Al cinema. Centoquarantotto film d'autore 8845200574, 9788845200571

Cinema e televisione

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Italian Pages 316 [179] Year 1975

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Al cinema. Centoquarantotto film d'autore
 8845200574, 9788845200571

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“Vado molto al cinema, ci vado come credo debba andarci ogni spettatore qualsiasi, cioè per divertirmi. Al cinema, la noia è l’unico rischio da evitare. Come si evita la noia e si ottiene il primo ‘approccio’ con un film? Sono ancora abbastanza ingenuo da identificarmi con la vicenda, se è appassionante. Se non lo è, basta interessarsi al modo in cui il regista se l’è cavata… Ogni spettatore si porta dietro il proprio bagaglio culturale. La visione del film deve poter agire liberamente, come stimolo su questa serie di nozioni, provocando una quantità di associazioni di pensiero… Il cinema è esercizio ricco di metafore, dice una cosa e ne significa tante altre, ha rapporti con la cultura molto strani e profondi, molto più profondi che il teatro, ad esempio. In pratica ‘vedere’ un film significa attraversare la foresta delle analogie e delle metafore che lo compongono…”

libreria dello spettacolo via Terraggio n. 11 – 20123 Milano telefono 800752

Al cinema

Dello stesso autore presso l’editore Bompiani: L’imbroglio I  sogni del pigro La mascherata L’amante infelice Agostino La romana La disubbidienza Gli indifferenti L’amore coniugale e altri racconti Il  conformista I  racconti Romanzi brevi Racconti romani Il  disprezzo L’epidemia Racconti surrealisti e satirici La ciociara Teatro Un mese in U.R.S.S. Nuovi racconti romani La noia L’automa Un’idea dell’India Le ambizioni sbagliate L’uomo come fine e altri saggi L’attenzione Cortigiana stanca Il mondo è quello che è Una cosa è una cosa La rivoluzione culturale in Cina Il dio Kurt La vita è gioco Il Paradiso Io e lui A quale tribù appartieni? Un’altra vita

ALBERTO MORAVIA

Al cinema Centoquarantotto film d’autore

Bompiani

© 1975 Casa editrice Valentino Bompiani & C. S.p.A. Via Pisacane, 26 – Milano CL 04-1629-0

INTRODUZIONE

COME SI GUARDA UN FILM Intervista di Giuseppe Catalano

Intervista rilasciata da Alberto Moravia a Giuseppe Catalano per “L’Espresso”.

MORAVIA. Vado molto al cinema, ci vado come credo debba andarci ogni spettatore qualsiasi, cioè per divertirmi. Al cinema, la noia è l’unico rischio da evitare. Come si evita la noia e si ottiene il primo “approccio” con un film? Sono ancora abbastanza ingenuo per identificarmi con la vicenda se è appassionante. Questo non mi impedisce d’altra parte di interessarmi al modo con cui il regista se l’è cavata. Che è una vicenda anche quella… Prendiamo la sequenza finale dell’ultimo film di Antonioni: il regista ci ha dato la rappresentazione di un evento molto grave ed eccezionale, cioè la morte, attraverso una serie di fatti banali e irrilevanti che si svolgono nella piazza di un villaggio spagnolo. Qui il rapporto del regista con il reale, cioè la sua idea del cinema, è diventato più importante della storia narrata nel film. CATALANO. Il primo contatto dello spettatore con il film, è quindi un contatto molto semplice, immediato. M. Al momento di entrare in un cinematografo mi accorgo di mettermi in una disposizione d’animo che è simile a quella con cui mi metto seduto a tavolino a scrivere. Qual è la disposizione migliore per scrivere bene? È abolire l’ego e lasciare che l’es si manifesti. In altre parole bisogna abolire quella che Reich chiama la “corazza caratteriale”: le barriere, i diaframmi, le prevenzioni costruite dal proprio io… È con questa disposizione che si ottiene la cosiddetta “ispirazione” prima di scrivere. E che ci si mette nelle condizioni migliori per guardare un film. C. Ma, esaurito questo primo momento di lettura diciamo così “automatica”, del film, cosa succede? M. Ogni spettatore si porta dietro il proprio bagaglio culturale. La visione del film deve poter agire liberamente, come stimolo alla memoria provocando una quantità di associazioni di pensiero… Il cinema è un esercizio ricco di metafore, dice una cosa e ne significa tante altre, ha rapporti con la cultura molto strani e profondi, molto più profondi che il teatro, ad esempio. In pratica “vedere” un film, significa attraversare la foresta delle analogie e delle metafore che lo compongono… C. Facciamo un esempio. M. “Lacombe Lucien”, l’ultimo film di Malie. È un film molto bello. È la storia semplice di un’ebrea che va a letto con un giovanotto che è diventato spia della Gestapo, ma questa storia è una metafora di tante altre realtà: il patriottismo che diventa fascismo e nazismo, la crudeltà contadina, il razzismo. Proprio perché è un prodotto culturale complesso, che partecipa di tante cose, il cinema ha quasi sempre un significato che lo oltrepassa. Il critico, ma anche lo spettatore, ha il compito di “organizzare” le impressioni che riceve in modo da cogliere questo significato. C. Una ginnastica abbastanza difficile. M. È un esercizio che dopo qualche tempo si compie abbastanza facilmente. Per esempio ultimamente ho parlato di “Terremoto”. Ora in questo film ho notato una cosa: da una parte il terremoto è sentito come il terremoto della Bibbia, un cataclisma mitologico, più terribile ed emblematico di un vero terremoto; dall’altra l’umanità che lo affronta è una umanità alla Jules Verne che si affanna a dimostrare valori civici o cerca di contrastare il terremoto con mezzi scientifici. Questa contraddizione del film sta a significare secondo me che nell’inconscio di Robson, il regista, più che il terremoto c’è la bomba atomica perché la vera apocalisse di oggi è termonucleare, non naturale… È un significato del film che ho cercato di mettere in luce, come critico, ma intendiamoci può darsi che ce ne siano tanti altri. L’importante è che siano plausibili… C. Lo spettatore modello è dunque qualcuno capace di tradurre in chiaro i segnali cifrati di un film… M. Non è l’unica esigenza, ma si tratta di un’esigenza importante. L’“irradiamento” culturale

delle immagini è un momento fondamentale del film. Certo, non bisogna affatto dimenticare che il cinema è sopratutto un prodotto estetico e come tale andrebbe goduto solo per “immagini”. Ma se questo fosse l’unico criterio sarebbe un criterio restrittivo, almeno per me che scrivo di cinema e devo organizzare in un articolo le sensazioni che mi ha comunicato una pellicola. Gli articoli sono la proiezione della struttura mentale di chi scrive: la mia con gli anni è diventata piuttosto complicata. Una volta guardando un film obbedivo di più all’emotività immediata, adesso sono diventato più riflessivo, ho subito un “raffreddamento” dei sensi. Un atteggiamento dannoso per un cosiddetto creatore ma utile per un critico. C. Affrontiamo il discorso dei “generi” cinematografici. Come ci si deve comportare? È meglio selezionare o vedere di tutto? M. La classificazione per generi è del tutto arbitraria. C’è una sola classificazione valida: quella che divide i film in due grandi categorie, quella dei film commerciali e quella dei film d’autore. Io mi interesso solo ai film d’autore, perché i film commerciali posseggono una metafora, sola e scontata: quella del denaro e del successo. C. Ma ce ne sono alcuni che raggiungono contemporaneamente milioni di persone molto diverse tra loro: vuol dire che hanno meccanismi più complessi di quanto possa sembrare a prima vista. M. Forse. Ma allora si tratta di meccanismi che hanno poco a che fare con il cinema. Prendiamo “Lawrence d’Arabia”: che cosa suggerisce? Forse un discorso sulla rivoluzione araba, ma un discorso strettamente informativo, senza nessuno stimolo culturale. Lo stesso vale per la commedia all’italiana: rappresenta un’Italia che non c’è mai stata e non ci sarà mai. Può essere utile per passare il tempo, piace molto al pubblico, ma allora è un discorso che riguarda solo il sociologo. C. Quindi: se dovesse tracciare una dieta per lo spettatore cinematografico i film commerciali sarebbero rigorosamente esclusi… M. Quando uno è proprio messo alle corde dalla mancanza di film può anche vedere un film commerciale e dire questo è un prodotto nato per queste e queste ragioni oppure che funziona o non funziona per queste e queste ragioni. Ho visto l’ultimo film di Dario Argento: “Profondo rosso”, è un film indubbiamente commerciale ma potrebbe fornire lo spunto per un discorso psicanalitico sul regista, spiegare ad esempio che presenta dei caratteri sadomasochisti. È già qualche cosa, ma in genere i film commerciali sono sempre estremamente noiosi, mentre in quelli d’autore, come ho detto all’inizio, oltre che alla vicenda, ci si può interessare ai rapporti tra l’autore e la sua opera. Intendiamoci: nei film d’autore includo anche film di autori magari modesti. Un esempio: “Sugarland Express”, il regista non è un autore con la maiuscola, però cerca di dire qualcosa. C. E gli attori? “Guardare” un film significa anche saper “guardare” i suoi interpreti? M. Faccio una premessa. Il solo che si esprime in un film è il regista. Gli altri sono degli aiutanti. Anche gli sceneggiatori. Detto questo, bisogna riconoscere che il gioco dell’attore può anche essere affascinante. Allora abbiamo due spettacoli: uno spettacolo che è quello della regia e poi uno spettacolo di secondo grado che è il gioco dell’attore, per lo più un gioco fisionomico che si segue con diletto. Però la differenza resta questa: dell’attore si può parlare una volta, quando magari ha illustrato più compiutamente il suo gioco, dopo non c’è più niente da dire perché è sempre uguale a se stesso. La regia no, è sempre nuova perché affronta e risolve sempre nuovi problemi. Tant’è vero che certi attori, quelli che si legano ad un gioco fisionomico troppo specifico, dopo un po’ il pubblico non riesce più a seguirli. Per esempio Brigitte Bardot è sempre Saint Tropez. Qualunque cosa faccia. Nell’attore, insomma, c’è una certa fissità, nel regista, no. C. Un discorso scomodo per l’attore… M. No, è un discorso che può essere molto lusinghiero. I grandi attori tendono a servirsi del film come di un pretesto per esprimere cose che nulla hanno a che fare con il film stesso. Cioè, l’attore attraverso questi continui giochi fisionomici dice la sua opinione sul mondo, non sul film che sta interpretando. Questa opinione è misteriosa, ma c’è e lo spettatore ricettivo la riceve anche se non se

ne accorge… Pensiamo a Sordi: è un elemento semiotico che comunica ossessivamente alcune cose: certe forme di pessimismo romano, di meschinità, di scetticismo. Direi alla maniera di Mc-Luhan, che il limite e la nobiltà dell’attore è che ogni attore è il solo messaggio. Tant’è vero che anche nella vita, non solo nella finzione cinematografica, spesso resta tale e quale. Sordi tende ad essere l’idea di Sordi anche fuori di scena. E così tanti altri. C. E la fotografia? Come si guarda la fotografia di un film? M. Il primo contatto, inevitabile, è quello estetico: questa fotografia è bella, è brutta, mi piace, non mi piace. Ma è chiaro che la fotografia di un film è l’espressione del rapporto tra il regista e il reale, così che il discorso non può non andare molto al di là della semplice sensazione. In “Deep Throat” ad esempio quello che conta non è la qualità della fotografia quanto il motivo della ripetizione ossessiva di un coito orale ripetuto all’infinito, come “Il bolero” di Ravel. L’iterazione supera il fatto fisiologico puro e semplice della fellatio e lo trasforma in un ritmo incalzante. Chi avesse letto la fotografia di “Deep Throat” solo in chiave estetica, l’avrebbe letta in modo incompleto. In fondo è questa la fortuna critica del cinema. Perché la critica della pittura è così arzigogolata e tirata per i capelli? Perché il margine culturale della pittura è minimo, il fattore estetico è preponderante. Nel cinema invece anche l’elemento estetico per eccellenza, la fotografia, concede ampio spazio ai margini culturali. Il “bello” di un film è più “culturabile” del “bello” di un quadro. E poi le immagini cinematografiche sono delle frasi di prosa. Un’immagine che si ferma un po’ più a lungo sullo schermo, è un sostantivo con aggettivo. Un primo piano è un punto esclamativo, e infatti i primi piani oziosi irritano come ogni sottolineatura inutile. La macchina da presa procede come una macchina da scrivere. Ma una “lettura” troppo tecnicistica di un film, che è quella adottata oggi dalle riviste specializzate, penso sia deludente. La lettura più efficace resta quella strutturale, quella cioè che scopre le diverse strutture dell’organismo cinematografico.

AL CINEMA

MARAT-SADE Peter Weiss non ha inventato l’elemento fondamentale del suo dramma La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat recitata dai ricoverati del manicomio di Charenton per la regia del marchese De Sade. Effettivamente De Sade, che era stato rinchiuso a Charenton nel 1803 e doveva morirci nel 1814, organizzava nel manicomio, con l’approvazione del direttore fiducioso nel potere terapeutico dell’arte, recite di propri drammi con pazzi come attori e personaggi del demi-monde parigino come spettatori. La invenzione di Weiss è altrove. Egli ha messo in scena De Sade in atto di mettere in scena la morte di Marat: dunque, per prima cosa abbiamo il dramma del dramma, un po’ come nei Sei Personaggi, cioè abbiamo l’aggiunta di una dimensione critica alla rappresentazione; ossia l’abolizione dell’identificazione naturalistica tra platea e scena e l’instaurazione di quell’oggettività “alienata” che Brecht, quasi nello stesso tempo di Pirandello, aveva attinto al teatro narrativo cinese e giapponese. In Pirandello l’accento del realismo (ogni opera d’arte è realistica) non cade più sul dramma ma sul rapporto tra autore, regista, attori e dramma. In Weiss c’è anche questo, più la “distanza” narrativa di Brecht, più il didascalismo giapponese, più l’assurdo del teatro esistenziale, più Artaud, più molte altre cose. Weiss è, dunque, in primo luogo e soprattutto un prestigioso ed eclettico uomo di teatro. È vero che il teatro del teatro gli serve per mettere in luce l’intersecazione storica tra demenza e ideologia (come c’è oggi intersecazione tra demenza e poesia e demenza e pittura). È vero pure che nel suo dramma c’è il non nuovo contrasto ideologico tra De Sade, rappresentante pessimista e dunque conservatore di una classe morente, il quale crede nell’irrimediabilità del Male; e Marat esponente ottimista di una classe nascente il quale crede nella fattibilità del Bene. E il pessimista si limita a coltivare i propri vizi; mentre l’ottimista, convinto che il Male sia un fatto sociale da rimuovere con il mezzo della ragione, non esita a fare uccidere migliaia, milioni di persone. Tutto questo è vero. Ma così alla lettura del testo come alla visione del film che Peter Brook ha ricavato dal dramma, si ricava l’impressione che, alla fine, la teatralità, come sola poesia possibile, prevalga su qualsiasi altro elemento. Teatralità come visione del mondo, come espressione, come comunicazione. Essa vibra in ogni parola del dramma e fa sembrare il testo, alla sola lettura, povero e allusivo. Alla visione del film, d’altra parte, essa si rivela come un’insopportabile mancanza e fa parere insufficienti e inadeguate le immagini. Ma che cos’è insomma questa teatralità o meglio questa poesia della teatralità? Per dirla alla maniera di Mac Luhan, la definiremmo come il teatro stesso sentito quale messaggio, ossia non per quello che vi si rappresenta ma per quello che è, in senso tecnico. Quanto dire che la poesia del teatro è un fatto estetizzante, critico e culturale strettamente legato ai mezzi specifici della rappresentazione teatrale. Stando così le cose, ovviamente, né il testo stampato né il film possono recuperare la poesia della teatralità, anzi semmai la nascondono e la distruggono. Peter Brook ha avvertito l’insufficienza del linguaggio cinematografico; ma tra le due vie che gli si offrivano, cioè fotografare la rappresentazione teatrale oppure riinventare cinematograficamente il dramma di Weiss, non ha saputo scegliere con decisione né l’una né l’altra. Abbiamo l’unità di luogo e di tempo, il testo è recitato quasi integralmente; tuttavia Brook ha cercato di far parlare anche le immagini. Ne è venuto fuori un film curiosamente slegato, frammentario e didattico, quasi una serie di appunti su un film da farsi; ma non quel film che potrebbe essere l’equivalente della rappresentazione teatrale. Bisogna certamente ammirare l’interpretazione eccellente degli ottimi attori; gli accordi del colore (tutti quei terribili toni bianchi, del bianco sudicio che è tipico dell’atmosfera demenziale); la fusione inquietante tra demenza e ideologia; ma tutto questo, probabilmente, c’era già nella rappresentazione teatrale. Il cinema non ha potuto aggiungere che ben poco di suo. Così, ancora una volta il linguaggio del cinema si manifesta il contrario giusto di quello teatrale.

NAZARIN Siamo nel Messico, alla fine del secolo scorso, cioè prima della rivoluzione “nazionale” del 1910. Un prete vive in un quartiere malfamato abitato da ladri, prostitute e vagabondi; e cerca, come il protagonista dell’Idiota di Dostoevskij, di “imitare” Cristo. Ma l’imitazione di Cristo è difficile oggi come ai tempi di Ponzio Pilato. Il prete è sottoposto a cento angherie, lo derubano, lo prendono in giro, lo percuotono. Lui si lascia prendere in giro, derubare, percuotere. È, questo, il suo rapporto storicamente giustificato con la realtà sociale e umana di un paese depresso, arretrato, superstizioso e analfabeta com’era il Messico un secolo fa. Una notte c’è una rissa tra alcune prostitute. Una di esse uccide l’avversaria con una coltellata e, ferita a sua volta, si rifugia nella stanza del prete. Questi non le rifiuta l’ospitalità, benché sappia che ha commesso un delitto; la cura e la guarisce. Ma la polizia indaga; la donna allora scappa, non senza dar fuoco alla casa del prete. E lui, dal canto suo, abbandonato dai superiori, getta la veste talare e prende la strada, un vagabondo come tanti altri. Ma nel suo vagabondaggio, durante il quale vive di elemosina, incontra la prostituta e un’altra donna, un’epilettica abbandonata dal marito, che era fuggita anche lei. Il prete non vorrebbe, è un uomo intelligente e umile, ma, egualmente, nell’atmosfera superstiziosa e fanatica del Messico, diventa una specie di santo. Lo costringono a far miracoli, lo seguono, lo venerano. Va a finire che le autorità li fanno arrestare tutti quanti, mentre cercano di alleviare le sofferenze di un paese devastato dal colera. La prostituta assassina e redenta sarà avviata alla prigione; l’epilettica tornerà col marito; il prete sarà messo a disposizione dei superiori, i quali, com’è prevedibile, secondo la frase di uno di loro, cercheranno di costringerlo a “fare un compromesso con la realtà”. Luis Buñuel, in questo Nazarin girato dieci anni or sono nel Messico, ha voluto tratteggiare un suo “idiota” dostoevskiano, ispirandosi però non già al cristianesimo ortodosso ma a quello cattolico. In questo film, al solito, Luis Buñuel si rivela un regista diabolicamente estroso che mentre affonda le radici nella tradizione culturale e figurativa spagnola (si pensa spesso a Velazquez, a Murillo, a Goya), al tempo stesso sa riflettere con lucidità sulle cose del mondo moderno. Luis Buñuel, insomma, non ignora anzi ci fa capire che la santità del suo eroe è in rapporto diretto con l’arretratezza sociale ed economica del Messico. Egli non giunge ad affermare che la prima non potrebbe esserci senza la seconda; ma ci lascia intendere chiaramente che il nesso c’è e non è casuale. In un breve e stupendo film: San Simeone stilita, Buñuel ha descritto un’altra santità: quella di San Simeone che vive in cima a una colonna, lacero, barbuto, affamato. Poi, tutt’a un tratto, ecco, nel cielo, al di sopra della colonna, sfreccia un potente aeroplano. Un istante dopo, noi vediamo San Simeone, trasformato in play-boy, seduto al tavolino di un night club, davanti un whisky, in maglione e pantaloni di velluto a coste. Che vuol dir questo? Vuol dire che Luis Buñuel, pur essendo costituzionalmente cattolico, ha saputo “vivere” e decantare il suo cattolicesimo come esperienza attuale, fino a farlo diventare elemento culturale, piega psicologica, secrezione sociale. S’intende che Nazarin è un film assai notevole e singolare dal punto di vista formale. Buñuel vi recupera il verismo della fine del secolo; ma lo sforza fino a sfiorare il surrealismo. Un surrealismo che, come si è detto, risale non tanto a Breton, quanto a Goya. La figura di Nazarin è simile a quella di un santo spagnolo soave e ispirato della controriforma; intorno al quale il pittore si è sbizzarrito in cento episodi minori talvolta del tutto esterni alla vicenda, come per esempio quello del nano innamorato della prostituta. L’idea, però, è pur sempre quella di certi grandi affreschi religiosi: una figura ideale e idealizzata (quella di Nazarin, interpretata con grande naturalezza ed efficacia da Francisco Rabal) e tutt’intorno una folla di mostri, di indemoniati e di tiranni. LIBERTÀ E PAURA Square e hippy sono due termini quasi intraducibili in Europa. Il primo si potrebbe tradurre con

“borghese” ma sarebbe forse più esatto dire “conformista”. Il secondo non ha equivalenti qui da noi; ma la parola americana è troppo nota per aver bisogno di una spiegazione. Libertà e paura (Easy rider) di Dennis Hopper, interpreti Peter Fonda, Dennis Hopper e Jack Nicholson è, crediamo, il primo film nel quale la visione del mondo hippy sia contrapposta drammaticamente a quella dei suoi avversari, gli squares. Due hippies, uno sempliciotto e godereccio, l’altro evangelico ed estatico, vanno al confine col Messico per comprare all’ingrosso la droga che poi rivenderanno in California. Incoscienti, infatuati, ignari e, senza volerlo né saperlo, provocanti, i due non si accorgono di essere in realtà due soldati dispersi in territorio nemico. Corrono in motocicletta per le strade del sud e per prima cosa sono ospitati in una delle 40.000 colonie hippies che esistono oggi negli Stati Uniti. Vi trovano fratellanza, amore, droga, vita naturale, lavoro dei campi. Questa esperienza li incoraggia. Ma subito dopo sono arrestati e messi in gattabuia. In prigione fanno conoscenza con un avvocato ubriacone, in apparenza “square” ma per vocazione hippy. Egli si unisce a loro avvertendoli però: “State attenti. Chi non è libero, ha paura di chi è libero. E la paura fa diventare omicidi.” I tre si fermano ai margini di un paese, nel sud. Mentre dormono vengono aggrediti da un gruppo di “squares”, e il povero ubriacone è ucciso a colpi di randello. Gli altri due proseguono la corsa, ma su uno stradone solitario, sparando da un camion, uno dei tanti “squares” repressi e impauriti li abbatte a colpi di carabina. Easy rider, a ben guardare, è un film di propaganda a favore degli “hippies” e contro gli “squares”, doppiato di un documentario sul mondo hippy. Per esempio, il soggiorno nella colonia hippy è quasi del cinema verità, di specie però edificante e didascalica. Ci si informa, in questa lunga sequenza, che la visione del mondo “hippy” vuole che si viva naturisticamente e a contatto con la natura, che ci si ami in tutti i modi e a tutti i costi, che si rifiuti la società competitiva e consumatrice e, infine, che, con diversi mezzi, dalla droga al sesso, si raggiungano le sfere della vera “realtà” metafisica e trascendente, ben diversa dalla realtà “realistica” degli squares. Tutto questo è detto con chiarezza e meticolosità pedagogica, attraverso minimi aneddoti e circostanze. Ma quando si viene al mondo degli squares, il regista, in fondo, dà per sottinteso che noi lo conosciamo e la rappresentazione si fa assai meno oggettiva e paziente. Questa dicotomia decisamente parziale costituisce al tempo stesso l’originalità e la maggiore debolezza del film. Visti con favore come modelli di un’umanità avvenire e non, quali sono in realtà, come oppositori radicali a loro volta influenzati negativamente da ciò a cui si oppongono, gli hippies risultano insieme sdolcinati e un po’ imprecisi. Quanto agli squares, la loro connotazione è, a dir poco, sommaria: sono dei mostri, capaci di assassinare soltanto perché qualcuno porta barba e capelli di foggia diversa dalla loro. Il film tuttavia è importante e di grande interesse soprattutto perché ci parla dell’America in maniera non esteriore ma dall’“interno”, vale a dire ci parla dell’America di oggi, spaccata da un contrasto ideologico che ha negli hippies e negli squares i suoi protagonisti. Dennis Hopper è un regista elegante, estetizzante e compiaciuto che indulge talvolta ad effetti insieme calcolati e oziosi, ma egualmente nel suo film viene fuori l’America più angosciosa con la sua chiassosa civiltà dei consumi, il suo isolamento politico, la sua incombente pericolosità. All’America ideologica fa da sfondo l’America fisica, non meno angosciosa, coi suoi stradoni sterminati, la sua provincia “profonda”. A questo punto, riandando con la memoria ai romanzi di Faulkner nei quali è descritta la stessa America, ci si sorprende a pensare che da allora niente, a quanto pare, è cambiato. E allora vien fatto di domandarsi se per caso il film non sia, dopo tutto, veritiero; e se la sua denunzia contro l’universo “square” non sia giustificata. FESTA PER IL COMPLEANNO DEL CARO AMICO HAROLD

Festa per il compleanno del caro amico Harold che il regista William Friedkin ha ricavato dalla commedia di Mart Crowley: The boys in the band è un film sugli omosessuali. La storia è semplice. Harold è una matura e, a quanto pare, celebre “checca” di Nuova York; e il giovane e ricco Michael, omosessuale anche lui, gli offre una festa in occasione del suo compleanno. Alla festa non partecipano che omosessuali, o meglio, più esattamente (la distinzione è importante) “checche”. C’è Hank, l’uomo sposato che ha lasciato la moglie e i figli per vivere con Larry; c’è Larry che vive con Hank e lo tradisce; c’è Bernard, un negro patetico e sentimentale; c’è Emory un istrione dell’omosessualità; c’è Michael il padrone di casa aggressivo e appassionato; c’è un innominato cowboy raccattato sul marciapiede per l’occasione e portato come “regalo” all’amico Harold; e infine c’è Harold, un tipo di “checca” caricaturale e prestigiosa che recita continuamente la parte di quello che è. La festa si svolge regolarmente: musica, danze, alcool, pranzo, conversazione allegra e brillante e, alla fine, giochi. Ahimè! Col gioco, esplode il motivo di fondo di tutta la riunione: l’omosessualità. Oltre ai suoi sette amici “checche”, Michael ha invitato un certo Alan, eterosessuale e suo compagno di studi. Michael è stato innamorato di Alan ed è convinto che Alan nasconda la propria vera natura e invece “lo” sia. Il gioco dovrà servire a smascherare Alan. Ciascuno dovrà telefonare alla persona che ha amato di più nella vita e dirgli per telefono che lo ama. Michael sfida Alan a fare una simile telefonata a un certo Justin, altro compagno di scuola e omosessuale, del quale Alan, secondo Michael, sarebbe stato perdutamente innamorato. Alan esita, poi telefona e fa la sua dichiarazione d’amore. Michael trionfante gli strappa il ricevitore; ma il trionfo dura poco. All’altro capo del filo non c’è Justin ma la moglie di Justin che, appunto, l’eterosessuale Alan ama da sempre. La festa che doveva concludersi con lo smascheramento di Alan finto eterosessuale, si conclude invece con una catastrofe. Tutti se ne vanno. Michael rimane solo a ruminare il proprio indistruttibile senso di colpa. Il problema dell’omosessualità, in questo film, è visto soprattutto come problema di totalità e incompletezza. Perché Michael non invita che omosessuali? E il solo che non lo sia, lo invita per fargli confessare che lo è? Evidentemente perché Michael è convinto o cerca di convincersi che l’omosessualità è una “totalità” cioè un modo di vedere il mondo completo e autosufficiente. Ma da dove viene a Michael questa convinzione? Gli viene, senza che lui se ne renda conto, dalla condanna pronunziata da tempo immemorabile dagli eterosessuali contro gli omosessuali. Secondo gli eterosessuali l’omosessualità sarebbe una forma nevrotica di incompletezza in quanto basata sul rifiuto della donna. Così Michael in fondo non fa che capovolgere per difesa il giudizio negativo degli eterosessuali, trasformandolo nel suo contrario positivo. Ma il capovolgimento non riesce: l’omosessualità non può essere sinonimo di umanità ossia non è una totalità. E appunto perché non lo è, la festa di Michael è un fiasco e gli omosessuali risultano seri soltanto quando si prendono in giro e, appena si prendono sul serio, sembra che si prendano in giro. La commedia e il film che ne è stato ricavato dimostrano la verità di questa nostra affermazione. Tutto il primo tempo che è recitato in chiave di parodia (la parodia della femminilità di cui si pretende di fare a meno) è eccellente. In questo primo tempo non ci sono né intrecci né personaggi; c’è soltanto la descrizione tragicomica di una condizione umana. La condizione è “particolare”; ma la rappresentazione la rende “totale”. Invece nel secondo tempo, il tentativo di creare un intreccio e dei personaggi naufraga nello psicologismo e nel sentimentalismo, questi due pessimi surrogati della psicologia e del sentimento. DONNE IN AMORE David H. Lawrence oggi ci appare come un romanziere “datato” quanto ai contenuti anche se indubbiamente scrittore ricco, vigoroso e poetico. Lo stesso si potrebbe dire, per esempio, di

D’Annunzio. Le idee di D’Annunzio non ci interessano e comunque, come si diceva una volta, ci appaiono “superate”; ma D’Annunzio è egualmente scrittore e poeta tra i maggiori del suo tempo. Ora, però, di altri scrittori contemporanei di Lawrence, per esempio Proust, Joyce, Kafka, Mann, Svevo, che pure hanno tutti una loro ideologia, non ci verrebbe in mente di dire che i loro contenuti “datano” e sono “superati”. Perché questo? A quanto sembra, tra il 1870 e il 1920 una specie di malattia si è infiltrata nella cultura europea. Questa malattia, che doveva più tardi trovare espressione politica nel fascismo e nel nazismo, era certamente degna di rappresentazione; ma è il modo che importa. Nei già citati Proust, Joyce, Mann, Kafka, Svevo, la malattia, che per comodità chiameremo decadentismo, è oggettivata e trattata appunto come malattia. Invece Lawrence vorrebbe che la malattia fosse considerata salute. Il risultato è che il senso comune alla fine ha rifiutato le teorie di Lawrence e ha riconosciuto soltanto, come abbiamo già notato, il suo valore di scrittore. Questo ragionamento vale naturalmente anche per Donne innamorate, il romanzo dal quale Ken Russell ha ricavato il film impropriamente intitolato in Italia Donne in amore. La storia, come avviene spesso in Lawrence, è insieme semplice nei fatti e complicata nel fondo ideologico. In una piccola città mineraria inglese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, due coppie, Rupert insegnante e Ursula anch’essa insegnante, Gerald, proprietario di miniere e Gudrun scultrice, intrecciano i loro amori e le loro idee. Forse senza volerlo Lawrence ha dato in Donne innamorate una perfetta diagnosi del velleitarismo piccolo-borghese che costituisce il fondo impotente e torbido dell’estetismo e del fascismo. Rupert, nel quale bisogna vedere un autoritratto di Lawrence, è, come Lawrence, un esteta della violenza, del sesso e del sangue. Gerald, spietato, brutale, orgoglioso, violento, appare come la vivente incarnazione delle idee di Rupert. Gudrun e Ursula, infine, sono due figure femminili tipiche dell’epoca: insoddisfatte, velleitarie, aggressive, volubili. Curiosamente Lawrence e Russell prendono in giro il morente estetismo dannunziano per cadere subito dopo in altro estetismo ancor più aberrante. Colpito alla testa da un’amante ingelosita, Rupert recupera la propria vitalità tuffandosi nella vegetazione lussureggiante di un parco. In una scena analoga ma di segno contrario, Gerald, dopo essere stato respinto da Gudrun infatuata di un fasullo scultore tedesco, cerca e trova la morte tra le nevi del Tirolo. Tutto il film oscilla tra un frenetico amore della vita fisiologica e un’attrazione morbosa per la morte, intesa come autodistruzione anch’essa fisiologica. Tuttavia, quando tutto è stato detto, Donne in amore va considerato un bel film, certo il migliore di Russell il quale ha trovato in Lawrence uno scrittore stimolante e congeniale. Visivamente stupende, alcune sequenze, specie nella prima parte, ci forniscono per la prima volta una rappresentazione cinematografica adeguata dell’atmosfera lawrenciana. Il rapporto sessuale, che è il punto di forza e la conquista poetica dell’opera di Lawrence, ha ispirato al regista le scene più belle. È un peccato che i nostri censori, paladini della pornografia qualunquista e scurrile, le abbiano mutilate. I due interpreti migliori sono Glenda Jackson e Oliver Reed rispettivamente Gudrun e Gerald, che, ciascuno a suo modo, contribuiscono con l’intensità espressiva al lirismo vitalistico che informa il film. Accanto a loro, nello stesso stile, con gli stessi intenti, stanno Alan Bates che è Rupert, Jennie Linden che è Ursula, Eleanor Bron nella parte di Hermione e Catherine Willmer in quella della madre di Gerald. TOTÒ A COLORI Gli attori comici si possono dividere in due grandi categorie: gli interpreti e i clown. I primi, per far ridere, hanno bisogno di un personaggio nel quale, si noti bene, si incarna di solito qualche vistosa e riconoscibile debolezza umana o stortura sociale. L’interprete, cioè, ride di qualcuno o di

qualche cosa e riesce a far ridere insieme con lui gli spettatori. La comunicazione, dunque, è tutto per l’interprete; più comunica e più avrà successo. Donde, pure, la necessità di condividere col pubblico la stessa scala di valori: se si ride insieme, questo vuol dire che si hanno le stesse idee su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che è brutto e ciò che è bello. Il terreno comune potrà essere il mondo sempre eguale delle passioni o quello, sempre mutevole, del costume; ma dovrà pur esserci, altrimenti niente comunicazione e, di conseguenza, niente comicità. Il clown è il contrario dell’interprete. Là sua comicità viene dal fatto che non comunica e che non ha niente in comune col pubblico. Infatti il clown non interpreta un personaggio in quanto è personaggio lui stesso. E lo è a causa di un carattere fisico nativo o creato apposta, del tutto incomunicabile appunto perché del tutto insignificante. In certo modo, il clown fa ridere un po’ come fanno ridere i pazzi, la cui comicità sembra essere dovuta quasi unicamente al fatto che nessuno è in grado di capirli. Il clown non è pazzo, è vero; ma per lui è stata pazza nel suo corpo la natura, facendone un nano, un gobbo, un obeso, uno spilungone e così via. I clown che non dispongono di queste deformazioni naturali, se le creano con acconci atteggiamenti, modi di vestirsi, truccature grottesche e ridicole. Al limite, dunque, il clown non ha bisogno di alcuna arte: basta che si mostri e tutti subito scoppiano dalle risa. Perché poi una deformazione fisica sia comica “in sé”, è un mistero; forse perché rende “diversi”. D’altra parte, ben difficilmente il clown lascerà il circo o l’avanspettacolo per la scena o lo schermo; se lo farà, si porterà sempre dietro il limite del lazzo fisico, della smorfia, del tic che non permettono di comunicare e, appunto per questo, fanno ridere. Il caso di Chaplin, clown tutto fisico costruito coi vestiti e coi gesti, passato dallo sketch al lungometraggio, è forse unico. Ma i film migliori di Chaplin sono i primi e più corti, che sono film di clown. Quando Chaplin, in Monsieur Verdoux, fa l’interprete, la sua bravura non ci impedisce di provare un certo disagio. Totò, che in questi giorni è tornato di moda, era un clown fabbricato senza risparmio e, si direbbe, con precisa intenzione, dalla natura. La sua faccia era tutto uno zig-zag: la fronte contraddiceva al lungo naso; questo, al mento sporgente e fatto a spatola. A loro volta, gli occhi globosi e di espressione triste contrastavano con la bocca enorme e ridanciana. La natura si era sbizzarrita pure nella sua struttura muscolare, dandogli una strana capacità di allungare e ritrarre il collo e di inarcare le reni e spostare i glutei. A questi “doni” naturali, conveniva la misura degli “sketch” da avanspettacolo per la loro brevità che permetteva appunto a Totò di “apparire” senza essere costretto a “comunicare”. Sotto quest’aspetto, Totò è stato un grande clown, forse uno dei più completi e perfetti. Si dice che la sua comicità è funebre e squallida. Pensiamo che lo sia quando, introdotta a forza nel contesto di una qualsiasi orrenda commediola all’italiana, è costretta a comunicare qualche cosa. Ora l’uomo che si nascondeva sotto la maschera di Pulcinella di Totò, non poteva che comunicare il solito qualunquismo deprimente e sguaiato che è proprio della piccola borghesia italiana. Ma talvolta, in quelle stesse commediole, si possono isolare intere sequenze nelle quali la comicità di Totò è assoluta, appunto perché del tutto insignificante. Pensiamo, per esempio, ai quindici minuti durante i quali, in Totò a colori, Totò, durante un litigio con un suo compagno di viaggio, nello scompartimento di un vagone letto, sta continuamente per starnutire e non ci riesce. Cosa significa, cosa comunica uno starnuto? Nulla, assolutamente nulla. Eppure tutta la sequenza è di una comicità irresistibile, per niente squallida né funebre. RIFIUTI Trash (Rifiuti) è il titolo piuttosto moralistico di un film di Paul Morrissey, seguace e sodale di Andy Warhol. Il film è composto di diversi episodi slegati e racconta la storia di Joe, un giovane colpito da impotenza perché dedito alla droga. Joe, a tutta prima, ci è presentato insieme con una splendida ragazza che pur di eccitarlo si esibisce perfino in una specie di danza del ventre; ma

invano. Joe, subito dopo, accetta l’ospitalità di una studentessa che anche lei vorrebbe far l’amore. Ma Joe si fa una iniezione di eroina mentre la ragazza gli recita una poesia di Ginsberg; e poi, naturalmente, non riesce a combinare nulla. Terza visita di Joe. Entra per la finestra in un piccolo ed elegante appartamento con l’intenzione di rubare, per sfamarsi e magari comprarsi la droga. Ecco gli viene incontro la padrona di casa, una bella ragazza svanita fino all’idiozia, la quale, per prima cosa, gli fa fare un bagno. Quindi, dopo aver tentato, anche lei invano, di eccitarlo, gli propone di fare l’amore a tre, lei, lui e il marito. Ma Joe per tutta risposta si fa un’iniezione. Così, ai due coniugi non resta che buttarlo fuori, sulla scala, ormai inservibile. Nella seconda parte assistiamo a una buffa scena di iniziazione alla droga da parte di uno studente. È la donna, anche essa drogata, con cui Joe convive, che si adopera, sadicamente, per iniziare al funesto uso il vizioso novellino. Joe, al solito, assiste, passivo, quasi assente. Poi la donna, una specie di furia perpetuamente scatenata, che passa la giornata sul divano, tra i rottami e le immondizie del loro sordido e gelato appartamento, vuole fare a sua volta l’amore. Ma Joe, una volta di più, si fa la solita iniezione e la donna è costretta a soddisfarsi da sola. Alla fine, dopo un tentativo, anch’esso fallito, di far l’amore, per puro spirito altruistico, con la sorella dell’amante, brutta, drogata e, per giunta, incinta, Joe assisterà, come sempre, passivamente a un inizio di imbroglio. L’amante di Joe vorrebbe un sussidio; a questo scopo si fabbrica una finta pancia di donna incinta. Ma l’assistente sociale è un feticista che in cambio del sussidio chiede le scarpe della donna. La donna rifiuta il baratto; segue una lite; la finta pancia scivola in terra; e il burocrate feticista viene scacciato con una scarica di parolacce. Trash si può leggere a diversi livelli e questo è già un rilevante pregio strutturale che denota l’opera d’arte. Si può leggere come un film comico, della sarcastica e triste comicità nuovayorchese, sull’argomento “di per sé” comico dell’impotenza. Perché l’impotenza è sempre stato un soggetto comico? Probabilmente perché è una presa in giro fisiologica di un atto di presunzione anch’esso fisiologico. L’uomo sicuro di sé che si getta su una donna e non ce la fa è ridicolo non tanto perché è impotente quanto perché è convinto di non esserlo. Stranamente, però, in Trash la comicità è trasferita da Joe, che non fa mai ridere, alle donne che vorrebbero far l’amore con lui. Quanto a dire che l’accento comico cade, in questo film di dissenso, non sull’impotenza ma sulla potenza. Oltre che un film sull’impotenza, Trash è un film sulla droga. Che ci dice sulla droga Trash? Ci dice che in una società condannata al profitto e al consumo, la droga è una protesta e un surrogato: protesta contro il profitto e il consumo, surrogato delle cose che si vorrebbe invano sostituire col profitto e il consumo. Infine, Trash sta a testimoniare un cambiamento sostanziale nella narrativa dall’Ottocento a oggi. La distanza tra l’approccio sentimentale e l’atto sessuale, nella narrativa vittoriana, era enorme. In fondo i narratori dell’Ottocento raccontavano le infinite cose che avvenivano tra il primo incontro e il primo coito. Ma oggi questa distanza è di molto accorciata, anzi, sovente, non c’è più. Due s’incontrano, si piacciono, fanno subito l’amore: il resto verrà dopo. Ne segue che le peripezie non sono più psicologiche (la psicologia consisteva nel “non” fare l’amore) ma, in certo modo, filosofiche. Il narratore, cioè, farà delle variazioni sulla copula (normale e anormale, riuscita e fallita, sensuale e intellettuale, allegra e triste ecc. ecc.). Ne risultano romanzi e film che è troppo facile accusare di pornografia; mentre, in realtà, sono l’indizio di una svalutazione radicale e dunque antipornografica, dell’atto sessuale. Così, in fondo, la censura che, a quanto sembra, vorrebbe proibire Trash, in realtà si può interpretare come una nostalgia dell’atto sessuale inteso e rappresentato come oscenità. Come dire che essa si scandalizza proprio per lo squallore e la tristezza del film, indizi sicuri della mancanza di qualsiasi lenocinio. Il film regge tutto intero sul personaggio di Joe, vero e proprio “idiota” di tipo dostoevskiano, dolce, passivo, buono, ragionevole e immensamente distante, interpretato con grande efficacia e naturalezza da Joe Dallesandro.

LE STAGIONI DEL NOSTRO AMORE Quando è finito il dopoguerra, cioè quel particolare periodo al quale di solito ci si riferisce con le parole: “gli anni cinquanta”? Probabilmente, se si vuole accettare la nozione piuttosto arbitraria e convenzionale di “generazione”, intorno al 1956, anno di Budapest e di Suez. In quell’anno, almeno per coloro per i quali l’ideologia politica era il fatto predominante della vita, tutto ciò che sinora era sembrato reale, razionale e tragico è diventato improvvisamente irreale, irrazionale e comico. Personalmente non siamo mai stati di quelli che credono che le cose cambiano in blocco, da capo a fondo. I cambiamenti, per esempio, della moda e dello snobismo sono rapidissimi, quasi stagionali; quelli della politica un po’ più lenti; quelli dell’arte ancor di più; infine ci sono i mutamenti di certe manifestazioni basiche dell’umanità, come per esempio la lingua, che sono lentissimi, quasi impercettibili. Ma tant’è, Florestano Vancini, nel suo ultimo film, Le stagioni del nostro amore, ha voluto mostrarci un certo tipo di umanità per la quale l’ideologia politica è determinante e fondamentale, al punto da invadere il campo dei rapporti sentimentali e quello della consistenza biologica; e noi dobbiamo stare al suo gioco e vedere che cosa ne ha ricavato. La delusione degli “anni cinquanta” nel film di Vancini è simboleggiata e incarnata nella vita e nella figura del protagonista, Vittorio Borghi, in gioventù valoroso partigiano, attivista comunista, giornalista di punta e di fede, e adesso, nella maturità, uomo deluso, amareggiato, incredulo, stanco. Né le cose private di Borghi vanno meglio di quelle pubbliche: sposato a una donna sfiorita, amante di una ragazzina di vent’anni, Borghi si vede, a causa dell’intrinseca debolezza della propria situazione esistenziale, odiato dalla prima e abbandonato dalla seconda. Di fronte al disastro della propria vita, Borghi ha una reazione di bambino che, nel momento del dolore, corre a rifugiarsi nel grembo materno. Parte per Mantova, sua città natale, alla ricerca, appunto, del grembo sociale e storico da cui è nato, dal quale ha ricevuto il primo nutrimento culturale. Ma anche a Mantova gli “anni cinquanta” sono morti, travolti dalla civiltà dei consumi neocapitalista, svuotatrice dei linguaggi e dei problemi ideologici. Gli amici marxisti o sono scomparsi oppure, invecchiati, sono diventati, magari senza rendersene conto, dei bravi borghesi; le donne che Borghi ha amato, si sono “sistemate” con marito, figli, amanti. Insomma delle “magnifiche sorti e progressive” non è rimasto niente; e la giovinezza è ormai passata. Borghi ha allora una crisi di nervi: prende a calci un jukebox, innocente simbolo della nuova epoca yé-yé, urlando: non mi avrete. Ma alla fine, rassegnato e, speriamo, consapevole che la vecchiaia non è un fatto storico bensì soltanto biologico, si direbbe che accetti l’inevitabile decadenza. L’idea del film di Vancini è un po’ quella di molti recenti film e romanzi: il significato della svolta dagli “anni cinquanta” agli “anni sessanta”; dall’epoca, insomma, dell’impegno a quella, ancora in corso, del disimpegno. Ma in Vancini, forse perché nell’inquieta e politica valle padana l’ideologia dell’impegno è stata vissuta con più serietà che altrove, quest’idea è arrivata a un notevole grado di chiarezza e di semplificazione in modo da diventare, quasi senza sforzo, materia di dramma. Questa ci pare la principale qualità del film: l’autenticità di un discorso politico del tutto esplicito e realistico che in altri, meno persuasi di Vancini della sua verità, avrebbe potuto correre il rischio di restare allusivo e velleitario. Tanto è vero che noi riusciamo a vedere Mantova e il paesaggio padano attraverso gli occhi di Borghi, non già come sfondi indifferenti anche se belli, ma come aspetti naturali della delusione storica. Semmai, si potrebbe dire che, forse senza volerlo, Vancini ha confermato con questo film il sospetto che, all’infuori dei due dogmatismi cattolico e comunista, l’italiano medio ricade sul crepuscolarismo sentimentale, sola maniera per lui, a quanto pare, di essere laico e libero. La crisi finale del personaggio, mischiata di violenza e di impotenza sottolinea questa melanconica conclusione. L’interpretazione di Enrico Maria Salerno nella parte del protagonista è molto buona, una delle

sue migliori. Accanto a lui bisogna ricordare, in parti minori e dominate dalla regia, Jacqueline Sassard, Anouk Aimée, Gastone Moschin, Gian Maria Volonté. I PUGNI IN TASCA In una località dell’Appennino emiliano, in una vecchia casa di provincia, vive una famiglia composta da una madre e quattro figli: Augusto, Alessandro, Giulia e Leone. La madre è cieca, Alessandro è epilettico, Leone oltre che epilettico è idiota. A queste tare ataviche si aggiungono dei contrasti di interesse: il fratello maggiore vorrebbe sposarsi, trasferirsi in città, ma non può perché mancano i quattrini che sono spesi in gran parte per curare la madre. Infine, per completare il quadro di una corruzione insieme fisiologica e psicologica, Giulia pare nutrire un amore incestuoso per Augusto. Tutto questo groviglio di interessi, di malattie, di rancori, di passioni finisce per suscitare nella mente di Alessandro, che pare essere il più sensibile e il più intelligente dei quattro fratelli, un’idea ossessiva: egli deve potare l’albero malato della famiglia, ossia ucciderne i membri malati, in modo da permettere che il ramo sano, cioè Augusto, possa svilupparsi liberamente. Quest’idea comporta un matricidio e uno o due fratricidi nonché la complicità tacita del fratello maggiore e della sorella; ma Alessandro con una sua delirante e giocosa freddezza riesce a mandare a effetto il suo piano: quasi connivente Augusto, uccide la madre spingendola in un burrone; quindi fa fuori il fratello idiota affogandolo nella vasca da bagno. Giulia cade per le scale, dopo che ha scoperto il cadavere di Leone, e sembra minacciata dalla paralisi; allora Alessandro, molto coerentemente, pensa di ammazzare anche lei. A questo punto, però, mentre ascolta un disco della Traviata e si esalta come in una mistica speranza di liberazione, ecco l’assale una crisi epilettica. Cade in terra, si dibatte, la sorella ode le sue urla mescolate alla musica di Verdi ma non vuole o non può soccorrerlo e rimane a letto. Finalmente il disco finisce e con esso la vita del ragazzo. Così tutti i membri malati della famiglia sono morti; i sani possono continuare a vivere. Marco Bellocchio ha dato fondo in questo suo I pugni in tasca a tutto ciò che di solito costituisce il mondo della giovinezza. In questo film c’è di tutto, davvero: odio e amore della famiglia, ambiguità dei rapporti fraterni, attrazione verso la morte, entusiasmo per la vita, volontà astratta di azione, furore impotente, malinconia morbosa, violenza profanatoria e infine, a sfondo di tutto questo, il senso cupo e fatale di una provincia senza speranza. Questa complessa e torbida materia non è però espressa in maniera crepuscolare come quasi sempre avviene nel cinema e nella letteratura italiana, bensì è affrontata, caso raro, drammaticamente. Il regista ha sentito che la violenza della sua polemica contro una certa società non poteva giustificarsi se non esplodendo in tragedia; e così si è posto il problema di come arrivare a inserire fatti grossi quali il matricidio e il fratricidio senza far saltare la fragile cornice naturalistica. Ma non ha saputo o voluto procedere sulla via maestra della normalità e ha preferito la scorciatoia della follia: infatti un uomo normale non può fare se non ciò che può fare, mentre un pazzo può invece fare qualsiasi cosa, salvo poi dare l’impressione che in fondo non ha fatto niente. C’era, però, il pericolo di cadere nel film orrido del genere di Chi ha ucciso Baby Jane? oppure nella tranche-de-vie verista di tradizione zoliana. Questa caduta è stata in gran parte evitata dal regista infondendo nel protagonista Alessandro una distorta e funebre coscienza. Marco Bellocchio con Alessandro ha inventato un personaggio molto bello e, specie nel cinema italiano, molto nuovo. L’originalità di questo personaggio sta nel fatto che la criminalità in lui non si nasconde, come avviene spesso nei veri delinquenti, dietro la facciata di un contegno corretto e normale bensì dietro una sistematica e ironica stravaganza. Il personaggio si salva e salva il film attraverso questa stravaganza di tipo amletico che finisce per dare un significato poetico anche ai suoi delitti, quasi riducendoli a espressioni bizzarre ma giustificate del suo stato d’animo. Questo è tanto vero che quando nell’ultima sequenza, imprevista e geniale, senz’altro uno dei pezzi di cinema più notevoli di questi ultimi tempi, Alessandro si abbandona alla esaltazione

vitalistica e mortuaria che gli ispira la musica verdiana e muore, lo spettatore prova un sentimento di pietà come per la morte di un eroe in fondo positivo. La regia è vigorosa, con un senso drammatico dell’inquadratura significativa e del montaggio serrato che qualche volta però sembra essere rallentato da delle esitazioni di contenuto. Tra gli interpreti un elogio a parte va a Lou Castel che ha saputo creare con Alessandro un personaggio indimenticabile. Accanto a lui bisogna ricordare soprattutto Paola Pitagora, molto brava nella parte di Giulia e poi Mauro Masè, un convincente Augusto e Liliana Gerace, la madre. STATO DI ALLARME La bomba atomica è uno dei grandi soggetti morali e metafisici del nostro secolo, paragonabile soltanto, per vastità e profondità, alla credenza millenaristica della fine del mondo, di cui, del resto, ripete, in forma funestamente immanente e scientifica, alcuni dei caratteri più minacciosi. Questo tema così grave e così fondamentale viene affrontato nei vari paesi in maniere diverse secondo il genio nazionale e la particolare situazione. Si va da un silenzio completo, non sappiamo se prodotto dall’incoscienza o dal fatalismo qualunquista, come in Italia, a un massimo di discussioni e rappresentazioni come nei paesi anglosassoni. Del resto, è anche abbastanza giusto che chi possiede la bomba ne parli più di chi non ce l’ha. Negli Stati Uniti, oltre alla polemica sempre viva sui giornali, sulle riviste e nei libri, la bomba ha ispirato tutto un cinema che chiamerei il cinema “del lancio della bomba per errore”. Abbiamo avuto il Dottor Stranamore di Stanley Kramer; adesso abbiamo questo Stato di allarme di James Harris. In ambedue i film la bomba atomica è il perno della vicenda. La storia del Dottor Stranamore è complicata, inverosimile e divertente. Quella di Stato di allarme è invece lineare, quasi documentaristica e molto meno divertente, almeno nel senso che si dà di solito alla parola. Una piccola nave da guerra americana incrocia lungo la costa della Groenlandia con l’incarico preciso di costringere qualsiasi sottomarino sospetto che si avventuri nelle acque territoriali a venire a galla e a dichiarare la propria identità. Si tratta, come si vede, di un banale servizio di sorveglianza poliziesca; ma il capitano della nave ha preso tanto sul serio questo modesto e razionale incarico da trasformare la sorveglianza in una premeditata caccia al sommergibile sovietico. Il capitano è un tipo brusco, autoritario, fanatico; il suo anticomunismo ossessivo, ricorda alla lontana l’analoga fissazione del capitano Achab di Moby Dick; e non c’è dubbio che il sottomarino russo, che a un certo punto è avvistato nel canale tra la Groenlandia e l’Islanda, sia per lui l’incarnazione del male, come già il mitico cetaceo del romanzo di Melville. Comincia dunque, subito dopo l’avvistamento, una caccia accanita, a distanza sempre più ravvicinata. Inutilmente vari personaggi, il medico di bordo, l’ufficiale in seconda, un ex ammiraglio nazista imbarcato in qualità di commodoro, consigliano la prudenza al capitano; inutilmente diciamo, perché costui, come già Achab, mira in fondo alla propria distruzione. A bordo si trova tra gli altri un giovane ufficiale che il capitano perseguita con i suoi rimproveri. Il giovane ufficiale è zelante, fin troppo, vuol farsi ben volere, ambisce far carriera. A un tratto, nel corso di una discussione con il commodoro tedesco, il capitano dichiara: “Stia tranquillo, non saremo noi a dare per primi l’ordine di fuoco!” Tanto basta: la parola “fuoco”, staccata dal contesto, fa scattare i nervi sottesi del giovane ufficiale, il quale preme il bottone che determina il lancio di un proiettile a testata atomica. Subito dopo il sottomarino sovietico risponde con il lancio di un siluro parimenti atomico. Il film finisce con la visione terrificante e ormai ben nota dell’incandescente fungo termonucleare. Abbiamo detto che Stato di allarme è meno divertente di Il dottor Stranamore. Questo giudizio vuole essere un elogio. Salvo alcune convenzionalità sentimentali e teatrali nei dialoghi, il film di Harris è infatti un prodotto di qualità, nel quale la cura scientifica del dettaglio si accompagna con una tensione morale che non ha niente a che fare con la solita meccanica “suspense” dei film di

guerra. L’accento, com’è giusto, è messo non tanto sul meccanismo della nevrosi bellica quanto sul carattere del capitano, un carattere nel quale si direbbe che una specie di deterioramento storico ha cambiato qualità come il coraggio, l’individualismo, il patriottismo, la dirittura morale in altrettanti difetti. Semmai ci si potrebbe domandare se l’insistenza sull’argomento del “lancio della bomba per errore” nel cinema americano, non stia a indicare un inconscio desiderio che la bomba sia lanciata davvero e di proposito. In questo caso, film come Sfato di allarme costituirebbero una specie di alibi psicologico. Richard Widmark, notevolmente invecchiato, interpreta sobriamente la parte del capitano. L’altro personaggio importante del film è la nave che il regista riesce a far vivere sotto i nostri occhi con tutti i suoi congegni. SVEGLIATI E UCCIDI Gli assassini hanno già ucciso il signor Clutter, il figlio Kenyon, la figlia Nancy. Adesso camminano attraverso il pianerottolo avvicinandosi alla porta della camera in cui la madre, Bonnie Clutter, legata e imbavagliata ma purtroppo con le orecchie bene aperte, ha udito il fracasso della strage della propria famiglia. A questo punto del suo romanzo A sangue freddo, Truman Capote mette da parte i taccuini nei quali, com’è da credersi, ha consegnato le informazioni accumulate durante cinque anni di sodalizio con i due assassini, e ricorre francamente alla propria immaginazione. Ecco il frutto abbastanza singolare di questo ricorso: “Forse, dopo aver sentito tutto ciò che aveva sentito, Bonnie accolse con gioia quei passi che le si avvicinavano rapidi.” Truman Capote ha affermato di non aver scritto niente che non fosse realmente avvenuto. Qui però ci troviamo di fronte a qualche cosa che egli dà per avvenuto ma che certamente non ha appreso dalla sola persona che poteva informarlo, cioè la povera Bonnie. Si tratta infatti dei pensieri di una moritura. Di fronte a quest’arbitrio, l’attenzione del critico non può non spostarsi immediatamente dalla vicenda all’autore. Perché Capote ha supposto che la donna pensasse una cosa simile nell’ultimo istante di vita? La supposizione forse più ovvia era che, ottenebrata dal terrore, non pensasse nulla. La seconda supposizione ovvia è che non voleva affatto morire. Poi ci sono mille altre ipotesi non meno legittime, tra le quali perfino (che ne sapeva infatti Capote di Bonnie Clutter? Non l’aveva mica interrogata) quella che la strage della propria famiglia, per qualche motivo che non sappiamo, ispirasse alla donna pensieri assolutamente incongrui e assurdi. La supposizione di Capote è dunque formulata in base a qualche cosa che non fa parte del dramma, qualche cosa di estraneo, di estrinseco. Questo qualche cosa è facile ricostruirlo. Poiché infatti la supposizione è la più straziante, la più commovente e quella che si accorda meglio con l’idea che Bonnie Clutter fosse una madre modello, ciò che l’ha fatta formulare non può non essere il fatto che Capote, scrivendo quella frase, teneva d’occhio il lettore. S’intende, d’altra parte, che si tratta del lettore medio, cioè del lettore portatore della massima quantità di pregiudizi e di convenzioni perché scrivere per il lettore, in questi tempi di civiltà dei consumi, vuol dire, appunto, scrivere per il lettore medio. Ecco, dunque, come, attraverso un piccolo lenocinio narrativo, si rivela il carattere fondamentalmente commerciale del libro di Capote. Questo lungo preambolo l’abbiamo scritto per spiegare l’impressione riportata vedendo il film Svegliati e uccidi che Carlo Lizzani ha ricavato dalla “vera” storia del bandito Luciano Lutring. A ben guardare, infatti, il film di Lizzani non è tanto diverso dal libro di Capote. Come Smith e Hickock, mentre Capote scriveva il suo libro, erano ancora vivi e verdi in attesa del processo che li avrebbe mandati al capestro, così Lutring, mentre il film di Lizzani viene proiettato, è vivo e verde in attesa del processo che potrà forse mandarlo sulla ghigliottina. D’altra parte Lizzani, come Capote, è da credersi che si sia documentato accuratamente. Certo non ha passato cinque anni a

colloquio con Lutring ma, secondo noi, per fare quello che han fatto Capote e Lizzani anche cinque mesi bastavano ampiamente. Il risultato di tutto ciò è un film di cronaca nera romanzata, non nuovo come genere, come non è nuovo il romanzo da Capote solennemente battezzato con il termine di “non-fiction novel”. Nel film ci sono delle parti, le migliori, ricostruite sui fatti, per esempio le rapine; e altre puramente immaginarie, per esempio gli amori di Lutring, per le quali Lizzani, come Capote per le riflessioni in punto di morte di Bonnie, ha fatto incautamente ricorso all’immaginazione. Ma l’appunto maggiore che non possiamo non fare a Lizzani e a Capote è che tanto il film che il libro, mentre ci dicono sovente fin troppo sui protagonisti delle vicende, ci dicono troppo poco sui loro autori. E non si tratta di impassibilità, ma di difetto. Truman Capote scompare volontariamente dietro un linguaggio di uomo medio americano; Carlo Lizzani, dal canto suo, scompare involontariamente dietro un linguaggio di origine neorealista, un po’ trito e lento, senza impennate espressive né soluzioni stilistiche originali. È vero che il film ha la qualità di demistificare il mito del bandito, con l’ironia e la pietà. Ma avremmo voluto che questa pietà e questa ironia fossero iniettate, oltre che negli eventi, anche nel linguaggio delle immagini. Lizzani ha trovato per Lutring, in Robert Hoffman, un interprete dal volto molto adatto ma dalla recitazione ineguale. Lisa Gastoni nella parte della moglie di Lutring è convincente anche se prevedibile. L’ANGELO STERMINATORE In una città latino-americana o spagnola, in una ricca dimora situata nel “Calle de la Providencia” (il film formicola di simboli, a cominciare dal nome di questa strada) convengono per un ricevimento un gruppo di persone del mondo elegante. Ma qualche cosa non va nella serata. Intanto, senza motivo apparente, come si dice facciano i topi allorché una nave è in pericolo, i servitori, uno a uno, fuggono; poi, finito il pranzo, quando è venuto il momento del congedo, inspiegabilmente, gli invitati rimangono, anzi si apprestano a passare la notte nella casa, accovacciandosi alla meglio sui divani e in terra. Viene il mattino, la compagnia è tutta pesta e scarmigliata ma nessuno pensa di tornarsene a casa. In realtà gli invitati vorrebbero andarsene ma non possono: un misterioso, sinistro incantesimo impedisce loro nonché di uscire in strada perfino di varcare la soglia del salone. Passa un’altra notte, passa un altro giorno, passano molte notti e molti giorni e la brigata è sempre lì, nel salone, ormai ridotta a un’accozzaglia di gente lacera, sporca, puzzolente, avvilita, disperata. Naturalmente scoppiano incidenti, tragedie: alcuni vengono alle mani, altri delirano, un vecchio signore muore di infarto, due fidanzati si uccidono. Ma, ecco, una delle signore ha un’idea: tornare indietro con il ricordo al momento preciso in cui, la prima notte, gli invitati furono sul punto di congedarsi e non lo fecero, rifare la scena, vedere dov’è la misteriosa cerniera tra il normale e l’anormale. La ripetizione funziona; rifacendo la scena, gli invitati questa volta riescono a spezzare l’incantesimo, fuggono finalmente dalla casa maledetta. Ma il giorno dopo, durante il Te deum di ringraziamento nella cattedrale ecco, il funesto fenomeno si ripete. Subito dopo la messa, i fedeli fanno per uscire ma non ci riescono, qualche cosa gli impedisce di lasciare la cattedrale. Intanto fuori, nella strada, è scoppiata una rivolta e la polizia spara sulla folla. Luis Buñuel non è un regista spagnolo, è “il” regista spagnolo, tanto, in lui, i principali caratteri della cultura spagnola sono presenti con vigore e chiarezza. Buñuel è uomo di sinistra, di una sinistra libertaria, anarchica, blasfema; ma è anche, se non per convinzioni, per costituzione, un cattolico o meglio un vecchio cristiano iberico. In arte, è un realista, di un realismo frontale, violento, duro, ingenuo, nella tradizione picaresca; ma è anche un fantastico, un magico, un surrealista visionario alla maniera di Goya e di Dalì. In quest’Angelo Sterminatore, Buñuel ha voluto darci l’allegoria del destino della borghesia. La ricca dimora stregata da cui non si può uscire, è la cultura borghese condannata all’impotenza dalle

proprie contraddizioni; il gruppo degli invitati è la società borghese coi suoi vizi, le sue ottusità, le sue superstizioni, i suoi pregiudizi, la sua alienazione. La borghesia potrebbe risolvere i suoi problemi soltanto se avesse un po’ di buona volontà, un briciolo di immaginazione. Ma non ci riesce, rimane chiusa nel suo bozzolo funesto, è condannata. Abbiamo detto: allegoria; non rappresentazione simbolica. Infatti il simbolo è spesso oscuro, indecifrabile; l’allegoria invece è sempre molto chiara. Il simbolo sta addosso alla rappresentazione, la deforma; l’allegoria se ne sta lontana, permette il realismo più normale. Nell’Angelo Sterminatore Buñuel ha fatto un’allegoria, con un significato per niente oscuro da una parte e una rappresentazione del più normale realismo dall’altra. Il film non è del tutto convincente anche se, attraverso un procedimento iterativo, acquista via via forza e spessore, nel senso di una fatalità sinistra e minacciosa. Perché non siamo del tutto soddisfatti, anche se dobbiamo riconoscere a Buñuel una singolare capacità di caratterizzazione di certi aspetti del mondo borghese? La ragione dell’insoddisfazione ci sembra la seguente: Buñuel ha voluto fare qualche cosa di non tanto diverso dal realismo allegorico di Kafka. Senonché, mentre Kafka riesce a dare al realismo una dimensione magica attraverso la mancanza assoluta di psicologia e di dramma e la descrizione ossessiva e impassibile dei particolari della vita quotidiana, Buñuel, lui non ha saputo rinunziare né al dramma né alla psicologia. La spia a tutto ciò la fa lo stile del film, di un naturalismo un po’ troppo esplicito, appena qua e là sollevato da rari tratti surrealisti. E tuttavia bisogna riconoscere che nel ricordo il film si ricompone idealmente, rivela una sua necessità maliziosa e ambigua. Tra i numerosi attori bisogna ricordare soprattutto Cesar Del Campo che è il colonnello, Enrique Rambal nella parte di Nobile, Silvia Pinal in quella di Letitia, Lucy Gallardo in quella di Lucia, Claudio Brook in quella del maggiordomo e molti altri. La recitazione, assai normale e perfino un po’ piatta, è quasi sempre in voluto contrasto con il dialogo sovente stravagante, allusivo e oscuro. GIOVENTÙ, AMORE E RABBIA Gioventù, amore e rabbia di Tony Richardson ripropone la questione di quello che sia stato e sia tuttora la “rabbia” inglese. E prima di tutto, la “rabbia” ha a che fare con la protesta marxista del nostro neorealismo? Diremmo di no. La protesta marxista aveva e ha caratteri più generici e più astratti; non si curava dei particolari, mirava alla questione di fondo che era, come tutti sanno, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Così la borghesia diventava alla fine una astrazione contro la quale ci si batteva in maniera astratta; col risultato che i marxisti o coloro che si dicevano tali, accettavano usi e costumi della borghesia: tanto non importava, quello che importava era denunziare l’ingiustizia sociale. La “rabbia”, invece, ce l’aveva soprattutto con gli usi e costumi della classe dirigente. Non essendo marxista, la “rabbia” era un’operazione, anche se violenta, piuttosto estetico-morale che economico-sociale. Meno dogmatica, più empirica e stravagante, la rabbia sembra essere stata più efficace della protesta marxista per quanto riguarda lo svecchiamento e lo scalzamento dell’establishment. Tutto questo per introdurre il discorso sul film di Tony Richardson Gioventù, amore e rabbia. È un film del 1962; la “rabbia” inglese era ancora un fenomeno recente. Vi si narrano i casi di un giovane popolano, Colin, il quale, tra la miseria e le dolorose vicende familiari, è portato ad adottare un contegno appunto “rabbioso” cioè di rivolta radicale contro il mondo nel quale si è trovato a vivere. Colin alla fine ruba, è scoperto, viene mandato in un riformatorio. Si tratta di un istituto condotto secondo idee tradizionali; per il direttore non c’è niente come lo sport, una delle colonne dell’establishment britannico, per reintegrare nella società i giovani traviati. A questo scopo è stata creata nel riformatorio una squadra sportiva; presto questa squadra dovrà battersi, per la marcia su cinque miglia, contro la squadra di ragazzi di una vicina università. Colin è il campione sul quale il direttore fa il massimo affidamento per una vittoria della squadra, Colin il quale non ha rubato per

bisogno o per criminalità, ma per “rabbia”. Viene il gran giorno, in un ambiente tipico dell’establishment inglese: praterie, boschi, gentiluomini sportivi, banda coi tromboni. Colin parte come un razzo, ma pur correndo, pensa che una sua vittoria lo inserirebbe di nuovo in un mondo che odia. Così, giunto vicino al traguardo, si ferma, lascia vincere l’avversario. L’establishment è sconfitto, la “rabbia” ha prevalso. In questo film c’è un’idea chiara e precisa illustrata con consapevolezza e coerenza: non bisogna venire a patti con l’establishment. Purtroppo l’illustrazione di questa idea non è così mordente e così rivoluzionaria come l’idea medesima. Soprattutto nella prima parte, in cui Richardson alterna l’attualità del riformatorio con i flash-back del passato di Colin, la regia è lenta e poco originale, di un naturalismo trito e prevedibile. Ma nella seconda parte il film si rialza; la “rabbia” finalmente si esprime nelle sequenze molto belle della gara e della corsa di Colin attraverso la campagna inglese. La cosa migliore, però, la più “rabbiosa” di tutto il film, è la faccia di Tom Courtenay. Tutto il film poggia sull’interpretazione di questo eccellente attore. L’espressione così varia e così intensa del suo volto ci fa capire che la “rabbia” c’è stata davvero, fuori del film, nella storia di questi ultimi anni in Inghilterra. MASCHILE, FEMMINILE Parigi. Paul e Madeleine s’incontrano e s’amano. Paul è un attivista del partito comunista, deciso e intraprendente, che arriva persino a scrivere sull’automobile di un generale americano: “Yankee go home”; Madeleine è una cantante di musica leggera, con un filo di voce, che incide dischi e canta alla radio. I due s’incontrano e stanno insieme per la strada, in bar, ristoranti, stazioni di metro, negozi, gabinetti pubblici, sale di bowling, cinema, ambienti di lavoro dei mass-media come radio, televisione e simili, sale di flipper, caffè con juke-box, night-club, cortili, giardini municipali. I loro incontri sono molto rumorosi ma i rumori non li fanno loro ma il mondo che li circonda e nel quale sono immersi: rombi, scampanellii, fischi, ruggiti, tintinnii, tonfi, esplosioni, ticchettii, brusii, fragori, sfrigolii e così via, delle varie macchine, dalla macchina per scrivere all’autobus, che si fanno sentire così nelle case come nelle strade della città moderna. Naturalmente essi non sono mai soli: per la strada ci sono le folle; nei negozi ci sono i clienti; nei locali pubblici ci sono gli avventori; nei metro ci sono i viaggiatori; nei cessi pubblici ci sono quelli che ci vanno a fare i loro bisogni e quelli che ci vanno a fare l’amore; persino a letto, non avendo casa, sono in tre sotto le coperte, loro due e un’amica servizievole. E altrettanto naturalmente Paul e Madeleine rassomigliano a tutti quanti, fanno quello che fanno tutti quanti, hanno le opinioni che hanno tutti quanti, si vestono, vivono e lavorano come tutti quanti. Madeleine e Paul sono due animali di quella foresta astratta e confusa che è la metropoli moderna. Paul è il maschio romantico, idealista, attivo, che deve mandare avanti la civiltà, la cultura; Madeleine è la femmina apatica, indifferente, egoista, passiva, che deve procreare il maschio. Ma qualche cosa non va nei loro destini: forse la metropoli non è, dopo tutto, la foresta; qualche cosa di umano sopravvive nella sua meccanica e insensata confusione. A un tratto senza motivo apparente scoppia la tragedia: la femmina rimane incinta; il maschio si ammazza. Chiamata a deporre negli uffici della polizia, la femmina dà delle risposte indifferenti, distratte, non pare rendersi conto che il suo maschio è morto. E, forse, ha ragione: per le strade della grande città ci sono tanti altri maschi non meno idealisti e romantici, pronti ad amarla e farle fare un figlio. Questo Masculin, féminin di Jean-Luc Godard è un film sui giovani moderni, sui figli, come dice una delle didascalie, di “Marx e della Coca-Cola”. Che cosa ha voluto dirci il regista con questo bel film pieno di compassione e di crudeltà? Ha voluto dirci che i ragazzi moderni non vivono più, come in passato, in ambienti familiari, affettuosi, privati; bensì in luoghi pubblici affollati, clamorosi, pieni, come la storia dell’idiota scespiriano, “di fracasso e di furia”. E vivendo come

vivono, sono determinati, condizionati da questa vita: pezzi fabbricati in serie di una macchina che gira a vuoto. Come reagiscono, secondo Godard, i giovani a questa condizione alienante e alienata? In due modi: con l’apatia, l’indifferenza, l’impassibilità automatica, come Madeleine (la quale in questo modo protegge la sua funzione di riproduttrice della razza); oppure con la rivolta, la disperazione e il suicidio come Paul che in questa violenza sfoga l’aggressività sessuale propria dell’età. La morale, poi, ci pare anch’essa chiara: il mondo moderno non consente uno sviluppo armonioso e completo dell’uomo; del resto non saprebbe che farsene; ciò di cui ha bisogno è un’umanità perfettamente integrata. Ma integrata in che cosa? Godard non lo dice ma anche questo è facilmente intuibile. Masculin, féminìn rispetto a Pierrot le fou che l’ha preceduto segna un ritorno al realismo sentenzioso e moralistico di film come Vivre sa vie. Girato in bianco e nero, Masculin, féminin ricorda le inchieste sociologiche del “cinéma vérité”; il regista non ha voluto qui descrivere un rapporto privilegiato con mezzi espressivi eccezionali, come in Pierrot le fou; bensì raccontare due vite tipiche, esemplari sullo sfondo di luoghi e di situazioni anonimi. Godard ha una visione del mondo al tempo stesso zoologica e romantica; ricorda Lawrence così per il suo odio della civiltà moderna come per la sua concezione dell’amore come rivolta. Meno letterario, per fortuna, di Pierrot le fou, Masculin, féminin va considerato uno dei film migliori del regista, uno dei più cinematografici e sensibili. I due interpreti, Chantal Goya e Jean-Pierre Léaud, sono ambedue molto bravi, fino all’identificazione con le loro parti. ONIBABA Siamo nel medioevo giapponese, per molti versi simile al medioevo barbarico in Italia e in Europa: guerre intestine di tutti contro tutti, prepotenza dei forti, oppressione dei deboli, fame, insicurezza, legge della sopravvivenza del più atto alla vita, con tutte le sue spietate conseguenze. In un folto canneto, non lontano da un fiume, vive una donna ormai matura con la giovane e bella nuora. Il figlio è partito in guerra, le due donne non hanno di che vivere, per campare si adattano ai tempi feroci: aspettano al varco, nel loro canneto, il passaggio di guerrieri fuggiaschi, li uccidono, li precipitano in una voragine, ne vendono le spoglie a un usuraio. Torna dalla guerra un compagno del figlio, racconta che l’amico è morto in battaglia, corteggia la donna più giovane, restata ormai vedova, ne diventa in breve l’amante. La madre del morto vota un odio accanito contro il nuovo venuto, tanto più che costui l’ha respinta e l’ha chiamata vecchiaccia. Uno di quei giorni passa un misterioso samurai, ha il volto nascosto da una maschera spaventevole. Egli ingiunge alla vecchia di guidarlo fuori dal canneto, in direzione di Kioto. Strada facendo, la vecchia interroga il samurai: come mai porta una maschera? Risposta: per non esporre alle offese il più bel volto virile che ci sia mai stato al mondo. Poco dopo la vecchia assassina fa precipitare il samurai nella voragine, vi si cala per spogliarlo e allora gli toglie la maschera. Orrore: il samurai, sotto la maschera, nascondeva una faccia mostruosamente deturpata da una immonda lebbra. La vecchia ha un’idea: si metterà la maschera terrificante, indosserà un lenzuolo e si drizzerà, spettro pauroso, con le braccia aperte, davanti alla nuora allorché costei, come è ormai solita, correrà di notte attraverso il canneto per raggiungere l’amante. Il trucco riesce: atterrita la ragazza se ne torna a casa, crede sul serio di aver visto un fantasma. Ma adesso avviene qualche cosa che la vecchia non aveva preveduto: la maschera, simbolo della sua malvagità, non le si stacca più dal volto. La vecchia supplica la ragazza di strapparle la maschera, la nuora dopo molti sforzi gliela toglie. Nuovo orrore: la maschera ha attaccato la lebbra alla vecchia, il suo volto appare tutto ricoperto di bolle purulenti. La ragazza scappa, la suocera la insegue, la implora di non lasciarla sola; inseguendola, cade nella voragine nella quale ha fatto precipitare tanti guerrieri. La giovane si salva; ma, nel frattempo, ramante è ucciso da un soldato sperduto: chi di spada ferisce, di spada perisce.

