di nascita e di morte di Temistocle), specie nel caso di intellettuali. In effetti, l’unico pensato¬ re che - nel V secolo a.C. - si può datare con una certa sicurezza è Socrate (469-399 a.C.). Solo in al¬ tri due casi esiste un qualche appiglio cronologico, quelli cioè di Melisso, comandante nel 441 a.C., quando Socrate aveva 29 anni, e di Diogene, sbef¬ feggiato insieme a Socrate nel 423 a.C., quando quest’ultimo ne aveva 46. Ogni altro dato è conget¬ turale e approssimativo. Tuttavia, se accettiamo que¬ ste (o simili) cronologie, diviene allora evidente: a) che Democrito, l’ingegno scientifico più fe¬ condo dell’antichità, era più giovane di Socrate; b) che Diogene di Apollonia fu un suo con¬ temporaneo, al pari di Leucippo, se esistette; c) che Archelao, se ammettiamo l’ipotesi che fossero entrambi giovani, potrebbe essere stato di poco più anziano, partiti entrambi da Atene per una gita a Samo (in visita a Melisso?) ; d) che le vite dei primi rappresentanti indicati nella lista suddetta si sovrapposero tutte alla vita di Socrate, per periodi di tempo che variano da un minimo di venti anni (Parmenide) a un massimo di quaranta (Anassagora e Melisso).

Alle origini della filosofia greca

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Poiché anche i sofisti vengono inclusi nel no¬ vero dei «presocratici» da Diels (ma non da KRS), sembra opportuno aggiungere qui di seguito an¬ che le loro cronologie, tutte approssimative:

Protagora

nato 490 a.C. (Guthrie 1969, pp. 262-63) ; morto 420 a.C.

Gorgia

nato 485 a.C. (KRS, p. 281); morto 380 a.C. (Guthrie 1969, p. 260)

Prodigo

nato 470-60 a.C. (Guthrie 1969, p. 274, il quale inspiegabilmente pre¬ cisa «di poco più anziano di Socra¬ te», con lieve incongruenza dovuta, si sospetta, alla malìa che è insita nel termine «presocratico»); morto iniz. rV secolo a.C.

Trasimaco

schernito da Aristofane 421 a.C. (Guthrie 1969, p. 294); contempo¬ raneo di Socrate

Antifonte

ignote le date di nascita e di morte (Guthrie 1969, p. 286): «ovviamente un contemporaneo di Socrate».

Questo prospetto mostra come l’arco di tempo in cui visse Protagora, lungi dall’essere precedente a quello nel quale fu attivo Socrate, si sovrappone ad esso per quindici anni; che Trasimaco e An-

I. Il miraggio cronologico

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tifonte furono contemporanei dello stesso Socrate; che invece Prodico e Gorgia gli sopravvissero. Es¬ so rivela inoltre, in rapporto alla cosiddetta «filo¬ sofia» greca arcaica, un dato totalmente oscurato dal resoconto offerto da Platone intorno alla vita e agli insegnamenti del suo maestro. Dopo Salamina e la creazione della confederazione marittima ateniese, un’intera squadra di intellettuali d’oltre¬ mare giunse ad Atene per insegnare e scrivere in rapide annotazioni ciò che pensava delle idee sul cosmo e sull’uomo già circolanti in Ionia e nelle colonie ioniche (Elea, Leontini, Abdera, Apollo¬ nia) . Il potere trainante di Atene nel dopo-Salamina è ovvio: lì erano il denaro, gli intrattenimenti e il sostegno della classe agiata. Anche il fatto che fu proprio la Ionia, e non Atene, la patria originaria di questo tipo di pensiero filosofico ha una sua spiegazione, ma su questo potremo soffermarci in seguito {infra, cap. II). Socrate crebbe tra questi personaggi, divenne uno di loro. Certo si accompagnò a qualche con¬ nazionale, come Archelao e Antifonte, ma la forza trainante dell’attività intellettuale ad Atene prima del rV secolo a.C. veniva dalla Ionia.

In quanto

maestro «orale», egli stesso si mosse rigorosamen¬ te nel solco tradizionale della «cultura dell’ora¬ lità», ancora dominante ad Atene. E a giudicare dalla brevità degli scritti elaborati dai suoi con¬ temporanei ionici, anche questi ultimi dovettero

Alle origini della filosofia greca

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investire la maggior parte delle proprie energie nell’insegnamento orale, quale che fosse l’argo¬ mento trattato, il cosmo oppure l’uomo. Il grande spartiacque nella storia del pensiero teoretico greco, sia che considerasse la natura, o l’uomo, coincide non già con il periodo della atti¬ vità socratica - ciò che sarebbe sul piano storico un’ipotesi assurda - bensì con la prima metà del IV secolo a.C., quando un uomo originario di Atene, combinando l’arte letteraria nata nella sua città cioè l’arte drammatica {infra, cap. Ili 1) - con l’im¬ presa intellettuale iniziata dalla Ionia e accolta da Socrate, introdusse nel mondo greco - come pure in quello dei suoi eredi culturali - un consistente corpus di scritti destinati a lettori, nel suo genere il primo nella storia della nostra specie. Poiché lo spartiacque ora indicato coincide con la fase in cui la prosa attica (che è quanto dire ateniese) acquistò una certa fluidità nella scrittura, sembra opportuno includere nell’elenco degli in¬ tellettuali contemporanei di Socrate anche i primi oratori che furono pionieri di questo mezzo di co¬ municazione.

Antifonte oratore

nato 480 a.C.; giustiziato 410 a.C.

Lisia

nato 459 a.C. o (più proba¬ bilmente) 444 a.C.; morto 380-60 a.C.

/.

21

Il miraggio cronologico

Andocide

nato 440 a.C.; morto dopo 390 a.C. (forse in esilio)

Isocrate

nato 436 a.C.; morto 339 a.C.

Questo prospetto mostra che il solo Antifonte oratore era di poco più anziano di Socrate, ed è si¬ gnificativo che la sua prosa fosse la più «poetica». Di questo gruppo fu proprio lui il più prossimo al¬ la fase orale della cultura ateniese. Fino a quel mo¬ mento l’uso sistematico della parola scritta era sta¬ to limitato alla composizione poetica (almeno per quanto riguarda la Grecia continentale), mentre la conservazione del «testo» si realizzava atti averso la memorizzazione e la performance. Senza dubbio con lo stesso intento erano scritti i brevi trattati di An¬ tifonte, le cosiddette Tetralogie. Le quali rappresen¬ tano comunque il più antico esempio di discorso in prosa attica che si sia conservato. Ed egli lo realizza quando, appunto, i cosmologi e i sofisti di Ionia ave¬ vano già dato inizio alla loro battaglia di emancipa¬ zione dal mezzo di comunicazione poetico grazie alla nuova possibilità di redigere per iscritto ciò che avevano in mente di dire. Con Antifonte il discorso in prosa orale diviene alfabetizzato, o più precisamente proto-alfabetizzato. Sostenere che Gorgia (forse maestro di Antifonte)

usando i ritmi e il lin¬

guaggio propri della poesia, creasse un paradigma «del tutto reazionario, e inteso a intralciare lo svi-

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Alle origini della filosofia greca

lappo di un buono stile prosastico»^, equivale a ca¬ povolgere la storia. Uno stile fluente nella prosa scritta fu raggiunto soltanto tra la fine del V e l’ini¬ zio del rV secolo a.C. da Andocide, Lisia e Isocrate. A proposito di quest’ultimo, è di un certo inte¬ resse il fatto che egli abbia avuto la possibilità di co¬ noscere Socrate più a lungo di quanto abbia potu¬ to lo stesso Platone (nato nel 427 a.C.). Il «Socrate» che parla nei dialoghi platonici è una invenzione letteraria del IV secolo a.C. Il suo è un punto di vi¬ sta che consente agli esponenti delle due genera¬ zioni precedenti d’essere designati «presocratici», e gli interlocutori cui egli si accompagna in quegli scritti rientrano in questa stessa prospettiva, in rap¬ porto alla quale le datazioni e i nomi elencati nel prospetto cronologico sopra riprodotto forniscono una necessaria correzione. Essi conducono a con¬ clusioni che vanno molto al di là della mera raccol¬ ta di dati. Era questo l’ambiente originario nel qua¬ le nacque il Socrate storico, nel quale egli operò per la gran parte della sua vita. Erano questi i tipi di persone che verosimilmente egli conobbe e ascol¬ tò, e con cui conversò e affrontò discussioni, fore¬ stieri o locali che fossero: pensatori, insegnanti, oratori, politici, scrittori in erba, tutti individui in¬ somma che in quel periodo potevano apparire co¬ me «progressisti» nelle loro opinioni e attività, con le loro energie per lo più concentrate sull’obiettivo di padroneggiare la lingua greca.

Capitolo secondo IL MIRAGGIO DEL TESTO

La speculazione preplatonica era divulgata oralmente. Ancora nel 380 a.C. (o più tardi, se¬ condo la datazione approssimativa del Fedone), Pla¬ tone può descrivere il suo «Socrate» che apprende le dottrine di Ajiassagora sentendole leggere da un papiro ad alta voce {Fedone, 97 b 8 - c 1 sgg.). (Con certa incongruenza egli descrive in seguito il me¬ desimo «Socrate» che «legge» egli stesso quelle dottrine [ivi, 98 b 4 sgg.]: il ricordo della situazio¬ ne orale precedente di due generazioni si confon¬ de con il dato attuale della familiarità con la scrit¬ tura) . Poiché, dei «presocratici» i cui testi originali sono sopravvissuti, i primi quattro (Senofane, Par¬ menide, Empedocle, Eraclito) amarono esporre il proprio pensiero di volta in volta in versi di tipo omerico o in serie di aforismi in sé conchiusi (una pratica, questa, ripresa da Democrito), non si può escludere che, oltre alla divulgazione, questi pio¬ nieri inizialmente affidassero alla oralità anche la composizione, con l’idea d’essere recepiti con il sussidio della sola memoria, dunque nel modo «orale»: e in effetti i testi pervenuti a noi possono essere ancora oggi facilmente memorizzati dagli

Alle origini della filosofia greca

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studiosi che hanno consuetudine con essi. È per questo motivo che Platone, ancora cento anni più tardi, può disinvoltamente fare riferimento ad al¬ cune loro speculazioni come all’opera «delle Muse» {Sofista, 242 d-e). Ad ogni modo quei testi, di cui oggi non resta¬ no che esigui frammenti, presero a esistere ovvia¬ mente solo quando ciò che era stato composto oralmente venne trascritto, o dagli stessi «filosoficantori», prima della performance o dopo di essa, oppure da un discepolo o da un amanuense che li aveva ascoltati. Quest’ultima modalità potè di fatto verificarsi, s’è pensato, nel caso di Eraclitoh Quan¬ to a Socrate non fu mai effettuata alcuna trascrizio¬ ne, né da lui stesso né da alcun uditore o discepo¬ lo; è un dato rilevante, che non ha ricevuto l’atten¬ zione che merita. (I cosiddetti «dialoghi socratici» di Platone non sono - come è ovvio - trascrizioni). Questa lacuna indica che Atene, nell’arco di tempo in cui egli visse (o, più precisamente, nel corso dei suoi primi cinquanta anni), restò una co¬ munità a base essenzialmente orale, nella quale gli «uditori» erano prevalenti in rapporto al numero dei «lettori», in una situazione sostanzialmente identica a quella presupposta dai testi che riman¬ gono di Senofane, Eraclito, Parmenide ed Empe¬ docle. Senofane, di fatto, parla di sé come di un «can¬ tore» itinerante (D-KB 8, 1-2 = fr. 7, 1-2 Gent.-Pr.),

II. Il miraggio del testo

27

non già delle «imprese illustri degli uomini» {klea andròn), bensì dì quella che egli stesso chiama la proprìdLphrontis (il «pensiero»): un dato illuminan¬ te in rapporto alla situazione paradossale nella qua¬ le vennero a trovarsi questi «pionieri del pensie¬ ro». Ora, ci si attende che il «pensiero», poiché di¬ stinto dal racconto orale, necessiti di un discorso in prosa per il suo svolgimento, e di lettori per essere compreso. Ma nessuno dei quattro autori ora cita¬ ti potè contare su un pubblico di lettori, cosicché non accadde loro di inventare e articolare l’atteso discorso esplicativo in prosa. Gli storici moderni, ancora ingannati dal mirag¬ gio del testo, immaginano che Parmenide fosse uno «scrittore» che commise l’errore di cimentar¬ si nella poesia (KRS, p. 241), mentre la scelta del verso da parte di Empedocle si ritiene «più facil¬ mente spiegabile» poiché egli era «un emulatore di Parmenide» (KRS, p. 283). Ma nessun pensato¬ re preplatonico prima di Diogene di Apollonia (Jloruit 440-30 a.C.) si autodefinisce mai «scrittore» (né tantomeno «filosofo»), né allude mai alla «lettura» delle proprie dottrine. Il verbo «leggere» {anagignosko, alla lettera «riconoscere», o «comprende¬ re», adattato al valore innovativo di «comprendere le lettere») occorre una volta in Pindaro {Olimpica 10,1), mai nella tragedia, e diviene usuale a parti¬ re dall’ultimo quarto del V secolo a.C. La scena in cui Platone descrive il «libro» di Ze-

Alle origini della filosofia greca

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none {Parmenide, 127 b sgg.) fu concepita a distan¬ za di un secolo dall’evento immaginato, e riflette il linguaggio della cultura alfabetizzata, conforme al¬ l’epoca nella quale Platone fu attivo, ovvero il se¬ condo quarto del IV secolo a.C.

La storia è qui

scritta all’indietro. Si può tuttavia dimostrare che i preplatonici fu¬ rono lettori di Omero e di Esiodo (come argo¬ menterò in un capitolo successivo)^, anche a pre¬ scindere dal fatto se potessero «leggersi» tra loro (ma questo è meno certo). E ciò equivale a dire che essi si avvalevano del vantaggio implicito nella pos¬ sibilità di leggere versi composti in precedenza, per ripensare e riordinare la sintassi e il lessico di ciò che le loro orecchie avevano ascoltato, e che ora anche i loro occhi potevano prendere in esame (aspetto, questo, che sarà spiegato in seguito)^. Si trattava, in effetti, di figure di transizione, nella fa¬ se di passaggio dalla cultura orale a quella scritta. Il verso esametrico era naturalmente un mezzo goffo per l’espressione di un «pensiero»

nuovo:

Senofane potè ancora usarlo con una certa chia¬ rezza, ma non appena il «pensiero» si fece più den¬ so, ad esempio con Parmenide, più evidente di¬ venne la sua inadeguatezza. Eraclito si era cimentato in una forma alterna¬ tiva del linguaggio orale, quella dell’aforisma in sé conchiuso. Ciò offrì l’opportunità di uscire dai con¬ fini dello schema metrico, ma si trattò di un tenta-

II. Il miralo del testo

29

tivo ancora circoscritto: la persistente esigenza di conferire

alle sentenze il più possibile un anda¬

mento ritmico evidentemente riflette, al pari della loro forma chiusa, l’intenzione di mantenerli fa¬ cilmente memorizzabili. Ancora non potevano che essere èpea pteròenta, ovvero enunciazioni che, si¬ milmente ai versi dell’aedo, venivano «scagliate» per l’aria, come frecce, dal cantore all’uditorio, e come «conficcate» nella memoria dell’ascoltatore. Era in sostanza necessario istituire tra questi enunciati una consequenzialità di tipo logico, che rimpiazzasse quella basata sul ritmo e sullo sche¬ ma narrativo. Potrebbe allora non essere casuale il fatto che, al loro primo apparire, le parole gre¬ che denotanti lo «scrittore», e insieme il suo atto, la «scrittura», e le sue «opere scritte», lo connotas¬ sero propriamente come «com-positore che com¬ pone una com-posizione» (syngraphèus [Tucidide 8,67], syngràphein [Erodoto 3,103; 6,14; Tucidide 1,1], syngramma [Diogene di Apollonia, D-K 64 B 1]), e mai semplicemente come «scrittore». Questo passo ulteriore conduce alle composi¬ zioni di Zenone, Melisso, Anassagora, Diogene di Apollonia, Antifonte e Democrito, i quali, tutti, ri¬ nunciarono all’esametro per cimentarsi nella pro¬ sa speculativa (su Democrito, il più tardo tra que¬ sti autori, ci soffermeremo in seguito). Salta im¬ mediatamente all’occhio la concisione - com’era da aspettarsi - di queste prime sperimentazioni. I

Alle Orioni della filosofia greca

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riferimenti fatti ad esse nella tarda antichità, e an¬ che la natura dei materiali citati, inducono a pen¬ sare che quasi certamente l’estensione di quelle composizioni non superasse la misura di un «libro» {biblion obiblia), e cioè, precisamente, pochi fo¬ gli di papiro, forse soltanto due o tre, piegati uno dentro l’altro, e non il lungo rotolo di fogli incol¬ lati insieme e arrotolati, che era invece il mezzo ne¬ cessario per trascrivere l’epica o le opere teatrali^. (Biblion, che nel V secolo a.C. denota la «striscia» di papiro, si trova sempre tradotto erroneamente co¬ me «libro» o «rotolo» nei trattati inerenti a questa fase storica)®. Le cosiddette «opere» di questi pen¬ satori arcaici altro non erano, insomma, che bre¬ vi «programmi» o «riassunti» di ciò che l’autore in¬ tendeva dire quando insegnava. L’andamento del¬ le conversazioni di Pericle e Protagora riportate da Plutarco® vale a illustrare il metodo impiegato: la comunicazione del pensiero era fondata sulla enunciazione e sullo svolgimento orali, in presen¬ za di uditori sulla cui capacità di leggere non si fa¬ ceva alcun affidamento. Le citazioni attinte, in testimoni tardi, a questi cosiddetti «trattati» condividono un aspetto signi¬ ficativo: senza riguardo alcuno per 1’«autore», con¬ stano di enunciati in sé conchiusi che nel dettato si echeggiano tra loro, e che (diversamente dal mo¬ dello eracliteo) sono legati tramite l’inserzione di particelle connettive tipiche quali de, gar, kài, tòinyn.

IL II miraggio del testo

31

oppure anche di forme elementari di subordinazio¬ ne, quali ei («se») o hote («laddove»). Così, per esempio, in Zenone (D-K 29 B 3); a) Se (le cose che sono) sono molte, è necessario che es¬ se siano tante quante sono, e non di più, né di meno. b) E (o «ma») se sono tante quante sono, dovranno es¬ sere limitate. c) Se sono molte, quelle che sono sono illimitate: d) infatti, sempre tra quelle che sono ve ne sono altre, e) e ancora altre tra quelle. /) E in tal modo le cose che sono sono illimitate.

Questi enunciati costituiscono «gli unici fram¬ menti di Zenone indiscutibilmente autentici, che sono giunti intatti sino a noi» (KRS p. 266). La di¬ stinzione in 6 brevi «cola» rende evidenti le ri¬ spondenze tra essi. Le forme del verbo «essere» so¬ no iterate 13 volte su un totale di 48 parole {estì 8 volte, onta e onton 3 volte, èinai 1 volta, èie 1 volta). Se si prescinde da singole parole, la frase tosàuta èi¬ nai hosa estìn, che ricorre in a), è ripetuta in b) (con «sono» [estìn] in luogo di «essere» [èinai] ). Ei pollò estìn («se sono molte») che introduce a), ricorre ancora per introdurre c), hètera metaxù («altre tra quelle»)

utilizzato in d), è Y‘npeX.nX.o in e)\ pepera-

smena («limitate») in b) funge da contrappunto ad àpeira («illimitate») in c) e /). Siamo di fronte a un vero e proprio linguaggio formulare, certo non del tipo individuato da Mil-

Alle origini della filosofia greca

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man Parry, applicabile a Ornerò^, ma comunque un linguaggio «orale», soltanto, concentrato ora nel produrre serie di apoftegmi in prosa, facili da fissare nella memoria. Se la struttura formale si at¬ tiene alla norma orale dell’«effetto acustico di eco», il contenuto riprende lo spirito e lo stile del «genere» orale dell’«enigma», che potrebbe talora essere inteso come «motto di spirito», ai danni de¬ gli altri partecipanti alla conversazione, come ri¬ sulta chiaro per esempio da alcune sentenze di Era¬ clito, che certamente rientrano in questa tipolo¬ gia®. Tuttavia i «cola» sono qui congiunti secondo una sintassi che fornisce la base per uno stile adat¬ to all’argomentazione. Privato ormai del supporto del metro e della li¬ nea narrativa, lo sforzo di intessere un discorso pu¬ ramente teoretico in prosa si rivela difficile, né può protrarsi a lungo. Stando alla tradizione (Aristote¬ le, fr. 65 Rose), sarebbe stato Zenone 1’«inventore» della dialettica, uno strumento di comunicazione orale che - possiamo pensare - costituì il suo me¬ todo prediletto di insegnamento. Uno stile più evoluto di prosa filosofica è testi¬ moniato da Anassagora, di cui si narra che — seb¬ bene fosse più anziano di Empedocle — fu, «per le opere» (evidentemente nel campo della filosofia), posteriore al suo più giovane contemporaneo (Ari¬ stotele Metafisica, 1, 3, 984 a 11 = D-K 31 A 6). L’a¬ dozione da parte di Anassagora di uno stile prosa-

IL II miraggio del testo

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stico che rimpiazzasse il metro può ben giustifica¬ re questo fatto: la decisione stessa, e la perizia ne¬ cessaria ad attuarla, esigevano tempo per giungere a maturazione. Tuttavia, dietro a ciò che può già di per sé con¬ figurarsi come ragionamento consequenziale, si cela ancora l’abitudine a enunciare sentenze in sé conchiuse, legate da particelle congiuntive tipiche. U incipit del suo «libro» suona (D-K59 B 1): a) b) c) d) e) /) g) h) i)

Tutte le cose erano insieme, illimitate per quantità e per piccolezza: perché certamente anche il piccolo era illimitato. E tutte essendo insieme nessuna era visibile a causa della piccolezza: perché sia l’aria che l’etere contenevano tutte le cose entrambe essendo illimitate: perché esse sono in sé le più grandi nel tutto complessivo

/ ) sia per quantità che per grandezza.

