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Italian Pages 184 [97] Year 2003
Marco Piazza
ALLE FRONTIERE TRA FILOSOFIA E LETTERATURA Montaigne, Maine de Biran, Leopardi, Pessoa, Proust, Derrida
3 " 788883 " 354267
€ 21,00 (Li.) www.guerini.it
D. Losurdo, La catastrofe della Germania e l'immagine di Hegel E. Weil, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani J. D'Hondt, Hegel segreto. Ricerche sulle fonti nascoste del pensiero hegeliano G. Bonacina, Storia univenak e filosofia del diritto. Commento a Hegel H.-G. Gadamer, Elogio della teoria. Discorsi e saggi N. Panichi, Antoine de Montchrétien. Il circolo dello Stato G. Lukacs, Prolegomeni all'ontologia dell'essere sociale. Questioni di principio di un'ontologia oggi divenuta possibile M. A. Pranteda, Individualità e autobiografìa in Dilthey E. Cassirer, L. Couturat, Kant e la matematica G. Ryle, Per una lettura dì Piatone E Soldani, Totalità contro sistema. Il marxismo e l'analisi della società oggi E. Weil, Educazione e istruzione. Scienza e discipline umanistiche oggi P. Lauro, Per il concreto. Saggio su Th. W. Adorno G. Friedmann, La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee 1895-1935 K. Bordoli, Memoria e abitudine. Descartes, La Porge, Spinoza F. Vander, Metafisica della guerra. Confronto tra la filosofia italiana e la filosofia tedesca del Novecento R. Bordoli, Baruch Spinoza: etica e ontologia. Note sulle nozioni di sostanza, di essenza e di esistenza nell'Etìlica. C. D'Ancona Costa, La casa della sapienza. La trasmissione della metafisica greca e la formazione della filosofia araba M. Nacci, La barbarie del comfort. Il modello di vita americano nella cultura francese del '900 A. Burgio, Rousseau, la politica e la storia. Tra Montesquieu e Robespierre G. Biondi, La ricerca di Heidegger sulla temporalità. Un'ipotesi sul contenuto e i temi della terza sezione della prima parte di Essere e tempo L. Quilici, Dom Deschamps: la sfida del paradosso alla ragione delle Lumières M. Piazza, Passione e conoscenza in Proust A. Ardovino, Heidegger: esistenza ed effettività. Dall'ermeneutica dell'effettività all'analitica esistenziale (1919-1927) V. Pedroni, Ragione e comunicazione. Pensiero e linguaggio nella filosofia di KarlOtto Apet ejurgen Habermas P. Salvucci, Lezioni sulla hegeliana filosofia del diritto. La società civile M Pi il/za, Mie frontiere tra filosofia e letteratura. Montaigne, Maine de Biran, Leopardi, Pessoa, Proust, Derrida
ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI SOCRATES Collana diretta da Remo Bodei, Domenico Losurdo, Livio Sichirollo
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Marco Piazza
ALLE FRONTIERE TRA FILOSOFIA E LETTERATURA Montaigne, Maine de Biran, Leopardi, Pessoa, Proust, Derrida
Copyright © 2003 by Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Napoli, via Monte di Dio 14 Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA Via Comelico, 3 - 20135 Milano http://www.guerini. it e-mail: [email protected]
GUERINI Printed in Italy ISBN 978-88-8335-426-7
E ASSOCIATI
INDICE
Premessa
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Ringraziamenti
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I.
Limiti e intersezioni 1. La problematicità dell'oggetto culturale «filosofia», p. 2 1 — 2 . Uno spettro s'aggira per l'Europa, p. 24 — 3. Il sogno della filosofia e l'autonomia del filosofìco rispetto al letterario, p. 33 — 4. La verità è esterna o interna ai giochi linguistici?, p. 38 — 5. La filosofia come un genere di scrittura dello scaffale «letteratura», p. 45
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II. Prospettive d'indagine e testi di confine 1. Un approccio e due mosse strategiche, p. 53 — 2. Montaigne: «la filosofia non è altro che una poesia sofisticata», p. 58 — 3. Ancora su Montaigne: la filosofia come «scuola di èétise», p. 65 — 4. La filosofia di nome fa Thérèse, p. 68
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III. Un genere ibrido: il diario fìlosofìco di Maine de Biran 1. Un genere fìlosofico nuovo, p. 73 — 2. Il paratesto del Journal, p. 76 — 3. La «morale sensitiva» e il governo di sé, p. 81 — 4. Governare se stessi e il monumento di una
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vita, p. 85 — 5. Una filosofia e una scrittura giorno per giorno, p. 90
IV. Leopardi e Pessoa: pensiero poetante e poesia fllosofica
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1. Leopardi e la filosofia rivolta contro se stessa, p. 97 2. Leopardi: il nichilismo della conoscenza, p. 103 — 3. Pessoa: finzione ed eteronimia, p. 110 — 4. Tentativi di spiegazione, p. 115 — 5. La conoscenza attraverso la finzione, p. 119
PREMESSA
V. Proust o la filosofia del romanzo 123 1. Lo statuto della Recherete, p. 123 — 2. Il «raddrizzamento» delle illusioni, p. 128 — 3. La gelosia, una passione eminentemente conoscitiva, p. 135 — 4. Una forma particolare di conoscenza e un genere particolare di scrittura, p. 141 VI. Derrida e la filosofìa come letteratura 149 1. Finzione (autobiografica) e teoria (della posta), p. 149 — 2. Un debito da pagare, p. 157 — 3- L'opzione teorica della cartolina, p. 159 — 4. La decostruzione e il suo «rovescio», p. 164
Bibliografìa
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II rapporto tra la speculazione fìlosofìca e la scrittura poetico-letteraria è antico quanto il pensiero dell'Occidente, ma la tematizzazione esplicita della problematicità di questo rapporto è decisamente molto più recente, almeno nei termini in cui ci è, per così dire, familiare. Per molto tempo alla filosofìa è sembrato possibile trovare una collocazione ben definita per la poesia e per quell'insieme di generi di scrittura che da qualche secolo vengono definiti con il termine «letteratura»: il poetico o il letterario hanno cioè costituito essenzialmente degli stili, delle forme talora utili, talora svianti e pericolose, in funzione dell'espressione della verità speculativa. Il pensiero romantico ha invece cominciato a considerare il «poetico» come una forma non solo di scrittura, ma anche di pensiero capace di cogliere la verità, anzi, come quella forma più adatta a cogliere i nuclei più intimi di quelle verità in se stesse «filosofiche». Da quel momento un equilibrio secolare si è infranto e nel corso del Novecento si è andato affermando, tra gli altri, un genere di pensiero che vede nella poesia e nella letteratura un canale di accesso privilegiato alla verità o che, nondimeno, non accetta più una visione puramente formale della letteratura, come mero arsenale di stili a cui la filosofia può via via attingere a seconda delle sue finalità e dei suoi obiettivi. Soltanto però negli ultimi trent'anni circa la questione
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dei rapporti tra filosofia e letteratura è stata tematizzata in questi stessi termini e ne sono stati avvertiti la problematicità e l'intrinseco interesse. Ciò, come diremo fra poco, è avvenuto prevalentemente oltreoceano, o comunque in ambito anglofono. In Italia, infatti, ancora oggi il tema dei rapporti tra filosofia e letteratura non ha uno statuto pienamente riconosciuto, sia a un livello strettamente accademico, sia a un livello più generale, culturale o divulgativo1. La situazione italiana non è un'eccezione nel complesso del panorama europeo, anche se in alcuni paesi, soprattutto in Germania, la tematica in quanto tale da alcuni anni riscuote un certo interesse nei centri di ricerca universitari. In paesi come la Francia, invece, sebbene all'argomento in sé, salvo rare eccezioni, non sia stata ancora dedicata un'attenzione specifica, alcuni lavori vi possono in qualche modo essere ricondotti in quanto alla prospettiva a essi sottesa, ossia quella incentrata sullo studio degli aspetti letterari della produzione filosofìca e sull'analisi della valenza filosofìca di determinati testi letterari2. Un discorso a parte merita la Gran Bretagna, dove, a par1 Recentemente la rivista «Micromega» ha dedicato al tema «filosofia e letteratura» una sezione di un suo numero, con interventi di Givone su Dostoevskij, di Esposito su Baudelaire, di Cavarero su Calvino, di Bodei su Leopardi e di Odifreddi su Borges. Nell'editoriale di apertura, che riguarda peraltro anche altre sezioni del numero, viene sintomaticamente sottolineata l'intenzione di proporre un modello del «fare filosofia con rigore» che rifiuti «le chiusure autoreferenziali dell'accademia» (cfr. «Micromega», 2002). Una delle rare eccezioni al disinteresse dei centri di ricerca per la tematica è rappresentata dal convegno internazionale su «Filosofia e Letteratura tra Seicento e Settecento» (Viterbo, 3-5 febbraio 1997), i cui atti sono stati pubblicati in Boccata, 1999. 2 Per la Germania cfr., ad esempio, Habermas, 1987, 1991; Frank, 1994; Faber e Naumann, 1999; Lemke e Schierbaum, 2000. Per la Francia, a parte i lavori più «teorici» di Lacoue-Labarthe e Nancy (cfr. Lacoue-Labarthe, 1975; Nancy, 1975; Lacoue-Labarthe e Nancy, 1975, 1978) in ambito filosofia), e quelli di Marquet (1996) o Rancière (1998) in ambito let-
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i ne dalla metà degli anni Ottanta è sorto un vivo interesse per la tematica, in modo particolare presso l'University of Warwick, dove nel 1985 è stato fondato un Centre for Research in Philosophy and Literature tuttora operante e che ha promosso a partire dalla fine degli Ottanta una serie di pubblicazioni specifiche3. Certamente, però, è oltreoceano che la tematica ha riscosso maggiore attenzione, anzi si può dire che proprio negli Stati Uniti è originariamente sorto l'interesse per gli Studies ni Philosophy and Literature, interesse che ha poi contagiato l'intera area anglofona. Si pensi, ad esempio, alla rivista • 1M11 losophy and Literature», edita dalla Johns Hopkins Univcrsity Press, il cui primo numero risale al 1976. Scorrendo una bibliografia relativa al nostro argomento, si noterà infat11 hi schiacciante prevalenza dei testi in lingua inglese4. La principale causa della fortuna di questo tema negli Stati Uniti è rappresentata dal New Critiàsm, filone di critica letteraria fondato sulla ricezione entusiastica e talora un po' superficiale che nell'ambito nordamericano ha avuto il pensiero di alcuni autori post-strutturalisti francesi, e in particolare
rcrario, cfr., quali esempi di analisi applicate sui due fronti indicati, Lafond, 1992 (su Descartes), Descombes, 1987 (su Proust), Gii, 1988 (su Pessoa). ' Dapprima nella collana «Warwick Studies in Philosophy and Literai u i r » (1988-1992), poi in quella «Warwick Studies in European Philosophy» (1994-2000), dirette entrambe da Andrew Benjamin, curatore di alcuni volumi in esse contenuti (cfr. Benjamin, 1988, 1989, 1992; Benjamin e Osborne, 1994) e autore, tra l'altro, di un lavoro incentrato sull'analisi delle modalità con cui la filosofia ha cercato di differenziarsi dalla letteratura (cfr. Benjamin, 1994). 4 Per gli Stati Uniti cfr., ad esempio, Hartman, 1978; De Man, 1978; Gallop, 1981; Gasché, 1983; Nussbaum, 1990; Hjort, 1992; Cavell, 1992; Silverman, 1994; Hoagwood, 1996. Per la Gran Bretagna cfr., tra gli altri, Wood, 1990; Nash, 1990; Edmundson, 1995; Smiley, 1995; Eldridge, 1996; Gibson, 1999; New, 1999; Thomasson, 1999.