Questo Onibaba film giapponese di Kaneto Shindo è ricavato da una leggenda e infatti ha i caratteri del genere: l’oggetto fatato cioè la maschera, la malvagità punita, l’atmosfera mitica. Ma il regista ha inserito in questo contesto leggendario l’illustrazione insieme poetica e realistica di un’epoca storica turbata. Alla necessità di dipingere l’epoca, si deve l’erotismo scatenato di alcune scene: in un tempo di insicurezza, di omicidio e di fame, l’erotismo è una forma di recupero e di affermazione positiva; i critici sessuofobi che hanno condannato questa parte del film accusando il regista di aver voluto sollecitare la sensualità degli spettatori, mostrano di non aver capito niente. In realtà, insieme con le sequenze crudeli e arcaiche dei combattimenti e degli assassina nelle acque del fiume e nel canneto, le scene erotiche costituiscono la parte migliore di Onibaba. Più debole è invece l’intrigo della maschera, un po’ troppo esplicito e burattinesco. E poi, forse, noi non siamo più in grado di godere le sorprese di un intrigo; il nostro gusto va ormai a tutto ciò che è statico e senza sviluppi. L’interpretazione oscilla tra il gusto giapponese rituale e teatrale e quello occidentale naturalistico e più propriamente cinematografico. Toshiro Mifune è, con bravura, l’uomo; la parte della vecchia è interpretata con efficacia da Jitsuko Yoshimura. Ma la migliore di gran lunga è Nobuko Otowa molto espressiva e convincente nella parte della ragazza. REPULSIONE Due sorelle vivono insieme in un appartamento qualsiasi a Londra. La più grande, Helene, ha un amante che passa sovente la notte con lei; la più piccola, Carol, ha anch’essa un corteggiatore, Colin; ma il suo rapporto con lui e in genere con gli uomini non è così semplice e naturale come quello della sorella. Un misterioso ribrezzo, chiaro indizio di nevrosi, sembra pervaderla continuamente; ma al tempo stesso è evidente che proprio ciò che le fa schifo, l’attira di più. A casa il ribrezzo si rivolge principalmente verso l’amante della sorella; tuttavia Carol, in un momento che resta sola, raccoglie una maglia sporca di lui, ci tuffa il viso con voluttà, salvo poi correre al bagno a lavarsi e a sciacquarsi la bocca. La sorella e l’amico partono per un viaggio di piacere in Italia; lo stesso giorno della loro partenza, Carol che lavora da manicure in una casa di bellezza ferisce, non si capisce se di proposito o per errore, la mano a una cliente e viene rimandata a casa. Adesso Carol è sola; subito, come un fuoco che abbia covato a lungo in un luogo chiuso, la sua follia divampa furiosamente. Carol si barrica in casa, non si lava, non mangia, scivola pian piano in una specie di delirio nel quale le pare di udire voci e rumori, di scorgere presenze minacciose, di essere assalita e stuprata. Intanto però Colin, il suo sfortunato corteggiatore, allarmato, le telefona, e, alla fine, sale in casa. Carol rifiuta di aprirgli, Colin sfonda la porta. Carol che ha impugnato un candelabro, coglie un momento in cui il giovane le volta le spalle, lo colpisce più volte alla testa, lo uccide. Quindi trascina il cadavere nel bagno, l’immerge nella vasca. Sopravviene il padrone di casa a reclamare la pigione, si accorge che Carol è nuda sotto la camicia, le salta addosso. Carol si lascia abbracciare; ma nello stesso momento, con un rasoio, taglia la nuca al disgraziato. L’uomo barcolla, va a uno specchio, Carol gli si slancia contro, lo tempesta di rasoiate, lo finisce, getta il corpo insanguinato dietro un divano. Alla fine tornano la sorella e l’amico, trovano i due morti, tirano fuori Carol da sotto il letto, avvertono la polizia, chiamano l’autoambulanza… Come si vede, in questo Repulsione di Roman Polanski ci troviamo di fronte a un caso clinico. La descrizione della follia della protagonista è infatti meticolosamente disseminata di particolari che hanno il valore di sintomi ai fini di una diagnosi corretta. Senonché un caso clinico, come per esempio quelli raccontati da Freud in un suo celebre libro, trae il suo interesse, la sua forza e il suo significato umano dall’idea di normalità e di salute che non può non essere sottintesa nell’esame impietoso del medico. Ora Polanski non è un medico; e il suo rigore clinico, in conclusione, risulta

fine a se stesso. Con questo si vuol dire che, non tanto stranamente, questa descrizione ammirevole ma un po’ oziosa di un caso di follia sbocca nel virtuosismo estetizzante, nell’esercizio calligrafico. Nel suo sforzo di trasferire la follia di Carol negli oggetti e di vedere questi oggetti con gli occhi di Carol, Polanski finisce per creare un’atmosfera affollata, soffocante che invece di convincere lo spettatore, lo ossessiona e lo stanca. Iterativo, lento, insistente questo film sulla follia manca di quel tanto di follia che sta a indicare la liberazione poetica. La parte migliore è la prima, quella in cui Carol è ancora un personaggio autonomo, ha ancora una sua psicologia, ossia una sua libertà. A partire dal momento in cui scopriamo che è del tutto pazza, l’interesse del film decade; ravvivandosi soltanto, torbidamente, nei punti in cui l’erotismo affiora nella pazzia. Catherine Deneuve è la protagonista. Fedele a un’unica espressione diffidente, disgustata, assorta e micidiale, essa testimonia certamente la bravura del regista che l’ha voluta così com’è; ma non una sua qualsiasi autonomia espressiva. LO STRANO MONDO DI DAISY CLOVER Lo strano mondo di Daisy dover di Robert Mulligan racconta la storia di una diva. Daisy Clover è una ragazza poverissima che vive con la madre quasi demente in un baracca in riva al mare, in California. Daisy è una selvaggia: ma questa selvatichezza custodisce in seno il segreto di un’aspirazione molto domestica: diventare una stella del cinema. Ciò avviene puntualmente attraverso la chiamata di ufficio di una casa cinematografica importante, la Swan Films. Il produttore, individuo cinico e charmeur, dopo breve esame, decide di lanciare Daisy in grande stile. L’operazione, com’è ormai noto, non presenta alcuna difficoltà, sempre che si sia disposti a spendere una adeguata somma di denaro. E così Daisy, la ragazzina in blue-jeans sporchi e pullover stracciato, da un momento all’altro viene catapultata, con la solita macchina pubblicitaria, nel firmamento dello spettacolo e diventa celebre ossia viene trasformata, con il suo consenso e la sua collaborazione, in un bene di consumo. Ma Daisy fa presto ad accorgersi che il mondo nel quale aveva tanto desiderato di entrare è del tutto inautentico; e che l’autenticità della propria vita è rimasta laggiù, in riva all’Oceano, nella baracca in cui è vissuta da ragazzina con la madre mentecatta. Da questo momento assistiamo alla lotta impari e vana di Daisy contro l’industria culturale; ossia ai soprassalti dell’agonia di un pesce preso nella rete. Daisy a tutta prima cerca l’amore, sposa un celebre attore cinematografico, ma costui, ubriacone e segretamente omosessuale, l’abbandona durante il viaggio di nozze, in un motel, e se ne va con un ragazzo. Daisy si getta tra le braccia del produttore che l’ha lanciata: almeno lui ha dimostrato, coi fatti, di volerle bene. Errore: il produttore non vede in Daisy che un prodotto commerciale, che una macchina per far soldi. A questo punto muore pure la madre di Daisy, simbolo vivente, con la sua follia schiva e disinteressata, della vita libera e autentica di un tempo. Daisy questa volta non resiste: si chiude nella baracca, mette la testa nel forno a gas, aspetta la morte. Ma la morte non viene, soltanto un po’ di tosse. Daisy prende a calci il forno, lascia che il gas riempia la casa, si allontana a tempo. Con un boato e una fiammata la casa salta in aria mentre Daisy cammina cantarellando lungo il mare. Un pescatore le domanda che cosa sia successo. La stravagante e significativa risposta di Daisy è: “Niente, io vado al cinema.” Non crediamo che sia ancora stato fatto un film sull’industria culturale con particolare riguardo al cinema. A proposito di questo settore dei “mass-media”, nel bellissimo saggio di Max Horkheimer e Theodor Adorno L’industria culturale pubblicato recentemente dalla casa editrice Einaudi, si leggono le seguenti parole: “Nell’industria culturale l’individuo è illusorio… dall’improvvisazione regolata nel jazz fino alla personalità cinematografica originale che deve avere un ciuffo sull’occhio per essere riconosciuta come tale, domina la pseudoindividualità… la peculiarità dell’individuale è un prodotto sociale brevettato che viene spacciato per naturale.” Ora il

dramma di Daisy Clover è proprio questo: di credere alla carriera e al successo come espressione dell’individuale mentre invece, oggi, carriera e successo non sono che la parabola inevitabile e statistica del consumo, dal lancio iniziale fino all’eliminazione del prodotto dal mercato. Tutto questo nel film di Mulligan è intuito e sfiorato ma non è affrontato direttamente. L’accento è messo invece su un preteso contrasto tra l’autenticità della vita povera e oscura dell’eroina agli inizi, e l’inautenticità del mondo del cinema; contrasto inesistente perché nel mondo moderno tutto è coinvolto nella macchina dell’industria culturale, perfino i sogni e la miseria d’una ragazza che vive con la madre mentecatta in una baracca in riva al mare. Invece di farci vedere come Daisy, in fondo, fa parte per così dire, ancor prima di nascere, del mondo del cinema in cui entrerà più tardi, il film s’è limitato a capovolgere la vecchia storia ottocentesca dell’eroina che si fa da sé; mostrandoci con vecchio procedimento la delusione di un’anima schietta e disinteressata di fronte alla falsità e commercialità dell’industria. Tuttavia il film ha una sua amarezza e un suo mordente così nella descrizione dell’ambiente cinematografico come nella illustrazione del carattere della protagonista. Natalie Wood nella parte di Daisy è molto brava anche se non priva di una convenzionalità tra burattinesca e sentimentale che, però, a ben guardare, appartiene al personaggio. Accanto a lei bisogna ricordare Robert Redford nella parte dell’attore e soprattutto, per la sua sobrietà e incisività, Christopher Plummer in quella del produttore. LA TOMBA DI LIGEIA Edgar Allan Poe costituisce ancora oggi il caso più noto e più importante di uno scrittore geniale che vale e dura soprattutto a causa del suo contenuto. Lo stile di Poe non pare essere mai del tutto genuino, vi si avverte sempre la leggera falsità del “pastiche” o addirittura della mistificazione giornalistica; il suo gusto è, a dirla in breve, cattivo gusto, insieme commerciale, di seconda mano ed estetizzante; eppure nella sua opera c’è un nucleo inalterabile intorno al quale l’ispirazione poetica finisce sempre per concentrarsi e aggrovigliarsi: il tema della morte insieme temuta e amata. Questo tema è illustrato egregiamente nel racconto di Ligeia, dal quale il regista Roger Corman ha ricavato un film lugubremente intitolato La tomba di Ligeia. Nel racconto di Poe, il narratore è, al solito, un gentiluomo dotato di rilevanti mezzi di fortuna e intensamente dedito alle cose dello spirito. Egli è stato sposato alcuni anni con Ligeia, donna del tutto eccezionale così per la bellezza come per le qualità intellettuali e spirituali: Ligeia è alta, evanescente, pallida, esangue, con un’enorme capigliatura nera corvina e degli immensi occhi dall’espressione “strana”: la perfetta figura del vampiro femminile. Minata da uno di quei mali misteriosi di cui Poe si serve per far morire le sue donne, Ligeia si spegne. Il narratore la chiude nella tomba e, dopo un ragionevole intervallo, si sposa di nuovo con una fanciulla bionda dagli occhi azzurri, fornita di un nome dei più tipici: Lady Rowena Tremanion di Tremaine. Ma il marito si accorge ben presto di odiare Rowena proprio perché essa ha preso il posto dell’amata Ligeia. Quest’odio alla fine trova il suo sfogo nella misteriosa morte di Rowena uccisa, si direbbe, dal marito stesso in un momento di esaltazione dovuto all’oppio di cui fa uso. Morta Rowena, il marito la veglia per una notte intera nella stanza che già fu la loro camera nuziale. Ed ecco, il cadavere, a più riprese, dà segni di vita, sempre più accentuati, finché, a un tratto, le bende funebri cadono e sul letto il marito riconosce non più Rowena morta, bensì Ligeia viva. Il motivo necrofilo in Ligeia, come è giusto, è fuso con quello della tanatofobia. Incastrato nel racconto, c’è persino un poema: The conqueror worm, tipico del pessimo gusto di Poe, che ebbe l’onore di essere tradotto da Baudelaire e da Mallarmé. Come si esprime in Ligeia il tema preferito di Poe? in una maniera psicologicamente assai realistica: il protagonista ama Ligeia morta attraverso Rowena viva; ossia, attraverso il corpo vivo di Rowena disteso nel letto, egli mira al cadavere di Ligeia disteso nella tomba. È quasi la stessa situazione descritta, con la solita grossolanità, da

D’Annunzio nel Piacere: Andrea Sperelli, nel momento dell’orgasmo, sussurra all’orecchio di Maria il nome di Elena, che egli ama, appunto, attraverso Maria. Ma il personaggio dannunziano ama una donna viva attraverso un’altra donna viva; quello di Poe, invece, attraverso una donna viva, ama una donna morta. Di qui, la conseguenza logica: affinché Ligeia sia di nuovo viva, bisogna che Rowena muoia. Ricavare un film da Ligeia voleva dire lasciare completamente cadere il ridicolo e provinciale bric-à-brac tra orientale e neogotico, (… cristallo veneziano… massicce muraglie della torre… soffitto di quercia scura… ottomane e candelabri d’oro… letto nuziale di modello indiano scolpito in solido ebano… sarcofaghi di granito nero… ecc. ecc.), nonché l’insopportabile misticismo del protagonista e cercare di esprimere in maniera davvero moderna, ossia servendosi delle scoperte della psicanalisi e dei mezzi espressivi del cinema più aggiornato, il tema fondamentale della paura e dell’attrazione della morte. Questo tema, come abbiamo detto, è autenticamente sofferto e sentito in Poe, e un film che mirasse esclusivamente a tradurlo in immagini non potrebbe non essere un’opera seria come tutte le opere che riguardano qualche cosa di reale. Invece Roger Corman ha creduto di dovere abbondare nella direzione del cosiddetto “terrore” di Poe, inteso nel senso più letterale e più puerile, cioè con grande dovizia di gatti arrabbiati (ma in Ligeia non ci sono gatti), di incubi, di sepolcri, di fantasmi, di temporali, di tregende notturne; con il risultato di fare un film di confezione, della categoria “terrorizzante” che, come spesso avviene in simili casi, proprio nei momenti culminanti, invece di spaventare, fa sorridere. Peccato, un buon film su Poe resta ancora da fare. L’interpretazione è del tutto convenzionale e perciò priva di quel mordente che anche in un film del genere ci si poteva aspettare. Vincent Price ed Elisabeth Shepherd fanno di tutto per convincerci che i personaggi esistono, ma non ci riescono quasi mai. GLI AMORI DI UNA BIONDA Gli amori di una bionda di Milos Forman conferma una volta di più l’alto livello tecnico e artistico del nuovo cinema cecoslovacco, nonché la sua originalità nazionale. Con questo vogliamo dire che non c’è niente di commercialmente cosmopolita in questo cinema che mostra di affondare radici profonde nel suolo di una cultura tra le più particolari d’Europa, alla confluenza delle tradizioni slave e viennesi con l’esperienza più recente della rivoluzione socialista. Il punto di partenza della vicenda del film è l’isolamento delle ragazze che lavorano in una fabbrica situata in una remota provincia della Cecoslovacchia. Nella località, come veniamo informati dal direttore della fabbrica, giustamente preoccupato dal forzato ascetismo delle sue operaie, la proporzione è di sedici donne contro un uomo. Perché dunque l’esercito non invierebbe alcuni reparti? È vero che la località non ha importanza strategica; ma la presenza dei soldati risolverebbe un problema sentimentale dei più urgenti. Partendo da una simile trovata, è facile immaginare come sarebbe sviluppato un film commerciale italiano del genere comico-sentimentale. Ma qui avvertiamo sotto il tono scherzoso qualcosa di serio, di nuovo e persino, se vogliamo, di crudo: il calcolo, cioè, del rendimento produttivo secondo la situazione sentimentale delle lavoratrici. Così, arrivano i soldati, finalmente; e le operaie possono ballare a sazietà durante una memorabile festa. Ma la bionda di cui parla il titolo non si sente attirata dai soldati, tutti piuttosto maturi e parecchio grossolani, bensì da un giovanissimo pianista che per l’occasione è venuto da Praga. Tutto avviene durante la notte della festa, in un progresso prevedibile ma non per questo meno commovente, dalle prime rustiche ripulse fino alla dedizione completa. Quindi il giovane riparte per la capitale. La ragazza non esita: lo segue in città, si presenta, inattesa, in casa di lui. I genitori l’accolgono piuttosto male; il ragazzo stesso casca dalle nuvole scoprendola addormentata nel proprio letto. La ragazza riparte, delusa; l’avventura è finita. Ma, ed è questo, crediamo, che il

regista ha voluto dire con un suo modo di sensibilità che va dall’ironia affettuosa fino a un delicato lirismo, è stata una vera avventura, libera, violenta, l’avventura del primo amore. Diremmo che bisogna fare una distinzione tra la prima parte del film e la seconda. Nella prima parte c’è una rappresentazione agrodolce, di grande efficacia, della vita nella solitaria località industriale, che ricorda un poco il nuovo cinema inglese in film come Sabato sera, domenica mattina. Stessa autenticità di notazioni ambientali, stesso senso patetico dei limiti e delle insufficienze della condizione proletaria, stessa polemica in sordina contro le consolazioni del lavoro; ma con in più la tematica socialista calata in un contesto sentimentale. Si veda, per esempio, tutto il gioco delle ripulse e delle civetterie fino all’abbandono e alla nudità dell’amore completo: raramente ci era accaduto di vedere il gesto erotico caricarsi con tanta ingenuità e spontaneità di una così precisa connotazione sociale. Nella seconda parte invece, che si svolge a Praga o meglio nel modesto quartierino dei genitori del pianista, l’ambientazione si fa più generica, non c’è più che la delusione della ragazza, puntualizzata da una serie di gag un po’ meccaniche in scenette di genere, felici senza dubbio, ma un poco previste. Il tema che accendeva il lirismo del regista nella prima parte, il tema dell’erotismo proletario, del primo amore operaio, qui cede il luogo a una caratterizzazione un po’ convenzionale. Ma il film lascia egualmente un’impressione di freschezza e di autenticità: il momento miracoloso e labile del primo amore, paragonabile alla vita brevissima della farfalla, vi è stato fermato con esattezza. Gli attori Hana Brejhova e Vladimir Pucholt hanno recitato con naturalezza oggettiva, proprio come coetanei dei personaggi che interpretavano. LA CACCIA Siamo in una linda, assonnata, melensa cittadina del Texas. Un giovanotto, certo Bubber, evade dal carcere locale insieme con un compagno di prigionia. Quest’ultimo ammazza il proprietario di un’automobile, e scappa lasciando Bubber nelle peste. Accusato di un assassinio che non ha commesso, Bubber dapprima tenta di fuggire al Messico, poi va a nascondersi nella città natale, nel cimitero delle automobili e di là, per mezzo del guardiano che è un negro, invia un messaggio alla moglie Anna. Ma il negro non trova Anna, viene sorpreso nella camera di lei, sfugge al linciaggio soltanto per l’intervento provvidenziale del benintenzionato quanto impotente sceriffo, Calder. Dov’era Anna? Anna si trovava con l’amante, figlio del miliardario locale, Val Rogers. Intanto, pestato a dovere, il negro rivela il nascondiglio di Bubber. La notizia trapela, si sparge tra gli invitati di Rogers il quale, proprio quella sera, dà una grande festa per celebrare la costruzione a sue spese di un centro di studi. Ubriachi fradici, invasati di sadico furore, gli ospiti di Rogers, uomini e donne, si precipitano al cimitero delle automobili per dare la caccia (il titolo del film è, appunto, La caccia) al povero Bubber. Inutilmente Calder tenta di opporsi ai forsennati; viene quasi accoppato a forza di botte. Quindi gli ospiti di Rogers danno fuoco alle carcasse di macchine tra cui si nasconde Bubber, lo scovano, l’ammazzano. Nel tentativo di salvare Bubber l’amante di Anna, figlio di Rogers, muore per le ustioni. Il giorno dopo il sole si leva su una città devastata come da un ciclone. Lo sceriffo, la faccia ancora tumefatta dalle percosse, carica la propria roba sull’automobile e se ne va. È una storia inutilmente complicata. Il film aveva un fine chiaro e preciso: denunziare la violenza illegale e alienata che serpeggia nella vita pubblica degli Stati Uniti attraverso la rappresentazione di un linciaggio. Per far questo, bastava seguire lo schema della caccia: un uomo innocente e comunque fornito del diritto di essere giudicato legalmente, cacciato e ucciso come un cane rabbioso da una folla libidinosa e ubriaca di ricchi provinciali. Ma si è voluto non soltanto caratterizzare socialmente questa folla di uomini d’affari, di proprietari, di bottegai, il che era giusto e necessario, ma anche far scaturire il linciaggio da un groviglio di torbide situazioni private, e questo è stato senz’altro un errore. Lilian Hellman, la commediografa di Calunnia e di Piccole

volpi, ha messo in piedi un intrigo di tresche, di adulteri, di intrallazzi, di ricchezze malguadagnate, quasi a dire, con ingenuo moralismo: “Guardate che canaglie ci sono nella sana provincia del Sud. E poi vi meravigliate che avvengano linciaggi.” E invece, no. Si può essere mariti modello, padri esemplari, cittadini specchiati, e ciononostante o forse appunto per questo, un sabato sera, dopo avere ben bene alzato il gomito, in una esplosione di furore omicida, dar fuoco a una città, assassinare un innocente. Detto questo, bisogna riconoscere che il regista Arthur Penn, autore, tempo fa, del notevole (e migliore) Mickey one, ha raggiunto il suo scopo. Qual era questo scopo? Si dirà: protestare contro la violenza illegale del Sud, in nome degli ideali democratici. Ma noi diciamo che, a questo livello di accanita misantropia, più che di una protesta si tratta di un linciaggio, del tutto simile, in fondo, a quello rappresentato sullo schermo. Arthur Penn, insomma, ha attaccato l’istituzione del linciaggio, secondo la legge del taglione, per mezzo di un linciaggio cinematografico ed espressivo. Il film racconta la storia del linciaggio di un povero ragazzo innocente; nella rappresentazione cinematografica di questa storia, viene linciato l’intero gruppo dirigente di una piccola città degli Stati Uniti e implicitamente parecchi altri gruppi analoghi dello stesso paese. A linciaggio, dunque, linciaggio e mezzo. Sconosciuto in Europa (forse soltanto Grosz, a suo tempo, raggiunse nella sua denunzia della classe dirigente tedesca una simile virulenza) quest’odio spietato fa riflettere. È lo stesso odio che trapela in certe pagine di Faulkner. È l’odio che di solito nasce dall’idea disperata che il male è più forte del bene, così che alla fine non può non prevalere, portando tutti quanti, buoni e cattivi, alla rovina. L’interpretazione è adeguatamente violenta e sufficientemente autentica: veri pugni, vera brutalità, vero sadismo. Accanto a Marlon Brando, un po’ ingrassato e invecchiato, ma ancora potente, bisogna ricordare Robert Redford, E.G. Marshall, Richard Bradford, James Fox, Janice Rule, Angie Dickinson, Miriam Hopkins, Jane Fonda. UN UOMO A METÀ Un uomo a metà di Vittorio De Seta è la storia d’una nevrosi raccontata dall’interno; ossia un film di pura soggettività. Questa semplice affermazione spiega da una parte il carattere del film e dall’altra l’accoglienza di alcuni critici. Cominciando da quest’ultima, diciamo subito che qui da noi c’è, nei riguardi della psicanalisi, un’incomprensione curiosa. A questa scienza umana, per una strana contraddizione, mentre da una parte viene negato in fondo ogni carattere razionale e realistico, considerandola come una visione del mondo tutta particolare e arbitraria, dall’altra viene rimproverato proprio il suo realismo e la sua razionalità per quanto riguarda il mondo interiore, un mondo che secondo questi inconsci avversari di Freud, sarebbe tutto irrazionale e irreale, fatto soltanto di sentimento o peggio di sentimentalismo. Soprattutto, secondo noi, sconcerta e offende la sostituzione dell’oscura e irrazionale intimità emotiva con le strutture rigorose e a modo loro razionali dell’inconscio. Una simile sostituzione, che è in realtà una vasta operazione di recupero del mondo interiore un tempo adombrato nei miti degli antichi e poi obliterato dall’alienazione moderna, sembra a questi fautori dello psicologismo sentimentale, profanatoria, irriverente. Donde l’ostilità, l’incomprensione e, in alcuni, un complesso d’inferiorità mascherato da sarcastico e sufficiente complesso di superiorità. Venendo al film di De Seta, già la storia da sola ci fa sentire questa sostituzione del sentimento irrazionale o sentimentalismo con la razionalità e il realismo della scienza umana. Il giovane Michele è caduto in una grave nevrosi. Come spesso avviene nelle nevrosi, elementi un tempo rifiutati o tenuti a bada, diventano predominanti, e al tempo stesso occultano, con la loro presenza ossessiva, le cause vere della nevrosi stessa. Michele, per esempio, è invincibilmente portato a una specie di voyeurismo. Ma questo vizio

non è causa bensì effetto della nevrosi i cui motivi reali sono altrove. La causa della nevrosi Michele la rintraccia andando a ritroso nel tempo; è un senso di colpa che Michele ha verso un fratello morto da alcuni anni. Rivale in amore del fratello che lo soppiantò presso la donna che amava, Michele forse si augurò che il fratello morisse. Questo poi avvenne davvero, in un incidente stradale. Donde la nevrosi. Appena conosciuto il motivo della nevrosi che era soprattutto rifiuto e alienazione, Michele si sente di nuovo pronto ad accettare il mondo e se stesso. La storia che era cominciata sotto il segno del mistero, si chiude così sotto quello della chiarezza. Sul piano estetico, il film presenta alcuni caratteri che è interessante notare. Prima di tutto l’alternarsi frequente, sullo schermo, del volto del protagonista con le immagini così della realtà attuale come dei ricordi. Ora bisogna dire che il volto del protagonista in un film di pura soggettività come questo serve a indicare lo spazio tutto interiore nel quale si svolge la vicenda. In altri termini il volto del protagonista continuamente ripetuto con una data espressione che non riguarda tanto gli avvenimenti quanto il significato globale del film, è appunto il solo elemento oggettivo, mentre tutto il resto è mentale, ossia soggettivo. Ma il volto, oltre a creare, per così dire, l’ambiente nel quale si svolge la vicenda (ambiente, come abbiamo detto, puramente mentale), serve anche da nesso narrativo. Perché questo? Perché una narrazione, una volta sottratta alla logica causale, esce dalla durata e non offre più che delle rappresentazioni isolate e senza tempo di stati di coscienza. Il solo nesso riscontrabile in un simile seguito d’eventi interiori è appunto il volto che li pensa, li contempla e li vive. Spiegato tutto questo, bisogna dire che Vittorio De Seta ha fatto un film molto bello e, almeno in Italia, molto nuovo. È stato notato, anche da coloro che hanno discusso il film, che le immagini sono sovente affascinanti. S’è parlato, un po’ a vanvera, di “formalismo” e di “gusto giapponese”. In realtà la bellezza insolita e misteriosa di certe sequenze di Un uomo a metà deriva direttamente dal fatto sopra accennato che la vicenda è messa fuori della durata e che gli oggetti, di conseguenza, non sono narrati bensì contemplati. Si tratta, insomma, della bellezza che è propria dei sogni e infatti, fuorché per quanto riguarda il volto di Michele, il film ha un suo andamento onirico, al tempo stesso nitido e surreale. Raccontato o meglio confessato a se stesso da Michele, Un uomo a metà è dunque una narrazione indiretta, di secondo grado. L’interpretazione è fedele alle intenzioni del regista. Jacques Perrin è con intensità ed efficacia il portatore dell’espressione sempre eguale che costituisce il fondo di realtà oggettiva del film. Accanto a lui, nell’aria onirica dell’autoanalisi, vanno ricordati Ilaria Occhini, Lea Padovani, Rosemarie Dexter e Gianni Garko. GIOCHI DI NOTTE Molti veri artisti erano dei nevrotici; ma si sono curati con l’arte, che è la cura psicanalitica per eccellenza; e l’arte raggiunta, cioè l’assenza, nelle loro opere, della nevrosi sta a testimoniare che la cura è riuscita. Svevo, Proust, Manzoni erano dei nevrotici; ma la nevrosi va ricercata nella loro biografia, non nelle loro opere nelle quali essa è completamente risolta in espressione. Oggi, però, dopo che Freud ha creato, per uso scientifico, un linguaggio psicanalitico, c’è anche l’artista, o chi si pretende tale, che, per così dire, si cura in pubblico. Ma qui c’è contraddizione. Se la cura fosse riuscita, non si vedrebbe; poiché si vede, non è riuscita, cioè non è stata risolta in arte. Così gli artisti che si servono del linguaggio freudiano appartengono a due categorie: la prima è quella dei nevrotici incurabili o che non sono riusciti a curarsi, i quali, con tipico procedimento nevrotico, creano dei “falsi” ossia delle costruzioni impoetiche e prive di autenticità, più interessanti per il medico che per il lettore o lo spettatore. I secondi sono invece degli artisti senza nevrosi che si servono del linguaggio freudiano per esprimere qualche cosa che non ha niente a che fare con la psicanalisi. I primi ovviamente non sono artisti che in quelle parti in cui il gergo piattamente

psicanalitico cede il luogo alla misteriosa poesia. I secondi, invece, utilizzano a freddo quello che chiameremmo il formalismo onirico della psicanalisi; ma il loro fine è altrove. Mai Zetterling appartiene alla seconda categoria e il suo ultimo film Giochi di notte lo conferma. Giochi di notte è la storia, apparentemente, di una nevrosi da complesso edipico. Un ragazzo, Jan, invaghito della propria madre al punto di indossare i suoi vestiti e adoperare i suoi cosmetici, riceve un trauma fatale allorché, durante una grottesca festa orgiastica, la madre partorisce in presenza dei propri invitati ubriachi e scatenati. Il ragazzo diventa uomo, torna al castello che fu già teatro dell’orgia materna, vi si sposa con una fanciulla che rassomiglia da sbagliarsi alla madre tanto amata. Ed ecco, durante la festa delle nozze, l’orgia rispunta, decrepita ma pur sempre eguale, con gli stessi orrendi personaggi, le stesse sfrenate oscenità. Tutto, dunque, dovrà sempre ripetersi? Jan, inibito dall’angoscia, non riesce a far sua la sposa, si ubriaca, va a vomitare tra gli invitati ubriachi. Allora, per sbloccarsi e rimuovere l’inibizione, decide di distruggere il castello, simbolo al tempo stesso del suo incestuoso rapporto con la madre e della sua sciagurata appartenenza a una società vecchia e corrotta. Il castello salta in aria alla fine di una festa; gli ospiti lo saccheggiano e se ne fuggono, fantasmi schifosi. Jan, senza più alcuna inibizione, resta a ballare sulla neve, con la moglie, alla luce delle fiamme purificatrici. Mai Zetterling ha capito una cosa di cui forse non ha tenuto conto Vittorio De Seta, autore di un pur notevole film a sfondo freudiano: che la psicanalisi va inserita in un contesto storico-sociale; altrimenti rischia di diventare un gioco tetro senza rapporti con la realtà. Qui, con grande abilità, la vita interiore di Jan è connessa con la società corrotta e decrepita nella quale egli si è trovato a nascere. Mai Zetterling è riuscita a fare questo tanto meglio in quanto, come abbiamo detto, non sembra aver mirato a risolvere una propria nevrosi e si serve della psicanalisi per due scopi in fondo non psicanalitici: da una parte esprimere la propria sensibilità con i moduli di un espressionismo onirico ora delicatamente lirico ora trasognatamente drammatico, secondo una tradizione scandinava i cui precedenti vanno ricercati in artisti come Bergman, Strindberg e persino Ibsen; dall’altra assalire il materialismo filisteo della società svedese. Al primo scopo dobbiamo le parti migliori del film, le più poetiche e insieme le più realistiche, specie là dove sono descritti i rapporti del ragazzo con la madre e con la vecchia zia. Al secondo dobbiamo invece molte sequenze di un simbolismo grottesco non troppo nuovo (si pensa persino a Ensor) che, confessiamo, ci lascia freddi. La Zetterling, in questa parte, si è lasciata prendere la mano, crediamo, dall’indignazione e dal moralismo. Ma è vero che il film avrebbe dovuto essere visto integrale, senza i tagli idioti con i quali si cerca di proteggere il pudore di un pubblico che in fatto di sesso non ha niente da imparare. L’interpretazione di Ingrid Thulin è senz’altro eccellente. Agli altri interpreti va riconosciuto il merito di aver saputo fondersi perfettamente con la particolare aria del film. ALFIE Secondo la psicologia tradizionale, l’uomo era fatto di “pensiero” e “azione”, cioè c’era nell’uomo un “fuori” e un “dentro”, e dunque una “teoria” e una “pratica” o, se si preferisce, un “considerare” e “progettare” e un “eseguire”. Come dice Gilbert Ryle nel suo divertente libro Lo spirito come comportamento “…l’agente dovrebbe prima svolgere l’interno processo di dirsi ciò che deve esser fatto… allora soltanto potrà compiere l’operazione secondo quei dettami… Il cuoco dovrebbe recitare le ricette prima di poter cucinare i piatti; l’eroe tendere l’orecchio interiore a un appropriato imperativo morale prima di gettarsi a nuoto per salvare uno che sta annegando…” Nel teatro tradizionale, quest’idea della duplicità dell’uomo trovava espressione nei cosiddetti “a parte” oppure “da sé”. Il personaggio dialogava con un altro personaggio; ma al tempo stesso confidava al pubblico i suoi pensieri, smentendo, commentando, sottolineando, criticando tutto ciò che andava dicendo e facendo. Così, in certo modo, il pubblico si trovava a essere complice di una

specie di doppiezza o inganno di ciascun personaggio nei riguardi di tutti gli altri. Oltre a essere una ricetta teatrale di sicuro effetto, questo procedimento degli “a parte” o “da sé” era un mezzo efficace per fornire il personaggio di una dimensione supplementare, quella, appunto, del “pensiero”, del “dentro”. Oggi gli “a parte”, gli “a sé” non si fanno più; senza andare fino al behaviourismo, o allo Zen, i quali negano che ci sia un “fuori” e un “dentro” e vogliono l’uomo tutt’intero in ciò che fa, l’artificio scenico degli “a parte” o degli “a sé”, sembra essere stato superato dal cinema nel quale l’azione del personaggio espressa in immagini e in movimenti può dirci tutto, senza bisogno di ricorrere ad altre convenzioni. Perché questo lungo preambolo? Per spiegare il senso di irritazione che abbiamo provato assistendo alla proiezione di Alfie, film inglese diretto da Gilbert Lewis. Che cosa racconta Alfie? Racconta la storia di un donnaiolo. Alfie è uno di quegli uomini per i quali le donne sono tutto, al quale nessuna donna può veramente dispiacere, neppure le brutte, neppure le vecchie. Specializzato e monomaniaco, Alfie, come tutti i casanova, ha una gran varietà di comportamenti: tratta le donne benissimo e malissimo, le adopera facendo fare loro le serve, si lascia adoperare fino al punto di ammalarsi di tubercolosi polmonare a causa degli strapazzi erotici. Alfie non è cattivo, anzi, come tutte le persone che hanno successo in qualche campo, è portato a essere bonaccione e generoso; avrebbe perfino un’inclinazione agli affetti familiari e alla vita regolare; ma il suo invincibile dongiovannismo finisce sempre per trascinarlo lontano dalla sistemazione alla quale pur tenderebbe. Così non sposa la donna dalla quale ha avuto un bambino che pure adora; e invece, come per una vendetta contro se stesso e il mondo in cui vive, fa abortire la moglie di un suo amico che aveva messo incinta. Alla fine, come tutti i dongiovanni, Alfie, dopo essere stato scacciato da una donna denarosa che gli preferisce un amante più giovane, si ritrova solo e ormai stanco. Ma con caratteristica fatuità si consola pensando che troverà ancora chissà quante altre donne. Ora perché abbiamo parlato di “pensiero” e “azione”? Perché il regista ha creduto di dovere far recitare ad Alfie un continuo soliloquio, pur mentre dialoga con altri personaggi. Questo soliloquio, nel quale Alfie commenta cinicamente il proprio operato, oppure mette in rilievo la propria duplicità, oppure ancora dice il contrario di quello che dice, rivela l’idea moralistica che il regista si fa del seduttore, il quale dovrebbe essere per forza machiavellico, doppio e cinico. Ma alla fine Alfie è quello che fa, non quello che pensa, anche perché il cinema, come abbiamo già detto, non ha bisogno di questa convenzione, dice tutto e più che tutto con le immagini. Così che in Alfie le cose ci vengono dette due volte, una prima volta con le immagini e una seconda con il soliloquio del protagonista. Il film appartiene al genere realistico e sgradevole che ha rinnovato negli anni recenti il cinema inglese. Lo squallore del dongiovannismo e al tempo stesso le sue risorse e le sue consolazioni sono rappresentati con ironia e mordente, in ambienti autentici, descritti con precisione. L’interpretazione di Michael Caine è molto efficace; senza le continue strizzatine d’occhio al pubblico, sarebbe stata anche migliore. MANOSCRITTO TROVATO A SARAGOZZA Manoscritto trovato a Saragozza, film polacco diretto da Wojciech Has, propone ancora una volta il problema delle versioni cinematografiche di opere narrative. E intanto che cosa aveva voluto dire Jan Potocki, il nobile polacco che scrisse in francese il romanzo omonimo nei primi anni del 1800? Diciamo subito che è molto difficile se non impossibile definire con chiarezza il tema principale di questo libro come, del resto, di tutte le vere opere di poesia. Diviso, quanto a simpatie culturali, tra l’inclinazione all’esoterismo e alla magia da una parte e, dall’altra, al razionalismo e all’illuminismo (una contraddizione frequente nel diciottesimo secolo) Jan Potocki, come tutti i poeti, parrebbe che abbia voluto esprimere, nel suo romanzo, qualche cosa di fatale, di ambiguo, di

complesso e di invincibile che gli stava a cuore. Questo qualche cosa è più che un tema o un argomento; è una specie di ossessione, la quale poi, a quanto sembra, consisterebbe nell’idea coatta dell’amore a tre, un uomo e due donne. Inoltre le due donne dovrebbero essere sorelle e tra di loro dovrebbe esservi il vincolo di un rapporto lesbico. Ma Jan Potocki non era soltanto un dilettante di magia e un illuminista; come tutti i polacchi, era probabilmente anche un cattolico. Così aveva capito che il diavolo non è tanto il peccato, quanto la ripetizione del peccato specie se consapevole e insieme automatica. Tutto quello che avviene una sola volta non ha carattere diabolico. Il diavolo comincia quando le cose si ripetono in maniera meccanica e noi vogliamo che si ripetano e ne siamo consapevoli. La ripetizione, infatti, esclude ogni espiazione riproducendo all’infinito la caduta nel peccato, così che alla fine, non si sa più se sia il pentimento a nascere dal peccato o il peccato dal pentimento. Il diavolo fa sì che il protagonista del romanzo di Potocki dopo aver passato una notte di voluttà infernali tra le braccia delle due sorelle musulmane, si svegli sul patibolo accanto ai cadaveri impiccati di due briganti fratelli; ma proprio dall’orrore di questo risveglio cioè di questa punizione nasce il desiderio di rituffarsi nella voluttà dell’amore a tre. E se è vero che i cadaveri putrefatti dei due briganti fratelli sono le due amanti sorelle subito dopo il peccato è anche vero che le due amanti sorelle sono i due cadaveri putrefatti dei due briganti fratelli prima del peccato. Jan Potocki, insomma, ha voluto indicarci la propria particolarissima anormalità. La normalità consiste non tanto nel non ripetere l’atto ossessivo, quanto nel non provare gusto a ripeterlo. I normali si annoiano di qualche cosa che avvenga sempre allo stesso modo. Ma gli anormali come Potocki ricercano appunto, con perfetta consapevolezza, l’automatismo rituale della ripetizione. Cioè anelano al diavolo. Quest’idea o meglio questo sentimento sta sepolto sotto l’armamentario proprio dei romanzi avventurosi settecenteschi: innumerevoli storie narrate in prima persona e incastrate le une nelle altre a scatola cinese, e poi duelli, amori, briganti, zingare, forche, cabalisti, caverne, peripezie di ogni genere. Ma una cosa rende Manoscritto trovato a Saragozza diverso dagli altri romanzi del genere: il romanzo di Potocki non finisce, non può finire, è “aperto” ma sul serio, e non in senso soltanto letterario, in quanto l’amore a tre non può non ripetersi all’infinito. Jan Potocki, almeno nella vita, interruppe la ripetizione uccidendosi, nel suo castello in Polonia, con un colpo di pistola. Tornando al problema dei film ricavati da romanzi, diciamo che mentre è legittimo che Has abbia fatto un film diverso dal romanzo di Potocki, tuttavia non si può non rimpiangere che proprio la qualità principale del romanzo sia assente nell’opera cinematografica. Il regista ha trattenuto il carattere romanzesco, giocato, immaginoso, da Mille e una notte, del libro, carattere senza dubbio vistoso ma non fondamentale; e ha lasciato invece cadere l’ossessione ambigua e fatale che ne costituisce il nucleo poetico. Peccato. Avrebbe dovuto essere un film di tipo espressionistico ed emblematico, girato con l’occhio ai significati spirituali e magici, accentrato sulla sola idea dell’amore a tre; è invece un film quasi di cappa e spada, pittoresco, estroso, pieno di imbrogli e di sorprese, girato in maniera naturalistica, senza alcun riferimento allo stile secco e al tempo stesso fosforescente dell’autore del libro. Di Potocki si è salvata soltanto l’idea che la vita è illusione; un’idea che il regista esprime con agilità e ironia attraverso una serie di avventure che alla fine si palesano per sogni. Un divertimento insomma condotto con brio al quale contribuiscono validamente gli interpreti. IL DOTTOR ZIVAGO Come sembra lontano oggi il successo del Dottor Zivago. Analogo a quello del Gattopardo di Lampedusa, esso rivelò, alla vigilia del boom economico italiano, la stanchezza del pubblico per la letteratura impegnata e la sua nostalgia per una narrativa elegiaca e di stampo tradizionale nella quale il passato fosse sottratto alla storia e ridotto agli affetti. A dire il vero Il dottor Zivago non era

affatto tradizionale o per lo meno apparteneva a una tradizione poetica (il simbolismo russo dei primi anni del secolo) molto diversa da quella alla quale inconsciamente anelavano gli sprovveduti lettori. Ma il pubblico non volle vederci soprattutto che una storia d’amore secondo il gusto del momento; una storia, cioè, nella quale il sentimento d’amore che nella realtà è sempre fatto di tutto oltre che di amore, era depurato di ogni elemento non passionale e trionfava solitario sullo sfondo pittoresco e remoto della maggiore rivoluzione del secolo. Il successo del dottor Zivago fu così anche dovuto a ragioni politiche. Ma in senso puramente negativo: non si voleva una politica contraria o diversa da quella che predominava nella realtà di tutti i giorni; più radicalmente e qualunquisticamente, non si voleva nessuna politica. Per fortuna nel dottor Zivago c’era dell’altro: prima di tutto la poesia di Pasternak, coi modi e le formule, come abbiamo accennato, del simbolismo fin-de-siècle; e poi, l’idea singolare e inquietante che, in certe epoche, la storia possa essere altrettanto catastrofica e nemica dell’uomo e della civiltà che la natura. Ma tutto questo, il pubblico o non lo avvertì affatto oppure lo accettò confusamente come cornice prestigiosa e genericamente culturale dell’intreccio sentimentale. Anche per merito (o colpa) dell’autore il quale, saccheggiando abilmente il ricchissimo repertorio della narrativa classica russa, era riuscito a montare un romanzo di tipo ottocentesco, con una storia assai complicata e una folla di personaggi a tutto tondo. Il regista David Lean e lo sceneggiatore Robert Bolt, ricavando il film omonimo dal romanzo di Pasternak, hanno voluto tenere conto soprattutto di questa indicazione del pubblico. Evidentemente David Lean avrebbe potuto tentare di fare un film d’autore; ma nei film d’autore quello che conta non è la storia bensì, appunto, l’autore. Per questo, egli ha preferito girare un film commerciale sia pure di un genere elevato e accurato; cioè un film non diverso dai suoi precedenti Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia. Il dottor Zivago non riprende né la poesia né l’ideologia di Pasternak; ma punta invece, con enfasi talvolta eccessiva, sull’amore, operando la solita trasformazione della storia in melodramma. Che cos’è infatti il melodramma al cinema se non il film storico, cioè il film in cui la storia serve da sfondo alla passione amorosa? D’altra parte il melodramma tradizionale, vogliamo dire quello dell’Ottocento, aveva sempre un carattere spiccatamente realistico: sulla scena si vedevano degli ambienti ricostruiti con cura meticolosa, dei costumi riprodotti con estrema precisione. E Il dottor Zivago è infatti anche questo: una ricostruzione, crediamo, oltremodo fedele e accurata anche se inerte di luoghi, ambienti, paesaggi, costumi e personaggi del tempo della rivoluzione russa. L’interpretazione è intonata al genere del film. Vorremmo tuttavia notare che mentre i volti molto anglosassoni di Rita Tushingham, di Alec Guinness, di Tom Courtenay, di Julie Christie, di Rod Steiger e di Geraldine Chaplin sembrano adatti ai personaggi che questi attori interpretano, Omar Sharif, la cui faccia ha una densità ed inespressività di tipo orientale, non riesce a convincerci del tutto di essere il dottor Zivago. In realtà il volto umano non è un oggetto della natura, come un albero o un animale, bensì un prodotto di cultura. Nel volto di Omar Sharif c’è un’aura culturale diversissima da quella del personaggio di Pasternak. Tanto diversa da farci pensare qualche volta che l’attore, mentre dice oppure fa una cosa, coi tratti del volto ne esprime un’altra. L’AVVENTO AL POTERE DI LUIGI XIV Oggi ci occupiamo di un film che non sarà proiettato sugli schermi italiani perché nessun distributore ha voluto saperne, stimandolo poco redditizio. Si tratta di La prise de pouvoir de Louis XIV, (La presa di potere di Luigi XIV) che Roberto Rossellini ha girato a colori per la televisione francese. Prima di tutto la vicenda. È il 9 marzo del 1661; Luigi XIV è nominalmente re dal 1643, anno della morte di suo padre; ma in realtà chi ha regnato sinora è stato il potente cardinale Mazzarino.

Ora Mazzarino sta morendo; i medici chiamati a consulto dichiarano che non c’è più speranza e affidano il cardinale al confessore. Intanto Luigi XIV si sveglia nel suo letto accanto alla giovane moglie e, in presenza della sua piccola corte personale, procede alla consueta toilette. Nella stanza del morente, il confessore ammonisce il cardinale di restituire al re l’immenso patrimonio, frutto di una vita di ruberie; il re arriva; Mazzarino gli comunica la propria intenzione di nominarlo suo erede; il re rifiuta; Mazzarino allora si congeda dal re raccomandandogli come successore l’onesto e patriottico Colbert. Mazzarino muore, il re riunisce il consiglio della corona, annunzia la sua volontà di governare, d’ora in poi, da solo. Per cominciare esclude dal consiglio il fratello e la madre. Colbert ha un primo abboccamento col re, lo esorta a disfarsi di Fouquet, corrottissimo quanto fastoso favorito di Anna d’Austria. Il re, quantunque ancora molto giovane, ha idee molto chiare; in un lungo discorso programmatico a Colbert, spiega come strapperà la nobiltà alle sue terre e la inchioderà con gli onori e con le prebende alla corte a Versailles, di modo che non si ripetano i disordini feudali della Fronda; d’altra parte la borghesia graviterà a Parigi, intorno alle cariche dello stato; senza primi ministri o favoriti, il re governerà da solo. Detto e fatto: il re per prima cosa fa arrestare Fouquet; poi dà subito mano alla costruzione della reggia di Versailles. Il regno del Re Sole è incominciato. Si tratta di un film storico, come è evidente, ma anche qui occorre precisare: non è un film storico perché la vicenda avviene tre secoli fa; è un film storico perché vi si può ravvisare una certa concezione della istoria. La concezione della storia di Rossellini, a prima vista, sembrerebbe quella dei libri di lettura per le scuole e del Petit Larousse Illustré. Ma ben presto ci si accorge che sotto l’innocua apparenza didascalica c’è dell’altro. C’è l’idea della storia come cerimonia e rito. Milcea Eliade nel suo libro Immagini e simboli fa una distinzione tra il tempo cosiddetto storico, cioè legato all’agire umano, e il Grande Tempo o Tempo Cosmico, legato ai cicli cosmici. Il primo tempo sarebbe quello dell’irrealtà del vivere quotidiano; il secondo quello della realtà dell’eternità. Per rendere reale l’irreale, sempre secondo Milcea Eliade, l’uomo non avrebbe che un mezzo: ritualizzare la vita quotidiana. Il rito è infatti una sospensione della storia che interrompe e arresta; immerso nel rito, il quotidiano diventa simbolico e atemporale. Nel film di Rossellini, l’avvento al potere di Luigi XIV è l’avvento della vita come cerimonia. Tutto è cerimonia in questo film: la morte di Mazzarino, la toilette mattutina del re, i consigli della corona, i pasti, la preparazione in cucina dei pasti, il gioco, la caccia, gli amori, perfino l’arresto di Fouquet cerimoniosamente e ritualmente imbastigliato. Rossellini è romano, probabilmente l’intuizione geniale della vita di Luigi XIV come cerimonia e rito gli viene dall’avere osservato direttamente, come tanti romani, le cerimonie e i riti della Chiesa. A riprova, si veda come l’immaginazione di Rossellini si scaldi e il suo realismo impeccabile e misterioso si accenda ogni volta che affronta una cerimonia o un evento in chiave di cerimonia; e come, invece, il film scada nelle rare scene drammatiche, per esempio quelle tra il te e la regina Anna d’Austria. Roberto Rossellini ha avuto la mano particolarmente felice nella scelta dell’interprete principale, Jean-Marie Patte. Rossellini ce lo fa vedere a tutta prima piccolo, tozzo, goffo, impacciato. E poi, gradualmente, a furia di tacchi, di parrucche, di merletti e di galloni, a furia di cerimonie e di riti, sempre più sicuro di sé, sempre più alto, sempre più maestoso, sempre più imperioso. Non più che un ragazzo, all’inizio del film; il Re Sole, alla fine. LA BATTAGLIA DI ALGERI Le rivoluzioni anticolonialiste moderne sono ormai vecchie di più di due secoli: la prima fu la guerra di indipendenza americana. Avvenimento collettivo analogo, in senso psicologico, a quello della rivolta contro i genitori o i tutori sul piano individuale, la rivoluzione anticolonialista presenta sempre un singolare carattere di puntigliosa obbiettività e di straziante comprensione da parte dei

ribelli e di incomprensione paternalistica e di astrazione legalitaria da parte degli oppressori. Strano a dirsi, i colonialisti di solito parlano il linguaggio della ragione, i ribelli quello della passione; eppure la ragione sta dalla parte di questi ultimi e la passione cioè gli interessi dalla parte dei primi. Altra singolarità: molto di rado i ribelli hanno una cultura superiore a quella degli oppressori; anzi, la loro mancanza di cultura o la decadenza della loro cultura spesso è servita da giustificazione storica per il colonialismo. E tuttavia nel momento stesso in cui il colonialismo ricorre alla violenza, come per un sortilegio, la cultura abbandona le ricche sedi degli oppressori e si rifugia nelle stamberghe degli oppressi. Un tempo i paesi che si erano liberati dal colonialismo si affrettavano ad erigere immensi, orrendi monumenti marmorei. Tutta l’America Latina è disseminata di simili monumenti, nei quali, tra un congruo numero di aquile, di leoni e di figure simboliche femminili dalle procaci nudità, troneggiano i simulacri degli epici eroi della liberazione. Ma la giovane Repubblica di Algeria ha preferito far girare, a ricordo della sua lotta contro il colonialismo francese, un film che ne racconti le fasi principali. È una preferenza significativa: alla bellezza e alla immortalità, il mondo moderno antepone l’espressione e la comunicazione. Ecco dunque un film come un monumento. Non a caso parliamo di monumento. La Battaglia di Algeri, film italo-algerino diretto da Gillo Pontecorvo, nel quale è narrata la lotta degli algerini contro i francesi, rivela un intelligente e adeguato uso del modulo neorealista per fini celebrativi ed epici. Era da prevedersi: intimista, verista e sentimentale sul piano del dramma individuale, il neorealismo rivela tutte le sue possibilità nella narrazione e nell’esaltazione di un evento collettivo. E si capisce anche perché. Il neorealismo non è in fondo che obbiettività documentaristica fusa, attraverso il montaggio, con la soggettività espressionistica; la psicologia, il destino, l’azione individuale gli sfugge, esso non può non impoverirla e semplificarla. Invece esso si trova a suo agio con le moltitudini, con gli avvenimenti collettivi, con gli individui che anche presi da soli si rivelano frammenti di massa. D’altra parte in fondo al neorealismo c’è sempre stata l’idea della positività, umanità, sacralità delle masse di contro alla sterilità ed empietà individuali; un’idea che può diventare retorica come in tanti prodotti scadenti ma che in un film come La Corazzata Potëmkin (un precedente espressionistico del neorealismo) o in questa Battaglia di Algeri può elevarsi fino a toni epici. Gillo Pontecorvo ha capito tutto questo. Come i primi film neorealistici contro il nazismo girati mentre i tedeschi erano ancora alla Linea Gotica, La Battaglia di Algeri, è stata interpretata da coloro stessi che avevano rischiato la vita nella lotta contro i colonialisti, riuscendo così a recuperare nelle sue sequenze il calore autentico della rivolta. Un altro effetto di questa diretta immissione della rivoluzione nel film è l’obbiettività scrupolosa con la quale sono descritti i parà francesi. Abbiamo detto che l’obbiettività è un carattere costante delle rivoluzioni anticolonialiste. Pontecorvo ha però il merito di avere rispettato questo carattere. Il film si eleva di tono dovunque prevalgono le folle oppure personaggi privi di caratteri individuali. In queste sequenze è evitato il simbolismo, la grande tentazione di simili vicende. Il quale invece è purtroppo presente nella figura del capo dei parà, descritto come un razionalista della repressione, come un cartesiano della tortura, Probabilmente il vero capo dei parà era un bruto; bisognava, attraverso questo bruto, dare in trasparenza, come una filigrana, il sempiterno razionalismo francese. Riconosciamo che era difficile fondere brutalità ed illuminismo. Ma il colonnello Mathieu, figura di militare ragionatore alla maniera di Malraux, era la soluzione più facile del problema. In un simile film la critica deve appuntarsi dovunque il magma neorealistico non ribolle, non lievita, rimane piatto e grezzo documento. D’altra parte Pontecorvo poteva forse concedere un poco più all’invenzione. Anche per quest’aspetto La Corazzata Potëmkin insegna molte cose. È difficile parlare degli interpreti di un simile film. Come abbiamo già detto, il vero protagonista e dunque il solo interprete è il popolo algerino. Ricordiamo tuttavia Jean Martin assai efficace nella

parte del colonnello Mathieu; e Brahim Haggiag, volto arabo espressivo per il personaggio di Alì La Pointe. Quanto a Yacef Saadi, che interpreta il personaggio di Saari Kader, egli era al tempo della rivoluzione un combattente valoroso e importante. Sarebbe interessante, forse, interrogarlo sulla differenza che non può non passare tra la vita (o meglio il rischio della vita) e la finzione. PERSONA Un’attrice famosa, durante una rappresentazione dell’Elettra viene colpita da un’improvvisa incapacità di parlare. L’afasia, come è noto, è un disturbo nervoso che può venire per le più diverse ragioni. Nel caso dell’attrice si tratta, a quanto pare, di una protesta contro il mondo nel quale si è trovata a vivere e che ha reso possibili venti anni or sono i campi di sterminio nazisti e oggi la guerra del Vietnam. Senonché la protesta mediante il silenzio, ossia il rifiuto di comunicare, è anche l’indizio dell’appartenenza dell’attrice al mondo contro il quale, appunto, protesta. Con il silenzio essa dimostra di non essere capace di esprimersi con la parola autentica della vita reale; ma soltanto con quella falsa e illusoria della scena. Egoista, arida, inerte, l’attrice rifiuta in realtà un mondo fatto a sua immagine e somiglianza. Ricoverata in una clinica, l’attrice viene affidata alle cure di un’infermiera, persona graziosa, semplice e del tutto normale. Le due donne vanno a stare insieme in una casetta in riva al mare; si pensa che la solitudine, l’aria aperta, il sole, guariranno l’attrice. Invece avviene che l’infermiera soggiace alla forte personalità della malata, s’identifica con lei e, insomma, s’innamora. Ma s’innamora di una sembianza umana vuota e morta, cioè di qualcuno che non è più che una “persona”, parola latina che significa “maschera” e che oggi, nell’interpretazione junghiana, indica la parte esterna e spesso declamatoria della psiche (in opposizione all’“anima” che ne è la parte segreta e profonda). Priva di vita propria, l’attrice è un vampiro che succhia la vita altrui; accetta con disinvoltura il rapporto fisico ma rifiuta quello sentimentale; quando, dopo la prima notte d’amore, l’infermiera vi allude, finge di non ricordare. L’infermiera esasperata da questo cocciuto rifiuto di comunicazione, si lascia andare alla violenza, quasi sperando con le percosse di suscitare un fremito di vita nel cadavere di cui s’è invaghita. Ma la malata non reagisce; e le due donne si separano. Ricoverata di nuovo nella clinica, l’attrice finalmente si decide a dire la prima (e ultima) parola all’infermiera disperata. La parola è “Nulla”. Questa, la storia di Persona, ultimo film di Ingmar Bergman. Come tutte le opere di questo regista colto e filosofeggiante, anche Persona si può leggere a diversi livelli. C’è prima di tutto il livello psicologico e realistico, il più vivo, abbastanza tradizionale, con la storia di un amore non corrisposto (che sia un amore omosessuale non ha importanza) tra una persona più debole che ama e un’altra più forte che non ama. C’è poi il livello ideologico-simbolico: l’attrice potrebbe incarnare la civiltà occidentale colpita da alienazione e ormai ridotta a recitare una parte senza contenuto oppure tacere. C’è pure il livello filosofico riconducibile probabilmente al pensiero di Kierkegaard soprattutto per quanto riguarda il senso di colpa e la conseguente angoscia e disperazione. C’è infine il livello sociologico: Bergman, regista borghese, analizza i mali della classe, senza peraltro ricercarne e definirne le cause. Ma tutti questi livelli nelle altre e migliori opere si confondevano come sempre avviene allorché c’è effettiva e univoca invenzione. Qui invece coesistono senza provocare l’esplosiva ambiguità della poesia. E perciò viene fatto di pensare che Persona sia opera piuttosto di applicazione che di ispirazione. Non a caso le parti migliori sono quelle psicologiche e realistiche del rapporto amoroso: la sequenza in cui l’attrice va a trovare di notte l’infermiera nella sua stanza; l’altra sequenza in cui l’infermiera rabbiosa e impotente lascia in terra le schegge d’un bicchiere infranto affinché l’attrice, camminando a piedi nudi, si ferisca. In queste due sequenze c’è il Bergman migliore, al tempo stesso miracolosamente leggero nel tocco e misteriosamente

profondo nel significato. L’interpretazione di Bibi Andersson che è l’infermiera e di Liv Ullmann che è l’attrice, è eccellente. Film tutto di primi piani, poco cinematografico e troppo parlato, Persona si giova delle fotografie molto belle di Sven Ny Kvist. LA CONTESSA DI HONG KONG Un giovane miliardario del petrolio passa per Hong Kong a bordo di una nave che lo riporta agli Stati Uniti. A Hong Kong il giovanotto scende a terra per un po’ di baldoria notturna; la mattina dopo si sveglia in alto mare, con un forte mal di testa e il confuso ricordo di una scorribanda rissosa per i night-clubs. Va ad aprire un armadio, ci trova una donna. Chi è la donna? È Natascia, giovane russa bianca, nata a Shanghai, un tempo amante di un gangster, poi prostituta, poi entraîneuse in una sala da ballo. Che fa lì dentro? Lo dice lei stessa: fa la clandestina, cioè tenta di scappare dallo squallore di Hong Kong e di entrare negli Stati Uniti, benché non abbia né visto né passaporto. A questo punto comincia una vicenda prevedibile: il giovane miliardario a tutta prima strepita, vuole scacciare la donna, poi pian piano si addolcisce, accetta di ospitarla nella propria cabina, alla fine ci fa l’amore e dopo un tentativo fallito di farla passare per la moglie del proprio cameriere, la fa entrare negli Stati Uniti come propria legittima consorte. Secondo noi è inutile domandarsi se questa Contessa di Hong Kong, ultimo film di Charlie Chaplin è brutto o bello, delude o non delude, può essere messo accanto agli altri o no. La questione è un’altra, ed è la seguente: come mai Chaplin alla fine della sua folgorante carriera gira questo convenzionalissimo film di genere comico-sentimentale? In altri termini, si tratta di un film di Chaplin oppure no? Risposta: è un film di Chaplin, sicuramente non dei migliori, ma forse appunto per questo uno dei più tipici. Infatti: mettete al posto della povera russa bianca di Hong Kong, Charlot con la bombetta, i baffetti, il bastoncino e i pantaloni a fisarmonica, intitolate il film Il clandestino e avrete un film di Chaplin nella sua maniera più tradizionale. Che vuol dire questo? Vuol dire che un artista ha poche cose da dire e dice sempre quelle e se non le dice vuol dire che non è un artista. Chaplin non fa eccezione a questa regola. In principio c’era il clown storico, quello dei circhi, che era preso a calci, spasimava d’amore, veniva tradito e beffato e se la cavava con qualche lazzo. Poi venne Chaplin e fece uscire il clown dal circo e lo portò per il mondo, di qua e di là. Ma questo nuovo clown continuava però ad agire in un ambiente circoscritto: prima il circo, adesso il mondo della società borghese d’Occidente. Il clown era geniale, ma era pur sempre un clown, cioè non contestava niente, non rifiutava niente, non se la prendeva con nessuno e con niente di preciso. Il clown in sostanza era convinto che sotto la pelliccia del miliardario ci fosse lo stesso uomo che sotto gli stracci del vagabondo: bastava arrivarci. Così il clown riusciva ad essere “interclassista” e non voleva cambiare il mondo il quale era certamente cattivo e ingiusto ma non andava cambiato. Altrimenti che ne sarebbe avvenuto del clown? Chaplin ama i diseredati, i mendicanti, i vagabondi, i clandestini, le contesse di Hong Kong. Per loro egli tiene in serbo, mal che vada, sempre un lieto fine: o la partenza verso l’avvenire e la libertà come nel Pellegrino, oppure un matrimonio e i miliardi, come in questo suo ultimo film. I poveri e i diseredati di Chaplin d’altra parte non sono affatto dei rivoluzionari: sono David che abbatte Golia ma poi diventa re; oppure, magari, il cercatore d’oro pezzente che diventa ricco come Creso. Nei film di Charlot c’è ancora la carriera del giovane borghese dell’Ottocento che dal nulla arriva alla potenza; esattamente come Chaplin. E infatti l’altra faccia del clown non è quella del rivoltato politico o magari del beat. È quella del sadico e misogino Monsieur Verdoux. Scherzi del buon cuore. Chaplin è un personaggio dickensiano, al tempo stesso sentimentale e crudele. Guardate la Contessa di Hong Kong e ditemi in quale altro film recente i miliardi hanno avuto un odore così

buono. La contessa di Hong Kong è una commedia comico-sentimentale, di taglio classico, come si diceva dei vestiti inglesi prima della rivoluzione di Carnaby Street. I personaggi sono tratteggiati con discrezione e finezza, con signorilità e leggerezza: siamo nella grande sartoria. Sophia Loren è quella che deve essere, né più né meno, con una luce strana e nuova di compassione che Chaplin le fa piovere addosso da chissà dove; Marlon Brando è impacciato e nervoso, in una parte che gli è antipatica. A CIASCUNO IL SUO “Unicuique suum” è il motto che si legge sulla testata dell’Osservatore Romano. Ora è proprio questo motto che Paolo, professore di scuole medie e intellettuale di sinistra, legge un giorno sul rovescio di una parola ritagliata da un giornale e incollata su un foglio per formare una lettera minatoria. Siamo in Sicilia, in una cittadina mafiosa; la lettera è stata spedita ad un giovane farmacista, amico di Paolo. Qualche giorno dopo, durante una partita di caccia, il farmacista e un suo compagno vengono uccisi a colpi di lupara. La polizia indaga, si scopre che il farmacista aveva un rapporto d’amore con una popolana, i parenti della ragazza vengono arrestati come presunti autori di un delitto d’onore. Ma Paolo ricorda il motto dell’Osservatore Romano e pensa logicamente che degli analfabeti non si sarebbero serviti di un giornale come quello il quale, oltre tutto, arriva al paese soltanto in due copie, destinate ambedue a dei parroci. Paolo indaga, da uno dei preti risale ad un parente, pian piano la sua indagine lo porta sulla buona strada: non si tratta di un delitto d’onore bensì di un delitto mafioso; chi si voleva uccidere non era il farmacista galante bensì il suo compagno il quale era venuto a sapere di certi abusi perpetrati in un ufficio pubblico e si apprestava a denunziarli. Paolo decide di portare fino in fondo la sua indagine. Entra in rapporto con la vedova dell’ucciso, la coinvolge nella ricerca, se ne innamora. Ma la mafia è più forte di Paolo. Attirato in un agguato, Paolo viene rapito, stordito a forza di pugni, chiuso in una baracca. Poi la baracca è fatta saltare in aria. Questa la storia di A ciascuno il suo che Elio Petri ha ricavato dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. Elio Petri con La decima vittima aveva voluto darci un film fantascientifico e disimpegnato, formalmente allineato sul gusto “pop” e neofigurativo; con questo A ciascuno il suo sembra aver voluto girare un film sociale e impegnato, ispirato al più rigoroso neorealismo. La Sicilia, la mafia, il delitto d’onore, la società siciliana, l’intellettuale di sinistra… tutti questi elementi, non vi possono essere dubbi, appartengono non già ad un mondo inventato e metaforico bensì ad una realtà contemporanea e storica, come appunto avveniva ai bei tempi del neorealismo, vent’anni fa. Insomma, vedendo il film di Petri non dovrebbe esservi un solo spettatore in Italia che non senta che la vicenda lo riguarda immediatamente, come cittadino. Appunto quel cittadino al quale faceva appello il cinema neorealista nella sua continua e sincera denunzia dei mali dell’Italia. Ma poi è proprio questo l’effetto al quale mira A ciascuno il suo? Diremmo di no. Provocare il sentimento piuttosto misterioso e per niente ovvio dell’angoscia civica non pare infatti essere stato lo scopo del film. Vent’anni non sono passati invano, e il neorealismo per così dire “rivisitato” di Elio Petri è cosa molto diversa da quello originario di Rossellini, di De Sica e di Visconti. Questo era, tutto sommato, “impegnato”, quello di Petri, invece, pare partecipare della generale aura di disimpegno che ormai da alcuni anni si è diffusa nel cinema e fuori del cinema. Il disimpegno di Elio Petri non è d’altra parte quello della maniera neorealista che a partire da Due soldi di speranza subentra al neorealismo vero e proprio. Petri non è affatto manierato; si limita a servirsi della formula neorealista come di una tecnica particolare e precisa, una delle tante, come la più adatta all’argomento. In altri termini Elio Petri rinnova un poco l’operazione mandata a effetto da Rosi con

Salvatore Giuliano: film bellissimo ma non impegnato nel quale la Sicilia era soprattutto un oggetto da contemplare e da rappresentare. La spia a questa nuova accezione del neorealismo la fa soprattutto il personaggio del protagonista. In un film di denunzia egli sarebbe stato caratterizzato in maniera eloquente ed esemplare. La sua condotta avrebbe avuto, sia pure con variazioni ambientali, un fine sociale esplicito e consapevole. Sarebbe stato uno sfortunato e un temerario sì, ma pur sempre la vittima di una società malsana. Ora invece questo Paolo Laurana pare agire in proprio per motivazioni psicologiche tutte sue; e piuttosto che vittima della società, sembra essere vittima di se stesso. Così, in ultima analisi, pur concedendo che il donchisciottismo del protagonista ispira simpatia e compassione, A ciascuno il suo risulta non tanto la descrizione di una società ingiusta quanto la storia un poco gialla di una fatale e oscura imprudenza. La figura di Paolo è troppo tenuta a distanza, troppo studiata da Petri per diventare esemplare di una condizione generale. Ma è anche vero che da questa attenzione di specie critica e disimpegnata derivano al film qualità di finezza e di ambiguità che il vecchio neorealismo non conosceva. L’interpretazione di Gian Maria Volonté è senz’altro ottima, in una grande varietà di espressioni che vanno dall’ingenuità alla paura. Irene Papas ha disegnato una figura di donna cupamente infida. Gabriele Ferzetti è un malvagio misurato ed efficace. L’UOMO DEL BANCO DEI PEGNI Il professor Sol Nazerman, al tempo del nazismo, è stato arrestato e deportato con tutta la famiglia al campo di Auschwitz. I suoi due bambini sono periti per gli stenti durante il viaggio; la moglie, dopo essere stata “utilizzata” come prostituta nel bordello del campo, è finita nella camera a gas. Nazerman si è salvato, è emigrato negli Stati Uniti, si è rifatta, come si dice, una nuova vita. Questa nuova vita consiste principalmente nell’esercizio molto fruttuoso di un banco di pegni situato nel popolare quartiere negro di Harlem a Nuova York. Nazerman pretende di non serbare rancore o altro sentimento analogo; ma non è vero. Il trauma c’è stato ed è irreparabile. Nazerman è un uomo distrutto; la sua rovina morale è dimostrata da una stortura psicologica frequente in casi simili: Nazerman accetta le ragioni dei suoi carnefici, cerca d’identificarsi con la mitologica figura dell’usuraio ebreo inventata dall’antisemitismo a scopo giustificativo. Nazerman nega ogni valore alla cultura, all’arte, alla scienza, proclama che al mondo non c’è che il denaro. Coi clienti, nel negozio, è duro, avaro, esoso, attento soltanto al profitto. Ma queste sue teorie vengono prese sul serio dal ragazzo portoricano che lo aiuta come commesso. Scimmia del padrone, al quale purtuttavia è legato da ammirativo affetto, il ragazzo alla fine ordisce una rapina ai danni di Nazerman: soltanto il denaro conta, dunque lui prenderà il denaro dal suo maestro. Così il veleno del nazismo, attraverso la reazione storta di Nazerman, passa nel sangue del ragazzo portoricano; il male di Auschwitz rimbalza attraverso l’Oceano fino a Harlem. Ma per fortuna la rapina fallisce e la catena del male si spezza. All’ultimo momento, quando uno dei complici spara a Nazerman, il ragazzo si getta davanti alla rivoltella, riceve il colpo destinato al padrone, muore. Così Nazerman scopre che l’amore alla fine conta più del denaro. O meglio lo riscopre. Questo L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet è chiaramente, nonostante molte qualità, un film di secondo rango ed è interessante esaminare i motivi di questa valutazione inferiore. Essi appaiono a prima vista nel modo con il quale è trattato l’argomento dell’ebreo vittima del nazismo e reduce dal campo di sterminio. Quest’argomento, come è evidente, ha una carica di sentimento quasi insopportabile. Ora non vorremmo stabilire delle regole in una materia come quella dell’arte, che non può averne; ci limitiamo a suggerire un’ipotesi tecnica. Ed è la seguente: gli argomenti sentimentali andrebbero trattati in maniera intellettuale e distante; gli argomenti distanti e

intellettuali dovrebbero invece essere riscaldati e avvicinati con un trattamento sensibile e sentimentale. Che ha fatto invece Lumet? Ha aggiunto sentimento al sentimento, col risultato di cadere, specie nella seconda parte, nel sentimentalismo. Le corde ritorte scattano con più violenza di quelle direttamente sottese; l’argomento del nazismo andava ritorto con la freddezza e magari con la crudeltà; invece Lumet l’ha allentato con il buon cuore. Detto questo dobbiamo riconoscere che soprattutto nella prima parte, più evocativa e descrittiva che drammatica, le cose buone sono molte. Il rapporto tra padrone e servo è definito con finezza; la solitudine di Nazerman che rifiuta l’offerta di amicizia di una povera donna anziana sola come lui, ha un carattere di verità; il suo modo di trattare i clienti è tratteggiato in maniera convincente. Soprattutto, però, la cosa più bella del film ci pare la città di Nuova York rappresentata, si vorrebbe dire risuscitata tanto è viva, nei suoi aspetti più sordidi e più popolari. Qui la regia di Lumet ricorda analoghe regie del cinema espressionista tedesco. Rod Steiger è bravissimo, fino alla gigioneria del mattatore che non si accorge di diventare quasi irreale a forza di bravura. Accanto a lui, non meno bravi, bisogna ricordare Jaime Sanchez nella parte del commesso portoricano e Thelma Oliver in quella dell’amante di quest’ultimo. LA BISBETICA DOMATA In mancanza di meglio, siamo costretti a immaginare i secoli passati attraverso le rappresentazioni che ci hanno lasciato di se stessi, cioè attraverso quello che si illudevano di essere. Così, per il Cinquecento, noi dobbiamo stare all’idea che i cinquecentisti si facevano di se stessi. Ora quest’idea era retorica e piena di prosopopea. I cinquecentisti vedevano grosso e grande, l’iperbole era in loro piuttosto la regola che l’eccezione. Muovendosi in ambienti eroici ed eloquenti, essi si rappresentano come attori eternamente atteggiati, affogati dentro chiome o parrucche, dentro corazze oppure sete e velluti. È vero che c’è stato un Cinquecento sordido, ignorante, rozzo e barbaro; ma bisogna andare a cercarlo nei documenti più frusti, le rappresentazioni non lo rivelano. Strano a dirsi per un secolo così plastico, questa immagine così pletorica più che dalla pittura ci viene dalla letteratura. Il giro di frase umanistico suggerisce con ostentazione sospetta una pienezza di vita quasi insopportabile, al tempo stesso compiaciuta e inverosimile. Grandi bevute, grandi mangiate, grandi prodezze d’amore, grandi fatti d’arme, grandi parole, grandi psicologie… semplicemente vien fatto di non credere a tutte queste grandiosità e di andare a vedere che cosa in realtà si nascondesse sotto tante non richieste manifestazioni di vitalità e di potenza. Perché abbiamo cercato di delineare l’immagine di loro stessi che i cinquecentisti ci hanno tramandato? Perché è pure l’immagine alla quale si è ispirato Franco Zeffirelli nella sua versione cinematografica della Bisbetica domata. Franco Zeffirelli aveva due strade da seguire: o fare uno spettacolo oppure scavare in fondo alla storia e metterne in luce gli elementi singolari che ne hanno assicurato il successo attraverso i secoli. Zeffirelli ha prima di tutto pensato a fare lo spettacolo. Diciamo subito che si tratta di uno spettacolo fastoso, accurato, divertente, vivo. Uno spettacolo, forse, più operistico che cinematografico; ma indubbiamente riuscito. Subito dopo lo spettacolo, Zeffirelli ha rivolto la sua attenzione alla storia. C’erano in questa storia degli aspetti strani, bisognava buttare via il prologo con Sly (che pure era un curioso tentativo di teatro nel teatro), le storie laterali, concentrarsi sul solo rapporto Petruchio-Caterina. Senonché, a questo punto, lo spettacolo entrava in contraddizione con la storia. Nel tumultuoso carnevale di una Padova piena di canti, di balli, di beffe e di baldorie, ispirato appunto a quella tale immagine retorica del Cinquecento di cui abbiamo parlato, la verità del rapporto tra Petruchio e Caterina si perdeva. Ancora: oltre a Sly e alle storie laterali, bisognava buttare a mare anche la falsa saggezza di Petruchio, il falso ravvedimento di Caterina, insomma l’ipocrisia conservatrice shakespeariana.