Tale è l’effetto originale del greco per così dire «alle prime armi», reso alla lettera, anche se tra¬ duttori e interpreti com’è ovvio si affrettano ad ac¬ comodarlo e a camuffarlo con parafrasi. Qui, come traccia di un progresso verso un’enunciazione più complessa, si può porre in rilievo la connessione di due proposizioni altrimenti disgiunte. Il gruppo a) fino a é) rappresenta la prima, inerente alla natura di un «insieme» o di un «tutto» in termini astratti; il gruppo/) fino a 0 la completa, rappresentando

34

Alle origini Mia filosofia greca

la seconda, che consiste di due elementi specifici, ovvero l’aria e l’etere, quali concrete esemplifica¬ zioni delle nozioni astratte enunciate in preceden¬ za. La logica di questa sintassi potrebbe certo ap¬ parire poco raffinata, eppure esiste. Nell’ambito delle diverse proposizioni, c) fun¬ ge da supporto a b), mentre é) conduce a una bril¬ lante e sorprendente conclusione, configurando l’invisibilità come deduzione di a), b) e c). Il «ra¬ gionamento» è rafforzato dall’uso del genitivo as¬ soluto in d), che sintetizza quanto è già stato detto («e tutte essendo insieme») e nel contempo ap¬ porta la condizione che rende plausibile e). Simil¬ mente, nell’ambito della seconda proposizione, che va da/) a /), il punto h) funge da supporto a ciò che è detto in g), mentre i) sottende una relazione con a) e coordina il passaggio nel suo complesso. Comunque, benché sia riscontrabile un pro¬ gresso nella tecnica dell’argomentazione, conti¬ nua a prevalere il principio dell’ «echeggiamento»: il tratto distintivo dello stile orale, destinato alla memorizzazione, non è stato ancora abolito. Così a) è ripetuto alla lettera in d), con un cambiamen¬ to nel caso (genitivo in luogo di nominativo) ; àpeira («illimitate») in b) viene echeggiato da àpeiron in c) e da àpeira in g) ; i termini smikrotes, smikròn, hypò smikròtetos («piccolezza», «il piccolo», «a cau¬ sa della piccolezza») si echeggiano in b), c) ed é), al pari delle parole indicanti «il tutto» {pania, panton,

II. Il miraggio del testo

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pania sympasi) in a), d), f), i); il nesso plethos kài smikròteta («per quantità e piccolezza») in b) è echeggiato da plèthei kài megèthei («per quantità e per grandezza») in l), mentre le due espressioni in¬ corniciano tutto il logos in una sorta di Ring-Komposition. Siamo ancora molto lontani dalla prosa distesa di Platone, ma diviene più facile capire perché egli adottasse una dialettica orale per agevolare la fis¬ sazione di connessioni logiche. È nel contesto di questo lento processo verso l’invenzione di una prosa di idee che dobbiamo collocare il fenomeno della oralità socratica. Gli Ioni in parte lo condivi¬ sero con lui, anche se con il loro genere di filoso¬ fia precorrevano i tempi rispetto agli Ateniesi, e la cronologia ne è testimone. Ma a questo punto do¬ vrebbe esserne chiaro anche il motivo: dopo avere sperimentato la «filosofia» orale in versi, essi furo¬ no pionieri nel tentativo di superare quel mezzo di espressione. Tuttavia, il nuovo linguaggio che in¬ trodussero richiedeva ancora il supporto della tra¬ dizionale matrice orale, propriamente nella forma della «sentenza» in sé conchiusa. Il problema si presentava rilevante, perché l’e¬ sigenza che sentivano era quella di una «prosa di idee», non di tipo retorico o narrativo. Un model¬ lo per queste due ultime tipologie era fornito dal¬ la eloquenza così marcata nei poemi omerici, al punto che fu molto più semplice il passaggio, in

Alle origini della filosofia greca

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Ionia, alla narrativa in prosa (Ecateo, Erodoto), e più tardi, ad Atene, alla prosa retorica (Antifonte oratore, Andocide, Lisia, Isocrate). Si può plausi¬ bilmente ipotizzare che il giudizio negativo di Pla¬ tone sui sofisti fosse in parte dovuto al risenti¬ mento per la relativa scioltezza - sino al punto di ricorrere alla forma retorica - che essi avevano rag¬ giunto nella composizione. Democrito, il più tardo dei cosmologi ionici che scrissero in prosa, fu in grado di ottenere - se la tradizione è fededegna (cfr. D-K 68 A 34) - uno stile fluente. E persino in questo caso, i frammenti giunti fino a noi attesta¬ no, per la maggior parte, lo stile di un composito¬ re aforistico^. Lo stesso Platone, nell’approntare una forma linguistica atta a esprimere le proprie «idee» non restò immune dalla medesima esigenza di ricorrere a una matrice orale per quello che essenzialmente era un corpus di scritti in prosa destinato a lettori. Il suo modello ateniese era il teatro - un genere nel quale, in gioventù, si sarebbe cimentato egli stesso, stando almeno a una tradizione tarda, ma attendi¬ bile (Diogene Laerzio 3,6). La soluzione che egli escogitò una volta allontanatosi dalla poesia tea¬ trale fu quella di scrivere, in prosa, un «teatro del¬ le idee». Gli Ioni non avevano potuto attingere a un simile modello. Se è necessario dare il dovuto rilievo all’in¬ fluenza che i modi del pensiero e dell’espressione

II. Il miraggio del testo

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orali esercitarono costantemente sul linguaggio fi¬ losofico, non si deve d’altro canto obliterare la ri¬ voluzione innescata dall’avvento della scrittura che - sia pure con lentezza - aveva allora luogo. La pa¬ rola scritta, letta e riesaminata in silenzioso mono¬ logo individuale, si accingeva a entrare in scena in Europa. L’affrancamento che essa attuò dall’esi¬ genza di conferire al linguaggio ritmo, struttura narrativa e capacità di imprimersi nella memoria stava già avendo conseguenze sul trattamento del¬ la lingua greca. Tutta\'ia resta una necessità cruciale e priorita¬ ria, quella cioè di identificare, nei resoconti storici moderni di quell’epoca, la forza deformante del¬ la «illusione del testo», giacché più d’una volta questi pionieri vi si trovano descritti come scrittori di libri o trattati, intenti a contendere l’uno contro l’altro per confutare, correggere o emendare le dottrine rivali immaginate come circolanti tra un pubblico - quantunque limitato - di lettori. Il «mo¬ dello» adottato per una simile ricostruzione è quel¬ lo dell’attività filosofica così come si svolse a parti¬ re da Platone, anacronisticamente applicato alla fase generativa e ambigua nel corso della quale ma¬ turava in Grecia la «cultura scritta». Si può addur¬ re in proposito un confronto moderno, sia pure con una situazione per certi aspetti un po’ diversa, inerente alla divulgazione delle opinioni di Lud¬ wig Wittgenstein. Questi, agli inizi della sua attività

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Alle ariani della filosofia greca

a Cambridge, si basava sul potere della conversa¬ zione orale quale unico strumento di esegesi filo¬ sofica, e i suoi seguaci in principio si attennero a quel metodo. Quest’ultimo, però, è stato inevita¬ bilmente rimpiazzato in seguito da trattati scritti, che ormai orientano le discussioni scritte intorno al «senso» (fissato com’è nella scrittura) di ciò che egli «ha detto» (cioè, «ha scritto»). Un simile «modello» non è comunque inven¬ zione dei moderni. Esso si attestò già nell’antichità tarda, con la possibile complicità di Platone quan¬ do, ad esempio, inscena una discussione tra i suoi personaggi basata sulla lettura di un «libro» di Ze¬ none [supra, pp. 27-28, N.d.T.], o giunge al punto di ritrarre il suo «Socrate» assorto nella lettura {Fe¬ done, 98 c-d). In questi casi è evidente che egli par¬ la di sé, che presuppone l’abitudine a leggere, consueta ai suoi tempi, come del resto fa in tutti i suoi scritti filosofici {infra, cap. Ili I). Per converso Aristotele, che cita i suoi predecessori in misura di gran lunga superiore, generalmente evita - ed è un aspetto piuttosto interessante - di far riferimento a loro «scritti». La fase ellenistica della cultura an¬ tica, quando divenne (almeno per le élites) cultura «libresca», non esitò a trattare i pensatori prepla¬ tonici con la pedanteria scolastica che le era fami¬ liare. Di qui l’uso di «ripartirli» secondo scuole ri¬ vali tra loro collegate, basato sull’assunto che essi fossero «scrittori» di tesi dottrinali elaborate l’una

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IL II miralo del testo

in replica all’altra. Gli studiosi moderni, se da una parte hanno condannato alcuni risultati partico¬ larmente stravaganti di quel metodo, mostrano tuttavia di non averne respinto le premesse quan¬ do, ad esempio, raggruppano questi «pionieri» in tre categorie: la prima, quella dei «Pensatori ioni¬ ci», la seconda, che va sotto il nome di «La filoso¬ fia dell’Occidente», e la terza, intitolata «La rispo¬ sta ionica» (così KRS). Ma una simile tripartizio¬ ne, tra le altre cose, oscura il fatto che, qualunque fosse la ragione, tutti gli interessati decisero di esprimersi in una data forma del dialetto ionico. La rimozione del «miraggio del testo» restitui¬ sce la percezione dell’oralità vigente in quel mo¬ mento storico. Si tratta di un intervento obbligato per una corretta rappresentazione sincronica del¬ le condizioni della comunicazione. Ma il suo effet¬ to affonda anche più in profondità nella storia del pensiero antico. Esso contribuisce a chiarire che questi proto-pensatori, lungi dall’imbrigliarsi nel¬ le sottigliezze della disputa filosofica, furono im¬ pegnati in un’impresa comune e condivisa da tut¬ ti: l’invenzione di un linguaggio «di pensiero», di¬ stinto

dal

modello

omerico,

che

richiedeva

trasformazioni fondamentali, inerenti al lessico e alla sintassi della lingua greca (e della «lingua eu¬ ropea», potremmo aggiungere). Se si accetta che prevalga nella mente degli storici l’immagine di una «guerra di libri», si perde il senso della realtà

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Alle origini della filosofia greca

caratterizzante quel periodo. Da Senofane agli ato¬ misti questi individui lottarono tutti per un unico obiettivo: rappresentare il nostro ambiente umano non come un racconto, ma come un teorema.

Capitolo terzo LEGGERE LA STORIA ALLTNDIETRO

1.1 «MIMI» DI PLATONE

Gli originali di questi brevi testi preplatonici, composti in poesia e in prosa, andarono perduti nella tarda antichità (sebbene almeno uno, quello di Parmenide, fosse ancora in circolazione nel VI secolo d.C.)h Li conosciamo solo attraverso cita¬ zioni, molte delle quali attestate in autori di età el¬ lenistica e romana. Per nostra fortuna, alcune di esse hanno una considerevole estensione. In quan¬ to «citazioni», documentano gli ipsissima verta di autori vissuti in età arcaica e classica e — con un’u¬ nica eccezione - non ateniesi. Di fronte a testimonianze così esigue e fram¬ mentarie, è difficile resistere alla tentazione di cer¬ care altrove informazioni sussidiarie e chiarimenti riguardo a ciò che questa gente pensò e disse, tan¬ to più se si considera che notizie del genere si ri¬ cavano dalle numerose fonti di età post-socratica di cui possiamo disporre. Elencare in successione le diverse teorie filoso¬ fiche, come atto distinto dal narrare le imprese de¬ gli uomini, coincide oggi con una disciplina fami-

44

Alle origini della filosofia greca

liare a molti. I dipartimenti universitari di filosofia non possono esentarsi dall'organizzare corsi di le¬ zioni suH’argomento, e i manuali di storia della fi¬ losofia rappresentano un elemento immancabile del panorama accademico. Ma la nozione stessa di una storia di questo tipo dovè in origine essere in¬ ventata, e ciò accadde soltanto quando il periodo preplatonico ebbe termine. Né sembra esagerato dire che fu proprio la «testualizzazione» a rendere questa invenzione inevitabile. Non appena il lin¬ guaggio del pensiero divenne alfabetizzato e dun¬ que quasi una cosa visivamente percepibile, sorse spontaneamente la questione della sua genesi e, con il moltiplicarsi delle speculazioni scritte, un’ul¬ teriore questione fu posta, quale fosse cioè la suc¬ cessione cronologica di questi documenti, e in che rapporto fossero gli uni con gli altri. Fino alla morte di Socrate, i preplatonici furo¬ no estranei a simili questioni. Nonostante i mo¬ derni si ostinino a rappresentarli in un rapporto di interazione, intenti tutti ad approfondire un pro¬ gramma filosofico del quale - in questa ipotesi - sa¬ rebbero stati coscienti (ved. ex. gr. KRS, pp. 357 sgg., di Anassagora: «La reazione di A. a Parmeni¬ de e ai più antichi pluralisti», e pp. 360 sgg.: «La reazione di A. a Zenone»), i documenti che resta¬ no non contengono alcuna traccia di una simile consapevolezza. L’oggetto invariabile del loro di¬ sputare è rappresentato dall’«umanità» (brotòi ànth-

III. Leggere la storia all’indietro

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ropoi) o da «i Greci», Non v’è menzione mai di pre¬ sunti «colleghi» filosofi^. L’unica apparente ecce¬ zione, un detto attribuito a Eraclito (D-K22 B 40), condanna globalmente Esiodo, Pitagora, Senofa¬ ne ed Ecateo, poiché sarebbe in loro assente il noos («intelligenza»? o semplicemente «buon senso»?). Ora, è chiaro che il «buon senso» in questione non è di tipo

«filosofico»,

e proprio il trovare acco¬

munati questi quattro nomi in un unico insieme tradisce il fatto che mancava in realtà una nozione di «filosofia» come disciplina dotata di una propria identità

specifica.

Platone scrisse in una fase della cultura greca nella quale sapeva di poter disporre di un pubbli¬ co di lettori. Egli era consapevole del fatto che par¬ te del linguaggio al quale ricorreva - il suo voca¬ bolario, la sua sintassi - presentava analogie con i più brevi testi dei sofisti e dei cosmologi, ma la sua neonata abilità a usarlo con scioltezza compositiva, e insieme l’opportunità di farlo leggere, lo indus¬ sero a concepire l’ambizioso progetto di accanto¬ nare e rimpiazzare, con le sue «opere» scritte, quei testi, che era ancora possibile consultare: è un obiettivo che ogni scrittore di trattati originali di teoria filosofica ha perseguito intensamente, dai suoi giorni ai nostri. Per ottenerlo, Platone disponeva di due meto¬ di: poteva descrivere le dottrine dei suoi predeces¬ sori con parole proprie, in termini fuorvianti, ma-

Alle origini della filosofia greca

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gari mettendone a fuoco alcuni aspetti e trattan¬ doli al di fuori del loro contesto d’origine. Come è noto, si comportò così con Eraclito, ri¬ ducendo la sua visione del kosmos a un infinito flui¬ re^; con Protagora, presentando la sua formula dei due lògoi antitetici piuttosto come un attacco ai fondamenti della logica che come descrizione del¬ la realtà del dibattito politico; con Anassagora, im¬ putandogli l’incapacità di porre in relazione il principio del noùs (la «mente») con il processo co¬ smogonico (un giudizio che è per altro recisamen¬ te smentito dagli ipsissima verta di Anassagora; ved. cantra i goffi tentativi di giustificare Platone in KRS, p. 374). Un metodo più efficace, e invero molto inge¬ gnoso, era poi quello di dare vita a «personaggi» impegnati in dialoghi, come su un palcoscenico, e attribuire loro i nomi di pensatori del passato, in modo che servissero ai suoi propri princìpi filoso¬ fici. La caratterizzazione poteva essere benevola, come ad esempio nel caso di Parmenide, per il quale Platone aveva grande rispetto e che, insieme a Zenone, diviene personaggio in un dialogo che da lui prende il titolo. In certo modo lo stesso trat¬ tamento è riservato anche al personaggio di «Pro¬ tagora» neH’omonimo dialogo, sebbene, prima che l’opera abbia termine, gli sia assegnato un ruo¬ lo difensivo nel corso di un ragionamento che si ar¬ ticola conformemente agli interessi filosofici dello

III. Leggere la storia all’indietro

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stesso Platone**. Ma c’è anche il caso di un pensa¬ tore realmente esistito (Gorgia) cui è attribuito il suo nome effettivo e di cui si delinea - ogniqual¬ volta prenda la parola - una breve fisionomia let¬ teraria; tuttavia egli, in seguito, è coinvolto in un ragionamento condotto da un suo presunto allie¬ vo (Callide, in realtà un’invenzione letteraria), con il preciso scopo che quel ragionamento (a sua volta una creazione letteraria di Platone) sia pun¬ tualmente confutato in termini platonici^. O, an¬ cora, tralasciando l’allievo fittizio, Platone può uti¬ lizzare il nome proprio di un pensatore per dare identità al personaggio di un dialogo inventato, il quale si esibisce in un ragionamento che si presta al¬ la confutazione, condotta - nuovamente - in termi¬ ni platonici®. Il successo di questo metodo trova conferma nel fatto che, da allora, lettori e studiosi hanno evidentemente trovato i suoi personaggi «drammatizzati» più attraenti e familiari degli ori¬ ginali stessi, che finirono col cadere nel dimenti¬ catoio. L’alfabetizzazione della lingua greca, dopo ave¬ re assolto al compito primario di registrare in for¬ ma permanente e percepibile alla vista le compo¬ sizioni poetiche orali,

fino ad allora tramandate

per via aurale, aveva inoltre dischiuso la possibilità di comporre documenti in prosa i quali, per ciò stesso, rinunciavano del tutto al sussidio mnemo¬ nico del ritmo, dal momento che la memoria non

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Alle origini della filosofia greca

aveva più la necessità di immagazzinarne il conte¬ nuto. I recenti progressi nel campo dell’elettroni¬ ca ci hanno abituati all’idea che i mutamenti nella tecnologia della comunicazione possono essere re¬ pentini. Ma così non fu al momento della grande trasformazione che ebbe luogo nell’antichità. Per comporre scorrevolmente in prosa non si poteva fare a meno di ricorrere ai modelli poetici con cui sin dalla nascita si aveva consuetudine, rappresentad in Ionia essenzialmente da Omero e da Esiodo. Così Ecateo ed Erodoto, i primi scrittori greci di prosa di una certa estensione, prescelsero per i lo¬ ro scritti contenuti che riflettevano il modello omerico, rispettivamente, la descrizione di paesi stranieri (cfr. l’Odissea), e una guerra (cfr. V Iliade) ; le strutture formali che adottarono furono quelle, parimenti omeriche (per non dire esiodee), della narrazione, del catalogo e della allocuzione retori¬ ca. Anche il loro successore ateniese assunse come riferimento paradigmatico Omero per l’argomen¬ to della sua propria opera, cioè una guerra - come egli espressamente afferma - di proporzioni supe¬ riori a quella narrata nei poemi omerici, e i discorsi aH’interno della sua narrazione costituiscono, ri¬ spetto al modello retorico di Omero, un adatta¬ mento finalizzato all’analisi e al ragionamento'^. La trama narrativa (mythos) che, insieme al rit¬ mo, costituiva un ingrediente necessario per la fis¬ sazione mnemonica deWepos, era anche - nell’am-

III. Leggere la storia all’indietro

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bito del racconto orale - l’elemento più facile da trasporre in prosa, ed è per questo che la «storia», intesa come raccolta sistematica di una considere¬ vole quantità di documenti, ebbe in Grecia il pri¬ mato sulla «filosofia». Come si è già osservato, la conversione della sintassi e del lessico propri di un linguaggio poetico e narrativo nella sintassi e nel lessico idonei a una prosa espositiva di idee astrat¬ te era un’impresa di gran lunga più ardua, in gran parte realizzata negli scritti di Platone, ma com¬ pletata solo in quelli di Aristotele. A questo fine i preplatonici erano ricorsi all’e¬ sametro, o anche alla sentenza orale (debitamente «epicizzata»), cercando di adattare lo stile di en¬ trambe le forme al ragionamento astratto, cioè un ragionamento che intendeva introdurre «nomi» di concetti, in luogo dei nomi di individui, quali sog¬ getti dell’enunciazione. Come ateniese, Platone ebbe a disposizione un modello alternativo, ovvero il teatro, sia tragico che comico. Si trattava pur sempre di una forma com¬ positiva poetica, ritmica, ma agli occhi di un autore intenzionato a esprimere concetti, e nel contempo deciso a farlo in prosa, essa presentava due vantag¬ gi. Offriva paradigmi retorici, ogni volta che un per¬ sonaggio pronunciava un discorso sulla scena, e an¬ che un modello per l’argomentazione, quando quel personaggio stabiliva un dialogo con un secondo attore (e talora anche con un terzo).