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quello di Jacques Derrida, pensiero che ha profondamente influenzato soprattutto i dipartimenti nordamericani di letteratura. Gli alfieri di questo nuovo paradigma culturale sono stati individuati in particolare nei cosiddetti Yale Critics, tra i quali Paul de Man, Geoffrey Hartman e J. Hillis Miller. Come oggi si è riconosciuto da più parti, il «decostruzionismo» — altra categoria con cui viene definito tale filone - ha operato una sorta di semplificazione e di irrigidimento di alcune idee portanti del pensiero derridiano della decostruzione, producendo in molti casi teorie e interpretazioni discutibili e talora sconcertanti, riconducibili grosso modo al principio della «semiosi illimitata», secondo il quale qualsiasi interpretazione di un testo avrebbe un fondamento di validità, in una sorta di riduzione a letteratura di qualsiasi genere di testo, esaltando appunto il suo valore «testuale» a scapito di quello teoricocontenutistico (cfr., ad esempio, Wood, 1990, p. 3). Proprio il carattere vistosamente polemico nei confronti della filosofia analitica, da un lato, e di parte della filosofia continentale, dall'altro, hanno reso sospetti in Europa — non senza ragioni - tutti quei lavori che in qualche modo si rifanno al paradigma della decostruzione, spesso coinvolgendo in tale netta presa di distanza anche il pensiero dello stesso Derrida, il quale in più occasioni, già da diversi anni, ha tuttavia preso in prima persona le distanze dalla nebulosa correntemente definita «decostruzionismo», sottolineando di non aver mai inteso, nei suoi lavori, ridurre la filosofia a letteratura o di ritenere che ogni interpretazione è valida in quanto tale (cfr. Derrida, 1997c, p. 199, nota 10; 1997d, p. 122). Il comprensibile e giustificato sospetto nei confronti del variegato e persino un po' pittoresco universo del decostruzionismo d'oltreoceano e delle sue propaggini continentali ha pertanto finora distolto la filosofia europea da una tematizzazione pacata e più approfondita dei rapporti tra filosofìa e letteratura, che sappia cogliere gli stimoli che molta filosofia tra
13 il XIX e il XX secolo offre in questa direzione, senza trasformarsi in ripetizione barocca e inconcludente di alcuni influenti modelli novecenteschi, come quello del «pensiero poetante» tipico del cosiddetto secondo Heidegger. A partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo appena conclusosi alcuni studiosi di filosofìa italiani, tra cui spiccano i nomi di Aldo Giorgio Gargani, Carlo Sini, Vincenzo Vitiello e Sergio Givone, si sono misurati con la nostra questione a diverso titolo e con modalità di scrittura differenti: Gargani dando vita a un genere di testi inedito, che innesta su una scrittura di tipo letterario una riflessione che deve molto alla speculazione fìlosofica e alla pratica psicoanalitica, Sini concentrandosi sul significato e sullo statuto della scrittura fìlosofica, Vitiello tentando una ricognizione di alcuni autori emblematici, filosofi «poetanti» o poeti «filosofici», attraverso una scrittura fìlosofica vicina alla narrazione, Givone — che già intorno alla metà degli anni Ottanta aveva dedicato un suo lavoro a Dostoevskij e la filosofia (cfr. Givone, 1984) scrivendo dei veri e propri romanzi, attraversati da una ben precisa intenzionalità filosofìca che crea uno sfondo tematico di tipo speculativo, in cui occupano un posto di rilievo suggestioni metafisiche ed etico-estetiche (cfr. Gargani, 1988, 1990, 1992; Sini, 1992, 1994; Vitiello, 1996; Givone, 1998, 2002; su Gargani, cfr. lofrida, 2002, pp. 45-55; su Givone, cfr. Harth, 1999). Accanto a questo genere di lavori, caratterizzati da una forte cifra sperimentale e di innovazione sul piano della scrittura filosofìca, è comparsa nello stesso tempo una serie di scritti rivolti a studiare gli aspetti letterari del pensiero di alcuni filosofi o di determinate opere fìlosofiche, oppure il valore filosofico di certe opere ascritte al canone della letteratura. Si tratta per lo più di articoli o saggi brevi, spesso firmati da giovani studiosi, comparsi su riviste specializzate, talora
14 di area letteraria, talora di area fìlosofìca5. Un discorso a parte, in questo variegato universo, meritano alcuni studi particolarmente accurati e che tendono a mostrare le intersezioni tematiche e disciplinari che innervano il pensiero di determinati letterati novecenteschi. Penso soprattutto ai lavori di Stefano Poggi su Proust e Henry James, in cui la metodologia di ricerca dello storico della filosofìa è applicata a testi letterari, in particolare ad alcuni tra i più importanti e suggestivi testi del Novecento europeo, come la Recherche o The Turn of thè Screw, rinvenendo nella loro trama l'impronta delle teorie fìlosofico-scientifiche dell'epoca, da quelle mediche a quelle di psicofisiologia (cfr. Poggi, 1991, 2001). Il presente lavoro deriva da una serie di lezioni seminariali tenute presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli dal 28 maggio al 1° giugno 2001. Dietro il gentile e lusinghiero invito del professor Antonio Gargano, segretario dell'Istituto, chi scrive ha tentato di trasformare i contenuti di quelle lezioni in un testo di una qualche organicità, sottoponendoli a una profonda revisione e a numerose integrazioni. Del primitivo carattere orale il testo che viene qui presentato crediamo mantenga almeno parzialmente il tentativo di procedere attraverso un'esposizione il più possibile piana e documentata, ma senza l'appesantimento di troppi rimandi o incisi. Di conseguenza, e anche perché che ci si avvale del sistema
5 Se si prendono gli indici di due note riviste italiane di filosofìa tra quelle più aperte sul dibattito contemporaneo, quali «aut aut» e «Iride», si incontrano diversi interventi del genere indicato, di cui diamo un campione senza alcuna pretesa di completezza: Fadini su Celan (1988), Folin su Jabès e Leopardi (1991, 1993), Gabetta su Gadda (1993), Piana su Deleuze e la letteratura (1996), Branchi su Bernard Mandeville e il romanziere Henry Fielding (1996), Marzano sull'influenza di Moore in Virginia Woolf (1999), Mecacci sulla poesia di Ernst Meister (2001).