Intimidito, Zeffirelli si è fermato. Aveva scoperto la struttura della storia della Bisbetica; per salvare lo spettacolo l’ha ricoperta. Questa struttura poi, a dirla in breve, è la storia di uno stupro consumato ai danni di una povera ragazza ignara e ritrosa da un marito brutale, indelicato e crudele. Lo stupro vero e proprio, s’intende, non lo vediamo; è trasferito metaforicamente nei sanguinosi oltraggi che Petruchio fa subire alla sua sposa fuori di chiesa, in chiesa, al banchetto nuziale, per strada, e nel suo castello. Si tratta di una farsa, d’accordo; ma il successo secolare di questa farsa sta nel rapporto sadomasochistico tra i due protagonisti: la parte maschile del pubblico si riconosce nel sadismo di Petruchio, quella femminile nel masochismo di Caterina. Siamo a un pelo da Justine; la predica di Caterina nel finale ricorda molto le analoghe prediche con le quali si consola o finge di consolarsi l’eroina di De Sade, dopo le più orribili sevizie. Altro che saggezza! Zeffirelli, pur rispettando la metafora shakespeariana doveva farci sentire che la tirata conclusiva di Caterina è il segno più chiaro della violenza subita e accettata. Questa tirata presa sul serio cioè come pistolotto edificante di una farsa grottesca, fa un effetto addirittura penoso. Richard Burton ci ha dato un’interpretazione di gran classe, da quel bravissimo attore che è, anche perché il suo personaggio non aveva bisogno di essere cambiato. Invece il personaggio di Caterina avrebbe dovuto essere svelato; questo non è stato fatto e di conseguenza Elizabeth Taylor, pur muovendosi molto, ci dice poco. L’IMMORALE Il professore di orchestra Sergio Masini comincia con lo sposarsi regolarmente e la moglie Giulia gli dà tre figli. Poi Sergio incontra una cantante fallita, Adele, ne diventa l’amante, le fa fare due figli. Infine, durante un giro in provincia si innamora di Marisa, ventenne suonatrice di arpa: sesto figlio. Sergio è, insomma, uno di quegli uomini che amano la vita in famiglia; tanto l’amano che una famiglia sola non gli basta. Ma mentre la poligamia è, in Oriente, una maniera di avere molte donne per non averne nessuna, in Occidente essa diventa, ci si perdoni il neologismo, plurimonogamia, ossia monogamia al quadrato, al cubo e via dicendo. Sergio, infatti, non ha un harem, ha tre famiglie, tra le quali si divide sentimentalmente, sessualmente, economicamente. Ma, come gli farà osservare un buon prete al quale va a confidarsi in un momento di stanchezza, questa sua vita di poligamo in terra monogama è un inferno. Sergio deve continuamente mentire, fingere, nascondere; deve continuamente correre da una famiglia all’altra, da una casa all’altra, da un letto all’altro. È una vita tanto infernale che alla fine il poveretto non ci resiste. Mentre sta preparando, con i soliti raggiri, un week-end al mare con Marisa, l’arpista ventenne, gli viene un colpo e muore. Pietro Germi è un regista che oscilla tra i toni sinceri della satira del costume nazionale e quelli meno autentici di un sentimentalismo ottocentesco. È un connubio insolito perché normalmente gli artisti sentimentali si guardano bene dal rivelare la cattiveria che si nasconde in fondo a ogni sentimentalismo. Sono sentimentali e basta. Noi, tra i due filoni, preferiamo quello satirico, se non altro perché porta Germi a creare un rapporto con l’oggetto, nel caso la società italiana; il sentimentalismo (che non è sentimento) è invece incapace di uscire dalla più stretta soggettività. Alla vena satirica e moralistica dobbiamo i film migliori di Germi: Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata e persino, nonostante molte cadute nella facilità del film di confezione, Signori e signore. Si tratta di una satira che trova i suoi limiti in quello che chiameremmo l’interprovincialismo di Germi (ancora un neologismo assai brutto: di nuovo, il lettore ci scusi). Germi, in quei film, è infatti l’italiano di una provincia, crediamo la Liguria, con tradizioni risorgimentali e socialiste, che guarda criticamente alle due regioni più conservatrici d’Italia: il Veneto e la Sicilia. Il sentimentalismo, invece, non porta fortuna a Germi; lo allontana dal sentimento serio; gli fa adottare soluzioni frettolose. Questo suo film L’immorale lo dimostra ancora

una volta. Non c’è niente di drammatico in un uomo che ha tre mogli e mezza dozzina di figli. Anche la trovata, vera e giusta, di farne un plurimarito e un pluripadre esemplare non è drammatica. Infine neppure la sua morte, diciamo così, “sulla breccia”, ha niente di drammatico. Si tratta in realtà di un personaggio comico protagonista di una vicenda comica e stupisce che Germi non se ne sia accorto. La spia alla comicità di Sergio, la fa la ripetizione. I personaggi seri non si ripetono, si (sviluppano; al contrario i personaggi comici si ripetono fino a diventare maschere. Invece di far morire Sergio (strana maniera di ammonire i libertini) bisognava mostrarlo mentre, infaticabile, imbastiva un nuovo amore, metteva su una nuova famiglia. Bisognava, insomma, avere il cuore duro di un Feydeau e non intenerirsi su Sergio, vittima, dopo tutto, di un infortunio di specie comica. L’immorale, incominciato con toni satirici (sono queste le parti migliori del film), doveva finire con una conclusione satirica. Il film è un po’ noioso, benché sia girato molto bene, sia a causa del sentimentalismo che toglie ogni forza alla ripetizione sia perché i personaggi secondari, con la sola eccezione forse di Marisa, quasi non esistono. Ugo Tognazzi è un attore davvero bravo e intelligente; qui è al suo meglio. Accanto a lui bisogna ricordare soprattutto Stefania Sandrelli, molto espressiva anche se in una parte che non le consente che un gioco limitato. NEGOZIO AL CORSO Siamo in Slovacchia, in una sonnolenta cittadina di provincia, negli anni dell’effimero regime cattolico-fascista di monsignor Tiso. I nazisti decretano la confisca a favore dei cosiddetti ariani di tutte le proprietà degli ebrei; il negoziuccio di una certa Rosalia Lautmann, vecchia merciaia sordissima, viene assegnato a Tonio, un modesto falegname per niente razzista ma contagiato anche lui dalla psicosi del saccheggio antisemita. Tonio sarà dunque il “gerente ariano” del misero negozio di bottoni e di fettucce; ma poiché in fondo è un brav’uomo, fingerà di essere il commesso della vecchia ebrea. Così, mentre nella piccola città la persecuzione razzista precipita verso la deportazione dell’intera colonia ebraica, nello spazio angusto della sordida botteguccia si forma una specie di duetto grottesco fra Tonio finto commesso e ariano poco convinto e la vecchia merciaia alla quale la sordità consente di non capire niente fino alla fine. L’animo di Tonio è lacerato, sia pure in maniera confusa e torbida, come può avvenire a un mezzo scemo e per giunta alcolizzato: ubbidire alla legge, sia pure la legge razzista, oppure ascoltare la voce, a dire il vero assai incerta, della coscienza? In questa perplessità, accarezzato dalla vecchia ebrea che lo tratta come un figlio e al tempo stesso irritato dalla finzione alla quale tuttavia non è capace di sottrarsi, Tonio arriva al giorno della deportazione. Allora, mentre nella piazza gli altoparlanti incitano alla caccia agli ebrei, la duplicità di Tonio esplode: ora vorrebbe nascondere la vecchia ebrea, ora denunziarla, consegnarla ai nazisti. L’incomprensione cocciuta e ottusa della vecchia costringe Tonio alla violenza. La vecchia cade, sbatte il capo, muore. Tonio attacca una corda al soffitto e s’impicca. È la stessa materia dell’Uomo del banco dei pegni, ma gli autori di questo Negozio al corso, Jan Kadar ed Elmar Klos, hanno descritto una realtà più genuina; inoltre al posto del sentimentalismo di Sidney Lumet qui abbiamo l’umorismo grottesco e simbolico proprio del cinema espressionistico tra le due guerre, ispirato a Dostoevskij e a Kafka. La parte autentica e migliore del film è la descrizione della piccola città slovacca, angolo remoto d’Europa superficialmente civilizzato dal cattolicesimo austro-ungarico. Il film ci fa capire molto bene come il razzismo germanico di origine decadente e romantica fosse del tutto estraneo a questa provincia. Tonio con la sua melensa ambiguità e la sua torbida goffaggine è la versione balcanica dell’analogo personaggio dell’Italia di Mussolini, anch’essa cattolica e ignara del razzismo. Ma a partire dal momento in cui Tonio si

rinchiude nel negozio con la vecchia merciaia ebrea, entriamo in un clima teatrale che ha poco a che fare con il nazismo e l’antisemitismo. Ci troviamo di fronte a una specie di commedia degli equivoci, basata sulla ottusa sordità della vecchia e sulla stupidità delirante dell’uomo; ma crediamo difficilmente così alla prima come alla seconda poiché, improvvisamente, i due personaggi diventano letterari, di una letteratura per giunta datata, come abbiamo già osservato. La spia allo sconfinamento nella vecchia letteratura la fa il suicidio di Tonio, meccanico ed esteriore perché originato non già da reale disperazione bensì dal deus ex machina della morte casuale della vecchia ebrea. Naturalmente non si può negare che in fondo a tutto questo vi sia una riflessione amara e cioè che l’antisemitismo era un contagio che non risparmiava nessuno. Ma allora bisognava avere il coraggio di non concludere; di rinunziare così alla morte della vecchia come al suicidio di Tonio; di lasciare aperto il film allo stesso modo che è rimasta aperta la questione del razzismo nazista. La regia è onesta, diretta, solida, accurata fino alla crudeltà, ma priva di quell’aura contemplativa che distingue l’oggetto poetico da quello che non lo è. I due mattatori Ida Kaminska e Jozef Kroner sono bravissimi, ma senza mistero, proprio come due attori di teatro che mirino con tenacia all’applauso finale. DOLCI VIZI AL FORO Richard Lester è il regista di The knack e del film sui Beatles, quanto a dire di un genere di film comico e assurdo che è comparso in Inghilterra in margine alla moda beat e pop. Da questa moda ci sono venute molte cose buone; ma nessuna migliore della ricerca del comico in direzioni nuove. Il comico è sempre stato raro, in tutti i tempi, forse perché è molto più facile ridere che far ridere e così dobbiamo essere grati a chi si arrischia nella difficile impresa di suscitare l’esplosione del riso in fondo ai silenziosi abissi delle nostre preoccupazioni quotidiane. D’altra parte, se è vero, come sembra essere vero, che tutto nella storia dell’umanità comincia seriamente e finisce comicamente, sarebbe interessante vedere quale rapporto passa tra la scoperta dell’assurdità tragica fatta nell’immediato dopoguerra da scrittori del tutto privi del senso del ridicolo e il dilagare della comicità assurda in questi ultimi anni. Forse il nesso c’è davvero; in tal caso si dovrebbe considerare il periodo attuale come il momento di liquidazione della seriosità esistenzialista di venti anni or sono. Richard Lester, nel suo cammino sulla strada del comico si è imbattuto adesso addirittura nel vecchio Plauto. A funny thing happened on the way to the Forum, (titolo italiano Dolci vizi al Foro) non è altro che un libero, molto libero adattamento della commedia plautina Pseudolo. Il personaggio che dà il titolo alla commedia è un servo che cerca di riscattarsi la libertà strappando a un lenone, per conto del padrone Calidoro, la vergine Fenicia. Il lenone ha promesso la vergine a Miles Gloriosus, Pseudolo riesce a sostituirla con un uomo vestito da donna. Ma Miles Gloriosus insiste per vedere la vergine e allora Pseudolo gliela presenta morta e per giunta morta di peste. Fuggi fuggi generale, poi smascheramento della gherminella del servo per il quale tutto andrebbe a finire male se a un tratto non intervenisse il deus ex machina dell’agnizione: la vergine e Miles Gloriosus sono fratello e sorella. Così la ragazza se ne va con il suo amante e tutto finisce bene. Plauto è già un autore comico; qui abbiamo per così dire il comico rifatto sul comico. Cioè la riduzione della originaria comicità plautina, schietta e rustica, a pretesto per altra comicità, tutta inglese quest’ultima, e per giunta di specie colta e parodistica. Credevamo che non fosse ormai più possibile spremere alcunché di nuovo dall’esausto mondo della romanità decadente; ma il film di Lester ci fa accorgere che ci sbagliavamo. Si tratta, però, dell’utilizzazione liquidatoria dei residuati. Così abbiamo una Roma rustica e piena di fienili, di carretti e di casupole che è una presa in giro di una presa in giro; dei personaggi grotteschi che sono caricature; varie scene obbligate (banchetto trimalcionico, postribolo, corsa delle bighe ecc. ecc.) che sono parodie di parodie. In altri termini il

film di Lester non soltanto si beffa del cinema serio del genere romano ma anche del cinema comico che a suo tempo è stato ricavato da quel cinema serio. Così mentre il film comico di genere romano conserva ancora qualche consistenza in quanto prende in giro un mito; nel film di Lester non è più il mito a essere canzonato bensì la presa in giro del mito, cioè qualche cosa di irreparabilmente tenue, cartaceo e remoto. Che cosa si salva allora, cioè per quale motivo noi seguiamo con divertimento il film? Principalmente, ci pare, per l’eccellente recitazione degli ottimi attori. Il film si vale soprattutto di una eccitante serie di primi piani del volto umano nei quali i valenti interpreti riescono a combinare il grottesco fisso della maschera con i movimenti meccanici del robot. È una recitazione “oggettiva” in cui si avverte l’estrema sicurezza di una cultura teatrale stagionata e raffinata. Per il resto Lester ha puntato sopra lo scatenamento di una vivacità indiavolata; ma poiché, come è stato già detto, egli lavora in questo film su dei “residuati” cioè su una materia già sfruttata tanto in senso serio che in senso comico, non si può dire che il film abbia l’originalità dei due precedenti. EDIPO RE La tragedia di Edipo, a meno di andare a cercare i primitivi polinesiani tra i quali vige ancora oggi il tabù dell’endogamia e dell’incesto, non ha niente a che fare con il mondo moderno. Anche se poi gli stessi eventi potrebbero benissimo verificarsi negli stessi modi. La tragedia di Edipo appartiene al mondo arcaico greco; tanto è vero che in Grecia essa era un mito, cioè qualche cosa di così insopportabile per la società quale era allora da meritare di essere trasformato in mistero. Tuttavia il recupero della tragedia di Edipo oggi è pur sempre possibile, soprattutto in due modi: sia in senso conoscitivo e razionale, ossia scrivendo una storia moderna che (quasi sempre inconsapevolmente da parte dello scrittore) ne adombra i significati; oppure risuscitando con piena consapevolezza il mito a livello estetico-culturale. Nel primo caso abbiamo un’operazione realistica; nel secondo un’interpretazione estetizzante. I precedenti in ambedue i casi sono molti: per il primo, si potrebbe risalire addirittura all’Amleto; per il secondo, i nomi di Wagner e di D’Annunzio, ostinati mitomani, sembrano i più legittimi. Realistico è l’inizio dell’Edipo Re di Pier Paolo Pasolini. Realismo che discende da Freud, cioè dalla dimensione tragica che Freud ha legato per sempre al nudo fatto di nascere. Ma Pasolini ha respinto con mano delicata e ferma ogni tentazione didascalica e ci ha dato una bellissima sequenza sull’innocenza dell’amore materno e sulla fatalità di quello filiale. Subito dopo Pasolini abbandona Freud per Jung, cioè abbandona l’ansia conoscitiva per la preoccupazione estetico-culturale e ci presenta l’Edipo di Sofocle sullo sfondo di una natura erosa e solenne, in Marocco, in villaggi turriti simili a rozze regge arcaiche. Abbiamo fatto un salto indietro di migliaia di anni, al tempo in cui il mito era attuale. Anche qui, secondo noi, la poesia è raggiunta, sia pure attraverso un vagheggiamento estetizzante e culturale. Pasolini, quei monti, quei villaggi, quei riti li “sente” come elementi essenziali del mito e riesce a comunicarci il suo sentimento. L’uccisione di Laio è scandita con maestria; ma vi si nota un’esaltazione della ferocia che non è giustificata né prima né dopo da un contesto sociale analogo. Tuttavia, finché dura l’ignoranza di Edipo, cioè per tutto il primo tempo, la rappresentazione è degna del migliore Pasolini. L’incrinatura si comincia ad avvertire nel secondo tempo, quando quella stessa brutalità che era servita a fare uccidere Laio, impedisce di affrontare il vero essenziale dramma di Edipo con un personaggio adeguato. È il dramma della conoscenza, della scoperta della verità. Come ha osservato il critico americano Ferguson, questo dramma è una specie di match fra Tiresia, il cieco che vede, ed Edipo, il veggente che è cieco. In questo match verbale, Edipo non è un violento, un brutale, bensì un intellettuale come Amleto, strenuo, eroico, avido di verità. Se questo è vero, come crediamo che sia vero, allora bisognava prolungare il più possibile il duello fra Tiresia ed Edipo, lasciando in ombra il rapporto incestuoso

con Giocasta (al quale dobbiamo purtuttavia le parti più valide del secondo tempo). Ma per far questo ci voleva un attore della forza di Julian Beck, non Franco Citti. Pasolini è convinto che il sottoproletariato delle borgate è omologo al mondo arcaico ma il suo film dimostra che non è vero. Edipo urla quando dovrebbe invece esprimersi quietamente e dialetticamente. Non bisogna infatti dimenticare che incesto e parricidio sono “tentazioni” eterne dell’uomo, cioè qualche cosa di oscuro e di irrazionale che soltanto la ragione può oggettivare e illuminare. Poi la fine. Diciamo subito che avremmo preferito un ritorno al realismo dell’inizio, senza simboli, di nuovo freudiano, cioè conoscitivo. Una famiglia come quella della prima sequenza ma con una madre invecchiata e troppo affettuosa, un padre anziano non amato né rispettato e un figlio che inconsapevolmente, ciecamente, si comporta secondo i modi propri del complesso di Edipo. Pasolini invece ha preferito l’elegia al dramma. Ha sostituito Antigone con Angelo, ha fatto trapassare l’Edipo fisicamente cieco del mito nella realtà del mondo moderno. Edipo che era nato a Tebe, qui si identifica con il bambino nato in una piccola città italiana. Una fine “privata”, simbolica, tristissima ma non catartica. L’interpretazione di Silvana Mangano è splendida. Accanto a lei, bisogna mettere Julian Beck, eccellente nella parte di Tiresia. Di Franco Citti abbiamo già detto; vogliamo soltanto aggiungere che il suo volto è sì fortemente espressivo ma di qualche cosa che non ha niente a che fare con Edipo. LA DONNA MARITATA Nell’opera di Godard sembrano esservi due filoni principali, almeno al livello espressivo: quello nel quale la sensibilità prevale sul tecnicismo sperimentale e quello nel quale il tecnicismo sperimentale prevale sulla sensibilità. I primi sono film intimisti, psicologici, poetici; nei secondi esplode la polemica sociale. Tipico della prima maniera è Vivre sa vie; della seconda Pierrot le fou. In Vivre sa vie il personaggio è stato fissato, tipizzato, bloccato da un elenco di informazioni e definizioni quasi burocratiche; trasformato in oggetto immobile non resta che accarezzarlo, contemplarlo. Non è più un comportamento, un’azione; bensì un destino statico sul quale piove abbondante la pietà amara del regista. Prendiamo adesso Pierrot le fou. Qui non c’è stato alcun processo di tipizzazione; tutto è movimento, contrasto, esplosione. Così mentre in Vivre sa vie lo sperimentalismo, che in Godard non manca mai, si manifesta in soluzioni eleganti e appena percettibili, qui esso balza in primo piano attraverso un tecnicismo estroso e aggressivo. In Vivre sa vie è la sensibilità a occupare lo schermo; in Pierrot le fou l’invenzione sperimentale. La femme mariée appartiene allo stesso filone di Vivre sa vie. È un film liscio, armonioso, elegantissimo, tutto indiretto e mediato. Il personaggio è fissato fin da principio in quel termine di “mariée” che indica una situazione stabile, oggettiva, senza contrasti né lacerazioni. Anche qui, come in Vivre sa vie, la protagonista è trasformata dalla tipizzazione in oggetto da contemplare. Ma il sentimento del regista non è più di pietà bensì di invaghimento. Godard “guarda” cioè contempla il suo personaggio mentre corre per le strade di Parigi, fa l’amore con il marito e poi con l’amante, vive indifferente e misteriosa le mille banalità della vita quotidiana. La contemplazione di Godard non è mai stata così intensa, così affettuosa, così affascinata. Non per nulla un buon terzo del film rappresenta mani che accarezzano, che palpano, che toccano, che si intrecciano, che si aiutano, che si stringono, che si separano. Tutte queste mani sono in realtà le mani del regista. E così, gli oggetti, prima ancora che visti e osservati sembrano essere accarezzati, lisciati, toccati. La contemplazione si serve del tatto anziché della vista. Godard è un cieco che vede attraverso i polpastrelli, non un voyeur che spia con gli occhi. Si tratta, però, pur sempre di una contemplazione intelligente e affettuosamente ironica. Godard

conosce a fondo il suo personaggio, con la completezza propria di ogni simpatia incondizionata. Ecco dunque il corpo nudo vagheggiato e accarezzato nelle pose più diverse. Ecco le chiusure lampo, gli slip, le camicette, le calze, le sottane, i reggiseno, i reggicalze. Ecco, in una sequenza tra le più significative e felici, la personalità sfuggente della donna trasferita sulle pagine di una rivista attraverso la mediazione della moda. Ecco, soprattutto, il rapporto della donna con il proprio corpo: cure della persona, toilette, depilazioni, misurazioni, scrutamenti e così via. Godard ritorna spesso sul volto. Ce lo mostra di profilo, di faccia, di tre quarti, accanto a quello del marito o dell’amante. Qualche volta ne mostra solo un particolare: un occhio, un orecchio, la fronte, il mento. Godard in realtà non riesce a equiparare il volto alle altre parti del corpo; è costretto a riconoscergli un’ambiguità che il corpo ovviamente non ha. Si tratta di un’ambiguità morale; e Godard non può fare a meno di notarne gli indizi. Godard in fondo è un moralista che non vuole riconoscersi per tale. Ma i primi piani del volto, l’insistenza sulla innocenza del volto rivelano un giudizio. Così, alla fine, la donna sposata si cambia in adultera. VIVERE PER VIVERE Chiunque è stato in un museo etnografico, osservando gli oggetti esposti nelle vetrine, non potrà non aver provato un brivido di ripugnanza mischiato però a un senso di meravigliata e involontaria reverenza. Dunque, non si può fare a meno di pensare, quelle maschere rozze e grottesche di noci di cocco, di rafia e di penne, quei feticci maldipinti, quelle collane di ossa e di conchiglie, quelle armi combinate con poco ferro e molto legno e molta paglia, tutta quella ingenua e repellente cianfrusaglia, adesso inerte e morta nelle vetrine, ha avuto a suo tempo una terribile vitalità sociale, psicologica e religiosa? Il massimo elogio che si deve fare a Pier Paolo Pasolini per l’Edipo Re è di avere avuto l’intuizione della ferinità e rozzezza dell’arcaico mondo contadino nel quale ha voluto trasferire la tragedia tarda e raffinata di Sofocle. Attraverso questa intuizione, Pier Paolo Pasolini ha saputo esprimere il proprio sentimento della primitività, cioè se stesso, in ogni fotogramma, qualità rara in un tempo come questo nel quale di solito l’autore scompare dietro la pellicola. Sua è l’immagine dell’oracolo, con quel mercato di asini e di muli e quell’unico magico albero e la pitonessa di paese baffuta, enorme, ripugnante, nascosta malamente sotto una maschera fatta di due zucche. Sua, la figura del servo che cammina tenendo l’infante appeso, come un agnello, per le mani e per i piedi, a un palo. Sua, la marcia di Edipo in una solitudine presaga, analoga a quella di Caino. Sua, l’apparizione della prostituta, tra stamberghe di fango seccato, con i seni nudi e il pube ornato di perline e di ciondoli di paglia. Sua, la morte di Laio, favoloso fantoccio regale da teatro dei pupi. Sua, infine, la sfilata dei cadaveri degli appestati avvolti in stracci “fatti in casa”. D’accordo, le scene d’amore tra Giocasta ed Edipo ormai consapevoli dell’incesto sono le cose migliori del secondo tempo; ma il letto troppo bello e la fiamma che divampa nel tripode sanno di messa in scena da teatro d’opera, ci fanno rimpiangere le straccerie arcaiche e artigianali del primo tempo. Però, torniamo a ripeterlo: la lezione di Pasolini non è tanto quella del nuovo linguaggio filmico che afferma di aver scoperto (scusami, Pier Paolo, ma s’è sempre saputo che il limite [ma anche l’originalità] del linguaggio cinematografico è di non essere metaforico, così che invece di dire “tavolo”, che è una convenzione, si mostra il tavolo cioè si opera un’identificazione immediata tra oggetto e rappresentazione), quanto nel fatto che la sua presenza, nell’Edipo, è continua, costante, chiara, quasi ossessiva. Abbiamo voluto parlare di Pasolini una seconda volta non soltanto per chiarire le nostre impressioni ma anche per illuminare, per contrasto, un film del genere esattamente opposto: un film nel quale l’autore non c’è, ossia un film di confezione. Pasolini nel suo film ha mirato non tanto a fare un capolavoro quanto a esprimersi, e ha fatto bene; capolavoro e film di confezione, almeno

nella pubblicità degli esercenti, sono sinonimi. Adesso volete sapere che cos’è un film di confezione, ossia un capolavoro? Prendete l’ultima fatica di Claude Lelouch: Vivere per vivere. Sentite un po’ la storia: un uomo tradisce la moglie intelligente e affettuosa ma non più giovane per una ragazza bella e giovane. Poi lascia l’amante e torna dalla moglie. Tutto questo strutturato nei termini più normali e risaputi cioè secondo la tradizionale casistica sentimentale della borghesia francese. Che ne dite? Non è una storia che poteva benissimo essere girata a Parigi, in qualche appartamento elegante della “rive droite”? Nient’affatto. Il protagonista è un fotografo della televisione: dunque ecco una filza di cartoline illustrate dall’Africa, con belve in libertà, paesaggi dell’Uganda, mercenari del Congo. Poi un’altra serie di cartoline, più cruente, dal Vietnam, con morti, feriti, sangue e rovine. Viene il compleanno del protagonista e insieme la crisi del suo rapporto coniugale. Guarda caso, tutto questo non accade in un interno borghese qualsiasi, bensì in Olanda: altre cartoline illustrate di quel pittoresco paese nonché dei quadri del suo maggiore pittore moderno, Van Gogh. Infine, i due amanti si separano ma poiché la ragazza è americana, Lelouch ci spedisce da New York due vedute di Central Park e di Broadway. Infine i due coniugi si ritrovano non già in una camera da letto ma agli sport invernali: ultime cartoline illustrate da Megève oppure da Gstaad. Insomma: una modesta vicenda sentimentale che non ha alcun rapporto con il vasto mondo sul cui sfondo viene raccontata. O meglio, il rapporto c’è: è quello della confezione, del mercato che vogliono un film che distragga e illuda nel momento stesso che commuove. E Lelouch, dov’è Lelouch? Non c’è, ha fatto un film di confezione e poi è scomparso senza lasciare traccia di sé. Ci sono invece, come spesso avviene in questo genere di film, gli interpreti. Bravissima, Annie Girardot, anche se di una bravura un po’ da mattatrice, bravissimo ma più sobrio, Yves Montand. Candice Bergen è bella, molto bella. LA CINA È VICINA Siamo in una piccola città emiliana: cinquantamila abitanti. Vittorio Gordini Malvezzi è l’uomo ricco della città. Potrebbe vivere in pace e senza lavorare ma non gli basta. È professore delle scuole medie; si presenta alle elezioni come candidato del partito socialista. Vittorio è un uomo codardo e debole; in casa è dominato dalla dura e forte sorella Elena e intimorito dal fratello minore, comunista “cinese”, il quale condanna il suo trasformismo. Vittorio, infatti, prima di essere socialista, è stato via via democristiano, repubblicano, comunista, socialdemocratico. Vittorio, per le sue ambizioni, ha due aiutanti, due persone povere che vengono dal popolo: Giovanna che gli fa da segretaria e Carlo che gli fa da galoppino elettorale. Giovanna e Carlo sono amanti; ma freddamente, cinicamente si mettono d’accordo per sacrificare il loro amore all’ambizione e all’avidità di denaro. Giovanna aiuterà Carlo a sposare Elena; Carlo, dal canto suo, aiuterà Giovanna a farsi sposare da Vittorio. In che modo sarà raggiunto questo inserimento dei due poveri nella famiglia ricca? Semplice: Giovanna e Carlo rispettivamente diventeranno amanti di Vittorio e di Elena; poi Carlo metterà incinte tutte e due le donne. I due matrimoni, in un ambiente così borghese e provinciale, saranno il coronamento logico del piano machiavellico. Intanto Vittorio continua la sua campagna elettorale; e i “cinesi”, capeggiati dal fratello minore, lo osteggiano con delle beffe goliardiche. Il film ha un lieto fine di sapore sarcastico: due sposalizi e (probabilmente) l’elezione di un deputato socialista nuovo. Marco Bellocchio è un artista che trent’anni fa si sarebbe chiamato un contenutista. Le ricerche formali (pop e altre) dei suoi coetanei non l’interessano. O meglio, egli raggiunge, come tutti i contenutisti, vigore stilistico e rappresentativo soprattutto quando ha qualche cosa da dire nel senso della contestazione moralistica. Il contenuto, poi, di Bellocchio, almeno fino a oggi, riguarda non tanto la vita pubblica quanto quella familiare. Ma con una sensibilità per i rapporti e l’intimità della

famiglia, rabbiosa, dolente e quasi ossessiva. A ben guardare, lo schema di questo La Cina è vicina è identico a quello del più alto e spesso geniale I pugni in tasca: la corruzione di una famiglia a livello, si direbbe, piuttosto biologico che sociale. Bellocchio eccelle nel dipingere con acredine questo genere di famiglie e gli ambienti nei quali si appiattano, quasi serpi sotto un sasso. Per questo aspetto, La Cina è vicina non è meno duro del film precedente. Non è fatta alcuna concessione al sentimentalismo; ci sono anzi una lucidità e una razionalità nel torbido intrigo che ricordano l’intrepido cinismo italiano della tradizione boccaccesca e machiavellica. E quegli interni provinciali di antichi palazzi, coi loro salotti, sale da pranzo, bagni, biblioteche, scale e scalette sono visti con l’autenticità che viene da lunga familiarità e da simpatia espressiva. Resta la questione dell’elemento politico al quale si deve quel tanto di troppo facilmente caricaturale che il film indubbiamente contiene. Molti ritengono che Bellocchio abbia voluto fare un film di satira politica e l’abbia in parte mancato; ma sbagliano. Qui, secondo noi, la politica ha la funzione di caratterizzare i personaggi e non viceversa. Ma nei Pugni in tasca il regista si identificava con il protagonista; qui non si identifica con nessuno; è presente semmai nell’asprezza dell’osservazione. Ne segue che i goliardici “cinesi” sono la parte più debole del film; la loro rivolta, chissà perché, non è sostenuta dal regista che, anzi, la mette in ridicolo. Comunque c’è troppa politica in un film che è, in realtà, la descrizione di una famiglia con i suoi grovigli di interessi e le sue brame fisiologiche. La politica andava ridotta di molto; soprattutto là dove è mera canzonatura. Non che il personaggio di Vittorio non sia vero: esistono e come, questi ricconi di provincia maneggioni e trasformisti. Ma non è tanto rappresentativo quanto dilatato oltre i propri limiti. Mentre l’integrazione dei due poveri nella famiglia ricca ha un carattere tipico; e ripete, in un ambiente provinciale e rustico, un fenomeno più generale dell’attuale società neocapitalista italiana. L’interpretazione va elogiata senza riserve. Glauco Mauri è un ottimo Vittorio, sempre sfumato, graduato, misurato. Paolo Graziosi è la rivelazione del film: da un pezzo non vedevamo un attore condurre con tanta bravura il proprio gioco espressivo. Elda Tattoli ha saputo darci una proterva, violenta Elena. Daniela Surina è una Giovanna torbida e passiva quanto basta. BELLA DI GIORNO Sévérine, moglie borghese di un giovane chirurgo, è stata, bambina, accostata da un bruto. Da questo trauma le sono venute due ossessioni parallele: di colpa e di voglia di ripetere la colpa. Un erotomane a nome Husson le fa la corte, invano; un giorno per caso, le rivela l’indirizzo di una casa di appuntamenti che in passato gli è accaduto di frequentare. Subito, Sévérine, si precipita alla casa e chiede alla tenutaria, Madame Anais, di lavorarci. Così comincia per lei una doppia vita: signora irreprensibile a casa, Sévérine, al bordello in cui si reca ogni giorno dalle due alle cinque, diventa la prostituta “Belle de jour”. Tutto andrebbe liscio se a un tratto non accadessero due fatti. Il primo è che Husson, l’erotomane che le ha dato l’indirizzo e l’aveva corteggiata invano, si presenta alla casa di appuntamenti e la riconosce; il secondo è che uno dei clienti del bordello, un giovane criminale spagnolo, si innamora di lei. A Sévérine il ragazzo piace finché non è che uno dei soliti clienti che la violentano e la profanano; ma non vuol saperne del suo amore. Lo spagnolo la fa seguire, irrompe nella sua casa; Sévérine lo scaccia. Lo spagnolo si apposta; abbatte a colpi di rivoltella il marito di Sévérine; a sua volta viene ucciso dalla polizia. Adesso il marito è paralizzato e quasi cieco, non si sa se guarirà. Arriva Husson e, per vendicarsi della ripulsa di Sévérine, gli svela la verità sul suo ferimento e sulla doppia vita di sua moglie. Nella motivazione del premio di Venezia, a proposito di questa Belle de jour di Luis Buñuel, si diceva che il “film confermava la grande lezione del surrealismo di cui Luis Buñuel è uno dei rappresentanti più illustri”. Questa frase non ha nulla di convenzionale. In realtà Buñuel ci ha dato uno dei rari film che siano al tempo stesso spettacolo e opera d’arte. E questo l’ha ottenuto grazie

soprattutto alla sua esperienza del surrealismo, forse la sola avanguardia che abbia cambiato e arricchito la nostra visione del mondo e conquistato nuovi territori di conoscenza. Ci sono due specie, almeno, di surrealismi. Quello fantastico nel quale il sogno si presenta come realtà (Dalì, Ernst, Delvaux, Magritte ecc. ecc.); e quello nel quale la realtà si presenta come sogno (Lautréamont, l’Aragon del Paysan de Paris, Nadia di Breton, Roussel, lo stesso Freud). Belle de jour appartiene alla seconda categoria. Perché la realtà è un sogno in Belle de jour? Perché Sévérine ha sognato tutta la vita, con nostalgia e senso di colpa, di essere profanata e violentata; e, alla fine, il suo sogno si realizza. Per questo la prima parte è superiore alla seconda. In questa prima parte, infatti, il sogno di Sévérine non incontra alcuna smentita: essa vive il proprio sogno e sogna la propria vita. Aveva sognato di essere posseduta da un bruto; ed ecco il bruto le sta sopra e la possiede davvero. Così, appunto perché sogno e realtà vi si identificano così perfettamente, anche il bordello non è un luogo della realtà, ma un luogo di sogno nel quale, appunto, la sola realtà è il sogno di Sévérine. Donde la precisione allucinata dei particolari; l’assenza di psicologia. Invece, nella seconda parte, Sévérine è costretta a svegliarsi. Qualcuno la riconosce, qualcuno l’ama. Scoppia una tragedia che non è sogno, bensì, purtroppo, mera realtà. Ma Sévérine è un’incorreggibile sognatrice: quando viveva il suo sogno di stupro, allora sognava di essere punita; adesso che il marito è paralizzato e sa della sua doppia vita, sogna che il marito è sano e non sa nulla e loro si amano e vivono felici. Ma si capisce che fa questo sogno per illudersi di potere, un giorno, tornare di nuovo al bordello e riprovare il brivido dello stupro. È inutile cercare delle implicazioni sociali in questo film: Freud non è Marx, e questo è un film, alla lontana, freudiano. Il grande merito di Buñuel anzi è stato di aver scartato con mano leggera ogni denunzia moralistica; di essersi tenuto, con superiore maestria, a una rigorosa descrizione. Tutto è visto attraverso gli occhi di Sévérine; e Sévérine, appunto, è una sonnambula o, se si preferisce, una visionaria. In un simile film, la regia prevale, anzi riassorbe l’interpretazione. Catherine Deneuve, volto consumato dalla lussuria e dal senso di colpa, è un’immagine memorabile. Accanto a lei, visti da lei, bisogna lodare Jean Sorel, il marito; Michel Piccoli che è Husson; Francisco Rabal e Geneviève Page. LO STRANIERO “Non sentivo più che i cembali del sole, sulla mia fronte, e, indistintamente, il gladio accecante sprizzato dal coltello in faccia a me. Questa spada bruciante mi rodeva le ciglia e frugava nei miei occhi doloranti. È stato allora che tutto ha vacillato. Il mare ha alitato un respiro spesso e ardente. Mi è sembrato che il cielo si aprisse per tutta la sua distesa, per lasciare cadere del fuoco…” Così, con enfasi improvvisa, Albert Camus, a pagina 81 dello Straniero, esalta il proprio stile per far fare l’impossibile al suo eroe indifferente e apatico: l’uccisione di un uomo. Camus si rende conto che il delitto di Meursault, possibile a livello ideologico, è impossibile (almeno per lui) a livello espressivo; e per farglielo commettere ricorre all’abusato procedimento naturalistico e dannunziano consistente nel trasferire la tensione dal personaggio al paesaggio. Più tardi, al processo, Meursault dirà al giudice che la colpa del delitto è stata del sole. Camus, in questo modo, cerca di nascondere il trucco, ammettendolo e ribadendolo in chiave quasi ironica. S’intende, però, che nessuno ha mai ucciso per colpa del sole. In realtà il protagonista di Camus è composto di due personaggi che nella cultura europea di quegli anni erano coesistenti e complementari: l’indifferente intellettuale che non agisce né può agire; l’assassino che agisce, in fondo, per conto e in nome dell’indifferente. Il nesso tra i due personaggi è, in Camus, puramente ideologico. Donde il ricorso alla retorica nei momenti, diciamo così, di fusione esistenziale. Albert Camus era forse più ideologo e soprattutto più moralista che artista. O meglio, era un

artista che dava spesso in quel particolare genere di falsità che è propria dell’arte al servizio dell’ideologia. Concepito come una dimostrazione, lo Straniero ha il torto di non esserlo sempre. Nei punti in cui l’ideologia non ce la fa a sostituire la rappresentazione Camus alza la voce, ricorre all’enfasi. Luchino Visconti non ha voluto interpretare secondo il proprio modo di sensibilità il romanzo; ha preferito essere fedele così al contenuto come, fino a un certo segno, allo stile. Diciamo subito che bisogna riconoscere non soltanto la nobiltà di quest’assunto ma anche la sua estrema difficoltà. Perché, secondo noi, non ci può essere fedeltà in nessun senso nella versione cinematografica di un testo letterario; e comunque, meno ce n’è, meglio è. Visconti per giunta è un artista molto diverso da Camus. Intanto è diversa la sua tematica (illustrata soprattutto in film come La terra trema, Senso, Il Gattopardo); e poi è diverso il suo temperamento: più aperto, più vario, più sensuale, meno moralistico e ideologico. Comunque, poiché la fedeltà è stata voluta e perseguita con puntiglio, ne seguirà logicamente che qualità e difetti del testo si rifletteranno esattamente nel film. E così è avvenuto, infatti. Visconti, là dove Camus stava sulla rappresentazione, ha saputo degnamente rappresentare; là dove invece in Camus prevaleva l’intento ideologico, ha dovuto, a causa del suo impegno di fedeltà, lasciare immutate cose che andavano sia cambiate sia dette in altro modo. Nel testo di Camus tutta la parte della morte e del funerale è la migliore; così è anche nel film, con una singolare, efficace impostazione volutamente veristica nella sequenza della veglia. Nelle prime sequenze il personaggio di Meursault è ben delineato, con precisione e presaga pietà, pur nella sua apatica indifferenza che, prim’ancora di diventare un delitto, è il segno di un destino anonimo. Poi c’è il delitto: lo preferisco nel film, più semplice e diretto, piuttosto che nel testo così enfatico. Dopo il delitto, il processo dovrebbe farci assistere al contrasto tra l’indifferenza di Meursault e le convenzioni e le credenze della società. Ma ci voleva più lealtà verso gli avversari di Meursault; meno prepotenza dimostrativa. Camus, invece, non ha avuto questa lealtà; ha voluto che Meursault avesse ragione. Così, tanto nel testo quanto nel film, il processo si colora di toni caricaturali e Meursault ha ragione ma troppo facilmente. Visconti avrebbe potuto evitare questo carattere sbrigativo del processo? Sì, ma a patto di essere infedele al testo. Marcello Mastroianni è un Meursault convincente nella prima parte. Poi l’ideologia sembra passargli sopra la testa. Ma forse non si poteva fare meglio con un personaggio simile, il quale, appunto, non è un personaggio ma una dimostrazione. C’ERA UNA VOLTA… Ci siamo spesso domandati in che modo un regista potrebbe tradurre in linguaggio cinematografico una favola, per esempio, di Andersen o dei fratelli Grimm o anche, com’è il caso nel film di Francesco Rosi C’era una volta… che esaminiamo qui, una favola del barocco e dialettale Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Le favole, com’è noto, sono il cavallo di battaglia della critica strutturalista; ma le indagini di Vladimir Propp e di Lévi-Strauss non ci aiutano per nulla nella nostra ricerca. Esse si propongono di conoscere e far conoscere come sono costruite le favole, cioè a partire da quali materiali e da quali combinazioni sempre ricorrenti di questi materiali; ma non ci dicono niente sull’aspetto letterario della favola. E cioè: qual è il rapporto tra narratore e materiale fiabesco? Come si scrive una favola? Perché si scrive? E qual è la differenza tra favola e altri generi narrativi come, per esempio, il romanzo e la novella? Diciamo brevemente che il segreto della narrazione in chiave di favola, secondo noi, sta nell’impostazione della voce del narratore, perché la favola è la sola narrazione che oggi sia rimasta orale anche quando viene iscritta e letta. Ora qual è quest’impostazione? Essa consiste, ci sembra, proprio in una certa “autorità” paternalistica, da vecchia strega seduta all’angolo del fuoco, che si dà il narratore fin dalle prime

magiche parole: “C’era una volta…” È un’autorità ambigua, sorniona e, per tutto dire, bugiarda. In altri termini il favolista crede nella favola molto meno di quanto il romanziere creda nel romanzo o il poeta epico nel poema. Il favolista non crede nella favola prima di tutto perché “non è sua”, (nessuno mai, a quanto pare, ha inventato di sana pianta una favola), e poi perché in maniera oscura e istintiva egli intuisce che la favola sta in luogo di qualche altra cosa, appunto della cosa che la critica strutturalista si affanna a scoprire. Detto questo, che cosa avrebbero dovuto fare Francesco Rosi e i suoi collaboratori Tonino Guerra, Raffaele La Capria e Giuseppe Patroni Griffi traducendo in film una storia che (per adoperare il metodo di Propp) rientra nella categoria delle favole del tipo di Cenerentola, ossia delle favole di “arrampicamento sociale” sia pure mediante l’amore e la magia? Il problema era complesso: da una parte bisognava rendere il tono “autoritario” o se si preferisce “bugiardo” dello stile favolistico; dall’altra bisognava recuperare il particolare carattere rustico, realistico e dialettale della narrazione di Giambattista Basile. Infine c’era ancora un non piccolo problema: la favola di Basile si inserisce, attraverso il dialetto, dentro un’altra favola che è quella del Regno di Napoli il quale appunto perché così remoto e così immobile, ancora oggi a molti italiani sembra essere stato una specie di favola piuttosto che un fatto storico. La favola di un mondo felice durante il quale il tempo era sospeso. Anche quest’ultima favola andava raccontata. Rosi ha puntato soprattutto sul realismo dialettale da una parte e dall’altra sul meraviglioso rustico da ex voto popolare, il più adatto certo a esprimere la nostalgia un po’ borbonica per il “favoloso” Regno di Napoli. Così le parti migliori del film sono quelle nelle quali Rosi non inventa e si limita a descrivere con simpatia nostalgica la vita rustica sospesa fuori del tempo coi suoi ambienti, i suoi costumi, le sue superstizioni, i suoi miracoli. In questo mondo favoloso perché scomparso, Sophia Loren si inserisce con sufficiente felicità con la sua popolaresca irruenza dialettale. Così come vi si inseriscono gli scugnizzi che la circondano e in genere i personaggi di sfondo, umili e illustri. Meno favolose ci sembrano le scene d’amore (l’amore non c’è mai nelle favole, almeno in senso fisico e sentimentale, come non c’è nei poemi cavallereschi), le quali introducono un elemento estraneo, di specie realistica e psicologica. Preferiamo allora, come più in accordo con la favola del tipo di Cenerentola, il contrasto sociale tra la plebe coperta di stracci e i signori rivestiti di sete e di broccati. Accanto a Sophia Loren ma non così disinvolto né così fuso con l’ambiente, fa bella mostra di sé l’avvenente Omar Sharif. Nella parte del cuoco francese, George Wilson tratteggia un personaggio divertente pieno di sussiegoso e barocco prestigio. IL GAROFANO VERDE Probabilmente nessuno avrebbe pensato di fare un film su Oscar Wilde se non ci fosse stata la moda dello stile liberty. Moda non tanto strana, a ben guardare, perché lo stile liberty è l’ultimo stile originale e autentico sentito come proprio dalla borghesia che allora dominava e a tutt’oggi domina in Europa e negli Stati Uniti. Tanto è vero che si potrebbe dire che da settant’anni in qua, tutti i tentativi di creare degli stili non sono stati che diversi accomodamenti e contaminazioni del liberty originario. Ma una cosa è evocare un’epoca attraverso la moda e un’altra risuscitare un caso culturale e soprattutto umano come quello di Oscar Wilde. Un film come questo Garofano verde di Ken Hughes affronta in fondo una questione che ancora oggi “non” può essere trattata sullo schermo se non in senso umoristico oppure obliquamente. Parliamo dell’omosessualità che, nonostante qualsiasi accurata ricostruzione ambientale, non può non essere il vero e il solo argomento di un film su Oscar Wilde. Come è noto, infatti, la fama di Oscar Wilde è legata molto più al personaggio che alle opere. E il personaggio, a sua volta, è rimasto nella memoria soprattutto per la sfida che lanciò alla società del

suo tempo e per la sconfitta che fu la conclusione imprevista della sfida. Ma perché Wilde lanciò la sfida e perché fu sconfitto? Diremmo che il motivo principale dell’intera vicenda va ricercato nel fatto che Wilde, nel campo in cui avrebbe potuto essere il più forte, cioè la letteratura, era in fondo un conformista, appartenendo in realtà pienamente alla società del tempo che, invece, nel campo tanto più insidioso per lui del costume, aveva sfiorato quasi la rivolta. Scrittore tutt’altro che d’avanguardia, volgarizzatore elegante di temi e modi del decadentismo francese, Wilde fu sconfitto proprio a causa del suo snobismo che lo spingeva ad attribuire più importanza alla società che alla letteratura, di modo che una volta espulso dalla società, non gli riuscì di essere quel puro letterato che aveva sempre preteso di essere e non era invece mai stato. Era insomma una “public figure”, un personaggio pubblico e il suo dramma si inserisce non tanto nella storia della letteratura quanto in quella del costume. Stando così le cose, pensiamo che, come abbiamo già notato, un film su Wilde non dovrebbe fare a meno di affrontare frontalmente la questione dell’omosessualità. Bisognava, insomma, far capire che la sfida di Wilde non era stata volontaria e letteraria (come quella di un Rimbaud o di un Genêt) bensì involontaria e sessuale. E mostrare che la debolezza di Wilde stava non tanto nell’essersi rivoltato contro la società dell’epoca quanto di non averlo fatto con il mezzo di cui disponeva, cioè la letteratura. Ken Hughes ha fatto invece l’operazione inversa. Per quanto riguarda l’omosessualità ha accettato il punto di vista della morale corrente non tanto diverso da quello vittoriano, evitando di descriverla e arrivando persino a suggerire che i rapporti di Wilde con i suoi amanti erano davvero platonici, come Wilde stesso pretendeva. E d’altro canto ha avallato l’idea di un grande poeta perseguitato da una società bigotta. In altri termini ha tentato di farci credere che Wilde non era l’omosessuale che era e era invece il grande scrittore che non era. Donde una diffusa falsificazione e convenzionalità da cui si salvano soltanto gli interrogatori in tribunale appunto perché, probabilmente, ricostruiti sui verbali dei processi. Lo sappiamo, l’omosessualità ancora oggi, non può essere mostrata “come tale” sullo schermo. Ma soltanto mostrandola nella sua verità si poteva parlare con verità del caso Wilde. La regia è accurata e seria ma un po’ noiosa per i motivi su esposti. Tutti gli attori sono piuttosto bravi a cominciare da Peter Finch che interpreta con finezza e misura la parte di Oscar Wilde fino a Nigel Patrick che è un Lord Queen-sberry un po’ caricaturale ma divertente, a Yvonne Mitchell, a James Mason, a John Fraser. La ricostruzione ambientale è meticolosa e ricca ma inerte. RIFLESSI IN UN OCCHIO D’ORO Secondo Carson Me Callers, autrice del romanzo Riflessi in un occhio d’oro, da cui John Huston ha ricavato questo film omonimo, i protagonisti della sua vicenda sono: “due ufficiali, un soldato, due donne, un filippino e un cavallo”. In realtà il dramma, poiché di un dramma si tratta, è soprattutto quello dell’inibito e represso capitano Penderton, marito tradito e contento (fino a un certo punto) di una bella moglie infedele, Leonora. Penderton, per esempio, sa benissimo che Leonora è l’amante del maggiore Langdon, suo amico; ma non per questo odia il maggiore, al contrario. Il fatto è, osserva a questo punto l’autrice, che Penderton ha “una triste inclinazione a innamorarsi degli amanti della moglie”. Penderton prova una inconfessabile attrazione per un giovane soldato, William. Dal canto suo William è innamorato della moglie di Penderton dal giorno che, per caso, l’ha vista, completamente nuda, salire su per la scala di casa sua. William è figlio di un pastore e ha ricevuto un’educazione puritana. Il suo amore è, perciò, quello di un voyeur timido e adorante. Ogni notte William si introduce in casa Penderton, scivola nella stanza di Leonora e la guarda mentre dorme. Non la tocca, non la sveglia, si limita a contemplarla. Intanto il capitano è sempre più invaghito di William. William rappresenta tutto ciò che il

capitano non ha: innocenza, irrazionalità, libertà, comunicazione con la natura. Per esempio cavalca nudo per i boschi, giace nudo sui tronchi, nelle radure. Il capitano un giorno prova a cavalcare la cavalla bianca della moglie, ma la bestia, ricordandosi a un tratto di essere un simbolo e precisamente il simbolo di quella stessa natura innocente che il capitano ammira tanto in William, si imbizzarrisce, trascina il capitano sanguinolento tra i rovi di una foresta. Va a finire che il capitano, pedinando William, scopre che il soldato si introduce nella camera della moglie. Il capitano “sa” (almeno così ci assicura l’autrice) che William è innocente. Tuttavia punta la rivoltella, spara, uccide il soldato. Sembrerebbe la vendetta di un marito tradito; in realtà è il delitto di un omosessuale invidioso e frustrato. Il romanzo e dunque anche il film ci riportano a una temperie culturale ormai lontana, quella che vide la “scoperta” di Melville da parte dei letterati, negli anni tra le due guerre. Ovviamente Penderton è parente strettissimo del maestro d’arme Claggart; come William lo è di Billy Budd. La cavalla, poi, è un totem che non avrebbe sfigurato in un racconto di Lawrence, altro scrittore dell’epoca. Purtroppo, però, tutti questi simboli oggi sembrano alquanto evaporati, come vecchi profumi che abbiano perduto la loro forza originaria. Così ogni volta che il simbolismo si risolve in azione (per esempio la cavalcata di Penderton e più tardi il suo delitto) avvertiamo come una specie di arbitrio. E se la cavalla non si fosse imbizzarrita? E se Penderton, scoprendo William in camera della moglie, non gli avesse sparato? Forse per raccontare una simile storia ci voleva una regia più impegnata nel recupero delle ambigue e bizzarre delicatezze e sottigliezze dello stile di Carson Mc Cullers. La quale è, in fondo, una narratrice in stile “decò” ossia 1930, come tra l’altro attesta il titolo del romanzo. Ma John Huston ha mirato ai fatti; e i fatti, come spesso avviene, l’hanno tradito. Credibili finché stanno sospesi ai limiti dell’azione, i personaggi di Riflessi in un occhio d’oro, appena agiscono cioè amano, odiano, picchiano, muoiono, uccidono, diventano incredibili e soprattutto poco interessanti. Strano a dirsi, sono dei personaggi romanzeschi che però il romanzesco travolge e rende irriconoscibili. Gli interpreti, a cominciare da Elizabeth Taylor in fase decisamente minore, sono tutti della stessa forza, cioè una buona media hollywoodiana. Soltanto Marlon Brando, anche se ingrassato, appesantito e bolso ha un gioco da grande attore. La sua interpretazione del personaggio di Penderton rimane nella memoria. PORCILE L’Italia è un paese di moralisti, basta guardare le terze pagine dei giornali e le rubriche di critica dei rotocalchi per convincersene. Ma il moralismo che altrove è bigotteria, qui è spesso solo la maschera sufficiente di un buon senso incomprensivo e smarrito. La società italiana nel suo complesso è estranea alla cultura occidentale di cui, però, pretende di far parte. Refrattaria alla tematica moderna, nasconde il suo imbarazzo dietro il moralismo. Si veda, a questo proposito, l’accoglienza, in fondo moralistica, che è stata fatta a Porcile di Pier Paolo Pasolini, al festival di Venezia, da alcuni critici e da molti spettatori. Porcile, manco a farlo apposta, è il miglior film di Pasolini dopo Accattone e La ricotta. Ma ha il torto di affrontare un tema tra i più importanti del mondo moderno: l’impossibilità per l’individuo dissenziente o anche semplicemente “diverso” di esprimersi e di vivere in società corrotte (altri dicono alienate) che creano i tabù per difendere non già la cultura (come le società primitive) ma gli interessi. Col risultato, alla fine, di sopprimere la cultura. In Porcile ci sono due storie alternate e complementari. Una delle storie si svolge nella Germania moderna; l’altra in un fiabesco paese meridionale respinto in un fiabesco Cinquecento cattolico e spagnolesco. Ovviamente quello che importa a Pasolini è il giudizio storico. Così l’astorico episodio

criminale del Cinquecento illumina “astoricamente” lo storico episodio sociale del nazismo. A sua volta questo illumina “storicamente” l’astorico episodio cinquecentesco. La domanda di fondo, poi, è pur sempre la stessa: perché il nazismo? Pasolini risponde che il nazismo c’è stato perché si debbono salvare gli interessi. A costo di diventare cannibali. Di che si tratta, insomma? Nella storia cinquecentesca, un giovane, dopo aver ucciso il proprio padre, cioè dopo essersi rivoltato contro un’istituzione fondamentale, si rifugia in desolate solitudini vulcaniche, simbolo di analoghe solitudini morali, e lì si nutre di carne umana, uccidendo dei passanti. Sarà catturato e condannato, secondo la legge del taglione, ad essere divorato a sua volta dai lupi. Nella storia contemporanea, è la società ad essere cannibale, la società nazista nutrita dei cadaveri dei lager. Il protagonista si ribella ad una simile società che permane inalterata fino ad oggi, e preferisce all’amore umano il rapporto sessuale con gli animali. Amante di una scrofa, il giovane, alla fine, viene divorato dai maiali. Il carattere unitario del film deriva soprattutto dall’incastro perfetto degli elementi che lo costituiscono. Da una parte una società tradizionale costringe il “diverso” al cannibalismo; dall’altra una società cannibalesca costringe il “diverso” alla zoofilia. In ambedue i casi quello che conta non è il carattere della società ma il fatto che ci sia una società. Quanto dire che tutte le società sono antropofaghe. Porcile non ha gli sbalzi dannunziani tra mitologia e naturalismo di Edipo Re; né le compiacenze formali e le sforzature ideologiche di Teorema. È un film coerente, ispirato, realistico. La lezione di Mizoguchi è stata utile a Pasolini per l’episodio dell’Etna; quella di Jean-Marie Straub per l’episodio tedesco. Ma si veda com’è pasoliniano il film, e del migliore Pasolini, del più lucido e del più pietoso. Il cannibalismo, qui è visto senz’ombra di morbosità, come una catastrofe morale e storica. Vien fatto di ricordare il passo di Schopenhauer: “L’ingiustizia si esprime in concreto nel modo più compiuto, più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed evidente, l’orrenda immagine del massimo contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua oggettivazione, che è l’uomo.” La stessa misura classica si nota nell’episodio nazista. Grandi ambienti storici, grande musica; ma, sotto, la orrenda antropofagia dei lager. Forse avremmo preferito che Pasolini ci raccontasse con le immagini la vita, gli amori e la morte del suo zoofilo, ricavato, se non erriamo, dalle pagine della Psychopathia Sexualis di KrafftEbing. Il cinema è audiovisivo, d’accordo. Ma a teatro il drammaturgo fa raccontare un avvenimento in quanto “non può” rappresentarlo in azione. Il cinema può. Pasolini ha saputo stimolare gli interpreti a risultati espressivi notevoli. Ricordiamo anzi tutto Pierre Clementi, un Cristo cannibale indimenticabile, e accanto a lui Alberto Lionello, Jean-Pierre Leaud, Ugo Tognazzi, tutti molto bravi; autentica rivelazione, Marco Ferreri. LONTANO DAL VIETNAM Loin du Vietnam è un film composito, a mezza strada tra il documentario e il giornalismo cinematografico di alto livello. Già i nomi dei registi (Alain Resnais, Chris Marker, Jean-Luc Godard, William Klein, Agnès Varda, Claude Lelouch) stanno a indicare che al risultato artistico è stato anteposto quello didascalico. Infatti che può esservi di comune tra un regista commerciale come Lelouch e uno di avanguardia come Godard? Che cosa se non il Vietnam, appunto, o meglio come dice il titolo, il problema di quel che sia il Vietnam per chi è lontano dal Vietnam? Questo è infatti l’argomento del film: che cosa rappresenta oggi il Vietnam per chi è lontano dal Vietnam. Si noti che l’accento è posto sul nome del paese reale, concreto e non su entità ideologiche come il neocolonialismo, il neocapitalismo, il comunismo ecc. ecc. E questo perché, nonostante le apparenze, la guerra del Vietnam non è un conflitto ideologico, come lo fu, per esempio, la guerra civile spagnola durante la quale, infatti, si parlò soprattutto di fascismo e di antifascismo. Ma allora

il Vietnam sarebbe l’ultima delle guerre di indipendenza a sfondo nazionalista? Ci troveremmo, insomma, di fronte a qualche cosa di simile alla lotta della Grecia per la cui libertà Byron andò a morire a Missolungi? A prima vista si direbbe quasi di sì. Il nazionalismo allora era europeo, oggi è asiatico, africano; era liberale, oggi è socialista. Allora di fronte alla piccola Grecia si ergeva l’impero ottomano; oggi di fronte al Vietnam si erge la superpotenza americana… Ma non è così, anzi semmai è vero il contrario. Accantonati umanitarismo e pacifismo come cose ovvie (tutti oggi sono pacifisti e umanitari, persino i generali dei marines), il problema del Vietnam non è tanto quello del diritto all’esistenza di una piccola nazione quanto del diritto all’esistenza della società umana intesa in senso globale, mondiale, planetario. In questo senso la guerra del Vietnam non è l’ultima guerra per l’indipendenza nazionale, bensì la prima (o una delle prime) per l’unificazione e l’unità di un mondo diventato ormai troppo piccolo e troppo fittamente associato e coesivo per non sentire la guerra come una lacerazione insopportabile. Nel monologo che accompagna la sua parte di film, Jean-Luc Godard dice: “Anziché invadere il Vietnam con la nostra generosità, suscitandovi confusione, dovremmo lasciare che il Vietnam invada noi.” E più avanti: “Tu puoi applicare l’appello a te stesso e creare un Vietnam in te stesso, nella tua vita quotidiana.” Ma che vuol dire questo se non che tutti nel mondo dovrebbero prendere coscienza della guerra del Vietnam come di qualche cosa che li riguarda personalmente, come cioè di una offesa recata a quella società planetaria di cui tutti ormai dovrebbero sentirsi membri? La guerra del Vietnam cent’anni fa sarebbe stata una guerra coloniale come tante. Oggi, per le reazioni impreviste che suscita dappertutto, essa si configura come una crisi del mondo, e per giunta non più a livello politico, statale, bensì esistenziale e popolare. Certo la protesta esistenziale e popolare contro la guerra potrà anche non sortire alcun effetto. Ma costituisce un precedente di cui si dovrà pur tenere conto per le guerre avvenire. Loin du Vietnam illumina con molta efficacia gli effetti della guerra nel Vietnam sia in senso individuale (come nel monologo dell’intellettuale di sinistra girato da Resnais) sia in senso collettivo (come nel documentario molto bello sulla dimostrazione contro il Pentagono). Dal punto di vista tecnico e formale il film rivela l’influenza di Jean-Luc Godard. Il precedente più importante di questo film si deve infatti considerare La chinoise, tentativo riuscito di portare sullo schermo un fondamentale dibattito ideologico e culturale. Con La chinoise Godard ha inaugurato un genere di cinema didascalico e in senso largo illustrativo che dovrebbe avere, secondo noi, un sicuro avvenire. Il cinema finora si era limitato a romanzare l’attualità. Potrebbe darsi che d’ora in poi riesca a intervenirvi in maniera attiva e diretta con il linguaggio che gli è proprio.