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Alle origini della filosofia greca

Una tradizione attendibile (Diogene Laerzio 3,6) informa che Platone, nella sua carriera di scrittore, esordì come poeta - autore di tragedie ma che in seguito rinunciò all’impresa, proprio al¬ lora volgendosi - verisimilmente - al dialogo in prosa, come a mezzo ottimale di espressione. Il pas¬ saggio dall’una all’altra forma non fa che riflettere la fase di transizione nella quale in Grecia l’oralità si tramutò in scrittura. L’orientamento che quel modello offriva, co¬ munque, andava ben oltre le mere forme retoriche del monologo e del dialogo. Il teatro ateniese si fondava sulla convenzione secondo cui dialoghi e discorsi erano messi in bocca a personaggi recepi¬ ti dall’uditorio come storici. Nella maggior parte dei casi, a dire il vero, la loro «storicità» coincide¬ va con ciò che oggi noi chiamiamo «mito», un re¬ pertorio mnemonico tramandato oralmente, che nel corso del tempo andò soggetto a variazioni e a manipolazioni orali. Le società orali accettano co¬ me ovvia questa mancanza di una versione canoni¬ ca: al cantastorie è consentito apportare modifiche al racconto delle imprese del suo eroe o della sua eroina, rispetto a una versione precedente. (La ritrattazione, in Stesicoro, della storia della fuga di Elena con Paride a Troia [fr. 192 Page-Davies] co¬ stituisce un esempio lampante di questa pratica). Il pubblico che assisteva alle rappresentazioni dell ’Agamennonedì Eschilo o de\VEdipo redi Sofocle non

III. Leggere la storia all’indietro

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era disturbato dalla mancata fedeltà di tale opera a una versione omerica «originale». Bastava ad esso che Agamennone continuasse a essere il duce del¬ le armate greche nella guerra di Troia, a vivere a Micene e ad essere sposato a Clitennestra; e che Edipo restasse un re di Tebe, che per disgrazia s’era unito in matrimonio con la propria madre. La flessibilità, contenuta nei limiti di una forma ar¬ chetipica, è il segno tipico della tradizione orale. Ma la libertà di manipolare entro certi limiti parole e azioni di personaggi del mito orale (una manipolazione che stava poi alla base della «origi¬ nalità» del poeta tragico) poteva anche concerne¬ re personaggi reali della storia recente. Il caso di Serse, rievocato e rappresentato nei Persiani

di

Eschilo, costituisce in tal senso un celebre esem¬ pio. La figura patetica e ormai priva di vigore che prende questo nome nel finale della tragedia non può aver conservato molti punti in comune col monarca assoluto che fu alla testa della spedizione persiana in Grecia, e che ricondusse l’esercito in Asia dopo avere lasciato una parte delle truppe a occupare il territorio nemico. Ma, una volta inven¬ tato, questo personaggio di teatro divenne esso stesso parte della storia: senza una documentazio¬ ne scritta disponibile, che rendesse possibile la ve¬ rifica - Erodoto scrisse di lui negli anni che segui¬ rono alla rappresentazione tragica - esso fu in gra¬ do di influenzare già i primi resoconti relativi a

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quella fase storica, e ha continuato a farlo sino a OggiQuanto al teatro comico, la medesima conven¬ zione consentiva addirittura di piegare alle esigen¬ ze dell’invenzione scenica personalità ateniesi rea¬ li, defunte o ancora viventi. Ne Gli adulatori {Kòlakes) di Eupoli il bersaglio satirico è la ricca casata di Callia, figlio di Ipponico, e il gruppo di intellet¬ tuali cui egli era solito accompagnarsi, con l’inclu¬ sione di Protagora, è qui raffigurato come una con¬ grega di parassiti voraci (frr. 156-91 K-A). Più vigo¬ rosamente, i Demi (Dèmoi) di Eupoli appioppavano il nome di «Nicia», ancora vivente, a un personag¬ gio che, nella finzione comica, richiama in vita So¬ lone, Milziade, Aristide e Pericle per interrogarli, descrivendo loro la deplorevole situazione dell’Atene contemporanea e invitandoli a emettere un giudizio (frr. 99 -146 K-A). In un’epoca in cui la tra¬ dizione orale non aveva ancora ceduto il passo a una cultura documentaria, tali «invenzioni» pote¬ vano, nel ricordo, diventare parte della «storia». Lo scenario domestico, e talora anche le per¬ sonalità che Platone dispone nei suoi dialoghi, so¬ no per lo più attinte alla commedia: il Protagora, un esempio illuminante, ricalca da vicino la mise en scè¬ ne de Gli adulatori di Eupoli. E lo stesso può dirsi della forma retorica che egli adotta: un rilevante esempio ne è il Critone (sebbene sia un aspetto to¬ talmente ignorato nella messe di moderne tratta-

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zioni su quest’opera), dove la personificazione del¬ le «Leggi» (Nòmoi) è modellata sulle corrispon¬ denti figure messe in scena da Gratino nella com¬ media omonima (frr. 133-35 K-A), al pari, forse, del discorso, ora svolto in termini platonici, che es¬ se pronunciano [50 a 6 sgg. N.d.T.]. Quest’uso che Platone fa di convenzioni già collaudate nel campo della composizione poetica ad Atene per i suoi fini prosastici conduce a una conclusione inevitabile. I nomi di persone, altri¬ menti note come figure storiche, che egli inserisce nelle sue composizioni, sono da interpretare in rapporto al linguaggio e alle azioni inventati per essi. Si deve al tempo stesso ammettere che le sue invenzioni richiamassero con forza la memoria delle persone autentiche. Questa memoria forniva l’archetipo, ma non necessariamente i dettagli di una situazione o di un discorso. «Socrate» resterà brutto e scalzo, e concentrato al limite della stra¬ vaganza sul comportamento del linguaggio e sul valore delle parole. Ma le convenzioni impiegate non ci portano a credere che egli abbia davvero in¬ terrogato, o che sia stato interrogato a sua volta da Eutifrone o Critone o Diotima o chi per loro, e meno ancora che egli abbia realmente detto quel che Platone gli fa dire. Neanche ci è richiesto di credere che, per esempio, un dialogo socratico svoltosi con Trasimaco in un ambiente domestico oppure in carcere con un gruppo di devoti segua-

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ci abbia mai avuto luogo veramente, se non nella fantasia filosofica di Platone. Era tanto più sempli¬ ce per lui allora enfatizzare il ruolo del suo «Socra¬ te» perché, a parte il fatto che Socrate era al sicuro, nella tomba, l’assenza di qualsiasi documentazione gli consentiva una completa libertà®. Queste con¬ versazioni e discorsi in prosa, improntati a preesi¬ stenti modelli teatrali, sono da includere in quella categoria di composizioni identificate da Aristotele {Poetica, 1,47 b 9 -11 e fr. 72 Rose) come «mimi». Opere di questo tipo, ancora per testimonian¬ za di Aristotele (ibid.), sono comunemente attri¬ buite a Sofrone e a Senarco. Ma nel momento stes¬ so in cui menziona i loro nomi, Aristotele deplora il fatto che «manca una definizione comune che si possa applicare sia alle loro composizioni sia ai logoi socratici». Ai suoi occhi, in sostanza, le une e gli altri rappresentavano un unico (anche se non iden¬ tificato) genere compositivo che, come può evin¬ cersi dal contesto nel quale questa osservazione ca¬ de, è simile a ogni altra composizione poetica per l’essere una forma di «mimesi», eppure distinto dalla poesia perché privo di ritmo. Comunque si decida di tradurre l’assai discusso termine mìmesis, l’unica cosa che non può essere riferita ad esso è il tipo di narrazione che noi definiremmo «storica». Il fatto che Aristotele dia una simile valutazione dei lògoi socratici in generale, senza fare espressamen¬ te il nome di Platone, non è motivo valido per tra-

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scurare Tappartenenza di quest’ultimo al medesi¬ mo gruppo di «autori». Come già si è osservato, il modello fornito dal teatro ateniese non si limitava ai dialoghi. Innanzi¬ tutto i personaggi del teatro tragico indulgono piut¬ tosto al discorso retorico che alla conversazione (al contrario di quanto accade nel teatro comico), che molto spesso assume la forma difensiva di spiega¬ zione in merito a un’azione intrapresa, oppure a una decisione da prendere, rivolta a un coro che ri¬ veste il ruolo di giuria, intenta ad ascoltare un di¬ scorso apologetico prima di esprimere commenti. Nelle Eumenidi di Eschilo la scena si svolge di fatto in un tribunale. In numerose opere di Platone il dialogo è sospeso a vantaggio del modello retorico, e in una di esse, la celebre Apologia di Socrate, la con¬ venzione della scena in tribunale è adottata dal principio alla fine. Nessun’opera mai ha avuto mag¬ gior peso nell’imprimere un marchio alla storia ar¬ caica della filosofia greca, non ultimo nel fatto di alienare, da questa storia, Socrate. Tuttavia resta es¬ senzialmente un «mimo», tanto più perché — a par¬ te il debito verso il modello teatrale - segue da vici¬ no certi moduli convenzionali già adottati in pre¬ cedenza da Gorgia, nella Apologia di Palamede (D-K 82 B Ila)®. Quest’opera, che rielaborava libera¬ mente una ben nota figura «mitica» (cioè «stori¬ ca»), al modo del teatro, aveva dalla sua anche l’in¬ dubbio fascino della rievocazione di una pratica

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corrente nei tribunali di Atene. I ragionamenti che vi si sviluppano sono comunque quelli che aveva in mente Gorgia, e non il Palamede del mito, e questo stesso genere di considerazione si deve fare anche a proposito dell’opera platonica. E’ la sua propria voce a parlare, quando il suo «Socrate» arringa la giuria. Ma quella voce nel contempo rievoca il ri¬ cordo di un uomo ormai defunto, un ricordo fog¬ giato sugli interessi del momento attuale. In breve, il trattamento, negli scritti di Platone, di «personaggi» altrimenti pensati come figure sto¬ riche, ci pone di fronte a un genere di composi¬ zione con il quale non abbiamo consuetudine (e altrettanto può dirsi del teatro greco nel suo com¬ plesso). Non è un fatto reale e neanche una fin¬ zione, ma un procedimento mnemonico in cui il ricordo viene liberamente riadattato in conformità con gli interessi del rievocatore: dunque un proce¬ dimento che tipicamente caratterizza, in una cul¬ tura orale, il comportamento del linguaggio me¬ moriale, convertito all’uso letterario in una fase in cui 1 oralità stava cedendo il passo alla scrittura. Si può immaginare un caso analogo di un filosofo po¬ litico del nostro secolo che esponesse le proprie opinioni personali nella forma di un dialogo fittizio tra Disraeli e Gladstone, idonei rappresentanti rispettivamente di teorie conservatrici e liberali, tratteggiandone le personalità conformemente ai ruoli tradizionalmente associati ad essi, ma in so-

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Stanza avvalendosi delle loro «voci» per esporre idee e problematiche sue proprie, oppure, in al¬ ternativa, di un dialogo filosofico di questo stesso tipo i cui protagonisti siano Heidegger e Wittgen¬ stein. È impossibile oggi realizzare una simile ope¬ ra in questo stesso modo, come lo è stato già a par¬ tire dagli anni che seguirono alla morte di Platone, per il motivo che i personaggi rievocati, e il loro pensiero, furono non soltanto documentati, ma di¬ vennero essi stessi parte della «storia», con ciò pri¬ vando di attendibilità tali invenzioni. Tuttavia, ancora oggi affascina l’incanto di Pla¬ tone, e condiziona ogni giudizio critico inerente a quello che si configura come il più sfuggente tra i periodi storici. L’effetto complessivo è stato quello di indurre gli studiosi di filosofia a scriverne la sto¬ ria all’indietro. Dopo Platone, l’esistenza di una documentazione completa e disponibile delle ope¬ re dei filosofi ha avuto come ovvia conseguenza che la storia della filosofia sia scritta in avanti, dal momento che ogni opera è via via collocata nel po¬ sto che le spetta. In questo senso ci attendiamo di familiarizzare ad esempio con Hume innanzitutto leggendo ciò che egli effettivamente disse, e non la critica che ne fece Kant per poi riandare all’origi¬ nale. Il destino dei preplatonici, così come il loro j~j(3Qj“do è sopravvissuto fin nella tarda antichità ed è stato fatto rivivere nei tempi moderni, ha avuto per lo più un corso differente.

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2. ARISTOTELE E TEOERASTO

Per definizione, i filosofi creativi non sono sto¬ rici, né studiosi di storia. Uno degli errori ricor¬ renti nelle trattazioni specialistiche su Platone è quello di presumere che per il fatto d’essere un grande filosofo egli sarebbe stato anche storico «veritiero», cioè attendibile. Ma in realtà i pensa¬ tori trattano dei propri predecessori non con fina¬ lità di ordine storico, bensì in reazione ad essi: è un dato evidente e facilmente verificabile, se solo si considerino gli scritti dei filosofi postplatonici, a partire da Aristotele per arrivare a Kant, a Russell e a Wittgenstein. Questo costume intellettuale non danneggia la storia della filosofia postplatonica nel suo com¬ plesso. Una reazione, infatti, sia che assuma la for¬ ma della selezione, del rifiuto, della correzione o della modificazione, si può sempre controllare confrontandola con gli originali, che è quanto di¬ re con il preesistente corpus di teorie filosofiche che viene contestato. La reazione è giudicata per ciò che rappresenta, ovvero una reazione, appun¬ to, e non già una testimonianza storica. La storia del pensiero europeo continua a essere scritta in un modo che consente a ogni pensatore d’essere valutato in maniera appropriata. Ma sarebbe possibile fare altrettanto nel caso dei preplatonici? Come valutare un pensatore mi-

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lesio, che potrebbe magari aver composto un testo di qualche tipo, del quale però non resta alcun frammento? E come valutare un Socrate, di cui nulla rimane? Diventa irresistibile - come s’è già osservato - la tentazione di lasciarsi guidare da ciò che altri affermarono retrospettivamente. E pro¬ prio tali osservazioni e giudizi posteriori si confi¬ gurano come la cornice entro la quale si deve col¬ locare il materiale - in forma di citazioni - a nostra disposizione: esse istituiscono le idee-guida desti¬ nate a creare il contesto di ciò che era stato detto nei due o tre secoli precedenti. Platone nei suoi «mimi» aveva attinto al mo¬ dello del teatro per far rivivere il passato nel pre¬ sente, che era poi il suo presente. Aristotele, che scrisse e insegnò in una fase più evoluta dell’alfa¬ betismo in Grecia, abbandona l’oralità implicita nell’espediente teatrale, e predilige una prosa espositiva, con uno stile che ha per fondamento il predominio del lettore sull’ascoltatore. Ma persi¬ no una prosa di tal genere non riesce del tutto ad abolire la situazione dialogica, nel cui ambito Ari¬ stotele immagina abbia luogo l’esposizione, se le sue affermazioni programmatiche sono general¬ mente precedute da una rassegna di dòxai, le «opi¬ nioni» di altri, cioè i predecessori, che egli sente di dover contestare e che fungono da contrasto ai suoi propri interventi correttivi, con un procedi¬ mento assai vicino a quello di Platone, che però in-

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troduce i predecessori «di persona», e in un con¬ fronto diretto. La nozione di filosofìa come fenomeno storico che richiede una documentazione specifica non ri¬ sale ai preplatonici {supra, cap. II). Lo stesso Pla¬ tone, nel concepire la filosofìa come un’attività idonea a definire l’intento della sua Accademia, ed eleggendone a rappresentante il suo «Socrate», non giunse a oggettivarla tuttavia come fenomeno con un passato storico da poter commemorare. Né poteva arrivare a tanto, impegnato com’era a in¬ corporare il passato nel presente. È con Aristotele che la filosofìa comincia a essere concepita come oggetto di trattazione storica, ma è soltanto un ini¬ zio. Egli è capace di guardare indietro ai nomi dei Greci che è pronto a classificare come pensatori e come suoi predecessori. Ma ogni cosa che dice di loro esprime una sua personale reazione ad essi. Le loro idee non sono ancora valutate in maniera appropriata, e in rapporto al linguaggio originale che essi utilizzarono, bensì descritte in termini tali da giustificare il presupposto secondo cui avrebbe¬ ro anticipato in modo rudimentale elementi del suo proprio sistema. In particolare, rispetto a Pla¬ tone egli è più incline a prestare attenzione ai cosmologi preplatonici, e mostra una maggiore sim¬ patia per essi. Platone, attraverso la voce del suo «Socrate», s’era sforzato neìV Apologia e nel Fedone di distaccarsi da loro e da tutte le loro opere. Cer-

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to è possibile che il termine «presocratico», con tutta la fallacia cronologica che comporta, non sa¬ rebbe stato inventato senza l’influsso di questi due scritti. Ma, nonostante le differenze, la pratica di me¬ scolare insieme il passato e il presente è comune a entrambi gli scrittori, e può essere vista come un «residuo» dell’atteggiamento orale della coscienza. Nell’oralità, dove il ricordo sostituisce il documen¬ to, l’abitudine a fondere la memoria passata col presente è endemica e, quando ciò accade, l’espe¬ rienza attuale rimodella il ricordo del passato, poi¬ ché non esiste una documentazione storica che consenta di controllare e correggere un simile pro¬ cesso. Il potere fondamentale di una tradizione orale risiede nella conservazione delle norme com¬ portamentali e delle leggi. Tuttavia, i racconti nei quali questo materiale si trova incorporato, e per il cui tramite è indirettamente commemorato, van¬ no soggetti alla regola orale che consente all’esperienza attuale di riplasmare progressivamente, en¬ tro determinati limiti, un immaginario passato. Questo fenomeno fa sì che quel passato eserciti un controllo sul presente in atto, ma al tempo stesso ottiene che quello stesso presente entri in gioco e condizioni a sua volta il passato. Dopo Aristotele, la speculazione e le storie del pensiero speculativo, fissate per iscritto in docu¬ menti, per lo più abbandonarono quest’uso. Ma

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nel ricostruire questa storia, gli scrittori ellenistici e romani, al pari dei loro colleghi moderni, trova¬ rono difficile resistere all’incanto esercitato dalle imponenti opere di Platone e di Aristotele. Le qua¬ li, dopo tutto, quando considerate come parte del¬ la storia della parola scritta, misero in atto una ri¬ voluzione dal potere esplosivo e dominante. Nien¬ te di simile c’era mai stato prima, né in Grecia né nelle civiltà pregreche. Nel mondo dell’intelletto, l’autorità primaria poggiò da quel momento su di esse. La storia dei preplatonici fino alla morte di Socrate sarebbe stata ampiamente scritta sotto la guida dei polemici giudizi espressi da Platone e da Aristotele, diretti contro i loro predecessori. La sto¬ ria, dunque, sarebbe stata scritta all’indietro. Poiché le affermazioni di Aristotele erano espo¬ ste in un modo che sembrava fornire un qualche tipo di cornice storica - la prima nel suo genere parve ovvio al suo allievo Teofrasto, quando si de¬ dicò alla ricostruzione di una storia del periodo preplatonico, sistemare quei dati in forma esplici¬ ta, e incorporarli nel primo volume della sua ope¬ ra, le Opinioni dei fisici Questo sosteneva il mag¬ gior carico di interpretazione «storica» (cioè «filo¬ sofica») da parte dell’autore, poiché vi si trattavano i presunti «princìpi primi» (archài) dei cosmologi, ovvero i fondamenti delle loro dottrine filosofiche, visti attraverso il filtro aristotelico. Fu questa l’ope¬ ra destinata a dominare la successiva scrittura e ri-

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scrittura di quella fase della filosofia greca arcaica, ancora in età ellenistica e romana. Apponendovi come titolo la parola Dòxai («Opinioni»), Teofrasto si atteneva all’uso aristotelico - già sopra osser¬ vato [p. 59, N.d.T] - di introdurre le proprie af¬ fermazioni come repliche a quanto, nel passato, «era parso» {edòkei, èdoxé) ai suoi predecessori. Sic¬ ché il titolo stesso sottende il presupposto che ciò che vi è descritto altro non è che un’anticipazione (sia pure rudimentale) di quello che sarà poi ac¬ cessibile al Liceo. I restanti volumi di quest’opera (ma verisimilmente si sarà trattato non più che di «sommari») trattavano i dettagli delle cosmogonie che erano state teorizzate in conformità ai princì¬ pi enunciati in precedenza. In che misura gli antichi storici del pensiero ab¬ biano adottato un metodo rigoroso di consultazio¬ ne dei documenti originali è una questione ancora da risolvere. Da ciò che Platone e Aristotele hanno da dire riguardo ai propri predecessori, si trae sin troppo spesso l’impressione che essi attingano in maniera imprecisa a una tradizione orale, a volte in¬ centrata non tanto sugli originali veri e propri con¬ siderati nella loro complessità, quanto piuttosto su approssimativi resoconti di seconda mano, e che fa uso di una fraseologia per così dire «in corto cir¬ cuito», al modo, insomma, della tradizione orale, quasi che l’autorità - necessariamente unica - della fonte documentaria non fosse ancora pienamente costituita.

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Rimane da indicare qualcosa del linguaggio, e dunque dell’ideologia, che Aristotele applica ai pre¬ platonici quando si esprime in reazione ad essi, un linguaggio e un’ideologia che riflettono il suo pen¬ siero più che il loro. Cominciamo con i termini «fi¬ losofo» e «filosofia». I dialoghi di Platone investo¬ no un considerevole capitale letterario nell’inten¬ to di fissare stabilmente questi termini per definire il genere di attività intellettuale concorde con il modello platonico, inoltre conferendo a tale atti¬ vità lo status eletto che merita. L’argomento ad¬ dotto da Platone {Repubblica, 5, 473 b sgg.), che il philòsophos è il vero «re» dello stato, esprime in sin¬ tesi il programma sotteso all’uso del vocabolo. Le istanze del nuovo arrivato, il philòsophos, sono con ciò ingegnosamente corroborate in virtù del lega¬ me con un titolo antiquato, per non dire arcaico, quello di «re». Essere conforme al modello plato¬ nico significava essere conforme al modello adot¬ tato dall’Accademia, fondato su un programma di istruzione e di pensiero che agli occhi di Platone risultava ben distinto dai programmi offerti da al¬ tri sedicenti istruttori, e anche di gran lunga mi¬ gliore. Philosophia sarebbe stata allora l’etichetta di¬ stintiva applicata a questo tipo di istruzione. Plato¬ ne tuttavia non disdegnava di conferirle una dignità che mutuava da un remoto passato. La letteratura risalente al V secolo a.C. fino al¬ la morte di Socrate non offre esempi dell’uso di

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questo nome astratto. Il nomen agentisphilòsophos ri¬ ferito a individui che praticano una professione specifica ricorre (per la prima volta?) neWElena di Gorgia (D-K 82 B 11,13). Un detto di Eraclito, ci¬ tato da Clemente Alessandrino (D-K 22 B 35), uti¬ lizza il vocabolo con valore non professionale, ma proprio questa attestazione venne esclusa da Wilamowitz^h Gli intellettuali (incluso Socrate), così comunemente scherniti nella commedia, sono de¬ finiti sophistài e phrontistài (con i relativi composti), mai philòsophoi^^. Il verbo philosophèin ricorre in Erodoto (1,30) e in Tucidide (2,40), ma - di nuo¬ vo - non nell’accezione professionale. E’ difficile sfuggire alla conclusione che il contesto professio¬ nale fosse introdotto per questi termini da Platone, per identificare nella sua unicità la disciplina acca¬ demica. Da quest’uso il vocabolo, sotto l’effetto della malìa platonica, finì col designare un’attività importante della cultura europea, la «filosofia», che per noi è divenuta familiare. Aristotele, accogliendo il termine «filosofia» quale marchio di fabbrica condiviso dall’Accade¬ mia e dal Liceo, ritenne opportuno riferirlo ai pre¬ platonici, per associarli a una attività professionale alla quale in realtà furono estranei. Questo li tra¬ sformò nei suoi predecessori, quantunque imper¬ fetti. La filosofia, come concetto, si può considera¬ re quasi una sorta di camicia di forza che Aristotele tagliò loro addosso, anche con pieghe e maniche.