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anglosassone per le citazioni e i rimandi, sono poche le note al testo, essenzialmente concepite con la funzione di supporto bibliografico. La tematica che viene affrontata in queste pagine è quella dei rapporti tra filosofia e letteratura. Di questo tema, che si è brevemente cercato di contestualizzare nelle pagine precedenti, chi scrive si è occupato in maniera per così dire indiretta o applicata in numerosi lavori, a partire dal volume su Passione e conoscenza in Proust che contiene i risultati delle ricerche svolte nel quadro di un dottorato di ricerca in filosofia frequentato presso l'Università di Firenze (cfr. Piazza, 1998). La cifra costante di lavori assai diversi che in questi anni hanno costituito il frutto di ricerche condotte a vario titolo e, più di recente, nel quadro di un assegno di ricerca finanziato dal Dipartimento di Filosofia dell'Università di Firenze, è l'atten/.ione rivolta sia a testi di confine sul piano dei generi letterari, come nel caso del Journal di Maine de Biran, sia alla valenza filosofica di testi incontestabilmente letterari come la Recherche proustiana. In entrambi i casi si è cercato di mettere a punto una metodologia d'indagine il più possibile attenta alla ricostruzione del panorama culturale dell'epoca in cui sono apparsi i testi indagati, prestando particolare attenzione a quelle intersezioni disciplinari che sono tipiche sia del periodo tra Rivoluzione e Restaurazione, sia di quello tardo Ottocento/primo Novecento. Il rapporto con la scrittura, così come quello tra autore e opera, sono alcuni tra gli aspetti privilegiati di un'indagine in cui alcune tematiche prettamente filosofiche, quali il rapporto tra razionalità e passionalità, oppure lo statuto della corporeità e l'interrogazione sulla natura e sull'influenza del linguaggio, sono state analizzate a partire dalla trama delle fonti, delle influenze, delle prese di posizione esplicite e talora implicite contenute nei testi indagati. In questo lavoro si è tentato di proporre, nei capitoli che vanno dal secondo al sesto, una serie di ricognizioni su testi
16 filosofici e letterari condotte nella prospettiva appena illustrata nelle sue linee essenziali, inscrivendole in un percorso teorico-tematico ben preciso, che muove, nel capitolo primo, da una presentazione del tema generale dei rapporti tra filosofìa e letteratura e da una ricostruzione di alcune tappe del dibattito su tale tema — dibattito generato dalla ricezione del saggio derridiano «La mitologia bianca» —, per poi, all'inizio del capitolo secondo, indicare alcune possibili tipologie di approccio alla questione dei rapporti tra filosofia e letteratura. In particolare vengono proposte due direzioni di indagine, l'una rivolta all'analisi del discorso filosofico sul letterario, l'altra relativa invece all'analisi di quei testi che si pongono ai confini tra il letterario e il filosofico e che paiono partecipare di elementi propri di entrambi questi domini disciplinari. Nell'economia del testo si è scelto di inoltrarsi esclusivamente nella seconda delle succitate direzioni - omettendo qualche accenno alla prima direzione di ricerca contenuto nelle lezioni originarie (è questa l'unica alterazione importante rispetto ai temi e alla struttura di base) —, nel senso che predominano le analisi di testi di confine o letterari. Tale scelta è da ricondurre essenzialmente a uno specifico interesse di chi scrive per questo genere di indagini, e non a motivazioni teoriche. Nei capitoli secondo e terzo ci occuperemo pertanto di due testi, l'uno celebre, l'altro meno noto, che rappresentano due generi-limite di scrittura filosofica: gli Essais di Montaigne e il Journal di Maine de Biran. Lo Zibaldone di Leopardi, che è oggetto di analisi contenute nel capitolo quarto, può essere considerato anch'esso un testo di confine; una ricognizione di alcune tematiche ivi contenute sarà la base per inquadrare la concezione della filosofìa e della poesia dell'autore dei Canti. Ancora nel capitolo quarto e poi nel quinto compiremo invece un'indagine svolta su testi formalmente letterari rispetto al canone fìlosofìco così come la tra-
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dizione ottocentesca ce lo ha rappresentato (e cioè composto essenzialmente da trattati scritti mfilosofese, se ci è consentita questa libertà linguistica) e soprattutto che non hanno quale obiettivo principale la trattazione esplicita di tematiche filosofiche o che comunque non intendono inserirsi in alcun dibattito fìlosofìco del loro tempo, ossia il corpus poetico di Fernando Pessoa e la Recherche di Proust. L'ultimo capitolo, il sesto, è dedicato invece a una disamina di un testo rappresentativo del recente tentativo, a cui si è accennato sopra a proposito del panorama italiano, di scrittura in un nuovo genere, letterario e fìlosofico al tempo stesso: si tratta di «Envois» di Jacques Derrida. I capitoli terzo e quinto del presente lavoro riprendono in larga misura i risultati di ricerche su Maine de Biran e su Proust condotte in precedenza, risultati apparsi già in alcune pubblicazioni recenti (cfr. Piazza, 200la, 200Ib, 2002). I paragrafi dedicati a Pessoa, contenuti nel capitolo quarto, costituiscono poi una profonda rielaborazione di parte di un saggio comparso originariamente sulla rivista «Iride» (cfr. Piazza, 1995). I restanti capitoli o parti di capitoli sono interamente inediti. Ove i testi di Maine de Biran e di altri autori, anche di letteratura secondaria, vengano citati rimandando all'originale (francese, portoghese ecc.), è da attribuire a chi scrive la versione italiana riportata.
RINGRAZIAMENTI
Innanzi tutto desidero ringraziare il professor Antonio ( ìiirgano, Segretario dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, per avermi proposto la realizzazione di questo libro, per avermi voluto concedere una dilazione di tempo rispetto ai primitivi tempi di consegna del testo e, infine, per essersi prodigato affinchè quest'ultimo vedesse la luce nella . ni lana «Socrates» dove era già comparso un mio precedente lavoro su Proust. Ringrazio poi il dottor Ulrich Kohlmann, die lavora presso il Dipartimento di Filosofìa dell'Università ili Pisa, per avermi fornito preziose indicazioni bibliografiche. Sono poi molte le persone che desidero ringraziare per .1 vermi incoraggiato, a diverso titolo e in modi differenti, alcune fin dai primi anni Novanta, a occuparmi di temi e testi a cavallo tra filosofia e letteratura. Nella speranza di non dimrnticare nessuno, il mio grazie va a: Remo Bodei, Sergio Moravia, Stefano Poggi, Francois Azouvi, Adolfo Battagliese, Manolina Bertini, Bernard Brun, Massimo Cappitti, Tomaso ( Avallo, Gaetano Chiappini, Giorgio Concato, Sergio Givone, Carlo Ferdinando Russo e Sergio Vitale. Senza le indicazioni metodologiche e le dritte teoriche che i primi tre mi hanno generosamente concesso a più riprese in questi anni, le mie ricerche sarebbero state assai più deboli di quanto non siano risultate e senza il loro sostegno oggi probabilmente non mi troverei a proseguirle. Un sentito grazie va in parti-
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colare al professor Stefano Poggi, per le indicazioni che questi gentilmente ha voluto darmi dopo la lettura di una versione precedente del testo. Ringrazio pure i professori Remo Bodei e Domenico Losurdo per aver accolto nella collana da loro diretta questo mio lavoro. Con sincera commozione la circostanza mi richiama alla memoria la squisita gentilezza del terzo direttore della collana, professor Livio Sichirollo, ahimè di recente scomparso. Dedico questo lavoro ai miei genitori, che, nel trasmettermi la loro passione per il sapere, hanno svolto, e continuano a svolgere, una funzione di supporto morale rispetto alla mia attività di ricerca. Figline Valdarno, maggio 2003
LIMITI E INTERSEZIONI
I . La problematicità dell'oggetto culturale
«filosofìa»
Avvertire la problematicità e la fecondità della tematica dei rapporti tra filosofìa e letteratura significa immediatamente porre in discussione una distinzione fra questi due ambiti che rimandi a una sorta di autoevidenza, che sia cioè resistente a un'analisi critica e radicale di tipo genealogicodecostruttivo. Si tratta anche, però, di vincere le forti resistenze che avvertiamo allorché ci rendiamo conto che una tale problematizzazione mette in gioco — almeno potenzialmente - nientemeno che le partizioni disciplinari (e curricolari) su cui si regge l'architettura della nostra enciclopedia dei saperi. Per provare a tematizzare e a dare voce alla sensazione mista, di attrazione e di timore, suscitata dall'affìorare della questione dei rapporti tra filosofia e letteratura e soprattutto dell'interrogativo circa i confini che delimitano questi due ambiti, è necessario a nostro avviso in primo luogo considerare filosofia e letteratura come due «oggetti culturali complessi»1, due «invenzioni culturali» 2 . In secondo luogo si tratta di 1 Desumo quest'espressione da un saggio di Emmanuel Fraisse e Bernard Mouralis, dove essa è riferita alla sola letteratura (2001, p. 85). 2 Traggo quest'altra espressione dall'importante filone di studi che
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23 porsi in una prospettiva che legga i rapporti tra questi due oggetti culturali come una storia di rapporti di mutua delimitazione. In altre parole, il significato che oggi assumono per noi «filosofìa» e «letteratura» è il risultato di una lunga storia — all'interno della cultura occidentale — in cui pratiche diverse di pensiero e di scrittura si sono andate lentamente definendo, in un gioco dialettico in cui a un certo punto ha preso forma un certo oggetto, la «filosofia», che, definendosi, ha tentato di distinguersi da una sorta di altro da sé che molto più tardi ha assunto il nome di «letteratura» (cfr. Benjamin, 2000). Non si deve infatti dimenticare che il termine «letteratura» è relativamente recente e molto più giovane di quello di «filosofìa». «Il concetto di letteratura si è fissato nella seconda metà del XVIII secolo [...] tra il 1760 (la rivista di Lessing, i Eriefe die neueste Literatur betreffend, compare nel 1759) e il 1800 (data in cui appare De la letterature di Mme de Staci)» (Lacoue-Labarthe e Nancy, 1975, p. 149): la letteratura da insieme di «saperi riservati agli esperti e ai dotti» diventa in quel periodo quello degli «scritti di natura (o di pretesa) artistica» (Fraisse e Mouralis, 2001, p. 88). In altre parole, «mentre lo statuto stesso dello scrittore, dell'autore letterario, non esisteva prima del XVII secolo, lo statuto del filosofo esisteva a tutti gli effetti, e da tempo» (Ribard, 2000, p. 358). E con tale «svolta» culturale la «storia della letteratura» occupa il posto della «storia della retorica», o meglio di uno sfondo composto da retorica ed eloquenza i cui confini erano ben più ampi delle originarie Belles-Lettres e nelle scienze sociali e storiche negli ultimi trent'anni circa ha rivisto profondamente lo statuto di nozioni come «cultura», «etnia», «nazione», de-essenzializzandole e mostrandone il carattere di costruzioni o invenzioni simboliche (sul termine «cultura» cfr. Wagner, 1992; su quello di «etnia» cfr. Fabietti, 1998; su «nazione» cfr. Gellner, 1985; Hobsbawm, 1991).
che intesseva relazioni con un vasto orizzonte di saperi, tra i > inali le attuali filosofìa e letteratura (cfr. Fumaroli, 2002, pp. 17-19). La nostra questione ha origine in un contesto dove la poesia e la nascente filosofia si definiscono reciprocamente in rapporto alla sapienza mitica. Il poeta ispirato e il saggio (presto filosofo) sono due figure che rimpiazzano il sacerdotere (cfr. Vernant, 1978, pp. 383 sgg.). E tutta la fase che prei cele la comparsa del termine «filosofìa» non soltanto vede intrecciarsi le figure del poeta e del saggio, ma vede i protodlosofi scrivere ora in prosa (gli Ionici) ora in poesia (gli lih-ati). Sarà il dialogo platonico a sanzionare la supremazia della prosa, quando ormai il termine «filosofìa» avrà salde ra< h c i nella cultura greca (cfr. Arrighetti, 1989, passim). Non è nostra intenzione addentrarci in questa intricata vicenda delle origini, su cui a dire il vero grava il rischio di letture semplificatone e quasi «meccanicistiche». Pare nondimeno ragionevole supporre che si sia trattato di un processo in cui da un orizzonte di pratiche in cui il racconto della verità e la trasmissione del sapere era patrimonio di più figure (distinte o sovrapposte), si è passati a un altro in cui il saggio-filosofo ha via via sempre più ricoperto il ruolo del depositario di un sapere che non poteva più essere appannaggio dei sacerdoti o dei poeti epici, benché egli potesse, almeno ancora per un certo periodo, servirsi della poesia come unico mezzo espressivo (si pensi a Parmenide, ad esempio), e benché determinati poeti suoi contemporanei si autoattribuissero istanze veritative simili a quelle dei filosofi (è il caso, tra gli altri, di Esiodo). Nella prospettiva in cui ci poniamo in questo studio, ovvero quella dei rapporti tra filosofìa e letteratura indagati da un luogo di osservazione filosofico — affermazione quest'ultima che necessiterà nel corso del lavoro di alcuni chiarimenti—, l'intera questione può essere ritradotta in questi termini: la
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filosofìa è un oggetto culturale complesso le cui stesse origini affondano in un complicato rapporto con quell'altro oggetto culturale che oggi chiamiamo letteratura. Quanto ci preme in verità aver sottolineato, con questi rapidissimi cenni sulle origini della filosofìa, è la problematicità del suo status rispetto a uno dei suoi principali altri da sé, cioè rispetto alla letteratura3.