LA CINESE Nelle Due tensioni, il libro postumo di Elio Vittorini, si accenna più volte all’idea che la poesia sarebbe non già espressione ma informazione: “Joyce nei Dubliners, uno che si esprime; quello invece dell’Ulysses, uno che informa, che porta nuova informazione sulle cose, sugli uomini.” L’idea ci sembra giusta e fertile, ma incompleta. Ma lasciamo andare. Se, infatti, la poesia è informazione allora cos’è ciò che finora si considerava come l’informazione per eccellenza cioè il giornalismo? Diamo un esempio a favore di Vittorini. Dostoevskij prende parte a una congiura “vera”, è arrestato, processato e condannato a morte “veramente”; è portato davanti a un patibolo “vero”, e poi è graziato “veramente”; quindi passa lunghi “veri” anni in una Siberia “vera”. Da questa esperienza, Dostoevskij, come è noto, ricaverà I demoni, il romanzo della cospirazione ideologico-politica moderna. Nel romanzo di Dostoevskij noi ci troviamo di fronte ad un’informazione enorme insieme massiccia e capillare a tutti i livelli quale nessuno storico, nessun sociologo, nessuno psicologo potrebbero fornirci. Ma allora se questo è vero come crediamo che sia vero, che cos’è il giornalista, cioè l’uomo che ogni giorno ci informa dal giornale sugli eventi della vigilia? Ebbene, se il poeta è un informatore, il giornalista sarà un persuasore, un educatore, un propagandista, un divulgatore. Abbiamo dato come esempio di informazione Dostoevskij; adesso diamo come esempio di giornalismo sia pure di alto livello, cioè di divulgazione illuministica ed educativa, La chinoise di Jean-Luc Godard. La ragione per cui accostiamo La chinoise ai Demoni è semplice: Godard ha ripreso di sana pianta la storia dei cospiratori ideologici di Dostoevskij, senza affatto nascondere il prestito anzi sottolineandolo (il personaggio del suicida che si accolla il delitto si chiama sia nella Chinoise che nei Demoni, Kirillov) come appunto un bravo maestro il quale dall’alto della cattedra esponendo una teoria ne cita le fonti. Inoltre Godard, affinché non ci fossero dubbi sul suo intento illuministico, ha introdotto la macchina da presa e il ciac nel film, cioè ha fatto il film del film; ossia si è servito della vicenda dostoevskiana come di uno spillo per inchiodare, sulla tavoletta dell’entomologia illuministica, la farfalla variopinta e svolazzante del maoismo parigino. La storia di Dostoevskij gronda sangue e lagrime cioè ci informa; quella di Godard non è che un esempio fornito da un professore con gesso e lavagna. Ma un professore eccezionale, insieme, elegante, colto, allegro e intelligente. Il risultato è che dopo aver visto La chinoise, non abbiamo affatto vissuto e sofferto il maoismo, questa teoria politica di un paese poverissimo adottata con entusiasmo dalla gioventù delle nazioni più ricche del mondo; ma in compenso ci è stata deposta nell’orecchio una grossa pulce pruriginosa e sgambettante. A riprova, si veda come è predominante nel film la parte didascalica (oltre alla lezione complessiva di Godard, abbiamo due lezioni nella lezione: quella dei ragazzi che mimano in buffi modi la situazione internazionale attuale; e quella di Francis Jeanson nel treno) in confronto a quella emotiva e poetica. E come è più vera la prima della seconda. Le lezioni sono sempre interessanti, vivaci, azzeccate e chiare; ma il suicidio di Kirillov così terribile nei Demoni è ridotto all’afflosciamento di un burattino cui siano stati tagliati i fili; e il delitto, atroce in Dostoevskij, qui è condotto a tempo di balletto. Non si creda tuttavia che La chinoise non sia un bel film. È anzi uno dei film migliori di Godard, non soltanto illuministico, didascalico ed educativo in maniera violenta e brillante ma anche, secondo la definizione vittoriniana, “informativo”. Informativo su che cosa? Evidentemente non tanto sul maoismo quanto sui dibattiti di idee che si tengono con impegno e intelligenza negli ambienti intellettuali francesi. Tutti molto bravi gli attori da Anne Wiazemsky, dalla bellezza fiamminga, che è Veronica, a Jean-Pierre Léaud, a Michel Semenisko, a Leo de Bruijin, a Juliette Berto, a Francis Jeanson. La

fotografia a colori, brillante e di gusto impeccabile, è di Raoul Contard. INDOVINA CHI VIENE A CENA? Filippo Derblay (Sidney Poitier), il giovane e generoso padrone delle ferriere di Ponte-Avesne che deve la propria posizione accademica e sociale unicamente alla sua intelligenza e alla sua attività, ama la bella e orgogliosa discendente di una delle più nobili famiglie del luogo, la marchesina Clara di Beaulieu (Katharine Houghton). Anche Clara ama Filippo, ma la madre (Katharine Hepburn) e il padre (Spencer Tracy) accolgono, a tutta prima, glacialmente i due fidanzati. La madre non riesce a nascondere un moto involontario, ancestrale e fisiologico, di orrore di fronte al colore nero della pelle di Filippo. Quanto al padre che, pure, è sempre stato uomo di opinioni “liberali” e dirige un giornale, appunto, “liberale”, dove ha sempre difeso i diritti dei borghesi nei confronti della altezzosa classe nobile, messo di fronte al fatto compiuto delle nozze imminenti tra sua figlia e un negro, non può impedirsi dal fare marcia indietro, non soltanto perché il pregiudizio razziale che ignorava di condividere, insorge, imprevisto, in lui; ma anche perché soppesa freddamente le immense difficoltà cui andrà incontro la coppia in una società come quella americana. Per fortuna, il padrone delle ferriere ha tutte le qualità: è bello, alto, robusto; è un medico specializzato in malattie tropicali già celebre a trentacinque anni, carico di onori accademici e di riconoscimenti ufficiali; è modesto, ragionevole, generoso e leale; è un self-made man con un padre che esercita l’umile anche se onorato mestiere del postino; infine, che non guasta, condivide le convinzioni, i costumi e anche i pregiudizi della classe di cui, grazie al suo matrimonio, si accinge a far parte. Altro elemento favorevole: il padre Ryan, un prete cattolico amico di famiglia, convocato d’urgenza, assicura ai due genitori che ha già celebrato innumerevoli matrimoni misti, tra uomini di umili origini borghesi e ragazze nobili; e che questi matrimoni fondati sull’amore, nonostante il diverso colore delle pelli sono quelli che riescono meglio. La prima a cedere è la madre: come tutte le donne, essa sente che l’amore deve trionfare, qualunque sia la pigmentazione dell’epidermide dello sposo o della sposa. Decisa e coraggiosa, si schiera a fianco della figlia. Ma il padre, pur dopo aver fatto una sua piccola inchiesta sulla consistenza finanziaria e sui titoli accademici del dottor Smithson (cioè di Filippo) e aver trovato che così l’una come gli altri sono eccellenti, non vorrebbe mollare. Egli non riesce a rassegnarsi all’idea che sua figlia, la marchesina Clara di Beaulieu diventi la moglie di un negro. A peggiorare la situazione, ecco, piombano, invitati da Clara, i genitori di Smithson. Entrambi di umilissime origini sociali, lui postino, lei cuoca, entrambi di pelle nerissima. Quest’arrivo, però, alla fine, si rivela un elemento positivo. I due padri, il postino e il direttore di giornale, scoprono di avere molte cose in comune, a cominciare dal razzismo (anche il postino, come il direttore del giornale, pensa che i negri debbono stare al loro posto); d’altra parte le due madri, in nome dell’amore, caldeggiano le nozze. E così tutto finirà bene cioè con un matrimonio. E il padre non soltanto darà il suo consenso, ma pronunzierà un pistolotto finale nel quale esorterà gli americani a superare una buona volta il pregiudizio razziale. Cielo! Ma cos’è questo guazzabuglio? Cosa succede? Chissà perché abbiamo confuso la storia di Indovina chi viene a cena? film antirazzista di Stanley Kramer, con quella di Il padrone delle Ferriere, il famoso romanzo di George Ohnet pubblicato in Francia nel 1883. Nel film di Kramer un negro primo della classe riesce a sposare una ragazza bianca; nel romanzo di George Ohnet, invece, la storia è tutta diversa: un borghese, anche lui primo della classe, riesce a sposare una ragazza nobile. Ma dopo tutto, a ripensarci, le due vicende non sono così diverse e tanto vale lasciare la confusione. La quale, poi, si può spiegare in questo modo: la borghesia americana vedrebbe e tratterebbe i negri nel 1967 come i nobili in Francia vedevano e trattavano i borghesi nel 1883. Niente, dunque, sarebbe cambiato: il negro, come il borghese, dovrebbe limitarsi a fare anticamera e

a presentare carte più che in regola ivi compreso il pregiudizio razziale. Se le cose avvenissero davvero nella realtà come in questo film sentimentale e edificante di Kramer, questo vorrebbe dire che la middle-class americana non è razzista, è soltanto un po’ conservatrice e formalista. Ma noi sappiamo che non è così, come dimostrano le rivolte nei ghetti degli anni scorsi. Allora bisogna inferirne che sono gli sceneggiatori e i registi di Hollywood a prendere a modello George Ohnet. La middle-class ha letto Gobineau. PLAYTIME Playtime, l’ultimo film di Jacques Tati non è forse il suo migliore; ma probabilmente è quello nel quale si rivelano meglio i caratteri fondamentali del regista francese. Playtime racconta in sostanza la giornata di un turista. O meglio due giornate perché si comincia al mattino e quindi, di scorcio, abbiamo anche il giorno dopo, dall’alba alla notte. In queste due giornate che fa il protagonista cioè Tati? Egli cerca di “fare qualche cosa” senza tuttavia riuscirvi. Ma perché non vi riesce? Qui sta il punto: non vi riesce perché egli tenta di “fare le cose” come individuo; e invece il mondo moderno è ormai organizzato in modo che le cose le fanno soltanto i gruppi, le masse, le collettività (quando le fanno). L’individuo, nel mondo di massa, è impotente. Il film, in fondo, è basato su due sole trovate o temi: nel primo tempo, Tati si aggira per le sale, i corridoi, gli ascensori, gli uffici, gli “stand” e le esposizioni di un grattacielo-emporio nel quale tutto è funzionale ed efficiente. Nel secondo tempo, egli si trova coinvolto per caso nell’inaugurazione di un ristorante di lusso nel quale tutto è inefficiente e non funzionale. In altri termini, abbiamo il mondo moderno con le sue due sole facce: l’efficienza e l’inefficienza. Ora la comicità di questa descrizione del mondo moderno sta nel fatto che così l’efficienza come l’inefficienza non riguardano l’individuo, il singolo, la persona umana, bensì il gruppo, la massa. Così Tati si trova spaesato allo stesso modo tra congegni che funzionano e congegni che non funzionano, in quanto questi congegni, in tutti i casi, non sono fatti per lui. Ma da che parte sta Tati? A prima vista si direbbe dalla parte dell’individualismo piccoloborghese, personalistico, artigianale. Senonché, basta ricordare Les vacances de Monsieur Hulot per capire che non è così. In quel suo primo film, il mondo piccolo-borghese e personalistico era preso di mira con anche maggiore crudeltà e felicità del mondo di masse di questo Playtime. Dunque Tati non è per il mondo di ieri contro il mondo di oggi. Semplicemente è un anarchico bonario e ingegnoso avverso a qualsiasi società, così quella fatta per la persona come quella fatta per la massa. Grazie a una sua curiosa facoltà contemplativa ed estraniante, Tati immobilizza il congegno sociale nel momento dell’assurdità. I mezzi di cui si vale per quest’operazione cambiano secondo le società. La società personalistica è mostrata nel momento in cui la personalità si rivela come nient’altro che un’accozzaglia di tic, di manie e di idiosincrasie; quella di massa nel momento in cui la grande macchina collettiva s’inceppa. Animato da anarchico spirito di contraddizione, Tati critica la civiltà personalistica dal punto di vista dell’efficienza propria della civiltà di massa; e questa dal punto di vista del rispetto umano proprio della civiltà personalistica. La comicità di Tati in questo Playtime scaturisce soprattutto dall’osservazione realistica del continuo paradosso nel quale si sono abituati a vivere gli abitanti della città moderna. Per esempio: le automobili sono mezzi di trasporto notoriamente veloci e rumorosi. Ma nella Parigi di Tati il traffico è una specie di sogno o meglio di incubo angoscioso nel quale migliaia di potenti macchine avanzano silenziosamente e al passo. Oppure è il ristorante nel quale si va per mangiare ma dove, a causa della confusione, non si mangia. Oppure ancora sono i sistemi di segni (il mondo di Tati è fatto di segni, la parola è assente) di tutti i generi, acustici, visivi, tattili, che si affannano a trasmettere messaggi incomprensibili o, nel caso migliore, interpretati erroneamente. Il mondo moderno è funzionale ed efficiente per definizione. Ma niente vi è veramente funzionale e niente vi

è veramente efficiente. Playtime ha due difetti che bisogna pur notare. In primo luogo non vi sono che due sole trovate, una per ciascuna metà del film, le quali risultano alla fine troppo ripetute e tirate in lungo. Il secondo è che Tati sempre presente nel primo tempo, scompare quasi nel secondo. Ora la comicità dei film di Tati deriva in buona parte da lui, dalla sua figura così caratteristica e originale di spilungone rigido, cerimonioso e troppo bene educato. IL GRAN MEAULNES Il Gran Meaulnes di Henri-Alain Fournier è di solito chiamato un classico minore; che è una definizione che spiega poco o niente. In realtà, si tratta di un libro nel quale una bravura letteraria consumata è stata messa a profitto per esprimere qualche cosa di assai reale anche se evanescente e quasi ineffabile: la capacità propria degli adolescenti di deformare miticamente il loro rapporto con il mondo. I bambini evidentemente hanno pure loro questa capacità e forse in misura anche maggiore. Ma essa non va senza una certa quale incoscienza e passività; mentre nell’adolescente c’è già l’ombra della consapevolezza. L’adolescente si guarda vivere e sa di vivere; il bambino, no. E il bambino ignora che certe esperienze non si ripeteranno per lui mai più nello stesso modo; l’adolescente, invece, lo sospetta. Per questo le rappresentazioni immaginose e mitiche dell’adolescenza sono sempre come velate di anticipata nostalgia e di angosciosa apprensione. Henri-Alain Fournier queste cose le sapeva benissimo. Ma nel suo libro, scritto poco prima della diffusione della psicanalisi, egli cerca di recuperare la psicologia dell’adolescenza non già con lo strumento classico ma ormai logoro dell’analisi tradizionale bensì con i mezzi della buona letteratura. Qualche anno dopo Freud sarebbe venuto a gettare una luce cruda e salutare sull’inconscio e l’operazione decadentistica di Fournier sarebbe stata impossibile. Il Gran Meaulnes è un repertorio di prestiti letterari assai diversi: da Laforgue a Verlaine, da Rimbaud a James. Senza dimenticare Flaubert, che può avere suggerito a Fournier l’idea di una educazione sentimentale estetizzante e fantastica. Il Gran Meaulnes è iscritto in stile “decò”, quello stesso che poi ritroveremo nelle pagine di Radiguet, di Giraudoux, di Cocteau. La provincia francese sentita con autenticità sembra essere il contrappeso realistico a tanta letteratura. Jean-Gabriel Albicocco ha voluto ricavare un film da questo libro ambiguo, sospeso tra i buoni sentimenti e l’immaginazione decadente. Albicocco è un virtuoso, ma non al modo di Fournier il quale era sì un estenuato letterato ma aveva qualche cosa da dire sull’adolescenza, sulla provincia e sul mito. Albicocco invece ha da dire qualche cosa soltanto sul mezzo di cui si serve per dire qualche cosa. Così là dove il virtuosismo cinematografico poteva trovare qualche appiglio nel virtuosismo letterario, Albicocco ha saputo trascrivere il romanzo in chiave di compiacimento stilistico; altrove è caduto nel naturalismo. Ma non già un naturalismo umanistico di osservazione e di sentimento, come nel libro; bensì di tecnica, di linguaggio. Nel libro di Alain Fournier l’elemento catalizzatore di tutta la vicenda è la festa offerta da due ragazzi a una folla di invitati loro coetanei, in un castello caduto in abbandono, mezzo diroccato e pieno di stracci, di polvere e di ragnatele. Alain Fournier ha voluto simboleggiare con la festa al castello l’età irripetibile dell’adolescenza così meravigliosa e così breve? Forse, no; ma il senso è pur questo. Albicocco, aiutato dal padre, Quinto Albicocco, prestigioso operatore, ci ha dato una festa piena di bagliori, di scintillii, di brume, di chiazze vivaci di colori, di apparizioni stregate, di indistinte presenze. La macchina da presa in questa sequenza riesce alla fine a dire quello che, sia pure in tutt’altro stile, il romanzo aveva voluto suggerire. Ma Albicocco non va nel profondo, come tutti i virtuosi; dopo i superficiali e un po’ stucchevoli splendori della festa, nelle parti, diciamo così, normalmente narrative, egli cade in una resa naturalistica priva di novità. È vero, il romanzo ha un suo sentimentalismo tutto fatto di sospensioni, di puntini, di sospiri, di pause, di languori. Ma

si tratta pur sempre di procedimenti letterari. Il film di Albicocco è invece spesso realmente sentimentale, senza filtri intellettualistici. Albicocco ha trovato un interprete eccezionale, per la parte del protagonista, in Jean Blaise. Questo giovane attore ha un volto molto sensibile ed espressivo, adattissimo al carattere intenso e ingenuo del personaggio di Meaulnes. Accanto a lui, Brigitte Fossey, vezzosa e leziosa quanto basta, è un’efficace Yvonne de Galais. TRENI STRETTAMENTE SORVEGLIATI Treni strettamente sorvegliati, film cecoslovacco di Jiri Menzel, deve il suo interesse al fatto che sotto apparenze scherzose, di un umorismo garbato e si vorrebbe dire “viennese”, esso racconta in realtà la storia di un rito di iniziazione insieme sessuale e civica. Il protagonista è un giovanissimo funzionario delle ferrovie, in una stazioncina provinciale, negli anni dell’occupazione nazista. Il dramma di questo ragazzo sensibile e timido è scritto chiaramente nella sua figura e cioè nel contrasto quasi comico tra l’uniforme di tipo militare, rigida e goffa e il kepì enorme che gli scende sulle orecchie, e la sua persona meschina, la sua faccia allampanata e angosciata. A dirla in breve, il piccolo ferroviere è convinto di non essere come gli altri, ossia di essere impotente o almeno così inibito da risultare, in pratica, impotente. Come si fa a disfarsi della propria verginità? Che cosa si fa con una donna? Queste cose il ragazzo le sa e non le sa o meglio, pur sapendole, non riesce a farle. Il pensiero non si tramuta in pratica; l’intenzione non si trasforma in azione. Alla fine disperato, dopo un ultimo scacco, l’adolescente timido decide di uccidersi: incastra nella fenditura di un tavolo un rasoio, preme il polso sopra la lama e quindi, alla maniera degli antichi romani, s’immerge in un bagno bollente. Salvato in extremis il ragazzo torna alla stazione e lì, sempre più ossessionato dalla propria inibizione, cerca di sormontarla in una maniera nuova, cioè non da solo ma facendosi aiutare dagli altri. Confida il suo problema a diverse persone e riceve pur sempre risposte evasive e canzonatorie; ma alla fine trova comprensione nel suo diretto superiore, un ferroviere giovane e di bell’aspetto, grande donnaiolo e al tempo stesso, a quanto pare, membro di un’organizzazione clandestina antinazista. Il ferroviere proprio in quei giorni ha messo a punto un complotto: si tratta di far saltare un treno carico di munizioni. Ecco, arriva alla stazione, inviata dall’organizzazione, una donna non più giovane ma ancora bella. Porta la bomba a orologeria per l’attentato. Il ferroviere le mormora qualche cosa all’orecchio, quindi le spinge tra le braccia il ragazzo. Tutto va benissimo questa volta: maternamente, la donna inizia il ragazzo al mistero del sesso; a sua volta, il superiore lo inizia alla vita civile. Il ragazzo non è più vergine e dovrà provvedere a far cascare la bomba sul treno di munizioni nel momento che passa per la stazione, dall’alto della piattaforma degli scambi. Il ragazzo, ormai uomo, esegue con coraggio l’incarico. Ma la leva dello scambio, abbassandosi, lo colpisce e lo fa cadere accanto alla bomba. Egli perirà; ma non prima di essere diventato un uomo davvero, nel senso completo della parola. Si tratta di un film, come abbiamo notato, che ha una superficie scherzosa e leggera e un fondo serio. Jiri Menzel ha spinto il personaggio fino ai limiti della caricatura; e tuttavia l’impressione dello spettatore è di avere assistito a un dramma, sia pure travestito da commedia. Ma forse la cosa più notevole del film, specie se si pensa che è stato girato in un paese di osservanza marxista, è il riconoscimento implicito dell’importanza fondamentale dell’elemento sessuale e l’abile e intelligente fusione di questo elemento con quello politico. Si agisce nel sesso come nella rivolta antinazista: interi e per amore. L’essersi impadronito con chiarezza del tema di fondo ha permesso al regista di intrecciare la commedia al dramma e di smussare e dissimulare in parte la tragicità ormai troppe volte additata e descritta degli eventi storici. Persino le lugubri sinistre SS sono meno burattinesche del solito, acquistano una certa umanità. La regia è lenta, piena di silenzi e di indugi, lo stile ha qualche cosa di espressionistico, come a indicare un rapporto con la realtà che oltrepassa

la storia e i suoi significati più immediati. Gli interpreti sono molto bravi. Il regista ha voluto metterli di fronte all’obbiettivo come presenze umane piuttosto che come personaggi e ha trovato in loro una rispondenza esemplare. Il protagonista è Vasciav Nechar. Accanto a lui bisogna ricordare Ilitka Bendova. TEOREMA Un giovane misterioso quanto avvenente, annunziato con capriole e danze da un lieto postino, “visita” una famiglia borghese in una città della Lombardia. La famiglia “visitata” è quella che si chiama di solito una famiglia “normale”, intendendo per normalità il modo di intendere la vita proprio della classe media. La visita del giovane sconvolge questa “normalità” o meglio ne rivela il carattere fittizio. Il giovane, pieno di compassione e di leggerezza, fa l’amore con tutti i membri della famiglia: con la domestica, con il figlio, con la figlia, con la madre, con il padre. Fa l’amore cioè soddisfa la finora ignorata sete d’amore dei cinque personaggi. Ma, ecco, torna il postino saltabeccante e caprioleggiante. Un telegramma fa partire il giovane. La sua partenza provoca il crollo della famiglia. La domestica, avvertendo, con sicuro istinto contadino, il carattere sovrumano del visitatore, se ne torna al paese, diventa una specie di santa, fa dei miracoli, finisce per immolarsi a favore dell’umanità industriale, lasciandosi seppellire nella voragine di uno sterro da una scavatrice. Il ragazzo, che è pittore, deraglia completamente in direzione della più velleitaria sterilità mascherata da arte di avanguardia. La figlia piomba in una irrigidita immobilità catatonica e viene trasportata in una clinica per malattie mentali. La madre si scopre ninfomane e va a caccia di uomini. Infine il padre, dopo essersi spogliato della propria fabbrica a favore degli operai, si spoglia letteralmente e corre ignudo, urlando il suo dolore, per le lave atrocemente buie e morte di un pendio vulcanico. Pier Paolo Pasolini, come già in Edipo Re, ha voluto raccontarci la fiaba del miracolo che si verifica nel dissacrato mondo moderno. Il giovane misterioso è un dio; e il film racconta il miracolo dell’apparizione di un dio nella vita dei mortali. Ma che dio è il dio di Pasolini? A prima vista si penserebbe a una resurrezione decadentistica del pagano dio Amore; ma gli effetti della “visita” smentiscono questa ipotesi. Il sesso in Teorema è un mezzo, non un fine. In altri termini in Teorema il sesso è un modo di rapporto con la realtà; tanto è vero che l’effetto della scomparsa del dio è di fare impazzire i membri della famiglia, di far loro smarrire il rapporto con il reale. Si dovrebbe dunque arguire che il dio di Pasolini è un dio psicanalitico-marxista la cui partenza scatena, infatti, le furie dell’alienazione sociale e della derealizzazione psicotica. D’altra parte, egli ha fatto una curiosa e significativa operazione: ci ha presentato, condensata nello spazio di pochi giorni, una vicenda che, storicamente, si è svolta per l’arco di parecchi secoli. Dio se n’è andato via da un pezzo; la famiglia di Pasolini è stata abbandonata da Dio già da alcune centinaia di anni. Ma Pasolini si è messo fuori della storia, nel clima, come abbiamo già accennato, della favola. Con Teorema, Pier Paolo Pasolini ha fatto il suo film se non più impetuoso, certo più rigoroso, più essenziale, più coerente e più spoglio. Sono stati fatti i nomi di Antonioni, di Bresson, di Bergman; ma sono indicazioni di comodo per definire uno sviluppo assolutamente originale dell’autore di Accattone. Teorema è un film del tutto pasoliniano così nello stile raffinatamente e giustamente manieristico come nel tema ambiguamente oscillante tra il tremore religioso e quello sessuale. Si potrebbe dire, a questo punto, che la visita del dio nasconde più che non spiega le determinazioni oggettive del crollo della famiglia. In altri termini, se è vero, come crediamo che sia vero, che la visione del mondo nell’opera d’arte è un prestito che la società fa alla sensibilità dell’artista, si potrebbe dire che Pasolini, in questo film, ha espresso l’aspirazione oggi diffusa a una proiezione della crisi storica sul piano religioso. Ma sarebbe, crediamo, poco illuminante: un artista va giudicato sui risultati. I quali, come abbiamo detto, sono ampiamente positivi. Oltre agli sfondi

della campagna lombarda, tutti bellissimi, bisogna soprattutto ricordare le sequenze, nella prima parte, degli incontri del dio con la domestica e poi con la figlia; nella seconda, la disperazione dell’artista e quella della madre. Il motivo della lava dell’Etna che si alterna agli episodi, conferma il carattere poetico del film. Pasolini, come non ha voluto essere narratore naturalistico nel romanzo, così ha saputo non esserlo nel film. L’interpretazione, molto difficile in un simile film privo di motivazioni psicologiche, è ottima. Terence Stamp è un giovane dio dai felici atteggiamenti rinascimentali; Laura Betti ci dà con notevole efficacia il senso della religiosità rustica; Anne Wiazemsky sembra uscita da un quadro di Vermeer; Andrés José Cruz è un artista velleitario molto convincente; Silvana Mangano e Massimo Girotti formano una coppia neocapitalista piena di verità. TRE PASSI NEL DELIRIO Edgar Allan Poe sembrerebbe un autore assai adatto a essere tradotto in cinema; invece non lo è, e quasi tutti i film ricavati dai suoi racconti sono dei fallimenti. Poe trae in inganno con le sue invenzioni vistose e il suo stile truccato, falsamente neoclassico e scientifico; in realtà non andrebbe mai preso alla lettera ma letto in filigrana in senso psicologico e, ancor meglio, psicanalitico. Ricordiamo a questo proposito l’interpretazione in chiave freudiana della poesia Ulalume fornita da Marie Bonaparte. Il testo oscuro e simbolico era illuminato dalla definizione della necrofilia di Poe insolitamente alleata al complesso di Edipo (in sostanza: avrebbe voluto far l’amore con il cadavere della propria madre morta precocemente). Ora cosa aggiungeva a quella poesia la chiave fornita dalla Bonaparte? Vi aggiungeva l’idea che l’originalità di Poe non stava tanto nelle sue qualità letterarie quanto in qualche cosa di mostruoso, di unico, di “pratico” che in qualche modo aveva trovato espressione nella letteratura anziché nella vita. Tutto questo per dire che in Tre passi nel delirio, film ricavato da tre racconti di Poe da tre registi e cioè rispettivamente Metzengerstein di Roger Vadim, William Wilson di Louis Malie e Toby Dammit di Federico Fellini, il solo che abbia, secondo noi, visto giusto, è il terzo. Gli altri due, con assoluta sprovvedutezza Vadim, con qualche efficacia artigianale Malie, hanno preso sul serio la superficie stilistico-fantastica di Poe. Il risultato è stato due film che non rassomigliano né a Vadim e a Malie né a Poe. Metzengerstein è la storia di un’applicazione della legge del taglione, trasferita, però, con un procedimento consueto in Poe, dalla realtà alla coscienza. Il giovane barone Metzengerstein dà fuoco alle stalle del suo vicino e nemico, il conte Berlifitzing. Nell’incendio periscono il conte e i suoi cavalli. Ebbene, Metzengerstein perirà a sua volta nello stesso modo. Un incendio divorerà il suo palazzo; un misterioso cavallo nero lo trascinerà a morire tra le fiamme. Abbiamo detto che tutto avviene nella coscienza di Metzengerstein. Infatti il cavallo è una personificazione del rimorso. Ma che rimane di tutto questo nel film di Vadim? Niente. Tutto vi è letterale ed esteriore; per giunta il protagonista diventa una donna, interpretata da Jane Fonda con risultati assolutamente modesti. William Wilson è un Doctor Jekyll e Mister Hyde puramente psicologico. Nel libro di Stevenson, il protagonista si sdoppia; nel racconto di Poe, due personaggi si identificano. In realtà, secondo una tipica concezione puritana, si tratta di un uomo alle prese con il senso di colpa. William Wilson passa da un delitto all’altro; la sua coscienza, in forma di un sosia che ha il suo stesso nome, non cessa di rimproverarlo e di smascherarlo. Va a finire che Wilson, esasperato, uccide la propria coscienza. Ma uccidendola, uccide se stesso, perché, secondo Poe, gli uomini esistono in quanto sono coscienti. Questo concetto pascaliano sembra essere sfuggito a Malie, che non è riuscito a dare al sosia di Wilson il carattere intimamente antagonistico che ha nel racconto di Poe. Alain Delon se la cava alla meglio. Brigitte Bardot c’entra come i cavoli a merenda.

La genialità di Federico Fellini si riscontra soprattutto nel fatto che “ha mancato di rispetto” a Poe. Non soltanto non l’ha preso alla lettera ed è andato fino in fondo al problema psicologico della scommessa empia e faustiana; ma anche, con autentica invenzione, ha trasferito la vicenda ai tempi nostri, introducendovi l’elemento oggi tipico di ogni scommessa empia: la macchina. L’episodio di Poe che si chiama Mai scommettere la testa col diavolo racconta di un certo Toby Dammit che letteralmente scommette la testa con il diavolo (un vecchietto zoppo, con uno strano grembiale di seta) e la perde, rimanendo decapitato in un salto pericoloso. Nel film di Fellini, Toby Dammit è un famoso attore inglese chiamato a Roma da un produttore italiano. Toby è un dipsomane allucinato; vede continuamente il diavolo in forma di bambina che gioca con un pallone. A Roma, dopo aver partecipato a una grottesca festa nell’ambiente del cinema, Toby scappa su una potente Ferrari, dono del produttore. La bambina col pallone l’attira, in una corsa pazza, fino al ponte crollato dell’Ariccia. Toby “scommette” con il diavolo di far volare la Ferrari dall’altra parte della voragine ma rimane decapitato da un fil di ferro invisibile teso attraverso il ponte. Fellini ha saputo creare una storia originale e completa che va molto al di là del mediocre raccontino di Poe. C’è una Roma infernale, dai colori mafaiani; c’è il mondo del cinema coi suoi mostri e la sua atmosfera mostruosa; ci sono infine la sensibilità e la disperazione di un artista rivoltato e impotente ottimamente impersonato da Terence Stamp in una delle sue interpretazioni migliori. POOR COW Poor cow (povera vacca) film inglese di Kenneth Loach racconta la storia di una “poveraccia” o “povera diavola” che dir si voglia; ma nel titolo inglese la parola “cow” ha un significato che in italiano si perde e che, in realtà, fornisce la chiave per capire il film. Di che si tratta, comunque? Si tratta di Joy, una ragazza del popolo, di umile estrazione, ineducata (parla cockney cioè il dialetto di Londra), ma dal fisico piacevole e attraente, che comincia con lo sposare un poco di buono, Tom, da cui ha un figlio. Tom la maltratta, è crudele e cattivo con lei; poi organizza un “colpo” con altri malfattori e viene arrestato. Joy non lo rimpiange troppo, lo tradisce con un altro membro della banda, Dave. È il grande amore della sua vita; lei stessa non saprebbe dire perché è un grande amore; è una fatalità biologica: ogni vita ha il suo grande amore. Dave, che è un ladro come il marito, fa una rapina in casa di una vecchia signora e si becca dodici anni di prigione; Joy gli rimane fedele, almeno con il cuore, e lo visita regolarmente in carcere. Intanto per mantenere se stessa e il figlio, lavora da barista e fa del “modeling” ossia posa seminuda per fotografie audaci. Pur amando o credendo di amare Dave, Joy ha degli amanti occasionali; ne ha bisogno, come lei stessa confessa. Alla fine rispunta il marito. Joy l’accoglie malissimo; ma poi si rassegna facilmente, in attesa che Dave esca dal carcere, tanto più che il marito ha un appartamento un po’ meglio del suo. La morale della favola? La felicità non esiste. Però avere un bambino, un uomo, un appartamento di due stanze con il televisore e, magari, una piccola utilitaria è pur sempre qualche cosa. Verrebbe quasi fatto di pensare a una specie di Moll Flanders; ma Joy non ha la durezza ambiziosa e puritana del personaggio di De Foe. È semplicemente un amabile animale. Perché è amabile l’animalità di Joy? Perché Joy è davvero soltanto una “povera vacca”, cioè una donna che d’istinto si mette fuori della società o per lo meno all’ultimo gradino. Ma come fa Joy a mettersi fuori della società e a rimanerci con tanta facilità? A causa della sua forte animalità. Come si vede, il personaggio di Joy è circolare; e pur sotto l’apparenza di una spontaneità e imprevedibilità, diciamo così, “naturalistiche” cioè tradizionali, ubbidisce invece a un meccanismo prevedibile e sempre eguale, sensibilmente più moderno. Joy è, insomma, un tipico personaggio esistenzialista la cui adesione alla vita, apparentemente così spensierata e così allegra, cela l’angoscia della contraddizione tra essere ed esistere. Alla domanda: come si fa a risolvere il contrasto tra storia e

natura, il film risponde che è molto semplice: buttandosi completamente dalla parte della natura; ignorando altrettanto completamente la storia. Ma il regista, lui, non ignora la storia e ce la mostra nell’alienazione dell’ambiente sociale, nella degradazione della vita quotidiana. Joy rappresenta, dunque, con la sua amoralità esistenziale il contrario amabile e affascinante del moralismo “storico”. Questo rapporto dialettico, tra la “natura” di Joy e la “storia” del mondo, costituisce l’originalità del film e consente al regista di ottenere degli ottimi risultati così nel ritratto affettuoso e ironico della protagonista come nell’illustrazione assai autentica di un’Inghilterra proletaria, sordida e depressa. In quest’ultima accezione il film ricorda un poco Sabato sera, domenica mattina e altri film analoghi che da ultimo hanno rivelato un realismo cinematografico inglese ben diverso da quello continentale e americano. L’interpretazione di Carol White è eccellente non soltanto per l’aderenza al dato psicologico ma anche e soprattutto per la simpatia con la quale l’attrice si è identificata col personaggio. Accanto a lei, Terence Stamp appare in tono minore, in una parte generica di uomo avvenente e molto amato. FALSTAFF Falstaff è un personaggio doppiamente vitale. Alla vitalità estetica propria dell’arte, si aggiunge in lui la vitalità contenutista del carattere. Egli è il personaggio vitale per eccellenza cioè composto di tutti i luoghi comuni che riguardano la vitalità, così che di fronte a lui si prova l’imbarazzo che ispira ogni convenzione universalmente accettata. Vien fatto di domandarsi se ancora oggi la vitalità può consistere nel bere e mangiare molto, nel non avere scrupoli né rimorsi, barare al gioco, gozzovigliare e dormire. Cioè in un’animalità che riesca a essere umana senza perdere niente dell’originaria innocenza. Per fortuna non è così; Falstaff non è solo un personaggio di per sé vitale. Egli è soprattutto un personaggio visto con simpatia da uno scrittore vitale. Qualcuno ha detto che il valore dell’arte si riconosce nella sua capacità di elevare il tasso di vitalità del fruitore. È vero; spesso, dopo aver riso tutta la sera al cinema a un film comico, usciamo depressi: era un brutto film. Falstaff è vitale, insomma, perché l’artista che l’ha creato lo era in sommo grado. Tuttavia quando è stato detto che Shakespeare sapeva infondere vitalità nei suoi personaggi non si è ancora detto niente. In realtà Shakespeare ha saputo mettere Falstaff in un rapporto dialettico prima di tutto con se stesso e poi con il principe Harry. Soldati fanfaroni, cinici e corrotti ce ne sono quanti se ne vuole nella commedia classica (per esempio il plautino Pirgopolinice) ma il miles gloriosus dell’antichità non sapeva di essere un miles gloriosus o almeno il fatto di esserlo non diventava elemento drammatico. Falstaff invece lo sa molto bene; e così, in quella enorme botte di lardo, guizza a momenti la luce torbida di una consapevolezza amletica. Shakespeare, per farcelo meglio capire, ricorre a quello che oggi si chiama il teatro nel teatro, cioè fa in modo che Falstaff finga di essere il re Enrico Quarto, padre del principe Harry, e lodi quest’ultimo perché frequenta Falstaff: “brav’uomo, di bella presenza, dall’aspetto allegro, dall’occhio piacente, dal portamento assai nobile”; e che invece il principe interpreti anche lui la stessa parte ma in senso contrario, accusando Harry di farsela con Falstaff, descritto come: “vecchio grassone… botte d’uomo… cassa di umori… fagotto di idropisia… valigione stipato di budelle” e così via. In questo modo alla malafede di Falstaff, che afferma di essere quello che non è, fa riscontro la malafede del principe che invece afferma che Falstaff è quello che è. C’è, insomma, un rapporto assai strano e moderno tra il principe e Falstaff; esso rivela il carattere conservatore e aristocratico di Shakespeare: il principe può gozzovigliare impunemente tanto rimane sempre un principe; Falstaff, no, la gozzoviglia lo fa diventare abbietto perché è un poveraccio. Come è noto, questo rapporto tra padrone e servitore, ha ispirato a Dostoevskij, nel romanzo I demoni, l’analogo rapporto tra il “superuomo” (ossia principe) Stavroguin, cui tutto è permesso, e il “servo” (ossia poveraccio) Verkovenski immerso senza

rimedio nella propria inferiorità. Orson Welles per questo Falstaff si è servito soprattutto dei due Enrico Quarto; poco o nulla delle Allegre comari di Windsor. Orson Welles non ha voluto o potuto scavare molto nel rapporto fondamentale tra il principe e Falstaff; nel complesso ha rispettato la tradizione shakespeariana. Invece nel rapporto di Falstaff con se stesso ha tratteggiato con maestria la figura di un uomo corrotto che sa di esserlo e ne soffre. Probabilmente è una questione di interpretazione: Orson Welles, che interpreta la parte di Falstaff, è un attore di grandi qualità; Alan Webb, cui è stato affidato il ruolo del principe Harry, non manca di bravura ma ha un gioco espressivo limitato. Se di fronte a Welles ci fosse stato un attore di eguale levatura, il rapporto tra Falstaff e il principe si sarebbe articolato in maniera moderna, come quella cosa angosciosa che è. Bisognava insomma andare oltre Shakespeare. Questo non è stato fatto; anzi la parte del re Enrico Quarto affidata al noioso e ineccepibile John Gielgud conferma il rispetto della tradizione. Ma Orson Welles è pur sempre un prestigioso regista. La sua battaglia ripresa con una fotografia grezza e montata con astuzia ha toni epici che ricordano il cinema giapponese e beffardi che evocano certi scorci di Rossellini nel San Francesco. Welles respinge i personaggi in lontananze sfocate; mette in primo piano navate scenografiche di cattedrali, sale di taverne quasi da opera; non nasconde, insomma, il teatro, anzi lo sottolinea evitando così, per fortuna, ogni effetto naturalistico. Molto bravo nella parte del protagonista, egli sa chiudere il film con una scena significativa: mentre l’enorme bara di Falstaff viene trasportata via, una voce fuori campo pronunzia l’elogio del nuovo re Enrico Quinto. UN UOMO A NUDO Un vento allegorico soffia da qualche tempo sul cinema e non soltanto sul cinema. L’allegoria sembra essere figlia dell’alienazione sociale ed economica; il fatto che ci sono state epoche intere completamente alienate e di conseguenza allegorizzanti, con risultati artistici spesso altissimi, fornisce una smentita al marxismo volgare secondo il quale l’alienazione non può non produrre un’arte inferiore. Per esempio Kafka rispecchia con le sue allegorie oscure l’estrema alienazione tedesca alla vigilia dei campi di sterminio. S’intende che il livello artistico è un fatto individuale e non ha niente a che fare con la determinazione sociale; ma il grado di chiusura dell’allegoria, quello sì, deriva dal grado di chiusura della alienazione. Recentemente, in Teorema di Pier Paolo Pasolini, il rapporto tra alienazione sociale e allegoria era dei più scoperti e significativi. Non siamo ancora alla chiusura totale di Kafka; ma non ci manca molto. In questo film di Frank Perry, Un uomo a nudo, il protagonista ricorda per molti aspetti uno dei personaggi, appunto di Teorema: il padre, l’industriale reso quasi pazzo dall’alienazione. Il film racconta con modi allegorici la storia di un certo Ned Merrill, uomo d’affari in crisi. Ned Merrill, a quanto pare, è stato lontano alcuni anni dal suo ambiente. Eccolo, adesso, che torna a casa, alla moglie e alle figlie. Ritorna in costume da bagno, cioè spogliato di tutti i suoi “vestiti sociali”, un pover’uomo non più giovane e niente di più. Durante la sua assenza, i suoi vicini della zona in cui viveva, sono diventati tutti molto ricchi. Simbolo di questa prosperità sono le piscine che ciascuno di loro si è costruito nel giardino. Ned ha un’idea: andrà a nuoto a casa sua, ossia passando da una piscina all’altra. Così rivisiterà il mondo al quale apparteneva, prima della crisi; rivisiterà, in altri termini, il proprio passato. Vediamo Ned entrare nelle case, andare alla piscina, farvi una nuotata, e poi mischiarsi con gli ospiti. Le accoglienze variano dalla cordialità convenzionale al pugno in faccia; ma, soprattutto, Ned si rende conto che non ha veri rapporti con nessuno, né con coloro che lo festeggiano né con coloro che lo respingono. Dappertutto egli è solo, come uomo d’affari, come amante, come uomo maturo, come uomo senza più. L’angoscia lo sopraffà. Dopo un incontro particolarmente penoso con una donna che è stata sua amante e adesso non vuol più saperne di lui,

Ned, sempre ignudo, sente che “il sole non scalda”. Finalmente arriva a un cancello rugginoso. È casa sua. Entra nel giardino che appare abbandonato; già comincia a piovere; la pioggia flagella il campo di tennis sparso di foglie morte, la facciata della casa. Fradicio di pioggia, Ned bussa invano alla porta chiusa. Del resto, se entrasse, non troverebbe che stanze vuote, vetri rotti, pavimenti polverosi. La casa è disabitata. Non è un film bello, il tema non è nuovo; tuttavia ha caratteri curiosi e significativi. Soprattutto, come il film di Pasolini, è manieristico. In Pasolini la maniera risale, specie nei paesaggi, alla grande pittura italiana; più modestamente qui, siamo nel clima del preraffaellitismo. Tutto vi è oltremodo preciso e perfino leccato ma in maniera mortuaria: volti di donne, nudità, fisionomie, gruppi, folle; oppure tutto vi è sfumato, evanescente, spiritualizzato, specie gli sfondi naturali. Abbiamo così le due maniere di dipingere di Ford Madox Brown, Rossetti, Hunt e gli altri della stessa scuola. Si vede la faccia della ragazza che, bambina, ha amato Ned: è repellente di freddezza cadaverica, proprio come certe donne dei preraffaelliti la cui purezza sa di morte. La piscina gremita di ragazze e di ragazzi, minuta ed esatta, avrebbe potuto essere dipinta da John Everett Millais. Il protagonista nudo che cammina per i boschi e per i prati è un tipico personaggio preraffaellita, se non altro per la combinazione imbarazzante della nudità con una natura per niente solare, umida e autunnale. Infine quando Burt Lancaster che interpreta con bravura la parte del protagonista, per sfuggire al diluvio, si rifugia contro la porta chiusa, in cima a tre o quattro scalini e rimane lì rannicchiato e ignudo, eloquente immagine della disperazione, la filiazione è quanto mai diretta: è la Derelitta di Botticelli vista da Dante Gabriele Rossetti visto da Frank Perry. I preraffaelliti miravano a effetti spirituali e arcani; in realtà esprimevano soprattutto, con involontario surrealismo, inconsce tendenze erotiche di specie sadomasochistica e necrofila. L’allegoria crepuscolare di Perry non arriva a tanto. Il film è ancora troppo realistico. Ma la direzione è quella. LA VERGOGNA Siamo in un paese in guerra da molti anni. La guerra è ormai vicina al luogo dove abitano i due protagonisti, un violinista (Max von Sydow) e sua moglie (Liv Ullmann). La vita continua con le convenzioni del tempo di pace: la buona educazione, il rispetto dell’altrui proprietà, la conversazione fatta di luoghi comuni, l’interesse per la cultura e per l’arte; ma si tratta di cose ormai colpite a morte e svuotate di senso: reale e presente è soltanto la guerra. La quale, infatti, una brutta mattina, irrompe nel tranquillo luogo campestre in cui abita la coppia. Aeroplani sfrecciano, cannoni tuonano, mitragliatrici crepitano, il napalm divampa. Poi arrivano i paracadutisti, ammazzano gran parte degli abitanti e costringono (la guerra si fa anche con la propaganda) la coppia atterrita a dare un’intervista a favore della “liberazione”. Ma i “nazionali” tornano in forza, la coppia viene arrestata e pestata a dovere, per poco non è fucilata per tradimento. Intanto nel paese, conseguenza della guerra, c’è una dittatura di tipo fascista. Il ras locale costringe la moglie del violinista, con la minaccia di chiuderli entrambi in un campo di concentramento, a diventare sua amante. Il marito sa e accetta, anche perché c’è carestia e l’amante è largo di doni. Ma alla dittatura fascista si contrappongono logicamente, i partigiani. Costoro piombano sulla casa, costringono il violinista a giustiziare il capo fascista amante della moglie, quindi devastano e incendiano scrupolosamente la casa. La coppia, un tempo agiata e raffinata, è ormai giunta all’ultimo grado dell’abiezione. Ridotti a vagabondi stracciati, i due coniugi errano in un paese pieno di cadaveri e di rovine. Lei ha conservato un barlume di umanità; ma lui è ormai un vile e insensibile assassino. Alla fine si imbarcheranno su una lancia a motore nel tentativo di fuggire e raggiungere paesi meno guerreschi. Ma il motore si ferma e l’imbarcazione se ne va alla deriva su un mare calmissimo, putrescente, sparso di cadaveri di soldati che galleggiano immobili nella bonaccia.

Questo La vergogna di Ingmar Bergman appartiene al genere che chiameremmo dell’utopia alla rovescia, cioè non ottimistica né razionale bensì depressa e irrazionale. Di che si tratta, insomma? Si tratta di un film che denunzia il male del mondo in maniera allegorica, lasciandosi, però, guidare non già dal distaccato razionalismo della satira, come, per esempio, Candide di Voltaire, ma dall’irrazionalità della paura, come 1984 di Orwell. L’assenza della satira sta a testimoniare l’assenza di spirito utopistico ossia l’incapacità di immaginare un mondo migliore che si vorrebbe vedere al posto di quello denunziato. Nel caso di Bergman, l’artista, non avendo niente da proporre, sta addosso alle cose con il terrore e con l’odio, e perciò invece di costruire un’allegoria ci dà del realismo, sia pure proiettato nel futuro anziché legato al presente. La Svezia è un paese fortunato che non fa guerre da più di un secolo. La vergogna di Ingmar Bergman è un film tipico di un simile paese. Vi si riflettono gli spaventi di una borghesia senza dubbio raffinata e civile ma non esente dall’irrealtà che è propria delle situazioni privilegiate. Bergman un po’ volge in ridicolo e condanna questa irrealtà, un po’ si direbbe che la difenda. La forza del film sta nell’orrore sincero che Bergman nutre per la guerra; ma anche la sua debolezza. C’è molta convenzionalità nell’idea che un antico violino di Cremona sia il simbolo della civiltà; e che il violinista sia vittima della guerra la quale, alla fine, gli distrugge il violino e lo trasforma in bandito. In realtà, il violinista con il suo estetismo, il suo edonismo e la sua insipienza, è il vero responsabile della guerra. Bergman non ha voluto risalire alle origini della guerra, ha preso le parti dell’uomo qualunque sballottato tra i contendenti di una lotta atroce e assurda di cui non comprende nulla. Ma allora, per difendere adeguatamente l’uomo qualunque, bisognava credere in un mondo migliore proiettato nel futuro, come Voltaire, e non aggrapparsi, con paura e disperazione, al mondo migliore del passato. Opera minore, La vergogna resta tuttavia nella memoria per alcune immagini nelle quali il decadentismo di Bergman si esprime con vigore. I TURBAMENTI DEL GIOVANE TORLESS È poi proprio vero che il cinema ha soppiantato la narrativa; o per lo meno le ha sottratto tanti territori da trasformarla in qualche cosa che non è più la narrativa? La prima proposizione secondo noi è infondata; la seconda, invece, potrebbe contenere qualche verità. In altri termini romanzi come la Recherche di Proust o i Fratelli Karamazov di Dostoevskij non possono certamente essere trasferiti sullo schermo senza menomazioni e modificazioni massicce; ma è anche vero che ciò che impedisce la loro traduzione in film è qualche cosa che non è narrativo, ossia il loro carattere saggistico. La Recherche è un grande saggio sulla società, sul tempo e sul sesso; i Fratelli Karamazov è un grande affresco religioso-ideologico. Che vuol dire questo? Vuol dire che il futuro del romanzo si trova, oggi, al di là dei confini tradizionali della narrativa, nelle zone in gran parte ancora inesplorate del racconto filosofico, saggistico, allegorico, critico. Queste riflessioni ci sono venute in mente assistendo alla proiezione de I turbamenti del giovane Torless, film ricavato dal romanzo di Robert Musil per la regia di Volker Schlöndorff. La storia di Musil è nota. In un collegio per ragazzi di buona famiglia, situato in una remota provincia dell’Impero Austro-Ungarico, il ragazzo Torless, riflessivo e sensibile, si trova improvvisamente introdotto e coinvolto in quello che, in tempi più recenti, appropriatamente, sarà chiamato l’universo concentrazionario. Due ragazzi, Reiting e Beineberg, torturano un loro compagno a nome Basini. Questi doveva del denaro a Reiting il quale gliene richiese la restituzione. Minacciato da Reiting, Basini rubò il denaro a Beineberg. Basandosi su questo furto di cui è stato l’istigatore, Reiting, spalleggiato da Beineberg, prende a torturare il molle, femmineo, masochista Basini. Secondo una pratica molto in voga alcuni decenni dopo nei campi nazisti, la tortura si maschera da punizione moralistica. In realtà attraverso la punizione di Basini Reiting e Beineberg sfogano i loro istinti sadici e omosessuali. Törless assiste a questi esperimenti tra affascinato e

inorridito. Alla fine, con sforzo supremo, respinge il fascino e si getta con decisione dalla parte dell’orrore. Ma ha capito che in certe circostanze anche gli uomini cosiddetti normali possono trasformarsi in mostri. Per questa sua chiaroveggenza, Törless sarà cacciato dal collegio; i due torturatori, invece, perfettamente integrati in una società che è già quella del nazismo, continueranno indisturbati i loro studi. La brutalità dei ragazzi più grandi e più forti ai danni dei più piccoli e più deboli, è la normalità nei collegi. Nelle scuole inglesi dell’epoca vittoriana, questa brutalità aveva anche un nome: jagging. Ma l’aspetto inquietante de Il giovane Törless non è la crudeltà a sfondo omosessuale dei torturatori di Basini; bensì la razionalizzazione e ideologizzazione di questa crudeltà. Il collegio inglese, con tutto il suo jagging creatore di gravi nevrosi restava pur sempre un luogo di immaturità; il collegio di Musil, invece, è un microcosmo nel quale è possibile ritrovare i lineamenti di un orrido macrocosmo avvenire. È un sistema minimo ma già perfetto che ne adombra un altro che potrebbe diventare universale. In realtà, tra il 1933 e il 1945, poco è mancato che lo diventasse. Che cos’è rimasto del romanzo nel film o meglio che film ne è stato ricavato? Diciamo subito che I turbamenti del giovane Törless è un film di buona e seria fattura mantenuto con discrezione nei limiti di un realismo di tipo espressionistico. Poco è concesso alla descrizione dell’ambiente il quale, purtuttavia, è descritto e caratterizzato con sicurezza ed efficacia; molto invece ai rapporti tra i quattro ragazzi. Ora è qui che il cinema, nonostante la bravura del regista, mostra le sue insufficienze. Sono rapporti di una psicologia molto particolare. La psicologia, per dirla in breve, inventata da Dostoevskij e che vorremmo chiamare psicologia ideologica ossia psicologia materiata di cultura. Ebbene, certamente, i lunghi dialoghi fotografati con un minimo di movimento permettono di seguire le tortuosità di una simile psicologia; ma si sente tutto il tempo che la lettura del romanzo sarebbe di gran lunga più proficua. Musil ha detto la stessa cosa che, alcuni anni più tardi, con altri modi, dirà Kafka. Ma il film non ci dice queste cose con il linguaggio che gli è proprio, cioè con le immagini; ce le dice con le parole ossia con i dialoghi. Allora, di fronte a certe complessità si rimpiange il libro. Se non altro, mentre il film è irreversibile, col libro si può tornare indietro, rileggere certe frasi, certi brani, interi capitoli. L’interpretazione è molto buona. Accanto a M. Carriere che è il ragazzo Törless e nel cui volto sensibile e sdegnoso si alternano con efficacia i vari “turbamenti” dell’orrore e dell’attrazione, bisogna ricordare Barbara Steele, probabilmente nella sua migliore prova. UN TRANQUILLO POSTO DI CAMPAGNA Un pittore della scuola informale, nonostante o, forse, a causa del suo successo troppo bene amministrato, è colpito da una nevrosi di impotenza creativa. Accompagnato dall’amante che lo adora e dal mercante che lo sfrutta, va allora a cercarsi, secondo il titolo del film di Elio Petri: Un tranquillo posto di campagna per riposarsi e riprendersi. Lo trova in un’antica villa veneta, rimasta abbandonata dal lontano 1945. In quel tempo, nella villa abitava una contessina ninfomane che, dopo aver fatto l’amore con quasi tutti gli uomini del villaggio attiguo, era finita uccisa da un mitragliamento aereo, a soli diciott’anni. Il pittore, ormai giunto ai confini della follia, confonde gli incubi della propria sterilità con quelli del funesto passato della dimora. L’erotismo, questo surrogato della forza vitale, gli appare come una possibile soluzione della propria crisi, soluzione peraltro impossibile, perché non si può fare l’amore con una morta. Dopo avere invano cercato di risuscitare attraverso inchieste e ricostruzioni la remota figura della defunta, il pittore, durante una seduta spiritica, cerca di strangolare l’amante. Trasportato in una clinica per malattie mentali e ormai irrimediabilmente pazzo, si placa e riprende a dipingere. Abbiamo visitato anni or sono il manicomio di Verona. Ivi, in un camerone, molti malati si dedicavano alla pittura. Assolutamente ignoranti delle correnti dell’arte moderna, questi malati si

ispiravano tuttavia, senza saperlo, ai più noti modelli. Chi dipingeva quadri alla maniera di Pollock, chi rifaceva Klee, chi si esprimeva coi moduli di Miró. Il direttore della casa di cura ci ha detto che questi malati cominciavano con l’arte figurativa e poi, irresistibilmente, finivano per fare dell’informale. Che vuol dire questo? Vuol dire che tra l’arte che è per sua natura “storica” e si sviluppa continuamente e la demenza che è “astorica” ed è sempre eguale a se stessa, c’è, ai giorni nostri, una momentanea identificazione. In altri termini, oggi, gli artisti rifiutano le mediazioni razionali e cercano invece di creare consapevolmente e artificialmente le condizioni psichiche proprie della demenza. Ne segue un’arte che, come dimostrano i quadri dei malati di Verona, potrebbe essere indifferentemente praticata da artisti o da dementi. Ma c’è pur sempre una differenza. I dementi non possono esimersi dal fare dell’informale e d’altra parte non sanno di farlo. Gli artisti, invece, “scelgono” l’informale e questa loro scelta è consapevole. Tutto questo per dire che l’apologo di Elio Petri ha una conclusione sarcastica un poco spiccia. Passando dal tema al modo col quale è stato svolto, vorremmo osservare che Petri, a ben guardare, ha tentato di fondere in una sola storia due film ben distinti, e cioè un film sull’impotenza creativa, del genere dell’Ora del lupo di Bergman, e un film di fantasmi lussuriosi come quello che tempo fa è stato ricavato dal romanzo di Henry James The turn of the screw. Ci dispiace ma questa fusione non è riuscita. La nevrosi del pittore non illumina il dramma della contessina ninfomane e viceversa. Tra la sterilità dell’artista divorato dal consumo e la lussuria della piccola feudataria non sembra esservi relazione. Sarebbe stato preferibile fare uno solo dei due film; ma farlo bene. Che cosa intendiamo in questo caso per far bene un film? L’artista fa bene un film o qualsiasi altra opera d’arte quando riesce a creare un rapporto di sentimento tra se stesso e la materia. Per esempio, tra Bergman e il suo pittore, nonostante certe sforzature espressionistiche c’è un rapporto di pietà, di dolore e anche, forse, di autobiografica complicità. Ma tra Petri e il suo artista in crisi il rapporto non c’è. Ne segue una sgradevole esteriorità cui fa la spia, infatti, la turbolenza spesso gratuita del protagonista. Qualche cosa di meno esplicito e di più intimo avvertiamo invece nelle sequenze che riguardano la ragazza morta la cui bellezza e fatalità Petri ha saputo evocare con poetica efficacia, sia pure senza alcun riferimento alla crisi creativa del pittore. È questa la parte migliore del film. Il secondo film che, forse, metteva conto di fare. NUDE RESTAURANT In un ristorante seggono al banco del bar alcuni personaggi di ambo i sessi completamente nudi salvo una piccola borsa legata ai lombi con una cordicella, come la portano gli sherpa del Nepal. Il ristorante, invece, è normalissimo, con tavolini, seggiole, posate, stoviglie. Una delle donne, una rossa longilinea, dal volto caprino, aguzzo e arguto, parla interminabilmente e volubilmente di se stessa e della propria vita. Ha le spalle magre, le braccia sottili, le mammelle piccole, distanti l’una dall’altra, curiosamente situate in basso ma solide e dure. Ha il ventre lungo, le cosce lunghe, il sedere lungo. Parla, parla, parla. Gli fa da “spalla” un uomo molto brutto, mingherlino, bianco e inegualmente peloso, con una grossa testa dai capelli spioventi, dagli occhi lagrimosi, dalla bocca molle a forma di fico spaccato. A quanto sembra la donna fa dello humour ingenuamente, senza rendersene conto; invece l’uomo è spiritoso e lo sa. Interviene a un tratto una ragazza dal viso largo e piatto, con tratti grossi e contadineschi, con mammelle grandi e ruvide dai larghi capezzoli rossastri. Parla anche lei, dice cose che fanno ridere. Finalmente la rossa longilinea bacia sulla bocca un bel ragazzo dal volto irregolare e sfuggente. Gli acchiappa il labbro superiore, lo succhia ben bene, poi fa lo stesso con il labbro inferiore. Fa vedere la lingua, aguzza e lunghetta, quindi l’introduce lentamente nella bocca del ragazzo schiacciando le sue labbra contro le labbra di lui. Le due bocche compiono un lento movimento rotatorio, girando l’una dentro l’altra e svuotandosi, si

direbbe, via via che girano, un po’ come un mezzo limone si svuota del suo succo girando intorno lo spremilimone. Il bacio finisce e la conversazione o meglio il monologo riprende. Accadono ancora altre cose, ma più o meno simili a quelle che abbiamo descritto. Fino alla fine, non entreranno nel ristorante altri clienti, nudi o vestiti. Abbiamo cercato di descrivere (anziché raccontare) il film di Andy Warhol Nude Restaurant. In questo film, come negli altri dello stesso autore, rifulge la capacità di stare addosso alle cose senza mediazioni ideologiche, narrative, compositive, psicologiche, estetiche. Macchina da presa e occhio umano fanno tutt’uno; vale a dire è come se guardassimo nel ristorante senza esser visti, ossia senza esercitare alcuna influenza su personaggi e oggetti con la nostra presenza. È il reale puro e semplice presentato, però, come spettacolo: la prima riflessione che vien fatto di fare è che reale e noia sono in fondo sinonimi. Ma questa specie di happening fotografato nel quale oggetto e rappresentazione non sono distinguibili, alla fine oltrepassa il naturalismo che a prima vista sembra essere il suo limite infrangibile. Ed ecco perché. I personaggi sono completamente nudi o meglio nudi fino al punto ormai raggiunto dalle riviste per soli uomini, cioè fino al pube escluso. Dunque ci troviamo già fuori del naturalismo. Perché il naturalismo è passività di fronte all’aspetto “normale” degli oggetti, nella vita di tutti i giorni. Ora nella vita di tutti i giorni la gente non sta nuda al ristorante. Che significato ha dunque la nudità nel film di Warhol? Pensiamo che sarebbe superficiale attribuirle un significato scandaloso e provocatorio. In realtà, a ben guardare, i vestiti sono la storia, cioè tutto ciò che l’uomo ha fatto sinora per separarsi e distinguersi dalla natura. Togliersi i vestiti vuol dire, dunque, abolire simbolicamente la storia, retrocedere (o avanzare: a scelta) verso un mondo senza storia. Ma non soltanto i vestiti sono la storia. Lo sono pure la bomba atomica, la guerra del Vietnam, l’occupazione della Cecoslovacchia, il neocapitalismo, il comunismo eccetera eccetera. In questo senso il nudo integrale, al ristorante e altrove, può “anche” essere considerato una protesta. L’ARMATA A CAVALLO Il pretesto narrativo del film di Miklós Jancsó L’armata a cavallo è la presenza, nella guerra civile russa degli anni venti, dei cosiddetti internazionalisti magiari, ossia dei prigionieri ungheresi della prima guerra mondiale incorporati nelle armate rosse. Vediamo questi stranieri sballottati tra le due fazioni avverse, i bianchi disciplinati ed eleganti nelle loro divise sinistre e inappuntabili e i rossi cenciosi ed entusiasti, in un alternarsi di stragi spietate. I bianchi uccidono per pura crudeltà, anche se non sempre se ne rendono conto, essendo ormai svanita la validità storica della loro ideologia; per i rossi, che stanno a rappresentare la storia, la crudeltà non è fine a se stessa come per i bianchi ma strumentale; tuttavia è pur sempre crudeltà. Assistiamo così a una specie di gioco di guardie e ladri che, però, ha per posta la morte e nel quale le parti si invertono continuamente: ora i bianchi danno la caccia ai rossi e ora sono i rossi a dare la caccia ai bianchi. Durante questa caccia all’uomo, anche un ospedale da campo, con le sue dottoresse e infermiere, viene coinvolto. A niente servono né l’etica professionale né l’amore. La caccia fa le sue vittime anche qui. Alla fine un piccolo reparto di rossi, marciando eroicamente, al canto della Marsigliese, contro un intero esercito di bianchi e restando completamente distrutto, fornisce al film finora tragicamente ed elegantemente imparziale, una conclusione, diciamo così, “storicistica”: quando tutto è stato detto contro la crudeltà di ambedue le fazioni, bisogna tuttavia sottolineare che la storia stava dalla parte dei rossi. Come si comprende, il tema di fondo del film non sono gli ungheresi, bensì la guerra civile. E non tanto la guerra civile russa quanto il fenomeno generico della guerra civile in tutti i tempi e in tutti i luoghi. A questa considerazione generale, il film di Jancsó deve non soltanto la sua struttura epico-lirica, il suo singolare ritmo iterativo e pendolare, la sua remota e poetica impassibilità, ma anche il suo interesse ideologico. Che è una guerra civile? Jancsó cerca di dircelo. La guerra civile,

dunque, è la più feroce fra tutte le guerre. E perché? Perché è una guerra di idee. A questo punto qualcuno esclamerà: bella scoperta, si sapeva, le idee portano al fanatismo e il fanatismo alla ferocia. Rispondiamo: niente affatto, le idee non portano al fanatismo ma alla discussione e alla persuasione: sono gli interessi che portano alla ferocia. Esempio: un uomo difende la propria casa, è un interesse, l’uomo è feroce. Ma un uomo difende, poniamo, la teoria di Einstein, quest’uomo non è feroce, cerca di persuadere. Il problema che si pongono i capi nelle guerre civili è tutto qui: far sì che l’uomo difenda le idee con altrettanta ferocia che gli interessi. Ossia trasformare l’ideologo in fanatico: fanatismo è appunto il nome che prendono le idee quando diventano interessi. Il modo col quale è ottenuta questa trasformazione è sempre lo stesso: collegare in qualche maniera le idee con la morte. Quando si riesce a far accettare come giusto il principio che un uomo può essere ucciso a causa delle proprie idee, il gioco è fatto. A partire da questo momento, l’uomo difenderà la propria vita difendendo l’idea, e l’idea difendendo la propria vita. La guerra civile può incominciare. Ma il film di Jancsó accanto a quest’aspetto generale, ne mostra un altro tutto particolare. La guerra civile russa è stata l’ultima guerra, probabilmente, che sia stata combattuta da uomini in un clima di umanità, cioè di sentimenti umani, ivi compresa, purtroppo, la crudeltà. Vale a dire che i motivi per cui si è combattuto in Russia negli anni venti, anche quando erano ideologici, non per questo cessavano di essere personali. Poco più di dieci anni dopo questa guerra atroce e poetica, scoppiano in tutto il mondo i totalitarismi di destra e di sinistra; e i combattenti di ambedue le parti perdono in parte la loro umanità diventando, senza rendersene conto, dei robot manovrati dalle colossali macchine propagandistiche. Ci saranno ancora gli eroi, ma sapranno con sempre maggiore precisione propagandistica perché si battono e muoiono. Il film di Jancsó ci mostra invece, sullo sfondo di stupendi paesaggi sereni e indifferenti, uomini in carne e ossa. Per questo, crediamo, risultano tanto più assurde le loro morti crudeli nelle vicende alterne della guerra civile. La morte dei robot manovrati dalla propaganda non appare mai assurda. I MISTERI DI UN’ANIMA Tempo fa, un romanziere pluridecorato al valore letterario (ha avuto due premi per lo stesso libro) ha affermato in una intervista che la psicanalisi dovrebbe costituire il nerbo di qualsiasi opera narrativa che si pretenda moderna. Quest’affermazione ha un solo difetto: di non poter essere suffragata da esempi probanti. Romanzi con tracce psicanalitiche o che si giovino dell’esperienza psicanalitica, ce ne sono certamente; ma romanzi del tutto psicanalitici, in maniera esplicita ed esclusiva, no. Ciò è tanto più strano in quanto, secondo il romanziere suddetto, la stretta applicazione della teoria psicanalitica sarebbe una ricetta infallibile per fare della narrativa moderna, vale a dire (questa è l’idea di fondo) della buona narrativa. Nel cinema, invece, esiste almeno un film completamente psicanalitico, da cima a fondo, girato da un grande regista con l’assistenza di un gruppo di psicanalisti professionali. È I misteri di un’anima di Pabst. Vediamo dunque se è (come, secondo il già citato fautore della letteratura psicanalitica, dovrebbe essere) un capolavoro. Il film racconta di un farmacista tedesco assai innamorato della sua bella moglie. Avviene che si annunzi l’arrivo di un cugino della moglie, individuo prestante e avventuroso, reduce da un lungo soggiorno in Africa. La moglie mostra al farmacista varie fotografie del cugino, accoglie quest’ultimo con gioia. Allora, tutto a un tratto, il farmacista comincia ad avere strani incubi nei quali il cugino gli ruba la moglie; inoltre, in stato di veglia, si accorge con spavento di provare un’invincibile attrazione per le armi da taglio, coltelli, tagliacarte e simili; nonché una tentazione a stento controllata di farne uso contro la moglie. Atterrito, ricorre a uno psicanalista, il quale, risalendo all’infanzia del paziente, gli dimostra che tra lui e il cugino c’è sempre stata competizione e che, fin da quando erano bambini, la moglie gli preferiva il rivale. La spiegazione fa miracoli. Il

farmacista non si sente più attirato dai coltelli (si era ridotto a mangiare la carne tritata col cucchiaio) e si riconcilia con il cugino e con la moglie. Il film è del 1924 e sicuramente bisogna attribuire alla vecchiaia molte sfasature formali. Ma non è qui che sta il punto. Pabst è un regista di grandi qualità; il suo talento si rivela nel vigore, nella semplicità e nella coerenza con cui è raccontata la vicenda. Il film, inoltre, ha un suo singolare interesse: è una lezione di psicanalisi contenuta dentro un film sulla psicanalisi. Ma quando tutto è stato detto, bisogna ammettere che il film è irrimediabilmente piatto e meccanico. Il fatto si è che la rigorosa applicazione dei principi di una scienza, sia pure di una scienza come la psicanalisi che ha molto a che fare con la cultura, trattiene il film al di qua della poesia o se si preferisce della credibilità poetica. Ciò che ci viene fornito è la credibilità scientifica, sufficiente in un trattato o in un manuale, del tutto insufficiente in un’opera d’arte. Perché questo? La risposta la dà l’opera di Pabst, che oltre a essere una consapevole lezione di psicanalisi, è una inconsapevole lezione di arte cinematografica; fin dall’inizio il film non ci dà scampo: la verità è una sola, quella appunto della psicanalisi. E come potrebbe essere altrimenti? La psicanalisi è una scienza e la verità per la scienza è sempre una sola, almeno fino al momento, nell’arco del progresso, in cui questa verità è sostituita da un’altra verità altrettanto solitaria ed esclusiva. C’è una verità della psicanalisi come c’è una verità della fisica, della chimica, dell’astronomia e via dicendo. Queste verità di specie scientifica hanno due limitazioni: sono parziali rispetto al fenomeno che cercano di spiegare e sono provvisorie. L’opera d’arte invece è ambigua per natura; e di verità ne offre in quantità: praticamente una per ciascun fruitore. Inoltre l’opera d’arte è sempre una totalità ed è sempre vera in tutti i tempi, anche se in maniera sempre diversa. Il personaggio del farmacista sanguinario che sogna di accoltellare la moglie, oggi ci pare un po’ ridicolo e improbabile nonostante sia interpretato dall’ottimo Werner Krauss perché è vero soltanto scientificamente, cioè perché in lui la complessità insidiosa e imprevedibile della natura è stata sostituita dalla semplicità automatica di un meccanismo. Il regista voleva servirsi dell’arte per far la propaganda alla psicanalisi. È riuscito soltanto a fare una cattiva opera d’arte e una cattiva opera di propaganda. 2001. ODISSEA NELLO SPAZIO Dicono che 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrik sia costato sette miliardi. Di fronte a questa somma colossale, i meno di cento milioni che sono stati spesi, per esempio, per un film d’arte come I pugni in tasca di Marco Bellocchio formano un contrasto pieno di significato. Per molti, questo significato, certo, si riassumerebbe così: “Vergogna! Il buon cinema si può fare con pochi soldi! Sprechi inauditi! Arte commerciale!” Ma crediamo che sarebbe un commento affrettato. Diciamo, invece, che I pugni in tasca sono un’opera d’arte; e il film di Kubrik, un prodotto. Ora, per fare il primo, i soldi, molti o pochi, non contano; mentre sono indispensabili e determinanti per fare il secondo. Qualcuno obietterà: la maggior parte dei film di maggiore successo, oggi, a Roma sono dei prodotti; però non sono costati sette miliardi ciascuno. Rispondiamo: qui sta il punto. È vero che i film di maggior successo a Roma, oggi, sono anch’essi dei prodotti, i quali, però, sono costati molto meno di 2001. Ma, infatti, sono dei cattivi, dei pessimi prodotti, giacché, per fare un buon prodotto ci vogliono i miliardi. Si capisce anche perché: il prodotto deve gareggiare nientemeno che con la poesia. S’intende che la gara è perduta in partenza. Tuttavia, a forza di miliardi, il prodotto può procurare allo spettatore sensazioni ovviamente diverse dall’opera d’arte, ma di intensità non inferiore. 2001 è senza dubbio un ottimo prodotto. Essenzialmente, è la storia dell’ammutinamento di un computer o robot calcolatore a bordo di un’astronave lanciata negli spazi interplanetari. Durante un viaggio di perlustrazione nel sistema solare, gli uomini dell’anno 2000 hanno scoperto su Giove una strana stele o tavola di marmo nero. Questa stele o tavola è… Dio; o per lo meno sta a indicarne

l’arcana presenza. Temerari, al solito, gli uomini partono in volo per andare a esaminare la stele e decifrarne il significato. Ma il computer dell’astronave, Hal, conscio della propria potenza, ambisce di prendere la direzione dell’impresa. Hal, con un trucco malvagio e molto umano, riesce a far fuori tutti i membri dell’equipaggio salvo il pilota. Quest’ultimo a sua volta vendica i compagni sconnettendo, con un semplice cacciavite, i centri nervosi del computer. Priva di controllo, l’astronave precipita con velocità vertiginosa negli abissi del tempo e dello spazio. In uno scorcio fulmineo di specie einsteiniana, il pilota si ritrova in casa propria, prima vecchio, poi, subito dopo, decrepito; e finalmente morente. Davanti al suo letto di morte, si erge la tavola misteriosa. Eccolo, a un tratto, rinascere, infante chiuso nel ventre della madre. La vita continua, eterna. 2001 è un prodotto ottimo soprattutto perché la storia o intreccio è semplice e poco importante e il massimo sforzo è dedicato alla costruzione meticolosa di una realtà ambientale che consenta a questa storia di essere credibile. In altri termini il romanzesco è molto ridotto e la verosimiglianza, sia pure fantascientifica, molto curata. Da questo segue che le cose migliori del film sono in fondo le ipotesi sul modo di vivere degli uomini durante il viaggio, a bordo dell’astronave. La rarefazione, astrazione e solitudine della vita umana in un mondo tutto elettronico e cibernetico; i sinistri rapporti tra uomini e computer; il buio, il gelo, l’infinito che negli spazi interplanetari prendono il posto della luce, del calore e dei limiti della terra, tutto questo è rappresentato con spettrale efficacia. A questa funebre e plausibile descrizione della condizione umana, bisogna aggiungere alcuni pezzi di bravura spettacolare, come la caduta a ritroso dell’astronauta nel vuoto che lo risucchia; la fuga dell’astronave fuori del tempo in una vertiginosa esplosione di scie multicolori. Infine la trasformazione dell’osso, maneggiato dal nostro antenato subumano, in missile elettronico è una notevole trovata cinematografica che permette al regista di saltare a piè pari cinquanta milioni di anni. 2001 non è un’opera individuale ma collettiva, come, del resto, tutti i prodotti. In maniera analoga ai grattacieli e ai ponti di New York, non ci dice niente sul suo autore e molto sull’America: l’infantilismo di una società che inventa i missili e si diverte coi fumetti; il titanismo avveniristico; il terrore che questo titanismo un giorno possa essere punito dal Dio biblico, un po’ come furono puniti i giganti che eressero la torre di Babele. D’altronde è giusto concludere che anche i pessimi prodotti del cinema italiano attuale dicono poco o niente sui loro autori e molto sulla società italiana. Ma questo è un altro discorso.