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che consentivano svariate possibilità di accomo¬ damento. Tanto per cominciare, apportando migliorie al modello platonico della «filosofia» Aristotele, con più sistematica attitudine mentale, propose di divi¬ dere in parti l’argomento: due di esse sarebbero state la «filosofia prima» (che può identificarsi con la «metafisica», il titolo che egli, o i suoi editori, de¬ cisero di apporre a quelle speculazioni), e la «filo¬ sofia fisica» o «fisica», incentrata sulla razionalizza¬ zione di ciò che chiameremmo l’ambiente mate¬ riale e fisico, il mondo della «natura» {physis). I preplatonici vennero poi inseriti in questa sezione «fisica»: divennero filosofi fisici, il cui ruolo era quello di scoprire, in modo però goffo e rudimen¬ tale, i princìpi primi della «fisica». Una conseguen¬ za indiretta (e sfavorevole) dell’averli confinati en¬ tro questa categoria è stata che i loro contributi al¬ le teorie dell’evoluzione biologica e culturale, e della storia del progresso umano, sono stati am¬ piamente ignorati^^. Nell’ambito della fisica e della «filosofia fisica» così suddivise, lo schematismo aristotelico istituì la dottrina delle quattro cause: materiale, efficiente, formale e finale. Queste ultime due sono trattate per lo più a partire da quel contesto di teorie pla¬ toniche da cui sono in sostanza mutuate, benché non manchino sporadici tentativi di ricondurle ai preplatonici. Quanto alle prime due invece, si as-

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sume siano state di interesse centrale per questi ul¬ timi^'*. La causa materiale dispone di una sua pro¬ pria terminologia, inerente alla sostanza originaria {hypokèimenon), alla materia {hyk, alla lettera «bo¬ sco»), ai quattro elementi (stoichèia), che si stacca¬ no simmetricamente dalla materia con un processo di separazione, attraverso «opposizioni» (enantiòtetes) che generano trasformazioni qualitative nel so¬ strato. Un simile processo richiede un’origine (causa) identificata come «movimento» (sarem¬ mo tentati di dire un «principio energetico»), che rappresenta la seconda delle quattro cause, o cau¬ sa efficiente, e ha l’effetto di spingere due degli elementi verso l’alto, e due verso il basso. Da allora, qualunque cosa i preplatonici possa¬ no effettivamente avere detto, è stato loro affibbia¬ to questo vocabolario, sicché essi vengono presen¬ tati come i teorici di una materia originaria indefi¬ nita dalla quale si staccano in qualche modo i «contrari» o, in alternativa, di una materia che con¬ sta di una sostanza inclusa tra il primo e il quarto degli elementi aristotelici, che sono posti in reci¬ proca opposizione, come contrari, quando vengo¬ no «separati» e sospinti secondo adeguati movi¬ menti. O, in ogni caso, è questo il genere di cose che, secondo Aristotele, i preplatonici tentarono di dire o dovrebbero aver detto. Il risultato è la rappresentazione dei preplato¬ nici alle prese con problemi che in realtà non esi-

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Stavano per essi, e provvisti di un lessico, per trat¬ tare tali problemi, che non può effettivamente ri¬ produrre i loro ipsissima verta. Quali che fossero le questioni reali che intesero eventualmente affron¬ tare, esse vengono offuscate o ignorate del tutto. Si pensi per esempio a quanto spesso Aristotele la¬ menti il fatto che i primi pensatori, dai Milesii agli atomisti, non furono capaci di trovare una causa plausibile del «movimento». Ma non gli viene in mente che - data la loro particolare visione del kosmos - non ne avevano bisogno; che un concetto del genere sarebbe risultato estraneo in rapporto al linguaggio del quale si servivano. Lo stesso vale per le nozioni di «elementi» e dei loro «contrari». È vero che la terminologia di «caldo/freddo», «secco/umido», «luce/oscurità» affiora per la pri¬ ma volta nel testo di Anassagora (D-K 59 B 4), co¬ me anche la separazione di questi elementi (co¬ munque siano stati concepiti), ma senza alcun ri¬ ferimento alla opposizione come a un principio (ibid.). Quest’ultimo perfezionamento si deve ad Aristotele, ed è quindi introdotto anacronistica¬ mente, assieme al lessico proprio di Anassagora, nella discussione relativa agli inizi di quella che sarà chiamata «filosofia». Dietro a questo metodo pseudo-storico di trat¬ tare il passato, si cela il sostegno offerto dalla psi¬ cologia platonica, secondo cui l’individuo non educato alla filosofia elabora i suoi primi giudizi af-

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fidandosi ai sensi. In tal modo egli sviluppa im¬ pressioni (dòxai) che devono essere corrette e raf¬ finate dalla ragione {episteme, noùs). L’antinomia platonica è troppo nota per richiedere ulteriori commenti^®; l’unica cosa che va sottolineata è che il termine àisthesis (con il verbo corrispondente) non è attestato nei frammenti superstiti dei prepla¬ tonici. Poiché i sensi sono per noi veicolo di cono¬ scenza di cose materiali, non di idee, pareva natu¬ rale ad Aristotele che questo processo psicologico, connaturato all’individuo, dovesse essere riabilita¬ to in rapporto a quell’epoca passata, nel corso del¬ la quale la ricerca filosofica aveva alla fine prodot¬ to un suo sistema. Un interesse verso la «materia», ovvero la sostanza delle cose materiali, per il fatto di essere la prima esperienza naturale dell’uomo, dovè costituire anche l’interesse originario del pri¬ mo filosofo. Questa immagine dei preplatonici fu meticolo¬ samente trasferita da Teofrasto nel suo manuale, un’opera che riassunta, epitomata, riorganizzata e talora espurgata, sembra avere influenzato - diret¬ tamente o indirettamente - tutti i successivi riferi¬ menti alla speculazione preplatonica. E tale essendo la cornice storica che Aristotele non esitò a creare per la comprensione dei cosmologi, è interessante notare la cautela che usò nel trattare i problemi inerenti al Socrate storico. «Due sono (le cose) che si possono attribuire a So-

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crate con giustizia {dikàios): i ragionamenti per analogia e (la pratica) di dare definizioni univer¬ sali» {Metafisica, 13, 1078 b 27 sgg.)- Questa for¬ mulazione rispecchia i modi giudiziosi e scettici di un Tucidide. Un’enfasi considerevole risiede nella precisazione restrittiva dikàios. Aristotele intende dire, evidentemente, che sarebbe sbagliato oltre¬ passare questo circoscritto riconoscimento, come sarebbe doveroso invece se i dialoghi platonici fos¬ sero valutati alla stregua di documenti storici.

3. LA VERSIONE DEI MODERNI

Durante i secoli nei quali il controllo della Chiesa cattolica nell’Europa occidentale fu assolu¬ to, la nozione di «filosofia» come fenomeno stori¬ co da interpretare e prendere in esame sulla base di criteri cronologici o biografici non ebbe più vi¬ gore. Dopo tutto era stata un’invenzione pagana. D’altro canto, raffermarsi della dottrina cristiana quale proclamazione assoluta della verità rivelata sembrava rendere obsoleto un simile concetto. In un’età di crescente scetticismo, la sua rina¬ scita fu contrassegnata dalla pubblicazione, a Lon¬ dra, nel 1656, di A History ofPhilosophy di Thomas Stanley. La terza edizione, del 1701, conteneva un profilo biografico dell’autore e, nel 1711, una tra¬ duzione latina pubblicata in Germania con il tito-

III. Leggere la storia all’indietro

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lo Historia philosophiaerese quest’opera disponibile anche ai lettori del continente. Era apparentemente il primo libro di questo genere apparso nell’Europa moderna, e come tale valse a riabilitare nella coscienza dei moderni la nozione di quel tipo di storia alla quale il volume era consacrato. L’influenza che esercitò può essere stimata anche soltanto dal fatto che creò l’esigenza di una versione in latino, ancora lingua franca degli intellettualli dell’Europa continentale. Il metodo seguito era del tutto acritico, poiché quel testo si fondava ampiamente sulle Vite dei filoso¬ fi, composte in data incerta, nel periodo pagano, da Diogene Laerzio (sotto il cui nome comunemente si tramandano). Se quest’opera, unica sopravvissuta da quei secoli in cui la storia della filosofia era con¬ siderata una branca importante del sapere, era sta¬ ta severamente giudicata come compilazione acriti¬ ca, si deve comunque tener conto che essa possie¬ de una qualità: è un’opera superstite, il cui testo originale non andò perduto, e dunque idonea a es¬ sere utilizzata come fonte diretta, non appena ri¬ nacque l’interesse per questa disciplina. Era in¬ somma la prima, quanto ovvia, testimonianza alla quale Stanley potesse rivolgersi. Alla pubblicazione della versione latina a Lip¬ sia fece seguito, 32 anni più tardi, nella stessa città, l’edizione latina della Historia critica philosophiae di J. J. Brucker, opera in 6 volumi, a sua volta tradotta

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in inglese, e pubblicata a Dublino nel 1792: A History ofPhilosophy from theEarliest Times, Beinga Translation of thè Above by W. Enfield. La stessa versione riapparve a Londra nel 1837, con il nome di Enfield. Queste due opere, curate da un inglese e da un tedesco, grazie al lavoro di traduzioni incrociate, instaurarono un vero e proprio controllo intellet¬ tuale sulla nozione di «filosofia» come soggetto di trattazione storica. Ma andarono anche oltre, nell’assumere che essa fosse un soggetto propriamen¬ te greco. Per Stanley - se si esclude la breve sezio¬ ne della sua Storia dedicata ai «Caldei» - la filoso¬ fia è un fenomeno greco. La sua storia è limitata ai Greci, ed egli non avverte la necessità di definire più specificamente il suo argomento. I primi 3 volumi di Brucker si attengono a que¬ sta restrizione, ma nel quarto l’autore si accinge a superarla, per affrontare ciò che egli definisce la Historia critica philosophiae a restauratione litterarum ad nostra tempora. Questo ampliamento gli con¬ sente di menzionare tra gli altri Cartesio, Leibniz, Gassendi, ma in un contesto che s’incentra retro¬ spettivamente sui loro rapporti con le scuole di pensiero greche. Perciò la storia di questa disciplina, al suo diffondersi in Europa, continuò a essere letta all’indietro, sia con l’utilizzare il resoconto con cui Diogene Laerzio ricostruiva speculazioni preceden-

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ti di almeno nove secoli, sia anche in ragione di un atteggiamento schematico che pretendeva di com¬ prendere i pensatori moderni alla luce dei Greci. Tra il 1818 e il 1831, nell’Università di Berlino recentemente istituita, G. W. F. Hegel tenne una se¬ rie di lezioni sulla storia della filosofia, pubblicate solo dopo la sua morte^®. Una volta di più, l’inte¬ resse era incentrato essenzialmente sui Greci, e l’e¬ sposizione intendeva propriamente illustrare l’ef¬ ficacia della teoria dialettica della storia, propu¬ gnata dallo stesso Hegel (tesi, antitesi, sintesi). La trattazione, comunque, procedendo dai preplato¬ nici fino a Socrate e ai suoi successori, ha il non tra¬ scurabile merito di offrire della storia una lettura in avanti. Vi si fa anche qualche tentativo (imperfetto, se si considera che non esisteva una raccolta dei ve¬ ri e propri frammenti) di rappresentare in termini appropriati la speculazione più antica, come qual¬ cosa che non semplicemente prepara ciò che viene poi, ma addirittura, in certo senso, lo genera. La storia, come Hegel la concepiva, era il pro¬ dotto dell’intuizione filosofica. Non appena l’età della filologia classica prese l’abbrivo, divenne l’in¬ tento di Eduard Zeller accantonare l’intuizione e confrontarsi con quelle che si pensava fossero le fonti storiche autentiche, sulla base di una solida verifica filologica. Per una storia che riguardasse Platone e Aristotele, questo metodo naturalmente non poneva problemi: i testi erano lì, per essere let-

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Alle origini della filosofia greca

ti, compendiati e interpretati. Ma che dire dei pre¬ platonici, per i quali nessun testo era disponibile? I primi due volumi de La filosofia dei Greci ap¬ parvero a Tubinga nel 1846. Muovendo da criteri filologici, cioè testuali, le testimonianze primarie per ricostruire il contesto e le dottrine del più an¬ tico periodo speculativo furono cercate nei testi di Platone e di Aristotele. Platone, con la sua Apologia, metteva a disposizione il primo, decisivo giudizio. Se il «Socrate» che parla in quest’opera proclama¬ va una frattura netta tra sé e qualsiasi altro pensa¬ tore, precedente o contemporaneo che fosse, tale frattura doveva esserci stata veramente. Di qui la denominazione di «presocratica»

per indicare

ogni speculazione ad essa precedente. Se l’asser¬ zione di una simile frattura da parte del «Socrate» platonico si accompagnava a un giudizio negativo di quanto da quel momento era da considerare «presocratico», allora questa critica doveva essere in qualche modo meritata. Di qui l’idea che la teo¬ ria cosmologica, inerente ai gradi più evidenti del¬ l’esperienza, mancasse di profondità intellettuale, e che i sofisti fossero troppo inclini ad accogliere il relativismo dei valori e una retorica superficiale. Comunque, una volta ammesse queste man¬ chevolezze, i cosmologi avevano pur sempre qual¬ cosa di importante da dire nel campo della fisica. Volgendosi al primo libro della Metafisica, che in¬ troduce Talete, Anassimene ed Eraclito quali fon-

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datori delle tre originarie versioni della causa ma¬ teriale, e procedendo da esso, Zeller adottò in so¬ stanza - con qualche piccola modifica - la linea in¬ terpretativa di Aristotele, descritta nel capitolo pre¬ cedente. La disciplina della filologia classica, ormai sal¬ damente istituita in Germania, esigeva che il fon¬ damento di una ricostruzione storica si ponesse in ciò che effettivamente i testi greci documentavano. I testi disponibili erano quelli offerti da Platone e Aristotele, dotati entrambi di coerenza e autorità. D’altro canto, le citazioni da pensatori preplatoni¬ ci, disseminate qua e là, sebbene disponibili, ovvia¬ mente, al filologo, non erano ancora state raccolte e organizzate come un tutto unitario, sì da costitui¬ re una coerenza e un’autorità rivali. Aristotele po¬ teva essere integrato con informazioni sparse nella tradizione dossografica ellenistica e romana. Ma neanche quest’ultima era ancora passata al vaglio dell’indagine filologica, né era ancora stata ricono¬ sciuta la sua sostanziale dipendenza da Teofrasto. Poiché riproduceva grosso modo la versione aristote¬ lica, fu possibile citarla a integrazione di Zeller sen¬ za che suscitasse alcuna discussione critica. È difficile esagerare la persistente influenza esercitata da Zeller sulla scrittura della storia dei preplatonici, ancora ai giorni nostri. La sezione della sua opera dedicata ad essi è passata attraver¬ so molteplici edizioni ampliate: l’ultima è una tra-

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Alle origini della filosofia greca

duzione italiana, integrata con l’aggiunta di acqui¬ sizioni successive utilizzate per lo studio del me¬ desimo gruppo di pensatori^^. A onor del vero, so¬ no state apportate anche correzioni: la ricostru¬ zione della dottrina di Eraclito a opera di Geoffrey Kirk, che sostituisce la teoria del fuoco «elementa¬ re» con la teoria del logos cosmico, ne costituisce un celebre esempio^®. I filosofi analitici hanno ten¬ tato nuove spiegazioni in merito al complicato gre¬ co di Parmenide. E sono solo due casi tra i molti. Resiste saldamente, tuttavia, il quadro storico di ascendenza aristotelica delineato da Zeller. Qui, insieme alla denominazione «presocrati¬ ci», si ritrovano anche alcuni dei principali pre¬ supposti che ad essa si accompagnano. I cosmologi sono ancora distinti dai sofisti e da Socrate: la lo¬ ro storia si fa ancora iniziare con una scuola milesia alle prese con una «metafisica» del materialismo. D’altro canto, i sofisti sono ancora trattati con di¬ sprezzo dal punto di vista filosofico, sebbene qual¬ che stentato riconoscimento sia concesso alla loro appartenenza a quello che ora è definito 1’«illumi¬ nismo greco»; le testimonianze che documentano un interesse dei preplatonici per le teorie dell’evo¬ luzione, sia biologica che culturale, sono ignorate. I pensatori, da Anassimandro agli atomisti, si im¬ maginano operanti in un contesto interattivo di dottrine ispirate dal comune intento di risponder¬ si o correggersi reciprocamente. In breve, la storia continua a essere scritta all’indietro.

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Rispetto a Brucker da una parte, e a Hegel dal¬ l’altra, Zeller riteneva di avere messo a punto un re¬ soconto autenticamente ragionato della filosofia greca arcaica, fondato su raccolte di testi autore¬ voli e tali da essere inoppugnabili alla critica, una volta che fossero puntellati dalle sparse testimo¬ nianze dell’età ellenistica e romana. Quando que¬ ste fornivano vere e proprie citazioni, le parole ci¬ tate dovevano essere adattate al quadro già costi¬ tuito, come era stato fatto in modo sistematico in una compilazione di fonti per la filosofia greca al¬ lestita in Germania da Ritter e riveduta da Preller (il comune manuale usato nelle scuole inglesi, no¬ to come RP) Fu tutto il corpus delle testimonianze post-aristoteliche a essere per primo sottoposto a un’at¬ tenta disamina quando nel 1879 Hermann Diels pubblicò i Doxographi Graeci. Quest’opera, un ca¬ polavoro di paziente verifica filologica, dimostrava due cose: a) i manuali ellenistici e romani si divi¬ devano essenzialmente in due categorie, tra loro nettamente distinte: da una parte i racconti delle vite dei primi filosofi (immaginarie), e dall’altra l’esposizione delle loro dottrine (opinioni, dòxai), suddivisi per capitoli; b) queste suddivisioni pre¬ sentavano tutte una caratteristica comune: ripro¬ ducevano e ampliavano le categorie e le ripartizio¬ ni applicate alle dottrine preplatoniche nella Storia scritta da Teofrasto, parti della quale poterono in

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tal modo essere ricostruite, sia nella forma di tarde citazioni a suo nome, oppure di complementi a ta¬ li citazioni, tratti dai resti dei manuali nei quali, senza evocarne il nome, si riportavano le sue opi¬ nioni. In un certo senso la ricostruzione avanzata da Diels determinò il dominio assoluto del primo li¬ bro di Teofrasto, con la sua esposizione del pen¬ siero preplatonico nella forma di un elenco dei «princìpi primi» di volta in volta proposti su tutta quanta la tradizione successiva. In sé non fece nul¬ la per indebolire le schematizzazioni che Zeller aveva mutuato da Aristotele. L’opera di Teofrasto così ricostruita venne intesa infatti come un’am¬ plificazione delle osservazioni aristoteliche, elabo¬ rata indipendentemente da esse, ma tale da raffor¬ zarle, offrendo un corpo di testimonianze che con¬ fermavano quelle schematizzazioni. Di conseguenza, quando gli studi su quel pe¬ riodo estesero la propria influenza al di fuori della Germania, i medesimi presupposti viaggiarono con essi allorché, nel 1892, John Burnet pubblicò la pri¬ ma edizione del suo Early Greek Philosophy. L’opera rifletteva in parte la poderosa impressione esercita¬ ta dai Doxographi Graeci: era esistita nell’antichità una storia della speculazione preplatonica che era canonica e attendibile, e si atteneva aH’orientamento fissato da Aristotele e Teofrasto. Tuttavia Burnet percepì una difficoltà che non era mai sta-

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ta avvertita in precedenza. Se questi primissimi pensatori cominciarono con il concentrarsi sulla causa materiale delle cose, e in larga parte rimase¬ ro concentrati su di essa, qual era allora il termine che usarono per indicare la «materia», questa «so¬ stanza» originaria dell’universo? Egli si rese conto che un termine aristotelico come hyle non avrebbe potuto verisimilmente essere parte del loro voca¬ bolario. Eppure dovettero avere una qualche paro¬ la che designasse V archè materiale, sì da poterne di¬ scutere, sicché Burnet propose la parola physis, da intendere come «materia grezza» dell’universo^®: un espediente piuttosto disperato, giacché quel termine, quando ricorre nei veri e propri fram¬ menti preplatonici, non ha questo valore, per il quale Burnet fu costretto a trovare sostegno in un frammento di Euripide (fr. 910 Nauck). Nel 1903 apparve a Berlino la prima edizione di Die Fragmente der Vorsokratiker dì Diels, un’opera destinata col tempo a indirizzare con forza verso una sostanziale revisione della storia canonica, seb¬ bene al momento della pubblicazione ciò non do¬ vette essere compreso. Conteneva, finalmente, gli ipsissima verba sopravvissuti dagli originali, rigida¬ mente separati dalle dòxai e tradotti in tedesco, di¬ sposti in successione coerente, sì da costituire un corpus di testimonianze dirette, intorno al genere di cose che effettivamente si dicevano nel VI e nel V secolo a.C., e la cui estensione non aveva avuto

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modo, fino a quel momento, d’essere apprezzata. Le edizioni successive hanno aggiunto materiale integrativo, con l’inclusione dei frammenti dei so¬ fisti^ \ e la numerazione è stata modificata, anche se nel complesso il carattere dell’opera è rimasto inalterato. Tutta la «tradizione» complementare concer¬ nente questi pensatori era adesso stampata separa¬ tamente: un corpus di informazioni e testimonian¬ ze che vanno dalla commedia antica ed Erodoto, nel V secolo a.C., passando per Platone e Aristote¬ le nel rV secolo a.C., sino ai frammenti di Teofrasto e agli autori di manuali o trattatisti superstiti della tarda antichità. Le due raccolte, delle citazio¬ ni da una parte, e delle testimonianze seriori dal¬ l’altra, erano comprese nelle sezioni dedicate ai sin¬ goli pensatori ai quali si riferivano, col risultato che questi ultimi emergevano ora con maggior nettez¬ za come figure reali, con una loro specifica identità filosofica. Il titolo fatale Presocratici fu comunque conser¬ vato, con l’effetto, si potrebbe dire, di porre un fre¬ no alla effettiva possibilità di riesaminare quel pe¬ riodo storico. L’incantesimo che Platone esercita¬ va su di esso non era ancora stato spezzato. Burnet fu costretto a replicare, includendo nel¬ la seconda edizione di Early Greek Philosophy (1908) una traduzione inglese degli ipsissima verta, con qualche stentata concessione al loro significato.