2. Uno spettro s'aggira per l'Europa
Ciò che attualmente fa problema non è però tanto l'origine «impura» del filosofico oppure che la filosofìa si occupi di questioni che riguardano l'ambito letterario o più in generale l'ambito della creazione artistica, quanto che la filosofìa abbia dei legami profondi con la letteratura (mentre non pare averne di simili con la pittura, con la scultura, con la musica) e soprattutto che la letteratura possieda una — non marginale, non occasionale — valenza filosofica. Da un lato ciò che fa problema è la possibilità che il discorso filosofico si riconosca molto più contiguo a quello letterario di quanto, a più riprese da Piatone in poi, non abbia cercato di mostrare, e, dall'altro, che il discorso letterario contenga nuclei di riflessione filosofìca che vanno al di là di eventuali e ben circoscrivibili riflessioni estetiche. In un suo stimolante lavoro su «filosofìa e letteratura dal
3 È evidente che anche la scienza e la teologia, per fare solo due esempi incontestabili, possono essere definiti anch'essi, quanto la letteratura, «altri da sé» della filosofìa. Il loro statuto appare oggi paradossalmente più chiaro, in quanto in questione è la possibilità di delimitare l'oggetto di questi saperi, e non tanto la forma, malgrado per secoli il discorso filosofico sia stato inestricabilmente connesso a quello scientifico e a quello teologico.
i''. .nianticismo al Modernismo», Marcelle Pagnini propone . |n< M:I chiara schematizzazione: i .»ii.nido si parla di filosofìa e letteratura s'intendono almeno quatI K I prospettive: (1) l'inquadramento della letteratura nel contesto . l i un sistema filosofico, (2) la distinzione specifica e i rapporti fra !• i l n c iittività, quella della letteratura da un lato e quella della fll u M i l u dall'altro, (3) un pensiero normativo e programmatico per i | uà I che pratica letteraria — ciò che comunemente si chiama i i n . i poetica» —, e infine (4) lo studio del pensiero fìlosofico nella li 1 1 natura: in altri termini la osservazione di ciò che di teoretico < unipare nel testo letterario, vuoi come formulazione esplicita, vuoi »• suggestione speculativa implicita, e come frammenti o spuni i originali di pensiero astratto — filosofemi in statu nascerteli — che ponemmo definire «incoativi», dato che l'interprete, riflettendo .iv.K-me al poeta, è indotto a esplicitarli e a completarli (è questa la lei i ura preferita dal filosofo) (Pagnini, 2001, p. 261).
Dal nostro punto di vista, la radicale problematizzazione della prospettiva elencata come quarta da Pagnini comporta un'altrettanto radicale interrogazione circa lo statuto della seconda prospettiva - sempre riferendoci allo schema citato — e e i rea i risultati raggiunti attraverso la sua applicazione. Sullo sfondo della tematica or ora evocata, come ben si può intuire, si pone lo spettro dell'indistinzione dei due campi, dei due macro-generi. Spettro che pare aleggiare con sempre maggior disinvoltura dalla metà del secolo XX in poi, dopo Heidegger, con Gadamer e con Derrida, e che ha pervaso soprattutto molta parte del dibattito generato dalla ricezione del pensiero derridiano, prevalentemente oltreoceano, a partire dalla fine degli anni Sessanta, ma soprattutto lungo il corso degli anni Settanta e ancora in seguito. Nel quadro di tale ricezione si è andata consolidando la vulgata, ora da taluni abbracciata con toni entusiastici, ora invece da altri avversata con tutte le energie possibili, di un decostruzionismo
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«spregiudicato» che avrebbe fatto piazza pulita della distinzione filosofia/letteratura e che praticherebbe una lettura dei testi libera da qualsiasi vincolo filologico e basata su una totale anarchia interpretativa. Se è assolutamente certo e fàcilmente verificabile che pratiche di lettura testuale ispirate a tale modello si sono diffuse e hanno proliferato dapprima negli Stati Uniti e poi nel continente europeo, l'analisi che più avanti tenteremo del pensiero di Derrida ci consentirà di appurare se e in che misura a esso si attagli tale vulgata. Qui per ora vorremmo soltanto indicare alcune premesse storico-culturali che hanno preparato la comparsa dello spettro appena menzionato. Innanzi tutto una certa insofferenza verso una rigida partizione disciplinare può aver tratto origine dal disagio avvertito più o meno consapevolmente da parte di alcuni pensatori originali di fronte a un processo culturale specifico: la sovrapposizione sempre più netta tra speculazione fìlosofìca e disciplina accademica, cioè il ritirarsi della filosofia nell'accademia e il contemporaneo trasformarsi dei filosofi in professori di filosofìa, processo che ha origini antiche (che coincidono con la nascita stessa delle università), ma che a nostro avviso culmina con il binomio Kant-Hegel4. Un processo che intorno alla metà del XIX se-
4 Interessanti spunti sulla questione sono contenuti in Derrida, 1999, pp. 135-160 e in Derrida, 2002, pp. 36-37 e 52-54. Ma si veda anche Derrida, 1999, pp. 193-194, dove si legge che «La Università occidentale è un constructum o un artefatto molto recente, e già lo sentiamo finito: segnato dalla finitezza, quando all'insaturazione dell'attuale modello, fra il Conflitto delle Facoltà (1798) e la fondazione dell'Università di Berlino (10 ottobre [1810], al termine della missione affidata a Humboldt), lo si credeva regolato su un'idea della ragione, o ancora su un certo rapporto con l'infinito. Su questo modello, almeno nei suoi tratti essenziali, tutte le grandi università occidentali si re-istituiscono in qualche modo, tra il 1800 e il 1850 circa». Un'allusione alla tematica dei rapporti letteraturafilosofia è contenuta nel medesimo scritto (cfr. ibid., p. 212).
è stato oggetto di una feroce polemica da parte di Schol > < nhauer, che riteneva l'hegelismo responsabile dello scadimento totale del sapere filosofìa) impartito nelle università5. I.a costituzione di un ben preciso spazio della (o per la) fìI..soda nell'università di Stato, che accompagna la riorganiz.mone del sapere universitario, si connette in maniera stretta con il tentativo, da parte di Kant, prima, e poi di Hegel, . h i cnere separate in modo netto e deciso la sfera del poetico • i le 11'artistico da quella del filosofico, di fronte alla minaccia 1.11'presentata dal costituirsi dell'estetica come ambito disciI >linare autonomo e dal prendere piede di una concezione della filosofia intimamente connessa alla poesia. Se per un verso Kanr e Hegel si pongono su una linea che ha origini antiche • pianto la stessa filosofia occidentale - in quanto ab origine impegnata a trovare una collocazione per il poetico -, per un a l t r o verso essi rappresentano una cesura con il passato, poiI 1 ir si trovano ad affrontare una novità: il tentativo, effettualo in filosofia, di concepire l'arte o la poesia come un complei,unente-superamento della stessa filosofia e non più come uno strumento finalizzato alla rappresentazione della verità (speculativa). Kant cercherebbe così di contenere la portata destabilizzante insita nella concezione baumgartiana dell'arte, estromettendo il poetico dalla ragion pura, salvo poi dover ammettere tra le righe la possibilità di una «Dichtung» atta sì a presentare le verità filosofiche, ma senza alcun rapporto 5 Schopenauher in La filosofia delle università sosteneva l'indipendenza del filosofo da ogni potere, e dunque anche da quello accademico, controllato dal potere governativo; di qui la celebre affermazione secondo cui «in ogni tempo pochissimi filosofi sono stati professori di filosofìa» (una delle rare eccezioni sarebbe proprio Kant). Ma l'idea di filosofia schopenhaueriana è ancora connessa a doppio filo con quella di un accesso privilegiato alla «verità», in contrapposizione alla «favola» e alla «commedia» in cui lo stesso discorso filosofico può scadere quando il filosofo sale in cattedra (cfr. Schopenhauer, 1992, pp. 108-109, 36, 104-105, 43-44).