IL SEME DELL’UOMO Alcune delle 56.000 bombe atomiche (tante sono) di cui dispone oggi l’umanità sono state gettate nella prima guerra termonucleare e le principali sedi della civiltà sono state distrutte. New York, Parigi, Londra, Roma bruciano. San Pietro è crollato. Il papa agonizza. Il fall-out (oppure sarà un’epidemia provocata dalla guerra batteriologica) fa vittime dovunque. Alla catastrofe scampano due ragazzi rifugiandosi in un solitario cascinale, in riva al mare. Dora e Cino appartengono alla generazione hippy, e così è naturale che la fine del mondo non gli ispiri né nostalgia né orrore. Adamo ed Eva di un Eden bruciacchiato e impestato, essi si accingono non tanto a vivere quanto a sopravvivere. Lei andrà a caccia, raccoglierà le erbe; lui radunerà i relitti della civiltà testé scomparsa (per lo più elettrodomestici e altra meccanica casalinga) e li disporrà nel cascinale in una specie di museo ironico. Capita una donna e il piccolo nucleo familiare reagisce in maniera, ahimè, tradizionale. Cino si lascia sedurre; Dora accoppa la rivale, le taglia una gamba e ne ammannisce la carne al marito. Poi viene una frotta di cavalieri ammantellati di nero, sono i burocrati del nuovo Stato mondiale che si è formato dopo la catastrofe. I cavalli e i carri di cui si servono per spostarsi fanno capire che la civiltà è retrocessa a forme arcaiche e preindustriali anche se pur sempre autoritarie. I burocrati ingiungono a Cino e a Dora di fare al più presto dei figli: il mondo è vuoto e va di nuovo popolato. A questo punto scoppia un dissidio tra i due. Dora, in fondo portavoce della morale del film, non desidera un figlio perché è convinta che l’umanità, una volta risorta, non potrà non commettere di nuovo gli stessi errori del passato, bomba atomica compresa; Cirio, più ottimista, invece lo vuole. Va a finire che Cino propina a Dora un sonnifero e la rende incinta. Quando Dora apprende di aspettare un bimbo, protesta con violenza. Cino invece improvvisa una danza di gioia. Mal per lui, perché mette il piede su una mina e salta in aria insieme con la moglie e con il nascituro. Questo Il seme dell’uomo di Marco Ferreri è un apologo, ossia una favola allegorica nella quale tutti i particolari dovrebbero avere un senso simbolico. Perché certi apologhi sono perfetti cioè completamente simbolici e certi altri imperfetti cioè in parte simbolici e in parte realistici? Perché l’artista è riuscito o meno a vedere con coerenza priva di soluzione di continuità la sua storia fattuale in funzione di una storia morale per lui più reale della stessa realtà. Apologo perfetto è quello dei Viaggi di Gulliver; imperfetto quello di Brave New World di Huxley. L’apologo di Marco Ferreri è del genere imperfetto. Accanto a particolari belli e suggestivi perché, in eguale misura, simbolici e realistici, come per esempio la gigantesca bottiglia di Pepsi Cola simbolo della morte della civiltà dei consumi e lo scheletro della balena arenata simbolo della morte della natura, ve ne sono altri che, secondo noi, non riescono ad assurgere a significati abbastanza mordenti e decantati, come per esempio il museo di Cino oppure la cavalcata delle guardie nere del nuovo Stato mondiale. Ma bisogna dire a questo punto che all’imperfezione dell’apologo dobbiamo forse il pregio maggiore del film: la sua tensione angosciosa, il suo funebre tono profetico. Marco Ferreri non è mai un regista esornativo, ozioso, evasivo; come abbiamo già detto in occasione di altri suoi film, è un artista dai contenuti fortemente, ingenuamente sentiti. Ferreri crede nella fine del mondo, crede nella disperazione di Dora, crede nelle speranze di Cino. Questa serietà del sentimento si esprime sia nella invenzione singolare di un colore pallido, abbagliante e tenero, un colore da limbo fantascientifico, sia in una strana suspense sardonica e sbadata per cui ci si aspetta sempre che avvenga qualche cosa di terribile mentre in realtà il terribile è già accaduto. Anne Wiazemsky, Marco Margine e Annie Girardot sono gli eroi adeguatamente stralunati e irreali di questa anticipazione della nostra storia futura. IL LEONE D’INVERNO

Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che ci sono due specie di romanzi storici: il romanzo storico di tipo realistico (come, per esempio, I Promessi Sposi) che, alla fine, è saggistico; e il romanzo storico di proiezione nel quale, cioè, vengono trasferiti in epoche storiche differenti idee, costumi e psicologie contemporanee (come per esempio Walter Scott). Il romanzo storico non si pratica quasi più nella prima forma, la più difficile, la più complessa e la più alta. Per quanto riguarda, invece, il romanzo storico di proiezione, il cinema ne ha raccolto largamente l’eredità. Hollywood, per esempio, continua tuttora a sfornare film storici (che sarebbe più esatto chiamare mascherati) nei quali sono, appunto, proiettati costumi, idee e psicologie contemporanee. La Storia non sarebbe dunque che una maschera. Ma perché la maschera? Probabilmente per salvare il lieto fine. Cosa vogliamo dire con questo? Vogliamo dire che nei film storici, appunto perché storici, ossia respinti nel passato, nonostante la negatività degli eventi, si può ancora salvare il futuro. Mentre, ovviamente, in un film che descriva avvenimenti contemporanei altrettanto negativi, il futuro non si salva. In altri termini, disperata nel cinema attuale, la borghesia riesce ancora a essere speranzosa nel film storico. Il lieto fine che ai tempi di Walter Scott era ampiamente giustificato (l’era borghese toccava il suo culmine e aveva, comunque, ancora molti decenni di stabilità davanti a sé), oggi sopravvive sì, ma a prezzo di una palese contraddizione con gli avvenimenti di cui costituisce la conclusione. Si veda a questo proposito Il leone d’inverno di Anthony Harvey, uno dei maggiori successi degli ultimi anni negli Stati Uniti. In questo tipico film hollywoodiano dovrebbe essere narrata la storia di una breve visita fatta verso la metà del secolo dodicesimo a Enrico II d’Inghilterra da Eleonora di Aquitania, sua moglie separata e madre dei suoi tre figli Goffredo, Giovanni e Riccardo. Scopo della visita: risolvere il problema della successione dello stesso Enrico e, subordinatamente, quello del destino dei suoi domini in Francia. Abbiamo detto: “dovrebbe” perché, in realtà, nonostante le informazioni che i personaggi ci forniscono all’inizio niente di tutto questo è raccontato nel film. Ci troviamo, invece, in sostanza, di fronte allo scenario di cartapesta di un castello medievale nel quale, vestita di panni duecenteschi, ci viene presentata una famiglia americana contemporanea dell’alta borghesia industriale e neocapitalista. Il pomo della discordia non è l’Aquitania bensì qualche grosso pacchetto di azioni della Shell o della General Motors. La spia alla mascherata la fanno i dialoghi spregiudicati, violenti, e convenzionali. Si tratta, insomma, di una famiglia molto moderna, nella quale, sotto la superficie della convenzione sociale, serpeggiano antichi, implacabili rancori. Vien fatto di pensare non già ai re e alle regine del Medioevo ma ai personaggi borghesi di una commedia come Chi ha paura di Virginia Woolf? Questo Enrico d’Inghilterra, questa Eleonora di Aquitania si dilaniano verbalmente come i due personaggi di Àlbee. E come i personaggi di Albee, sotto l’odio, conservano una buona dose di sentimentalismo crepuscolare. Ma in Chi ha paura di Virginia Woolf? il futuro, per ovvie ragioni, è un baratro oscuro. Nel Leone d’inverno, invece, grazie alla proiezione storica, il futuro appare sorridente anche se in stridente contraddizione con gli avvenimenti e i caratteri sordidi e angosciosi. Enrico d’Inghilterra ed Eleonora di Aquitania, dopo essersi rovesciati addosso delle barche di fango, si abbracciano versando lagrime d’amore e quindi si separano allegramente facendosi reciproci auguri di felicità e di prosperità. È giusto che sia così. Il Medioevo è lontano. Il lieto fine, respinto nel dodicesimo secolo, è ancora possibile. Tutto si accomoderà. Katharine Hepburn che è Eleonora di Aquitania e Peter O’Toole che è Enrico d’Inghilterra ci danno dentro con un tale sfrontato gigionismo da far venire la nausea. Vien fatto di pensare che soltanto attori così bravi possono arrivare a essere così guitti. LA CADUTA DEGLI DEI La storia della Caduta degli dei (o meglio Götterdämmerung come, in omaggio a Wagner,

avrebbe dovuto intitolarsi) ricalca abbastanza fedelmente quella del Macbeth shakespeariano. Come nel Macbeth anche in questo film di Luchino Visconti la passione del potere divampa nel chiuso ambiente di una famiglia di grandi industriali tedeschi, gli Essenbeck, provocando dapprima l’assassinio del vecchio Joachim (cioè di Re Duncan) per mano dell’ambizioso Friedrich Bruckman (cioè Macbeth) amante di Sofia (cioè Lady Macbeth) vedova di un Essenbeck caduto nella guerra del 1914. La seconda vittima di Bruckman è Kostantin von Essenbeck (cioè Banquo) che il vecchio Joachim aveva designato a suo successore. Ormai l’usurpatore Bruckman è al colmo della potenza. Ma non ha fatto i conti con Martin (cioè uno dei figli di Duncan) il quale, a tutta prima imbelle e pervertito, pian piano si riprende e alla fine lo manda a morte insieme con Sofia, sua propria madre, per installarsi definitivo erede, sulla poltrona di presidente dell’azienda. Visconti, con grande impegno e profonda serietà, ha mandato a effetto un’ardita contaminazione culturale, inserendo questa angusta vicenda familiare di tipo rinascimentale nel contesto storico del nazismo, cioè in un ben più vasto dramma che ha poco a che fare con l’umanesimo shakespeariano. Infatti i molti delitti che decimano la famiglia degli Essenbeck avvengono per istigazione e con l’aiuto delle SS hitleriane, rappresentate nel clan dal nerovestito ufficiale Aschenbach. È lui che spinge Bruckman a uccidere Joachim; è lui che fa fuori, per conto di Bruckman, Kostantin fautore di una politica contraria all’esercito e favorevole alle SA. D’altra parte il trapianto del dramma di Shakespeare nella Germania di Hitler è compiuto attraverso due significative mediazioni: da una parte Wagner cioè l’artista che ha trasmutato il decadentismo borghese dell’era guglielmina in magniloquenza melodrammatica; dall’altra Thomas Mann che di quel decadentismo ha fornito una rappresentazione, fino a un certo segno, critica. Dunque Shakespeare, Wagner, Mann. Senza dimenticare Dostoevskij per l’episodio della bambina ebrea che si impicca dopo essere stata sedotta dal sadico Martin. Da questi nomi tutti appartenenti all’era culturale che ha preceduto le scienze umane, tutti cioè variamente celebrati per averci mostrato l’uomo come dovrebbe essere e non com’è, si può capire perché Visconti, pur avendo fatto un film “contro” il nazismo, non ha fatto, in fondo, un film “sul” nazismo. Il quale mentre è collegato giustamente con il decadentismo, conserva tuttavia la maschera eroica che quello stesso decadentismo gli aveva a suo tempo fabbricato. Visconti non ha saputo o voluto strappare questa maschera e mostrare il vero volto piccolo-borghese, alienato e sottoculturale del nazismo. Per esempio, egli sa benissimo, perché ha vissuto direttamente la tragedia europea tra le due guerre, che individui come Aschenbach non erano affatto degli Jago, satanici e machiavellici, bensì dei mediocri e, appunto perché mediocri, mostruosi robot burocratici come Himmler. Tuttavia Aschenbach rassomiglia più a Jago che a Himmler. D’altra parte, se è vero come sembra esser vero, che negli Essenbeck sono adombrati i Krupp, allora bisogna dire che questi ultimi, come del resto i Thyssen e tanti altri come loro, non si disgregarono né prima né dopo il nazismo; al quale sopravvivono imperterriti dopo essersene serviti. Quanto a dire che si avverte come una differenza di verosimiglianza tra la parte che riguarda la famiglia Essenbeck e quella che ci mostra il nazismo vero e proprio: la prima è verosimile “moralmente”, la seconda “storicamente”. Altra contraddizione del film: una cura sapiente, minuziosa, “critica” nella ricostruzione ambientale; e poi, tutto a un tratto, il melodramma con le sue passioni a tutto tondo, la sua mancanza di sfumature. Ma Visconti ha fatto lo stesso il suo film migliore dopo Il Gattopardo, per altri motivi. Come sempre avviene in simili grandiose costruzioni che vogliono esaurire il senso di un’epoca senza ricorrere a operazioni illuministiche, per solo impeto lirico, anche nella Caduta degli dei valgono soprattutto quelle parti in cui il regista ci parla di se stesso, ossia esprime direttamente i propri sentimenti. Si è già detto della penetrante ricostruzione ambientale. Si deve pure ricordare, per la bellezza degli effetti e per l’intensità dell’atmosfera, il funerale di Joachim nonché, seppure con la riserva che si tratta di un pezzo “alla maniera” di Dostoevskij, la sequenza della bambina. Ma dove l’immaginazione di Visconti si è accesa con più commosso e libero lirismo e di conseguenza,

logicamente, è riuscita a esercitare una presa maggiore sul reale, è nei due episodi del massacro delle SA e in quello dell’incesto. Nel primo è descritta la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli”, cioè lo sterminio delle SA, eseguito per ordine di Hitler, a opera delle SS, in una località della Baviera. È un episodio storico degli inizi del nazismo, nel 1934; si disse allora che Rhoem, il capo delle SA era stato trovato a letto con un giovane gregario, che gli era stato proposto, secondo le leggi dell’onore, di suicidarsi e che, essendosi rifiutato, era stato passato per le armi insieme a molti dei suoi seguaci. Questa sequenza assai bella, quasi un film nel film, ha l’autenticità torbida e crudele propria del decadentismo: ognuno è autentico come può e deve. L’altro episodio lirico del film, come si è detto, è quello dell’incesto. Appare chiaro qui che il rapporto sessuale tra Martin e sua madre non è dovuto a perversione ma a un inconscio desiderio di morte. L’inquadratura in cui si vede Martin posare la testa sul ventre nudo della madre, con il mento sul pube e la fronte sull’ombelico, sta a indicare la smania di essere riammesso e inghiottito nel ventre materno, ossia la nostalgia di non esser mai nato. E infatti, poco dopo, Martin “muore”, ossia cessa di esistere moralmente salutando col braccio teso nazista i cadaveri di Bruckman e di sua madre. Visconti ha ricavato dagli attori modi di recitazione diversi. I due interpreti più cinematografici e meno melodrammatici sono Dirk Bogarde, un ambiguo Bruckman, e Charlotte Rampling perfetta nella parte di Elisabetta. A Helmut Berger, inattesa rivelazione del film, ha giovato di interpretare il solo personaggio che abbia un’evoluzione completa, una storia. Accanto a questi tre bisogna ricordare soprattutto Ingrid Thulin che nella parte di Sofia acquista macabro e sinistro spicco specie nel secondo tempo, durante l’incesto e poi nella sequenza, grottesca come un dipinto di Ensor, del suo matrimonio suicida con Bruckman. UN UOMO DA MARCIAPIEDE Joe Buck, stanco di far lo sguattero nel paese natale, parte per New York, tutto vestito da cowboy. Joe non ha una mente brillante. Alto, robusto, atletico, ha una sola idea nella testa: alla prima donna ricca e anziana che gli verrà fatto di incontrare a New York egli dirà: “Non sono un cowboy; in compenso però sono un magnifico stallone”, e poi starà a vedere. Quanto a dire che Joe ha la vocazione (ingenua come tutte le vocazioni) di prostituirsi. Ma non è facile prostituirsi. La prima cliente a cui Joe si offre, si rivela alla fine una prostituta lei stessa; e Joe ci rimette non soltanto in energia vitale ma anche in dollari. Seguono altre sordide delusioni. Alla fine Joe unisce la propria miseria a quella di Rico, un claudicante ladruncolo italo-americano. Ahimè, l’unione, in questo caso, non fa la forza. I due soffrono la fame e il freddo in una soffitta senza vetri; cercano di arrangiarsi rubacchiando ma riescono soltanto a sopravvivere. Il solo risultato positivo del loro sodalizio, in realtà, è psicologico: i due derelitti finiscono per affezionarsi l’uno all’altro. Ultimo colpo della sfortuna: Joe trova finalmente una cliente; ma proprio allora Rico si ammala. Joe quasi ammazza un omosessuale per procurarsi il denaro del viaggio; i due partono in corriera per la Florida. Ma Rico non godrà del tanto sognato sole meridionale. In vista di Miami, morirà tra le braccia di Joe. In questo Midnight Cow-boy (in italiano: un Uomo da marciapiede) del regista inglese John Schlesinger {Darling, Billy il bugiardo) c’è un piccolo mistero: la decisa e precisa volontà di prostituirsi che si annida nell’animo apparentemente “sano” di Joe. Schlesinger, insomma, non ci dice perché Joe abbia deciso di prostituirsi; cioè non ci parla dell’America “prima” del viaggio di Joe a New York, ma “dopo” il viaggio quando, ormai, il gioco è fatto, e Joe non è più che una merce qualsiasi in vendita. Il film, così, si riduce al racconto delle vicende di questa merce sul mercato americano. Questo punto di partenza costituisce al tempo stesso l’originalità e la debolezza del film. Da una parte, attraverso un’aneddotica efficace, Schlesinger ci fa intravedere il mondo finora inedito della prostituzione maschile americana; dall’altra, però, fissa il personaggio di Joe in un

continuo paradossale stupore. È lo stupore di una delusione alla rovescia: il falso cowboy scopre che a New York non c’è richiesta per le proprie prestazioni di “magnifico stallone”; ma non per moralità bensì a causa di una corruzione ormai satura. Insomma, New York è così corrotta che diventa difficile persino prostituirsi. Schlesinger, per raccontarci la strana delusione di Joe, adotta l’angolo visuale del ragazzo: un’impresa difficile che non poteva non portarlo a trucchi tecnicistici i quali, qualche volta, sanno di confezione. La confusione mentale e morale di Joe è recuperata dal regista con indubbia efficacia ma, spesso, a freddo. Siamo a mezza strada tra il gusto per il mostruoso e l’antipatico di Polansky e la satira grottesca di Richardson. Ma Schlesinger non ha la vocazione dell’uno e dell’altro. È un regista eclettico e intelligente che trae partito da tutto e non è ossessionato da nulla. Il film ha un primo tempo intenso, tra la pittura di genere e la descrizione ambientale. Purtroppo, però, questa specie di picarismo moderno, basato sul sesso invece che sull’astuzia, nel secondo tempo decade a vieto sentimentalismo. Con la morte di Rico nella corriera, alle porte di Miami, il film precipita in una conclusione straziante il cui archetipo va ricercato nel finale della Traviata. L’interpretazione è eccellente. Jon Voight è un Joe patetico quanto basta nel suo continuo ingenuo stupore di non riuscire a vendersi. Dustin Hoffman, nella parte di Rico, conferma le sue grandi qualità di attore.

LA MITE La mite è un racconto della maturità di Dostoevskij, nel quale è narrata la storia dei rapporti coniugali di un usuraio quarantenne con la moglie sedicenne. Il racconto è una specie di monologo interiore del marito di fronte al cadavere della moglie che or ora si è uccisa gettandosi dalla finestra. In questo monologo Dostoevskij si tiene dentro i limiti psicologici e culturali del personaggio con un realismo al tempo stesso pietoso e ironico. L’interesse di un simile monologo per il lettore consiste nel fatto che, attraverso una particolare mimesi stilistica, lo scrittore lo mette in condizione di vedere chiaramente i motivi della tragedia, motivi che invece sfuggono al protagonista nel momento stesso che, senza rendersene conto, li illumina. Questi motivi possono ridursi in fondo a uno solo: l’orgoglio, molla segreta della psicologia di quasi tutti i personaggi dostoevskiani. Per orgoglio il protagonista ha rovinato la propria carriera; per orgoglio si è messo a fare l’usuraio; per orgoglio ha spinto al suicidio la moglie che amava. A proposito di quest’ultimo disastro provocato dall’orgoglio, va notato che ambedue i personaggi sono egualmente orgogliosi. L’orgoglio impedisce al marito di dissipare il disprezzo della moglie con la franchezza umile e affettuosa propria dell’amore; egli non sa comunicare e preferisce umiliare e vincere la moglie in una specie di prova di forza piuttosto che persuaderla. A sua volta, la moglie, una volta sconfitta, preferisce, per orgoglio, uccidersi piuttosto che piegarsi. Si dirà a questo punto: e l’amore, dov’è l’amore in questo duello all’ultimo sangue? Rispondiamo: l’amore c’è, così da una parte come dall’altra, e questo costituisce appunto l’originalità della vicenda. Abbiamo raccontato la novella dostoevskiana perché il film che Robert Bresson ne ha ricavato, Une femme douce, lo ricalca con assoluta fedeltà. Tutto vi è ripreso: i due personaggi coi loro connotati sociali, la situazione, gli avvenimenti, i particolari oggettivi, tutto fuorché la psicologia. Bresson, a dire il vero, avrebbe voluto, al solito, fare a meno della psicologia, lasciar parlare gli “oggetti”. Ma non vi è riuscito. La psicologia trasuda dagli oggetti, si spande per il film come una nebbia. È la psicologia di Dostoevskij, non quella di Bresson che, come abbiamo detto, la rifiuta e non vuol saperne. I motivi per cui la psicologia si è ribellata a Bresson mentre invece, al solito, gli “oggetti” gli si sono sottomessi con docilità, sono in fondo due. Il primo è la “storicità” della psicologia. C’è una psicologia moderna e ce n’è una del Rinascimento e ce n’è una dell’antichità. La grande scoperta di Dostoevskij è che la psicologia non è “eterna”. Essa è legata alla cultura, anzi “è” cultura; e dunque è storia. La psicologia del racconto di Dostoevskij è quella dell’Ottocento in un paese come la Russia zarista. La situazione storica e sociale della Russia di allora rendeva verosimile il suicidio della donna. Ma la stessa storia ambientata nella Francia di oggi, lo rende inverosimile. Il secondo motivo è che Dostoevskij ha scritto La mite prima di Freud. Ai suoi tempi un simile personaggio era ancora un personaggio; oggi sembra un caso clinico. Quanto a dire che la psicanalisi ha messo a disposizione del nostro giudizio strumenti di conoscenza che prima non avevamo. Il modo di evitare il caso clinico oggi, con una simile storia, c’è. È il modo di Antonioni e consiste nell’alludere alle lontane determinazioni sociali della incomunicabilità coniugale, la quale, in tal modo, cessa di essere un caso individuale, come in Dostoevskij e diventa, sia pure con tutta l’ambiguità propria della poesia, un fenomeno sociale. Ma Bresson è un cattolico che crede nell’esistenza del male e non si interessa che all’individuale. Col risultato di postulare una psicologia fuori del tempo che in realtà non può esistere. Il film tuttavia è ammirevole egualmente per la sobrietà e castità della rappresentazione, per la straordinaria capacità di rendere espressivi e dunque reali i particolari oggettivi. Guy Franjin è eccellente nel ruolo di marito. La bravura di Dominique Sanda ci fa dimenticare la sua bellezza, inverosimile ed eccessiva per la parte che interpreta.

SE… Se… di Lindsay Anderson è la descrizione di un’annata scolastica in un “college” inglese dall’inizio delle lezioni fino alle vacanze. Come tutti sanno il “college” inglese è un’istituzione venerabile che non si potrebbe chiamare borghese senza deformare la realtà storica. Fusione caratteristica e tradizionale di elementi umanistici, religiosi, sociali, sportivi e militari, il “college” risale a tempi remoti e certamente non borghesi. Il “college”, per esempio, di cui si tratta nel film ha cinque secoli di esistenza ininterrotta, sempre con le stesse norme, le stesse consuetudini, gli stessi indirizzi, le stesse strutture. Vi si perpetuano fossili come la punizione corporale, l’aggancio della cultura alla tradizione biblica, l’obbligo da parte dei ragazzi più piccoli di far da camerieri ai più grandi e una buona dose di omosessualità sadomasochista. Perché insistiamo a descrivere il “college” inglese come appare in Se…? Perché il film a ben guardare è quasi un documentario. Persino la contestazione dei tre ragazzi più grandi che costituisce una sembianza di storia, sembra avere un carattere di cosa già vista, di cinema-verità. Ma alla fine dobbiamo ricrederci. La contestazione dopo un inizio modesto e verosimile con le solite beffe studentesche, pian piano si fa più seria e più impegnata. Poi i professori passano al contrattacco e decidono di punire il terzetto con la tradizionale fustigazione. Allora la contestazione diventa violenta anzi omicida, ma, con improvvisa frattura di stile e di tono, fuori della realtà. In un finale tra simbolico e onirico, il regista abbandona l’oggettività documentaria e ci dice ciò che i ragazzi e probabilmente lui stesso vorrebbero che succedesse: una strage col mitra, di tutti quanti: professori, preti, militari, scolari. Naturalmente la prima domanda che viene fatto di porsi è: contro che cosa si scatena la contestazione dei tre studenti? Non certo contro la cosiddetta civiltà dei consumi, contro il materialismo borghese o contro l’alienazione capitalista. Tutte queste magagne sono rintracciabili certo nel “college” descritto in Se…; ma non lo caratterizzano in alcun modo. Ciò che caratterizza il “college” è la decrepitezza; ed è appunto contro la decrepitezza che gli studenti si rivoltano. Noi in Italia non si ha idea della vecchiaia delle istituzioni britanniche; soltanto la Chiesa, da noi, ha qualche punto di somiglianza con queste istituzioni. Quanto a dire che nel film di Anderson la contestazione ha un carattere quasi biologico. Il significato del film in fondo è: “Finiamola una buona volta con i vecchiumi.” Naturalmente tra i vecchiumi la contestazione mette pure alcuni valori borghesi e vittoriani come l’onore, la patria, la religione e così via. Ma la rivolta è soprattutto contro l’irrealtà complessiva dell’establishment inglese, irrealtà che è intesa come anemia, sclerosi, mancanza di vitalità. È chiaro che il film va considerato come il sintomo di uno stato d’animo di insofferenza giunta quasi sulla soglia della frenesia. Non si tratta più di criticare, sia pure con crudeltà; né di prendere in giro con ferocia; né di rifiutare con fermezza. Si tratta semplicemente di distruggere col ferro e col fuoco ogni cosa e non parlarne mai più. È qui che si innesta la questione del finale del film. Il quale portato avanti fino alla penultima sequenza con un realismo medio, tipicamente britannico, venato di ironia graffiante e di denunzia flemmatica, d’improvviso, con la strage al mitra del finale, sfocia nel fantastico e nel simbolico. A prima vista, certo, una simile conclusione sembra far crollare il film e appare comunque in contrasto con quanto l’ha preceduto. Ma dopo riflessione si è portati a correggere questa prima impressione. Che cosa avremmo avuto senza quel finale? Uno dei soliti film di garbata anche se crudele critica di costume così frequenti nel cinema inglese. Con il finale onirico il film decolla verso gli orizzonti della protesta politica. Perde forse in perfezione; ma guadagna in efficacia. Più che una rappresentazione diventa una specie di manifesto. Un manifesto per niente esclamativo. Al contrario, vissuto e sofferto.

L’ORGIA DEL POTERE Un deputato di sinistra si reca in una città del Mediterraneo per tenervi un comizio pacifista contro le basi straniere e la guerra termonucleare. Ma durante il comizio viene aggredito dai sicari di una sedicente “Associazione dell’Occidente Cristiano” sostenuta e pagata dalla polizia. Il deputato muore due giorni dopo all’ospedale. Scoppia uno scandalo un po’ del genere di quello del delitto Matteotti. La polizia cerca di far passare il crimine per un incidente stradale; ma un giovane e coraggioso giudice istruttore, coadiuvato da un sagace giornalista, sventa le manovre e le intimidazioni della polizia e incrimina generali, ufficiali e capi delle cosiddette “forze dell’ordine”. Subito dopo, però, una dittatura militare si impadronisce del potere e il processo ai colpevoli si risolve in una burla. In compenso, tutti coloro che si erano opposti al terrore fascista muoiono in maniere misteriose o violente. Questa, la storia di Z (titolo italiano di marca qualunquista: L’orgia del potere), del regista greco Costa Gravas, girato ad Algeri ma con chiaro riferimento alla città di Salonicco nella quale, il 20 maggio del 1963, il deputato di sinistra Lambrakis fu aggredito in circostanze analoghe dai killer di un gruppo dell’estrema destra. Come è noto, Lambrakis morì due giorni dopo all’ospedale. Scoppiò allora uno scandalo che travolse il governo e in seguito portò alla vittoria dell’Eda e delle forze del centro nelle elezioni. Vittoria di breve durata: il 21 aprile del 1967 il colpo di Stato dei “colonnelli” annullò ogni speranza di giustizia e di libertà in Grecia. Il film di Costa Gavras è raccontato con scioltezza e montato con malizia. Simile ai film polizieschi, esso mette il delitto in principio (nelle narrazioni cinematografiche o romanzesche tradizionali il delitto è sempre alla fine. Unica eccezione: Delitto e castigo) e poi ci fa seguire le indagini fino alla scoperta e all’incriminazione dei colpevoli. In fondo il film si può dividere in due parti: la prima, di tipo realistico hollywoodiano; la seconda, tra satirica e simbolica. La seconda è migliore e vorremmo a questo punto dire perché. Noi siamo favorevoli al realismo, sempre. Ma il realismo non è una tecnica come mostrano di credere i naturalisti da strapazzo e i critici dell’avanguardia in malafede o ignoranti. Realismo vuol dire semplicemente rapporto col reale. Per questo, possiamo dire che sono realisti così Thomas Mann come Kafka e che, probabilmente, il secondo è più realista del primo. Nel primo tempo del film di Costa Gavras non è il realismo che ci dispiace bensì l’assenza del realismo. Ci sono i buoni e i cattivi, c’è la suspence. Ci sono l’indignazione, il sentimentalismo, la crudeltà, la violenza e via dicendo; ma il realismo non c’è. Invece, allorché vediamo, nella seconda parte, i generali della polizia presentarsi davanti al giudice coi petti carichi di ridicole medaglie, sentiamo che, sia pure in chiave espressionistica, satirica, il realismo c’è. Circa il tristissimo mondo che il film ci presenta, bisogna riconoscere a Costa Gavras il merito di avere individuato con precisione sociologica uno dei caratteri principali del terrorismo di destra nei paesi del Mediterraneo: la ferocia non già dovuta alle tare segrete di una borghesia decadente e alienata ma moderna come nel nazismo, bensì alla mancanza di idealità e all’inerzia morale della sottocultura anacronistica propria dei paesi depressi. Il nazismo è stato una tragedia, il fascismo un’operetta; ma ambedue hanno contribuito alla fine dell’Europa. Gli interpreti sono tutti bravi, a metà strada tra il “verniciato” di Hollywood e la convenzione neorealistica. Accanto a Yves Montand che interpreta con discrezione il personaggio di Lambrakis, bisogna ricordare Irene Papas, bella ed espressiva, Jean-Louis Trintignant forse il migliore, e poi Bernard Fresson, Jacques Perrin, Charles Denner e Renato Salvatori. CHRONIQUE D’ANNA MAGDALENA BACH

Il terrorismo in arte somiglia a quello in politica soltanto in un punto: ambedue mirano a ispirare terrore. Ma il terrorista politico vuole terrorizzare l’avversario; il terrorista artistico invece prima di tutto se stesso e soltanto in un secondo momento, gli altri. Di che cosa ha terrore il terrorista artistico? Soprattutto di non essere abbastanza “puro”, abbastanza “essenziale”, abbastanza “assoluto”. Mettiamo tra virgolette queste tre parole perché nel terrorismo artistico esse acquistano un significato trascendente, mistico, sensibilmente diverso da quello corrente. Da tutto questo si desume che il terrorismo in arte è un’operazione critico-decadente in stretto rapporto sia pure di opposizione, con il fenomeno dell’arte di consumo. I classici non sono mai terroristici, anche quando sembrano esserlo. Jean-Marie Straub ha portato a termine una simile operazione girando questo suo straordinario e bellissimo Chronique d’Anna Magdalena Bach. Straub ha scelto senza dubbio Johann Sebastian Bach perché nessun musicista si prestava meglio del maestro di Eisenach a impersonare la sua idea terroristica della purezza. Ma Bach è un classico; e, come abbiamo detto, i classici non sono mai terroristici. Allora Straub ha aggirato l’ostacolo portando a termine da solo e con piena consapevolezza critica, la trasmutazione mitologica che di solito viene compiuta in maniera acritica e inconscia dall’umanità ammirata per certe figure di artisti. Ha fatto cioè un film non già su un ipotetico Bach storicamente verosimile ma sul mito di Bach quale può essere estratto dalla musica di Bach. Film affascinante, di un rigore e di una tensione eccezionali, Chronique d’Anna Magdalena Bach ci presenta un Bach terroristico ossia depurato da ogni scoria temporale e ridotto all’essenzialità della propria opera. Bach è morto a 65 anni, pieno di figli, vecchio, possente, patriarcale, sereno, in pace con se stesso e con il mondo. Ma Straub ci presenta, nelle sembianze del clavicembalista Leonardt, un Bach ascetico che per tutto il film ha un’età invariabile tra i quarant’anni e i cinquanta. Un Bach per niente patriarcale né in pace con se stesso e con il mondo, dal volto improntato a un’indefinibile aria di severa malinconia. Un Bach, insomma, “interiore”, ossia una personificazione dello spirito della musica di Bach. Altro aspetto dell’operazione terroristica di Straub: egli immagina che il film, il quale racconta, sia pure in maniera atemporale, la vita di Bach, sia narrato dalla voce fuori campo della seconda moglie, Anna Magdalena. Con intuizione sicura anche se estetizzante, Straub ha ravvisato il massimo di “purezza” in un’esistenza ridotta ai soli problemi artigianali ed economici. Ascoltando la biografia di Bach recitata con voce monotona da Anna Magdalena, vien fatto di ricordare certe lettere di Michelangelo anch’esse piene di annotazioni pratiche. Forse è per questo che il regista in una sua nota ci dice che Chronique d’Anna Magdalena Bach è un film marxista, per questa classicità recuperata terroristicamente. Comunque è significativo che la “purezza” sia stata raggiunta rimuovendo dal commento biografico ogni traccia di affetti cioè di umanità e non lasciandovi che la carriera nel suo duplice aspetto sociale e tecnico. Il film è composto di lunghe sequenze nelle quali la macchina da presa immobile riprende esecuzioni di musiche di Bach, e di rare inquadrature in cui Bach ci è mostrato in atto di vivere. La lunghezza delle parti puramente musicali conferisce per contrasto alla brevità delle inquadrature, diciamo così, esistenziali un’intensità misteriosa, al limite del sogno. Le immagini di Bach in carrozza durante un viaggio, oppure seduto al clavicembalo oppure ancora, più bella di tutte, in atto di guardare, assorto, dalla finestra, il cielo nuvoloso e le cime degli alberi, ci dicono certo di più sulla vita terrena di Bach di qualsiasi vicenda drammatica. Sono immagini tipiche del terrorismo poetico di Straub, nelle quali un momento qualsiasi, non privilegiato della vita di Bach viene eletto a restituircene il senso più recondito e più intimo. Immagini in cui il quotidiano si colora magicamente di un’apparenza di eternità. METTI, UNA SERA A CENA

La critica cinematografica dei giornali di sinistra ha mancato all’appuntamento con Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi; ed è strano perché il film pare fatto apposta per giustificare la teoria del marxismo più semplificato sull’arte come soprastruttura originata direttamente dalla struttura. Ma lasciamo andare. Mettiamo, invece, che Giuseppe Patroni Griffi, una sera, a cena con gli amici del suo gruppo, abbia fatto l’osservazione, non priva di interesse anche se opinabile, che il nucleo sociale veramente importante, oggi, non è più la famiglia ma il clan. E che sulla base di questa osservazione abbia scritto una commedia e in seguito ne abbia ricavato un film. Nella commedia e nel film si narra di uno scrittore, Michele, che ha una moglie, Nina, la quale a sua volta, col tacito consenso del marito, ha per amante un attore, Max. Questo è il clan, completato da Giovanna, specie di mediatrice, saltuariamente amante di Michele. Ma Max, alla ricerca di stimoli sessuali inediti, spinge Nina tra le braccia di Ric, un suo amichetto del “coté” omosessuale. Ric e Nina commettono l’errore di innamorarsi l’uno dell’altro. L’amore, nemico di qualsiasi società, sta per far esplodere il clan. Riparerà Michele incorporando anche Ric nel clan. Così il clan è salvo. Abbiamo detto che l’osservazione sul clan come nucleo sociale fondamentale, anche se discutibile è interessante. Ma è un’osservazione “critica”, cioè di specie storico-sociologica. Che cosa restava da fare a Patroni Griffi a questo punto? Egli aveva due vie: o raccontare la vicenda in maniera oggettiva, ponendosi, magari col solo senso comune, fuori di una simile società; oppure fare lo stesso racconto restando dentro la società ossia accettandone la consolatoria scala di valori, maschera degli interessi costituiti. Patroni Griffi ha scelto la seconda via. Che è questa seconda via, in sostanza? È la via dell’arte di classe vale a dire dell’arte che rappresenta una determinata società non com’è ma come la società stessa desidera e gradisce di essere rappresentata. Per esempio, la società sovietica ama essere dipinta sana e forte e patriottica; e abbiamo il “verniciato” del realismo socialista. La società italiana ama invece, a quanto pare, vedersi dipinta fastosa e promiscua e abbiamo, appunto, Metti, una sera a cena. Il cui successo sia sulla scena che sullo schermo dimostra che l’operazione è riuscita. La classe si è riconosciuta, ha voluto riconoscersi nella rappresentazione. Un riconoscersi, però, che trasforma di colpo commedia e film in due specchi lusinghieri. Le spie alla reale natura di quest’operazione sono parecchie. C’è la metamorfosi di abitanti di ambo i sessi di via Montenapoleone, di via Veneto e dei Parioli in eroi strenui e perversi. C’è l’adozione dei valori del clan come valori in assoluto. C’è la trasformazione della psicologia in psicologismo, con tutte le sue sofistiche complicazioni e la sua aridità sentimentale. C’è, infine, l’assunzione del linguaggio di classe a linguaggio poetico, cioè espressivo. Esistono, accanto alle parole integrate, le immagini anch’esse integrate? Noi crediamo di sì. Sono le immagini del lusso e della ricchezza. Citiamo Jean Cocteau che se ne intendeva: “On sentait le luxe tuer l’amour.” Peccato perché l’osservazione sull’importanza, oggi, del clan è penetrante; e perché sotto i tecnicismi prestigiosi si avverte spesso la più modesta ma autentica vena sentimentale dell’autore. Vorremmo a questo punto aggiungere che Patroni Griffi non è, a ben guardare, il solo responsabile dell’operazione di cui si è detto. Bisogna risalire alla compagnia che ha interpretato la commedia, a Giorgio De Lullo, a Romolo Valli, a Rossella Falk e a tutti gli altri valenti attori. L’operazione, riuscita e discutibile, comincia lì. In quel recitare “per” il pubblico e non “insieme” oppure “contro” il pubblico. Gli interpreti, tutti bravi, dimostrano che è più facile essere autonomi come attori che come registi. La rivelazione del film è Florinda Bolkan, volto di sibilla e movenze flessuose, in un’ininterrotta e intensa presenza. Accanto a lei, bisogna mettere Tony Musante, virtuoso e un po’ eccessivo, Trintignant e Annie Girardot, ineccepibili, e un Lino Capolicchio in tono minore. QUATTROCENTONOVANTUNO

Le autorità di un riformatorio decidono di fare un esperimento. D’accordo con la polizia, permetteranno a un gruppo di giovani criminali di vivere in completa libertà nella casa di un assistente sociale. Si vuol vedere se i ragazzi sapranno “organizzarsi” da soli, cioè sapranno “comportarsi bene” anche se non sono guardati a vista e minacciati di punizioni. L’assistente sociale, giovane anche lui, ed entusiasta, beninteso, dell’esperimento, si limiterà, proprio come vuole la sua qualifica, ad assistere. Il gruppo prescelto presenta una certa varietà di tipi. Ci sono i ritardati, gli idioti; ci sono i delinquenti, diciamo così, tradizionali, cioè portati al delitto per brutalità e mancanza di educazione; c’è infine il caso psicologico più unico che raro di un giovane intelligente, forte e protervo che in realtà non è un criminale ma un ribelle, oggi si direbbe un contestatore. Contro che cosa si ribella questo ragazzo? Prima di tutto contro la società alle cui ingiustizie e disfunzioni egli è convinto di dovere la propria disgrazia; in secondo luogo e più particolarmente contro coloro che si servono di lui come di una cavia per l’esperimento, cioè contro il direttore il quale nasconde sotto la maschera autoritaria delle inclinazioni omosessuali e contro l’assistente il cui umanitarismo piagnucoloso non è che l’altra faccia di una mentalità presuntuosa e piccolo-borghese. Capo riconosciuto del gruppo che si vorrebbe rieducare, il ragazzo si studia di far fallire l’esperimento con una specie di controesperimento di sua invenzione. Vende i libri dell’assistente per comprare della vodka; raccatta per strada una giovane prostituta, la porta nella villa dell’assistente, organizza un’orgia sfrenata che culmina nel forzato accoppiamento della donna con un cane lupo. Infine, con lucida malizia, fa cadere l’assistente in un trabocchetto morale: gli vende i mobili di casa e, allorché il poveretto lo supplica di farglieli riavere, gli propone di chiedere in prestito alla prostituta il denaro del riscatto. L’assistente, che ignora la professione della donna, accetta. Soltanto allora il ragazzo gli rivela che quel denaro è il frutto di una nottata di amori mercenari. Così, attraverso il suo contro-esperimento, il ribelle dimostra all’assistente che lui e la società che rappresenta commettono continuamente quegli stessi delitti che pretendono di abolire. A questo punto la tensione fa scoppiare il dramma. Invocando a gran voce l’intervento della polizia, uno dei ragazzi si getta dalla finestra. Di lì a poco, nella villa devastata e insudiciata, arrivano i poliziotti. L’esperimento è finito. Questo Quattrocentonovantuno di Vilgot Sjoman è, come si può capire dalla storia, un vero e proprio film-libello. Soltanto intendendolo in questo modo, si può accettare, come caratteri propri del genere, il partito preso e l’unilateralità che hanno presieduto all’invenzione di due bersagli fin troppo facili quali sono il lamentoso assistente sociale e il vizioso e ipocrita direttore. Del resto, neppure i ragazzi sono visti da Sjoman con eccessiva simpatia. L’insistenza della macchina da presa a presentarne, in lunghi e minacciosi primi piani, le facce patibolari, fa quasi meravigliare che non succeda niente di più grave di qualche furto e di un’orgia, sia pure con finale stupro canino. Le qualità del film semmai sono da ricercarsi nella regia aspra, epigrammatica, semplificata, emblematica, di chiara derivazione espressionista. In certo modo, questa qualità è connessa con il genere cioè con quel carattere di pamphlet di cui abbiamo parlato. Il pamphlet, infatti, vuole non soltanto dei personaggi quasi senza psicologia, fissati in un gesto o in una smorfia, cioè delle teste di turco; ma anche una realtà che chiameremmo moralistica, cioè una realtà deformata nel senso dello squallore, della laidezza e del disgusto. Gli interpreti di questo film triste e violento sono tutti molto bravi. In particolare ricordiamo Lena Lyman, Lara Lind e Leif Nymark il quale con grande sobrietà ed efficacia è il caporione della banda dei giovani delinquenti. TATUAGGIO Benno è un adolescente che non ha mai conosciuto i genitori ed è cresciuto in un orfanotrofio insieme ad altri ragazzi orfani come lui. Questi suoi compagni sono crudeli, brutali, spietati; Benno, che sembra avere un carattere sensibile, riceve da loro un’educazione, diciamo così, alla rovescia,

dalla quale non saprà mai più liberarsi. Ecco che un industriale sposato ma senza prole adotta Benno con l’intenzione di farne il suo erede, dopo averlo debitamente integrato nella propria fabbrica e nella propria società. Ma nella casa del padre adottivo, vecchia dimora in stile guglielmino piena di ricordi di un passato che per Benno non ha alcun valore, il ragazzo si trova a disagio. Oscuramente, egli non può fare a meno di sentirsi in una situazione simile a quella degli operai nella fabbrica del padre adottivo. Anche loro si cerca di conquistarli, di integrarli con vari benefizi materiali, come per esempio una piscina, delle feste, delle riunioni. Oltre all’industriale e a sua moglie, nella casa c’è una nipote, ragazzina animalesca e graziosa che un poco civetta con lo zio e un poco con Benno. Così, tutto a un tratto, la ripugnanza vagamente ideologica di Benno per l’ambiente borghese e paternalistico trova una giustificazione sentimentale nella rivalità erotica. Benno, intanto, cerca di fare vari mestieri, per esempio il cuoco oppure il commesso in un negozio di tappeti; ma fallisce e sempre più si rende conto che alla fine dovrà pur accettare la situazione che gli offre il padre adottivo, bonario, tollerante, perfino generoso, sì, ma tenace e inflessibile nei suoi disegni. Quasi quasi adesso Benno ha la nostalgia dell’orfanotrofio. Prova a tornarci, ma si vede respinto, ignorato dai suoi antichi compagni. Uno di quei giorni la famiglia fa una passeggiata in campagna. La ragazzina, dopo essere stata per alcune notti l’amante di Benno, adesso sembra concedere le proprie grazie a un giovanotto borghese fornito di una bella macchina da corsa. Appena la macchina se n’è andata con la ragazzina, Benno si volta e con tre colpi di rivoltella uccide il padre adottivo. Quindi va alla piscina della fabbrica, si spoglia nudo, si getta nell’acqua. Vi starà sguazzando ancora, liberato e, a modo suo, felice, quando verranno ad arrestarlo. Questo Tatuaggio di Johannes Schaaf è un film interessante la cui tesi rassomiglia a quella ben nota di Marcuse sulla tolleranza nel neocapitalismo, adoperata come mezzo di mascheramento e di repressione. È una tesi che ci trova soltanto parzialmente consenzienti. In realtà, la tolleranza nei paesi neocapitalisti soprattutto anglosassoni è tutt’altro che illimitata; ciò che può far pensare che lo sia è che la scala di valori di quei paesi è condivisa praticamente da tutti, ivi compresi i contestatori. Che questo sia vero lo dimostra questo film nel quale l’autore non ha avuto il coraggio di mettere l’accento “soltanto” sulla tolleranza consumistica, rappresentata dall’industriale; ma ha sentito il bisogno di fornire al delitto assurdo del ragazzo anche altre giustificazioni, come per esempio il trauma dell’orfanotrofio, la rivalità sentimentale con il padre adottivo, la frustrazione del bisogno di affetto, e così via. È riuscito Schaaf nell’intento di rendere “necessario”, in senso estetico-narrativo, l’omicidio di Benno? Forse ci sarebbe riuscito se con ricerche formali ispirate alla nouvelle vague del cinema francese non avesse raggelato l’approfondimento del carattere del protagonista. Il quale, in mancanza di motivazioni più coerenti e più pertinenti, rassomiglia curiosamente non tanto ai moderni contestatori sempre assai agguerriti ideologicamente, ma a certi adolescenti sperduti di Thomas Mann e di altri scrittori affini di trent’anni or sono. Tuttavia, pur con queste riserve, Tatuaggio è un film significativo con un tema nuovo. La Germania di Bonn, sia pure indirettamente, è descritta con autenticità e con finezza. Gli interpreti sono bravi e ben trovati. LA VIA LATTEA L’ultimo film di Luis Buñuel, La Via Lattea, racconta il pellegrinaggio di due accattoni francesi a San Giacomo di Compostella in Spagna. Il pellegrinaggio è, però, anche quello del Cristianesimo non più nello spazio ma nel tempo, da un’interpretazione all’altra, da un’aberrazione all’altra, da una caduta all’altra. Il viaggio a piedi dei due barboni serve, dunque, da filo conduttore per una serie di episodi slegati e stravaganti nei quali il regista, con estro eccezionale dovuto, si direbbe, all’estrema sincerità propria dell’età (la vecchiaia conduce secondo i casi sia alla sincerità totale sia alla menzogna più ermetica), illustra alcune delle innumerevoli eresie che hanno conferito attraverso

i secoli alla religione, fatto “astorico” per eccellenza, un suo particolarissimo carattere “storico”. Il modo con il quale sono evocati via via figure ed eventi è la cosa più interessante del film; vogliamo dire che Luis Buñuel non aveva mai raggiunto una così diabolica leggerezza e una così misteriosa magia nell’evitare le secche della logica e nel giovarsi, secondo la lezione del surrealismo, delle risorse dell’inconscio. Richiamati in vita da minimi pretesti analogici, ironici, grotteschi, verbali, via via sfilano davanti ai nostri occhi, mentre i due barboni camminano lungo le strade di Francia e di Spagna, le più diverse figure dell’eterno dramma religioso. Un raccontino ci fa vedere in Gesù, che rinunzia a radersi la barba, il primo capellone del mondo; il diavolo appare in sembianza di fanciullino segnato dal sangue delle stimmate; i manichei di Priscilliano celebrano in un bosco, di notte, i loro riti orgiastici; il problema della transustanziazione è discusso da un maitre d’hotel e quello della doppia natura di Cristo da un prete ammattito; al miracolo di Cana secondo Piero della Francesca, segue una recita di bambini in un collegio, secondo il Douanier Rousseau; subito dopo, però, in un’inquadratura blasfema tipicamente surrealista, un plotone di anarchici fucila il Papa; rispunta il diavolo in sembianza di languido adolescente; assistiamo a un grottesco duello tra un gesuita e un giansenista; due studenti spagnoli che ricevono dalla Vergine il dono di un rosario, sono due eresiarchi del ‘500 e al tempo stesso due cacciatori di quaglie di oggi. Infine, secondo la profezia di un misterioso personaggio apparso all’inizio del viaggio, i due accattoni, proprio alle porte di San Giacomo di Compostella, cedono alle lusinghe di una prostituta. I piedi itineranti di un Gesù convenzionale da presepe ci dicono nel finale che il viaggio del Cristianesimo non è terminato; e che Gesù continuerà a mettere non soltanto i figli contro i genitori ma anche i fedeli contro la Chiesa. Abbiamo detto che Luis Buñuel ha avuto in questo film la sincerità scatenata e ispirata propria dell’età (Buñuel ha 69 anni); aggiungiamo che è anche la sincerità di un ateo di tradizione volteriana che ha riflettuto tutta una vita su un suo particolare cattolicesimo anch’esso né attuale né moderno. Siamo fuori della “storia”, fuori dell’Ottocento, fuori del marxismo. E tuttavia è indubbio che il film di Luis Buñuel è molto moderno e attuale. Come ha fatto a operare, è il caso di dirlo, un simile miracolo? Crediamo che questo si debba principalmente alla già citata esperienza surrealista, nonché alla conseguente scoperta dell’importanza dell’inconscio e dell’onirico. Si noterà, infatti, che la religione appare a Buñuel quasi esclusivamente come sorpresa miracolosa o come aberrazione eretica. Il che vuol dire che Buñuel vede la religione come perpetua esigenza dell’immaginazione, come perenne rivolta fantastica. I miracoli sono illusioni più reali della realtà; le eresie, sogni intellettuali vissuti a occhi aperti: chi non vedrebbe in questi due aspetti della religione una conferma che la vita è sogno (come per Calderón de la Barca) oppure miraggio (come per Don Chisciotte)? Così, grazie alla strana combinazione del surrealismo freudiano e della polemica anticlericale spagnola, La Via Lattea approda sul terreno sicuro di un’affascinante ed estrosa rappresentazione. DIARIO DI UNA SCHIZOFRENICA Nelo Risi ha avuto una sicura intuizione scegliendo l’argomento del suo ultimo film: Diario di una schizofrenica. Infatti la schizofrenia è una delle malattie dell’epoca (l’altra è il cancro); o meglio certi caratteri della schizofrenia (come, per esempio, la fuga dalla realtà, il regresso al pensiero primitivo e paleologico, il processo di desocializzazione) sono attuali perché riflettono, come in uno specchio deformante, tendenze culturali e psicologiche proprie delle società moderne. La schizofrenia è certamente una malattia. Ma alcuni suoi aspetti diciamo così secondari possono acquistare in particolari circostanze quasi una loro polemica positività. Al limite, la rivolta hippy, con il suo rifiuto della vita sociale borghese, la sua promiscuità, il suo disprezzo dell’igiene, prende come modelli alcuni ben noti comportamenti schizofrenici. Ma lasciamo andare. Il film di Nelo Risi, ricavato dal libro omonimo di Marguerite Andrée

Séchéhaye, racconta essenzialmente la storia di una cura. Anna, la figlia diciassettenne di un ricco professionista, verso i sette anni si ammala gravemente. Rifiuta di mangiare, di camminare, di parlare, insomma di vivere; soffre di allucinazioni; retrocede a stati infantili; tenta più volte di uccidersi. Dopo averla tenuta inutilmente per due anni in una clinica, i genitori decidono di affidarla alla cura poco ortodossa di una dottoressa svizzera. Il film di Risi in sostanza è il racconto del rapporto tra la dottoressa e la malata. Come lavora Bianche, la dottoressa? In base a quale metodo? Brevemente si può dire che, partendo dall’ipotesi che la malattia sia stata originata da una delusione traumatica del bisogno di amore e di sicurezza proprio dell’infanzia, Bianche cerca di risalire a ritroso nel tempo e di stabilire con Anna un rapporto affettivo che si innesti nel punto esatto in cui, a causa della delusione, per difesa, la malata ha cominciato a spezzare i propri rapporti col mondo. Nel caso di Anna il trauma è stato causato dalla madre. Anna non era desiderata dai genitori, le è stato rifiutato il seno materno, è stata considerata sempre un’intrusa. Così Anna rifiuta la vita in quanto a sua volta è stata rifiutata da sua madre. Con infinita pazienza, Bianche cerca di sostituire il disamore materno col proprio amore. Non ci riuscirebbe se Anna non avesse due ricadute, la prima quando un giardiniere la rimprovera di rubare una mela, simbolo quest’ultima della mammella materna, la seconda quando Anna scopre che Bianche dedica le sue cure anche a un’altra malata. Illuminata dalle ricadute, Bianche comprende che Anna si punisce in quanto si crede punita. Il rifiuto della vita in realtà è un’auto-punizione originata dal senso di colpa che ispira il fatto di essere rifiutata. Bianche interpreta correttamente questi oscuri messaggi e così riesce a guarire Anna. Il film si conclude col ritorno di Anna in famiglia. Nelo Risi ha fatto un film di puro contenuto, cioè un film nel quale il diaframma stilistico è ridotto al suo massimo grado di trasparenza e di naturalezza a tutto vantaggio della rappresentazione oggettiva del caso clinico. Ma il contenuto in compenso è stato decantato e ordinato con un rigore e una chiarezza che equivalgono a un atteggiamento stilistico. La qualità principale del film sta secondo noi nell’avere saputo creare un rapporto dialettico tra dottoressa e malata, tra malattia e cura. Questo rapporto esiste nella realtà; tutti coloro che hanno sofferto di qualche prolungata infermità conoscono l’angoscioso alternarsi delle guarigioni e delle ricadute. Ma è merito di Risi di aver recuperato, oltre al caso clinico, l’atmosfera drammatica propria di questa lotta tra le forze della vita e quelle della morte. Semmai, non ci sentiamo di sottoscrivere del tutto l’ottimismo finale. Anche perché, per motivi a quanto sembra indipendenti dalla volontà del regista, corre una troppo grande distanza tra l’eccellente interpretazione di Ghislaine D’Orsay, una straordinaria malata, e di Margarita Lozano che è Bianche, e quella degli attori a cui sono stati affidati i ruoli dei genitori e del dottore. Il ritorno in famiglia della malata, in mancanza di una rappresentazione adeguata dell’ambiente familiare, sembra piuttosto un’ipotesi che una realtà. NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI Carmelo Bene è uno dei rari personaggi davvero nuovi e importanti del nostro teatro di questi ultimi anni. Quest’attore frenetico e lucido, magniloquente e sarcastico, prepotente e insinuante, dal volto sensuale e protervo curiosamente evocativo dei profili decadenti di re e tiranni del tardo ellenismo, quali si vedono nelle monete dell’epoca; questo regista di se stesso il cui talento rivela in parti eguali un acume critico insolito e una ossessione narcisistica di specie addirittura neroniana, ha portato a termine un’operazione di rottura degli schemi tradizionali del teatro che in Italia non ha equivalenti. All’estero si potrebbe pensare al Living Theatre, se non altro per il trasferimento del messaggio dalla parola al gesto. Ma il Living mira alla creazione di gruppo. Carmelo Bene è solo e vuol rimanere solo.

Il procedimento di cui si serve Carmelo Bene per dissacrare, facendone la parodia, i testi più illustri della nostra cultura, è quello della dissociazione, spinta, però, fino al delirio schizofrenico. Di solito, Carmelo Bene smonta pezzo per pezzo il testo, come se fosse una struttura meccanica (ma non lo è: la dissacrazione comincia proprio qui) e quindi presenta i pezzi isolati e privi di rapporti gli uni con gli altri, in una azione scenica che non è azione perché è statica come un tableau vivant. Quasi a dire: “Credevate che fosse un organismo unitario vivente, autonomo. Guardate: è invece una macchinetta culturale, un congegno senza segreti.” La dissociazione è spinta, come abbiamo detto, fino al delirio schizofrenico al quale d’altronde Carmelo Bene rifà il verso con iterazioni insensate di gesti e di parole a loro volta già insensate in partenza. Carmelo Bene straccia lenzuoli, si avvolge in broccati, piega e dispiega drappi, ripetendo febbrilmente un nome, una formula, una frase. Intanto sulla stessa ribalta, Salomè miagola, Erode tuona, Giovanni Battista predica, Ero-diade lusinga. Ma ciascuno per conto proprio. Mentre la musica, per lo più valzer viennesi o brani d’opera, si scatena, grandiosa e incongrua. L’effetto generale è quello di un grottesco, delirante linciaggio. Ma perché tanto furore distruttivo? Il film Nostra signora dei Turchi fornisce forse la risposta. Che cos’è Nostra signora dei Turchi? Apparentemente, in mancanza di un testo celebre da aggredire, e vista la presenza ossessiva dell’attore, sembrerebbe una parodia di Carmelo Bene fatta da Carmelo Bene. Ma non è così. Una volta il film terminato, il significato appare chiaro, giacché non c’è niente di più rigoroso e di più sistematico del folle, dell’onirico e dell’inconscio. E allora vediamo che la parodia non riguarda tanto Carmelo Bene quanto l’originario mondo culturale di Carmelo Bene. Qual è questo mondo? In parole spicce, è il mondo del nostro umanesimo meridionale. Un mondo eroicomico di gesti smisurati e passionali, su uno sfondo modestamente provinciale e contadino. Dietro il Living Theatre si sente l’America industriale; dietro Carmelo Bene, lo spagnolesco e guitto Regno di Napoli. La sensibilità del regista sembra avere assorbito durante l’infanzia una dose eccessiva di baroccaggine cavalleresca e cattolica. Madonne miracolose, ossari di martiri, fuochi d’artifizio in onore di santi patroni, chiese sgretolate ma ancora fastose, altari affollati di bambole sacre, immagini da ex voto, personaggi da teatro dei pupi, interni pieni di stracci e di piatti sporchi, esterni pieni di fiori fetidi e di piante subtropicali, queste e molte altre cose ancora sono qui recuperate dal fondo nero della memoria soltanto per voltarle in ridicolo, metterle in parodia. La contestazione di Bene, antirettorica e antiumanistica, apparentemente aggredisce Collodi o Wilde. In realtà se la prende con Plutarco. L’originalità dell’operazione di Carmelo Bene consiste nell’aver trasformato la provincia fisica nella quale è nato, in provincia culturale. Dalla contestazione degli archetipi dell’infanzia a quella della cultura intera, il passo è stato breve. Così dopo la parodia di Lewis, di Wilde, di Collodi, è stata la volta addirittura di Shakespeare e di Goethe. Ma come tutte le rivolte, anche quella di Carmelo Bene attacca per meglio affermare. L’esaltazione di Maiakovski e certe sequenze di questo film ci fanno intravedere quale potrebbe essere domani il mondo positivo, non più parodistico di Carmelo Bene. Certo, per esprimere un simile mondo, bisognerebbe forse che Carmelo Bene ponesse dei limiti alla propria presenza; o per lo meno proiettasse se stesso in qualche cosa di oggettivo, personaggi e situazioni. In questo film magmatico, parossistico e tenebroso siamo ancora al soliloquio. Che si interrompe soltanto di fronte all’apparizione del personaggio tutto celestiale della Madonna, interpretato con accigliata severità da Lydia Mancinelli. Quanto a dire, come dichiara Bene stesso, che non è possibile aver rapporti coi propri simili ma soltanto con la divinità. L’uomo è solo. Soltanto Dio può trasformare il suo monologo in dialogo.

VENGA A PRENDERE IL CAFFÈ… DA NOI A quanto pare ci sono dei lettori che scrivono delle lettere lamentando che in questa rubrica noi ci occupiamo troppo di film che nessuno ha veduto e troppo poco di film che invece tutti sono corsi a vedere. Vorremmo rispondere a questi lettori che la questione non è così semplice. Lo spartiacque non passa tra film che nessuno vede e film che tutti vedono; ma tra film “prodotti” e film d’autore. Dei film della prima categoria è difficile anzi impossibile parlare perché il prodotto, con la sua assoluta mancanza di mistero, nega a se stesso in partenza ogni possibilità di esistenza, e allora com’è possibile parlare di ciò che non c’è, che non esiste? Perché, poi, esistenza e mistero siano in arte sinonimi; perché l’esistenza sia misteriosa; e perché, infine, non si possa parlare se non di ciò che esiste, ossia del mistero, questo è un discorso forse troppo lungo per una nota così breve. Semmai, vorremmo domandarci perché il pubblico in genere preferisce i film prodotti ai film d’autore cioè preferisce ciò che non c’è a ciò che c’è, ciò che non esiste a ciò che esiste. La domanda è giustificata dal successo della cosiddetta commedia all’italiana. Questi film sono dei tipici “prodotti”, cioè, in realtà “non esistono”; tuttavia il successo c’è ed esiste; e almeno da un punto di vista sociologico e di di costume, val la pena di domandarsene i motivi. Prendiamo per esempio l’ultimo film della serie: Venga a prendere il caffè… da noi, di Alberto Lattuada. Questo film è un prodotto se mai ce n’è stato, ossia una macchina composta di elementi smontabili che, a loro volta, sono dei prodotti già adoperati in altre macchine anteriori, così che, da una macchina all’altra si potrebbe facilmente risalire addirittura alla commedia dell’arte e magari anche più indietro. Quanto a dire che ci troviamo di fronte, almeno per quanto riguarda la rappresentazione di una certa società, alla più completa mancanza di agganci con una realtà qualsiasi. La vicenda, ricavata dal romanzo La spartizione di Piero Chiara, narra di un funzionario di stato, ghiottone ed erotomane, il quale, presumendo della propria virilità, sposa la più brutta di tre sorelle facoltose, si porta a letto anche le altre due e finisce, punizione provvidenziale ed edificante, paralitico, in carrozzella. La qualità principale di questo film è forse una certa umiltà. Composto di elementi, come abbiamo detto, del tutto irreali ed esanimi, non pretende, come altri film del genere, di “incidere” sul costume; si autolimita fin dall’inizio al livello di farsa. Ritorna, adesso, la domanda che ci siamo fatta poco fa: perché il pubblico preferisce queste e altre simili “commedie all’italiana” ai film d’autore, ai film d’arte? La risposta, purtroppo, non può essere che una sola. Il pubblico preferisce quello che non c’è e non esiste a quello che c’è ed esiste (o almeno tenta di esservi e di esistere) per un motivo di somiglianza e di analogia, vale a dire perché il pubblico stesso almeno oggi, nel presente momento storico, preferisce non esserci e non esistere sul piano culturale ed esistenziale. Un film che ci fosse, che esistesse, darebbe per contrasto, al pubblico l’impressione di non esserci, di non esistere e di conseguenza lo metterebbe in crisi. Che vuol dire questo? Vuol dire che il pubblico non desidera e non ama essere criticato e che il successo della critica di costume della commedia all’italiana deriva dal fatto che in questi film non c’è né critica, né costume, né un bel nulla. Ma allora cosa c’è? Stringendo dappresso la commedia all’italiana, diremmo che c’è di solito la bravura di un attore comico, secondata più o meno da registi di provato mestiere come per esempio, appunto, Alberto Lattuada. Questi attori comici hanno un loro gioco che va molto al di là dell’occasione narrativa che gli fornisce il pretesto per esibirsi. È un gioco fine a se stesso che crea tra l’attore e il pubblico un rapporto assolutamente indipendente dalla vicenda del film. Ugo Tognazzi in Venga a prendere il caffè… da noi rinnova puntualmente questo rapporto che, tale e quale, si verificava nei suoi film precedenti. Dove siamo? Nella commedia dell’arte? Nell’atellana? Nella farsa classica? Siamo in Italia. LEONE L’ULTIMO

Leone l’ultimo racconta la storia di una presa di coscienza sociale che però non si accompagna con una scelta politica e così deve per forza sfociare in un modo di azione individuale e stravagante. Leone è l’ultimo rampollo nevrotico e malaticcio di un’antica e ricchissima famiglia la cui magione londinese si trova nel bel mezzo di un miserabile quartiere abitato da povere famiglie del sottoproletariato urbano. Leone è una specie di voyeur della vita. Non partecipa, non interviene, ha orrore della società, teme i contatti; e tuttavia, al tempo stesso, è morbosamente attirato da ciò che gli fa orrore e passa le giornate a spiare, per mezzo di cannocchiali e di binocoli, quello che avviene nelle catapecchie che circondano il suo palazzo. Naturalmente ne vede di tutti i colori. Sensibile com’è, non può fare a meno di indignarsi, commuoversi, fremere, intenerirsi, scandalizzarsi, insomma simpatizzare. Cresce nello stesso tempo in lui l’avversione per i propri servitori, per i vecchi amici del padre defunto, per la donna nobile e nevrotica che dovrebbe sposare, per la società altolocata a cui appartiene. Avviene che tra coloro che Leone spia c’è una poverissima famiglia di giamaicani. Il marito viene arrestato per aver picchiato un bottegaio bianco che gli insidiava la moglie. Costei, presa in mezzo da una banda di ruffiani, viene avviata alla prostituzione. Questa volta Leone abbandona finalmente il voyeurismo: scende in strada, strappa la ragazza ai suoi sfruttatori, se la porta a casa con l’intenzione di redimerla. Senonché, patatrac! D’improvviso Leone scopre che la sua grande ricchezza proviene dai fitti delle catapecchie la cui miseria l’ha tanto commosso. Comprende che la contemplazione ormai non basta più; che è giunto il momento di agire. Alla testa di una folla di sottoproletari va all’assalto della propria magione e, dopo aver sconfitto i servitori ed ex sodali che vorrebbero difenderla, la dà alle fiamme. Commento finale di Leone: “Non abbiamo cambiato il mondo, ma almeno abbiamo cambiato la nostra strada.” John Boorman ha fatto un film del genere di If… di Anderson. Per metà, Leone l’ultimo è uno studio di ambiente condotto con sofisticata abilità e notevole capacità di osservazione; per l’altra metà, è la rappresentazione simbolica di una catastrofe improbabile vagheggiata ancor prima che dal personaggio, dal regista medesimo. In If… la catastrofe era la guerriglia che esplodeva nel bel mezzo dei riti fossili del “college”; in Leone l’ultimo, è la distruzione della magione, che ricorda molto l’analogo finale, anch’esso simbolico, di Zabriskie Point. Così in If… come in questo film di Boorman, la catastrofe finale è più significativa che convincente. Con questo vogliamo dire che essa serve piuttosto a illuminare lo stato d’animo di chi ha fatto il film che il film stesso. A ben guardare, infatti, lo stato d’animo da cui nascono film come If… e Leone l’ultimo non è quello di chi vuole rinnovare la società e rendere giustizia ai diseredati, bensì quello di chi non riesce a respirare nell’atmosfera arida, formalista, astratta dei gruppi dirigenti e anela all’emotività, alla sensualità, all’autenticità delle classi oppresse. Con qualche aggiornamento contestatorio, ci troviamo ancora una volta di fronte alla vecchia polemica di D.H. Lawrence contro l’intellettualismo dei ceti privilegiati e a favore della capacità sessuale e sentimentale del popolo. Leone l’ultimo è un lontano parente del marito di lady Chatterley. Naturalmente, stando così le cose, la sua presa di coscienza è sviante e mistificatoria; e infatti il film, finché Leone fa il voyeur, è vivo e mordente; appena fa il rivoluzionario, diventa falso. Probabilmente il regista non ha capito il proprio personaggio. Se l’avesse tenuto alla finestra fino alla fine, avremmo avuto un carattere di tipo classico in più, quello del voyeur sociale, e la polemica contro i privilegi sarebbe stata ben più efficace. Marcello Mastroianni, che interpreta con bravura la parte di Leone, è credibile finché si indigna e freme alla finestra; non gli crediamo più appena scende nella strada. DON GIOVANNI Il melodramma, soprattutto quello dell’Ottocento, è fatto come una stanza che abbia pareti di specchi. Nella stanza avviene qualche cosa di drammatico; ma gli specchi non sono fedeli. Sono

specchi deformanti nei quali il dramma, riflettendosi, diventa commedia. Degli specchi parodistici e involontariamente critici. Insomma il melodramma è composto di una parte serissima, la parte musicale e vocale, e di una parte parodistica, la parte scritta. Musica e canto si levano fino ad altezze sublimi nell’opera, tanto per fare un esempio, di Verdi; ma i libretti, affatto privi di valore artistico e spesso ridicoli, sembrano una parodia delle grandi passioni che si esprimono nella musica e nel canto. Nell’opera di Mozart questo non avviene perché i libretti sono del grande Da Ponte; ma Da Ponte non è al livello di Mozart e d’altra parte, finita la tradizione settecentesca, la parodia è all’angolo della strada. Quanto a dire che il melodramma è il solo genere d’arte nel quale coesistano in miracoloso accordo il dramma e la sua parodia. Era inevitabile che Carmelo Bene si avvicinasse al melodramma a un certo punto della sua carriera. Figlio di una cultura agonizzante, dotato come pochi per la parodia, fino a rasentare una lucidità surrealista che ricorda Lautréamont, Carmelo Bene deve essersi sentito attirare molto presto dalla violenza delle passioni che si esprimono nell’opera, così estreme e così facilmente parodiabili. O meglio, più che dall’opera, nel suo insieme, dalla parte involontariamente parodistica dell’opera, cioè dal libretto. Per quale magica trasmutazione, i luoghi comuni e le frasi fatte dei libretti diventavano musica? Bene deve aver riflettuto su queste particolarità dell’opera e ne è venuto fuori Don Giovanni non già parodia cinematografica dell’opera ma traduzione in immagini dell’inconscia parodia librettistica. Don Giovanni è un film singolare, uno dei migliori di Bene. Poiché il punto di partenza non è l’opera ma il libretto cioè la parte parodistico-critica dell’opera, Bene nel corso del film recupera via via la serietà del melodramma. Questa serietà, nel caso, è quella del proprio protervo, infatuato, prepotente narcisismo. In Don Giovanni tutto è illuminato di luce parodistica salvo Carmelo Bene. Ecco dunque Carmelo Bene in una parte di tirannello rinascimentale. Ecco la sua casa che potrebbe anche essere un angolo di palcoscenico ma in realtà è molto simile a tante vecchie dimore del nostro profondo Sud, con tutto il suo bric-à-brac di provincia. Ecco i due personaggi della madre e della figlia, l’una complice, l’altra vittima della sua tirannia, tipiche ambedue di un certo gusto, di un certo erotismo. Ecco infine gli oggetti sacri che probabilmente hanno affascinato l’infanzia di Bene, i rosari, gli scapolari, i santini, i crocifissi. In quest’atmosfera torrida e derisoria, le convenzioni melodrammatiche prive del sostegno musicale crollano fragorosamente e sola affiora la determinazione fisiologica. Inutile raccontare un film come questo, in cui non avviene nulla o meglio avviene il solito autovagheggiamento che è proprio dell’arte di Bene. Ma non si può negare che tra i tre personaggi interpretati con grande efficacia da Bene stesso, da Gea Marotta e da Lydia Mancinelli non ci sia un rapporto drammatico. Carmelo Bene in questo film si rivela più narratore che nei primi due. I tre personaggi hanno una loro esistenza sia pure dietro lo schermo dei finti dolori e dei finti orrori della parodia. Esistono senza però varcare la soglia esistenziale. Il film è un magma di immagini dense e balenanti, di citazioni letterarie e pittoriche. Carmelo Bene è riuscito a creare tre personaggi e una situazione drammatica, senza però mai narrare né sboccare nel dramma vero e proprio. MASH Mash di Robert Altman è un film di guerra che ha vinto il premio al festival di Cannes probabilmente perché è un film di guerra. Allora Cannes sarebbe diventato un luogo di riunione di coloro che un tempo venivano chiamati “guerrafondai”? Tutt’altro, il film senza dubbio è stato premiato perché considerato pacifista. Vediamo adesso se questo pacifismo risponde a verità. Secondo i polemologi, la guerra sarebbe una specie di salasso che certe nazioni le quali hanno troppo di qualche cosa (troppi uomini, troppa ricchezza, troppi prodotti, troppi quadri dirigenti, troppi disoccupati, ecc. ecc.) infliggono a se stesse più o meno inconsciamente. Quanto dire che le

guerre non si farebbero perché non si ha qualche cosa e si vuole derubarne il vicino; ma perché si ha troppo di qualche cosa e ci si serve del vicino per liberarsene. Per esempio i paesi poveri hanno troppi uomini mentre i paesi ricchi hanno troppe ricchezze. Ecco una guerra già pronta. Attraverso la guerra, ricchezza e popolazione saranno “sgonfiate”. In realtà questo è avvenuto in Europa durante gli ultimi due secoli. La bomba atomica non modificherebbe questo stato di cose. Essa sarebbe semplicemente un’arma alla misura delle masse. Ma perché c’è troppo di qualche cosa? È qui che Mash, film apparentemente pacifista ma in realtà bellicoso, può dare una risposta. C’è troppo di qualche cosa allorché c’è repressione ossia deviazione di energia per fini aggressivi. In Mash si racconta la vicenda di due chirurghi buontemponi e goliardici ma bravissimi nella loro professione i quali, capitati durante la guerra di Corea in un ospedale da campo, si fanno beffa delle convenzioni che sono proprie della società militare. Il loro bersaglio preferito è un capitano grande lettore della Bibbia e nell’intimità (relativa) della propria baracca grande cacciatore di gonnelle. Il capitano salta addosso a un’infermiera e non si accorge che un microfono permette ai suoi due colleghi di registrare i gemiti, i ruggiti e le rumorose agonie dell’amore. Svergognato, il capitano dà in escandescenze e viene portato via di peso tutto legato in una camicia di forza. Abbiamo detto che la repressione è all’origine della guerra. Ora tra il capitano ipocrita che va a letto con le infermiere e i due chirurghi che lo svergognano, non c’è dubbio che i repressi sono questi ultimi. Noi sappiamo infatti che il capitano finge di essere religioso ma in realtà ama le donne; ma non sappiamo affatto cosa amano i due chirurghi, perché essi non fingono e non sono ipocriti e quello che fanno (operare i feriti di guerra) lo fanno bene e sul serio. Così in mancanza di altre spiegazioni, bisogna pur credere che essi non amano le donne ma soltanto il loro mestiere cioè la guerra. Repressi ed efficienti, ce l’hanno con il capitano non già perché è ipocrita ma perché non è represso e dunque, probabilmente, non è efficiente. Del resto il film ha una sua atmosfera che puzza di caserma lontano un miglio. Non è la caserma prussiana, d’accordo; è la caserma anglosassone, kiplinghiana, hemingweiana, dove si scherza e si prende in giro la guerra ma per farla meglio. Le beffe che i due chirurghi goliardici combinano contro i loro colleghi militaristi hanno sempre per agente catalizzatore il sesso. Ma i due allegroni, loro, sono casti. Così il militarismo si manifesta per quello che è: una repressione così completa e così profonda che non resta che ridere e scherzare e fare la guerra. Come sempre avviene in film del genere, gli attori sono bravi ma di una bravura che sfiora pericolosamente il luogo comune simpatico e pseudoliberatorio. Donald Sutherland e Tom Skerrit, tra uno scherzo e l’altro, si immergono fino al naso nel sangue delle sale operatorie. Sembrano, con la loro allegria di buon augurio, due ostetrici che presiedono alla nascita di nuove esistenze. In realtà mettono la loro scienza al servizio di quello che qualcuno ha chiamato un infanticidio collettivo ritardato. Cioè della guerra. LA MACCHIA ROSA Da qualche tempo si moltiplicano i film con fotografi e registi come protagonisti. A un dipresso, lo schema di questi film è il seguente: il regista o il fotografo ha una vita privata molle, sensuale, egoista; ma la macchina fotografica o da presa lo rende tutto a un tratto cosciente del dolore che c’è nel mondo e lo trasforma così in interprete del senso di colpa che le città (direbbe Lin Piao) gonfie di inutili consumi provano nei confronti delle affamate e miserabili campagne. Cioè, del senso di colpa dell’Occidente ricco nei riguardi dell’Oriente (o magari dell’Africa e dell’America latina) povero. La fame, l’ignoranza, l’ingiustizia, l’oppressione, le guerre e via dicendo, sono la “realtà” che macchina fotografica e macchina da presa rivelano a un tratto a uomini che finora hanno menato una vita chiusa nel più ermetico egoismo. Vorremmo fare una sola osservazione su questo schema.