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tuttavia senza modificare l’impostazione di base della sua esposizione, nella quale le traduzioni ve¬ nivano talora goffamente incastonate a titolo di esempio. Egli in sostanza riservò ad esse lo stesso genere di trattamento che aveva in precedenza ri¬ servato alla scelta, più ristretta, stampata nel RitterPreller. Ad ogni modo una revisione era nell’aria, e co¬ minciò a indirizzarsi su testi specifici. Esempi rile¬ vanti furono le due tesi, avanzate da F. M. Cornford, secondo cui la dottrina degli innumerevoli mondi esistenti in un universo illimitato nello spazio sa¬ rebbe il prodotto della speculazione atomistica, al termine di quell’epoca, e non dei pensatori di Mileto, nella sua fase iniziale^^, e che i «semi» di Anas¬ sagora sarebbero un tentativo di rappresentare non la «materia» aristotelica in quanto tale, ma piuttosto le qualità inerenti a quella materia^®. Gli inizi di un attacco frontale al metodo stori¬ co di Aristotele divennero evidenti nel 1935, con la pubblicazione dell’opera Aristotle’s Criticism of Presocratic Philosophy di Harold Cherniss. L analisi ap¬ profondita, e il lavoro di confronti incrociati che egli condusse sul vocabolario del sistema propria¬ mente aristotelico e sui contesti nei quali sono ci¬ tati esempi presocratici furono svolti con una mi¬ nuzia tale da rendere ancora oggi faticosa la lettu¬ ra dell’opera, ma che valse a convincere l’autore, tra le altre cose, che la dottrina dei «contrari» o

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delle «opposizioni» intrinseche o latenti nel sostràto originario fosse stata da Aristotele attribuita anacronisticamente ai cosmologi suoi predecesso¬ ri. Una conclusione che ebbe l’effetto immediato di sottoporre ai necessari emendamenti la versio¬ ne canonica, quella di Zeller, della cosiddetta «scuola di Mileto» e di Anassimandro in particola¬ re. Comunque un’ulteriore ipotesi, ancor più ra¬ dicale, che cioè tutta l’impalcatura delle quattro cause fosse completamente inapplicabile a quella fase, fu del tutto evitata. Questo non impedì a John Me Diarmid, nel 1953, di pubblicare un saggio, attentamente argo¬ mentato, inteso a dimostrare come tutto quanto Teofrasto aveva detto sulle archài dei presocratici nel primo volume della sua Storia non poggiasse sull’uso di materiale attinto direttamente agli ori¬ ginali, ma fosse il prodotto di una compilazione d’osservazioni sull’argomento disseminate nel te¬ sto di Aristotele. La presa esercitata dalla versione canonica sugli studi del periodo preplatonico era forte, sicché fu inevitabile una certa resistenza a conclusioni del genere, e specialmente alle dedu¬ zioni e ai dubbi che ne derivavano^^. Se era così che Teofrasto, il primo storico dichiarato di quell’epo¬ ca, attenendosi al modello aristotelico, procedeva nell’elaborare un resoconto presumibilmente obiet¬ tivo dell’argomento, in quale luce veniva indiretta¬ mente a porsi l’affidabilità del metodo proprio di

III. Lecere la storia all’indietro

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Aristotele? Era forse necessario rinunciare all’inte¬ ra impalcatura dei princìpi primi, e in particolare del principio materiale, in riferimento alla dottri¬ na preplatonica? Il progetto di pubblicare l’artico¬ lo in Gran Bretagna, in una forma più accessibile agli studiosi, si scontrò con una prevedibile oppo¬ sizione. Comunque, l’esistenza di una raccolta degli ipsissima verba in un’opera tedesca che ora affronta¬ va, e forse disturbava, la versione di Zeller, suggerì l’opportunità di produrre una controparte ingle¬ se, dotata a sua volta del testo greco originale con la traduzione inglese a fronte. Questa intendeva fornire agli studiosi inglesi un manuale delle fonti antiche di gran lunga superiore, dal punto di vista del metodo, al Ritter-Preller, e inoltre consentiva la possibilità di operare una revisione di Early Greek Philosophy di Burnet.

L’opera, ThePresocraticPhilosophers di Kirk e Raven, considerata sotto il profilo critico, segnava un evidente progresso, in quanto abbandonava l’in¬ terpretazione di Eraclito sostenuta da Zeller e da Burnet a favore di una valutazione fondata sull’at¬ tenta disamina delle «sentenze» disponibili, già in precedenza pubblicate da Kirk^^. Tuttavia la lezio¬ ne dei Presocratici di Diels non era stata ancora pie¬ namente assorbita. Essa restava pur sempre un re¬ soconto del pensiero «presocratico», non preplato¬ nico, restrittivamente definito come cosmologico e

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materiale. Le citazioni giudicate irrilevanti rispetto al tema cosmologico (così come veniva concepito dagli autori) erano per ciò stesso ignorate, e i sofi¬ sti omessi del tutto. L’impatto del lavoro di Diels era testimoniato, neH’introduzione, dalla formula¬ zione programmatica che la tradizione dossografi¬ ca non può essere usata se non quando abbia il supporto degli ipsissima verba, salvo poi invalidare prontamente questa dichiarazione di metodo con Toffrire un’ampia ricostruzione, di impronta es¬ senzialmente zelleriana, di una presunta «scuola milesia». A dire il vero vi si tentava un’interpreta¬ zione nuova di Parmenide, la cui attività speculati¬ va era intesa come reazione al pitagorismo, ma questa spiegazione dovè poi essere abbandonata nella seconda edizione (KRS, p. 240). Gli atomisti continuavano a essere rciffigurati alle prese, in un modo ancora rudimentale, con problemi inerenti al movimento e così via. La seconda edizione di quest’opera presentava ampie revisioni, alcune delle quali dettate da preoccupazioni moderne {infra, capp. VII e Vili), ma non indeboliva affatto i fondamenti dell’impalcatura aristotelica. Una piccola concessione era fatta, nel capitolo iniziale (p. 74), al contesto orale nel quale le speculazioni dei preplatonici avevano luogo, ma poi, nel corso della vera e propria trattazione, questo aspetto re¬ stava del tutto obliterato. Nel frattempo, cinque anni dopo la prima edi-

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zione di questo lavoro, apparvero i primi volumi della magistrale trattazione di Guthrie (1962-69), che collocava adeguatamente quel periodo nelr ambito della storia della filosofia greca presa nel suo complesso: The Earlier Presocratics and thePythagoreans (I) ; The Presocratic Tmdition from Parmenides to Democritus (II) ; The Fifth Century Enlightenment (III). All’interno di questa ripartizione, l’inade¬ guatezza cronologica della designazione «preso¬ cratici», ancora persistente, diveniva manifesta. A quale periodo per esempio poteva plausibilmente appartenere Democrito se non all’illuminismo greco? E Anassagora certo non meno di lui: una conclusione confermata non dal semplice calcolo cronologico, ma dalla sostanza stessa del pensiero che espressero. Per certi aspetti anche quest’opera presentava elementi di un approccio critico che postdatava, per così dire, Zeller. Il pitagorismo assumeva un posto eminente nella scala della storia, e gli veniva conferito un ruolo decisivo nell’informare il carat¬ tere della speculazione greca arcaica; e il movi¬ mento sofistico, d’altro canto, tenendo conto di tutto il suo presunto relativismo e della sua atten¬ zione alla retorica, era trattato con generosità, co¬ me movimento «illuministico». Ma la cornice entro la quale erano trattati i cosmologi, che era derivata dalle quattro cause, restava ancora ampiamente inalterata, analogamente al presupposto che Pia-

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Alle origini della filosofia greca

tone nelle sue prime opere scrivesse come uno sto¬ rico, non meno che come un filosofo. In breve, sebbene l’opera di Diels avesse offer¬ to la possibilità di mettere a confronto e in opposi¬ zione il linguaggio usato dai preplatonici, preso nel suo complesso, rispetto al linguaggio della fi¬ losofia nella forma che aveva assunto nel IV secolo a.C., tale possibilità non era stata esplorata. Di fronte ad essa, la ricerca relativa a quel periodo aveva indietreggiato, o meglio aveva preferito as¬ sumere che i due linguaggi fossero approssimati¬ vamente gli stessi: una conclusione che può essere raggiunta soltanto quando nella traduzione siano adottati una parafrasi o un metalinguaggio. La sto¬ ria di quell’epoca escogita il sistema per essere scritta all’indietro.

Capitolo quarto L’ILLUSIONE DI UNA «METAFISICA» MILESIA

Mai capitale scientifico e intellettuale fu inve¬ stito in così gran copia come nel presupposto che la storia della filosofia greca avesse inizio con una scuola milesia di materialismo metafisico; questa scuola doveva includere tre pensatori, il secondo dei quali - che si assumeva scrivesse in prosa filo¬ sofica - sostenne la tesi che il kosmos fisico sia da interpretare come dipendente da un principio ma¬ teriale formalmente astratto, che si designa come «illimitato» (àpeiron), dal quale avrebbe avuto ori¬ gine, e al quale sarebbe ritornato, e che dovrebbe essere considerato un principio ancora basilare che governa l’attuale comportamento del cosmo. La qualità di questo pensiero, in quanto attri¬ buito ad Anassimandro, corrobora l’assunto che sin dai primordi la filosofia greca avesse carattere metafisico. Avrebbe preso il via da una piena ma¬ turità, in quella forma riconoscibile che divenne familiare in Europa dopo Platone e che i filosofi e gli stessi moderni trovano, comprensibilmente, congeniale. Interi libri sono stati scritti sul princi¬ pio dell’«indefinito» (o «illimitato») di Anassi¬ mandro. Negare che esso sia privo di fondamento

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Storico non può non suonare oltraggioso. (Am¬ messo che questa verità sia un giorno accolta, im¬ magino che ciò debba accadere con fatica e rilut¬ tanza, e comunque - presumo - non durante la vi¬ ta di chi scrive. In ogni caso, kalòs ho kindynos). Quanto alle testimonianze antiche che si vuole confermino l’esistenza di tale scuola, e in partico¬ lare la «metafisica» del suo secondo rappresentan¬ te, i dati effettivi sono i seguenti: 1) L’esplicita esposizione di Aristotele, quasi al principio della Metafisica (1, 983 b 7 sgg.), relativa agli inizi della filosofia greca, menziona Talete (1, 983 b 20 - 984 a 4) e Anassimene (1, 984 a 5) come i pionieri originari, ma nulla vi si dice riguardo ad Anassimandro. 2) Non rimane alcun detto, orale o scritto, di nessuno dei tre. Questo si ammette concordemen¬ te per Talete. Per Anassimandro, gli studiosi si so¬ no fondati su una ipotetica citazione (D-K 12 B 1) da un originale riportato, si presume, da Teofrasto, che è probabilmente non una citazione, ma una parafrasi^ Per Anassimene, si è dimostrato che un’unica sentenza attribuita a lui in passato (D-K 13 B 2) era di fatto falsamente collocata, e che il suo vero autore era Diogene di Apollonia, vissuto verso la fine del V secolo a.C^. 3) La forma dell’enunciato nella presunta cita¬ zione da Anassimandro dipende dalla scelta tra due redazioni differenti. Nell’una si sottolinea il

IV. L’illusione di una «metafisica» milesia

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fatto che nell'originale «erano utilizzate parole più poetiche» {sdì rispetto a quelle utilizzate dalla fon¬ te). Nell’altra è detto che l’originale «si avvaleva in tal modo di termini alquanto poetici» [poietikotèrois, N.d.T.], con un uso possibile, ma artificioso, dell’aggettivo comparativo^. La seconda versione parrebbe essere una cor¬ rezione della prima, a opera di un copista, per l’ov¬ vio motivo di conferire autenticità alla frase prece¬ dente, nell’ambito di quella che egli sta copiando come citazione. Se si prescinde dall’emendamen¬ to, l’enunciato indica che ciò che viene offerto è la parafrasi in prosa di un originale in versi, che è an¬ dato perduto. L’importanza di questa correzione si può evincere dal recente commento di un celebre studioso: egli osserva, a proposito delle sentenze di Eraclito, che 1’«autore scelse di scrivere in prosa perché quello era, ai suoi tempi, il nuovo linguag¬ gio scientifico, e il tradizionale idioma della sag¬ gezza aforistica»'^. Ma, di fatto, la prosa non si fissò pienamente come linguaggio della scienza fino a Platone, sebbene anticipata, nel tardo V secolo a.C., dalle brevi, epigrammatiche esposizioni di Anassagora e Diogene {supra, cap. II). 4) Aristotele afferma {Fisica, 3, 4, 203 a sgg.) che, a differenza di Platone e dei pitagorici, «tutta la scuola (che si occupa) della natura attribuisce sempre all’indefinito {àpdron) qualche altro carat¬ tere»; questo equivale a dire che 1’«indefinito» co-

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me principio materiale non è preplatonico. Lo sta¬ tuto metafisico deH’indefinito dipende — sul piano linguistico - dal premettere il neutro dell’articolo determinativo alla forma neutra dell aggettivo, con l’omissione del nome ad esso correlato. Ma è un uso non attestato prima di Platone. Il poema di Anassimandro, se è di questo che si trattava, usava quasi certamente àpeiros e derivati come aggettivi, in ciò seguendo il precedente omerico, e li usava probabilmente per qualificare termini come kosmos, ge, aiòn o chronos. Egli potrebbe avere usato anche la forma avverbiale ex apèirou, nel senso di «indefinitamente», che gli affezionati a una inter¬ pretazione «metafisica» avrebbero potuto in segui¬ to fraintendere, nel senso di «daH’indefinito»^. 5) L’attribuzione di un principio metafisico ad Anassimandro certamente risale alla Storia di Teofrasto: ma come deve essere spiegata? L’equivoco ebbe origine dal metodo di base adottato da Ari¬ stotele, il quale insiste nell’assegnare una teoria dei princìpi primi a tutti i filosofi arcaici. Nel caso di Anassimandro, questa presunta arche restava priva di una denominazione. Nella sua Storia, Teofrasto ebbe l’esigenza di dare ad essa un nome corrispon¬ dente a quelli di «aria», o «acqua», o «fuoco», o lo¬ ro combinazioni, quali erano stati proposti per altri pensatori. Egli lo fece combinando insieme infe¬ renze desunte da tre luoghi, nei quali Aristotele no¬ mina Anassimandro®, senza però fare riferimento a una specifica dottrina anassimandrea deW àpeiron.

Capitolo quinto ALLE ORIGINI DELLA FILOSOEIA: L’ILLUSIONE DEL PARTO VIRGINALE

Se l’erronea attribuzione di una dimensione «metafisica» al pensiero di Anassimandro fu opera di Teofrasto, fu invece opera del suo maestro l’in¬ venzione di un motivo alla base di tale forma di pensiero, capace di spiegare anche la genesi di quella che più tardi si sarebbe chiamata «filosofia». In un passo ben noto e particolarmente amato, che funge da introduzione storica alla sua Metafisica (1, 982 b 11-27), Aristotele suggerisce che la sapienza da lui identificata come la «prima forma di filoso¬ fia» sarebbe una conseguenza dell’agiatezza di cui l’uomo dispone. Sostanzialmente il suo ragiona¬ mento è di ordine economico, fondato su quella che potremmo definire una teoria del «plus-valore», disponibile all’uso da parte di una classe agia¬ ta. Questa, svincolata da attività di tipo economico, diviene libera di dedicarsi all’attività speculativa, che muove da esigenze per così dire «voluttuarie». La tesi economica è completata da un’osservazio¬ ne d’ordine psicologico: c’è una componente del¬ la psiche umana che può essere identificata come «meraviglia» (thàuma). Individui di intelligenza su¬ periore, facendo uso di questa facoltà, rispondono

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Alle orìgini della filosofia greca

airopportunità del benessere col volgersi alla più importante e sublime di tutte le occupazioni uma¬ ne, alla «filosofia». Questa combinazione di motivi sociali e psico¬ logici deve essersi verificata a Mileto, avendo come esito una speculazione milesia relativa ai princìpi primi della materia. Tale parrebbe essere la con¬ clusione di Aristotele, benché egli lasci che sia il lettore a trarla. È facile discernere i motivi, sia personali sia isti¬ tuzionali, che stanno a fondamento di una teoria del genere. Il Liceo costituiva una iniziativa in gra¬ do di sussistere solo in rapporto ad una classe agia¬ ta, operante al livello delle necessità «voluttuarie» mentre necessità «primarie» erano quelle adem¬ piute da tutto il resto della società greca coeva. Ri¬ chiedeva mezzi di sostentamento, fondi per sovven¬ zionare gl’insegnanti, per fornire alloggi e acqui¬ stare provviste di cibo, di vestiario, di papiro e simili, tramite donazioni, rendite derivanti da proprietà, oppure tramite esazioni fiscali. Sappiamo troppo poco di queste infrastrutture, ma dovettero certa¬ mente esistere. La scuola, con tutti i suoi comple¬ menti, era quasi una «escrescenza» della struttura sociale già costituita, era di fatto un onere econo¬ mico. Possiamo valutare gli effetti di questa situa¬ zione dalla continua ostilità alla quale erano esposti il Liceo e altre scuole del genere, sino al punto che i filosofi ivi operanti rischiavano l’espulsione da Ate-

V. Alle origini della filosofia: l’illusione del parto virginale

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ne^ Soltanto nei governi monarchici, come in Ma¬ cedonia o ad Alessandria, fu possibile garantire alla filosofia, almeno ai suoi inizi, la protezione e il so¬ stegno contro il risentimento popolare. Il resoconto aristotelico relativo alle presunte origini della filosofia suona difensivo e protettivo. La disciplina assurge al livello di una specie di su¬ per-religione, che pretende di educare e di ispira¬ re il volgo. Egli razionalizza quello che era essen¬ zialmente un punto di vista elitario, che aveva ere¬ ditato da Platone, giacché di certo PAccademia necessitava di un suo proprio atteggiamento difen¬ sivo più ancora del Liceo. Platone avrebbe calda¬ mente approvato la teoria della filosofia della clas¬ se agiata. Ai suoi tempi, però, non avrebbe trovato conveniente, da un punto di vista politico, asserir¬ la troppo esplicitamente, sebbene vi fosse andato vicino nella Repubblica, e ancor più nelle Leggi^. Aristotele visse nel momento storico in cui si completò il passaggio, in Grecia, dalla fase orale al¬ l’alfabetismo. Eppure molto della sua forma di pensiero e della sua scrittura risponde ancora ai princìpi deH’oralità: uno di essi, come s’è già os¬ servato, è quello secondo cui il passato controlla il presente ed è più importante del futuro. In un cer¬ to senso tutta fattività mentale è regressiva, perché opera seguendo le leggi della memoria, non della scoperta. Le conseguenze sono molto evidenti ne¬ gli scritti di Aristotele, quando tenta di avvalorare

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le proprie scoperte intellettuali innanzitutto col trovare per esse una conferma storica. Egli avverte che le loro fondamenta precedenti non sono ne¬ cessariamente ben poste, e rifarle è suo compito. Non sorprende perciò che, nella sua ambizio¬ ne a dare un fondamento storico al Liceo come isti¬ tuzione, e a quella che egli definisce «filosofia fisi¬ ca», intesa come corpus di dottrine propedeutico alla «filosofia prima», Aristotele lo ravvisi nelle pre¬ sunte speculazioni materialistiche di una presunta scuola milesia, costituita da due esponenti nel VI secolo a.C., con l’aggiunta di sporadiche notizie di un terzo, di nome Anassimandro. Questi individui devono esemplificare la formula della classe intel¬ lettuale agiata, corrispondente all’emergere - ai suoi tempi - di una classe sociale di questo tipo, la quale procurava ad Aristotele la raison d ’ètre della sua stessa professione. Per chi voglia scartare la tesi del parto virgina¬ le: che tipo di attività intellettuale è documentata dalle testimonianze superstiti per Mileto in quel periodo? Anticipando l’analisi più dettagliata che sarà fatta in seguito, si può affermare in sintesi che essa si sviluppò in rapporto a tre aspetti ambientali: l’astronomia, le condizioni atmosferiche e la su¬ perficie della terra, con l’inclusione dei popoli che l’abitano®. L’interesse per questi tre aspetti era la conseguenza di urgenti necessità pratiche, che ri¬ spondevano alle esigenze di una scienza della navi-

V. Alle Orioni della filosofia: l'illusione del parto virginale

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gazione scaturita dal commercio marittimo milesio, a oriente e a occidente, con la Colchide a un capo del mondo conosciuto, e Gibilterra all’altro. In tutti e tre i casi l’indagine pratica e la misura¬ zione di una natura proto-scientifica dettero luogo a enunciazioni teoriche che, in qualche modo, «ol¬ trepassavano le necessità primarie» - ovvero le im¬ mediate esigenze delle classi impegnate nel com¬ mercio: localizzare isole, porti, fiumi, luoghi per Tapprovvigionamento d’acqua corrente; o quella di calcolare distanze su una mappa, con l’indica¬ zione di un apparente equatore che correva dalla Colchide alle colonne d’Èrcole, passando per Mileto. Un’astronomia primitiva, che dall’osservazio¬ ne dei movimenti del sole e delle stelle forniva la guida minima alla navigazione in mare aperto, sfo¬ ciò in una primitiva forma di cosmologia, che vi¬ sualizzava un quadro complessivo, comprendente i cieli e i corpi celesti, nel quale gli uni e gli altri erano raffigurati in rotazione al di sotto della ter¬ ra, nonché un’atmosfera che si estendeva tra la ter¬ ra e i cieli, e poi la terra stessa, collocata in qualche modo in questo insieme. Questa rappresentazione intellettuale (è questo il termine più adatto a definirla) - che successiva¬ mente fu modificata, migliorata e corretta - restò sfondo costante delle speculazioni di tutti i cosid¬ detti «filosofi», fino a Platone. Persino Democrito, che l’infranse e l’oltrepassò, dovè pur sempre parti-

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Alle origini della filosofia greca

re da essa. Teorie più raffinate sull’esistenza, la ve¬ rità e la realtà fisica sarebbero seguite, ma in gene¬ rale non possono essere pienamente intese senza un iniziale riferimento a questa originaria e concre¬ ta rappresentazione, dalla quale tutte erano partite. Si può aggiungere che i Milesii, al pari dei loro successori, oltre a impegnarsi in un dialogo con l’ambiente fisico, ebbero una ragione più immedia¬ ta per tracciare il loro proprio quadro cosmologico. Avevano familiarità con una versione già disponibi¬ le, che era stata parte della loro «educazione» e che ora potevano leggere, così come anche ricordare, perché trascritta nei papiri che recavano i versi di Omero e di Esiodo. Era una visione, però, ancora oralistica dei cieli e della terra, e di tutto ciò che è in essi [cfr. Esiodo, Teogonia, 44-46, N.d.T.]. Il loro compito, confrontandosi con essa, fu quello di cor¬ reggerla. Si trattava di un kosmos (termine non «ora¬ le», in questa accezione) di Cielo, Oceano, Terra e Ade, popolato e governato dagli dèi secondo una suddivisione tripartita. Essi ne accolsero la disposi¬ zione di base, e si accinsero a liberarlo dagli dèi. Ugualmente importante fu il loro tentativo di rim¬ piazzare il linguaggio degli dèi e degli eroi con un linguaggio «teoretico», riferito ai medesimi feno¬ meni sensibili con cui anche Omero ed Esiodo si erano confrontati, e che erano stati da loro spiegati in termini diversi. La cosiddetta «filosofia» milesia costituì uno dei primi frutti del proto-alfabetismo.