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con la poesia tout court (cfr. Nancy, 1975). Qualche anno più tardi, mentre Schelling nella Sesta delle sue Lezioni sul metodo dello studio accademico (1803) scrive che «senz'arte dialettica non si da filosofìa scientifica», ossia che «nella filosofia arte e produzione possono separarsi tanto poco quanto forma e contenuto nella poesia», alludendo alla irrinunciabilità per il pensiero dell'«aspetto poetico della filosofia» (Schelling, 1989, pp. 49-50), Hegel, individuando nel suo sistema di saperi una posizione subalterna per l'arte rispetto alla filosofìa, opera affinchè il dominio del fìnzionale non si contrapponga a quello del fìlosofico (cfr. Lacoue-Labarthe, 1975). In sostanza il tentativo dapprima kantiano e in seguito hegeliano di rinsaldare la gerarchla che situava il letterario su un piano inferiore a quello occupato dal filosofìco (e che si accompagnava a un'idea prevalentemente formale di quei generi di scrittura che a un certo punto hanno assunto il nome di «letteratura», intesi cioè come involucri separabili dal loro contenuto, dalla verità, quest'ultima invece pertinente al campo fìlosofico) fa emergere per la prima volta in tutta la sua problematicità la questione, o meglio da vita alla questione stessa dei rapporti tra filosofia e letteratura. Una questione, dunque, che nasce in filosofia — ed è questo il motivo principale che giustifica la scelta da noi operata della prospettiva filosofica per affrontarla - e che con il suo sorgere rende però nello stesso tempo problematica l'idea stessa di un «punto di vista» filosofico, ovvero il suo statuto (cfr. LacoueLabarthe e Nancy, 1975, p. 148). Se il sorgere dell'estetica con Baumgarten rappresenta una sorta di preistoria del problema, la sua premessa più antica è certamente rappresentata da quel cospicuo filone di autori che nell'ambito del romanticismo (soprattutto tedesco), mentre insiste in modi diversi e con accenti diversi sul riferimento-ritorno al pensiero greco, scrive in filosofìa con modalità e con sensibilità letterarie talora su argomenti a cavallo tra fìlo-
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MI|IÌI e letteratura. Si pensi ad esempio a Novalis, a Schiller, ii hatelli Schlegel, ma anche a certi aspetti del pensiero di s. hclling o di Schleiermacher. Tutte espressioni, nella pro•. | idi iva in cui qui ci si pone, di una sorta di resistenza — tal.n.i aperta e attiva, talora passiva e più dissimulata - al pro' r\so sopra descritto, di codificazione disciplinare del sapere hlosofico portato avanti da Kant. La forma è talora più teorei M .1, talora più frammentaria, ma si tratta sempre di quel pensiero filosfico-letterario la cui stessa possibilità, a ben veilnr neppure troppo paradossalmente, è aperta da Kant, qual< .nitore della terza Critica (cfr. Lacove-Laberthe e Nancy, l'>78, pp. 22,42). L'antecedente più importante e più articolato sul piano arl'i'inentativo-teorico del paradigma della «filosofia narrante», i m i volte evocato nel corso del Novecento, risiederebbe, secondo Cìianni Carchia, nell'Introduzione e nelle prime pagine delle incompiute Le età del mondo di Schelling, dove è esposta un'articolazione per epoche dei rapporti tra mito e dialettica in < u i «il mito non è solo l'origine, ma anche la meta del pensiero», passando attraverso una fase in cui esso si allea con la discorsività del logos (Carchia, 1995, p. 180). In vista cioè di un ritorno alla pura narrazione, che coinciderà — misticamente, ma anche problematicamente - con il compimento della storia, con il riassorbimento del tempo nell'eterno, l'epoca presente deve saper unire esposizione e narrazione, evitando i rischi in cui corre «ogni teoria (vuoi sentimentale, vuoi razionalistica) che ignori la proceduralità e il divenire» (ibid., p. 182). La premessa decisiva per la nascita di quella linea di pensiero che prende avvio con il cosiddetto secondo Heidegger e che tematizza sempre più apertamente e problematicamente la questione letteratura/filosofia che qui stiamo dibattendo, è però senza alcun dubbio quella costituita dalla riflessione nietzscheana a proposito. Anzi, Nietzsche, a ben vedere, è in realtà proprio colui
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che per primo si sottrae al fantasma della tradizione metafìsica che — come vedremo nelle pagine che seguono — tanta importanza pare rappresentare per Heidegger e anche per Derrida: infatti quel fantasma è riconosciuto e posto come tale da Nietzsche, che nel porlo mostra di decostruirlo in grande misura. Vale pure la pena di notare a questo proposito come Nietzsche sia estraneo a quel mondo accademico a cui invece Heidegger è interno e come sia proprio Heidegger a sottolineare il carattere eretico di Nietzsche, affascinato e turbato dalla stessa mossa nietzscheana. Impossibile non riconoscere che dietro a Heidegger, e soprattutto dietro a Derrida - che in effetti le cita testualmente nella traduzione francese nel saggio «La mitologia bianca» di cui ci occuperemo più avanti (cfr. Derrida, 1997b, p. 284) —, non risiedano quelle pagine di Su verità e menzogna in senso extramorale (risalente al 1873) in cui Nietzsche, chiedendosi che cos'è la verità, risponde: Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza (Nietzsche, 1981, p. 129).
Una «verità», questa, che — nel suo statuto problematico corrisponde a un sapere, a una consapevolezza tutt'altro che facili da «sopportare», come risulta da quest'altra immagine, in cui la metafora è forma e contenuto del discorso nietzscheano. Soltanto attraverso la dimenticanza di quel primitivo mondo di metafore, soltanto attraverso l'indurimento e l'irrigidimento di una originaria massa di immagini sgorgante con flusso impetuoso da quella facoltà originaria che è la fantasia umana, solo attraverso la
i< •!< invincibile che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano • l< I l e verità in sé, in breve solo se l'uomo si dimentica di sé come ...(.|;ctto e anzi come soggetto che crea artisticamente, egli può vi< on tranquillità, con sicurezza e con coerenza: se gli fosse pos•.il.ilc uscire solo per un attimo dalle pareti di questa fede che lo ni ni prigioniero, immediatamente della sua «autocoscienza» non i» Direbbe più nulla (ibid., pp. 131-132).
In seguito, la parabola heideggeriana, la «Nietzsche Ressance» e l'affermarsi dell'ermeneutica filosofica con Ga• l.imer costituiscono le premesse culturali dirette perché abl > u origine la tematizzazione esplicita della questione filosoha/letteratura all'interno di un dibattito che ha suscitato e i i >iiti mia a suscitare sentimenti radicalmente opposti e forti i esistenze in ambito accademico. Si tratta di una vera e propria linea di pensiero che segna il secondo Novecento e che ha il suo nucleo generatore nel i osiddetto secondo Heidegger, il quale, resosi conto dei limi11 del linguaggio della metafisica, dopo aver interrotto Essere i- tempo, nella produzione più tarda include la poesia nella filosofia, individuando nel linguaggio poetico il solo linguaggio capace di dire in qualche modo l'Essere. La parola che dice l'essere attraverso gli enti è la metafìsica. «Nella parola poetica la soggettività che sovrasta e domina gli enti sembra ni irarsi di fronte a un essere che è a sua volta ritirarsi e sottrarsi» (Ferraris, 1990, p. 89). Di qui il programma - sia pure «ancora» elaborato in una sede che continua a dirsi filosofica (nel senso che il «pensiero poetante» è tenuto separato da parte di Heidegger dalla scrittura in generale, con una mossa che per certi versi richiama quella prefigurata da Kant a cui si è accennato sopra) — di evocazione delle «parole originarie» che sole possono rimetterci in contatto con l'Essere6. A que6 Sulla tematica delle «parole originarie» Richard Rorty ha scritto pagine molto stimolanti (Rorty, 1989, pp- 136 sgg.)
32 sta, che non è soltanto una Kehre interna al pensiero heideggeriano, ma forse una vera e propria Kehre della filosofìa novecentesca, si accompagna nello stesso tempo l'idea, che Heidegger rilancia e rafforza, riprendendola da Nietzsche, di una tradizione univoca e oppressiva, che nel suo pensiero diventa la storia dell'Essere come metafisica, quella metafisica che fondamentalmente sarebbe desiderabile oltrepassare (anche se ciò non può avvenire in modo netto e una volta per tutte e può darsi solo una sua «ripresa-distorsione» che è un «rimettersi-da» praticamente senza fine)7 e che soprattutto è re. sponsabile di una sorta di sviamento originario. Se Hegel aveva in qualche modo istituito l'idea di una storia della filosofia progressiva, orientata, dialetticamente concatenata e razionalmente produttrice di un esito che è la somma e il superamento di tutto il pensiero precedente, «santificando» tale idea - la Fenomenologia dello Spirito come Bildungsroman, ma anche come nuovo canone dell'ortodossia filosofica —, Heidegger riprende questa idea, dandone però una versione «demonizzata» o comunque dalle tinte ben più fosche8. La filosofia «spericolata» di Heidegger, l'uso che egli fa della poesia di Hòlderlin o di Trakl, ma anche le ricostruzioni a uso del suo pensiero di interi capitoli della storia della filosofìa occidentale, hanno reso un certo Heidegger, e soprattutto le nutrite schiere di quanti non soltanto devono molto al suo pensiero, ma tendono ad assumere un rapporto mimeSull'oltrepassamento della metafìsica si vedano le pagine illuminanti dedicate da Gianni Vattimo alla Verwindung heideggeriana (cfr. Vattimo, 1979). 7
8 Qualcosa di simile rileva Paul Ricoeur allorché sostiene che «la metafìsica è una costruzione a posteriori di Heidegger, destinata a giustificare la propria elaborazione teorica e insieme il rifiuto di qualsiasi modo di pensare che non sia un superamento della metafisica stessa» (Ricoeur, 1976, p. 414).
33 i K o con esso, tendenzialmente sospetti ai centri universitari < iis< odi del sapere storico-filosofìco solidamente ancorato a pimcipi filologici e interpretativi ispirati alla cautela e al ri|ore. E ciò non del tutto a torto, si badi bene, vista la disinvolmra di certe pratiche interpretative e l'oscurità inconclu< In i t e e autoreferenziale di certi stili di scrittura diffusisi in M I I I milieux cultural-accademici. Oggi, tuttavia, placate cerK polemiche per alcuni aspetti forse un po' provinciali, de(luita almeno in parte la marea delle imitazioni entusiastiche < ulora spinte ai limiti del cialtronesco, assistiamo a un assorbimento, a uno sdoganamento di questo segmento della 11 nra a cui abbiamo alluso: da diversi anni sono sorte cattedre . l i ermeneutica filosofica, proliferano le tesi di laurea e di dottorato su Heidegger (e non solo su quello «fenomenologoBiistenzialista» di Essere e tempo), gli studi heideggeriani hanno ormai cittadinanza stabile nei dipartimenti di filosofia euiopei e italiani ecc. (diversa è la situazione oltreoceano, come si dirà sotto). Non altrettanto però si può dire di un altro segmento di questa linea, rappresentato soprattutto dal pensirro di Jacques Derrida, da quello di Richard Rorty e dall'eincrgere a livello teorico in modo esplicito della tematica t ruttata in questo lavoro.