Mentre è vero che il lavoro, qualsiasi lavoro praticato e sentito come espressione, stabilisce un rapporto con la realtà, non si vede perché un fotografo o un regista dovrebbe essere un personaggio privilegiato appunto e soltanto perché fotografo o regista. Ossia: la macchina da presa e la macchina fotografica sono due macchine e non possono conferire una sensibilità politica, sociale, morale a chi non ce l’ha. Lo stesso va detto del resto della macchina per scrivere, del pennello, dello scalpello, della carta da musica e via dicendo. Ma questi mezzi non godono oggi del prestigio stregonesco che circonda la fotografia e il cinema. Questo piccolo preambolo vorrebbe essere una critica al contenuto di La macchia rosa, ultimo film di Enzo Muzi. La storia di questo film è, appropriatamente, così riassunta da un giornale: “Un giovane fotografo torna dall’India e solo attraverso un dramma privato (nostra nota: il suicidio della sorella Valeria, per motivi, diciamo così, esistenziali) comprende la realtà di quel paese.” Ci siamo sbrigati della storia perché, in fondo, il film di Muzi non ne ha e questo potrebbe essere un pregio. Senonché il regista non è riuscito a creare un rapporto dialettico tra l’egoismo sensuale e tecnologico di Giancarlo e il dolore dell’India. Ora il formarsi di un simile rapporto era appunto ciò che avrebbe dovuto raccontarci il film. Ne La macchia rosa, a ben guardare, non ci sono in senso etico-sociale-politico, né l’Italia né l’India; e quando Muzi tenta delle incursioni in questa direzione, non riesce convincente perché, appunto, la realtà etico-sociale-politica non fa parte dei suoi autentici interessi. Ci sono, invece, delle splendide raffinate fotografie così dell’Italia (volti, paesaggi, oggetti) come dell’India ma visti non già dal Muzi regista di un film sulla crisi di un fotografo, bensì dal Muzi fotografo che già conosciamo e ammiriamo. Queste fotografie non si contrappongono dialetticamente in quanto livellano e accomunano “in bellezza” il volto di Delia Boccardo e quelli delle mendicanti indiane, i paesaggi della Toscana e quelli della Valle del Gange, gli oggetti sulla toletta di Valeria e il sari e i gioielli di una donna indiana. La macchina fotografica di Giancarlo, parente stretta di quella del fotografo di Blow-up, non ha sensibilità etico-sociale-politica, come del resto non l’aveva quella del personaggio di Antonioni. Ma in Blow-up, grazie alla scoperta di un particolare reale essa diventava il simbolo della presa di coscienza; mentre qui dovrebbe addirittura “agire” direttamente da coscienza; e allora bisogna ripetere quello che si è già detto: la macchina non può dare una coscienza a chi non ce l’ha. Certo, Giancarlo, dopo il suicidio di Valeria, vede probabilmente le proprie fotografie in un modo diverso; ma noi vediamo soltanto Giancarlo, più autentico e sincero quando fa l’amore che quando si addolora, il quale guarda alle magnifiche fotografie di Muzi. Detto questo, accanto alla bravura di Muzi fotografo, bisogna ricordare quella di Valeria Monconi nella parte di Valeria e di Delia Boccardo in quella di Livia. Giancarlo Giannini potrebbe essere convincente soltanto se il regista l’avesse guardato con ironia. Come personaggio serio, manca di spessore. MORE (DI PIÙ, ANCORA DI PIÙ) In questi ultimi anni i giovani hanno cambiato il mondo rifiutandolo, cioè, in pratica, capovolgendo la scala dei valori. Quello che era bene è diventato male e quello che era male è diventato bene. Tra le cose che erano male e grazie al rifiuto dei giovani sono diventate (per i giovani) bene, va messa in prima linea la droga. Abbiamo parlato di rifiuto non di rivoluzione e tanto meno di riforme. Il rifiuto è in realtà la forma più drastica di rivolta. Suicida parziale, il drogato rifiuta la realtà del mondo a vantaggio non già di altre realtà anch’esse mondane, ma dell’“irrealtà”, cioè di qualche cosa che in tutti i casi non corra il pericolo di diventare reale. Di tutto questo sottofondo sociale e, in senso lato, biologico non v’è traccia in More (Di più, ancora di più) film sulla droga di Barbet Schroeder. Già la storia lo dimostra. Vi si racconta del giovane Stefan che dalla natia Lubecca, con l’autostop se ne viene a Parigi. Qui, attraverso un amico

occasionale baro e ladro, incontra, in una festa giovanile, una ragazza, Estelle. Innamorati, i due partono per Ibiza, nelle Baleari. Ma a Ibiza Estelle si rivela drogata. Dapprima per curiosità poi per gusto anche Stefan si droga. I due non hanno un soldo. Estelle che, a causa della droga, dipende ed è l’amante in segreto di un losco tedesco ex nazista proprietario di un ristorante e trafficante di droga, ruba al vecchio amante una somma di denaro e un pacchetto di eroina e si rifugia con Stefan in una villa isolata su una scogliera. Qui i due danno fondo all’amore e alla droga in un crescendo di estasi erotiche e artificiali. Alla fine, dopo una crisi terribile, Estelle torna al vecchio tedesco. Stefan per un poco si adatta a far da barman e da spacciatore per il tedesco. Poi, quando Estelle l’abbandona definitivamente, si uccide con una dose massiccia di eroina. Questo film di Schroeder ha due difetti fondamentali. Il primo è di guardare alla droga con l’occhio dei padri, come a un “vizio” puramente individuale, senza alcun carattere storico e sociale. Il secondo è di aver mischiato alla droga l’amore e di aver ambientato quest’amore non già in qualche sordido quartiere di New York bensì in un luogo di grandiosa bellezza come Ibiza. Al primo difetto dobbiamo tutte le cose convenzionali del film, e prima di tutto la figura falsa e fumettistica del “satanico” ex nazista, corruttore della gioventù. Quanto al secondo difetto consistente nel mischiare amore e droga sullo sfondo delle Baleari, vien fatto di esclamare: troppa grazia. Con questo si vuole dire che, alla fine, si ha l’impressione di avere visto un film d’amore, soltanto d’amore, nel quale la droga ha un ruolo secondario. In realtà i due amanti non si distruggono con la droga ma con l’amore che è notoriamente un fatto distruttivo se portato fino a certi estremi. La droga tutt’al più aiuta i due a distruggersi più presto. Ma come film su un certo genere d’amore il quale cerca l’assoluto, lontano dalle città, in ambienti naturali “assolutamente” belli, More che ricorda certo cinema “naturistico” degli anni trenta, è notevole e contiene sequenze piene di verità. Esso vale, insomma, come descrizione verace di un tipo particolare di passione basata su un modo di vita estremo e decadente che proprio alle Baleari ha avuto, con la coppia Sand-Chopin, una prima manifestazione esemplare più di un secolo fa. Certo, la droga vi aggiunge una nota “moderna”; ma il modo di guardarla non è moderno bensì romantico e “fin de siècle”. Tra gli interpreti la migliore di gran lunga è Mimsy Farmer, molto espressiva e genuina nella parte della ragazza. Klaus Grünberg è invece uno Stefan un po’ molle e generico. I CANNIBALI L’Antigone di Sofocle è una delle creazioni più alte e più consapevoli della civiltà occidentale. Chi voglia capire il carattere specifico di questa civiltà dovrà pur sempre tornare all’Antigone, tragedia del rapporto tra le leggi proprie della persona umana e le leggi della città o dello stato. Antigone che sfida le leggi della città, dando onorata sepoltura al cadavere del fratello, secondo Sofocle è colpevole o innocente? È innocente e tuttavia Creonte “deve” condannarla, per essere poi a sua volta punito dagli dei con la morte di Emone suo figlio. Ma Antigone è un meraviglioso personaggio. La risposta ultima di Sofocle è nella bellezza del personaggio. Liliana Cavani ha ricalcato, in questo suo film I cannibali il tema dell’Antigone sofoclea trasferendolo con commossa fedeltà nel mondo moderno. Il film nasce soprattutto da un’immagine, una sola ma stupenda, ispirata da Sofocle ma “riinventata” dalla Cavani: le strade e le piazze di una grande città moderna sparse dei cadaveri di una rivolta giovanile e la gente che, indifferente, frettolosa, persino allegra, cammina tra questi cadaveri evitando di toccarli, perché la legge dello stato (uno stato capitalista, tecnologico, neopositivista, insomma americano) lo proibisce, pena la morte. Quest’immagine contiene tutto il messaggio del film, un messaggio di dolore “pio” struggente e quasi morboso. La giovane borghese Antigone che decide, contro la legge, di dare sepoltura al cadavere del fratello contestatore e si fa aiutare in questa sua impresa eroica da uno

strano uomo che parla una lingua sconosciuta (l’aramaico?) e disegna sui muri un pesce (il pesce simbolo del cristianesimo?), Antigone, diciamo, è la portatrice di questo messaggio di pietà e di rivolta. Ma rivolta contro che cosa? Qui il dramma di Sofocle e il film della Cavani si separano. Nel dramma sofocleo Antigone si rivolta in nome “delle leggi eterne dei numi” contro le leggi affatto umane della città. Invece nel film della Cavani da una parte ci sono le “leggi eterne dei numi” cioè la pietà greca, la pietà cristiana, e dall’altra non già le leggi della città bensì l’alienazione, la disumanità, l’empietà della civiltà capitalista e tecnologica. In altri termini gli autori del film non hanno voluto tener conto del fatto che il contrasto sofocleo ancora oggi valido non è tra le leggi divine e la crudeltà di un Creonte, bensì tra le leggi proprie della persona umana e quelle di tutti gli stati, allora le leggi di Tebe, oggi le leggi degli Stati Uniti, dell’URSS, della Cina di Mao, della Francia di Pompidou, dell’Italia di Rumor. Così il difetto principale di questo film per molti aspetti eccezionale e ammirevole, è di aver contrapposto alla pietà di Antigone non già l’empietà dello stato moderno con le sue strutture poliziesche, culturali, scientifiche, tecnologiche “normali”; bensì una specie di orwelliano 1984 capitalista. Ma il libro di Orwell è un pamphlet; mentre il film della Ca-vani vorrebbe essere un dramma. Di qui una unidimensionalità che una rappresentazione più approfondita e dunque più oggettiva avrebbe permesso di evitare. C’era tutto da guadagnare a mostrare che “tutti” gli stati non possono non condannare Antigone, oggi come ieri e che Antigone non può non rivoltarsi. Questo non avrebbe impedito d’altra parte, in linea subordinata, di attaccare, com’era intenzione della Cavani, il particolare sistema che oggi disumanizza l’Occidente. Ma il film è pur sempre tra i più belli di questi ultimi tempi se non altro perché il discorso della Cavani parte da un sentimento di dolore e di pietà raro nel nostro cinema. Gli interpreti hanno avvertito l’eccezionalità del tema. Soprattutto Tomas Milian, il migliore, e Pierre Clementi. Britt Ekland alterna buoni momenti ad altri più convenzionali. LENIN Giovedì 23 si è inaugurata a Roma la settimana del cinema sovietico. La prima sera, oltre al film Stelle di giorno di Igor Talankin, è stato proiettato un documentario su Lenin che ci ha ispirato alcune riflessioni. Nel documentario si vede Lenin attraverso gli anni che vanno dal 1918 al 1924. Questo documentario, a guardarlo in filigrana, si rivela come un involontario cinéma vérité. Ciò che colpisce a prima vista è il fatto, del resto ovvio, che Lenin era prima di tutto un intellettuale. È calvo alla maniera “dotta” dei professori dell’Ottocento, porta un colletto un po’ alto, di quelli staccati e forse inamidati che si attaccavano alla camicia con due bottoni d’oro, uno davanti e l’altro dietro. Ha una cravatta nera a punti chiari su camicia bianca, una giubba grigio-ferro, un panciotto più scuro, pantaloni dello stesso tessuto della giubba. Porta sulla calvizie un berretto da operaio; ma lo porta da intellettuale che sfida i borghesi i quali, loro, portano la lobbia o la bombetta; non da operaio che insieme con il berretto porta la blusa o la tuta. Quest’intellettuale, però, lo vediamo non nelle sue funzioni di intellettuale, ma in quelle di uomo potente e glorioso al colmo di un successo molto particolare: il successo dell’intellettuale che ha messo in pratica le sue teorie. Certo, la Russia è povera, distrutta e per giunta assediata dagli eserciti antirivoluzionari; ma Lenin, lo si vede in ogni fotogramma, ha già in pugno la vittoria. Il momento più espressivo di questo Lenin intellettuale potente e vittorioso si ha durante la sfilata impeccabile dei reparti dell’armata rossa. Lenin, per quanto possa sorprendere in un uomo così controllato, così sottile, ha durante la sfilata un’espressione di soddisfazione ingenua e irresistibile. L’ingenuità che è propria dell’intellettuale che si compiace di essere riuscito ad essere anche un uomo d’azione. L’ingenuità, diciamo, del profeta che ha saputo armarsi e ha saputo adoperare le armi. È in quella stessa sequenza che Lenin grida la frase famosa sull’esercito che nei regimi borghesi è uno

strumento di repressione e di oppressione e invece nei regimi proletari diventa uno strumento di liberazione. La frase, oggi, dopo la Cecoslovacchia e altri incidenti simili, suona ambigua. Certo l’armata rossa “può” essere uno strumento di liberazione, come per esempio durante la seconda guerra mondiale; ma può anche non esserlo. Si comprendono, comunque, tante cose vedendo Lenin, l’intellettuale adorato dalle masse, nei suoi anni di potenza e di vittoria a Mosca. Per esempio, che lo slogan che lo mette accanto a Marx coglie nel vero. Egli è infatti l’esecutore perfetto della teoria marxista secondo la quale la filosofia deve scendere sulla terra e cambiare il mondo. Lenin è il modello supremo di tutti gli intellettuali che dopo di lui hanno cercato di modificare il mondo attraverso l’azione. Intellettuali riusciti o velleitari, sconfitti o vittoriosi. Mao, anche lui un intellettuale, è da mettersi accanto a Lenin per la trionfale riuscita; ma non Stalin, anche se vittorioso: questi è un uomo di potere che ha cercato di essere anche un intellettuale senza mai riuscirci del tutto. È vero, le opere complete di Stalin contano migliaia di pagine. Ma anche le opere complete di Pio XII hanno migliaia di pagine. Modello dell’intellettuale che fa propria la causa del popolo e si fonde con il popolo attraverso la mediazione di una teoria politica, Lenin è il padre, purtroppo, di centinaia anzi migliaia di intellettuali, uomini d’azione velleitari e falliti, che avrebbero forse fatto meglio a starsene al tavolino a leggere e scrivere e studiare invece di scendere in piazza e cercare di “agganciare” gli operai. Già perché accanto all’intellettuale, in Lenin c’era l’uomo di infallibile senso comune. Quel senso comune che invece spesso fa difetto agli intellettuali. SCORPIO RISING Kenneth Anger è un regista del cinema underground americano, nato nel 1932 a Santa Monica in California. Di lui conoscevamo Fireworks girato, come dice la notizia del volantino, “in casa del regista in tre sere mentre i suoi genitori erano assenti, nel 1947”, cioè quando Anger non aveva che quindici anni. Un bel caso di precocità e non soltanto artistica. Fireworks è un film sadomasochistico e autobiografico nel quale il regista che è anche il protagonista si immagina aggredito e seviziato da un gruppo di membruti marinai americani i quali, finalmente, lo squartano e mettono a nudo il suo cuore che, però, si palesa come una specie di contachilometri. Dal pube di uno di questi marinai parte un fuoco d’artifizio (di qui il titolo: Fuochi d’artifizio) e Anger si trasforma in albero di Natale. Il film è notevole per la oggettivazione onirica e surrealista di un sentimento affatto inconscio. Quasi, secondo una recente formula di Fellini, il “documentario di un sogno”. Dopo Fireworks abbiamo veduto Invocation of my demon brother pochissimo convincente a causa del cattivo gusto estetizzante e dell’infantile infatuazione per la magia dell’ormai troppo consapevole regista. Dopo questi film, Kenneth Anger ha annunziato la sua “morte cinematografica” dalle colonne del giornale d’avanguardia The village voice. Speriamo che dopo la morte venga la resurrezione. Il capolavoro di questo regista originale e tendenzioso rimane finora Scorpio Rising (1962-1964). Che cos’è Scorpio Rising? È una specie di film-poema sui teppisti in giacca a vento di cuoio nero, brache attillate, stivali ferrati, armati di catene e di pugnali, drogati, affascinati dai riti e dai simboli nazisti che, verso gli anni cinquanta, a cavallo di potenti motociclette, terrorizzavano i sobborghi delle città americane. Il film, naturalmente, non ha né intreccio né personaggi. Allievo di Eisenstein quanto al montaggio, Anger ci incalza con una scorribanda di immagini violente collegate da un nesso puramente lirico. Dapprima si vedono alcuni dei suoi teppisti mettere a punto le motociclette e poi indossare le funebri uniformi (la parte più bella del film). Quindi c’è una festa o meglio un’orgia omosessuale alla quale i teppisti intervengono con maschere in forma di teschi. A questo punto il film si biforca. Alle immagini dei motociclisti nerovestiti si alternano sequenze, tolte da un film di

argomento religioso, su Cristo e i suoi apostoli. Il cristianesimo che è dottrina d’amore sembra contrapposto (almeno così ci è parso) al nazismo che è dottrina di odio. I teppisti americani in motocicletta, in realtà, sono una nuova incarnazione delle SS hitleriane. Le bandiere con la croce uncinata appaiono sempre più frequentemente verso la fine. Il senso è che forse andiamo verso un nuovo nazismo, questa volta americano. Il film, come abbiamo detto, ha il carattere di un piccolo poema. Kenneth Anger, in polemica con i suoi critici, ha negato di “essere stato vittima del mito che denunzia”; ma è una negazione che non regge all’esame dei fatti. D’altra parte, l’attrazione morbosa che esercitano su di lui “blousons noirs” e SS hitleriane, nonché l’armamentario feticistico delle giacche di cuoio, degli stivali, delle catene, delle motociclette e degli stendardi con la croce uncinata, è proprio ciò che rende autentico il film e dà forza e valore alla sua denunzia del mito nazista. Partendo da un sentimento molto particolare ed intimo, Anger, come sempre avviene quando il sentimento è profondo e sincero, riesce ad uscire dal campo ristretto della specialità sessuale e fa anche della sociologia e persino della profezia. Cupo, sinistro, fatale, il film oltrepassa i limiti del feticismo sadomasochistico e investe tendenze involutive della società americana. I teppisti di Anger sono i marines nel Vietnam di oggi e forse, chissà, i robot tecnologici dell’America di domani. LETTERA APERTA AD UN GIORNALE DELLA SERA In Lettera aperta ad un giornale della sera di Francesco Maselli, alcuni intellettuali comunisti, tra i quali un direttore editoriale, uno scrittore, uno scultore, un professore, un cineasta, un regista e le loro mogli e amanti, durante una serata qualsiasi, in un momento di noia e di esasperazione, lanciano l’idea di una lettera da far pubblicare in un quotidiano di sinistra. In questa lettera essi dichiarano di essere stanchi di “dichiarazioni”, “manifestazioni” ed “appelli” che non richiedono altro rischio che quello di una firma o di una presenza ad un comizio. C’è la guerra nel Vietnam; bisogna agire. Nata dal senso di colpa che ispirano vite apparentemente ribelli ma in realtà integrate, la lettera finisce su un settimanale e pone i firmatari, per la prima volta nella loro vita, di fronte ad un impegno d’azione reale. Non si tratta più di “aderire”; bensì di formare una cosiddetta “brigata della cultura” e andare a “far fuori gli americani” nella giungla del Vietnam. Molti degli intellettuali scoprono allora che non avevano fatto sul serio; alcuni cercano di imbrogliare le carte coi sofismi; altri dimostrano chiaramente di aver paura. Per fortuna il governo nord vietnamita ci pensa lui a toglierli dall’imbarazzo, rifiutando all’ultimo momento, quando le valigie sono già pronte, il loro intervento. Il problema dell’azione degli intellettuali, così di destra come di sinistra, non è nuovo. Serpeggia da almeno un secolo e mezzo per la cultura europea, senza mai trovare una soluzione definitiva. Il problema ha due aspetti, il primo è quello dell’attività culturale e artistica che per vari motivi, anch’essi culturali, l’intellettuale risente come “insufficiente”; l’altro è quello del suo intervento nella vita attiva, politica e no, che quasi sempre si palesa dilettantesco ed estetizzante. A rigore, il primo intellettuale a non accontentarsi di essere quello che era, è stato Byron, grande poeta e sfortunato guerrigliero morto per l’indipendenza greca a Missolungi. Dopo Byron, innumerevoli intellettuali ed artisti hanno tradito l’arte e la cultura per l’azione: Rimbaud, Tolstoj, D’Annunzio, Lawrence di Arabia, Malraux, Hemingway, Orwell ecc. ecc. L’intellettuale comunista che si vergogna di essere un intellettuale e vuole imbracciare il mitra non è che una varietà di sinistra della specie. L’accento cade infatti sulla insufficienza della cultura non sulla tendenza politica. Strano a dirsi, nel campo politico viene invece osservata quasi sempre una rigorosa divisione delle funzioni: Lenin dirige dal tavolino; gli uomini d’azione prendono d’assalto il Palazzo d’Inverno. Ancor più strano: mentre gli intellettuali aspirano spesso all’azione, l’uomo di azione non aspira quasi mai a

diventare un intellettuale. Nel film di Maselli, il gruppo di intellettuali che vorrebbero formare una brigata della cultura per andare a combattere nel Vietnam, serve al regista per sfogare un’acre amarezza autobiografica. Duole dirlo, gli intellettuali di Maselli sono proprio il “culturame” contro cui si scagliano i giornali di destra: imbelli, molli, chiacchieroni, pasticcioni, velleitari. E quanti letti, quante lenzuola, quanti guanciali; quante donne nude o seminude, antico simbolo dell’integrazione, che invadono lo schermo con la loro nudità. Alla fine vien fatto di domandarsi: ma è proprio vero che gli intellettuali sono così? E se sono così, non saranno forse intellettuali già falliti nella loro professione e, appunto perché falliti, smaniosi di agire? Personalmente pensiamo che il problema del film è uno pseudoproblema di tipo romantico: agire nel campo politico o militare richiede vocazione ed esperienza come in tutte le professioni; mandare avanti due professioni alla volta è semplicemente piuttosto difficile. Quello che manca in questo film sulla velleità di agire è proprio l’azione, sia pure un’azione che illustri il velleitarismo, il quale non è mera chiacchiera come Maselli mostra di credere, ma un comportamento come un altro. Non risolto come storia, il film è molto interessante stilisticamente sia per il montaggio virtuosistico sia per il colore diafano, annebbiato, acre. Tra i numerosi interpreti ricordiamo Goliarda Sapienza, Nanni Loy, Nino del Fabbro, Graziella Galvani, Laura De Marchi, Piero Faggioni, Massimo Sarchielli, Daniela Surina. POLITICAL PORTRAITS Di Gregory Markopoulos, regista underground greco-americano, avevamo già visto Twice a man e The Iliac Passion. Specie in quest’ultimo film si delineavano con chiarezza i caratteri della sua arte originale e affatto sperimentale. In primo luogo bisogna mettere, strano in questi tempi di école du regard e di riduzione dell’uomo ad oggetto non più “centrale” né importante di qualsiasi altro oggetto, l’“antropocentrismo”, ossia l’idea che l’uomo è il centro del mondo e le cose gli fanno da sfondo. Quest’uomo, però, è soltanto “maschile” in senso efebico e platonico ossia è il vertice di una escalation della bellezza che parte dalla natura per arrivare su su fino al volto umano. Ma un uomo, per essere davvero uomo, deve avere un passato, un presente, un futuro cioè una storia. Come si può, dunque, rappresentare l’uomo come fornito di storia e al tempo stesso proiettarlo liricamente fuori del tempo? Viene fuori qui il simultaneismo di Markopoulos ossia il suo particolare montaggio, diciamo così, lampeggiante. La figura umana appare e scompare in un batter d’occhio, si avvicina e si allontana fulmineamente, si mischia di continuo, in maniera surrealistica e onirica, con altre figurazioni, altri tratti espressivi, cambia significato ed espressione per successive sovraimpressioni. D’altra parte il profondo silenzio che regna quasi sempre nei film di Markopoulos sta a indicare la prevalenza dell’immagine sul suono. Che vuol dire questo? Vuol dire che Markopoulos alla fine è un realista che non disprezza affatto i dati psicologici, storici, sociali, morali e così via; ma il cui realismo è spiccatamente pittorico. Anzi, come in certi pittori, si possono distinguere in questo regista vari periodi secondo appunto le diverse sue maniere di intendere la composizione e il colore. Nell’Iliac Passion Markopoulos, così nei personaggi come nella natura che fa loro da sfondo, ricorre ad un “fotografismo” virtuosistico. I giovani uomini a torso nudo, i prati fioriti, i campi brulicanti di margherite, le aiuole smaltate sono presentati con un “cattivo gusto” che ricorda il preraffaellitismo, cioè la pittura più carica di inconsci significati sessuali che sia mai stata praticata nel mondo. Ma è in questi ultimi Political Portraits che la simbiosi fra cinema e pittura sempre presente nell’opera di Markopoulos si fa più stretta e più felice. Che cosa sono i Political Portraits? Sono, secondo l’autore, dei ritratti nei quali la “politica” non è o non dovrebbe essere “pubblicità” come è ormai quasi sempre ma “vita”. A sua volta la “vita” va intesa, ci sembra, come “libido” di

tipo freudiano in contrapposizione alla vita sociale ormai sfigurata e alienata dalla tecnologia. Ad ogni modo bisogna ammirare in questi ritratti di personaggi noti (per esempio: De Chirico e Nureiev) e di amici tedeschi, svizzeri e in genere germanici dell’autore, la straordinaria ricchezza di citazioni e di prestiti dalla pittura messa al servizio della già citata visione antropocentrica del mondo. Il pittore al quale si pensa subito è Francis Bacon i cui sdoppiamenti moralistici e psicologici si traducono nel cinema di Markopoulos nel montaggio di cui abbiamo già parlato, simultaneo e lampeggiante. Ma Markopoulos non si ferma ai contemporanei, come Bacon oppure Sutherland. Eccolo citare con la stessa bravura il Tiziano dell’uomo col guanto, il Dürer di certe figure maschili e poi Matisse e Bonnard in certi personaggi con interni borghesi e finalmente anche Boccioni nello straordinario ritratto di donna vestita di una specie di impermeabile grigio acciaio con berretto assortito. Abbiamo detto che Markopoulos è un realista. Aggiungiamo che è un realista piuttosto psicanalitico che psicologico. Dotato però di una penetrazione tutta sua fatta di ambiguità e di spietatezza come si può vedere per esempio nel ritratto della signora che ha per sfondo un quadro di Chagall, in bocca alla quale, a furia di sovraimpressioni, finisce per emergere un solitario dente d’oro. LA MIA DROGA SI CHIAMA JULIE Louis, giovanotto facoltoso residente nella remota isola tropicale della Réunion si fidanza per corrispondenza, attraverso un’inserzione matrimoniale in un giornale di Parigi. La fidanzata, che si chiama Julie, arriva alla Réunion; i due si sposano in una chiesetta campestre, dinanzi ad un prete negro; per quindici giorni vivono felici in un grande bungalow ricoperto di buganvillee. Poi, un pomeriggio, Julie che ha il diritto di prelevare denaro dal conto del marito, va in banca, prende tutto quello che c’è, 28 milioni di franchi, e scompare. Julie è una avventuriera e si era sposata unicamente per fare il colpo. Intanto arriva alla Réunion la sorella della donna con la quale Louis ha creduto di fidanzarsi. Si scopre che la vera Julie è partita dalla Francia ma non è mai arrivata. Sostituita dall’avventuriera, è svanita senza lasciar tracce. Louis incarica un detective privato di far luce su questo mistero e quindi parte a sua volta per la Francia. Durante il volo, però, lo choc del tradimento fa piombare Louis in una specie di collasso dal quale si sveglia dopo molti giorni nel letto di una clinica di Marsiglia. Una sera guarda alla televisione e riconosce Julie nella pubblicità di un night club della Costa Azzurra dove, a quanto pare, lei lavora da entraîneuse. La rintraccia in un alberguccio, vorrebbe ucciderla, ma non ce la fa: l’ama ancora, l’amerà sempre. Julie gli racconta la verità: era l’amante di un gangster, faceva parte con lui della malavita, insieme hanno escogitato il colpo, ma la vera Julie è stato il complice ad ammazzarla. Dopo questa confessione, Louis perdona e i due tornano a vivere insieme. Ma rispunta il detective privato. Ha scoperto il delitto, vuol denunziare Julie. L’innamorato Louis non esita: per salvare la moglie fedifraga uccide il detective. Quindi, seppellito il cadavere in una cantina, i due fuggono insieme. Succedono varie altre cose, tra cui anche un tentativo di Julie di far fuori Louis con un topicida. Ma l’amore, è proprio il caso di dirlo, è più forte. L’ultima cosa che vediamo è la coppia che, tenendosi per mano, si allontana in una bufera di neve. Vedendo questo La mia droga si chiama Julie di François Truffaut, abbiamo pensato che nessuno rappresenta meglio la vita quotidiana del regista o dello scrittore di misteri criminali. Perché questo? Apparentemente, per dar più spicco al delitto. La persona che sarà assassinata ci viene presentata mentre si prepara il caffè, legge il giornale, si fa la barba ecc. ecc., per dare il senso terrificante di quel vero e proprio fulmine a ciel sereno che è il delitto tramato a insaputa completa della vittima. Per questo, in fondo, uno scrittore o regista di storie poliziesche riesce più veritiero di qualsiasi verista. Questo ultimo non può non lasciare nelle sue descrizioni qualche traccia di significati

sociali, morali, psicologici e così via; ma il “giallista”, lui, depura la rappresentazione di qualsiasi significato, per rendere più improvvisa e inopinata l’esplosione del crimine. Inconsapevole alunno della école du regard, egli ci fornisce una descrizione fenomenologica della realtà appunto perché si tratta di una realtà che “nasconde” apposta i propri significati come la maschera nasconde il volto. Ma se il crimine non esplodesse, se la storia si limitasse alla presentazione della realtà “prima” del crimine, avremmo allora una rappresentazione perfetta, pur nella sua minacciosa impassibilità onirica, della vita quotidiana. François Truffaut, nel primo tempo di La mia droga si chiama ]ulie ci presenta la vita quotidiana nel modo sospeso e truccato dei film polizieschi. Tutto è così normale nella serena e affettuosa vita coniugale di Louis e di Julie che una angosciosa incredulità, suggerita dalla graziosa ed agile regia, finisce per insinuarsi nella nostra mente. Non è possibile che l’esistenza sia così calma e felice, che la natura sia così bella e favorevole, che gli uomini siano così buoni e così facili. Quando Julie scappa con il malloppo, comprendiamo ad un tratto che in realtà tutto era profondamente anormale. Ma intanto Truffaut ci ha incantati per tre quarti d’ora con la descrizione della felicità in un’isola dei tropici. Poi, nel secondo tempo, il film esplode in un seguito di eventi insignificanti appunto perché romanzeschi; laddove nel primo tempo erano significativi appunto perché quotidiani. Si salvano soltanto le due interpretazioni di Catherine Deneuve, un’acre e ambigua Julie e di Jean-Paul Belmondo, un Louis sconvolto dalla passione. SIERRA MAESTRA Ormai la contestazione è entrata nel cinema e i suoi temi principali hanno trovato espressione in diversi film: il rifiuto sociale spinto fino al suicidio (Grazie zia di Samperi), il terrorismo moralistico (Il gatto selvaggio di Frezza) e da ultimo il problema della guerriglia e dell’azione politica in questo Sierra Maestra di Ansano Giannarelli. È interessante confrontare i film della contestazione di oggi con quelli del neorealismo marxista di ieri. Colpisce subito il fatto che i personaggi popolari e le masse popolari che nei film del neorealismo erano di regola i protagonisti, sia pure attraverso una mediazione sentimentale, sono quasi scomparsi nei film della contestazione. I protagonisti dei film della contestazione sono per lo più degli intellettuali che, com’è giusto, agiscono non a livello strutturale ossia economico-sociale ma sovrastrutturale ossia culturale e ideologico. Curiosamente, riaffiora la tematica dell’intellettuale impegnato propria del periodo tra le due guerre e a suo tempo illustrata dai romanzi di Hemingway, di Malraux e più tardi da quelli di Sartre. Sierra Maestra prende lo spunto dalla vicenda di Régis Debray, il teorico francese compagno del “Che” Guevara, condannato a trent’anni di carcere in Bolivia. Nel film di Giannarelli, Franco, un intellettuale italiano, se ne va tra i guerriglieri del Venezuela per mettere alla prova le proprie convinzioni politiche. Fatto prigioniero, viene chiuso in un sordido carcere militare insieme con un fotografo, Emilio, e un autentico guerrigliero, Manolo. Sottoposti, da parte di un sadico ufficiale allevato dalla Cia, a maltrattamenti e torture di ogni genere, i tre compagni trovano tuttavia la forza di accapigliarsi in accanite discussioni politiche. Poi la morte di un soldato ucciso dai guerriglieri fa precipitare la situazione. L’ufficiale allievo della Cia scatena contro i tre prigionieri l’ostilità della popolazione. Ma tutto ad un tratto non siamo più in Venezuela bensì in Sardegna, paese altrettanto depresso e politicamente maturo del Venezuela. Manolo arringa la folla che mostra di approvarlo. Più tardi siamo di nuovo in Venezuela. Emilio viene liberato; Manolo è fucilato; Franco rimane solo. Il film è in fondo un dibattito ideologico illustrato e giustificato da una vicenda. Quel poco o tanto di realismo che era inevitabile è abilmente frantumato da un prestigioso montaggio nel quale è

riconoscibile la lezione di Eisenstein e del cinema epico-narrativo più recente. Il montaggio consente l’alternarsi di tre filoni narrativi: quello del carcere; quello delle discussioni tra un amico di Franco, Giacomo, e la fidanzata di Franco, Carla, in un appartamento e per le strade di Milano; infine quello dei guerriglieri venezuelani ripresi dal vero nella giungla in cui combattono. Cosa sta a significare questo montaggio, quali temi vi affiorano? Diremmo, principalmente, due: il tema dell’universalità e globalità della rivoluzione secondo il noto slogan che occorre creare nel mondo diversi Vietnam; e quello dell’impegno degli intellettuali ossia del rapporto tra teoria e pratica. Il primo di questi temi è all’origine della sequenza più felice e più poetica del film: quella in cui la vicenda, senza alcuna soluzione di continuità, molto naturalmente, si trasferisce dal Venezuela in Sardegna. Il secondo tema, invece, anch’esso molto dibattuto, non si concreta a nostro parere con altrettanta evidenza. Le scene del carcere hanno una loro indubbia efficacia piuttosto nella situazione esistenziale della prigionia che nella discussione fra i tre prigionieri; e quanto ai dialoghi tra Giacomo e Carla, avremmo voluto che Giannarelli ci dicesse con le immagini cos’è che rende Giacomo impotente e inattivo. Ovviamente, diciamo noi, la differenza tra la situazione europea e quella latino-americana. Ma questa differenza è piuttosto sottintesa che rappresentata. Purtuttavia il problema dell’azione è sentito con sincerità e autenticità così da conferire a tutto il film una sua lucida tensione; anche se l’idea che l’azione politica è il solo metro per giudicare gli uomini e che, comunque, agire politicamente è un’obbligazione alla quale nessuno può sottrarsi per nessun motivo, porta il regista a descriverci un mondo del tutto politicizzato che non sempre include la totalità del reale. Ma è già un notevole risultato avere dato espressione artistica ad un dibattito il quale, oltre tutto, è ancora aperto e legato alle contingenze. Gli interpreti, come il regista, partecipano al film con un impegno diverso e maggiore di quello che richiederebbe un film puramente d’arte. Tra loro bisogna ricordare soprattutto Fernando Birri che è Manolo, Fabian Cevallos che è Emilio e Antonio Salines che è Franco. Carla Gravina e Giacomo Piperno sono sufficientemente espressivi nei loro ruoli di spettatori e commentatori dell’azione altrui. OTHON Othon, a quanto pare, è la sola tragedia di Corneille che non sia mai stata rappresentata dopo la morte dell’autore. Vi è raccontato il dramma (a lieto fine) di Ottone, uno degli effimeri imperatori succeduti a Nerone; il quale ama Plautina figlia del console Vinio e viene invece, per motivi di ragion di stato, invitato a sposare Camilla, nipote dell’imperatore Galba. Ma che importa raccontare la storia di Othon film di Jean-Marie Straub ricavato dalla tragedia omonima di Pierre Corneille? Essa dà il nome al film; ma non l’argomento. Straub aveva bisogno, è vero, di una tragedia sull’impero romano ai tempi della decadenza. Ma la stessa funzione avrebbe potuto essere assolta da altro dramma analogo e, al limite, anche da un dramma di altro autore. Vogliamo dire che Othon non è un film su Ottone e neppure un film sulla tragedia di Corneille; bensì un film nel quale il protagonista è una terrazza. E precisamente la terrazza di Settimio Severo, sul Palatino. Diciamo che il film ha per protagonista una terrazza perché, in realtà, senza questa terrazza dalla quale si ha una vista su piazza di Porta Capena con i diversi sbocchi di via San Gregorio, di viale Aventino, di via dei Cerchi e di via delle Terme di Caracalla, con gli sfondi verdi di villa Celimontana e con i palazzi della Fao, senza questa terrazza, diciamo, al regista non sarebbe forse mai venuto in mente di darci una sua interpretazione della decadenza dell’impero romano. Così, alla fine, il protagonista del film è un luogo nel quale si verificavano le condizioni migliori per tradurre una certa idea in rappresentazione completa, ossia ai diversi livelli visivo, auditivo, storico, letterario, figurativo e culturale. Si dirà: quanta roba in un piccolo spiazzo erboso, sospeso sul vuoto, circondato di ruderi informi e di qualche magro pino. Ma una descrizione del film, come appare, in senso cioè oggettivo e “cosale”, farà meglio capire l’importanza del luogo. La macchina

da presa, dunque, a tutta prima, ci fa vedere la terrazza; poi, in un secondo momento la grande piazza rotonda dalla quale, pur da lontano, l’incessante carosello delle automobili fa giungere fino alle nostre orecchie il rombo del traffico della Roma moderna. Ma ecco che sulla terrazza si inoltrano due personaggi vestiti da antichi romani. Si fermano, si fronteggiano e cominciano, recitando da fermi, come scolari di fronte alla cattedra di un professore: “Votre amitié, Seigneur, me rendra téméraire – J’en abuse, et je sais que je vais vous déplaire” ecc. ecc. Enumeriamo, a questo punto, tutti gli elementi di questa straordinaria operazione culturale: ruderi romani, automobili e rumore di automobili, giardini romani del Settecento e del Novecento, palazzi fascisti (la Fao), attori vestiti da romani ma che recitano nel francese di un drammaturgo del diciassettesimo secolo… …Non è difficile vedere che questa “idea” dell’impero romano, l’ultima in ordine di tempo, è, in fondo, un approccio sincretistico a qualche cosa che ormai non è più neppure un fatto storico ma esistenziale (nel senso, però, della cultura). Straub ha così fatto il suo film più indiretto, più rarefatto, più allusivo e, al tempo stesso, più magico. La magia, bisogna sottolinearlo, viene da una sapientissima fusione dei suoni con le immagini. Ciò che avrebbe dovuto sembrarci perlomeno un’incongruenza, ossia il carosello e il rombo delle automobili come sfondo alla recitazione di una tragedia romana in francese, diventa invece grazie ad un “collage” malizioso e suggestivo l’elemento più significante del film. Bisogna dire che dopo Othon, nessuno potrà più negare che il cinema è un’arte audiovisiva. Rispetto a Non riconciliati, Othon indica un minimo di intervento “politico” e un massimo di estetismo terroristico da parte dell’autore. Ma resta il fatto singolare di un’opera di avanguardia che ha tutti i caratteri di una ironica classicità. Jean-Marie Straub è, oltre tutto, un eccezionale animatore. Guidati da lui, un gruppo di amici tra i quali Pier Luigi Aprà (Othon), Ennio Lauricella (Galba), Jean-Claude Biette (Martian), Marilù Parolini (Flavie), Olimpia Carlisi (Camille) hanno saputo egregiamente mischiare al fracasso del traffico romano il ron-ron degli alessandrini di Pierre Corneille. INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO Un commissario di polizia, chiamato dai suoi gregari “dottore”, prende a frequentare una certa Augusta Terzi, donna molto bella e un po’ demodé, del genere della donna fatale in voga mezzo secolo fa. Il “dottore”, di origine sicula, uomo giovane e pieno di vitalità, è fortemente deformato dalla propria professione. Anzi sarebbe più esatto dire che in lui l’uomo e il poliziotto si sono fusi inestricabilmente, di modo che entrambi coesistono continuamente così nell’ufficio come nell’alcova. D’altra parte il poliziotto è sempre presente col suo autoritarismo proprio perché l’uomo è profondamente insicuro. Tanto più insicuro l’uomo, tanto più prepotente il poliziotto. E tutto questo con una consapevolezza straziante così delle deficienze psicologiche dell’uomo come degli svantaggi sociali del mestiere di poliziotto. Un carattere così singolare e così eccessivo non può non piacere al palato stanco di Augusta, sempre alla ricerca, come avviene a molte borghesi oziose, di nuovi pimenti. Essa disprezza il “dottore”; ma al tempo stesso ne subisce il fascino di uomo di potere e per giunta di un potere direttamente collegato, sia pure per motivi repressivi, con i torbidi misteri del delitto. Si forma così, tra i due, un rapporto sadomasochista. Il “dottore” infierisce sulla donna come sui criminali coi quali ha a che fare nella sua professione; Augusta dal canto suo recita la parte della vittima succuba e provocante. Tutto questo fino alle percosse e alle scenate autoritarie, da parte del “dottore”; fino a farsi fotografare nelle pose scomposte della documentazione medico-legale, da parte di Augusta. Ma Augusta un giorno tradisce il suo amante poliziotto con un giovanissimo contestatore e capellone che abita nella sua stessa casa. Il dottore non pretende la fedeltà; ma il rispetto, sì.

Purtroppo Augusta, forse per provocarne il sadismo, gli rimprovera, durante una scena di gelosia, di non essere un amante efficiente ed esperto. Allora, tutt’a un tratto, scatta la segreta molla sessuale dell’autoritarismo piccolo-borghese del commissario. L’offesa alla sua maschilità è in realtà un’offesa alla sua dignità professionale; il rivale, a sua volta, cessa di essere un ragazzo qualsiasi: è il sovversivo che complotta contro lo stato di cui lui, il “dottore”, è il difensore. Durante un amplesso, il “dottore” va al di là delle solite finzioni sadomasochistiche. Con una lametta taglia la gola all’amante. Ma il “dottore” è il capo della squadra omicidi. Così gli tocca fare delle indagini sopra se stesso. Qui lo soccorre la propria dissociazione, tra il poliziotto e l’uomo, di tipo chiaramente schizoide. Il poliziotto è tanto sicuro del suo potere autoritario da scaricare tutta la colpa sull’uomo; poi, grazie alla identificazione tra i due, il poliziotto farà scomparire l’uomo e il gioco sarà fatto. Il “dottore” però vuole stravincere. Vuole sfidare se stesso e gli altri, per dimostrare al di là di ogni dubbio, che un commissario di polizia non è mai sospettabile né veramente colpevole, qualunque cosa faccia e che, alla fine, comunque, la sua funzione di difensore dell’ordine peserà sulla bilancia dell’utilità sociale più di qualsiasi delitto. Così semina apposta indizi, provoca, finisce per autoaccusarsi di fronte al suo diretto superiore, il questore. A questo punto dovrebbe scattare la conclusione. Il “dottore” dovrebbe essere incriminato o assolto sia che venga considerato “uomo” oppure “commissario”. Il “dottore” si getta esausto sul letto e sogna di essere considerato “commissario” e dunque assolto e confermato nella sua funzione. Poi si sveglia nel momento in cui i suoi colleghi, questore compreso, irrompono nella sua casa per interrogarlo. Che faranno? Come risolveranno il dilemma? Non ci è dato saperlo. Elio Petri con questo suo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ha fatto probabilmente il suo film più riuscito e più felice. Il temperamento artistico di Petri è piuttosto insolito nel nostro cinema. Da una parte c’è una capacità di presa sul reale, grezza ma efficace, di specie verista; dall’altra un’inclinazione irresistibile alla speculazione sofistica, psicologistica, ideologica. Si pensa a un certo Pirandello umoristico e contorto dei racconti di ambiente piccoloborghese romano. Petri sinora aveva mirato a una tematica non sua, poco adatta all’innato verismo (Un tranquillo posto di campagna) oppure al film commerciale, sia pure con ambizioni espressive (La decima vittima). Con questo suo ultimo film, invece, ha colpito nel centro del bersaglio. Ha scelto un ambiente e una mentalità che mostra di conoscere molto bene: quelli della burocrazia piccolo-borghese romana nella sottospecie della polizia; e li ha messi da sfondo a un personaggio tipico dello stesso ambiente, ma dotato, pirandellianamente, di un meccanismo dialettico interiore. Bisogna però notare a questo punto che l’umorismo di Pirandello è fine a se stesso; nei suoi racconti la piccola borghesia scompone le proprie convenzioni senza uscire dai limiti di classe. Nel film di Petri, invece, mentre da una parte il protagonista smonta coi suoi monologhi i valori di autorità e di potere, il regista dall’altra proietta su questi valori una luce derisoria, cioè fa una satira muovendo da posizioni esterne alla classe. Il film tuttavia è principalmente basato sulla schizofrenia del “dottore”. Togliete di mezzo questo personaggio allucinato e nevrotico o meglio fatene un mero tipo sociale e avrete uno dei soliti film sul costume italiano anche se con un argomento insolito. La trovata di Petri (e dello sceneggiatore Ugo Pirro), accanto a quella di mettere il personaggio contro se stesso, è stata di farlo parlare con l’accento siciliano; ma di fargli dire, con quest’accento, soltanto i luoghi comuni del linguaggio medio italiano. Gergo aulico e “statale” su un fondo dialettale: il dramma linguistico (e, dunque, anche sociale) della nostra piccola borghesia è tutto qui. Resterebbe adesso da parlare del carattere attuale del film, il quale contrappone drammaticamente contestazione e autorità nelle loro accezioni estreme di rivoluzione e di repressione. Ma il nostro parere è che la contestazione studentesca, pur essendo rappresentata con indubbia efficacia, potrebbe essere sostituita da qualsiasi altra rivolta contro l’“ordine”, senza per questo cambiare il senso del film. Studenti e poliziotti rimangono sullo

sfondo. I due veri personaggi sono il “dottore” e Augusta. L’interpretazione di Gian Maria Volonté, nella parte del “dottore” è senz’altro eccellente. Volonté sa essere insieme poliziotto e criminale, uomo tormentato e burocrate infatuato. Accanto a lui Florinda Bolkan, forse per la prima volta, riesce a superare i limiti della propria bellezza e a essere un personaggio. Assai efficaci Sergio Tramonti nella parte dello studente rivale, Gianni Santuccio in quella del questore e Salvo Randone in quella dell’idraulico.

AFRICA AMA L’Italia classica era certo il paese meno razzista del mondo. Chiunque vada a leggere le memorie dei nostri viaggiatori del passato, è colpito dalla loro incapacità di distinguere le diversità etniche. C’era, per loro, una sola civiltà, che era poi quella dell’umanesimo, e l’uomo non era né italiano né africano né cinese ma soltanto uomo. Nell’Italia moderna, il razzismo sembra invece esistere, sia pure di un genere particolare, collegato curiosamente con quello stesso umanesimo che in passato impediva ai nostri viaggiatori di essere razzisti. Perché questo capovolgimento? Perché il mondo moderno ha umiliato e ripudiato l’umanesimo; e il piccolo borghese italiano, il quale ha questa sola carta nel suo gioco culturale, è costretto a rifarsi sui cosiddetti “primitivi” per rassicurarsi e sentirsi meno frustrato. Si tratta, dunque, di un razzismo di rivalsa per nulla scientifico e germanico, basato sulla “civilizzazione”, un po’ come quello vittoriano, ma senza l’ottimismo missionario. L’uomo civile, cioè il piccolo borghese che è stato a scuola e all’università, che si lava e si rade tutti i giorni, che possiede gli elettrodomestici, l’utilitaria, l’appartamento, è razzisticamente pessimista sulla capacità dell’africano di accedere a sua volta alla “civilizzazione”. Questo pessimismo d’altra parte gli è necessario; senza la pietra di paragone dell’Africa, come abbiamo già notato, il sentimento di superiorità dovuto alla “civilizzazione”, cadrebbe nel vuoto. All’origine, dunque, del razzismo italiano c’è l’idea del “cattivo selvaggio”, irrimediabilmente portato a essere “primitivo”. Quest’idea, è vero, non ha trovato espressione che in un particolare filone del nostro cinema documentario, il cui iniziatore è stato Jacopetti. Ma se si riflette che il cinema è, per antonomasia, arte di massa e che i film razzisti sull’Africa sono piaciuti così al pubblico delle domeniche come alle giurie di certi premi, si capirà che l’indicazione sociologica e psicologica fornita dal successo di questi film non è poi così irrilevante. Queste riflessioni ci sono venute in mente assistendo alla proiezione del documentario Africa ama di Angelo e Alfredo Castiglioni, Oreste Pellini e Domenico Guerrasio. Nel giornale il film è annunziato come un “Viaggio di più di centomila chilometri alla ricerca di riti e abitudini di vita in Africa”. Sì, questo è il pretesto. In realtà si tratta di un prodotto sensazionalistico di tipo sadico, nel quale i “cattivi selvaggi” sono tartassati senza pietà con la scusa dell’informazione antropologica. Riti e abitudini sono spezzettati in innumerevoli e compiaciuti primi piani di clitoridi asportate, di circoncisioni praticate col coltello, di mammelle appiattite e ciondolanti, di occhi chiusi ricoperti di mosche, di pasti di insetti, di sevizie agli animali, di piaghe e di deformazioni. Il razzismo è l’ingrediente indispensabile di simili rappresentazioni, in quanto un’idea oggettiva e non razzista dell’Africa non ne consentirebbe lo sfruttamento sadico. D’altra parte, a riprova, si veda come l’obiettivo insista monotonamente su crudeltà e brutture che non hanno niente a che fare con i “riti e le abitudini di vita”. Ma forse l’idea razzista è soprattutto presente nella sommarietà delle indicazioni geografiche e topografiche. Centomila chilometri percorsi e tuttavia non ci si dice mai dove siamo. L’Africa è immensa; ma gli autori del documentario la costringono in due ore di film accozzando insieme, con sospetta confusione, le superstiti vecchione coi piattelli nelle labbra della zona equatoriale con gli imbacuccati nomadi della fascia sudanese. E non si vede mai nulla: un paesaggio, una città, un villaggio, una foresta, un deserto, una savana; nulla, assolutamente, all’infuori dei primi piani, sconsigliabili (come è scritto in un cartellone al botteghino) per le persone impressionabili, i quali servono al tempo stesso a ribadire l’idea del “cattivo selvaggio” è a eccitare con visioni di sesso e di sangue il sadismo latente dello spettatore “civilizzato”. OCEANO

I mari del Sud, dopo essere stati scoperti alla letteratura da Melville e da Stevenson e alla pittura da Gauguin, sono diventati da ultimo uno dei luoghi privilegiati del cinema. Di solito la maggior parte dei film girati in Polinesia ricalca l’idea di Ombre bianche: l’avventura dell’europeo civilizzato che, per caso o apposta, capita nell’Eden dei primitivi. Era anche l’idea di Stevenson e di Melville; ma in loro non diventa situazione e personaggi, si limita a un approccio stilistico, fatto di stupore e di incanto. In Oceano Folco Quilici rovescia quest’idea tradizionale e tenta ambiziosamente di dare a una vicenda dei mari del Sud un protagonista indigeno. Il modello per un simile film si può far risalire al Nanuk di Flaherty in cui già si delineavano i caratteri del genere, a cavallo tra il documentario e il film a soggetto. In questi film, il protagonista indigeno, per il solo fatto di esservi e di agirvi, sia pure senza una storia e nella più dimessa quotidianità, diventa un eroe. Dal canto suo, il film, per gli stessi motivi, acquista qualche cosa di narrativo e di romanzesco. Di qui il diritto del regista di oltrepassare il mero documentarismo e di ricostruire talvolta la realtà, come infatti fece Flaherty in Nanuk. Folco Quilici, per mostrarci le meraviglie della Polinesia, ha inventato una tenue storia desumendola dai costumi e dalla natura dei luoghi. Un giovane polinesiano che vive su un arido atollo e ha bisogno di terra per farvi crescere gli alberi e le piante con cui nutrirsi parte in piroga verso lontane isole, per cercarvi il prezioso humus. Il film ci racconta questo suo viaggio. Sfilano, così, sullo schermo, splendide riprese dei paesaggi e dell’umanità dei mari del Sud: gli atolli con i loro ciuffi di palme, l’isola di Pasqua con le sue statue, la Nuova Guinea coi suoi riti, Tahiti coi suoi canti e le sue danze ecc. ecc. Riesce Quilici a darci il senso della difficoltà e della solitudine della vita umana in quei luoghi incantevoli? Cioè riesce a mettere il suo giovane polinesiano nel centro del paesaggio e a far sì che il paesaggio non lo annulli come presenza umana e non lo riduca a mero particolare simile a tutti gli altri? Sì e no. Forse Reno Menor, che interpreta la parte del protagonista, non è abbastanza attore, è troppo di quei paesi o almeno lo sembra; e per questo il regista avrebbe dovuto evitare di fargli fare cose non assolutamente normali e quotidiane. Quando il protagonista pesca stupendi pesci azzurri e rossi, oppure trafigge murene o anche lotta contro gli squali, noi sentiamo che è nel suo elemento cioè che è, per così dire, nel suo ruolo. Ma quando Quilici gli fa incontrare il bianco che vive solitario su una spiaggia o lo fa incappare in un rito dei guerrieri della Nuova Guinea, sentiamo, proprio perché queste situazioni richiederebbero un altro genere di interpretazione, che egli si trova fuori ruolo. Ma forse il motivo per cui non proviamo per il giovane pescatore di Quilici la simpatia che, poniamo, Lévi-Strauss ci ispira per i derelitti primitivi dei suoi Tristes Tropiques, sta nel rapporto instaurato dal regista con l’umanità polinesiana. Spesso ci siamo domandati quale rapporto possa stabilirsi tra la cultura italiana, tutt’oggi così umanistica, e le culture dei primitivi. Strano a dirsi, è lo stesso rapporto che certa moderna letteratura italiana ha creato con le nostre culture provinciali. Nel film di Quilici, i polinesiani vengono mitizzati allo stesso modo che, in Italia, scrittori come D’Annunzio, la Deledda e Alvaro hanno mitizzato i contadini abruzzesi e calabresi e i pastori sardi. Il diaframma mitizzante si fa soprattutto sentire nel commento. La lezione di Stevenson e di Melville avrebbe potuto servire a evitare un’enfasi epica che invece di avvicinarci gli uomini e i luoghi, li allontana. ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE La retorica dell’infanzia in Italia è un po’ come quella della romanità fascista: serve a mascherare con l’enfasi l’assenza della cosa che viene esaltata. Come la retorica romana nascondeva una realtà storica più modesta, così quella dei bambini dissimula il fatto che, se è vero che l’amore si dimostra coi fatti e non con le chiacchiere, in questo paese si ama ben poco l’infanzia. Anche a voler tacere dei vari orfanotrofi alla Oliver Twist e del traffico dei fanciulli per i lavori agricoli nel Sud, si è

costretti a constatare che in Italia i bambini, in tutti i campi, debbono contentarsi delle briciole. Si prenda, per esempio, il cinema per bambini. Esso, praticamente, non esiste; e infatti si ricorre per lo più ai prodotti americani, inglesi e persino sovietici. Ma perché questo? In fondo, a causa della già menzionata retorica per cui gli italiani sono convinti in buona fede di fare “già troppo” per i bambini mentre in realtà non fanno un bel nulla. Da ultimo, avendo assistito alla proiezione di un vecchio film di Walt Disney ricavato da Alice nel paese delle meraviglie, ci è venuto di fare alcune riflessioni sul problema del cinema per bambini. Non siamo di quelli che, snobisticamente, attribuiscono un’importanza determinante al fatto che Lewis Carroll era un matematico. Anche Russell, per esempio, era un matematico e di gran lunga maggiore di Carroll; ma non ci ha dato alcun libro per bambini. Così, pure ammettendo che la tendenza al paradosso relativistico possa derivare in Carroll dalla matematica, ci pare che, alla fine, quello che conta di più in lui sia l’uomo del tempo; cioè il vittoriano diviso tra convenzioni che erano anche le sue e che in tutti i casi non si sognava di rifiutare e la irriverente e dispettosa inclinazione a mostrare che si trattava tuttavia pur sempre di convenzioni. Così, abbiamo da una parte l’uso sapiente e probabilmente neppure ironico del linguaggio vittoriano pieno di rispettabilità e di understatement; e dall’altra un fuoco d’artifizio di assurdità di tipo onirico cui, però, il suddetto linguaggio presta un’aria di casalinga credibilità e normalità. Da questo contrasto derivano i continui effetti sottilmente profanatori dei due libri di Alice. Basterà citare a riprova i due capitoli intitolati “A mad tea party” (Un pazzo tè) e “The Queen’s croquet ground” (Il campo di croquet della Regina), nei quali non è difficile ravvisare due prese in giro di tipo surrealistico di due istituzioni vittoriane: l’ora del tè e la monarchia. Abbiamo detto che il cartone animato di Walt Disney ci ha fatto riflettere sul cinema per l’infanzia. Ecco perché. Siamo convinti che, a parte il divertimento che si può ritrarre dal movimento e dalla bizzarria delle figure, i bambini capiscono ben poco di questo cartone animato nel quale le motivazioni profonde di Carroll sono sistematicamente ignorate pur restando immutati, però, personaggi e situazioni. Prima di tutto ci sono la brutalità e la grossolanità di Walt Disney che spinge all’estremo tutte le indicazioni di Carroll, interpretando per esempio la parola “mad” (pazzo) adoperata per l’ora del tè come un invito a trasformare la deliziosa caricatura di un rito sociale tipicamente britannico e ottocentesco in una insipida tregenda da manicomio. In secondo luogo e soprattutto viene meno ogni possibilità di identificazione dei bambini con Alice. È vero, non siamo più nell’epoca della Regina Vittoria e i bambini oggi non sono certo vittoriani; ma il libro di Carroll suggeriva un contrasto forse eterno tra il bambino “come si deve” e il bambino com’è coi suoi istinti e perché no? la sua sessualità. Nel film di Walt Disney questo contrasto non c’è più. Alice non è vittoriana e neppure “middle class” del tipo attuale. La sua rispettabilità un tantino filistea è svanita. Non è più che una figurina leziosa cui succedono avventure puramente fisiche sia ovvie sia incomprensibili. La morale di tutto questo è, poi, che Walt Disney non ha capito che i bambini sono delle persone divise tra la irrazionalità infantile e la ragione adulta e che il successo perenne dell’immortale libro di Carroll si deve appunto alla consapevolezza di questa ambiguità e duplicità infantile. IL SIGNOR HULOT NEL CAOS DEL TRAFFICO Nell’opera di Jacques Tati bisogna distinguere due filoni principali e, d’altronde, complementari. Il primo è la presa in giro delle assurdità della vita associata. Questa presa in giro, tinta di lieve e benevola misantropia di origine romantica e naturista, non è legata a un tempo particolare: la vita associata è sempre stata e sarà sempre assurda, specie se vista con l’occhio dell’uomo amante della solitudine e geloso della propria libertà. Poi c’è il filone che riguarda i mali tipici del mondo moderno: affollamento, tecnologia,

consumismo, burocrazia, incomunicabilità, alienazione ecc. Qui la critica è meno estrosa e benevola e rivela un fondo serio. Tati prende di mira i mali del secolo con lucidità, con fermezza, spesso con ferocia. La presa in giro diventa satira. L’osservazione amabile e delicata del reale cede il posto a rappresentazioni quasi fantascientifiche, a dimostrazioni grottesche ed estreme. Tuttavia, tra i due filoni non c’è soluzione di continuità. Tati passa con disinvoltura e naturalezza dall’uno all’altro nello stesso film. Anzi fonde l’uno con l’altro. Perché, come gli riesce questa singolare operazione? Diremmo che messo di fronte al fenomeno terrificante della tecnologia, Tati si rivela fondamentalmente ottimista e speranzoso. L’ideale di vita quotidiana che Tati preferisce e sul quale è modellata la sua scala di valori è palesemente quello del piccolo-borghese francese, ex contadino, rimasto fedele a tradizioni e atavismi di specie agreste e suburbana. Ma la vita quotidiana oggi è sempre più sconvolta dalla rivoluzione tecnologica. Orbene, l’ottimismo quasi incredibile di Tati consiste nella sua convinzione che il piccolo-borghese, l’ex contadino, il suburbano con la sua casetta e il suo orticello, alla fine sarà più forte della tecnologia. Così forte da trasformarla, piegarla secondo i suoi gusti e la sua visione del mondo. Si veda, per esempio, quest’ultimo film Trafic (in italiano: Il signor Hulot nel caos del traffico). Questa volta Tati ha preso di mira un bersaglio ristretto ma importante: l’automobile. Non è esagerato affermare che l’automobile costituisce uno dei problemi più catastrofici della vita moderna. All’automobile dobbiamo non soltanto la distruzione delle nostre antiche città, l’inquinamento dell’aria, la morte del paesaggio, la paralisi delle comunicazioni; ma anche e soprattutto la trasformazione funesta, in senso nevrotico, della psicologia umana. Ma in Trafic, Tati, mentre da una parte passa in rivista la ricca teratologia della congestione stradale, dall’altra ci fa vedere nell’interno delle sue automobili personaggi molto diversi da quelli che di solito sbirciamo con orrore durante le fermate ai semafori. Non già gli ossessi esausti e nevrotici creati da trent’anni di automobilismo; bensì un’umanità ancora decisamente belle époque, amabile, rilasciata, serena, paziente, tranquilla, riposata. Tati sembra non rendersi conto che l’automobile non è soltanto una faccenda di “trafic”, ma anche umana. Tra i suoi guidatori e le macchine non sembra esservi alcun rapporto; o meglio, i guidatori hanno avuto la meglio, e la macchina si è umanizzata. E questo, francamente, ci sembra per lo meno improbabile. In Trafic i guai dell’automobilismo sono illustrati attraverso la tenue storia di una macchina che Hulot dovrebbe portare a un’esposizione in Olanda e che, dopo varie peripezie, arriva quando l’esposizione è già chiusa. Ora questa macchina di Hulot è un buon esempio della vittoria dello spirito piccolo-borghese ed ex contadino sulla tecnologia. Fornita di infiniti “gadgets” (doccia, letto, tavolino, seggiole, forno, griglia, rasoio elettrico) la macchina è una vera e propria pantofola. E Tati un po’ ne ride e un po’ si direbbe che l’approvi. In realtà, in questo Trafic, meno comico di Playtime e di Le vacanze del signor Hulot, ma più unitario ed elegante, Tati riesce a fare ciò che l’umanità non saprà mai fare: antropomorfizzare l’automobile, mostrarne i caratteri umani, anche se comici. E questo non è poco. MESSAGGERO D’AMORE L’idea che un ragazzino innocente e ignaro possa servire da intermediario nell’amore è un po’ perversa e al tempo stesso giusta. I mezzani, diciamo così, professionali sporcano inevitabilmente il rapporto sentimentale nel momento stesso che lo favoriscono e lo proteggono. Nel caso che l’intermediario sia invece un innocente, lo sporcato non è più l’amore bensì l’intermediario stesso. Di qui, una specie di sadismo negli amanti che si servono del bambino; e un corrispondente masochismo nel piccolo e inconsapevole ruffiano. In Messaggero d’amore di Joseph Losey (il titolo in inglese è The Go-Between, lo stesso del romanzo di L.P. Hartley dal quale è ricavato) è illustrato, con la consueta sottigliezza elegante e un

po’ perversa propria del regista, il caso appunto di un bambino che fa da intermediario tra due amanti. Siamo nell’Inghilterra edwardiana, all’inizio del secolo. Una ragazza di ottima e ricca famiglia, Marian, fidanzata con un giovane della sua stessa condizione, lord Trimingham, si innamora di un robusto e sanguigno fattore, Ted Burgess. È un po’ la situazione di Lady Chatterley’s lover, ma senza le prediche di Lawrence; in un ambiente che ricorda i romanzi mondani e psicologistici di Henry James. La grande difficoltà per i due amanti sta nella morale dell’epoca ancora severamente vittoriana e per giunta legata al pregiudizio di classe. Questo pregiudizio nel film di Losey ha una funzione, diciamo così, a doppio taglio. Da una parte rende difficili gli amori di Marian ricca e nobile e del contadino Ted; dall’altra, però, provoca e determina in certo modo l’attività di intermediario amoroso di Leon Colston, ragazzo povero, ospitato con qualche disdegno dalla famiglia di Marian. In altri termini, pur essendo innocente e ignaro, Leon è tuttavia consapevole della propria inferiorità sociale ed economica; ed è proprio questa consapevolezza che lo spinge a sdebitarsi verso Marian portando i biglietti d’amore che lei e il suo amante si scambiano giornalmente. D’altra parte, come è noto, il mezzano non esercita mai la sua funzione senza una certa partecipazione sentimentale. È questo uno dei punti più delicati e più sottili del film di Losey. Leon favorisce gli amori di Marian, non soltanto per gratitudine di inferiore verso il superiore, ma anche perché, bambino preso nel gioco di tre adulti, è affascinato in tre diverse maniere da costoro. Leon è innamorato di Marian, ammira la prestanza e il vigore di Ted ed è, infine, soggiogato dalla fredda, snobistica, insultante eleganza di lord Trimingham. Losey, mettendosi dietro il ragazzo, riesce a rendere lo spettatore partecipe di questi tre sentimenti. L’attività di mediatore di Leon finisce tragicamente. La madre di Marian scopre la tresca, sorprende i due amanti, svergogna Leon e fa uno scandalo. Ted, che si vorrebbe spedire a fare il soldato, si uccide. Marian, rimasta incinta di Ted, sposa il suo lord. In questo film in fondo Losey riprende il suo solito discorso sul rapporto tra padroni e servitori, tra classi superiori e inferiori. Ma qui il discorso risulta tanto più chiaro in quanto la vicenda è ambientata nel tempo e nel paese in cui le differenze di classe e di rango raggiunsero un grado di vuota ritualità di tipo cinese e di crudeltà inconscia ed elegante mai, più tardi, superate. Alla fine la vicenda che si immagina raccontata da Marian ormai vecchia a Leon ormai maturo, si risolve in una mortuaria e inutile educazione sentimentale. Losey ha illustrato la società inglese dell’epoca, coi suoi pranzi, i suoi tè, i suoi giochi, i suoi sport, la sua religione e la sua mondanità in una serie di vignette raffinate e di perfetta tenuta ma un po’ immobili. A questa società fa da sfondo la campagna folta e rigogliosa tante volte ritratta dai paesaggisti tradizionali, da Constable in su. Julie Christie dimostra la stessa bravura ed è altrettanto bella che nel non dimenticato Darling. Alan Bates è un vigoroso e ambiguo Ted Burgess. I DIAVOLI Servirsi del pretesto religioso o ideologico contro avversari ideologici o religiosi per raggiungere fini politici è pratica normale di tutti i governi in tutti i tempi. Ma chi vuole dimostrare che i governi sono cinici, alla fine non dimostra nulla. In realtà i moventi dei governi sono soltanto “diversi” da quelli dei loro avversari. E quanto al cinismo esso, come è noto, è indivisibile dal potere; coloro stessi che lo condannano, una volta al potere, non esitano a ricorrervi. Da cosa viene allora che nel film di Ken Russell I diavoli, tutto il cinismo nonché il fanatismo, la ferocia e la follia sono dalla parte del potere; e tutta l’innocenza da quella dell’avversario del potere? Teoricamente, sulla bilancia della storia tanto dovrebbe pesare l’ideale religioso di Grandier, il prete ribelle, quanto il progetto politico di Richelieu. Invece i piatti della bilancia sono stati manomessi in partenza, in senso fazioso. Non rileveremmo questo aspetto dei contenuti se esso non