Capitolo sesto I «SOFISTI» E SOCRATE; DUE CASI DI FRAINTESA IDENTITÀ

Il terzo volume della magistrale storia di Guthrie {supra, cap. Ili 3) si concentrava sulla identi¬ ficazione del V secolo a.C. ad Atene come il perio¬ do deirilluminismo greco. Ciò comportò il grosso vantaggio di collocare i sofisti (per usare la desi¬ gnazione canonica dai tempi di Zeller) in un vali¬ do contesto culturale, fertile e rigoglioso. Un se¬ condo importante cambiamento fu ottenuto dal collocare fermamente anche Socrate nello stesso volume, nel medesimo contesto. I «sofisti» (d’ora in poi inseriremo sempre la parola tra virgolette) erano in breve i suoi pari, e si assumeva per loro una qualche affinità di interessi intellettuali. Ma permanevano alcuni aspetti a ostacolare una versione completamente riveduta delle loro ri¬ spettive identità. La versione canonica era troppo difficile da eliminare, principalmente in tre punti: 1) I «sofisti» erano ancora distinti dai cosmologi, in contrasto con l’evidenza cronologica e con il contenuto di alcuni loro scritti. Questa stessa di¬ stinzione aveva indotto KR a ignorarli del tutto, e tale scelta fu osservata anche nella seconda edizio¬ ne (KRS).

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2) Socrate era ancor più decisamente distinto dai cosmologi. 3) Per motivi di ordine pratico, il contenuto del suo insegnamento era fatto coincidere con i «pri¬ mi» dialoghi di Platone, ed esso lo distingueva a sua volta in modo netto dai «sofisti». Molte sono le vie per conferire alle persone una identità, ma la principale consiste nel modo in cui esse sono nominate, cioè come la gente le qua¬ lifica. In qualche caso la semplice denominazione è insufficiente: si deve allora prendere in esame an¬ che il contesto nel quale è utilizzata. Il nome gre¬ co «sofista» è in tal senso emblematico. Lo si usava, anche piuttosto diffusamente, nel periodo prepla¬ tonico. Se era riferito a qualche preplatonico, o an¬ che ad altri, è opportuno valutare quale genere di individuo, in Grecia, potesse essere così designato. E non tanto nel IV secolo a.C.: ciò che qui interes¬ sa è piuttosto il modo in cui tale nome fu usato nel VI e nel V secolo a.C., l’età, cioè, nel corso della quale vissero appunto i preplatonici. E di un certo interesse rilevare che i modi pe¬ culiari in cui il termine fu usato nella Grecia arcai¬ ca attirava ancora l’attenzione di Elio Aristide, un’autorità di tutto rispetto nel II secolo d.C. (Ora¬ zione 46= D-K 79 Al). Per chi abbia consuetudine con la parola «sofi¬ sta» quale ricorre nelle storie della filosofia greca (o anche moderna), l’accezione antica risulterà

VI. 1 «sofisti» e Socrate: due casi di fraintesa identità

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sorprendente. Sophistài erano per Pindaro coloro che svolgevano la sua stessa professione, i poeti {Istmica 5,28). La commedia antica assegna questo no¬ me ai musici e ai cantorih Nell’opinione di Erodo¬ to (4,95), Pitagora era un sophistès, come lo era, a quanto pare, anche Solone, il cui nome è incluso nel novero di visitatori alla città di Sardi, dei quali dice che erano «tutti i sophistài della Grecia, capi¬ tati a quel tempo da quelle parti» (1,29). Questa notizia stabilisce un parallelo interessante: Sardi nella prima metà del VI secolo a.C., prima della sua caduta, era stata un punto di riferimento per i Gre¬ ci del continente, esattamente come lo fu Atene nel V secolo a.C., in direzione inversa, per i Greci d’oltremare. Non viene precisato chi esattamente fossero que¬ sti sophistài. Le parole di Erodoto sono state intese come un riferimento ai «Sette Sapienti» (sophòi) di Grecia, ma la leggenda (o forse il tema «sofistico») che dette origine a questo gruppo non è antica^. La perplessità (dal punto di vista dei moderni) na¬ sce quando Erodoto assegna questo titolo anche a un gruppo di individui i quali, dopo l’introduzio¬ ne, in Grecia, dei rituali dionisiaci, si fecero carico di essi, e li «diffusero» o li «divulgarono» (2, 49, 5 sg.). D’altro canto, per Diogene di Apollonia i suoi colleghi cosmologi (physiològoi) dovevano essere chiamati sophistài (D-K 64 A 4), e tra loro probabil¬ mente egli annoverava anche se stesso.

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Questa qualifica, insomma, quale che sia il suo specifico valore, sembrerebbe da intendere come un complimento, e serbò a quanto pare una con¬ notazione rispettosa anche nel IV secolo a.C. e nei secoli successivi, come quando ad esempio è riferi¬ ta (da testimoni altrimenti disinteressati)^ a Socra¬ te e a Platone. Ora, si può supporre che un titolo che abbia una connotazione seria, applicabile a persone di una certa importanza, comportasse una accezione comune indicante una proprietà condivisa da tut¬ te. Ma che dobbiamo pensare di un nome che può essere condiviso da poeti, politici, addetti al culto, cosmologi preplatonici, da Socrate e da Platone? Il lessico greco di Liddell-Scott aggira in parte il pro¬ blema con l’assumere che, quando applicato a in¬ dividui come Solone, il vocabolo prende un valore strettamente legato al contesto, indicando la qua¬ lità della «prudenza» o della sapienza delle cose terrene come attributo appropriato agli statisti; un valore che ovviamente non può identificarsi con le qualità (quali che siano) che ci consentono di in¬ dividuare poeti, musici, seguaci di sette e scienzia¬ ti. Ma questo non basta: la designazione, conside¬ rata la sua importanza, non è un camaleonte. L’im¬ pressione che se ne ricava, dato che una cultura rivela, inconsapevolmente ma di fatto, il proprio si¬ stema di valori nel modo in cui utilizza il linguag¬ gio, induce a credere piuttosto che la cultura gre-

VI. I «sofisti» e Socrate: due casi di fraintesa identità

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ca di quell’epoca non valutasse queste diverse ca¬ tegorie di individui esattamente come noi le valu¬ tiamo. C’era una differenza di attese culturali. Per noi il poeta è un artista, come lo è il musico. Ma noi non usiamo un linguaggio che (dal nostro punto di vista) potrebbe confondere artisti con politici, e queste due tipologie con seguaci di sette, scienzia¬ ti fìsici e celebri filosofi. Il sophistès era un uomo di sophia ; la relazione, ovvia dal punto di vista etimologico, diviene assai evidente nel caso di Solone, nel tributo che gli re¬ se Creso, il re suo ospite. In genere sophia si tra¬ duce «sapienza» (al pari dell’aggettivo corrispon¬ dente sophòs, «sapiente»), ma il vocabolo ha assun¬ to una più tradizionale connotazione di «sagacia» e «maturo discernimento» (una qualità solitamen¬ te tipica degli anziani) soltanto dopo che Aristote¬ le, neìVEtica, l’ebbe scelto per identificare lo stato mentale acquisito dal filosofo nelle fasi conclusive della sua evoluzione intellettuale. Cominciando da Omero, e poi di seguito, passando per la Grecia ar¬ caica e tardo-arcaica, sophòs e sophia denotano l’a¬ bilità dell’artigiano che lavora determinati mate¬ riali con le mani, sia egli un carpentiere, un co¬ struttore di navi o uno scultore. Ma gli artisti, gli addetti al culto e i filosofi non lavorano con le mani. In quale senso allora si può dire che hanno a che fare con un materiale che non sia legno, né pietra, né metallo, eppure è affi-

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Alle origini della filosofia greca

ne ad essi? Sembra esserci un’unica risposta possi¬ bile: essi hanno a che fare con il linguaggio. I pro¬ dotti che foggiavano, e che li autorizzavano a pre¬ tendere d’esser detti artigiani di un tipo particolare, erano poemi, canti, melodie, discorsi, incantesimi rituali, trattati filosofici che, tutti, avevano (come Pindaro afferma della propria poesia) un intento di¬ dattico. Quando Senofane protesta che la sua sophia me¬ riterebbe un sostegno pubblico superiore a quello degli atleti che vincono pubblici premi (D-K 21 B 2 = fr. 2 Gent.-Pr.), egli qualifica la propria poesia come un importante prodotto di utilità sociale, che meriterebbe un compenso. Anche lui era un sophistès. Si potrebbe inferire (ma è difficile addur¬ re una prova testuale) che la nozione di «linguag¬ gio specializzato» come «prodotto» fosse una con¬ seguenza della sua crescente

documentazione

scritta, un processo - cioè - che lo oggettivava, alla stregua di un materiale da lavorazione. Per l’Omero orale, tale linguaggio rimaneva il canto del cantore {aoidòs, N.d.T.], non del sophistès’. le sue componenti restavano acustiche, materializ¬ zate solo come frecce che percorrono l’aria. Sia Pindaro che Solone erano poeti, al pari di Senofane, e tutti e tre erano poeti didattici. Ai tem¬ pi di Solone il verso era ancora strumento di per¬ suasione politica; la perdurante oralità lo rendeva necessario. Per Senofane doveva ancora restare

VI. I «sofisti» e Socrate: due casi di fraintesa identità

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Strumento di persuasione filosofica. Per Pindaro costituiva un mezzo per propagandare Y ethos ade¬ guato al ceto dei suoi committenti e all’occasione. Quando, nelle parole di Erodoto, il capo della set¬ ta dionisiaca «rivelò» {epèdeixé) o «rese manifesto» il rituale, ciò deve riferirsi alle istruzioni verbali pre¬ scritte per il suo svolgimento, che erano pubblicate «oralmente», senza dubbio in versi, più idonei alla memorizzazione. (Si potrebbe anche intendere che fossero «rivelate» per iscritto, e dunque che potes¬ sero essere lette, ma questo non è certo). Se in un’età di proto-alfabetismo la designazio¬ ne di sophistès era già stata rivendicata da compo¬ sitori di versi didattici, risulta chiaro come potesse designare anche i cosmologi e il gruppo identifi¬ cato come «sofisti» nei dialoghi di Platone. Essi era¬ no prima fade manipolatori del linguaggio, al quale con¬ ferivano comunque forme nuove, poco familiari e, in certa misura, provocatorie. Il loro prodotto era, tipica¬ mente, il logos piuttosto che Yepos: con bgos intenden¬ do almeno il contenuto, sebbene Yepos per qualche tem¬ po continuasse a controllare la forma. Essi giunsero anche al punto di poter ricono¬ scere esplicitamente che il logos era proprio il loro materiale. Stavano diventando consapevoli dei suoi poteri, in quanto «detto», ma alla fine anche in quanto «scritto», e in particolare delle sue capacità di istruire e persuadere: due aspetti che in seguito furono separati da Platone.

Alle origini della filosofia greca

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Analogamente, quando esso diventò prosasti¬ co, divennero consapevoli della possibilità di pla¬ smare nuove forme lessicali, un nuovo vocabola¬ rio, una nuova sintassi, modi di organizzare la ma¬ teria che erano logici piuttosto che poetici. In tal senso Socrate divenne V Avcì-sophistès di questa nuo¬ va forma di linguaggio, distinguendosi forse per il fatto d’essere pronto a riconoscere più manifesta¬ mente che una rottura con il messaggio poetico stava ormai diventando inevitabile. (È arduo tutta¬ via accertare quanto di ciò che in proposito è scrit¬ to nel corpus platonico appartenga di fatto genuina¬ mente a Socrate piuttosto che a Platone). I sophistài, presi nell’insieme, erano più disposti al compro¬ messo: i modi propri della poesia, di descrivere e render conto dell’uomo nel suo kosmos, si rivelava¬ no ancora utili. Ulteriore chiarezza si può fare sulla particolare connotazione conferita dalla designazione sophistès, se si considera che essa rientra nel novero di quelle parole adattabili alla maldicenza. Il presti¬ gio che comporta ha dubbie credenziali. La sua condizione è instabile, giacché dipende dal punto di vista di chi ne faccia uso. Un’ambiguità ironica si può individuare in alcuni luoghi nei quali la pa¬ rola ricorre in testi di teatro: il talento impiegato può esser tale da produrre niente altro che «affli¬ zione» (j&mato: Euripide, Eraclidi, 993); non può rivaleggiare con la psychè nella capacità della «sco-

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perta» {TrGF F Ib [a]); ci vorrebbe «di certo un sophistès straordinario (deinòs)», per «trasformare i dissennati in assennati» (Euripide, Ippolito, 92122). Quest’ultima osservazione ammicca alla for¬ mula del deinòs lègein, un riferimento allo straordi¬ nario talento nel parlare, al quale si era soliti asso¬ ciare il sophistès. Un simile talento era ammirato a malincuore, ma si trattava pur sempre di una spa¬ da a doppio taglio. Cleone, il politico ateniese, nel corso di un ac¬ ceso dibattito per concordare una decisione mili¬ tare, esordì denunciando quel dibattito come tem¬ po sprecato, e i suoi concittadini come «intera¬ mente docili al godimento dell’ascolto, come gli spettatori seduti dei sophistài » (Tucidide 3, 38, 1; 7). In questo contesto, il termine è chiaramente posto in

relazione con coloro che usano un lin¬

guaggio potente. Ma chi precisamente si suppone che siano? Una risposta possibile è che si tratti di quei personaggi rappresentati nei dialoghi plato¬ nici, ma è certamente soluzione implausibile, da un punto di vista cronologico. Sono ancora i poe¬ ti, ovvero i drammaturgi, i cui personaggi sulla sce¬ na pronunciano orazioni che così spesso assumo¬ no la forma di componimenti didattici? Questa ipotesi renderebbe ragione del paragone con gli spettatori (theatài ) seduti a teatro. Forse il caso tra tutti più lampante, ancora in un contesto drammatico, è offerto dal Prometeo in-

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calmato, quando il prigioniero, vincolato alla roc¬ cia, è improvvisamente aggredito da Hermes, mes¬ saggero di Zeus, con queste parole (w. 943-46) : Signor sofista, signor acidità ultramordace, signor contravventore a danno degli dèi, ché onori hai procurato agli effimeri umani, signor ladro di fuoco - questo io ti dico...

In queste parole il valore del titolo sophistès è connotato in senso peggiorativo con l’associarvi tre ulteriori designazioni (l’articolo determinativo che le introduce, qui reso con «signor», è anch’esso ripetuto tre volte). In questo caso particolare il talento esercitato, che vale a un tempo il successo e la caduta del «sofista», non è la cosmologia, ma è l’aver donato agli uomini il processo di civilizza¬ zione, fondato sulla padronanza delle tecnologie. E’ qui inequivocabile il riferimento alle ricostru¬ zioni antropologiche di questo processo tentate da molti preplatonici. L’enfasi sulla valenza diffamatoria del vocabo¬ lo è evidente nella commedia antica. In particola¬ re, per Aristofane ed Eupoli, ma anche per altri au¬ tori di commedia, il sophistès era un bersaglio faci¬ le: petulante, saccente, vacuo e servile. Gli esempi sono troppo numerosi perché li si debba elencare. Si tratta di cosmologi, retori, logici, grammatici, educatori, critici. Socrate è non soltanto incluso in questo novero, ma in una commedia \_Le Nuvole,

VI. I «sofisti» e Socrate: due casi di fraintesa identità

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N.d.T], abbastanza sorprendentemente, riveste addirittura un ruolo centrale. Tutto questo è piuttosto comprensibile. La commedia, come forma artistica, era satirica per definizione. Offriva programmaticamente un rilas¬ samento che compensasse le paure connaturate al¬ la nostra condizione umana, sdrammatizzandone gli aspetti più seri. La propensione al raggiro, co¬ mune a questo gruppo di «bersagli» satirici, risie¬ de nella facilità di espressione che gli era peculia¬ re, e nel modo peculiare che aveva di mettere alla prova il linguaggio corrente. Di qui la costante al¬ lusione alla verbosità, alla adoleschia: chiacchiere su chiacchiere. Sophistès, a cavallo tra oralità e scrittura in Gre¬ cia, designante il poeta da una parte, e dall’altra il filosofo, è per noi parola intraducibile. Le attese di un’evoluta cultura letterata, che si è da molto tem¬ po lasciata alle spalle l’oralità, rende impossibile questa operazione. Una parola che vi si può ap¬ prossimare è «intellettuale», proprio a causa del suo statuto ambiguo. Da un lato questo termine identifica un individuo nella sua interiorità, per mezzo delle idee che il suo «intelletto» coltiva, dal¬ l’altro è possibile riconoscere e identificare un si¬ mile individuo dal suo modo di esprimersi, dal lin¬ guaggio di idee di cui si serve. Analogamente, il sophistès era identificato grazie al linguaggio nuovo di cui faceva uso. E al tempo stesso l’uditorio gre-

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Alle Orioni della filosofia greca

CO avvertiva la presenza di una nuova modalità del pensiero che impiegava il linguaggio. La scelta, da parte di Platone, della commedia antica come modello per le ambientazioni dome¬ stiche e i dialoghi dei suoi «mimi» è già stata di¬ scussa. Ciò che pure riprese fu la denigrazione del sophistès, tipica della commedia; soltanto, egli tra¬ sformò la burla comica in critica polemica. A dire il vero, egli consente che Protagora parli del titolo sophistès con orgoglio {Protagora, 316 d). Ma al tem¬ po stesso il dialogo nel quale questo accade è idea¬ to in modo da conferire al termine una sfumatura di ironica maldicenza^, in quello stesso modo adot¬ tato dal «Socrate» platonico nella sua Apologia. Troppo raramente si osserva che in quest’ultima opera uno dei tratti distintivi del sophistès, ovvero l’enfasi posta sulla sua techne, sull’abilità tecnica profusa nei testi didattici, è impugnata contro di lui, quando «Socrate» si appropria di questa no¬ zione e l’applica all’allevamento dei cavalli e al lo¬ ro addestramento {Apologia, 20 a-c). L’intento di Platone nel riprendere il contesto comico-satirico nel quale tale nome ricorreva, e nel piegarlo ai fini polemici dei suoi «mimi», aveva ragioni professionali. Era un metodo efficace a suggerire che solo l’Accademia era in grado di of¬ frire un serio programma educativo basato su un uso platonico del linguaggio. Il tratto distintivo del¬ l’accademico era d’essere un philòsophos, non un

VI. I «sofisti» e Socrate: due casi di fraintesa identità

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sophistès. Questa sarebbe stata la nuova denomina¬ zione, esattamente come il suo territorio sarebbe stato la philosophia, non la sophistikè techne. La vo¬ lontà propagandistica si spinse al limite quando Platone scrisse il Sofista, un dialogo deliberatamen¬ te inteso a definire, in un linguaggio programma¬ tico, gli aspetti negativi che, nell’intenzione di Pla¬ tone, avrebbero dovuto connotare Poriginaria de¬ nominazione di sophistès, ovvero un individuo che praticava la specie mimetica dell’arte, in quanto sia relativa all’arte di mettere in contraddizione, arte che fa parte della sezione si¬ mulatrice dell’arte di creare imitazioni sulla base di opinio¬ ni, la specie cioè che è risultata avere a sé riservata l’arte di far giochi di prestigio nei discorsi, la quale appartiene a quel¬ la di creare apparenze, e questa a sua volta dipende da quel¬ la di far immagini, la specie dunque di cui dicevo, che ri¬ guarda la parte umana e non la divina dell’arte di fare, pro¬ prio a tale specie, a tale stirpe, a tal sangue chi dirà che il vero sofista appartiene, dirà l’assoluta verità. {Sofista, 268 c-d, trad. di A. Zadro)^

Usando «Socrate» come uno dei primi a soste¬ nere quanto dubbie potessero essere le credenzia¬ li di quel titolo (una maschera abbandonata con discrezione nel Sofista), Platone separava di fatto il proprio maestro dal suo originario contesto intel¬ lettuale, e gli conferiva una posizione di rilievo, convalidata da una corrispondente svalutazione del gruppo di colleghi contemporanei di Socrate.

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Si tratta, in entrambi i casi, di caratterizzazioni ar¬ tificiali, ma fincanto esercitato dalla poderosa pro¬ duzione platonica inerente a questo argomento è passato nella storia assieme alla parallela distinzio¬ ne stabilita tra Socrate e i cosmologi. Alcune conseguenze di questo tour de force del¬ la scrittura conservano tuttora il proprio potere sul modo in cui è esposta la storia di quell’epoca. Un’opera recente, intitolata / Sofisti, è stata de¬ scritta come «la migliore introduzione generale ai sofisti, in lingua inglese»®. Essa comincia con l’as¬ serire piuttosto appropriatamente che, laddove sia¬ no disponibili testimonianze concrete di quello che i «sofisti» dissero, con le parole da loro stessi usate, queste dovrebbero avere la priorità sulle in¬ terpretazioni derivanti da altre fonti. Ma quando leggiamo le pagine dedicate a Trasimaco, tale cri¬ terio risulta accantonato. I pochi, preziosi fram¬ menti che sopravvivono della sua opera, e che con¬ tengono i suoi ipsissima verba ^, sono del tutto igno¬ rati, per lasciar spazio a un rimaneggiamento del ritratto delineato con polemici intenti da Platone nel primo libro della Repubblica^. Gli effetti della manipolazione platonica nei dialoghi erano sottili. L’originale era distorto, ma al tempo stesso rispettato. Alcuni aspetti operanti nel¬ l’illuminismo (p.es. la retorica) erano riconosciuti in misura esagerata, tale da sviare dalla loro origi¬ naria collocazione nel movimento intellettuale del

VI. I «sofisti» e Socrate: due casi di fraintesa identità

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quale erano parte. Una seconda distorsione era prodotta con il distrarre l’attenzione da alcune del¬ le speculazioni originali tipiche del periodo. Ne era un esempio la formazione di Kulturgeschichten, cioè ricostruzioni della storia della società umana secondo linee evolutive, iniziate da Anassimandro e da Senofane, ma perseguite ancora da Protago¬ ra, Prodico e Democrito (per citarne solo tre), ed estese sino a comprendere le origini delle arti e della «religione». Queste teorie sembrano aver cer¬ cato il proprio fondamento in una sorta di deter¬ minazione biologica di carattere evoluzionistico che stabiliva un rapporto tra la nostra specie e al¬ tre forme di vita. Qui, di nuovo, fu una «sofistica» a orientarsi su quelli che erano in sostanza proble¬ mi umanistici, né si arrestò prima d’aver proposto teorie politiche panelleniche che oltrepassavano i limiti della polis^.