3. // sogno della filosofia e l'autonomia del filosofico rispetto al letterario
II pensatore che nel corso del Novecento con ogni probabilità ha maggiormente approfondito il senso delle affermazioni nietzscheane che abbiamo citato sopra è Jacques Derrida. Il pensiero di Derrida costituisce senza alcun dubbio l'innesco più sovversivo della questione, la molla che ha scatenato l'aprirsi di un dibattito che ha segnato gli ultimi decenni del secolo appena conclusosi. È soprattutto la ricezione che il
34 pensiero di Derrick ha avuto nel mondo anglosassone a creare pratiche di analisi testuale nei laboratori di letteratura che pongono interrogativi pressanti ad alcuni filosofi. Presso il resto della comunità fìiosoflca internazionale, però, si è ben presto creata una rappresentazione onnicomprensiva e svalutativa del fenomeno in questione, che raccoglie in un unico contenitore il pensiero derridiano e l'insieme dei suoi molteplici effètti culturali, caratteriazati, come in ogni ricezione di un pensiero che tende a farsi scuola, da un livello di profondità e di fecondità assai variabile9. Proprio perché è corretto distinguere tra decostruzionismo - ovvero l'insieme degli autori, dei testi e delle pratiche che si ispirano ai lavori derridiani - e pensiero della decostruzione — cioè il pensiero di Derrida -, pare utile in questa sede riferirci ad alcune posizioni derridiane per cominciare a mettere a fuoco i termini della questione che costituisce la linfa del dibattito attuale sui rapporti tra filosofia e letteratura. Ciò anche per verificare se quella che più sopra abbiamo definito la vulgata decostruzionistica ha salde radici nel pensiero derridiano. 9 Per un primo approfondimento della questione si vedano: a) gli atti del convegno su «I linguaggi della critica e le scienze dell'uomo» organizzato dalla Johns Hopkins University di Baltimora nell'ottobre 1968 (a cui prese parte tra gli altri Jacques Derrida), in Macksey e Donato, 1975; b) la ricostruzione, ricca di riferimenti bibliografici, offerta da Maurizio Ferraris della «svolta decostruttiva» nelle scienze umane (Ferraris, 1986, pp. 258-268); e) i lavori degli «Vale Critics», e in particolare di Paul De Man, Geoffrey Hartman e J. Hillis Miller (cfr. De Man, 1975; Bloom et al., 1979); d) la ricostruzione dell'impatto del pensiero della decostruzione di Derrida sulla teoria della letteratura nella prospettiva ravvicinata di Jonathan Culler (Culler, 1988) e in una più distaccata (Izzo, 1996); e) la critica agli «Vale Critics» e all'idea di «semiosi illimitata» mossa da Umberto Eco alla fine degli anni Ottanta, con il conseguente dibattito cui hanno partecipato Richard Rorty, Jonathan Culler e Christine Brooke-Rose (cfr. Eco, 1995).
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I >errida non affronta la nostra tematica negli stessi esatti mi (ovvero di «rapporti» tra filosofia e letteratura) e per l i - p i l i nemmeno in modo interamente esplicito (ad esempio • l< - I n .nidovi un lavoro ad hoc), ma in maniera sostanzialmeni r i n i < I hi delimitazione intrapresa per la prima volta in maniera nulitica da Aristotele, restituendo spessore e attualità a un li-ma che potrebbe apparire superato (su questa linea si «mo alcuni lavori di matrice assai differente, tra cui Ri... .11, 1 976; Benjamin, 1994 e 2000). 1 ,i seconda mossa, invece, trae origine dall'individuazione i l i - I l i ) scarto esistente tra una lettura che rinviene contenuti i • i.nei modellati sulle classiche opposizioni fìlosofiche o inI I I M I O ai classici problemi della filosofia e una «filosoficizzaii ini'» generica e indistinta del letterario, inteso come un ..«iut-nitore di testi evocativi oltre che formalmente ben riuM n i . Anche in questo caso ci pare si estenda un ampio terreni i ovi: praticare una paziente triangolazione tra canoni, prol ' I i m i e temi codificati nel canone «filosofìa», da un lato, e ,i|'i-riure, reinterpretazioni e suggestioni contenuti in testi Mcritti al canone «letteratura», dall'altro. Certamente una simile prospettiva rende impossibile usair m modo naife aproblematico la distinzione fìlosofìa/lettei.M i ira, di cui tuttavia ci si continuerà a servire in questo lavoro e che nemmeno auspichiamo debba essere considerata . 01 ne una scala che forse un giorno butteremo via. Non è «inesco infatti il significato che assume per noi l'idea che filoMi! ia e letteratura costituiscono una coppia di oggetti culturali in continua ridefìnizione. Un conto è affermare che i conl i n i o i margini tra filosofìa e letteratura siano instabili e poiosr, un conto è sostenere che tra l'argomentazione filosofìca 2 Qualcosa di simile afferma Gabriella Turnaturi in un suo recente e -.11 molante lavoro in cui si occupa della relazione sociologia-letteratura, al-
58 e quella letteraria vi sia un'indistinzione assoluta. E, per converso, sostenere che si diano usi, finalità e modalità argomentative diversi non coincide con il ritenere che fra di essi non esistano complessi e molteplici «canali di comunicazione»; anzi, assistiamo talora a tentativi di disgiunzione radicali, ma proprio per questo miranti a forzare la normale tendenza alla commistione di livelli. Come crediamo risulterà anche dalle rapsodiche ricognizioni contenute in questo lavoro, i casi di alleanza sono più frequenti di quanto normalmente non si pensi. L'applicazione dei principi teorico-interpretativi fin qui esposti, rispetto alla quale ribadiamo che in questo lavoro offriremo soltanto degli specimena, crediamo possa restituirci un'immagine delle epoche passate più fedele e complessa di quella che i manuali di filosofìa o certe celebri narrazioni fìlosofiche ci offrono e riteniamo anche possa infondere maggior vitalità alla stessa riflessione fìlosofica. Come già anticipato nella Premessa, nelle pagine che seguono ci inoltreremo esclusivamente nella seconda delle due direzioni indicate.
2. Montaigne: «la filosofìa non è altro che una poesia sofisticata»
In questo capitolo e nel successivo il nostro tema di fondo sarà quello dei rapporti tra il filosofico e la scrittura letteraria. Salvo una piccola parentesi, dedicata a un testo piuttosto
lorché da un lato tiene ferma la distinzione tra il discorso sociologico e quello letterario (fondati su due «patti comunicativi» differenti), ma dall'altro evita di contrapporre i due discorsi, indagando il ruolo assunto dalla «descrizione» nella ricerca sociologica, e più in generale riflettendo «sui rapporti consapevoli e inconsapevoli che la sociologia ha avuto e ha con i testi letterari» (Turnaturi, 2003, pp. 12-13, 6).
59 1 1 en trito, ci occuperemo essenzialmente dello statuto del fiMifico nel pensiero di due autori inseriti nel canone «fìloso11.1 », ma all'interno di due testi che inaugurano entrambi un letterario nuovo, e in cui la componente «letteraria» è immediatamente percepibile come importante. Nel primo abbiamo un testo incluso nel canone «filosofia», nel senido, come vedremo, uno solo parzialmente considerato in Je filosofica. Gli Essais di Montaigne sono il primo di quei lue testi, il Journal di Maine de Biran, il secondo. Montaigne (1533-1592) con i suoi Essais è infatti il creatodei «saggio», un nuovo genere letterario che avrà enorme nrtuna in epoca moderna e soprattutto in quella contemporanea. Di norma il saggio viene definito come una composizioic senza uno schema prefissato, di estensione variabile, talora neve, quasi aforistica, talora più estesa, che sfiora le dimen.11 mi di un piccolo trattato. La sua forma, aperta, gli consentilebbe di affrontare gli argomenti più disparati, scientifici come letterari, filosofici come biografici, quasi sempre con un (aglio morale. La rivoluzione operata da Montaigne sarebbe poi consistita nel mettere per la prima volta al centro del disi orso l'io, ossia facendo coincidere l'io narrante con il proprio io (autobiografismo) e ponendo quale oggetto di riflessione il proprio sé. Detto in altri termini: dedicandosi a conoscere l'uomo dipingendo se stesso attraverso un libro che è «consu-.1 nuziale al suo autore» (Montaigne, 1992, II, p. 888). Gli Essais hanno un intento descrittivo e non normativo: «Gli altri formano l'uomo; io lo descrivo, e ne presento un esemplare assai mal formato, e tale che se dovessi modellarlo di nuovo, lo farei in verità molto diverso da quello che è» (ibtd., II, p. 1067). In una coda tardiva aggiunta al saggio • Dell'esercizio» Montaigne scrive però che «non c'è descri/ione tanto difficile come la descrizione di se stessi, né certo altrettanto utile. E inoltre bisogna pettinarsi, bisogna assetlarsi e acconciarsi per uscire in piazza. Ora io mi abbiglio
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60 continuamente, perché mi descrivo continuamente» (Montaigne, 1992, I, p. 487). Come nota acutamente Jean Starobinski, questo passo indica che «dalla somiglianzà alla finzione, si verifica uno scivolamento che l'atto di scrivere non può evitare» (Starobinski, 1984, p. 51); un descrittivismo, dunque, che mescola autobiografìa e sperimentazione situando il saggio tra verità e finzione. Non si tratta, in effetti, a ben guardare, di un descrittivismo meramente autobiografico, dal momento che «il saggio in quanto genere si definisce [...] come un discorso-atto, poiché non si limita a registrare esperienze, è l'atto stesso dello sperimentare, del mettere alla prova le facoltà naturali del soggetto, le sue qualità innate, le fantasie attraverso le quali egli non cerca di conoscere il mondo, ma se stesso» (Mathieu-Castellani, 1988, p. 10). E tutto ciò attraverso una riflessione che rifugge dalla codificazione fìlosofìca e che si fa fatica a riportare a filoni, a scuole e che rischia di essere sminuita dalle mere ricostruzioni genetiche (genesi in base alle fonti, ma anche tentativi di periodizzazioni), anche per via della strategia dissimulatoria delle fonti esterne messa in atto deliberatamente dallo stesso Montaigne (cfr. Starobinski, 1984, pp. 147 sgg.). La filosofìcità degli Essais pare nondimeno indubbia, ma qualsiasi tentativo volto a collocare Montaigne nel quadro delle scuole filosofiche più note è arduo. A nostro avviso ciò non dipende soltanto dalla forma delle sue riflessioni, ma possiede radici più profonde, che riguardano lo stesso statuto che la filosofia assume in quelle riflessioni3. Come ricorda Theodor W. Adorno nel suo «II saggio come forma», il saggio è stato e continua a essere comunemente tacciato di frammentarietà e nella Germania degli anni Cin3 Sulle numerose Decorrenze del termine «philosophie» negli Essais si veda l'utilissima Concordane di Leake (1981) e il commento di ComteSponville (1993, p. 14).