trovasse una rispondenza perfetta a livello espressivo e figurativo. Vediamo, dunque, perché questo avviene. La storia dei Diavoli è nota. Il prete Grandier è diventato il padrone di Loudun grazie a una popolarità di specie mistica che affonda le sue radici in una sessualità neppure tanto inconsapevole e repressa. Siamo nel 1634 e il cardinale Richelieu, perseguendo la sua politica accentratrice e ostile alle autonomie feudali e municipali, ordina che siano abbattute le mura di Loudun. Grandier, reso imprudente dal successo, si oppone. Tanto basta perché il cardinale lo faccia accusare di magia e di satanismo. Saranno le stesse suore del locale convento delle Orsoline le quali sognano di congiungersi carnalmente con Grandier e in particolar modo madre Giovanna degli Angeli, a confermare l’accusa, attribuendo i loro sogni di astinenza ai poteri diabolici del prete. Grandier viene sadicamente torturato da una banda di inquisitori pervertiti e quindi bruciato vivo, senza che si riesca a fargli ripudiare le proprie convinzioni. Dopo di che le mura di Loudun vengono abbattute; le suore si liberano del demonio in una sarabanda orgiastica in cui il pentimento serve da sfogo al sesso affamato; e l’unificazione della Francia, che darà i suoi frutti buoni e cattivi fino al giorno d’oggi, avrà compiuto ancora un passo avanti. Quando, come nei Diavoli, tutto il male sta da una parte e tutto il bene dall’altra, è sempre lecito subodorare la presenza di un fanatismo qualsiasi. Nel film di Ken Russell, strano a dirsi, il fanatismo sta nel modo con il quale è aggredito e condannato il fanatismo. I diavoli non sono, infatti, un’opera oggettivamente storica; ma il film di un cattolico che intende la religione a modo suo (il modo di Grandier: largo, non repressivo, post-freudiano) contro un altro modo del tutto opposto (quello inquisitorio, repressivo, intollerante, pre-freudiano). Così si assiste a uno strano scambio delle parti: gli inquisitori, le monache, i potenti, la folla che accusano Grandier di essere uno strumento del diavolo, sono, a loro volta, accusati con veemenza dal regista di essere loro i veri posseduti dal demonio. Le monache, possedute da un diavolo osceno; il re e il cardinale, da un diavolo cinico; i boia, da un diavolo professionale; gli inquisitori, da un diavolo sadico; la folla, da un diavolo idiota; e così via. Tra i fumi e le fiamme di questo piccolo inferno, emerge intatta soltanto la figura di Grandier, con la sua idea di una religione tollerante. Ma, curiosamente, proprio da questa idea antifanatica discende una regia, a ben guardare, fanatica in quanto deformante fino al grottesco. Figurativamente il film di Russell, venendo dopo il Marat-Sade di Brooks non presenta grandi novità. Ken Russell è un regista vigoroso che, attraverso il teatro esistenzialista degli ultimi anni, si riallaccia alla tradizione elisabettiana, piena di violenza e di orrori. Semmai, il vero difetto del film va ricercato nel suo carattere oratorio ed esteriore, nella costante sforzatura spettacolare che si traduce in mancanza di intimità poetica. L’interpretazione di Oliver Reed, che è Grandier, è memorabile. Vanessa Redgrave riesce a essere, con rara bravura, una madre Giovanna degli Angeli insieme bella e ripugnante. ADDIO FRATELLO CRUDELE Peccato che sia una puttana di John Ford è uno dei drammi elisabettiani più popolari se non altro, forse, per la chiarezza e la semplicità della situazione, pur sotto le consuete frondosità drammatiche e narrative proprie del teatro dell’epoca. In breve: Giovanni, gentiluomo di Parma, ama d’amore incestuoso la sorella Annabella e ne è riamato. Il padre di Annabella, Florio, decide di dare la figlia in sposa a Soranzo e Annabella accetta per nascondere la propria gravidanza. Ma il marito se ne accorge e strazia invano la moglie per sapere chi è il padre del nascituro. Alla fine la vendetta coniugale sarà mandata a effetto durante una festa. Tutti gli abitanti del castello in cui è avvenuto l’incesto saranno sterminati come complici; e Giovanni rivelerà al cognato di essere lui l’amante di Annabella, uccidendo la sorella e presentandosi al banchetto con il cuore della morta

infilzato in un pugnale. A sua volta, egli cadrà ucciso. Ford è un singolare trageda minore, diviso tra l’esigenza melodrammatica di galvanizzare il teatro con temi estremi e l’inclinazione all’indagine psicologica esatta e oggettiva. Tuttavia, pur sotto il linguaggio concettoso e barocco, c’è in lui, come del resto in tutti gli elisabettiani, un robusto senso comune per nulla morboso. Il che non toglie che il suo dramma, basato sulla identificazione tra personalità e passione e tra passione e destino, e sull’impossibilità di sottrarsi al proprio destino cioè di non essere quello che si è (“It is not, I know, my lust, but it is my fate that leads me on”, “non è la lussuria a condurmi ma il destino”), ha sempre avuto molta fortuna tra i decadenti nella loro ricerca di situazioni in cui l’anormalità possa essere mostrata non già come un limite ma come un allargamento dei poteri umani. Giuseppe Patroni Griffi, nella sua versione cinematografica del dramma di Ford, intitolata Addio fratello crudele, ha lasciato cadere la fredda, quasi scientifica analisi dell’amore incestuoso; ed è partito proprio dal punto in cui Ford finisce, esasperando i tratti di violenza, di ferocia e di follia già così abbondanti nel testo. Per giunta Patroni Griffi ha fortemente sottolineato il carattere manieristico ed estetizzante dell’ambientazione italiana, aiutato in questo, validamente, dalle raffinate e prestigiose costruzioni lignee di Mario Ceroli. Si sa che le due componenti non contraddittorie di Patroni Griffi sono da una parte un certo crepuscolarismo sentimentale, dall’altra il gusto ossessivo delle situazioni anormali portate a un grado di tensione esplosiva e risolte nel clima assolutorio dell’estetismo. Stranamente la prima componente garantisce e conferma la sincerità e autenticità della seconda. Patroni Griffi non è uno snob dell’anormalità; al contrario si direbbe che non può fare a meno di ricaderci quasi suo malgrado. In Metti, una sera a cena l’anormalità era, diciamo così, di gruppo; e l’assoluzione estetizzante veniva da un lusso che, come in tanti decadenti a cominciare da D’Annunzio, non riusciva a evitare il cattivo gusto. Con Addio fratello crudele, Patroni Griffi ha fatto una scelta felice, sia perché il testo, non essendo suo, gli ha imposto limiti precisi di linguaggio e d’invenzione; sia perché l’umanesimo rinascimentale, sia pure di tipo dannunziano, ha altra dignità storica e culturale dalla convenzione mondana e borghese. Sfrondato e ridotto all’osso l’intrigo di Ford con intelligente mestiere teatrale, Patroni Griffi ha limitato l’estetismo agli sfondi, all’ambiente; e ha aggredito e isolato con acre e crudo realismo il dato radicale dell’anormalità erotica. In questo senso, Addio fratello crudele, film singolare e per molti versi autobiografico, dev’essere collocato a parte, lontano da altri prodotti analoghi meramente illustrativi. Charlotte Rampling e Oliver Tobias sono Annabella e Giovanni; stranamente brava e bella la prima, immobile come una semplice maschera, il secondo. Fabio Testi nella parte di Soranzo ha vigore e tensione espressiva. X UNA SQUILLO PER L’ISPETTORE KLUTE Il lieto fine è uno dei misteri della narrativa ottocentesca e, soprattutto, del sottoprodotto di questa narrativa che va sotto il nome di romanzo poliziesco. Nella realtà della vita, come è noto, il lieto fine assolutamente non esiste, sia che l’assassino non venga scoperto, sia che, invece, la polizia riesca a mettergli le manette. E si capisce anche perché. Non c’è niente di lieto e soprattutto di finale nella identificazione e punizione di un colpevole qualsiasi. È vero, la morale trionfa; ma chi potrebbe dimostrare che il trionfo della morale sia qualche cosa di più e di diverso dal trionfo, appunto, della morale? L’inventore del genere, Edgar Allan Poe, si è ben guardato dal fare finire “bene” i suoi tre magistrali racconti di mistero criminale. Nel Delitto di Via della Morgue Poe addirittura sembra voler prendere in giro coloro che esigono un colpevole a tutti i costi: il colpevole è una scimmia. Nella Lettera rubata nessuno è colpevole. Infine nel Mistero di Maria Roger, il o i

colpevoli non saranno mai scoperti. È casuale questa evasività di Poe? Non lo crediamo. Col fiuto infallibile del poeta egli ha sentito che il lieto fine era un francobollo moralistico appiccicato dall’esterno su una lettera che non ne aveva bisogno, essendo già affrancata (per continuare la metafora) dal risultato poetico. In questo film poliziesco di J. Pakula Una squillo per l’ispettore Klute il lieto fine fa figura di topolino narrativo partorito dalla montagna di una rappresentazione per molti aspetti notevole. Il film comincia in maniera “classica” con la scomparsa di un rispettabile uomo d’affari dopo che si è “appartato” nella stanza di un albergo con un’esperta e attraente squillo. Il socio dello scomparso, giustamente preoccupato, incarica Klute, detective privato, di far luce sulla scomparsa. Klute si mette al lavoro e, per prima cosa, rintraccia la squillo che è stata l’ultima donna ad avere rapporti mercenari con il finora moralmente insospettabile uomo d’affari. Questa squillo si rivela un personaggio interessante. Modella fotografica, attrice e prostituta, tra farsi fotografare il corpo, guardare il corpo e adoperare il corpo, cioè fra tre modi di fingere col corpo, preferisce l’ultimo come quello che le riesce meglio e al tempo stesso la diverte di più. Ma poiché, dopo tutto, si tratta di un modo come un altro di recitare una parte, avviene che nella sua vita, come nella vita di qualsiasi attrice, rimane un vuoto sentimentale che, appunto, nel corso del film, verrà riempito da Klute. Intanto, perseguita nei locali notturni, nelle case di appuntamento e in altri simili luoghi, l’indagine di Klute, che si fa aiutare dalla ragazza assai esperta, come appare, di certi ambienti, dà curiosi risultati. Ogni volta che una delle donne che hanno avuto a che fare con lo scomparso, viene rintracciata, subito dopo è prontamente assassinata. Alla fine, apprendiamo che l’assassino dell’uomo d’affari e delle ragazze è il socio il quale si serve del poliziotto per scovare e sopprimere i testimoni di un suo primo misfatto. Il socio muore; Klute salva in extremis la ragazza; e quest’ultima smette di fare la squillo. Il film, come abbiamo detto, è una vera montagna di ricostruzione ambientale e di invenzione psicologica (il personaggio della squillo è vivo e autentico, la sua confessione di essere affascinata dalle cabine telefoniche ha tutta l’aria di un’osservazione veritiera) che partorisce il solito topolino della scoperta e punizione del colpevole. Viene fatto di domandarsi: e se il colpevole, pur essendo identificato, non fosse stato punito, cosa sarebbe avvenuto? Rispondiamo che si sarebbe salvata una delle ragioni della poesia la quale vuole che il male esista e non venga soppresso cioè punito, giacché senza il male anche il bene svanisce e il mondo si svuota. Comunque accanto alla regia di J. Pakula, notevole per l’uso prestigioso della notte, del buio e delle tenebre con effetti luministici di tipo rembrandtiano, bisogna mettere la rude, brutale, concreta interpretazione di Jane Fonda che è la squillo. Donald Sutherland ha una sola espressione perplessa e aggrottata che adopera con abilità dal principio alla fine. UNA STAGIONE ALL’INFERNO Arthur Rimbaud è oggi al colmo della gloria; e non soltanto per la straordinaria qualità poetica della sua opera; ma anche perché quest’opera, al suo apparire, anticipava, con la grazia e la freschezza dell’adolescenza, molti dei temi che dovevano diventare più tardi predominanti nella poesia e nella cultura europee. Il tempo ha dato ragione a Rimbaud come di solito dà ragione a chi riesce a far intravedere in maniera enigmatica e intuitiva i lineamenti dell’ignoto. Così, a ben guardare, non hanno torto coloro che, fondandosi su una sua famosa lettera, vedono in Rimbaud un veggente ancor prima che un poeta. Uno degli aspetti della vita di Rimbaud, che il tempo, crediamo, ha chiarito è quello così controverso della sua rinunzia alla poesia. A suo tempo poteva sembrare una fuga di più in una vita tutta fuggitiva. Oggi siamo in grado di riconoscere che il germe dell’abbandono della poesia era già nella poesia stessa, secondo la logica del decadentismo per il quale poesia e vita sono indistinguibili

e agire può anche essere una maniera di fare poesia. È la stessa logica che è all’origine delle imprese guerresche di D’Annunzio, delle avventure arabe del colonnello Lawrence e magari della morte di Byron in Grecia. Ma in Rimbaud c’è una differenza. L’abbandono della poesia, in quei personaggi, era pur sempre a favore di un’azione di per sé “poetica” come la guerra e l’avventura. Così il sospetto dell’estetismo, nemico della vera poesia, non poteva mai essere escluso. Invece Rimbaud si rivela poeta autentico proprio nella scelta umile e in fondo cristiana della prosaica carriera del commerciante. Rimbaud rinunzia davvero. Uccide il poeta dentro di sé, diventa davvero un qualsiasi trafficante europeo in Africa, desideroso di accumulare denaro, rientrare in patria, sposarsi, metter su famiglia. Nelo Risi in questo suo Una stagione all’inferno ha voluto soprattutto illustrare la crisi che spacca in due tronconi la vita di Rimbaud. Così non ci ha dato la biografia lineare, dalla nascita alla morte, di un solo uomo; ma le biografie di due uomini profondamente diversi, l’uno poeta e l’altro mercante, alternate continuamente in modo che l’una spieghi e illumini l’altra. Il film per quanto riguarda il poeta si tiene soprattutto all’episodio del sodalizio con Verlaine; per quanto riguarda il mercante, al traffico d’armi in Etiopia. E si conclude con le due morti dello stesso uomo: la morte letteraria e spirituale, dopo il dramma di Bruxelles; la morte fisica, dopo il fallimento africano. Strano a dirsi, pur imperniando il film sulla crisi della poesia, Nelo Risi non tenta di spiegarla. Tutto il film, del resto, è pieno di precauzioni; si direbbe che il regista tema di non avere mai la mano abbastanza leggera. È una prudenza lodevole, data l’estrema difficoltà dell’impresa. Ma alla fine quello che conta in un film, come in ogni opera d’arte, non è tanto l’argomento quanto l’artista e ciò che ci dice di se stesso. Come far capire, per esempio, al pubblico, che Rimbaud è un grande poeta? Nelo Risi avrebbe dovuto dircelo lui, con le risorse della regia. Ha preferito invece farlo dire a Rimbaud medesimo. Sono infatti le poesie e i ragionamenti letterari, inseriti, come oggetti simili a tutti gli altri, nel contesto narrativo, a farci sapere chi è il protagonista del film. Ora ci sono due maniere di dire le cose, l’una credibile e l’altra poetica. La poesia di Rimbaud, nel film di Risi, è poco credibile appunto perché il regista non l’ha rappresentata in maniera poetica ma, ci si consenta il bisticcio, credibile. La parte migliore del film è quella che si svolge in Africa. Rimbaud non è più un poeta, personaggio impossibile, ma un sia pure insolito e misterioso mercante. E poi l’Africa non è molto cambiata dai tempi di Rimbaud. Così non sono state necessarie le troppo esatte ricostruzioni ambientali che impacciano la parte europea. D’altra parte, qualche concessione al gusto spettacolare è contenuta dal regista nei limiti di un realismo sobrio e oggettivo. Terence Stamp fornisce un’interpretazione simile al film: meno efficace nella parte del poeta adolescente; assai riuscita in quella del mercante adulto, dall’espressione fosca e sprezzante. GRISSOM GANG Siamo negli anni trenta, nel sud degli Stati Uniti. Un terzetto di malviventi decide di rapire Barbara Blandish, figlia di un riccone locale. Il rapimento riesce; ma la piccola banda viene intercettata e sterminata da un gruppo di criminali più esperti e più spietati. Questa seconda banda, in realtà, è una famiglia, i Grissom, secondo una tradizione, appunto, del sud, in cui l’alcolismo e la miseria hanno spesso origini ereditarie. La famiglia Grissom, dunque, si impadronisce di Barbara, fa il ricatto, il padre paga. Ma la ragazza non viene restituita perché ormai ha visto in faccia i rapitori. I Grissom decidono anzi di ucciderla, come hanno già fatto con altri testimoni. Senonché uno dei figli, il più degenerato e il più spietato, Slim, si incapriccia di Barbara. La quale dapprima lo respinge con disgusto ma, in seguito, un po’ per abbrutimento, un po’ per animalità e un po’ anche, a quanto sembra, per un lento risveglio della coscienza dall’alienazione della ricchezza, finisce per provare per lui un sentimento

affettuoso mischiato di pietà e di inorridita ammirazione. Così Slim salva Barbara dalla morte e, in un secondo momento, la sposa. I Grissom, fedeli alla logica del capitalismo, mettono senza indugio a frutto il denaro del ricatto creando nella città un locale multiplo di svago e di corruzione nel quale c’è un po’ di tutto: bar, sala da ballo con orchestra e numeri di avanspettacolo, biliardini e sale da gioco. C’è pure, nascosto nell’edificio, con le porte blindate e le finestre murate, l’appartamento nuziale di Slim, dove il gangster tiene rinchiusa Barbara sottoponendola a un regime di terrore e di alcool. Così tutto andrebbe bene, con mamma Grissom alla cassa, papà al tavolino del gioco, i figli al bar e all’orchestra, se la solita polizia guastafeste non ficcasse il naso negli affari di questi irregolari operatori economici. Ne segue una vera e propria battaglia durante la quale i Grissom vengono sterminati. Salvo Slim e Barbara che si rifugiano in campagna in un fienile. La polizia li raggiunge; ma Barbara fa a tempo a dichiarare il suo amore a Slim. Il quale, finalmente consolato, va serenamente incontro alla morte per mitra. Ricordiamo di aver letto in un lontano passato Niente orchidee per miss Blandish di James Hadley Chase da cui Robert Aldrich ha ricavato questo suo Grissom Gang. E ricordiamo pure che allora lo giudicammo un’imitazione commerciale di Santuario di William Faulkner. In ambedue i romanzi c’era, infatti, lo stesso tema della profanazione e distruzione della purezza del tutto inconscia e priva di fondamenti etici di una ragazza della classe dirigente americana a opera di individui della malavita. Nel libro di Faulkner il titolo Santuario nonché il nome dell’eroina, Tempie, che veniva violentata da un gangster impotente col mezzo insolito di una pannocchia di granturco, alludevano al motivo sadico della cultura profanata dalla sottocultura. Anche in Santuario, l’ereditiera finiva per soggiacere alla volontà del gangster, diventava anzi, estrema degradazione, una prostituta dalla voce rauca e dalla faccia inebetita. Il libro di Hadley ricalcava rozzamente il modello faulkneriano. I due romanzi ebbero allora molto successo. Non crediamo, però, che il film di Aldrich che, in parte, riprende il tema crudele della distruzione della purezza aristocratica, ne avrà altrettanto. Certo bisogna tener conto del fatto che Grissom Gang viene dopo film più validi dello stesso genere, come Il clan dei Barker e Bonnie e Clyde. Grissom Gang non ha la ferocia autentica del primo né la grazia e il patetico humour del secondo. Robert Aldrich sembra non aver presa né sull’epoca né sui personaggi; in mancanza di sentimento, ricorre sfacciatamente al “già visto” e al “già detto”. Ma c’è un altro motivo, diciamo così, storico per cui un simile film non può avere, secondo noi, il successo dei due libri succitati. Ed è che mentre, per esempio, in Bonnie e Clyde affiorano motivi che sono propri anche della odierna contestazione, l’idea della profanazione della ragazza del ceto ricco a opera della malavita, “data” senza rimedio. Il sadico tema di Hadley e di Faulkner era, in fondo, basato sull’idea o meglio sul mito che i poveri si facevano allora dei ricchi. Oggi quest’idea, questo mito, sono crollati, più, strano a dirsi, per opera dei ricchi che per una presa di coscienza dei poveri. Oggi le ereditiere abbandonano la loro classe, si incanagliscono spontaneamente. Forse Aldrich ha avvertito questo anacronismo oppure non è stato capace di dare verità poetica al motivo del sadismo culturale. Così ha fatto di Barbara una pupattola che, in fondo, viene ben poco seviziata e corrotta. Ma lo schema originario si è vendicato dando al film un carattere sfocato come di storia che comincia in un modo e finisce in un altro. Gli interpreti, sia pure nei limiti dello stereotipo, sono tutti molto bravi. La migliore è forse Kim Darby nella parte di Barbara. Accanto a lei, bisogna ricordare Tony Musante che è Eddie e Scott Wilson che è Slim. IL DECAMERON È giunto forse il momento di parlare del modo con il quale Pier Paolo Pasolini affronta e risolve il problema dell’illustrazione cinematografica di quei testi di cui è convenuto dire che appartengono

al patrimonio culturale dell’umanità. Al tempo del Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini spiegò che per l’interpretazione aveva voluto evitare le ipotesi particolari e aggiornate e tenersi invece al senso comune. Cosa intendeva Pasolini per senso comune? Evidentemente, la fruizione del testo, attraverso i secoli, “fuori della storia”, da parte di infiniti lettori, nei luoghi e nelle situazioni più diverse. Il senso comune: cioè il senso di tutto ciò che sfugge alla moda, alla storia, al tempo. Pasolini, d’altra parte, come è noto, è un manierista, un grande manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo D’Annunzio. Così fin dal Vangelo secondo Matteo abbiamo avuto questo curioso e raffinato connubio: la visione “inattuale” del senso comune accoppiata coi mezzi espressivi “attuali” del manierismo decadente. Per il Decameron, Pasolini ha proceduto in maniera non dissimile che per il Vangelo. Ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell’uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico. Per prima cosa ha notato che nel Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti del Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di essere un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele. Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la “favella” toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo e aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca dei contadini e degli artigiani. L’operazione linguistica, diciamolo subito, è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell’importanza della parola nel cinema. Altra soluzione felice è quella del problema dell’erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c’è più nudo che nel “musical” Oh! Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l’idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria. COUCH Ieri sera, a vedere Couch di Andy Warhol, c’era il solito pubblico del Filmstudio. È un pubblico giovanile e, almeno in senso sartoriale e pilifero, contestatore. Gli uomini hanno barba e capelli prolissi, indossano camiciotti e blue-jeans; le donne sono vestite come gli uomini. Eppure, a metà del film di Warhol, molti se ne sono andati sfilando al buio con indubbia aria di riprovazione. Ora verrebbe fatto di domandarsi a questo punto: cosa credono questi spettatori scandalizzati che significhi il loro modo di vestirsi e di acconciarsi? Forse, che è una moda senza radici e senza conseguenze? Ma allora si sbagliano. Non è una moda; è, come dire?, una dichiarazione di principii.

Anche nell’Ottocento, ai glabri, razionali cavalieri del secolo precedente, successero le grandi barbe: Marx, Darwin, Tolstoj, Dostoevskij ecc. ecc. Quelle grandi barbe, secondo noi, erano dei simboli di liberazione e di slancio romantico. Sono banalità, certo; ma è utile dirle: lasciarsi crescere la barba e i baffi, vestirsi da pitocchi equivale oggi, come un secolo fa, a una polemica a favore degli istinti e della natura e a sfavore della ragione e dei “sistemi”. Chi vestito da hippy e immerso nel proprio pelo si alza e se ne va per protestare contro Couch si rivela incoerente o, peggio, ignaro del significato vero così del proprio modo di vestirsi e di acconciarsi come del sentimento di riprovazione che lo spinge a protestare. Veniamo a Couch che vuol dire divano ed è un breve film su quello che, appunto, può succedere su un divano. Che può succedere su un divano? Di tutto, ovviamente. Per Andy Warhol sia l’amore, sia niente. Com’è l’amore in Couch? È quasi sempre a tre, cioè a due, con un terzo che partecipa o sta a guardare. Curiosamente, il film è realistico quando tutti e tre i personaggi intrecciano i corpi nudi nell’atto sessuale; diventa invece surrealistico allorché due soli si accoppiano e un terzo guarda. Andy Warhol finora è stato un realista di tipo iterativo che recuperava la realtà attraverso la ripetizione all’infinito di un particolare. In Couch, per la prima volta, sfiora il surrealismo, un po’ alla maniera dei primitivi che, mentre dipingono in primo piano un gruppo di soldati che decapita un santo martire, collocano da una parte, nello stesso ambiente, due personaggi che conversano tranquillamente. Meno bene riesce a Warhol il goliardico simbolismo fallico delle banane divorate ritualmente da un gruppo di amici sdraiati sul già menzionato divano. La cosa migliore di Couch è l’amore a tre di due uomini (uno dei quali, africano) e di una donna. Questa sequenza rappresenta un certo oggetto (il rapporto a tre) con mezzi assolutamente idonei e senza il minimo compiacimento da parte dell’impassibile macchina da presa. In altri termini: si tratta di una rappresentazione “come” un’altra. Ma per coloro che ieri sera se ne sono andati, evidentemente la castità della rappresentazione non bastava. E allora ci siamo domandati perché non bastava. Apparentemente, perché “certe cose” non vanno rappresentate. Qualcuno dirà a questo punto: bella novità, c’è il tabù, lo sapevamo. Ma io rispondo: potrebbe anche darsi che la cosa non fosse così semplice. A parte il suo significato repressivo, il tabù che vieta la rappresentazione dell’atto sessuale potrebbe voler dire che certe cose non vanno rappresentate perché sono invisibili e di conseguenza non rappresentabili. In effetti, vedere due che si accoppiano è come assistere all’estasi di un mistico. Sì, vediamo i due corpi nudi che si muovono in un certo modo; ma non sappiamo perché si muovono, come non sappiamo perché il volto del mistico ha quella data espressione rapita. Insomma l’ineffabilità e la non rappresentabilità dell’atto sessuale spiega perché quegli stessi che lo compiono a casa loro, non lo sopportano sullo schermo o nei libri. Essi pensano che quello che si vede è troppo poco rispetto a tutto quello che non si vede né si potrà mai vedere. Di qui l’accusa, ingiusta, almeno questa volta, di pornografia, che dovrebbe essere sostituita con quella di incompletezza. Ma queste sono ipotesi benevole. In realtà il sesso è represso e proibito o almeno si vorrebbe che lo fosse. CINQUE PEZZI FACILI Bob è un giovane di buona famiglia, secondo la tradizione americana “wasp” (white, anglosaxon, protestant), tirato su in provincia nell’atmosfera dell’idealismo e dell’estetismo del principio del secolo (ma a sua volta idealismo ed estetismo reagivano al crasso materialismo della rivoluzione industriale) ed educato alla musica da un padre melomane. Bob fugge dalla propria famiglia e dalla propria classe e va a fare l’operaio a Los Angeles. In simili casi la cristallizzazione stendhaliana agisce quasi automaticamente. Odiatore della borghesia, aspirante proletario, Bob si accoppia con una cameriera di ristorante la cui volgarità, evidentemente, insieme lo disgusta e lo attira. Bob vive la vita del proletario: alla mattina indossa la tuta, saluta l’amante, e va al lavoro. Lì trova un amico

operaio con il quale fatica e si riposa. Ma l’amante e l’amico sono dei veri popolani; Bob invece rimane un borghese intellettuale che tenta invano di disfarsi della propria superiorità culturale e sociale: nella nuova vita, trova altrettanti motivi di scontento che nella vecchia. Un giorno gli annunziano che il vecchio padre ha avuto l’infarto e allora parte per visitarlo. Dopo un vano tentativo di lasciare l’amante a casa, Bob se la porta con sé. L’America che i due attraversano pare fatta su misura per lo scontento di Bob: squallida, consumistica, devastata, stanca. Eccolo alfine in famiglia. Anche qui, il suo soggiorno avviene sotto il segno della rabbia e della disaffezione. Bob non odia né ama abbastanza la propria famiglia per fare le cose giuste; preso tra due sentimenti opposti, fa tutte le cose sbagliate: va a letto con la cognata, si prende a botte con il cognato, si confida sinceramente con il solo che non può rispondergli, cioè con il padre paralizzato. Alla fine riparte con la cameriera, le cui maniere plebee, durante il soggiorno nella casa paterna, l’hanno sovente fatto vergognare suo malgrado. A una pompa di benzina, Bob va al cesso, guarda in uno specchio la propria faccia di uomo disperatamente scontento, quindi esce e sale in un camion, piantando in asso l’amante. Fuggito dalla borghesia per inserirsi nel popolo, Bob fugge anche da questo, scappa verso il nulla. In questi Cinque pezzi facili di Bob Rafaelson, la figura del protagonista ha una sua originalità che bisogna sottolineare. Non è il dropout, l’hippy, personaggi, in fondo, sociali, che passano da un conformismo a un altro, da una classe a un’altra. È invece il rivoltato cronico la cui rivolta, però, non riesce mai ad acquietarsi e a risolversi. Bob è troppo sensibile e intelligente e troppo poco conformista; la sua rivolta rimane sempre a mezza strada tra la classe da cui fugge e quella in cui vorrebbe entrare. Il regista ci suggerisce il dramma di Bob fin da principio, con il contrasto tra il suo viso aristocratico e sfumato e i volti semplici e grossolani dell’amico operaio e dell’amante cameriera. Così noi sappiamo subito “chi” è Bob, fin dalle prime sequenze; poi, il film non è che il corollario narrativo di quella prima definizione plastica. A Bob potrebbe applicarsi il verso di Rimbaud: “Par délicatesse – j’ai perdu ma vie.” Ci vuole infatti una buona dose di insensibilità sia per restare borghese sia per diventare hippy. Adesso bisognerebbe parlare del procedere vagabondo e casuale del racconto, la qualità maggiore di Cinque pezzi facili. Bob Rafaelson sa narrare con il gusto dei particolari precisi e apparentemente inutili, senza fretta di arrivare alla conclusione, anzi in maniera decisamente inconcludente. Da questa sconclusionatezza vengono fuori i ritratti di un uomo e di un’America certo più autentici di quelli già forniti da Easy Rider, capostipite del genere. Ci troviamo di fronte a una critica della società americana che per la sua precisione e la sua radicalità si lascia indietro di molto l’analogo cinema europeo. Gli attori di Cinque pezzi facili sono tutti molto bravi, nella nuova maniera di questo cinema sfuggente e crudele. Bisogna soprattutto ricordare Jack Nicholson nella parte del protagonista, Susan Anspach, la cameriera, Karen Black, la cognata. PUNTO ZERO Un certo Kovalski, ex combattente decorato al valore militare, ex agente di polizia, ex corridore automobilistico, diventato hippy a tutti gli effetti, scommette con il suo fornitore di droga di percorrere in un certo numero di ore la distanza tra Denver in Colorado e San Francisco in California. Perché? Non c’è perché, è una sfida ai limiti naturali (del corpo e della macchina) e sociali (le norme stradali) in nome della più assoluta e anarchica delle libertà. Kovalski sale dunque sopra un’automobile di tipo commerciale ma con il motore truccato e si slancia nella sua corsa verso l’ovest sui rettifili interminabili e attraverso le steppe e i deserti del Colorado, del Nevada e della California. Naturalmente la polizia gli dà la caccia. Ben presto l’ansia di velocità di Kovalski e la volontà della polizia di far rispettare le norme del codice stradale, acquistano un significato simbolico. Alla trasformazione della gara di velocità tra polizia e Kovalski, in una lotta ideologica

tra repressione e liberazione, contribuisce soprattutto un cantante cieco, negro, impiegato nell’ufficio telegrafico di una sperduta località del deserto, il quale interviene nelle trasmissioni radio con esaltazioni e incitamenti a Kovalski e irrisioni e biasimi alla polizia. Per il negro isolato nel suo villaggio e rinchiuso nella sua cecità, Kovalski è l’ultima incarnazione dell’individualismo americano, l’ultima personificazione della gloriosa e cavalleresca corsa dei pionieri verso l’ovest. Così attraverso i mass-media il nome di Kovalski diventa tutt’a un tratto popolare, riempie gli spazi con la radio, le testate dei giornali con i titoli. Intanto Kovalski continua a correre a perdifiato attraverso i deserti dell’America, “seminando” le motociclette e le automobili della polizia con le più spericolate acrobazie automobilistiche. Dopo avere fatto uscire di strada e rovesciare nel polverone molti degli inseguitori, Kovalski si getta nel deserto. Strano deserto degli anni settanta. Vi si aggirano falsi pellerossa drogati, banditi di strada, ragazze nude in motocicletta, cacciatori di serpenti, comunità hippy mistiche e promiscue. La polizia caccia invano Kovalski; imbestialiti i poliziotti se la prendono con il cantante cieco, invadono l’ufficio telegrafico, riempiono di botte l’esaltatore del corridore solitario. Ma l’avventura di Kovalski volge alla fine. Sembrerebbe che debba concludersi nella maniera tradizionale, con la celebrità e l’offerta di un grosso assegno da parte di una fabbrica di automobili. Cioè con l’integrazione del ribelle nella vorace società americana. Ma non è così. La corsa di Kovalski non è verso l’integrazione ma verso la morte. In California, Kovalski si uccide gettandosi di sua volontà contro lo sbarramento della polizia. Questo Punto zero di Richard Sarafian (di cui abbiamo recensito una settimana fa un altro notevole film Frammenti di paura) sta tra Easy Rider di cui riprende il motivo della corsa attraverso l’America e Zabriskie Point di cui sembra ripetere lo schema della lotta impari tra establishment e controcultura. Ma è superiore al primo per il virtuosismo tecnico della corsa e per la sensibilità paesaggistica. E regge il confronto con il secondo, sia perché Barry Newman nella parte di Kovalski è di tanto superiore a Mark Frechette, l’eroe di Antonioni; sia perché l’invenzione straordinaria del cantante cieco negro vale almeno quanto quella dell’amore nella Valle della Morte nel film del regista italiano. Ma Sarafian, come tutti gli artisti che portano a perfezionamento le scoperte altrui, mentre evita le sbavature proprie di ogni novità, sfiora pericolosamente la maniera, senza peraltro caderci, grazie anche alla sincera simpatia che anima il suo film. Punto zero d’altronde, appunto perché viene dopo Zabriskie Point, ne conferma la legittimità e l’acutezza. Punto zero contiene l’epicedio della cosiddetta generazione dei fiori, cioè del movimento hippy. Al contrario dei movimenti politico-sociali, la rivolta hippy si rivela in questo film fine a se stessa, ossia fatalmente portata all’autodistruzione. Forse per questo il suicidio di Kovalski, presentato come un’affermazione “positiva”, sembra meno convincente della conclusione atomica di Antonioni. LE SOUFFLÉ AU COEUR Ultimamente a Parigi ho visto l’ultimo film di Louis Malie: Le soufflé au coeur. Il giorno dopo c’è stato un dibattito alla televisione in una trasmissione intitolata Postscriptum. La trasmissione, in teoria, era dedicata a me; ma poiché il tema era il film di Malie, alla fine diventò una discussione sul tema del film, che è, poi, il rapporto incestuoso tra madre e figlio. Qual è la storia di Le soufflé au coeur? Vi si narra di una famiglia francese, con un padre medico, una madre di origine italiana e tre figli maschi. Il più piccolo dei figli, Laurent, è il preferito di Clara, la madre; dal canto suo il figlio le è appassionatamente affezionato. Per tutta la prima parte del film, Malie si limita a descriverci la vita del ragazzo a scuola e a casa. Laurent, che ha quindici anni, è vivace, molto sensibile, un po’ nevrotico ma, in fondo, del tutto normale. Una sera i fratelli lo portano in un night-club, gli fanno avvicinare una donna e Laurent fa l’amore per la prima volta.

Poi c’è una brusca svolta. Laurent si ammala e deve curarsi; la madre e lui vanno in una stazione termale. Dormono nella stessa stanza d’albergo e, allora, l’affetto eccessivo che li unisce acquista facilmente un carattere erotico, pur restando, in fondo, soprattutto affetto. La madre che è una donna disordinata, libera, allegra e sensuale, non si perita di mostrarsi al figlio quasi nuda; e il figlio la desidera. Una sera, Laurent accompagna Clara a ballare; al ritorno lei e ubriaca; Laurent la mette a letto, la spoglia e quindi quasi senza rendersene conto, i due si abbracciano e consumano l’incesto. Subito dopo, Clara parla con dolcezza materna al figlio, gli dice che non è nulla, che non deve pentirsene né vergognarsene, che resterà un segreto tra di loro e che torneranno a volersi bene come in passato. La madre si addormenta, Laurent sgattaiola fuori dalla camera, va da una ragazza, fa di nuovo l’amore. La mattina, in punta di piedi, le scarpe in mano, rientra nella stanza della madre. Vi trova la famiglia intera, padre compreso, che fa colazione. I genitori e i fratelli guardano Laurent e, alla fine, vedendolo così confuso e intuendo il motivo, o meglio, credendo di intuirlo, scoppiano in una gran risata. Con questa risata si conclude il film. È uno dei film migliori di Malie, se non il migliore, sia per lo studio attento e delicato della psicologia del ragazzo; sia per il personaggio amabile e vivo della madre, interpretato con naturalezza da Lea Massari; sia per la sapiente gradualità con cui il regista ci fa arrivare all’incesto che alla fine apparirà come un’effusione affettuosa un po’ più ardita e intensa del solito. In certo senso, insomma, il film ci mostra l’incesto, non risentito come tale né dalla madre né dal figlio, come il rapporto d’amore tra una donna matura e un adolescente che “potrebbe” essere suo figlio. Ma a Post-scriptum la questione non è stata tanto di sapere se il film di Malie era brutto o bello quanto se davvero l’incesto diventerà un rapporto d’amore come tutti gli altri. Non feci a tempo a dare una risposta alla questione, perché la discussione, purtroppo, degenerò in confusione. Ma adesso posso parlare. Vediamo un po’. Se è vero, come è vero, che il terrore dell’incesto è più sentito dai primitivi che dai civilizzati in quanto i primitivi sono più vicini alla natura nella quale, difatti, l’incesto è praticato con indifferenza dagli animali, è chiaro allora che il tabù, diventato ormai automatismo psicologico, non sarà più necessario. In altri termini l’incesto non costituirà più una tentazione, senza alcun bisogno di espliciti e drammatici divieti. E se avverrà, non sarà che un incidente, un caso, come appunto nel film di Malie. Edipo, insomma, si punisce con l’accecamento perché in quei tempi la famiglia era ancora insidiata dalle tentazioni naturali. Laurent, invece, ci ride sopra perché la famiglia oggi non è più insidiata dalla natura e l’incesto, se avviene, non è che un’eccezione insignificante a una regola altrettanto insignificante. Se, poi, invece, il senso del film è che domani tutti praticheranno l’incesto, allora non sono d’accordo. I tabù non cadono quando sono sconfitti; cadono quando hanno vinto e di conseguenza sono diventati inutili. LOVE STORY Come sono indeboliti i nervi delle nostre classi medie. Un tempo, un successo di vendita come quello di Love Story sarebbe rimasto quello che è: un successo di vendita. Ma oggi non è così. Spaventate dalla contestazione, sconcertate dalla “permissività”, esse vogliono vedere a tutti i costi nel romanzo di Erich Segai il sintomo di una imminente svolta “romantica”. Mettiamo tra virgolette la parola perché, nel caso di Love Story essa acquista un significato particolare. Ecco perché. La nostalgia della brava gente conservatrice andrà sempre irresistibilmente all’epoca romantica non già perché un secolo e mezzo fa si scriveva d’amore più e meglio di oggi; ma perché (secondo loro) non si scriveva che d’amore. Di modo che “romantico” per gli ammiratori di Segai è in fondo non tanto qualcuno che fa piangere con una storia d’amore e di morte; quanto qualcuno che non si occupa di tutto ciò che forma lo sfondo della storia. In Love Story, la risoluzione sentimentale del contrasto sociale è ciò che ha contribuito di più al successo del libro.

In quest’idea ci ha confermato il film che il regista Arthur Hiller ha ricavato dal romanzo di Segai. Siamo andati a vedere il film sicuri che per il solo fatto di venire “dopo” il successo del romanzo e di non essere, per questo, come il romanzo, un prodotto “ingenuo” ma riflesso, esso avrebbe contenuto, inevitabilmente, una critica al romanzo. Non ci ingannavamo. Il film contiene, infatti, la critica che ci aspettavamo. Tutti conoscono la storia di Love Story. Contro il volere del genitore miliardario protestante e anglosassone, uno studente sposa la ragazza che ama, figlia di modesti genitori italoamericani e cattolici. Il matrimonio provoca la rottura tra padre e figlio. Ma la ragazza si ammala gravemente; e allora il figlio, per curarla, chiede del denaro al padre. Questi glieli dà, domandandogli, con paterna volgarità, se per caso non gli serve per fare abortire una ragazza da lui “messa nei guai”. Appresa la triste verità, il padre pentito si precipita all’ospedale e piomba sul figlio ormai vedovo con questa frase: “Ma perché non me l’hai detto, Oliver?” Il figlio si getta piangendo tra le braccia del padre. In realtà il vero protagonista del romanzo è il padre. Perché questo? Perché è il solo che si muova e si sviluppi. Ragazzo e ragazza restano identici dal principio alla fine; il padre, no. In principio apprendiamo che è ricchissimo e ha un cuore duro; alla fine apprendiamo che pur continuando ad essere ricchissimo, ha un cuore tenero. D’altra parte, il padre è il vero protagonista perché da lui viene la “morale” del libro. L’uomo medio ha bisogno di credere che il potere non è immeritato e si accompagna con qualità “umane”. Segai, col suo miliardario buono, soddisfa questo bisogno d’autorità giustificata. Ma Segai non ha scritto “apposta” il suo libro, come qualcuno ha suggerito qui in Italia. Segai è un conservatore allo stato brado, del tutto ingenuo. Questa sua ingenuità deve essere, però, sembrata eccessiva persino ai volponi che hanno confezionato la sceneggiatura del film. Ed ecco, allora, in forma di modificazione, la critica al libro, involontaria ma non per questo meno valida. Nel film l’abbraccio finale tra padre e figlio è soppresso. Quell’abbraccio stava a significare che, dopo tutto, il cammello passa per la cruna dell’ago e il ricco entra nel regno dei cieli. Bisogna interpretare la soppressione dell’abbraccio come un tacito omaggio alla parabola del Vangelo. Sul film non c’è altro da dire. Durante un volo da Parigi a Roma, l’hostess ci ha dato una rivista in cui c’era un articolo sul fenomeno Love Story, naturalmente favorevole, nel quale, sotto una fotografia di Ali Mac Graw, si leggeva la scritta: “La pulita faccia di Ali Mac Graw.” Pulita, perché? O, forse, pulita sì, ma nel senso letterale, con un sapone di marca. In realtà Ali Mac Graw ha una faccia sensuale dalle narici frementi e dalla bocca molto larga e come prensile. Con queste narici, con questa bocca e con due occhi neri, quieti e fissi, Ali Mac Graw riesce a dare una sembianza di esistenza al suo personaggio. Meno bene Ryan O’Neal, troppo piagnucoloso. Gigione al massimo, Ray Milland nel ruolo di padre. LA VIEILLE DAME INDIGNE La vietile dame indigne di René Allio racconta la storia di una vecchia donna che dopo sessant’anni di servitù matrimoniale e borghese, si gode diciotto mesi di libertà. Già il fatto di aver eletto a protagonista una vecchia, è insolito. Infatti, i protagonisti sono sempre o quasi sempre giovani e questo perché nel protagonista la vitalità del tema ha bisogno della vitalità propria dell’età per trovare piena espressione. E i protagonisti vecchi? Ebbene i protagonisti vecchi sono di solito, sotto apparenze anziane, anche loro dei giovani. King Lear è un bambino. Don Chisciotte, un adolescente. Berthe Bertini, la protagonista di René Allio, appartiene alla famiglia di King Lear e di Don Chisciotte. È vecchia; ma ha il cuore giovane. Vissuta sessant’anni accanto al marito, donna di casa, moglie, madre, bottegaia, si suppone che per tutto questo lunghissimo tempo, sia stata esemplare secondo la scala di valori dell’avara e rispettabile piccola borghesia francese. Muore il marito e tutta

la famiglia accorre da Berthe. C’è il dolore, s’intende; ma anche e soprattutto c’è la preoccupazione dell’eredità. Si decide alla fine di fare una procura a Berthe affinché liquidi la bottega e venda la casa. A questo punto si verifica la prima sorpresa. Berthe rifiuta di andare a vivere presso uno dei figli. Resterà dov’è; e i figli le passeranno una pensione in modo che possa vivere decorosamente. Del resto “decorosamente” non è la parola giusta. In realtà Berthe ha aspettato sessant’anni per vivere non già decorosamente, ma a modo suo. Niente di male, però. Vivere a modo suo vuol dire, per Berthe, godere in libertà e senza pregiudizi delle cose belle e buone della vita. Vuol dire, cioè, passeggiare, oziare, girellare per i negozi, per i giardini, per le strade, andare al cinema, mangiare un gelato al caffè, salire in una carrozza, avere degli amici poco rispettabili come un calzolaio anarchico e una prostituta. Naturalmente, queste innocenti stravaganze suscitano la riprovazione dei figli avari e laboriosi. Berthe è la cicala della poesia di La Fontaine; loro, le formiche. Ma Berthe non se ne dà per inteso. Cicala sistematica, vende tutto ciò che ha, per regalare un’automobile alla prostituta sua amica, per aiutare un suo nipote suonatore in un complesso musicale. Alla fine Berthe, dopo diciotto mesi di vita finalmente autentica, muore nella propria casa completamente spogliata di tutti i mobili, senza lasciare un soldo ai parenti. La vietile dame indigne è un bel film nel quale Allio ha ripreso alcuni temi tradizionali nel cinema francese, fin dai tempi di René Clair, ma aggiungendovi di suo una specie di sfida dolorosa e pungente. Berthe, nonostante il suo intrepido amore della vita, non è, in fondo, un personaggio allegro. Come abbiamo detto, essa, a ben guardare, non aspira a cose straordinarie ma soltanto a vivere in maniera umana. Sotto quest’aspetto, la polemica di Allio si ricollega a quella della contestazione hippy. Si dubita, però, che un personaggio come Berthe avrebbe potuto essere concepito fuori della Francia. La libertà, la spregiudicatezza, la giovinezza di cuore di Berthe non esisterebbero se non esistessero la ristrettezza, i pregiudizi e la decrepitezza della piccola borghesia francese. La quale, per questo, diventa alla fine la vera protagonista del film. Sarebbe stato facile essere spietati con una classe così meschina e avara. Ma Allio ha saputo resistere a questa facile tentazione e ci ha fornito una descrizione forse non nuova ma veritiera della vita borghese di provincia. Interpretato in maniera eccellente da Sylvie, il personaggio di Berthe si rivela insieme generoso, imprevisto e bellicoso, di un’aggressività curiosamente militare. Intorno a lei gravitano molti attori tutti bravi a livello caratteristico. LA GUERRA DEL CITTADINO JOE Una ragazza di buona famiglia, Melissa, diventa una drop out ossia una transfuga della propria classe e va a vivere con un certo Frank giovane hippy drogato e spacciatore di droga. Una dose troppo forte di eroina spedisce Melissa in clinica; il padre di lei, Bill, dirigente industriale e uomo d’ordine, va a cercare Frank per una spiegazione. Ma Frank insulta Bill; e Bill, allora, ammazza Frank. Commesso l’involontario omicidio, Bill va in una taverna; ci trova un operaio metallurgico, Joe, che, avendo bevuto un bicchiere di troppo, sbraita contro gli hippies e contro i negri. A conclusione della sua patriottica concione, Joe grida: “Li ammazzerei tutti.” E allora Bill sussurra: “Io l’ho fatto.” Questa frase costituisce più tardi, per Joe, il mezzo di cui si serve per risalire a Bill e individuarlo come autore del delitto. Allorché Joe telefona a Bill e gli chiede di parlargli ricordandogli il loro incontro nella taverna, Bill teme un ricatto. Si sbaglia. L’operaio vuole invece congratularsi con lui, assicurarlo della propria solidarietà. Nasce così un rapporto di complicità amichevole tra il dirigente industriale e l’operaio. È un po’ il rapporto tra un uomo e lo specchio che gli rimanda la vera immagine di se stesso; un po’ anche il rapporto tra il mandante e l’esecutore. Politicamente, Bill è il liberale non privo di un barlume di coscienza ma difensore dei propri interessi; Joe è invece il killer fascista, inconsciamente

condizionato dai mass-media del potere. Si suppone che Bill sia relativamente colto. Joe, invece, collezionista di armi da fuoco, è l’illustrazione vivente del noto motto nazista: “Quando sento parlare di cultura, la mia mano va alla rivoltella.” Tutto andrebbe bene se Melissa, per caso, non venisse ad apprendere la verità sulla morte dell’amante. Melissa fugge di casa; e allora Bill e Joe si mettono alla ricerca di lei per le taverne e i night-club del “Village”. Durante queste ricerche, sono invitati a una festa di hippies, dove buttano alle ortiche il moralismo, partecipano a un’orgia a base di droga e di amore promiscuo. Ma gli hippies li derubano mentre fanno l’amore; e allora il moralismo si risveglia, più forte che mai. Joe e Bill inseguono i ladri fino a una villa fuori città. Armati di fucili si fanno restituire i portafogli; quindi, quasi senza volerlo, automaticamente, sparano. Joe ammazza per primo quattro o cinque ragazzi; Bill, dopo un attimo di esitazione, lo imita. Arriva Melissa. Bill spara e ammazza anche la figlia. Ricavato da un vero delitto avvenuto nel 1969, questo La guerra del cittadino Joe di John Avildsen ricalca in parte il tema di Easy Rider, cioè il contrasto tra la “maggioranza silenziosa” patriottica e ligia all’“American Way of Life” e la controcultura dei giovani e dei gruppi minoritari negli Stati Uniti. Senonché, mentre Easy Rider era agiografico e i due protagonisti erano visti come due martiri laici; qui, invece, il punto di vista è più ambiguo, anche perché tutti i personaggi, senza eccezione, sono descritti con imparziale misantropa antipatia. Il punto di forza tuttavia è il personaggio di Joe, l’operaio reazionario. È un tipo d’uomo che gli europei conoscono bene per averlo avuto tra i piedi per vent’anni, in camicia nera e bruna. Semmai la novità, rispetto alle tesi del marxismo ortodosso, è che il fascismo in questo film è visto come un fenomeno di massa in certo modo spontaneo, anche se indirettamente determinato dalla propaganda dei mass-media. Di qui la succitata ambiguità del film che probabilmente rispecchia un’analoga ambiguità della lotta politica e sociale negli Stati Uniti. Film sgradevole e impoetico, non privo di deus ex machina e altre simili convenzioni narrative, La guerra del cittadino Joe ha tuttavia un accento di autenticità sofferta. Il personaggio di Joe è interpretato con straordinaria intelligenza ed efficacia da Peter Boyle. Accanto a lui ma a qualche distanza, bisogna ricordare Susan Sarandon, Pat McDermott, Dennis Patrick e Audrey Caire. SACCO E VANZETTI Il carattere distintivo dei cosiddetti delitti di Stato è che essi sono tanto più infami quanto più importanti e ben delineati sono gli ideali e gli interessi che li hanno originati. Certamente fu un delitto di Stato la fucilazione del duca d’Enghien da parte di Napoleone; tuttavia il duca d’Enghien a causa della scarsa importanza e chiarezza del conflitto di cui era involontario protagonista, non fu mai più che una vittima. Accade invece qualche volta che il delitto di Stato per la centralità, la profondità e la limpidezza delle forze in contrasto assurga alla dignità di “tragedia” coinvolgendo, come fanno appunto le azioni teatrali veramente drammatiche, non soltanto gli attori ma anche gli spettatori. Ancora oggi il delitto di Stato per eccellenza, a causa della sua perfetta tragicità, resta quello che portò alla condanna e alla morte di Gesù. Da questo solo esempio si può capire quanti e quali elementi debbono concorrere affinché un delitto di Stato sia realmente tragico, ossia acquisti un chiaro carattere rappresentativo e simbolico. Tra i delitti di Stato che possono aspirare alla qualifica di tragedia bisogna mettere senza dubbio la condanna a morte dei due anarchici Sacco e Vanzetti eseguita il 23 agosto 1927 negli Stati Uniti. Il contrasto di fondo, apparentemente, era tra due concezioni politiche diverse, la concezione anarchica e la concezione del liberalismo tradizionale. In realtà, invece, sotto questo apparente conflitto di opposte teorie, si nascondeva da una parte la protesta contro l’ingiustizia reale e dall’altra la difesa degli interessi costituiti. Senonché lo scontro non poteva avvenire sul terreno

legale in quanto la predicazione anarchica non era proibita negli Stati Uniti. E allora, ecco la polizia e la magistratura americane, con l’avallo di una parte dell’opinione pubblica aizzata dalla stampa reazionaria, accusare Sacco e Vanzetti di un delitto comune; ecco, insomma il delitto di Stato mascherarsi consapevolmente da errore giudiziario. Ma perché diciamo “errore giudiziario” e non “assassinio legale”? Perché coloro che riuscirono a congiungere queste due cose contraddittorie, l’idea anarchica e la rapina a mano armata per fini di profitto, pur essendo dei politici cinici, erano anche dei difensori dell’ordine costituito. Vale a dire, essi sapevano di condannare due innocenti, ma nello stesso tempo, coinvolti anche loro nella generale atmosfera repressiva e terroristica, erano convinti di poterlo fare perché Sacco e Vanzetti, in quanto anarchici e appartenenti a un gruppo etnico “inferiore”, erano comunque due malfattori e perciò potevano essere tranquillamente adoperati per “dare una lezione”. Per loro disgrazia, Sacco e Vanzetti non soltanto erano innocenti ma anche, sia per le idee che professavano sia per il contegno che tennero durante il processo, diventarono due figure emblematiche per gli oppressi e i diseredati del mondo intero. Così l’errore giudiziario consapevolmente fabbricato, contando sull’oscurità delle due vittime, rivelava invece, nella piena luce di una tragedia significativa, il suo vero volto di delitto di Stato. Giuliano Montaldo ha ricavato dalla storia dei due anarchici un film, Sacco e Vanzetti, che vorrebbe essere da una parte un omaggio documentario alla memoria dei due martiri, e dall’altra un’indagine approfondita delle complessità sociali e politiche che portarono una società capitalista a far condannare per un delitto contro la proprietà due avversari dell’istituto della proprietà. Diremmo che mentre il primo scopo è stato pienamente raggiunto; il secondo è rimasto spesso al di là dei risultati. Montaldo ha saputo ricostruire con grande efficacia l’ambiente dei due anarchici e le fasi del processo, riuscendo a far sì che il carattere emblematico dei personaggi non ne annullasse l’umanità. Ma quando ha rivolto l’obiettivo alla società americana non ha saputo o voluto andare oltre una caratterizzazione sfavorevolmente simbolica. Sacco, Vanzetti, i loro parenti, i loro amici, i loro avvocati sono delle persone. Fuller, Katzman, Thayer e gli altri nemici dei due italiani fanno invece figura di portavoce dell’odio di classe e della ragione di Stato. Ma pure con questa riserva, bisogna dare atto a Giuliano Montaldo di aver fatto un film in tutto degno dell’alto e difficile argomento. Il regista ha saputo essere commosso senza retorica e verace senza enfasi. Il film ha i suoi punti di forza nell’interpretazione ammirevole, di insolita intensità e bravura, di Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, un Vanzetti e un Sacco che paiono la replica cinematografica del celebre quadro di Ben Shan. Accanto a loro bisogna ricordare Cyril Cusack nel ruolo di Katzman, Valentino Orfeo, Milo O’Shea, Geoffrey Keen, William Prince, Armenia Balducci, Rosanna Fratello, Claude Mann, Marisa Fabbri, Claudio Gora. MORTE A VENEZIA Nella Morte a Venezia di Thomas Mann c’è un’apparente contraddizione che conviene mettere in luce prima di parlare del film che ne ha ricavato Luchino Visconti. Gustav Aschenbach, nel libro, ci è presentato come uno scrittore “integrato” e, per giunta, probabilmente mediocre. Nominato, a cinquanta anni conte dal Kaiser, autore tra gli altri di un romanzo Un miserabile che “additava a tutta una gioventù riconoscente la via della risolutezza morale”, Aschenbach non sembra davvero un Nietzsche, uno Strindberg, suoi contemporanei, che, alla fine, avevano “agito” secondo i loro convincimenti; bensì uno di quegli intellettuali borghesi della fine del secolo che, in fondo, ignoravano di essere infetti di decadentismo. Aschenbach non ha mai “agito” secondo la scala dei valori decadenti che respinge con orrore; ha sempre “agito” da buon borghese conservatore. Così il dramma di Aschenbach rimane fino alla fine quello del crollo di una scala di valori non tanto intellettuali quanto etico-sociali, non troppo diverso in fondo dal dramma del professore di ginnasio

in Angelo Azzurro. E il colera che scoppia dentro un’antica sede della cultura europea come Venezia, simboleggia appunto lo scoppio del morbo mortale dell’estetismo in un animo attaccato ai valori tradizionali. Le giustificazioni culturali e intellettuali che Aschenbach si fornisce per lasciarsi andare alla propria passione non ingannano né il protagonista che, alla fine, accetta l’omosessualità per quello che è, né tanto meno Mann, che guarda al dramma con il distacco ironico dello storico di una fatale fase della cultura europea. Luchino Visconti insofferente di questa contraddizione che era, poi, la contraddizione centrale dell’intera cultura del tempo, l’ha abolita lasciando cadere l’Aschenbach manniano, scrittore integrato, e facendone invece fin dall’inizio un esteta, un grande intellettuale, un musicista famoso nel quale è adombrata la figura del compositore austriaco Gustav Mahler. Così il dramma di Aschenbach non è più quello di un uomo d’ordine che, a un tratto, si scopre omossessuale e cerca di giustificare la propria passione con le ragioni dell’estetismo decadente; bensì quello di un musicista per niente borghese che si dibatte in una contraddizione tutta intellettuale. In altri termini il dramma dell’Aschenbach manniano è etico-sociale; quello dell’Aschenbach viscontiano è culturaleintellettuale. La differenza si ripete del resto al livello dei due autori. Mann è il moralista e lo storico del decadentismo europeo; Visconti e invece un esteta che potrebbe benissimo essere un personaggio di Mann. La prima conseguenza di questo cambiamento dal libro al film è che il simbolo del colera a Venezia perde la sua importanza significante; diventa un mero particolare suggestivo dello sfondo veneziano, senza però alcun carattere simbolico. La funzione commentatrice del colera a Venezia, viene invece attribuita ai flash-back nei quali è lumeggiato il travaglio intellettuale di Aschenbach cioè di Mahler, con singolari prestiti da un altro libro di Mann, Doktor Faustus. Così attraverso l’Aschenbach borghese che tutte le sere si veste in frac per pranzare all’albergo veneziano, parla il demoniaco personaggio dell’ultimo grande romanzo di Mann. Singolare trasformazione! Stranamente, però, nonostante questo cambiamento, la forza della corrispondenza tra il colera veneziano e la senile infatuazione omosessuale di Aschenbach rimane intatta. I flash-back non incidono e, se anche non ci fossero, il film, uno dei migliori di Visconti, non ne risentirebbe. È vero, l’Aschenbach di Visconti non è quello di Mann; ma la questione centrale, ossia la passione dell’anziano intellettuale per il ragazzo polacco, rimane inalterata. È di questo che si tratta, non della crisi di Mahler. E infatti nel film di Visconti tutto quello che in un modo o in un altro si riferisce alla tentazione omosessuale sia pure giustificata dall’estetismo, è valido e funziona. Il solo rimpianto che possiamo esprimere è che se Visconti, com’era suo diritto, doveva prendersi delle libertà con il testo manniano, sarebbe stato preferibile che l’avesse fatto non già al livello intellettuale ma a quello psicologico. Magari inventando un rapporto più “reale” tra Aschenbach e Tadzo. Però il limite che Mann ha imposto a questo rapporto è stato rispettato con ragione da Visconti. Si deve a questo limite, se Aschenbach commuove nella sua vana lotta contro il colera morale che lo insidia. Ma il film di Visconti è valido anche per altri motivi. Visconti ha una quasi morbosa capacità di ricostruzione di ambienti emblematici del passato. Si ricordi il ballo nel Gattopardo. In Morte a Venezia bisogna notare la magistrale ricostruzione degli ambienti dell’albergo e della spiaggia del Lido. Si è perfino parlato di cinéma vérité a proposito di questa ricostruzione. Diremmo che è qualche cosa di diverso. Visconti, in queste descrizioni della vita defunta, raggiunge una intensità strana, insieme contemplativa e straziante. Come di una ricerca proustiana del tempo perduto. Accanto a questi “rivisitamenti”, bisogna mettere, come abbiamo detto, il rapporto tra Aschenbach e Tadzo, che più che nel libro, forse perché l’immagine è sempre più esatta della parola, ha un dichiarato carattere di tentazione erotica. A dire il vero la scelta di Dirk Bogarde, peraltro molto bravo, non ci convince del tutto. Bogarde è troppo sano e giovane, e, invece, secondo

noi, Aschenbach doveva essere vecchio e corrotto come Venezia. IL RAGAZZO SELVAGGIO La storia del ragazzo cresciuto solo, allo stato brado, nelle foreste dell’Aveyron, in Francia e quindi catturato verso il 1800 e affidato al dottor Jean Itard, direttore dell’Istituto dei sordomuti, che ne fece l’oggetto di un esperimento pedagogico condotto secondo il più rigoroso metodo illuminista, viene raccontata nell’ultimo film di François Truffaut, Il ragazzo selvaggio. Come si può vedere nel film, l’esperimento ebbe un successo parziale. Giunto sulla soglia della coscienza, il ragazzo si fermò senza varcarla. È vero che la pubertà di Victor ispirò al dottor Itard la speranza di far fare al suo allievo il salto qualitativo dall’animalità all’umanità. Ma la morale impedì di affrontare questa fase decisiva dell’esperimento. Dice il dottor Itard nella sua relazione: “Non dubitavo che se si fosse osato rivelare a questo giovane il segreto delle sue inquietudini e il fine dei suoi desideri, se ne sarebbe tratto un vantaggio incalcolabile. Ma, d’altro lato… non dovevo forse temere di rivelare al selvaggio un bisogno che… l’avrebbe portato ad atti di una indecenza rivoltante?” Ahimè, illuminista ma non freudiano, Itard non ebbe il coraggio di spingersi in un territorio allora non solo sconosciuto ma anche proibito. Il trauma dell’infanzia (il ragazzo, dopo un tentativo di infanticidio, era stato abbandonato dai genitori nella foresta) non fu mai sormontato. Victor, non più che semiumano, morì nel 1828. François Truffaut, di fondo illuminista come tutti i registi della nouvelle vague, non poteva non essere attirato dal tema del ragazzo selvaggio. Regista elegante, misurato, dalla mano leggera e dall’attenzione intelligente e delicata, Truffaut ha saputo recuperare nel suo film la parte migliore delle due relazioni del dottor Itard, vogliamo dire la generosa illusione illuminista mischiata a una inconsapevole pietà cristiana. Sarebbe stato facile fare di maniera un film d’epoca con una ricostruzione storica arguta e una lieve presa in giro di speranze e di credenze defunte. La gravità, l’ingenuità e persino la bontà di Itard vi si prestavano. Ma Truffaut ha evitato queste facilità e ci ha dato un film misterioso, tutto pervaso di un malessere e di un’amarezza che ne rendono penosa e poco “divertente” la visione. Sotto la storia semplice e lineare, affiora il dilemma; valeva la pena di fare di Victor un uomo? Non sarebbe stato meglio lasciarlo alla natura per niente matrigna che l’aveva salvato e allevato? A questa perplessità dobbiamo le cose migliori del film. Da una parte le scene bellissime dei “ritorni alla natura”, con Victor che scappa di casa, che si lascia infradiciare beato dalla pioggia, che si aggira per i boschi nello splendore del plenilunio. Dall’altra le scene pedagogiche, con gli sforzi didattici di Itard e le ribellioni e le docilità patetiche del ragazzo. François Truffaut con Il ragazzo selvaggio ha fatto uno dei suoi film più belli. Alla bellezza del film contribuiscono certamente le due ottime interpretazioni del dottor Itard da parte di Truffaut medesimo e soprattutto di Victor da parte di Jean Pierre Cargol, un ragazzo-scimmia di impressionante e pietosa verità. Adesso vorremmo parlare brevemente di un altro regista illuminista della nouvelle vague, JeanLuc Godard, di cui, al Filmstudio abbiamo visto l’ultimo film: Lotte in Italia. Perché ne parliamo? Perché, a ben guardare, il tema del Ragazzo selvaggio e quello di Lotte in Italia sono simili. Nel film di Truffaut Itard, illuminista serioso e convinto, cerca di umanizzare il ragazzo-scimmia applicando le teorie di Condillac; in Lotte in Italia Godard, illuminista non meno serioso e convinto, cerca a sua volta di umanizzare la borghesia-scimmia applicando le teorie di Marx. Tuttavia, stabilita questa somiglianza, vanno sottolineate le differenze. La principale, forse, è che, mentre Truffaut ci mostra i ritorni alla natura di Victor con una perplessità che cela l’eterna ambiguità della poesia, Godard non ha dubbi né pietà e spinge la sua coerenza fino a un’eroica forma di suicidio estetico. Lotte in Italia è infatti un film di autonegazione. Godard vi sostiene che l’immagine fotografica è un’espressione mistificante dell’ideologia borghese. Di conseguenza la fotografia va

negata, ossia, in pratica, ridotta a mera anche se elegante e prestigiosa diapositiva; mentre la parte parlata del film, in cui viene esposta la teoria marxista, si fa torrenziale. Ma non viene in mente a Godard che la parola, logorata da quattro secoli di riproduzione meccanica, sia altrettanto borghese dell’immagine? E poi perché la parola marxista, nel film di Godard, sembra pronunziata tra virgolette, cioè dà l’impressione di stare ironicamente sottovetro, come i sassi nei musei della preistoria? Ma Godard non risponderà a questi nostri dubbi. Gli illuministi illuminano ma non rispondono. IL RITO Una compagnia teatrale composta di due attori e un’attrice presenta uno spettacolo che viene denunziato per oscenità dalla magistratura. I tre attori, Sebastian, Hans e Thea, si presentano di fronte al giudice che è stato incaricato di interrogarli e indagare sul loro caso. I tre attori hanno un passato burrascoso. Attualmente, Thea è la moglie di Hans e l’amante di Sebastian. Sebastian è un nevrotico violento e aggressivo; Hans un uomo razionale ed equilibrato; Thea una donna sessualmente insoddisfatta e perciò sempre disposta e sempre affamata. Come si sa, qualsiasi rapporto tra giudice e imputato, quale che sia il delitto, si cambia immediatamente in un rapporto tra giudizio morale e senso di colpa. Invece nel film di Bergman il senso di colpa si trasferisce dagli imputati al giudice; e a sua volta la condanna finale colpisce quest’ultimo, trasmutandosi in un rito che risolve magicamente le antinomie della giustizia umana. Così durante gli interrogatori, mentre gli imputati diventano involontariamente degli accusatori, il giudice diventa a sua volta un imputato che dietro la facciata convenzionale della giustizia nasconde appetiti divoranti e scandalosi. Il giudice, insomma, non è migliore degli imputati anzi senz’altro peggiore in quanto loro si purificano ogni sera attraverso il rito artistico mentre lui non riesce a fondere le esigenze della giustizia con quelle delle passioni. Velleitario, torbido, incerto, il giudice si farà ingiuriare e malmenare masochisticamente da Sebastian; cercherà di attirare Hans nel trabocchetto di un tentativo di corruzione; infine sfogherà su Thea le proprie voglie. Alla fine i tre attori trasferiranno la recita dal palcoscenico all’ufficio del giudice, affinché quest’ultimo si renda conto che non è oscena. Il giudice tutt’a un tratto si accorgerà allora che il rito teatrale risolve in maniera ben più efficace e misteriosa della sua ipocrita giustizia i conflitti che lo lacerano. Nello stesso momento, colpito da infarto, morirà. Questa, crediamo, è la storia del Rito, ultimo film di Ingmar Bergman. Diciamo: crediamo, perché vi sono nel film non poche ambiguità e oscillazioni tra realtà fattuale e proiezione fantastica. Il film originariamente è stato girato per la televisione e Bergman ha accettato le convenzioni proprie dello schermo televisivo sostituendo la rappresentazione degli ambienti e delle azioni con un dialogo abbondante e un ricorso ai primi piani dei volti. D’altra parte, il regista ha ridotto drasticamente la vicenda al suo tema essenziale che è, poi, il contrasto dialettico tra la catarsi di tipo magico religioso propria dell’arte è quella di tipo etico propria della giustizia. Naturalmente Bergman ha avvertito il pericolo di trasformare i quattro protagonisti in quattro semplici portavoce o personificazioni di idee; e ha cercato di creare quattro personaggi reali, cioè provvisti di una biografia e di una psicologia. È qui che secondo noi il film, forse a causa della sua essenzialità e mancanza di eventi, si dimostra poco convincente. Veniamo a sapere molte cose dei tre attori e siamo introdotti nell’intimità ripugnante del giudice; ma i quattro personaggi rimangono purtuttavia astratti, di un’astrazione involontaria ben diversa, per esempio, dall’astrazione voluta del Processo di Kafka. Inoltre si riporta l’impressione che, forse, fidando un po’ troppo sulla novità dello schermo televisivo, Bergman ha ricavato il film da materiali non inediti, senza curarsi di inventarne dei nuovi. Ritroviamo, infatti, nel Rito, molte vecchie conoscenze: i complicati rapporti sentitnentali-familiari; la crudezza puritana della rappresentazione erotica; l’oggettivazione

implacabile del senso di colpa; l’ossessione teatrale e spettacolare. Si direbbe, insomma, che Bergman si limiti a scarnire fino all’osso la propria tematica senza peraltro rinnovarla. Ingrid Thulin, Anders Ek, Gunnar Björnstrand ed Erik Hell, rispettivamente Thea, Sebastian, Hans e il giudice, sono davvero straordinari per l’intensità e l’espressività della loro interpretazione. BUBÙ DI MONTPARNASSE Bubù di Montparnasse, romanzo di Charles-Louis Philippe dal quale Mauro Bolognini ha ricavato il film omonimo, racconta in chiave veristico-decadente la storia di Berta, una giovane operaia che il suo amante, un ex pasticciere soprannominato Bubù, spinge alla prostituzione. Teoricamente, Berta non vorrebbe prostituirsi; ma la virilità crudele e risoluta di Bubù l’affascina così che alla fine l’abiezione del suo triste mestiere diventa per lei quasi una prova d’amore. Berta si prostituisce, insomma, perché ama Bubù e vuole dimostrargli coi fatti che l’ama. Questo misticismo della prostituzione non le impedisce tuttavia di avere un amante, diciamo così segreto, nella persona di Piero, un giovane impiegato che l’ama di amore disinteressato e vorrebbe che lei andasse a vivere con lui. Così mentre Bubù simboleggia il sesso, dio spietato e affascinante, Piero sta a rappresentare la normalità borghese, gli affetti legittimi. Poi sul terzetto piomba la catastrofe, in quei tempi fatale, della malattia venerea. Berta prende la sifilide, l’attacca a Bubù e a Piero e finisce all’ospedale. Bubù, privato della sua fonte di guadagno, non esita un solo momento, secondo il suo carattere appunto “virile”: penetra di notte in un negozio, ruba; è arrestato, finisce in galera. Liberata del suo dio esigente, Berta può adesso indulgere ai sogni di un’esistenza “pulita” cioè piccolo-borghese, accanto a Piero. I due si esaltano in sogni di felicità coniugale, ma per poco. Una brutta mattina, si bussa alla porta. È Bubù. Prende a schiaffi Berta e le ingiunge di seguirlo. Naturalmente Berta ubbidisce. Abbiamo riassunto la trama soprattutto per mettere in luce l’elemento, diciamo così, storico che può avere giustificato questo nuovo tuffo nel passato da parte di Mauro Bolognini. In Metello il passato è il primo socialismo italiano; in Bubù, la sifilide. Bubù è un film migliore di Metello e forse uno dei migliori del regista appunto perché la sifilide, pur appartenendo al passato, non è un fatto di cultura ma di costume e Bolognini ha più sensibilità per il costume che per il dato culturale. Perché diciamo questo? Perché ci pare giunto il momento di indagare un poco su cosa sia il passato per Bolognini, questo regista del passato. In Italia, come si sa, c’è oggi un vero culto del passato. Romanzieri come Cassola e Bassani ci assicurano che il passato è pio, misterioso, ambiguo; quanto a dire che è il luogo privilegiato e insostituibile dove alberga la poesia. Per conto nostro pensiamo che il culto del passato sia sovente terrore del presente e soprattutto del futuro. Ma torniamo a Bolognini. Forse anche lui crede in buona fede di fare dell’elegia, sola possibile forma d’arte, secondo Cassola; ma è un’illusione. In realtà Bolognini odia il passato e, forse inconsciamente, ce ne fornisce un ritratto repellente. Nessuno vorrebbe vivere nel passato di Bolognini e, meno di tutti, lui, Bolognini. Il passato di Bolognini, per lo più localizzato tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento è un tempo di miseria di meschinità, di angustia, di ristrettezza, di mortificazione e di vergogna. L’“elegia” cassoliana viene ridotta al minimo indispensabile: la solita balera in riva al fiume, la solita fisarmonica, la solita effimera luce di gioventù. Ma, reso il dovuto omaggio al “genere”, Bolognini passa a farci vedere e sentire cos’è realmente il passato per lui, sia pure in modo inconscio. Chiaramente, facendoci penetrare nelle schifose corsie degli ospedali, nei luridi appartamenti di abitazione, negli squallidi cortili dei poveri e nelle odiose strade dei ricchi, Bolognini sembra che voglia dirci: “Ragazzi, ringraziamo il cielo di vivere oggi, nell’era del consumismo, del neocapitalismo, della contestazione e del marxismo. D’altra parte in lui questo sentimento di antipatia per il passato non si esprime solo nello squallore degli ambienti ma anche nello spessore della rappresentazione, segno indubbio di simpatia poetica. È un passato che

mortifica e fa soffrire, insomma, e per il quale non si prova nostalgia. Ottavia Piccolo ci ha dato una Berta assai convincente, tra il verismo dell’Ottocento e la nevrosi moderna. Antonio Falsi è Bubù, non più che una grinta ma verosimile. Massimo Ranieri e Luigi Proietti sono due deuteragonisti assai efficaci.