L’accenno al fatto che Platone

abbia scritto la Repubblica partendo da un trattato composto da Protagora (Diogene Laerzio 3, 37, il quale attinge ad Aristosseno, allievo di Aristotele, D-K 80 B 5) contiene forse, in forma esagerata, il ri¬ cordo del fatto che l’esposizione platonica inerente allo sviluppo della struttura sociale de\\à polis a par¬ tire da una fase iniziale primitiva {Repubblica II) po¬ trebbe essere verisimilmente derivata da una Kulturgeschichte preplatonica^®. Ma, agli occhi di Platone, una simile lettura progressista, per non dire ottimistica, della storia

Alle origini della filosofia greca

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umana non era concepibile. Anche quando mutua da altri, egli converte ciò che il suo modello vede¬ va come progresso in fonte di conflitti e di decadi¬ mento morale. L’antica tradizione esiodea del de¬ clino e della rovina morale e sociale, tradotta in un processo ciclico, fu alla guida dei suoi procedi¬ menti mentali, così come lo fu per altri dopo di lui (si pensi a II tramonto delVOccidente di O. Spengler). Di conseguenza, chi legga attentamente il corpus dei suoi scritti non può neanche immaginare che fosse stata proposta una simile, «ottimistica» visio¬ ne della storia umana^h La sua posizione dottrinale costrinse Platone a ignorare la tesi biologico-evolutiva quale spiega¬ zione della natura dell’uomo e della sua condizio¬ ne sociale attuali. Essa era viceversa accolta in sto¬ rie della società umana del tipo, per esempio, di quelle offerte da Protagora o da Prodico. Proseguendo l’indagine biologica che Platone aveva preferito accantonare, Aristotele seguitò a considerare tutte le specie, con l’inclusione della nostra, come fissate entro categorie formali che precludevano ogni sviluppo evolutivo. I due filoso¬ fi hanno di fatto stabilito i termini entro cui le più antiche teorie speculative devono essere collocate. In pratica, la conseguenza è stata quella di dissua¬ dere del tutto dal menzionarle; tuttavia, se se ne deve rinnovare l’interesse, questo va posto (si pre¬ sume) sotto il controllo della prospettiva platoni-

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ca. Ed è quanto effettivamente accade in un saggio dedicato alla rassegna delle speculazioni arcaiche nel campo della teoria del contratto politico e sociale^^. Il modo in cui Platone ha circoscritto i pro¬ blemi (incluso quello di un «contratto sociale») che in via di ipotesi interessavano i suoi predeces¬ sori è recepito come punto di partenza per un rie¬ pilogo all’indietro, passo dopo passo dal IV al VI se¬ colo a.C. Il risultato altera sottilmente la forza de¬ gli originali assegnando loro il compito di situare la storia della cultura in quel contesto entro il qua¬ le Platone l’aveva percepita. C’è motivo di credere che le norme della storia culturale in Grecia fosse¬ ro determinate da Platone in modo tale che il com¬ pito dei suoi predecessori fosse precisamente quel¬ lo di rispondere ad esse, piuttosto che il contrario. Una volta di più, la storia è scritta all’indietro.

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Capitolo settimo

L’ILLUSIONE DI UNA COSCIENZA RELIGIOSA GRECA

C’è una forma di distorsione che incombe sul¬ la documentazione inerente ai preplatonici, che non si può imputare alle fonti antiche. Essa è il pro¬ dotto di uno sforzo inteso a stabilire un rapporto, il più stretto possibile, tra la cultura greca, e spe¬ cialmente l’intelletto greco, e quella che si suole definire come «religione» greca. La tesi di una con¬ nessione tra esse fu ufficializzata prima della fine del secolo scorso da Erwin Rohde, in Psyche, una delle opere più influenti tra tutte quelle scritte sul mondo classico. Il suo effetto sulla storiografia dell’Ellade si trova efficacemente sintetizzato in alcu¬ ne eloquenti formulazioni di Guthrieh Il significato delle sezioni precedenti è stato di mostrare che in Grecia la religione esisteva già molto tempo prima dei poemi omerici. Ad essa vennero imposti gli dèi di Omero - e si sarebbe tentati di aggiungere, accidentalmente - al punto che la sua storia successiva può venire descritta senza parzia¬ lità come la battaglia della religione, cosi come il termine viene oggi inteso dai più [il corsivo è mio], per liberarsi da questo in¬ cubo [...] ciò che stiamo sostenendo è resistenza di un con¬ flitto, e vaie la pena notare che tale supposizione si basa su una teoria avanzata non molti anni fa: la teoria di Erwin Rohde esposta nel suo importante libro Psyche [...] La tesi del

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libro è che Omero rappresenta una frattura artificiale nella continuità della religione greca [...] che i concetti religiosi dei poemi omerici costituiscono una rottura nella continuità della tradizione religiosa greca, la quale più tardi gradatamente tornò a un genere di credenze [il corsivo è mio] e di cul¬ ti già prevalsi in Grecia in un periodo più antico. (Trad. di G. Germani)

Il nostro assunto è che né Parmenide, né Peri¬ cle avrebbero potuto trovare sensata una simile te¬ si, se fosse stata loro proposta quando erano in vita. Al contrario, la sua formulazione poggia su un vo¬ cabolario e su un insieme di concetti che divenne disponibile soltanto in quella che è comunemente nota come era giudaico - cristiana, e fu da allora che diventò parte della moderna coscienza europea. Per ragioni legate al carattere conservatore del¬ le loro discipline, i classicisti hanno mostrato una particolare propensione a valutare la cultura classi¬ ca entro i parametri offerti da Rohde. Per ciò che concerne i preplatonici l’effetto pratico è stato quello di esagerare, ben oltre le dovute proporzio¬ ni, il ruolo assegnato agli «orfici» (quale che sia il significato di questo termine) e ai «pitagorici» nel¬ la storia intellettuale di quell’epoca {infra, cap. Vili). Il linguaggio e le concezioni che vi si accompa¬ gnano non appartengono al periodo tardo-arcaico della cultura greca. La parola stessa «religione» non ha un corrispettivo nel greco classico. Del pa-

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ri intraducibili sono le nozioni di «spirituale» op¬ posto a «materiale», «fede» opposto a «ragione», «credere» opposto a «non credere». Proviamo a immaginare un europeo moderno di qualsiasi cre¬ do religioso fare la sua comparsa nell’antica piana di Maratona per interrogare gli uomini del posto intorno ad argomenti simili: essi di certo non avrebbero compreso i suoi discorsi. Comunque, la tesi contraria è dura a morire, e il suo persistente potere di influenzare la storio¬ grafia dei preplatonici risulta evidente non appena il lettore di KRS apra il volume: scopre allora che gli si richiede di avvicinarsi all’argomento attraver¬ so un capitolo introduttivo (pp. 7-74) dedicato ai Precursori della cosmogonia filosofica.

Non è difficile rintracciare una relazione tra ciò che Omero sporadicamente afferma intorno al kosmos (una parola che egli stesso non utilizza mai in questa accezione) e le teorie offerte dai preplatonici^. Più semplice ancora è ravvisare connessio¬ ni più strette con la Teogonia di Esiodo. Nella mag¬ gior parte dei casi, tali riferimenti retrospettivi as¬ sumono la forma della correzione o del ripudio, piuttosto che dell’adattamento. Alcuni tra questi (ma non tutti) sono dovero¬ samente rilevati nel capitolo introduttivo del ICRS. Potrebbe, in ogni caso, essere sorprendente per il lettore trovare che essi sono mescolati insieme a materiale qualificato come «orfico» (pp. 21-32, e

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poi anche pp. 42-46), oppure come parte del dub¬ bio testo superstite di un poema perduto attribui¬ to a un poeta lirico (Alcmane)^ o, infine, come de¬ rivante da testimonianze frammentarie, per lo più risalenti ad età tarda, che si presume ricordino un’opera di Ferecide di Siro, un personaggio vago, forse del VI secolo a.C. (la data è discutibile), il quale - si può affermare legittimamente - soprav¬ vive nel ricordo seriore come figura di necroman¬ te e stregone^. C’è sempre stato un generale accordo sul fatto che la «filosofia» greca arcaica, quali che siano i dettagli della sua interpretazione, costituisse una prova di razionalismo, tipicamente greca, volta a spiegare l’ambiente in termini naturali, definibili come scientifici piuttosto che mitologici, per la quale non sono attestati paralleli nella documen¬ tazione a noi nota di culture precedenti. Perché allora si sente la necessità di introdurre una storia di tale razionalismo in questo modo? Il «mitico» è dichiaratamente una categoria flessibi¬ le, e può concernere versi arcaici di qualità varia¬ bile. Nel caso di Esiodo, l’attività mitopoietica è posta sotto il controllo di un obiettivo che mitico non è, quello cioè di organizzare storie leggenda¬ rie e genealogie in una successione completa e coerente, con integrazioni inventate dal composi¬ tore, l’insieme essendo correttamente descritto come un «sistema», o almeno l’abbozzo di un si-

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Sterna, sebbene vi permanga una sintassi di tipo narrativo^. Nessun obiettivo del genere è ravvisabile nei materiali non epici su menzionati, che danno cor¬ po al capitolo in esame. Alcuni esempi potranno il¬ lustrare il problema: Di’; «Son figlio della Greve e del Cielo stellato, di sete son riarso e mi sento morire: ma datemi presto la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosyne. E allora ti saranno misericordi per volere del sovrano di sot[ terra, e ti daranno da bere l’acqua del lago di Mnemosyne. E allora andrai lontano per la sacra via nella quale anche gli [altri mystai e bàcchoi si allontanano gloriosi®». (Trad. di G. Pugliese-Carratelli)

Versi di questo genere, composti per incantesi¬ mi a opera di iniziati in un rituale esoterico, pre¬ sentano come tratto distintivo quella discontinuità che è tipica del linguaggio delle religioni estatiche. La coscienza si arrende - o è invitata a farlo - a una serie di immagini in parte incoerenti che evocano intense sensazioni fìsiche. Un altro gruppo di versi, ricostruiti da un pa¬ piro decifrabile soltanto parzialmente^, ha indotto alla seguente conclusione (tratta da KRS, p. 33): Si comincia ad avere l’impressione che «Orfeo» preser¬ vasse l’originario racconto orientale di un dio che fu incinto ingoiando il fallo reciso; questo non capita comunque al-

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l’autore stesso della castrazione, né tale è il mezzo con il qua¬ le egli è soppiantato dal dio degli elementi atmosferici. Piut¬ tosto, il dio degli elementi atmosferici (Zeus) ingoia il fallo, che sembra essere stato conservato come simbolo o stru¬ mento di generazione, al fine di far nascere 1 universo intero in un secondo, e finale, atto di creazione — proprio come farà Phanes nel più tardo racconto rapsodico.

Non stupisce che gli autori si sentano obbligati ad aggiungere {ibid.) il frettoloso commento: «La rilevanza della fede orfica per la filosofia presocra¬ tica - anche alla luce delle nuove testimonianze risulta ancora piuttosto esigua». Il tipo di linguag¬ gio incomprensibile e privo di coerenza di cui si è ora ricordato qualche esempio può trovare paral¬ leli in racconti rituali narrati in un centinaio di ce¬ rimonie tribali, dall’Africa alla Polinesia. Ma per¬ ché mai ritenere necessario, o opportuno, insiste¬ re sul fatto che il lettore è invitato a formarsi un’idea preliminare dei razionalisti preplatonici innanzitutto osservandoli attraverso il caleidosco¬ pio di materiali del genere? Citando l’ipotetico «libro» connesso con il no¬ me di Ferecide di Siro ai tempi di Diogene Laerzio, KRS (p. 56) ne riportano le sentenze iniziali, così ricostruite: Zas e Chronos esistevano da sempre, e Chthonia; Chthonia ebbe il nome di Ge, da quando Zas le dette la terra {gen) come dono [o «prerogativa», Diogene Laerzio 1, 119 == Fere¬ cide, D-K 7 B 1, N.d.L].

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Zas e Chronos e Chthonia esistevano da sempre, come i tre princìpi primi (archài ) [...] e Chronos generò dal pro¬ prio seme il fuoco e il vento (o «fiato») e l’acqua [...] da lo¬ ro, quando furono disposti in cinque recessi, si generò nu¬ merosa altra prole divina, che è detta «dei cinque recessi», ciò che è forse lo stesso che dire «dei cinque mondi». [Damascio, deprincipiis, 124 b = Ferecide, D-K 7 A 8, N.d.T.]

Come rivela anche il commento conclusivo, la maggior parte di questo testo costituisce la para¬ frasi di un originale, qualunque esso possa essere stato, come è evidente anche dall’uso del termine aristotelico «principio primo». Eraclito e Parmenide, per menzionare solo due dei preplatonici, possono aver composto in modo oscuro, ma si capisce almeno che tentavano di dire qualcosa di importante. Non hanno mai composto assurdità di questo genere. Persino KRS (p. 7) so¬ no disposti ad ammettere che la sezione dedicata a Ferecide sia trattata «per un’estensione in effetti un po’ sproporzionata». Ma la portata dell’urgen¬ za che sembra sia avvertita di stabilire una relazio¬ ne significativa tra queste aberrazioni fantastiche e la filosofia seria, è rivelata dal tentativo, certo de¬ gno di nota, di connettere Ferecide con Eraclito. Così si legge in KRS (p. 56) : Zas e Chronos e Chthonia «esistevano da sempre»: que¬ sto risolve l’aporia della creazione ex nihilo. Una formulazio¬ ne analoga può ravvisarsi, circa due generazioni più tardi, nel¬ l’ordine del mondo di Eraclito, che non fu l’opera di alcun dio né di uomo, ma era da sempre, ed è e sarà. (D-K 22 B 30)

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A parte l’obiezione che è soltanto una parafrasi tarda di Ferecide a dover puntellare questo giudi¬ zio, è il giudizio stesso che certamente capovolge il vero, nel senso che Eraclito, ben lontano dall offri¬ re una dottrina «analoga» a simili fantasie cosmo¬ goniche, in realtà le contraddice: nessuna «perso¬ na» di nessuna specie ha a che fare alcunché con il kosmos. Con l’escludere, piuttosto inaspettatamen¬ te, ogni essere umano così come ogni dio, il filo¬ sofo potrebbe semmai voler rivolgere un attacco al¬ l’autore di fantasie del genere, come responsabile della loro esistenza. Nella misura in cui la cultura greca tardo-arcaica è posta dagli storici sotto il controllo della «reli¬ gione», questo sforzo riflette presupposti culturali del XIX secolo, dai classicisti adattati al VI e al V se¬ colo a.C. L’urgenza dei contemporanei di conserva¬ re all’esperienza greca un simile contesto emerge dalla fiducia riposta da KRS (pp. 30, 32, 48) nell’orientamento offerto dai recenti studi di Walter Burkert sulla religione greca. In uno dei capitoli suc¬ cessivi (cap. VII, pp. 214-15, relativo a Pitagora) è in¬ trodotto il seguente programma di interpretazione: Gli unici riferimenti espliciti (due) di Platone a Pitagora o ai Pitagorici mostrano i due volti del pitagorismo - quello religioso [il corsivo è mio] ed etico, e quello filosofico e scien¬ tifico. In che rapporto stavano questi due aspetti della dot¬ trina pitagorica? Originarono entrambi dalle riflessioni stes¬ se di Pitagora? Queste problematiche saranno al centro [il cor-

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sivo è mio] della nostra discussione, qui e al capitolo XI [Philolaus of Croton andFifth- Century Pythagoreanism, N.d.T.], così come lo sono state negli studi sul pitagorismo per un secolo e più; ne sono testimoni titoli come Mysticism and Science in thè Pythagorean Tradition di F.M. Cornford®, e Weisheitund Wissenschaft di W. Burkert (questo capolavoro degli studi classici del dopoguerra è ora disponibile in buona traduzione, timi¬ damente [il corsivo è mio] intitolata Lore and Science in Ancient Pythagoreanism)^. Le discussioni si sono trascinate per il fatto che la documentazione è particolarmente insoddisfacente. In questo senso Platone è ampiamente — anche se indirettamente da biasimare [il corsivo è mio].

In un volume il cui intento sia quello di pren¬ dere in esame la documentazione relativa ai «filo¬ sofi presocratici», l’inserzione di questo omaggio a un’opera che pone l’enfasi sulle affinità tra il filo¬ sofico e il non filosofico e tenta di comprendere il primo nei termini propri del secondo, può appari¬ re sorprendente, al pari della decisione di fare ri¬ cadere su Platone il biasimo per aver mancato di ri¬ conoscere adeguatamente tale affinità. La tenta¬ zione di travisare una fonte greca disponibile per ottemperare a un interesse moderno è già eviden¬ te nella parola «religione», così come è applicata da KRS a proposito del primo dei due luoghi pla¬ tonici ivi ricordati (e che saranno esaminati nel ca¬ pitolo seguente). Il passo {Repubblica, 10, 600 b), che fa riferimento ad un’associazione, o circolo pi¬ tagorico, non dice nulla della «religione», e nean¬ che poteva, se si considera che questo termine è as-

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sente dal vocabolario greco disponibile al tempo in cui fu scritto. L’urgenza di collocare la cultura greca classica nel contesto di quella religiosità che la tradizione giudaico-cristiana ha reso familiare non trae, natu¬ ralmente, origine dalla attuale generazione di stu¬ diosi. Si è già detto del ruolo-guida che in questo ambito esercitò Rohde, quasi un secolo fa. La Teologia dei primi pensatori greci di Werner Jae¬ ger (Oxford 1947), anch’essa un’opera influente, dava per scontata, già nel titolo, una concordanza, o quanto meno una affinità, tra il pensiero prepla¬ tonico e il pensiero cristiano, per il fatto di essere entrambi «teologici». Andando ancora indietro, si può osservare come gli studiosi dell’età vittoriana affrontassero l’immagine della «religione» greca che vedevano offerta da Euripide. Ammettendo l’assenza di moralità (quale a noi appare, dal no¬ stro punto di vista di moderni) come caratteristica della divinità nelle sue opere teatrali, la spiegazio¬ ne non poteva esser cercata - così si riteneva - con l’assumere che il drammaturgo stesse semplicemente rispondendo alle attuali attese del suo pub¬ blico. Piuttosto, quel pubblico doveva essere salva¬ to da se stesso con la supposizione che gli venisse chiesto di respingere la pretesa che le divinità rap¬ presentate fossero veramente divine^®. L’etica tra¬ dizionale era così emendata, a vantaggio di una moralità più «illuminata» che questi personaggi

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drammatici mancavano di impersonare: davvero una terribile vittoria di criteri post-ellenici sulla cultura greca. Di nuovo, la storia era letta all’indietro. Guthrie, il cui saggio I Greci e i loro dèi apparve nel 1950, scrisse nella prefazione (p. vii): «Lo sco¬ po primario di questo libro è quello di servire co¬ me una sorta di manuale di religione per la lettura dei classici greci». E aggiunge: «Sono ormai molti gli anni che ho trascorso leggendo di religione gre¬ ca a Cambridge». In seguito egli avrebbe occupato, in qualità di professore, la cattedra di Filosofia an¬ tica. Aveva a lungo prestato devoto servizio come dignitario della chiesa presbiteriana di Saint Co¬ lomba, a Cambridge. I lettori della sua successiva History of Greek Philosophy

(già sopra ricordata co¬

me «magistrale», p. 103) riconosceranno lo stile controllato di uno studioso estremamente compe¬ tente, il quale giudica in modo cauto e generoso a un tempo le sue fonti antiche e moderne. Ma ciò non gli aveva impedito, ne / Greci e i loro dèi (ibid.), di descrivere «quelli che si dilettano di letteratura greca», che sono poi i suoi futuri letto¬ ri, come coloro che hanno «fatto V inevitabile [il cor¬ sivo è mio] scoperta che quasi ogni sua branca [scil. della letteratura greca] [...] è permeata di religio¬ ne». Un giudizio espresso in questi termini non giunge inaspettato da uno studioso il cui primo la¬ voro di una certa estensione, Orpheus and Greek Re-

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ligion (1935), era consacrato alla tesi che il nome «orfismo» qualificherebbe un’importante e vitale setta religiosa, che si era già stabilita in Grecia dal VI secolo a.C., e forse prima, l’appartenenza alla quale era determinata dalla accettazione di cre¬ denze che stavano al di fuori della «religione» gre¬ ca ufficiale - al di fuori, cioè, di quella che po¬ tremmo definire la religione di Stato - rappresen¬ tata dal pàntheon

greco. Diversi anni prima, nel

tentativo di risolvere la «questione socratica» dei secoli successivi, A. E. Taylor aveva proposto una teoria analoga di una setta di questo stesso tipo, «orfica» o «pitagorica», che aveva attratto la devo¬ zione di Socrate (e della quale egli fu forse alla gui¬ da), e al tempo stesso s’era guadagnata l’ostilità della polis e dei suoi culti ufficiali^ h Come si è detto, in queste «applicazioni» di sto¬ ria religiosa alla storia greca, s’intuisce l’impronta di una coscienza religiosa che è rimasta tipicamen¬ te europea fino alla prima guerra mondiale. Nei due casi specifici ora menzionati si può inoltre rin¬ tracciare, nell’enfasi che pongono sul credo e sul¬ la pratica di setta, una simpatia che promana dal carattere del protestantesimo come oppositore della Roma ufficiale, e delle Chiese dissidenti co¬ me un’alternativa alla costituzione anglicana. Nel sostenere la nozione di una profonda co¬ scienza religiosa basata sul credo e sulla fede come fondamentale per la cultura greca arcaica, Rohde

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aveva fatto grande affidamento sulla concezione, parallela, secondo la quale i Greci di quell’epoca sa¬ rebbero stati consapevoli di avere «anime» che esi¬ stevano in quanto sedi di tale coscienza e dei senti¬ menti religiosi che la pervadevano. Di nuovo, pos¬ siamo ravvisare anche in quest’ambito un’eco della dottrina cristiana. A Burnet, le cui simpatie - a giu¬ dicare dal suo Early Greek Philosophy — sono orientate sul materialismo scientifico piuttosto che sulla reli¬ gione, restava il compito di dimostrare che una dot¬ trina dell’anima fu «inventata» dal «Socrate» plato¬ nico, e che essa non era perciò né «arcaica», né «pri¬ mitiva»^^. KRS, a parte qualche cauta concessione a quella che potrebbe essere stata una dottrina pitagori¬ ca (pp. 219-20; 236-38; 247-48), seguono Burnet nelr escludere dal pensiero preplatonico la rappresen¬ tazione religiosa dell’anima. Non così Guthrie, come il lettore della sua History potrà scoprire leggendo, nel primo volume, l’e¬ sposizione della dottrina pitagorica dell’anima, che si apre con l’enunciato che segue (p. 195) : «Per quel¬ li la cui attenzione si volge a queste righe, l’anima è naturalmente qualcosa di estremamente importan¬ te. Occupa nell’ordine delle cose un posto del tutto differente da quello che, ad esempio, ha nell’epica omerica...». Le pagine che immediatamente seguo¬ no a questa affermazione sono suddivise nei para¬ grafi Assimilazione al divino, Anima individuak e anima universale. Trasmigrazione e unione con il divino.