11.1 era tenuto in discredito e guardato con ostilità perché un unii) un ibrido (Adorno, 1979, pp. 5, 14, 30). Montaigne • i|.|.ii-srnta dunque nel nostro discorso un'occasione per ceri i rapire se la forma «saggio», percepita per lo più con i t o dalla filosofia ufficiale e accademica contemporanea , porti « n sé non soltanto una trasgressione espressiva e un al.1111 -lito dell'orizzonte dei contenuti (per il saggio «tutti . l i Creiti sono alla stessa distanza dal centro»; ibid., p. 25), ma ii ut he una visione della filosofìa che fondamentalmente si I M i i M - in rottura rispetto ai canoni dominanti la nostra tradi, 1 1 M ir culturale. In vista di ciò compiremo qualche assaggio i Id lesto di Montaigne, qualche incursione, senza porci nessun • 'l'K-ttivo di sistematicità o di esaustività. Il primo assaggio consisterà nel verificare, nel cuore del liioi;u più teoretico degli Essais, l'«Apologia di Raimond SeI H I I K ! » (libro II, cap. XII), l'immagine della filosofia offerta • I.i Montaigne.
Qui, sotto il segno dello scetticismo5, emerge la presun,•mile dei filosofi (Montaigne, 1992,1, p. 636), la conturbante contiguità tra saggezza e follia, tra ragione e perdita del * «La più letteraria delle forme filosofiche»: cosi Franco Cambi defini'.i e i l saggio in un lavoro su Struttura e funzione della forma-saggio, a cui rimandiamo per un rapido inquadramento della storia di questo genere leti i 1 . 1 1 io e per una ricostruzione più analitica della sua fortuna novecentesca i. li Cambi, 2000). ' Sullo scetticismo di Montaigne si veda il capitolo che vi dedica Manuel Conche nel suo Montaigne et la philosophie (Conche, 1996, pp. 27-42), in cui il metodo filosofìco di Montaigne è giudicato «compatibile soltanto con lo scetticismo» (ibid., p. 27). Sulla medesima linea interpretativa si I H me Andre Comte-Sponville, per il quale «Montaigne è un filosofo sceti i i o» (Comte-Sponville, 1993, p. 38). Jean Starobinski accenna al «fìdeismo scettico» di Montaigne, che «mira a fare dell'uomo il 'foglio bianco' su cui il dito di Dio scriverà quel che vorrà», e in tale occasione aggiunge che a tale scetticismo Montaigne era giunto partendo «da una posizione molto simile allo stoicismo» (Starobinski, 1984, p. 110).
62 senno (ibid., I, pp. 642-643), persino la viltà della filosofìa, che non è capace, di fronte ai dolori presenti, altro che di opporre i ricordi felici, con uno stratagemma che smaschera la sua inadeguatezza e la sua incapacità di mantenere le sue promesse (ibid., I, p. 645). Emergono così i limiti della filosofia, che usa immagini tratte dall'esperienza, talora poetiche, per descrivere un qualcosa di cui essa aveva promesso una definizione riguardo all'essenza, in particolar modo relativamente a oggetti soprasensibili o che non possiamo esperire direttamente (come il ciclo o il sole; ibid., I, p. 705). Ma anche rispetto alla conoscenza delle cose umane e naturali i termini della questione non mutano, tanto che «la filosofìa non è altro che una poesia sofisticata» (ibid., I, p. 708). Essa è pertanto scienza del verosimile e non del vero, è incapace di dire l'essenza delle cose. Se la filosofìa è de facto letteratura, non lo è però de jure, almeno così sembra dirci Montaigne, che amerebbe scrivere in una prosa che si esprimesse «altrettanto poeticamente» quanto i versi (cfr. Mathieu-Castellani, 1988, p. 91). Analizzando i poteri della ragione e dei sensi, Montaigne sostiene coerentemente con questo quadro l'incertezza e la discutibilità dei prodotti del ragionamento (Montaigne, 1992, I, p. 732), da una parte, e gli errori dei sensi (ibid., I, p. 788), dall'altra. L'insufficienza delle nostre conoscenze razionali è paradossalmente ben vista da Montaigne, perché pone un freno alla nostra innata tendenza a varcare ogni limite (ibid., I, p. 733). Un'insufficienza della ragione che dipende anche dall'influenza del corpo sulle facoltà della nostra anima: «non abbiamo forse lo spirito più sveglio, la memoria più pronta, il ragionamento più vivace quando siamo sani che quando siamo malati? La gioia e l'allegria non ci fanno accogliere gli oggetti che si presentano alla nostra anima con tutt'altro volto che il dolore e la malinconia?» (ibid., I, pp. 747-748), si
63 li Montaigne, ricordando che le alterazioni del corpo soni. , !i, in un processo di critica delle auctoritates che fa di Montai1-1 n mi pensatore scomodo. È anche vero, però, che se una difli-ini/a tra le opinioni dei filosofi può essere rilevata, è la ranni u- stessa a poterla individuare (ibid., I, p. 714). Si misura i n i la complessità della posizione di Montaigne, aliena sia da u r l i i intellettualismo-astrattismo sia da ogni irrazionalismo. l'arallelamente alla critica della ragione si pone quella dei sensi. Se è vero che ogni conoscenza penetra in noi attraverso i sensi, che sarebbero per Montaigne principio e fine della coni .M enza umana, è allo stesso tempo vero che essi sono fondaniento e prova della nostra ignoranza (ibid., I, pp. 781-782). < i isì scrive: «Noi abbiamo foggiato una verità con il consir l m e il concorso dei nostri cinque sensi: ma forse era necesIRfio l'accordo di otto o dieci sensi e il loro contributo per percepirla con certezza e nella sua essenza» (ibid., I, p. 785). I
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sensi hanno il potere di dominare la nostra ragione e la nostra anima, ma possono anche subire l'inganno dell'anima, delle sue passioni (ibid., I, pp. 792-793). La filosofia che si delinea nell'«Apologià» è allora più una saggezza che una scienza o conoscenza (ibid., I, p. 670), una riflessione che procede usando lo strumento corrosivo del dubbio nei confronti delle opinioni più accreditate e diffuse (ibid., I, p. 711), ma anche ne coglie l'utilità, soprattutto dei filosofi antichi, perché peggio sarebbe dar ascolto solo ai costumi (ibid., I, pp. 768-769). Una saggezza che, muovendo dalla conoscenza di noi stessi, deve poterci dare strumenti per governare sia la nostra ragione che le nostre passioni. Montaigne stesso si autodefinisce così, malgrado tutto, un filosofo, anche se «un filosofo non premeditato e fortuito!» (ibid., I, p. 722), in apparente contraddizione con la più famosa e perentoria affermazione «io non sono filosofo» (ibid., II, p. 1264), sulla base della quale ripetutamente agli Essais e al loro autore è stata negata la cittadinanza in filosofìa (cfr. Comte-Sponville, 1993, p. 9). Affermazione, la seconda, che in verità è ben conciliabile con la prima, in quanto dettata non da ragioni teoriche - il rifiuto dellafilosofìa-, ma da ragioni pratiche — la filosofìa dev'essere saggezza incarnata, ossia in stretto dialogo con la vita quotidiana, e dunque ben diversa dalla saggezza degli antichi, stoici ed epicurei (cfr. ibid., pp. 11-12). La filosofìa di Montaigne si confonde allora da un lato con la poesia e dall'altro con il discorso apologetico in fatto di morale. Per il primo aspetto è filosofia autocosciente dei propri limiti, del proprio relativismo prospettico - la filosofia come la poesia disporrebbe pertanto di un punto di vista individuale, soggettivo, mai assoluto e dogmatico — e assume così le sembianze «positive» — ed è questo il secondo aspetto - di un sapere pratico «che ci insegna a vivere» (Montaigne, 1992, I, p. 215). Ciò benché Montaigne non intenda minimamente ridurre la filosofìa alla sola filosofìa mo-
. IH- invece, insieme a quella politica, all'epistemologia e . 1 1 1 e.micologia - per usare la terminologia e le categorizzai a noi contemporanee, che non sono ovviamente quelle di M onta igne -, compone il suo universo filosofìco (cfr. te Sponville, 1993, p. 30)6.