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Esamineremo nel prossimo capitolo la consi¬ stenza di un simile supporto (o, piuttosto, la sua in¬ consistenza) per l’attribuzione al periodo prepla¬ tonico di una scuola il cui pensiero seguisse questi orientamenti. Opinioni del genere sul pitagorismo arcaico non giungono inattese da un’autorità che già non s’era peritata di affermare (ne / Greci e i lo¬ ro dèi, cit. supro) che «quasi ogni [...] branca [sdì. della letteratura greca] - l’epica, la tragedia, la commedia, la filosofia, la storia, e persino le vive realtà della scena politica e dei tribunali, quali ri¬ sultano dagli oratori - è permeata di religione», e che appunto è questa la «scoperta inevitabile» di chi a quella letteratura si avvicini. Questa idea stravagante può essere applicata a qualche testo empirico. Nel volume I Greci e i loro dèi l’esposizione formalmente prende il via, in mo¬ do piuttosto appropriato, da un capitolo su La di¬ vina famiglia, che consta in tutto di sette divinità, cominciando da Zeus ed Era per finire con Atena. La grande assente è Afrodite, che riceve inciden¬ talmente attenzione soltanto in quattro luoghi sparsi, isolati in singole pagine, e poi in due note in calce^^. L’omissione è significativa. Stando a ciò che sappiamo dall’archeologia, dalla storia dell’arte e dalla documentazione letteraria, è lecito asserire che nessuna divinità del pàntheon greco era in gra¬ do di eguagliare questa dea per diffusione, varietà

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e popolarità del culto, pubblico e privato. La sua universalità in Grecia è adeguatamente descritta da lei stessa nei versi iniziali del prologo dcWIppo¬ lito di Euripide (w. 1-8). Zeus può avere avuto san¬ tuari più pretenziosi - vengono in mente Olimpia o Dodòna, al pari dei templi e dei santuari di Apol¬ lo - ma per la totale partecipazione popolare, at¬ traverso rappresentazioni scultoree e pittoriche in templi che offrivano la performance rituale dell’at¬ to sessuale, attraverso invocazioni e offerte adem¬ piute nelle corti regali o nel privato di innumere¬ voli abitazioni e ambienti domestici - la corte e il boudoir -, nessuna divinità era sua pari in Eliade. Come ogni altra divinità, simbolizzava il laici¬ smo dello stile di vita greco - terreno e sensuale se giudicato con i criteri del credo e della dottrina giudaico - cristiana. L’Ellade non soltanto ammet¬ teva il sesso e l’atto sessuale, ma si può dire (con termini nostri) che li facesse oggetto di culto, seb¬ bene «culto» sia altrettanto intraducibile di «reli¬ gione» o «credo religioso». Era precisamente que¬ sta accettazione della realtà fisica che la cultura giudaico - cristiana rifiutava di riconoscere come dotata di un valore religioso: essa era stata espulsa dal sistema di valori sociale. Tornare ai Greci e pre¬ tendere di descrivere la loro «religione» restando nel contempo fedeli a questa espulsione con l’i¬ gnorare virtualmente Afrodite equivale ad applica¬ re in modo indebito il sistema di valori giudaico-

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cristiano. Ancora una volta la storia è scritta all’indietro. Ma, a parte il caso di Afrodite, il trattamento mo¬ derno del pàntheon greco nel suo insieme non può sfuggire alla distorsione, e per la stessa implicita ra¬ gione che esige un accostamento, il più stretto pos¬ sibile, tra il pàntheon e i presupposti del monotei¬ smo: tanto stretto quanto le testimonianze lo con¬ sentono. Delle sette divinità, a ciascuna delle quali è destinato un capitolo nell’opera I Greci e i loro dèi. Zeus ha la priorità, come l’aveva in Omero, ma en¬ tro certi limiti. Lui e la sua corte - la sua «famiglia», come è stato con ragione osservato^^- conservano qualche riflesso di un modello miceneo rappre¬ sentato da un Agamennone, che è primus inter pares ed esercita il proprio controllo su un gruppo di condottieri in armi con i quali deve consultarsi, le cui critiche deve tollerare e che, all’occorrenza, so¬ no pronti a sfidarlo. La rappresentazione che Guthrie offre di Zeus, per altro ampiamente adottata in analoghe tratta¬ zioni di «religione» greca, presenta però toni di maggiore esaltazione (pp. 84 sg.): Zeus rappresenta per i Greci, durante tutta la loro storia, il dio supremo, e di lui possiamo dire, adattando le parole usate da Aristotele in un diverso contesto [...] che la supre¬ mazia reca con sé l’universalità [...] Concludendo, osservia¬ mo solamente che i Greci spinsero la nozione di un dio uni¬ versale notevolmente più lontano di quanto nessuno avesse

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mai fatto prima, e quasi altrettanto di come sia mai stato fat¬ to nel corso della storia. La sua supremazia e la sua universa¬ lità si erano affermate così saldamente che il suo nome finì per essere usato da poeti e filosofi quasi come il nome di Dio potrebbe essere usato da un cristiano, o quello di Allah da un musulmano. (Trad. di G. Germani)

Siamo di fronte a un’esagerazione incontrolla¬ ta; se esistono testimonianze che possano soste¬ nerla, queste devono essere ricavate dai poeti-filo¬ logi di Alessandria e dai filosofi stoici o dall’età el¬ lenistica, che esprimono vedute non sorrette dal prestigio di un clero o di una Chiesa capaci di far¬ le rispettare e di convertirle in una fede religiosa. È vero che Esiodo aveva introdotto uno dei suoi poemi con un tributo al potere di Zeus sui morta¬ li, esercitato da lui come dio celeste del tuono {Le opere e i giorni, 8), e che nella Teogonia aveva de¬ scritto, dopo una serie di generazioni divine, lo sta¬ bilirsi, sotto Zeus, di un ordine più saldo tra gli dèi, con un assetto che gli consentiva di assegnare a cia¬ scuno le prerogative che gli erano proprie. Ma, an¬ cora, il modello è miceneo: le norme che regolano la famiglia divina sono estrapolate dall’umano. Ma questa era davvero la «teologia» di un Esse¬ re supremo definita in un libro sacro che si assu¬ meva controllasse la fede di tutti? Chi vorrebbe pro¬ porre un genere siffatto di teologia per la grecità tardo-arcaica è incline a ricordare, quale esempio presunto della sua applicazione, le tre tragedie che

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costituiscono l’Orestea di Eschilo. Tuttavia la vicen¬ da narrata in questa trilogia si chiude sotto il con¬ trollo non di Zeus ma di Atena, la quale pragmaticamente impone una decisione: agisce alla stregua di un giudice in un tribunale, ponendo fine a una faida di sangue che, in apparenza. Zeus non aveva alcun interesse a interrompere. Il Jehovah degli ebrei e il Dio Padre dei cristia¬ ni non appartengono alla cultura greca. Il tentativo di rintracciare e definire una «giustizia di Zeus»^^ al governo del cosmo e dell’uomo non può conciliar¬ si con la documentazione fornita in Grecia dalla let¬ teratura, dalla filosofia e dal culto. Anche Platone, sentito dai moderni come il più religioso tra tutti i filosofi greci, preferisce Apollo, non Zeus, a fonda¬ mento deH’autorità religiosa e morale. Seguendo ancora il ragionamento empirico, si può considerare che la struttura istituzionale asse¬ gnata al pàntheon è quella stessa dell’Atene classi¬ ca, insieme con il linguaggio ad essa inerente e gli usi che le erano associati. I sette membri della «fa¬ miglia divina» selezionati nell’esposizione di Guthrie per essere trattati individualmente sono: Zeus, Era, Apollo, Hermes, Poseidone, Artemide e Ate¬ na. Il numero canonico ad Atene era di dodici, e le cinque divinità ulteriori erano Demetra, Ares, Afrodite, Efesto, Estia. Tale era la lista ateniese^®. Variazioni nei membri appartenenti ad essa, limi¬ tate a non più d’uno o due nomi, potevano appa-

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rire in altre località (per esempio a Olimpia) o ad¬ dirittura nella stessa Atene (cfr. il fregio del pàntheonY^. Ma il numero di dodici rimaneva canoni¬

co. Si narra che Alessandro, che non era ateniese, avesse dedicato un altare ai «Dodici» nella lonta¬ nissima India (Diodoro Siculo 17, 95,1). Ad Atene la composizione d’origine era stabilita dalla pre¬ senza dei nomi delle divinità (presumibilmente) apposti alle loro rappresentazioni scultoree, su un «altare» eretto nella piazza del mercato, del quale con verisimiglianza si racconta che fosse stato col¬ locato lì all’epoca dei Pisistratidi, nel tardo VI se¬ colo a.C.^^. Gli studiosi hanno ipotizzato che l’in¬ tento fosse inizialmente quello di rappresentare i dodici membri della confederazione ionica (la dodekàpolis)^^. Se così era, la collocazione del monu¬

mento, al pari della organizzazione dei poemi omerici, sarebbe un’indicazione ulteriore di come la versione ionica della cultura greca d’oltremare ritornasse a influenzare la madrepatria nel conti¬ nente, in un’epoca in cui Atene era ancora una città molto piccola. Se pensiamo a una «religione» greca che defi¬ nisse le norme di una quotidiana condotta di vita, così com’era vissuta ad Atene in quel periodo, le funzioni cui era destinato questo monumento do¬ vrebbero far luce sul modo in cui gli Ateniesi con¬ cepissero la propria «religione» e sul ruolo che le attribuivano nella loro esistenza. La sua funzione

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sembra essere stata pragmatica e concreta. Da un lato definiva per gli Ateniesi il centro e la circonfe¬ renza deH’universo nel quale essi vivevano. Ogni distanza era misurata a partire da lì (si è anche por¬ tato a confronto il caso della «Charing Cross» a Londra) 2°. Dall’altro lo si invocava nei discorsi, per rafforzare la validità di patti e giuramenti: si giura¬ va «sui Dodici» (ma era necessario recitarne tutti i nomi a memoria?), ed è un’usanza {nomos) che porta in sé l’impronta delle condizioni orali della comunicazione culturale ancora operanti nel V se¬ colo a.C. «I Dodici», così invocati, svolgevano la stessa funzione sociale della Bibbia sulla quale nel¬ l’era cristiana si poneva la mano al momento di parlare. (Né si può escludere la possibilità che nel¬ la sua forma originale questo rito ateniese com¬ portasse una esecuzione neW agorà, in prossimità del monumento). Se nel 399 a.C. Socrate fu accu¬ sato di mancato «rispetto tradizionale {nomizein) verso gli dèi che la nostra città tradizionalmente ri¬ spetta (nomizei)» [Apologia, 24 c 1, N.d.T.], è lecito inferire che il suo reato si riferisse all’atteggiamen¬ to che teneva nei confronti dei Dodici. Forse aveva proposto, con spirito razionalistico, che al giura¬ mento rituale fosse sostituito un qualche genere di indagine dialettica? E’ ovvio che si tratta di sempli¬ ce congettura. La Bibbia, in ogni caso, rappresentava, per la gente che l’usava con intenti legali, la parola ispi-

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rata di un unico Dio onnipotente, e questa autorità godeva della protezione di un clero o di un mini¬ stero la cui base di potere effettivo era situata nel¬ le cattedrali e nelle chiese e, nel caso del cattolice¬ simo, di un potere papale centralizzato, che aveva sede in Italia. I «Dodici» al contrario erano una «corporazione» (per dirla con Guthrie)^^ con qual¬ che limitata flessibilità nella composizione dei membri, uno dei quali (Zeus) era, piuttosto vaga¬ mente, il più anziano (di certo non più anziano ri¬ spetto a Poseidone, Era o Estia) e, più vagamente ancora, deteneva nel consesso divino la somma au¬ torità. La Teogonia di Esiodo, come s’è già notato, aveva palesato l’intenzione di conferirgli l’autorità che s’accompagna in genere all’anzianità, enfatiz¬ zando i suoi rapporti di parentela con alcuni dei membri. Ma, dai termini del giuramento stesso, è chiaro che questo tentativo ebbe un successo limi¬ tato, come risulta anche dalla successiva preferen¬ za espressa da Platone per Apollo. Di fatto, lo scettro del potere poteva passare dall’uno all’altro anche nella stessa città. I Dodici, per ogni funzione pragmatica cui erano deputati, non possedevano una propria «chiesa» o «catte¬ drale». I massimi onori erano in questo senso tri¬ butati ad Atena, con un considerevole dispendio di finanze. A lei era destinato il più prestigioso pro¬ gramma edilizio, nella citta e nella confederazione ateniese. Marciando in processione alle feste Pa-

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natenaiche, non si pensava a Zeus e alla sua «giu¬ stizia», e ancora meno a Orfeo e ai suoi rituali, ma piuttosto alla donna che era il simbolo del luogo nel quale si viveva, con tutti i suoi poteri e le sue virtù. Il punto è che ciò che noi etichettiamo come «religione» greca prendeva corpo in un sistema de¬ centrato di molteplici nomi divini pronunciati e tramandati oralmente, con i rispettivi culti di com¬ petenza che nel corso del tempo si raccolsero in¬ sieme per il fatto che i loro nomi erano pronun¬ ciati in una lingua comune, il greco, e identifica¬ vano pratiche rituali celebrate dai membri di una comune cultura ellenica (cioè di lingua greca). Nel VI secolo a.C. (e in Ionia forse prima), proba¬ bilmente sotto lo stimolo di una crescente abilità a documentare nomi e funzioni neH’iscrizione, la li¬ sta ricevette un assetto sistematico, anche se dove¬ va conservare ancora nella scultura quella raffigu¬ razione materiale che le condizioni di oralità pri¬ maria avevano reso necessaria. La suddivisione del potere tra tanti nomi divini che identificavano oggetti di rispetto, venerazione o timore da parte della gente comune impedì di fatto la formazione, in età classica, di una conce¬ zione deir autorità religiosa nel senso che noi dia¬ mo a questo termine. E, fatto ugualmente impor¬ tante, impedì anche la formazione di una autorità morale. L’effettivo universo concettuale concer-

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nenie questi aspetti, nel cui ambito un ateniese concepiva la propria esistenza, risulta ottimamen¬ te rispecchiato in alcuni celebri luoghi di un dram¬ ma euripideo già menzionato, un dramma che metteva direttamente in scena due divinità, Afro¬ dite e Artemide. A uno dei personaggi umani - Fedra — si assegna il compito di ribadire 1 esigenza di moralità sessuale per le donne sposate. Non le vie¬ ne in mente di fare appello all’autorità divina. La norma della quale è portatrice deriva la propria ef¬ ficacia semplicemente dalle conseguenze sociali che comporterebbe l’infrangerla; È proprio questo che m’uccide, amiche: che possa essere còlta un giorno a disonorare lo sposo, e i figli da me generati {^Ippolito, 419-21) I malvagi tra gli uomini rivela, all occasione, il tempo, uno specchio ponendo innanzi a loro, come a giovane donna (ivi, 428-30, trad. di L. Lomiento)

Chiedere al tempo che faccia da giudice, piut¬ tosto che a un’autorità divina, riflette convinzioni che non sono religiose, bensì razionalistiche. Per quello che riguarda l’ambito del divino, nella stessa tragedia spetta ad Artemide spiegare come esso funzioni. A sostegno del modo in cui gli esseri umani sono stati nel corso dell azione mal¬ trattati da poteri superiori, ella offre l’argomento che segue:

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Cipride volle che andassero così le cose, piena di rabbia. E’ questa per gli dèi la norma: nessuno ammette d’interferire con l’altrui volere, anzi, stiamo sempre in disparte. Perché, che ti sia chiaro, se non temessi Zeus mai sarei giunta a questo punto di vergogna, io, sopportare che morisse l’uomo per me più caro tra tutti i mortali (ivi, 1327-33, trad. di L. Lomiento)

Questo significa a un tempo che ella è priva di autorità morale persino nel campo d’azione che le è proprio - quel tipo di autorità che il pensiero mo¬ derno associa alla divinità - e che anche Zeus ne è privo. Il ruolo di quest’ultimo è quello di impedi¬ re una contesa che le proteste di Artemide avreb¬ bero provocato, ed egli l’avrebbe punita per que¬ sto. Ma Zeus, non meno di Artemide, non ha voce in capitolo riguardo a ciò che Afrodite può fare, ed ha fatto. Il comitato o corporazione di divinità ha potere di vita e di morte su di «noi», i mortali, ma tra loro questi poteri sono in competizione: essi operano in un «libero mercato». Non c’è ragione di credere che questi senti¬ menti, pronunciati sulla scena senza un commento avverso o una correzione, rappresentino qualcosa di diverso dalle comuni attese di un normale pub¬ blico di teatro. Essi rappresentavano la loro «reli¬ gione», un vocabolo che, come si è detto, sarebbe a rigor di termini inapplicabile. Non stupisce allo¬ ra che una ricostruzione di questa «religione» che intende porre l’enfasi su Zeus come «dio padre»

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senta il bisogno di relegare i Dodici e il loro altare in una Appendice che il lettore veloce è implicita¬ mente invitato a tralasciare^^. La Grecia classica fu una società laica, sostan¬ zialmente nel senso che il suo tipo di politeismo re¬ se impossibile concepire una qualsiasi autorità mo¬ rale al di fuori della società umana. La stabilità del¬ la condotta civile poggiava sulla «tradizione», sull’«ordinamento dei padri» riposto nel costume, negli usi e nelle comuni norme di comportamen¬ to {nòmoi, ethe). Come tale, r«etica» greca era prag¬ matica, e dispensata dal supporto di un «credo» re¬ ligioso. La sua essenza, spesso ribadita, è racchiusa nelle formule: «evitare ogni eccesso»; «rispettare i nòmoi »; osservare un atteggiamento rispettoso ver¬ so una corporazione di divinità tra loro in compe¬ tizione attraverso la celebrazione dei culti loro pro¬ pri. L’«empietà» (asèbeia) si configurava innanzi¬ tutto come mancata osservanza di tali pratiche, che era oltraggiosa verso le singole divinità di cui s è detto. Ciò non ha nulla a che fare con l’assenza di una «fede» o di un «credo» religioso, ma attiene so¬ prattutto alla violcizione delle norme tradizionali. Se ci siamo soffermati a lungo sulla questione del laicismo è stato per esporre una delle ragioni per cui la speculazione preplatonica potè manife¬ starsi in Grecia nel modo in cui di fatto si manife¬ stò. È impossibile immaginarla operativa in Pale¬ stina, in Egitto o in Mesopotamia. Richiedeva la

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protezione sociale consentita da una comunità lin¬ guistica, quella dei Greci, che in sé era altamente decentralizzata, e come tale priva di una «teologia» omogenea e sostenuta da un potere clericale cen¬ tralizzato, dotato di una conforme struttura cen¬ tralizzata nella quale risiedere. Al di fuori di quel¬ la centralizzazione caratteristica del successivo mo¬ dello giudaico-cristiano, era impossibile creare un corrispondente corpo centralizzato di «credenze» che controllassero l’obbedienza a un’unica «fede». Non c’era un’«ortodossia» che fosse in grado di opporsi efficacemente al razionalismo, e tanto me¬ no di sopprimerlo. Raffigurare questi pensatori al¬ l’opera in un contesto identificato come «religio¬ so», o come vincolato in certi casi a obblighi reli¬ giosi, è del tutto sbagliato. Queste palesi verità sull’antica Grecia tendono a divenire astruse non appena pronunciamo le pa¬ role «dio» come traduzione del greco theòs (o dàimon, usato come equivalente di - o subordinato ri¬ spetto a - theòs). Nel moderno linguaggio europeo il termine «dio» porta impresso il marchio irrever¬ sibile del monoteismo giudaico-cristiano, nel sen¬ so che esso simbolizza la presenza di un potere be¬ nefico e di una autorità morale unici. Conforman¬ doci ai modi della lingua greca, siamo senz’altro disposti a riconoscere «gli dèi», al plurale come al singolare. Ma di fronte alla prospettiva di spoglia¬ re il termine di un’uniforme valenza morale o di

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un riferimento razionale, abbiamo la tendenza a cercare rifugio nella mentalità giudaico - cristiana. Non rientra nelle nostre aspettative che la nozione greca della divinità sia così frammentata, pragma¬ tica e, ai nostri occhi, relativista. Non rientra nelle nostre aspettative che essa rappresenti la nostra, a tratti imprevedibile, natura fisica. In particolare ri¬ fuggiamo dalla nozione che i nostri piaceri sono al¬ trettanto meritevoli di protezione divina a opera di un theòs (o di una theà ) degli ideali e delle aspira¬ zioni che coltiviamo, e forse anche di più. Dobbia¬ mo riconoscere che i theòi, al loro apparire nella letteratura greca, poterono essere sottoposti a cri¬ tiche severe da parte degli uomini (persino Apollo non ne resta immune, nello Ione di Euripide) e a parodie crudeli. In ciò che sarà scritto intorno ai preplatonici in quest’opera, i termini «dio» e «religione» verran¬ no il più possibile evitati, e ne saranno esclusi ter¬ mini come «fede» e «credo religioso».

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