•intra su Montaigne: la filosofia come «scuola di bétise» l ' i oviamo ora a fare un altro assaggio del testo degli Esi , / / i , volto a verificare se la concezione della filosofia come si è vi n u l a delineando nell'«Apologia di Raimond Sebond» trovi un .ipplicazione nel resto dell'opera di Montaigne. Interessani mfrontare il mutamento di posizione che contraddistinxi ir la riflessione di Montaigne a proposito del ruolo della fili r.ofia come meditatio mortis. Nel XX capitolo del I libro, intitolato «Filosofare è imparare a morire», Montaigne, ispirandosi agli ellenisti e a Seneca, sottolinea l'utilità della filosofia per far fronte al penM I - I O della morte, di una filosofia cioè che sia capace di far nascere nell'uomo la virtù, tra i cui «principali benefìci [...] i.ironista e la meditazione è contrapposta alla vita ordina. 1 1 .ilhi vita dei legami e delle occupazioni da cui ci si deve il in HI iare per prepararsi a morire. A tutt'altre conclusioni giunge anni dopo Montaigne, rii i H u.ilido sul medesimo argomento. Nel XII capitolo del III l i l « i i i degli Essais, intitolato «Della fisionomia», nessuna delI. . '^siderazioni dei filosofi antichi sulla morte è sufficiente ,i i,ii fronte al pensiero della propria morte. Né i sofismi di l ' I >i< uro né la sublime etica stoica sono davvero capaci di fari i '.uperare il timore della morte. Anzi, la filosofia commette un i-.rave errore, quello di enfatizzare eccessivamente la morii .< omportandosi come quei «medici che ci precipitano nell< malattie per aver dove impiegare i loro farmachi e la loro ,111 e» (ibid., II, p. 1405). In realtà, dice Montaigne, «È certo i I «• nella maggior parte delle persone la preparazione alla morte ha dato più tormento di quanto ne abbiano avuto nel uhirla» (ibid., II, p. 1404). Così che la conclusione, opposta ,i ! niella a cui egli era giunto anni prima, è che «ci prepariamo contro le preparazioni alla morte», dal momento che «un i|uarto d'ora di sofferenza senza conseguenza, senza danno, UDII merita precetti particolari» (ibid., II, p. 1405). Ricusando gli strumenti razionali e volitivi, Montaigne recupera gli eli-menti fisiologici e naturali della passività e della docilità ( he condividiamo con la gente comune, con gli stessi animal i Al contadino dei suoi dintorni «la natura insegna a non pensare alla morte se non quando muore. E allora lo fa con maggior garbo di Aristotele, che la morte affligge doppiamente, e per se stessa e per una così lunga premeditazione» (ihid., II, p. 1406). E la conclusione, ironica in una certa sua ambiguità, è perentoria: «Per Dio, se è così, teniamo d'ora innanzi scuola di stoltezza [lett.: bètise, che però ha un signifi( ato più forte]. È il frutto supremo che le scienze ci promet-
68 tono, al quale questa conduce così docilmente i suoi discepoli» (ibid., I l , - p . 1407). La scuola di stoltezza è quindi affine a una filosofia cosciente dei propri limiti, autocritica nei confronti delle pretese razionali e persine di quelle morali, che corrode con il dubbio l'autorità delle opinioni invalse e che si fa guidare dall'attenzione alla dimensione naturale, corporea e materiale dell'uomo. Una filosofia che sa di non poter evitare con mosse puramente razionali gli accidenti e le passioni (ibid., I, p. 727), che muove dall'intima convinzione che noi siamo inseparabilmente corpo e spirito (ibid., II, p. 1188) e che sceglie di rivolgere il suo sguardo al sé piuttosto che al ciclo (ibid., I, pp. 709-710). Come dice Adorno, il saggio, la forma di questo genere di pensiero, «rifiuta soprattutto l'insegnamento, radicato da Piatone in poi, secondo il quale il mutevole e l'effimero non sarebbero degni della filosofia» (Adorno, 1979, p. 13). Desiderando eternizzare il caduco, il saggio «veramente tale» è quello in cui «il pensiero si libera dell'idea tradizionale della verità» (ibid., p. 15). Non è quindi solo una questione di espressione, di pura forma a fare del saggio quel genere particolare che esso è: il suo «'come' deve salvare - sempre secondo Adorno — in precisione quel che la rinuncia alla delimitazione sacrifica, ma senza per questo tradire la cosa pensata abbandonandola all'arbitrio di significati concettuali sanciti una volta per tutte» (ibid., p. 17). E la meticolosa ricerca linguistica di Montaigne costituisce a nostro avviso una tra le principali prove a riguardo.
4. La filosofia di nome fa Thérèse
Come dimostra il caso degli Essaìs, la filosofìa, dopo Aristotele e prima del romanticismo, non si è soltanto guardata
69 ,/,>//,; letteratura, in un gioco di definizioni che mirano a una i - . i|>roca esclusione o differenziazione, ma ha anche cercato " mTO'della letteratura, delle forme e delle modalità narrai vr t ipiche di quei generi letterari che più connotano il «letn.ti io». Se prendiamo un qualsiasi manuale di storia della fia e leggiamo i titoli e le brevi descrizioni delle opere iri autori dall'antichità in giù, notiamo un'infinità di til i e di indicazioni riferiti a opere scritte con un genere e ii modalità ultraletterarie. Incontriamo cioè numerosi poei , dialoghi, tragedie, racconti e romanzi filosofici. I In'epoca particolarmente dedita a queste pratiche di méletterario a fini filosofici è senza dubbio il Settecento. In I-i,uicia, soprattutto, assistiamo lungo questo secolo a un fiomi di testi che stanno in bilico tra i nostri due canoni e che ,ililialmente vengono menzionati sia nelle varie storie della !. neratura sia in quelle della filosofia, anche se più spesso I iii-vale, nell'attribuzione all'uno o all'altro dei due canoni, il mei ro formale, e molti romans o contes philosophiques appaiono t* lesivamente in sede letteraria (per una rassegna e per seguire l'alternanza delle inclusioni ed esclusioni nei vari genei i letterari cfr., ad esempio, Coulet, 1967, dove si legge che • • ( u l t i i romanzi in cui si ritrova lo spirito del secolo 'fìlosofii o' sono dei romanzi filosofici, e in primo luogo i romanzi liI in i ini, se il libertinaggio, anche il più frivolo, è una reazione 'lìlosofìca' all'idealismo e al conformismo del secolo prece. In 11 e»; ibid., p. 389). Proprio per richiamare l'attenzione su questo fenomeno i li sovrapposizione dei margini tra i due canoni, il cui esito è un effetto «marea», in cui un canone sottrae all'altro un lembo di territorio, in questo caso rappresentato da testi che M presentano come letterari ma che trattano tematiche espli. 11.1 mente fìlosofiche e con finalità filosofìche, portiamo un ^mpio a nostro avviso emblematico, in quanto per più ver«estremo». Si tratta di un romanzo licenzioso (o porno-
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grafico) composto di due récits-mémoires, apparso con ogni probabilità per la prima volta nel 1748 e uscito anonimo: Thérèse phìlosopke ou Memoires pour servir l'histoire du Pére Dirrag et de Mademoiselle Éradice, II testo ha avuto parecchia fortuna all'epoca, fu ristampato più volte ed è l'unico romanzo del genere ad aver riscosso le lodi di Sade, che fa dire alla sua Juliette che Thérèsephilosophe «non è indegna di dar l'idea di un libro immorale». Se i riferimenti filosofici in esso contenuti non appaiono particolarmente originali, tuttavia il romanzo rappresenta un unicum nel suo genere, poiché riesce a combinare la critica dissacrante dei vizi dei confessori d'anime del tempo (a partire da fatti storicamente accaduti), l'apologià del piacere entro limiti «controllabili» e alieni da ogni perversione, la presentazione del libertinaggio dal punto di vista femminile e un dialogo dall'interno con il cristianesimo, entro la cui eredità il messaggio del romanzo alla fine si pone. Ma è soprattutto la figura di Thérèse che colpisce: il suo autocontrollo e la sua naturalità che la tengono lontana tanto da tentazioni mistiche quanto da inclinazioni infernali la rendono davvero adatta a rappresentare la «filosofìa» e le lettrici a cui il romanzo è idealmente dedicato come introduzione al libertinaggio - non possono che tendere a identificarsi con lei. Le scene scabrose del romanzo sono così bilanciate dalla lucidità razionale della protagonista, che compie una sorta di viaggio nei territori del piacere, essenzialmente come uditrìce e come spettatrice, uscendone con un pacchetto di teorie semplici e «praticabili» incentrate sull'esaltazione della masturbazione e su una generale stigmatizzazione del coito. Ma quanto fa di questo romanzo un romanzo filosofico per eccellenza è l'obiettivo delle tecnologie carnali presentate (masturbazione, «coitus interruptus» per evitare la procreazione nel quadro di una relazione «senza turbamenti, senza figli, senza inquietudini» che rappresenta comunque un ripiego rispetto all'ideale dell'autoeroti-
71 (Re assoluto: cfr. Anonimo, 1999, p. 130) e contrapposte li viazioni» sempre più diffuse di quella tecnologia del I ir era la pratica della confessione nel quadro dei riti rei i ristiani. Il modello è quello del governo di sé, come n.i-.|i,ire apertamente dalla risposta di Thérèse al conte che i l l a fine del racconto diventerà il suo amante: «In ve. .M Minore [...] vi siete fatta un'idea ben singolare del mio n muramento e mi credete ben poco padrona di me stessa» u/'/v/., p. 127). Su un blando sfondo di epicureismo e con un',menzione al rinnovato interesse per lo stoicismo, l'autoir .mommo di questo romanzo propone una teoria del piacer i i IK- esalta il piacere solitario, la cui superiorità è evidente: •ito «non perturba il libero gioco sociale [...] e non soccombe alle forme degradate della piaga serpentina: la copula e la ^ile-razione» (Moureau, 2000, p. 29). Un soggetto che tendi cosi di controllare le proprie pulsioni, che nondimeno ne , «.ndizionano gli atti e le volizioni, dimostrando i limiti dell,i libertà umana e il carattere fondamentalmente materialiM i e o dell'anima: I .mima non è padrona di nulla, [...] agisce unicamente attraverso le M n'..i/ioni e le facoltà del corpo [...], le cause in grado di sconvolgen j;li organi sconvolgono l'anima stessa e alterano lo spirito, e [...] un vaso capillare, una fibra, rovinati nel cervello possono rendere «liotu l'uomo più intelligente. [...] Lo spirito è dunque una chimei i . oppure fa parte della materia (Anonimo, 1999, p. 125).
Una filosofìa che educa pertanto alla forma di godimento maggiormente in grado di assecondare la natura umana senza i-sporre l'individuo ai rischi della perdita della propria capa< u à di autogovernarsi. Una filosofia scritta in un genere «estremo», quello composto da opere «che si leggono con una mano sola», come con maliziosa licenziosità sono state «Icfinite dopo la Maréchale de Luxembourg (cfr. Rousseau, 1959, p. 40, Goulemot, 1991).
Ili UN GENERE IBRIDO: 11. DIARIO FILOSOFICO DI MAINE DE BIRAN
Un genere filosofici) nuovo
Dopo aver avvicinato la forma «saggio» attraverso gli Es/i di Montaigne, accostiamoci adesso a un altro genere leti uno: il diario. E lo facciamo attraverso Maine de Biran I 766-1824) e il suo Journal. Questi, oltre a essere notoriaente considerato uno dei maggiori artefici della rinascita dio spiritualismo francese, è pure annoverato tra i fondatori i un genere letterario originale, quello del Journal intime, del 1 1 1. 1 rio intimo», ossia di quel genere di testi scritti giorno o|>o giorno e composti da una serie di riflessioni o annotaintii in cui chi scrive manifesta la cura quotidiana della sua luna, senza per questo rifarsi a pratiche religiose, a riti o ad i n strumenti che non siano la pura e semplice scrittura di •. di elaborazione di una teoria della sovranità politica e i• nipo stesso concretizzazione quasi quotidiana di una pra1 i < .1 i l i cura di sé ispirata da alcuni modelli di impiego del i < m | *>, di moda all'epoca, in particolare da alcuni manuali di Antoine Jullien (cfr. Piazza, 2001a, pp. 30-37). Qui ini limitiamo ad analizzare un frammento tratto da un .,////