MACBETH Macbeth è uno dei drammi più belli e meno comprensibili, almeno per noi moderni, di Shakespeare. La bellezza è legata a versi troppo famosi per essere citati; a situazioni troppo esemplari per essere indicate. Al tempo stesso, però, è difficile immedesimarsi in Macbeth come per esempio in Amleto. E questo perché nel Macbeth è descritto realisticamente qualche cosa che oggi appare irreale. La macchina teatrale del Macbeth è basata su due passioni, l’ambizione e il rimorso, che, sebbene per motivi diversi, ci appaiono ambedue remote e indecifrabili. Circa l’ambizione c’è da dire che essa sembra essere oggi un sentimento meschino, proprio della più frustrata piccola borghesia. Gli scrittori sono sempre attuali rispetto ai loro tempi. Shakespeare, trattando di corti, di re, di regine e di congiure, era altrettanto attuale di Dostoevskij quando nei Demoni sceglieva come argomento il terrorismo nichilista: al tempo di Shakespeare, la corte e quello che ci succedeva all’insaputa dei sudditi, era la cosa più attuale di tutte. Ma oggi? Si direbbe che, oggi, l’ambizione, privata della sua cornice regale e cortigiana, sia scaduta a smania di promozione sociale, a snobismo. È vero, l’ambizione del potere, alla maniera efferata di Macbeth, alligna ancora nei paesi comunisti. Ma sono paesi le cui letterature, per una quantità di buone ragioni, sono mute sull’argomento. Quanto al rimorso, come è rappresentato nel Macbeth, esso sembra addirittura incredibile. A nostro parere, chi e capace di ammazzare re Duncan, non è capace di provarne rimorso; e chi è capace di provare rimorso, non è capace di ammazzare re Duncan. Anche qui, del resto, la storia recente ci soccorre con qualche buon esempio. Stalin, il padre dei popoli, fece direttamente ammazzare venti milioni di persone; Hitler, altro padre di popoli, magari lo sorpassò; ma né l’uno né l’altro, che si sappia, delirarono nottetempo per il rimorso, e guardandosi le mani esclamarono: “All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand.” Alla fine si potrebbe arrischiare l’ipotesi che si prova un rimorso tanto più grande quanto più insignificante è la colpa; e tanto più piccolo quanto più orrendo è il delitto. Anche perché le piccole colpe non trovano giustificazioni nella nostra coscienza; mentre i grandi delitti possono sempre essere legittimati da razionalizzazioni morali e ideologiche. Stando così le cose, non c’era da sperare che Roman Polanski, nella sua versione cinematografica del Macbeth, riuscisse a più che un’onorevole prova. Intanto Polanski non è un temperamento tragico; come tutti i decadenti, difetta di capacità dialettiche. Semmai appartiene alla famiglia dei fantastici e degli ossessi, con un’inclinazione quasi morbosa per la sgradevolezza e l’antipatia, come si può vedere nel suo miglior film, sinora: Il coltello nell’acqua. Tuttavia bisogna riconoscere che, alle prese con il Macbeth, Polanski ha avuto un paio di intuizioni notevoli. Ha intuito il carattere piccolo-borghese dell’ambizione e ha fatto di Macbeth e di sua moglie una coppia anche fisicamente mediocre e suburbana. John Finch è un “executive”, in cotta di maglia di ferro; Francesca Annis ha in viso l’ansietà della signora il cui cocktail party si è risolto in un fiasco. L’altra intuizione di Polanski è di aver capito che i re di Scozia erano dei butteri e vivevano in rustici cascinali tra galline, maiali e altri animali da cortile. Ma quello che non gli è riuscito è stato di trasferire sullo schermo la nera poesia della disperazione, vero tema del dramma. Film spesso piatto e convenzionalmente spettacolare, il Macbeth di Polanski si rialza nelle sequenze più feroci: l’assassinio “contemplativo” di re Duncan, la strage sadica della famiglia di Macduff, il rozzo e volgare duello finale tra Macduff e Macbeth. In queste sequenze traluce, si direbbe, quell’identificazione tra vita e rappresentazione che è propria dell’arte decadente. SALOMÈ La parodia è un’operazione anzitutto strettamente culturale. Essa non funziona, infatti, in presa

diretta col reale; bensì nel rapporto con un’opera d’arte che mira a svuotare con la contraffazione caricaturale. È, insomma, un’operazione critica; che, però, ha per scopo non già la comprensione dell’opera ma la sua distruzione. Vista in questo profilo, la parodia non sembra avere alcuna autonomia nei confronti dell’opera contraffatta; ne dipende al punto che, distruggendola, distrugge anche se stessa. D’altra parte, tuttavia, bisogna riconoscere che la parodia non è soltanto distruzione di un’opera d’arte ma anche affermazione della personalità del distruttore. Personalità strana, però; anziché di critico che si accosta con rispetto e delicatezza a quel molto o poco di poetico che contiene l’opera; piuttosto di rivale geloso e competitivo che vorrebbe cancellarla con una sua opera analoga più alta e più bella e, non riuscendovi, in un impulso di rabbiosa frustrazione, si sforza, come abbiamo notato, di distruggerla. In questo senso, l’autore della parodia stranamente si immagina di essere lui il vero autore dell’opera; ma un autore fallito che invece di portarla trionfalmente a termine, avesse ripiegato per incapacità poetica su una versione comica di ciò che a tutta prima gli si era configurato seriamente. Salomè di Carmelo Bene non ci dice nulla che non abbia già detto Oscar Wilde nella sua decadente e divulgativa opera omonima; ma ci fa capire molte cose sul suo autore. La prima e più importante è che la Salomè di Wilde non è che un pretesto; e che attraverso la Salomè, la parodia rabbiosa e frustrata di Bene mira più in alto. La chiave per capire il film ce la fornisce del resto Bene stesso con l’immagine dell’uomo che cerca invano di crocifiggersi da solo. Quest’immagine, secondo Bene, starebbe a significare: “L’impossibilità del martirio nel mondo presente, non più barbaro ma esclusivamente stupido, l’impossibilità dell’autodistruzione.” Tutto vero, salvo che alla frase “l’impossibilità del martirio” bisognerebbe sostituire “l’impossibilità della rappresentazione del martirio”. Quanto a dire che nella Salomè la parodia scavalca la storia della figlia di Erodiade e investe il rapporto psicologico-espressivo di Bene con il Cristo. Nell’uomo che cerca di crocifiggersi da solo bisogna vedere secondo noi al tempo stesso il fallimento di una luciferina rivalità con il Cristo e quello della rappresentazione “seria” della tragedia del Golgota. La parodia, poi, indizio del duplice fallimento, è condensata nel particolare, diciamo così, tecnico dell’impossibilità materiale di crocifiggersi da soli. L’uomo che imita o meglio rivaleggia con Cristo, è conseguente fin quasi all’ultimo. Con evidente strazio fisico si inchioda prima i piedi poi la mano sinistra. Ma giunto alla mano destra eccolo annaspare futilmente intorno al chiodo e al martello e quindi, alla fine, rinunziare al martirio. Dovrebbe essere, nell’intenzione di Bene, un’immagine tragica, la più tragica forse del film. Invece, curiosamente, risulta la più comica, sia pure di una comicità penosa e straziante che riguarda non tanto l’opera sottoposta a parodia quanto l’autore dell’operazione parodistica. In realtà Carmelo Bene sembra avere una fortissima aspirazione a quello che la retorica chiamava il sublime. Questa aspirazione sia per colpa del “mondo presente non più barbaro ma esclusivamente stupido” sia per colpa dell’egocentrismo iperbolico di Bene non riesce a concretarsi in risultati artisticamente positivi; ma al tempo stesso, con la sua ostinata presenza impedisce a Bene di ridurre le proprie ambizioni ed esprimersi seriamente a un livello più ragionevole. Donde, il ricorso alla parodia. Tutto questo è confermato in Salomè dalla recitazione come il solito in falsetto melodrammatico di Bene e degli altri interpreti nonché dalle deformazioni espressionistiche impresse alla nota vicenda mediante particolari ritmi e scelte delle immagini. Le parti migliori sono quelle in cui, in maniera iterativa e ossessiva, Bene proietta sullo schermo l’impossibilità, appunto, della rappresentazione seria. UN TRANQUILLO WEEK-END DI PAURA

Quattro giovanotti di città, Eddie, Bobby, Lewis e Drew decidono di tornare, per un week-end, alla vita primitiva dei pionieri, discendendo in canoa il fiume Chattooga, ai confini della Georgia e della Carolina del Sud. Per essere più intonati alla loro idea della primitività, i quattro non portano armi, soltanto archi e frecce, come gli indiani che ancora due secoli or sono popolavano quel territorio. Ma giunti in macchina alla sperduta località da cui inizieranno il viaggio, i quattro cominciano ad accorgersi che la regione così bella e, apparentemente, così intatta, in realtà è decrepita. Attraverso le finestre di crollanti baracche intravedono sordidi interni, con abitanti ridotti all’ebetudine dalle malattie e dalla miseria. Sconcertati ma ancora illusi, intraprendono egualmente il viaggio e nel primo giorno tutto va liscio. Ma il secondo giorno, approdati in un punto deserto, si imbattono in due individui (cacciatori di frodo? distillatori clandestini di whisky?) del tutto degenerati e inselvatichiti, che, sia rivolta inconscia contro la civiltà, sia paura e conseguente autodifesa, li seviziano crudelmente. Bobby viene sodomizzato; Eddie sta per subire lo stesso trattamento, quando una freccia ben lanciata uccide uno degli aggressori. L’altro fugge. A partire da questo momento, la gita assume la sua vera fisionomia di incubo simbolico. I quattro seppelliscono alla meglio il morto; ma il più sensibile di loro, Drew, non resiste all’orrore e si uccide gettandosi nel fiume. Poi le rapide travolgono le canoe e Lewis si rompe una gamba. Infine Eddie, che al principio del film avevamo visto rifuggire con ribrezzo da una comune azione venatoria come l’uccisione di un capriolo, trafigge, senza esitare, col suo arco, il secondo degli aggressori. I tre superstiti alla fine raggiungeranno la più vicina cittadina. Qui la loro versione degli avvenimenti non sarà creduta; ma in mancanza di indizi, saranno lasciati liberi. Tuttavia il ricordo della terribile avventura li seguirà tutta la vita. Questa la storia di Un tranquillo week-end di paura di John Boorman. Il film in realtà racconta le peripezie di un viaggio; su questa struttura tradizionale quanto infallibile, nella quale, narrativamente, tempo e spazio si identificano, si innesta una vicenda fortemente ideologizzata, anzi addirittura quasi un apologo. Qual è il senso dell’apologo? Esso ha due facce, non però contrastanti ma complementari. Da una parte il film è una critica dell’idea romantica della natura buona, dell’uomo naturale buono. In realtà la natura, nel caso il fiume Chattooga con le sue rapide e i suoi dirupi, non è buona; né sono migliori gli uomini degenerati e inselvatichiti che vivono allo stato naturale. D’altra parte, però, nel film c’è anche una critica dell’idea di civiltà. La civiltà è responsabile dell’orrenda degenerazione degli indigeni; alla civiltà si deve la stupidità dei quattro gitanti; infine la civiltà provocherà al più presto il disastro ecologico con la diga destinata a sbarrare il fiume e a fomentare lo sfruttamento industriale della regione. Stranamente il fitto tessuto di riferimenti ideologici porta, quasi per compenso, a una vicenda “estrema”. Un analogo viaggio non ideologizzato, con ogni probabilità avrebbe avuto incidenti minimi. Ma bisogna “dimostrare” che i quattro gitanti sono dei cittadini stupidi e illusi, che gli indigeni sono degenerati, che la natura sta per essere distrutta ecc. ecc. Donde il carattere “estremo” degli eventi. A questo, qualcuno potrebbe obiettare che l’ideologia è già insita nella realtà. Per esempio dalla sequenza della sodomia si potrebbe risalire alle radici ideologiche dell’abbrutimento degli indigeni cioè alla guerra civile e alla conseguente distruzione dell’economia sudista. Ma non si finirebbe più. Contentiamoci di notare che il regista, in fondo, è più portato a criticare la natura e l’uomo naturale che la civiltà e l’uomo civile. Le cose migliori del film riguardano infatti le rapide insidiose del Chattooga e la criminalità degli indigeni. Descrizione molto bella e, in fondo, nostalgica di una gita in canoa, Un tranquillo week-end di paura si giova della interpretazione ottima di John Voight, Burt Reynolds, Ronny Cox e Ned Beatty. L’ATTENTATO Il progresso probabilmente non esiste che nella tecnologia. Ma proprio questo progresso ristretto

e puramente meccanico modifica mezzi e modi anche in quei campi dove, invece, nel fondo, tutto rimane immobile e inalterato. La politica oggi non differisce in sostanza da quella dei tempi di Machiavelli e di Tacito. Ma i politici debbono tener conto dei mezzi di comunicazione (i cosiddetti mass-media) che ancora due secoli fa addirittura non esistevano. Si uccidono i re (o i presidenti o i capi politici), si fanno congiure (anche di palazzo) oggi come in passato; ma il fatto che il regicidio o la cospirazione vengano immediatamente fatti conoscere alle moltitudini “in tutti i loro particolari”, modifica di molto la tecnica del delitto politico. Cosa succede oggi quando si ammazza un capo di stato come per esempio Kennedy o un uomo politico come, per esempio, Ben Barka la cui fine è appunto descritta nel film che esaminiamo, L’attentato di Yves Boisset? Diremmo che, prima di tutto, i mandanti si tengono più alla larga che in passato, attraverso molteplici schermi e sbarramenti; e lasciano fare a esecutori oscuri e indiretti che escono dalla folla e vi rientrano subito dopo il delitto. In secondo luogo, una volta scoppiato il previsto e scontato clamore informativo, ci si studia di tappare le falle attraverso le quali la verità, cioè i nomi dei mandanti, potrebbe filtrare. In altri termini si provvede a far fuori, senza esitazione, complici, testimoni, curiosi e indiscreti. Le morti ovviamente sospette si moltiplicano; ma, strano a dirsi, proprio perché sospette, servono a stancare il sospetto e a rendere del tutto indecifrabile l’enigma. Alla fine il delitto “non fa più notizia”, i mass-media si occupano d’altro. È il momento per gli assassini di respirare e fregarsi le mani: il colpo è fatto. Questo, a un dipresso, si è verificato anche nel caso di Ben Barka. Forse varrà la pena di raccontare in sintesi (per dirla alla maniera di Machiavelli) “il modo tenuto dal ministro marocchino Ufkir nell’ammazzare l’oppositore Ben Barka”. Ecco: Ben Barka fu attirato per mezzo di un involontario provocatore dalla Svizzera a Parigi e qui, nella cantina di una villa suburbana, ucciso a stilettate dallo stesso Ufkir. La complicità di una parte della polizia e del potere politico in Francia sembra certa, anche perché la Francia non voleva che Ben Barka, andando al governo, sottraesse il suo paese all’influenza francese. Ma Ufkir e i suoi sicari, nonostante le furie di De Gamie che fece condannare a morte il ministro marocchino, scapparono indisturbati. Il complice involontario fu “suicidato”. Ben Barka cessò di far notizia e non se ne parlò più. Agli ottimisti che credono che il “delitto non paga” farà piacere di sapere che Ufkir una volta in Marocco fece ammazzare i sicari francesi; per poi finire anche lui ammazzato nella recente congiura fallita contro il re Hassan. È una storia in certo modo elisabettiana, sia per l’atrocità degli inganni e dell’esecuzione, sia per il carattere poco moderno dell’ambizione del ministro marocchino. Poteva essere, questo carattere elisabettiano, un’utile indicazione per la regia. Ma Boisset non ne ha tenuto alcun conto, evidentemente pensando che soltanto l’immaginazione di sinistra ha il diritto di vagheggiare il potere. Così ha fatto un film di tipo tradizionale tra il cinéma-vérité politico e l’eloquenza (contenuta, bisogna riconoscerlo) alla Malraux. Austero e asciutto, il film forse avrebbe guadagnato a esserlo ancora di più: in simili casi conviene andare fino in fondo. Gian Maria Volonté, nella parte di Sadiel ossia di Ben Barka, ripete il già fatto, sia pure con bravura. Migliori di lui ci sembrano Jean-Louis Trintignant in una parte non tanto diversa da quella de Il conformista e Michel Piccoli in quella di Kassar, cioè di Ufkir. Jean Seberg ci sembra inutile. Tra gli altri interpreti, ricordiamo François Perier, Michel Bouquet, Daniel Ivernel. GIROLIMONI Girolimoni di Damiano Damiani è un film su un caso criminale di mezzo secolo fa. Come è noto, Girolimoni era il nome di uno sventurato che venne ingiustamente accusato di avere stuprato e ucciso alcune bambine. Erano gli anni del fascismo: alla mitomania della folla che voleva ad ogni costo che il colpevole fosse scoperto e punito, si aggiunse, in una miscela fatale, il punto d’onore aberrante di un regime che si dichiarava ed era purtroppo considerato infallibile. Girolimoni

arrestato con nessuna prova, forse soprattutto a causa di quel suo nome così “antipaticamente” insolito, fu proclamato “mostro” di turno dalla stampa italiana. Probabilmente, si aveva bisogno del “caso Girolimoni” per distrarre l’attenzione delle masse dalle loro reali condizioni, e, insieme, rialzare a buon mercato il prestigio del regime. Ma Girolimoni era innocente; il fascismo non era il nazismo o per lo meno non lo era ancora; e così fu necessario scarcerare l’ex mostro. In un altro regime, Girolimoni sarebbe stato riabilitato, se non altro, a causa dello scandalo giornalistico che un errore così grossolano e così significativo avrebbe suscitato. Ma i giornali dipendevano dal regime, il quale sapeva adoperare ai suoi fini così il clamore come il silenzio. Il povero Girolimoni fu dunque liberato alla chetichella, restando tutta la vita con un nome e una reputazione infami. Innocente, scontò la colpa del regime, il quale, invece, riuscì attraverso il silenzio e l’ipocrisia a darsi le apparenze dell’innocenza. Nel film di Damiano Damiani l’accento cade, come è giusto, sui due motivi principali del dramma di Girolimoni: da una parte l’arretratezza e la mitomania delle masse italiane; dall’altra l’impossibilità, per la dittatura fascista, di riconoscersi fallibile. Tra i due motivi, del resto, c’è un rapporto stretto: ci vogliono masse arretrate e mitomani per credere all’infallibilità di un dittatore; come ci vuole un dittatore che si proclami infallibile per governare masse arretrate e mito-mani. Diremmo che a Damiani è riuscita meglio la ricostruzione della Roma del primo-fascismo che quella del meccanismo politico e poliziesco che travolse la vita di Girolimoni. Tratteggiata alla brava, con vigore naturalista ma senza convenzioni sentimentali e folcloristiche, la Roma popolare rivive sullo schermo con la sua popolazione rozza e facilmente feroce, le sue viuzze di selci, i suoi bassi, le sue botteghe, le sue osterie, le sue carrozzelle e i suoi carretti. Accanto a questa Roma belliana e pascarelliana, il regista ha saputo recuperare con esattezza e senza cadere nella caricatura, la Roma borghese, trilussiana, dei villini liberty, degli alti funzionari e commendatori, delle loro mogli e compagne. In realtà in questo film, lo sfondo è forse il personaggio principale e più autentico. Qualche riserva va fatta invece sul modo con il quale è stato ricostruito il “caso”. Ci sembra che di fronte a Girolimoni, personaggio studiato con molta cura e interpretato con efficace misura da Nino Manfredi, i diversi responsabili o meglio irresponsabili dell’errore, dal commissario su su fino a Mussolini, non siano stati altrettanto approfonditi; e che comunque il regista abbia con loro un rapporto diverso, di minore simpatia espressiva, che con il protagonista. Donde una impressione di meccanicità nello sviluppo della vicenda: l’errore c’è e ne seguiamo facilmente il progresso dalle stanze del commissariato ai saloni del ministero; ma la rappresentazione non si converte, come dovrebbe, in un giudizio articolato sul regime. Né, d’altra parte, per gli stessi motivi, ci commuove abbastanza il dramma dell’innocente calunniato e distrutto. In realtà in Girolimoni, c’è piuttosto l’evocazione di un’atmosfera morale che la descrizione di una situazione storica. Il regista riesce a comunicarci il proprio malessere e la propria antipatia. Il che, in fondo, non è poco. IL PADRINO In occasione del Padrino di Francis Ford Coppola, i giornali italiani hanno dedicato intere pagine al film. A prima vista sembrerebbe una resa di fronte all’offensiva pubblicitaria che ha accompagnato il lancio del “colosso”; ma poi, dopo riflessione, si deve ammettere che ci sono forse motivi più profondi. Secondo noi, l’interesse dei giornali rispecchia ed esprime l’ambigua sensibilità del nostro pubblico per l’argomento. Si tratta, prima di tutto, di roba nostra, stavamo per dire di “cosa nostra”; cioè di un film sulla minoranza italo-americana negli Stati Uniti. Non basta: per la prima volta, forse, il fenomeno della mafia è guardato dal punto di vista etnico; ma senza quelle caratterizzazioni comiche o sinistre di tipo folcloristico che si notano di solito nei film di ambiente italo-americano. Il padrino è dunque un film serio nel quale gli italo-americani sono presi

sul serio. Qui comincia però l’ambiguità a cui abbiamo alluso più sopra. Perché tanta curiosità e sensibilità da parte dei giornali e del pubblico? Forse perché gli italiani si domandano, sconcertati e incomprensivi, come mai un paese come l’Italia, di così illustri tradizioni artistiche e culturali, non sia riuscito a distinguersi negli Stati Uniti che con la creazione di una cinica e spietata associazione criminale? Oppure perché fa piacere riconoscere sotto la grinta del mafioso alcuni tratti della grande Italia storica, cioè il machiavellismo razionale, l’individualismo strenuo, il realismo intrepido, vale a dire un ultimo riflesso dell’umanesimo rinascimentale nella sua accezione, diciamo così, elisabettiana? A queste domande il film dà anch’esso una risposta ambigua. Da una parte esso recupera una realtà finora ignorata, dall’altra, però, si deve proprio a questo recupero se il film, sul piano documentario e sociologico è una completa e sfacciata falsificazione. Sia ben chiaro: nella grande macchina sociale americana tutte le minoranze hanno una loro funzione secondo il loro temperamento e la loro tradizione. Agli italo-americani o meglio alla parte più energica e intraprendente del loro gruppo, è toccata la funzione di provvedere la civiltà puritana di tutte le cose che il puritanesimo condanna e di cui, tuttavia, a quanto pare, non può fare a meno. Intendiamo il gioco, la prostituzione e, da ultimo, la droga. “Cosa nostra”, dunque, esiste in quanto esiste il puritanesimo, come si è visto, del resto, tanto per fare un esempio, ai tempi del proibizionismo. Dunque niente qualità “umane”, niente virtù familiari, niente lati positivi. La mafia è pura e semplice criminalità che prende a modello il grande “business” statunitense. Alla fine la falsificazione di Coppola consiste prima di tutto nell’idealizzazione sentimentale di un ambiente sociale orrendo; e in secondo luogo nell’avere isolato la sottocultura italo-americana, senza mostrarcela nel più vasto contesto della cultura statunitense, di cui essa costituisce soltanto un ristretto e probabilmente effimero ibridismo. Verrà un giorno in cui non ci saranno più italoamericani ma soltanto americani di lontana origine italiana. Intanto, però, nel film di Coppola l’ibridismo è mascherato sia attenuandone i caratteri malsani e grotteschi, sia ricorrendo alla “copertura” cattolica senza dirci che anche la Chiesa, a Brooklyn, partecipa della stessa deformazione ambientale. Detto questo, bisogna aggiungere che Il padrino è un film per lo meno curioso e, certo, interessante. Oltre ad alcuni memorabili omicidi, colpisce il realismo della regia volutamente convenzionale in senso oleografico, il quale da una parte ricorda la pittura impassibile e alienata di un Hopper, e dall’altra, in maniera non contraddittoria, l’operazione nobilitante che va sotto il nome di realismo socialista. Inutile dire che l’interpretazione, anche se sul piano di un inevitabile gigionismo, è ottima, specie da parte di Marlon Brando, un padrino misuratissimo, e di Al Pacino molto espressivo nella parte del figlio. IN NOME DEL PADRE Millenovecentocinquantanove, anno della morte di Pio XII, il più clericale e autoritario dei papi moderni. In un collegio religioso fa il suo ingresso Angelo Transeunti, un adolescente bello, ricco e intellettuale. Il collegio accoglie figli di famiglie ricche, con lo scopo di fare di loro dei futuri dirigenti. Ma i metodi adottati per creare questi “quadri” dell’avvenire sono decrepiti e controproducenti. Nel collegio si sta ancora fermi al tipo di educazione che Balzac ha descritto così bene in Louis Lambert; soltanto che il collegio di Balzac è del 1811; quello di Bellocchio del 1959. Naturale, quindi, che il caos vi regni; un caos, però, non già foriero di un nuovo ordine; bensì ultima fase di una decadenza fatta di teppismo, di melensaggine e di ignoranza. In quest’ambiente putrefatto, Angelo agisce secondo idee ben chiare. Egli pensa che le società sono basate sulla repressione (che lui chiama paura); la quale, a sua volta, è ispirata da un modello. Ora la repressione cattolica non funziona più; il modello cristiano non è più imitabile. Meglio, allora, il “tanto peggio,

tanto meglio”. Personaggio di matrice dostoevskiana (si pensa a uno Stavroghin adolescente), Angelo sviluppa, dunque, un piano di “derisione” distruttiva dell’istituzione, in contrasto con il vicerettore Corazza che difende i vecchi metodi. Dopo la distruzione, forse, si potranno gettare le basi di una nuova repressione che funzioni davvero, fondata su un modello che abbia davvero autorità. Il piano di derisione di Angelo culmina in una dissacratoria e blasfema recita nel teatrino del collegio. Subito dopo, mentre le ruspe attaccano una parte dell’edificio del collegio che i preti hanno venduto alla speculazione edilizia, muore padre Mathematicus, l’educatore che aveva più insistito sull’efficacia formativa della meditazione della morte. Parodiando le pale d’altare primitive, Angelo, travestito da demonio, abbranca il cadavere di padre Mathematicus, lo sbatacchia su e giù per il collegio cercando di spaventare il suo intrepido nemico, padre Corazza. Al tempo stesso promuove uno sciopero degli inservienti; e spinge al suicidio uno dei compagni. Ma in fondo Angelo e padre Corazza sono d’accordo. E così alla fine trionfa il potere autoritario, che, religioso in padre Corazza, tecnocratico in Angelo, resta pur sempre repressivo e pessimista in ambedue. Marco Bellocchio con questo In nome del padre ha fatto il suo film migliore, dopo I pugni in tasca. Dal punto di vista formale è interessante notare con quanta naturalezza il regista passa dalla dimensione naturalista a quella espressionista e viceversa, riuscendo così a rappresentare l’oggetto e insieme a fornirne il significato, a descrivere il reale e al tempo stesso a mostrarne le possibilità fantastiche. Espressioniste sono la sequenza degli schiaffi tra il padre e Angelo, la recita, la profanazione del cadavere. Sono cose che “non” avvengono nella realtà; e tuttavia non la smentiscono bensì la prolungano grazie alla coerenza visionaria della rappresentazione. Semmai il limite del film sta in un certo estetismo figurativo, in una certa psicologia letteraria. Al primo bisogna attribuire molti particolari della recita al collegio nonché la diabolica manomissione del cadavere di padre Mathematicus. Al secondo, il personaggio di Angelo, ricavato dal repertorio dostoevskiano, come abbiamo già notato, oltre alla verosimiglianza. Di fronte ad Angelo, personaggio russo, ha più concretezza padre Corazza, sia perché più autentico, sia perché tipico rappresentante del solo potere possibile, almeno per ora, in Italia. L’interpretazione di Yves Beneyton nella parte di Angelo e quella di Renato Scarpa in quella di padre Corazza sono ottime. Accanto a loro bisogna ricordare Laura Betti in una sequenza di forte spicco, Piero Vida, Aldo Sassi e tanti altri tutti bravi, in una fusione felice di regia e di recitazione. PICCOLI OMICIDI Oggi si parla molto della pericolosità delle grandi città americane dove, in certi quartieri, di giorno come di notte, ci sono buone probabilità di essere assassinati. Ma questa pericolosità non è, in realtà, niente di nuovo. Prima del rinnovamento dei valori morali e sociali (che sono i soli poliziotti veramente efficaci) apportato nelle società occidentali dalla rivoluzione francese, in tutta Europa i gentiluomini giravano armati di spada e di pistola e gli uomini del popolo, di coltello. Si considerava allora del tutto normale essere assaliti e uccisi da ladri e banditi e di dover difendersi con le armi. L’Ottocento resterà così, forse, un secolo unico nella storia dell’umanità, durante il quale la gente andava in giro fiduciosa e disarmata. Oggi, invece, a quanto pare, siamo tornati alla vecchia insicurezza dell’“Ancien Régime”. C’è però una differenza non piccola. Ladri e banditi allora uccidevano con una certa quale razionalità, cioè per depredare l’assalito di ogni suo avere. Oggi, invece, si uccide senza alcun motivo apparente; cioè, per pura e semplice misantropia, dovuta al nudo fatto di essere costretti a convivere insieme con milioni di propri simili. È l’angoscia da spazio che, secondo alcuni, sarebbe all’origine dell’aggressività tanto animale che umana. Julius Feiffer è molto noto per i suoi disegni satirici su personaggi e situazioni della classe media americana. Alcuni anni or sono egli ha voluto affrontare il tema della misantropia moderna in una commedia, Piccoli omicidi, di cui adesso Alan Arkin, noto finora come attore, ci dà l’omonima

versione cinematografica. Che racconta Piccoli omicidi} Nella prima parte vengono narrati in chiave grottesca e frenetica gli amori e il finale matrimonio di un’aggressiva e alienata ragazza e di un apatico e non meno alienato fotografo. La descrizione apparentemente oziosa di vari ambienti, da quello della famiglia della ragazza a quello della chiesa hippy dove viene celebrato il matrimonio ha, in realtà, lo scopo di mostrarci il grado di delirante alienazione a cui è giunta oggi la classe media americana. Poi scoppia il delitto misantropo: una notte, mentre i due coniugi se ne stanno in casa loro, qualcuno, dalla finestra, spara e ammazza la donna tra le braccia del marito. Il fotografo attraversa la città nella ferrovia sotterranea e si rifugia in casa dei suoceri. Da questo punto, Feiffer segue il percorso sotterraneo della logica misantropica fino al suo sbocco obbligato: un bel giorno il padre, il fratello e il marito della donna assassinata imbracciano a turno un fucile a cannocchiale e sparano dalla finestra sulla folla, in strada, uccidendo ciascuno un passante qualsiasi. Poi, avendo sfogato a loro volta la carica misantropica, si mettono allegramente a tavola. L’andamento grottesco e paradossale della vicenda ricorda curiosamente certe commedie, meno felici perché più impegnate, di Ionesco, per esempio Tueur sans gages. Ma Ionesco evita ogni riferimento esplicito a una realtà qualsiasi; mentre Feiffer sembrerebbe un satirico e dunque un realista. Egli non ci spiega perché gli americani sono misantropi; tuttavia, al contrario di Ionesco, ci lascia capire che sarebbe in grado di spiegarlo. Se questo è vero, come ci sembra che sia vero, allora la sua satira, nonostante la geniale idea di fondo, non morde abbastanza; la sua consapevolezza sociologica avrebbe dovuto impedirgli di scegliere come bersaglio non già la realtà ma schemi culturali, per giunta scontati e risaputi, come, per esempio, nella sequenza del matrimonio. Il film risente molto della sua origine teatrale, con molte parole e poca azione; e Alan Arkin, regista mediocre, non riesce, specie nella prima parte, a evitare una certa monotonia. Elliott Gould è il trasognato e apatico fotografo; Donald Sutherland il sacerdote hippy; Alan Arkin il poliziotto pazzo. L’ASSASSINIO DI TROTZKI L’assassinio di Trotzki di Joseph Losey racconta esattamente, come annunzia il titolo, l’assassinio di Trotzki. L’assassino, Ramon Mercader altrimenti chiamato Jacques Mor-nard o Jacson (nome storpiato di Jackson, miliziano canadese morto in combattimento in Spagna il cui passaporto era stato rubato e modificato), viene introdotto nella villa di Coyoacan, a Città del Messico, in cui abita Trotzki, da Sylvia Ageloff, una trotzkista di New York, di cui è riuscito a diventare l’amante. Se ne sono dette tante sul motivo per cui Ramon Mercader ha ucciso Trotzki. Noi pensiamo che nell’atmosfera tragica e soprattutto cospirativa e “agita” degli anni trenta, il movente del fanatismo politico sia il più probabile. Comunque, Jacson riesce a forzare la sorveglianza della villa di Trotzki anche per il bisogno in cui si trova quest’ultimo di avvicinare e lasciarsi avvicinare da più persone che sia possibile nella sua lotta contro Stalin. Il 20 agosto del 1940, Jacson si presenta a Trotzki per sottoporgli un articolo politico. Jacson ha un pugnale nella fodera della giacca, una pistola, una piccozza da montagna nella tasca dell’impermeabile. Provetto alpinista, Jacson, all’ultimo momento, preferisce adoperare la piccozza, come se il cranio di Trotzki fosse una parete da ascensione di terzo grado. Secondo la stessa testimonianza di Jacson, Trotzki, ricevuto il colpo, non si affloscia ma si alza in piedi dando in un “urlo molto lungo, infinitamente lungo” (una guardia parlerà di un “lamento prolungato e straziante, metà urlo e metà singhiozzo”) e quindi si scaglia sull’assassino. Jacson viene arrestato, processato e condannato a vent’anni che sconta fino all’ultimo giorno. Vero è, tuttavia, che la sua prigionia non è troppo dura. Ha una cella spaziosa, assolata, che dà su un patio; riceve libri e riviste; può anche intrattenersi con donne. Alla fine, la sua sorte è diversa da quella solita che è riserbata agli esecutori di simili “liquidazioni”. Salva la vita e ripara in Cecoslovacchia

dove, a quanto pare, si trova tuttora. Questa, la meccanica dell’assassinio di Trotzki; e non c’è dubbio che Joseph Losey l’abbia rispettata in questo suo film angoscioso a forza di asciuttezza. Ma la domanda che lo spettatore non può fare a meno di muovere alla fine: “Losey, perché ha fatto questo film?”, sta a indicare il carattere, diciamo così, unidimensionale e privo di spessore del racconto. Non sappiamo se Losey abbia interesse nella politica; nel film però egli riduce i moventi politici a dati esistenziali, senza rendersi conto che in una simile vicenda la Storia non è la cornice bensì la sostanza stessa del quadro. Così facendo egli finisce per descrivere l’assassinio di Trotzki nell’anno 1940 come un assassinio qualsiasi in un anno qualsiasi. Infatti l’esistenzialismo non sa che farsene della Storia, che è recupero non già dell’irrazionale esistere bensì del razionale essere. Ciò di cui si sente soprattutto la mancanza è la ricostruzione di quella cosa forse antiquata ma indispensabile per capire la storia che è il carattere personale. Tanto per fare un solo esempio, il destino di Trotzki era probabilmente segnato fin dal principio nel suo carattere che, accanto alle qualità cosiddette “brillanti” del capo rivoluzionario (coraggio, aggressività, durezza, intelligenza ecc. ecc.), aveva un difetto fatale in politica: la vanità. Perché diciamo che la vanità è fatale in politica? Perché essendo la politica basata esclusivamente sul successo, può trasformare quest’ultimo in una trappola mortale col provocare errori e inimicizie funeste. Ora la vanità non impediva certo a Trotzki di avere le ben note sue idee sulla rivoluzione; ma mischiata con queste idee, componeva quello che, appunto, si chiama un personaggio. Quel personaggio che la rappresentazione impressionistica di Losey non riesce a recuperare. Accanto a Richard Burton, un Trotzki delineato con sicuro mestiere ma non convincente, Alain Delon, che è Jacson, ci lascia anche lui nell’incertezza sul personaggio che interpreta. Forse le migliori prove le forniscono Valentina Cortese che è Natalya e Romy Schneider che è Sylvia Ageloff. BRONTE CRONACA DI UN MASSACRO Nel 1860 Garibaldi sbarca a Marsala. Il suo appello alla rivolta contro i Borboni, la sua decisione di assegnare ai contadini i terreni del demanio usurpati dai nobili, suscitano speranze che vanno molto al di là delle sue intenzioni che erano, poi, nonostante il suo linguaggio libertario, quelle della “moderata” borghesia risorgimentale. Dappertutto in Sicilia, i contadini si rivoltano, sorpassando la rivoluzione politica del 1789, anticipando, senza rendersene conto, la rivoluzione sociale del 1917. A Bronte, ducea regalata dai Borboni e Nelson, come premio per aver tradito i liberali napoletani del 1799, le condizioni dei contadini sono durissime. Dopo la battaglia di Calatafimi, il popolo insorge, ammazza una quindicina di notabili, incendia i palazzi, si spartisce le terre. Ma i garibaldini non sono in Sicilia, secondo le parole stesse di Nino Bixio, “per attuare riforme sociali: ci penseranno gli altri governi, se ne avranno voglia”. I garibaldini ci sono per “liberare” soltanto militarmente e politicamente il Regno di Napoli. E così il generale Bixio ristabilisce, in nome di Vittorio Emanuele II, il cosiddetto “ordine”, cioè l’ordine sociale borbonico. Centocinquanta persone vengono arrestate e spedite alle carceri di Catania. Cinque sono fucilate per fare “un esempio”, tra le quali Nicola Lombardo, il capo politico e morale della rivolta e Ciraldo Frajunco, il pazzo del villaggio, simbolo vivente dell’irrazionalità della moltitudine. Questa la vicenda narrata in Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini. Ora già nel titolo c’è la contraddizione feconda a cui, in fondo, il film deve la sua forza. Qual è questa contraddizione? È il fatto che Vancini e i suoi collaboratori Leonardo Sciascia, Fabio Carpi e Nicola Badalucco hanno voluto fare un film “storico” per quanto riguarda il metodo: ricerca accurata delle fonti, scrupolo di oggettività, ricostruzione fedele dell’ambiente; ma, al tempo stesso, “antistorico” cioè contro la storia: così quella agiografica dei

libri di scuola come quella “seria” degli storici di professione. Insomma il film è “storico” nei mezzi e “antistorico” nel fine. E propone una storia vera, popolare e rivoluzionaria, contro la storia falsa della libertà formale e dell’oppressione reale. Ma perché la cronaca diventi storia, ci vuole la rivoluzione che invece non c’è stata né allora né dopo. Così, alla fine, quando tutto è stato detto, l’episodio di Bronte rimane fuori della storia, in quella zona moralistica magari più elevata in cui vengono denunziate l’ingiustizia, la malvagità, la corruzione, la menzogna. Appunto questa denunzia, che si configura come critica della storia ufficiale, costituisce la forza del film di Vancini. A questo punto però verrebbe fatto di domandarsi se è possibile una storia che non sia fatta e soprattutto scritta dal potere, prima negli archivi poi nei libri di scuola e finalmente nei testi degli storici. Immaginiamo un momento che venga la rivoluzione e recuperi alla storia il fatto di cronaca di Bronte. Chi potrebbe garantirci che i libri di scuola e magari anche il cinema non ne parlerebbero in maniera agiografica e edificante? Vancini e i suoi collaboratori hanno cercato di evitare l’agiografia con una proposta di rilancio neorealista che è anche, però, il limite del film. Semmai la novità e il pregio di Bronte sta nell’ambizione, come abbiamo già accennato, “storica”, in cui bisogna riconoscere l’influenza di Leonardo Sciascia e del suo moralismo pessimista nutrito di letture e di ricerche di archivio. A quest’ambizione si deve il piglio secco ed energico del film, l’assenza della retorica dei sentimenti e delle idee. Ma, curiosamente, il film è tanto più sentito e personale quanto più si studia di essere fedele alle fonti. Mentre diventa impersonale in senso veristico dove la ricostruzione, per forza di cose è lasciata all’immaginazione. Così la seconda parte, quella della repressione del generale Bixio, nella quale i personaggi si esprimono con le parole stesse riportate nei documenti dell’epoca, ci sembra superiore alla prima, in cui, senza documenti e forse con eccessiva semplificazione, è descritta la ferocia contadina. Gli interpreti principali sono Ivo Garrani, un efficace e anche commovente Nicola Lombardi e Mariano Rigillo, un Bixio inedito anche se un po’ caricaturale. Accanto a loro bisogna ricordare almeno Stojan Arandjelovic nella parte di Gasparazzo e Giuliano Petrelli in quella di Ciraldo Frajunco, nonché un gran numero di bravi caratteristi in ruoli e apparizioni minori. HEAT In un caso come quello di Andy Warhol, il critico esita. Deve andare dalla personalità alle opere o dalle opere alla personalità? Certo i due procedimenti portano a risultati molto diversi. Andando dalla personalità alle opere, queste ultime diventano puri e semplici prodotti i quali entrano nella composizione, anch’essa “prodotta” di una cosiddetta figura pubblica (“public figure”). Qual è lo scopo di una simile operazione del genere arte-vita, originata dal decadentismo nella sua ultima accezione pop? Uno scopo assai semplice e, oltre tutto, tradizionale: fabbricare un modello di personalità artistica intonato con la civiltà dei consumi. Questa personalità ha una doppia funzione: da una parte esprime ciò che è normalmente represso ossia dissente con violenza sul piano sessuale e sociale; dall’altra, come abbiamo accennato, dà a questo dissenso l’apparenza banale e corrente di un prodotto in serie facilmente consumabile. Così alla fine, quello che conta non è il cinema o la pittura; bensì Andy Warhol tutt’insieme uomo di cinema, pittore, scrittore, artigiano, capo di un clan, figura pubblica e così via. Ma se si va dalle opere alla personalità, si deve invece constatare che le opere hanno una loro autonomia e validità poetica e che esse portano a una personalità “privata” indubbiamente forte, scaltra e originale. Per esempio, in questi giorni, Andy Warhol è venuto in Italia e così abbiamo potuto vedere alcuni dei suoi ultimi film, in particolare Women in revolt e Heat. Qual è la cosa che colpisce di più in questi film? Diciamo subito: il parziale abbandono da parte di Warhol della primitiva ricerca di una realtà assoluta cioè assolutamente insignificante. In film come Sleep o

Empire State Building o Heat fino a Chelsea girls, cioè dal 1962 fino al 1966, Warhol si accanisce a spellare viva l’immagine di ogni significato. Oltre ad abolire il montaggio e dunque le situazioni e i personaggi, cerca di distruggere la durata sostituendo il tempo convenzionale con quello reale. La macchina da presa ritrae, da ferma, figure praticamente immobili o meglio riprese nella durata lentissima e iterativa che è propria del vivere quotidiano. Warhol, insomma, scopre che l’esistenza è ripetizione e che la ripetizione crea tautologicamente l’oggetto privandolo di qualsiasi significato. Ma sulla strada della ricerca dell’insignificante, Andy Warhol si imbatte in qualche cosa che, tra i tanti oggetti variamente significativi, è il più significativo di tutti: il sesso. Di qui una specie di impuntatura: come rendere insignificante anche il sesso? Ovviamente si tratta di uno scambio. Il sesso non è tanto significativo in se stesso quanto nell’animo di Andy Warhol che, alla fine, è un moralista e un puritano. Ma, come tutti gli artisti autentici, Andy Warhol trasmuta questa sua realtà soggettiva in oggetto e cerca quindi di ridurre quest’ultimo allo stesso grado di insignificanza di tutti gli altri oggetti. Qual è il risultato? Oltre alla frequenza invadente dell’oggetto sessuale, il risultato è la trasformazione del sesso in modo di rapporto casuale e quotidiano, trasformazione che Warhol del resto mutua dalla realtà sociale, da acuto e realistico osservatore qual è. I personaggi di Warhol, dunque, fanno una quantità di cose, come parlare, dormire, mangiare, entrare, uscire, discutere, litigare e così via; e tra le tante cose che fanno, molto spesso fanno anche l’amore. Il coito che, tradizionalmente, non era un rapporto qualsiasi ma il rapporto supremo al quale portavano alla fine tutti gli altri modi di rapporto, nei film di Warhol diventa una maniera di più di aver rapporti senza comunicare. Già, perché, nonostante il sesso i personaggi di Warhol continuano, come in passato, a fare dei soliloqui. Il coito insignificante conferma la loro solitudine. Ma il sesso si tira dietro, per forza, tante altre cose che, nei primi film, Warhol fuggiva come la peste. Gli ultimi film di Warhol, sia pure nella maniera casuale e imprevedibile che è propria dell’esistenza quotidiana, hanno una storia e dei personaggi, ritraggono una certa società. La donna matura di Heat, il travestito di Women in revolt sono figure potenti e memorabili. Warhol si delinea, attraverso queste figure e gli ambienti in cui si muovono, come un realista della persona umana, chiuso in un antropocentrismo addirittura ossessivo; nonché come un descrittore molto efficace di certe zone periferiche della società americana. Il suo realismo è tipicamente nuovayorchese: brutale, tenero, sarcastico, crudele, ingenuo e insomma, alla fine, fondamentalmente comico. DOMENICA, MALEDETTA DOMENICA Un medico inglese di mezza età, omosessuale senza sadomasochismi e senza complessi di colpa, ama ed è riamato da un giovane scultore, il quale, però, poiché appartiene alla categoria assai diffusa degli amatori indifferenziati, ama ed è riamato a sua volta da una donna divorziata. Naturalmente, quest’ambivalenza del ragazzo porta ad alcuni effetti. Il principale è che il medico e la donna, pur sapendo l’uno dell’altro, non riescono a essere veramente gelosi l’uno dell’altro appunto perché il giovane è così anomalo: la gelosia, dopotutto, è un sentimento almeno in parte conformista; si è gelosi nella misura in cui si crede di avere, socialmente, il diritto di esserlo. Angosciati e ansiosi entrambi, il medico e la divorziata amano tuttavia in maniera diversa, la donna con una eterosessualità normale; l’uomo con una omosessualità, ci si consenta il bisticcio, anormale. Già, perché attraverso il personaggio civile e sensibile del medico, il regista di questo Domenica, maledetta domenica John Schlesinger ha tentato, secondo noi con successo, il recupero dell’amore platonico oggi, in tempi di psicanalisi, quasi sconosciuto. Quest’amore, intatti, pur non essendo una nevrosi, non è però neppure un sentimento puramente spirituale e asessuato, come si crede volgarmente; bensì una forma di rapporto strettamente omosessuale ma con prevalenza del momento contemplativo su quello attivo. Il medico, insomma, si comporta con il suo amante un po’ come Socrate con Alcibiade. La nevrosi in questo modo è evitata di stretta misura. Non così la

malinconia di un sodalizio impossibile. Ma questo rapporto a tre non si svolge ai piedi dell’Inietto, nell’atmosfera distesa e indiretta di un dibattito filosofico; bensì in una Londra angosciosamente suburbana ed eliottiana, specie di limbo blandamente consumistico in cui si autoconfina la nuova classe media delle metropoli di occidente. Così l’amore platonico del medico per il giovane artista trova il suo limite nel progetto mediocre e convenzionale di un timido viaggio di nozze omosessuale in Italia. Progetto che lo scultore, il cui carattere principale sembra essere una graziosa e volubile disponibilità, manda all’aria partendo all’improvviso per New York. Al medico e alla donna non resta alla fine che rassegnarsi di buona grazia alla comune fatalità. Il che faranno quando, incontrandosi sulla soglia di una casa amica, si saluteranno con un sorriso dolente e complice di mutua ironia. John Schlesinger in questo suo film ci ha mostrato, forse per la prima volta nel cinema, un rapporto omosessuale serio e preso sul serio. Finora, infatti, l’omosessualità era sia taciuta o, tutt’al più, indicata allusivamente; sia trattata in maniera comica. Come è riuscito Schlesinger a farci accettare l’omosessualità, nonostante tutti i tabù ancora così forti, come se fosse un’eterosessualità? Espungendone, come abbiamo già accennato, il carattere nevrotico. L’operazione nasconde qualche inverosimiglianza; ma era probabilmente la sola maniera, oggi, di non cadere nell’erotismo o, peggio, nel sentimentalismo. D’altra parte, in Domenica, maledetta domenica i due personaggi del medico e della divorziata si tirano dietro due gruppi sociali diversi: quello familiare, la donna, quello ebraico, l’uomo. Il regista ha saputo descrivere molto bene questi due ambienti, fornendo così una cassa di risonanza “diversa” al tema dell’omosessualità. Anzi, così i bambini in casa della sorella della donna come la comunità ebraica di cui fa parte il medico nella sinagoga, ispirano le due sequenze migliori del film. In particolare il pezzo della sinagoga rivela in Schlesinger una straordinaria capacità descrittiva insieme commossa e maliziosa. L’interpretazione di Peter Finch nella parte del medico e di Murray Head in quella del ragazzo sono molto buone; quella di Glenda Jackson, attrice dal volto espressivo eccezionalmente dotato per i sentimenti simpatici, eccellente. ROMA Il cinema di Fellini ha sempre avuto Roma come protagonista piuttosto che come sfondo e ambiente. La ragione di questa identificazione del regista con Roma va ricercata secondo noi in quello che chiameremo per comodità l’esotismo di Fellini, ossia la localizzazione storico-sensuale della visione del mondo di Fellini nella cosiddetta città eterna. È accaduto, insomma, a Fellini con Roma, un po’ quello che è accaduto a Flaubert con Cartagine: lo stesso sentimento romantico che ha spinto il narratore francese ad ambientare le decadenti vicende di Salammbò nella città punica, sembra essere all’origine della preferenza ossessiva di Fellini per Roma. La Roma di Fellini è insomma una città immaginaria, costruita da una fantasia corposa e barocca per sfogare un certo sentimento della vita, proiettare una certa visione del mondo. A riprova, del resto, si veda come Fellini, quando parla della natia Romagna, diventa sobrio e delicato. Almeno quanto diventa secco e amaro Flaubert quando lascia i deserti dell’Africa per la campagna della Normandia. Qual è poi la visione del mondo che anima l’esotica Roma di Fellini? È la visione propria di un’accettazione compiaciuta anche se moralistica, della corruzione come dato, in fondo, “astorico”, tra biologico e religioso. Nella Roma felliniana tutto probabilmente è stato meglio prima di essere peggio. I “mostri” di ambo i sessi sono stati, chissà quando, gentili e graziosi adolescenti; le puttane esibizioniste, vergini ritrose; la Chiesa cattolica vuota e tutta di parata, istituzione santa e potente; la stessa Roma d’oggi, così caotica e così volgare, sede di una società raffinata e spirituale. Questa corruzione non è però, come abbiamo già accennato, storica. Essa viene collocata fuori

della storia, nella zona immobile e inerte dell’estetismo. È un oggetto estetico da rappresentare esteticamente. Donde il compiacimento del mostruoso, del laido, dello squallido, del triviale. Per Fellini, Roma è una “bella” carogna, nella quale il disfacimento dei tessuti vitali provoca deformazioni e colorazioni affascinanti. Detto questo, bisogna tuttavia aggiungere che la rinunzia alle situazioni e ai personaggi, l’adozione del modulo fanta-documentario, sono al tempo stesso un atto di onestà e una ritirata dai rischi dell’invenzione. Onesto è certo stato Fellini, rinunziando ai personaggi e alle situazioni perché non li sentiva poeticamente necessari; ma nello stesso tempo, forse, anche prudente. In compenso, però, proprio perché consapevole dei pericoli della rinunzia a narrare, Fellini sembra aver messo nei diversi episodi di cui è composto Roma un impegno violento e rabbioso. Di qui la necessità di esaminare parte a parte gli episodi. Diciamo subito che Fellini, nella sequenza della corsa sotto la pioggia sull’autostrada, dimostra di saper essere, quando vuole, un regista direttamente moderno, senza alcuna mediazione estetizzante o sentimentale. Accanto a questo brano di autentico cinema, le nostre preferenze vanno all’ultimo episodio, quello della scorribanda dei motociclisti per le strade e le piazze della città, la quale ricorda l’analoga corsa di Scorpio Rising di Kenneth Anger e sembra avere lo stesso significato oscuro e minaccioso. In altri tre episodi, poi, quello del pranzo all’osteria dei “minenti” e delle “minenti”, quello dei bordelli e quello del teatro di varietà, affiora il Fellini espressionista, caricaturale e grottesco, tra Daumier, Toulouse-Lautrec e Maccari. Infine ci sarebbe da parlare dell’episodio più ambizioso nel quale, secondo noi, sta la chiave per intendere il film, quello dell’immaginaria sfilata dei “modelli” cattolici in casa della principessa bigotta. Fellini con questa sfilata ci dice, tra il serio e il faceto, che la Chiesa è ormai nient’altro che cerimonia e addobbo, senza più alcun contenuto. La corruzione spiega il vuoto della Chiesa; a sua volta, il vuoto della Chiesa spiega la corruzione. Qualcuno ha accusato questa sequenza di freddezza e di frivolezza. A noi pare piuttosto bella. La freddezza e la frivolezza ci sono, è vero; ma questo è dovuto al fatto che Fellini, leopardianamente, ha mescolato in quest’episodio la morte e la moda. TEMPI MODERNI Tempi moderni è il film nel quale Chaplin ha affrontato, come ci informa il titolo, i problemi, appunto, dei tempi moderni. Quali sono questi problemi? Sono il macchinismo, la civiltà industriale, la disoccupazione, il totalitarismo tecnologico, l’edonismo di massa, il lavoro a catena e così via. C’è uno solo di questi problemi che non sia oggi attuale? Ahimè, no, tutti questi problemi sono attuali oggi come lo erano nel 1930 e non c’è dubbio che lo saranno ancora per qualche secolo. È triste immaginare quante guerre, quante stragi, quanti dolori costeranno ancora i problemi dei tempi moderni prima di essere non diciamo risolti, che è impossibile, ma sostituiti da altri e diversi problemi; ma è così e non c’è niente da fare. Ma allora perché i film e i libri di denunzia di quaranta anni or sono, che trattano quest’argomento, oggi non ci convincono, mentre Tempi moderni conserva intatta la sua freschezza? Naturalmente c’è bell’e pronta la risposta tautologica: perché Chaplin è un artista così straordinario. Ma è una risposta che non spiega nulla. Vediamo dunque di arrischiare una spiegazione. Charlot incontra la “monella”; e grazie alla lettera di raccomandazione rilasciatagli dal direttore del carcere, ottiene il posto di custode di notte in un grande magazzino. Naturalmente, appena i cancelli si chiudono, Charlot fa entrare la monella e, per prima cosa, le serve un buon pranzo nella “cafeteria” del magazzino. Quindi i due salgono al reparto confezioni e la monella si pavoneggia in vestito da sera e pelliccia di visone. Nel reparto arredamento, la finzione si conclude: la monella, vestita da ricca borghese, si addormenta in un letto matrimoniale più o meno di lusso. Quanto a Charlot, noi sappiamo che i suoi sogni non sono diversi da quelli della monella. Anche lui aspira a

un benessere piccolo borghese ritagliato sui modelli capitalistici: una casetta, un impiego, uno stipendio sicuro. La moglie sta in cucina e lui fa colazione poi fuma una sigaretta leggendo il giornale e alla fine scappa all’ufficio. In breve: due eroi filistei bell’e pronti per l’imminente civiltà dei consumi. Certamente Chaplin qui ha corso il suo rischio maggiore. Si è messo, cioè, dalla parte del conformismo; non ha cercato di spiegare né tanto meno di cambiare il mondo. Charlot e la sua monella, quarant’anni dopo, saranno gli executives della maggioranza silenziosa, bersaglio preferito della contestazione mondiale. Ma a un esame più attento si vede che la forza del film sta proprio nell’aver scelto a protagonisti due personaggi che non vogliono cambiare il mondo, ma, più umilmente, inserirsi alla meno peggio. Perché il film riceve forza da questa scelta? Crediamo perché esso punta non già sul futuro e sull’utopia ma sul passato e sul senso comune. Il protagonista è un disoccupato, un derelitto, un paria ma non un rivoluzionario né un rivoltato, perché, se lo fosse, allora non soffrirebbe nella sua carne le contraddizioni dei tempi moderni, sarebbe un eroe consapevole ossia una proiezione dell’autore, vale a dire un intellettuale, poco rappresentativo come tutti gli intellettuali. In questo riconoscimento dell’inconscia componente borghese della condizione proletaria sta la forza comica del film. Soltanto, infatti, un protagonista come il Charlot di Tempi moderni, privo non solo di coscienza di classe ma anche di qualsiasi coscienza, può far diventare comiche le sequenze sul macchinismo. La comicità, oltre che dalla bravura clownesca, deriva dal fatto che Charlot “non sa” di essere un operaio, si crede in buona fede un uomo come tutti gli altri. Si confronti, del resto, Tempi moderni con due libri della stessa epoca: 1984 di Orwell e Brave new world di Huxley, di argomento analogo ma con eroi seriosi, portavoci degli autori, e si vedrà subito la differenza a tutto vantaggio di Chaplin. Insomma, Chaplin è un classico, intendendo con questo termine che pur non ignorando i tempi moderni non li ha trattati con le “idee moderne”; bensì li ha affrontati col senso comune di sempre. Chaplin nel 1930 era ricchissimo e altrettanto celebre che Stalin o Churchill. Di fronte alla ricchezza e alla celebrità, Chaplin reagisce secondo il senso comune, come tutti i classici: cercando di liberarsene attraverso la rappresentazione della povertà e dell’insuccesso. IL CANE DI PAGLIA Un giovane americano, David Sumner, va a stabilirsi in Inghilterra, in Cornovaglia, nel paese nativo di sua moglie. Il paese sembra tranquillo; David, che ha ricevuto una borsa di studio per le sue ricerche, è sicuro di poterci lavorare in pace. Ma si sbaglia. Per far costruire il tetto a una rimessa, David ha ingaggiato cinque operai. Ora uno di questi, in passato, ha avuto un rapporto sentimentale con Amy, la moglie di David. Inoltre i cinque operai in realtà sono cinque teppisti della peggiore specie. Infine, Amy è una civetta di tipo rustico che non esita a mettersi nuda alla finestra per provocare i cinque guardoni. E così quello che deve avvenire, avviene. Una di quelle mattine gli operai attirano David in una partita di caccia; quindi, mentre David spara alle anatre, due di loro penetrano nel suo cottage e un po’ con le buone e un po’ con le cattive violentano Amy, che, dal canto suo, un po’ resiste e si dibatte e un po’ ci sta. David ritorna dalla caccia, la moglie cerca di fargli capire quello che è successo; ma David non reagisce. La moglie che si aspettava, secondo la sua logica di femmina contesa, un comportamento diverso, concepisce per David un profondo disprezzo. Ma è un disprezzo che durerà poco. Uno di quei giorni, l’idiota del villaggio, già noto per altri fatti simili, si apparta con una ragazza. Allora, quegli stessi teppisti che hanno violentato Amy, adesso cercano l’idiota per linciarlo. L’idiota si rifugia nel cottage di David. I teppisti e il padre della ragazza lo reclamano, armi in pugno. Ma questa volta, David, minacciato nella propria casa e nella propria privacy, resiste e passa al contrattacco. Segue una notte di tregenda, durante la quale il padre della ragazza ammazza il capo della polizia e quindi, per sbaglio, se stesso; uno dei teppisti ne accoppa un altro; e David ne fa fuori

tre, a colpi di sbarra. Infine Amy, del tutto riconquistata dal marito che, con tre omicidi, ha dimostrato di essere un uomo, abbatte con una fucilata il quinto teppista. David prende in macchina l’idiota e, lasciando la moglie a guardia della casa devastata e piena di morti, va in paese a costituirsi. Questo Cane di paglia di Sam Peckinpah sembra essere l’esemplificazione di due diverse concezioni dell’aggressività animale, a loro volta intrecciate con il vecchio schema letterario dell’intellettuale imbelle che si rivolta e sconfigge i suoi ottusi avversari. Le due concezioni, poi, sono quella tradizionale che attribuisce l’aggressività alla rivalità sessuale; e quella più recente, divulgata, tra gli altri, da Robert Ardrey nel suo noto libro The territorial imperative, che la vuole invece ispirata dalla gelosia, appunto, “territoriale”. Amy e i teppisti sembrano essere convinti che i maschi lottano per il possesso della femmina, la quale, alla fine, va in premio al vincitore. David, invece, si comporta secondo le leggi che sono proprie del cosiddetto “spazio vitale”. Così si spiega come i teppisti violentino Amy e lei accetti la violenza e disprezzi il marito; per poi tornare ad apprezzarlo quando fa fuori i rivali. E come, invece, David, novello Ulisse alle prese coi Proci, sia, a tutta prima, insensibile alla sfida erotica e diventi poi, è il caso di dirlo, una belva, allorché si tratta di difendere la propria casa. Le teorie sono una bella cosa; ma in arte quello che conta è l’arte. Ora Peckinpah, con tutta la sua abilità e la sua violenza, non va, in questo film, al di là di una rozza illustrazione delle due concezioni già citate. Quello che manca è proprio l’arte, vale a dire il recupero poetico del reale. Il villaggio inglese e la sua comunità di mascalzoni è, a dir poco, improbabile. Poiché l’aggressività per rivalità erotica è più verosimile di quella per gelosia territoriale (la quale è sentita dagli uomini soprattutto a livello di gruppo, cioè come sentimento nazionale), il solo personaggio che stia in piedi è Amy, animalesca e provocante; e la sola sequenza convincente è quella dello stupro. La lunghissima scena dell’assedio del cottage e della strage, sfiora il ridicolo. Ma l’interpretazione si salva, per opera di Dustin Hoffman che è un credibile David e, soprattutto, di Susan George, un’Amy bestiale e autentica. ULTIMO TANGO A PARIGI Una mattina, a Parigi, un uomo con il soprabito di cammello infilato su una maglia, passa, cupo in volto; una ragazza in cappello, minigonna e stivali lo sfiora, si volta a guardarlo, prosegue. Il cammino di ambedue finisce a una casa sul cui portone pende il cartello dell’affittasi. Così l’uomo come la donna hanno delle buone ragioni per interessarsi al cartello: la ragazza è fidanzata, si sposerà; l’uomo cerca un luogo dove star solo col suo dolore: sua moglie si è uccisa durante la notte. Salgono insieme nell’appartamento che presenta il solito spettacolo di squallore e di abbandono delle dimore disabitate. E così, girando da una stanza all’altra, i due si accorgono che in realtà essi sono lì per far l’amore. Il coito avviene nella maniera più violenta e più brutale, quasi a sottolineare che nel momento stesso in cui si avvinghiano, i due amanti, analogamente all’appartamento così nudo e così inservibile ai fini sociali, si sono liberati della loro identità, non sono più che due animali che si accoppiano nella caverna primitiva. E infatti, appena la ragazza accenna, dopo l’amore, a fare le solite domande: “Chi sei, come ti chiami, che fai?” ecc. ecc.; l’uomo la fa tacere: non debbono, non dovranno mai sapere nulla l’uno dell’altro; tra quelle pareti nude non dovranno mai esservi che i corpi nudi di un maschio e di una femmina. Nient’altro. Senonché, mentre il sesso è, ci si perdoni il bisticcio, essenziale rapporto tra due sessi, l’amore è invece rapporto tra due persone che sono attratte l’una verso l’altra, alla fine, per motivi “culturali” i quali, appunto, stendhalianamente, si cristallizzano intorno al rapporto sessuale. E il rapporto sessuale, d’altra parte, se non si trasforma in amore, non dura, sfocia nell’odio, nella crudeltà e nella noia. Anche nel caso di questi amanti senza nome, il sesso si cambia in amore e l’amore, a sua volta,

rende insufficiente il sesso. Da una parte, la ragazza scopre che, proprio perché ama, non può sposare quest’americano avventuriero, di quarantacinque anni, proprietario di un piccolo albergo losco, la cui vita è un naufragio; dall’altra, l’americano scopre, anche lui perché ama, che non può fare a meno della ragazza come aveva creduto e che vuole sposarla. La ragazza, anche se col cuore spezzato, decide di diventare la moglie del registucolo da nulla con il quale è fidanzata; e, alla proposta di matrimonio del maturo amante, reagisce d’istinto sparandogli e uccidendolo. Questa, forse, la storia di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Diciamo “forse” perché, in realtà, il film, pur essendo basato su un’idea addirittura romanzesca (l’appartamento in cui si fa l’amore senza sapere nulla l’uno dell’altro), non è fatto di eventi bensì di situazioni simboliche e ideologiche. Sbrogliare l’intrico di significati di questa vicenda a ben guardare allegorica come un mistero medievale, è insieme facile e difficile. In tutti i casi la filigrana freudiana è piuttosto visibile. Nell’appartamento vuoto e opaco e, tuttavia, sede privilegiata di un erotismo risplendente, abita Eros; tutto il resto del mondo è abbandonato al dominio di Thanatos. Dunque l’anonimità sessuale è la vita; l’identità sociale è la morte. Ancora, nell’appartamento ha sede il sesso come autenticità; fuori, il film che il fidanzato regista gira, con la ragazza per protagonista, ci mostra l’amore come falsità. Infine, si potrebbe azzardare anche l’ipotesi “storicistica”: l’Occidente borghese non conosce più altra verità vitale che quella del sesso; tutto il resto è macabra parodia. Ultimo tango a Parigi è un film fascinoso ma di un fascino freddo perché intellettualistico. Come un astro spento, lo si può guardare in faccia senza restarne abbagliati cioè commossi. Significativamente, la psicanalisi che è un tentativo di estendere il dominio della ragione al mondo interiore, qui viene adoperata come veicolo per un’irrazionalità furiosa, disperata, mortuaria. A tal punto che Eros, attraverso il sadismo e il masochismo vendicativi e sodomitici del protagonista, finisce per scambiare la parte con Thanatos. Tuttavia, le sequenze più belle del film sono proprio quelle in cui il sesso, rappresentato dal personaggio femminile, è sentito dal regista direttamente e sinceramente, senza tristezza, nella sua accezione più selvaggia e più casta. Qui Bernardo Bertolucci conferma le grandi qualità di intensità espressiva e di complessità tematica già così notevoli ne Il conformista. Tra gli interpreti Marie Schneider, la rivelazione del film, è una Jeanne piena di felice e impetuosa espressività. Marlon Brando, curiosamente, nonostante o forse a causa della sua bravura straordinaria e senza dubbio autobiografica, si direbbe che piuttosto che la decadenza del proprio personaggio per molti versi irreale, interpreti quella di se stesso. TREVICO-TORINO Trevico-Torino è un film di Ettore Scola sull’emigrazione meridionale a Torino, la metropoli della Fiat. Questa dell’affluenza della mano d’opera dalla fascia meridionale dell’Europa (Italia, Spagna, Portogallo, Jugoslavia, Turchia ecc.) verso le metropoli del nord è una delle piaghe (chiamiamola così) che il neocapitalismo ha ereditato tale e quale dai fascismi e dal paleocapitalismo. L’idea è pur sempre la stessa: sfruttare il morente mondo contadino senza far nulla per aiutarlo a diventare cittadino. Dunque: niente alloggi, niente assistenza sociale, niente scuole, niente di niente; soltanto il lavoro dai ritmi disumani e poi la disumana vita privata in squallidi ambienti praticamente schiavistici (dormitori, borgate, mense collettive ecc.). L’emigrante che ha lasciato al paese una comunità che, bene o male, lo sosteneva in senso culturale e affettivo, si ritrova a un tratto mero individuo. Ma, attenzione: l’idea dell’individuo maschera quella dell’oggetto che non ha rapporti con il reale in quanto, appunto, non è soggetto nella propria vita. In effetti, l’individuo con la sua autonomia e il suo destino può esistere soltanto nella borghesia come antagonista di questa stessa società la quale, tuttavia, gli fornisce i mezzi (denaro, cultura, educazione ecc. ecc.) per essere soggetto. L’operaio è invece un oggetto, e lo è

tanto più quanto più è mero individuo, senza radici sociali, come, appunto, l’emigrante. Oggi, a Milano e a Torino, si ripete il dramma della nostra emigrazione meridionale negli Stati Uniti fino alla vigilia della prima guerra mondiale. La particolarità e originalità di questo dramma è che, a differenza dell’operaio nato e cresciuto nella metropoli, indurito, disumanizzato dall’astratta esistenza urbana, l’emigrante di origine contadina è ricco di aspetti umani e il suo destino, prim’ancora che spietato, è patetico. Di qui, un modo tutto diverso di rappresentare il dramma operaio sia che si tratti del primo o del secondo. Si guardi per esempio ai disegni di Georg Grosz in cui si vedono operai in casa loro o che si recano al lavoro: il tratto crudele, brutale e violento è, propriamente, quello della lotta di classe. Sono operai di città; essi sono “nati” operai. Si veda, invece, il nostro De Amicis. Pur concedendo che fosse sentimentale per temperamento, non si può negare che la sua materia, per esempio gli emigranti in un romanzo come Sull’Oceano fosse, diciamo così, originariamente sentimentale. Com’è possibile, infatti, non essere sentimentale trattando di un emigrante che è lontano dalla madre, dalla moglie, dai figli, dal paese natio, dall’ambiente naturale in cui è nato e cresciuto? Tutto questo va detto per spiegare e, in parte, giustificare il modo con cui Ettore Scola ha rappresentato il dramma del suo Fortunato, povero ragazzo di Trevico emigrato a Torino, per lavorare alla Fiat. Il fatto che la direzione della Fiat, a quanto pare, non ha permesso di girare il film anche nell’interno della fabbrica, ha costretto il regista a descrivere non già il lavoro quanto gli effetti di questo lavoro nella vita misera e solitaria del ragazzo e nel suo animo sensibile e inesperto. In altri termini, Ettore Scola ha messo l’accento sugli aspetti più patetici della storia di Fortunato sia perché Fortunato è un emigrante, sia perché non è stato possibile mostrarlo alla catena di montaggio, in un reparto della Fiat. La prima parte, di piglio documentario, è la migliore. Scola è molto efficace nel mostrarci ciò che “avviene” all’emigrato meridionale a Torino. Stazioni, dormitori, mense, abitazioni, incontri, vita quotidiana, folle, tutto è descritto con quella sobrietà e verità che, in una materia simile, diventano automaticamente indignazione e denunzia. Nella seconda parte, il tentativo amoroso di Fortunato con la ragazza contestatrice aggiunge al sentimentalismo proprio della condizione dell’emigrante quello di un amore timido e casto che, appunto perché il film tratta un caso “tipico”, ha tutta l’aria di essere tipico e invece non lo è: l’amore di un operaio può essere casto e timido e può non esserlo. Infine nella conclusione ci pare che Scola si sia lasciato prendere la mano dalla sua grande e un po’ fredda bravura. Secondo noi il tono impassibile e dolente del documentario andava tenuto fino alla fine. ANNA MAGNANI In genere non si crea il culto della personalità se prima di tutto non si è, nell’intimo, dediti a questo culto. Si pensi, per esempio, a D’Annunzio: la sua popolarità, come figura pubblica, derivava prima di tutto dal suo eccezionale narcisismo. Anna Magnani, invece, era quel raro personaggio che è un narcisista amaro, scontento, insicuro, profondamente diffidente della propria popolarità anche se incapace d’approfondire e rimuovere i motivi di questa sua diffidenza. Ricordo una serata, diciamo così, tipica con Anna Magnani e Pier Paolo Pasolini, ai tempi relativamente recenti di Mamma Roma. Le proponemmo di scegliere fra un ristorante qualsiasi e un noto locale cosiddetto caratteristico, decorato nello stile della Roma rustica e papalina con selle e finimenti di cavalli, carri da vino con il soffietto dipinto, spiedi di ferro, pentole e teglie di rame, tavoloni e sgabelloni di quercia, botti, barili e bicchieri col fondo grosso, dove, sicuramente, il suo mito personale avrebbe trovato una collocazione immediata. Scelse subito, sia pure con scettica e sarcastica accondiscendenza, il locale caratteristico. E una volta seduta in un tavolo un po’ appartato nella piazzetta trasteverina gremita di turisti americani, ebbe un primo movimento di delusione

vedendo che il suo arrivo non aveva provocato la consueta curiosità. Ma questa distrazione durò poco. Erano appena passati cinque minuti che tre o quattro fotografi già stavano inginocchiati intorno a noi cercando di riprendere “Nannarella” a cui il chitarrista lusinghiero e familiare, un piede sul piolo della seggiola, la chitarra sulle ginocchia, andava propinando nell’orecchio le parole sussurrate della sua canzone. Intanto da tutti i tavoli gli avventori stranieri avvertiti da accompagnatori e ciceroni si voltavano per guardarla; e dalla frangia di donnette e di ragazzini che se ne stavano intorno in piedi a godersi la musica, si levavano applausi e invocazioni. Guardai in quel momento Anna Magnani e vidi che, chiaramente, essa non partecipava che a metà a questa specie di improvvisata rappresentazione. Certo i suoi occhi magnetici brillavano di eccitazione non finta; certo la celebre risata crudele e aggressiva si accendeva con perfetta naturalezza sul viso un po’ stanco e macerato; ma al tempo stesso c’era in lei qualche cosa di amaro, di malsicuro e di deluso. Era, sì, l’attrice celebre, il personaggio rappresentativo; ma, insieme, per una contraddizione amara della sua strana e ombrosa umiltà, forse dubitava di esserlo davvero oppure avrebbe voluto esserlo in un altro modo. Il suo narcisismo scontento e diffidente le faceva forse subodorare nella sua popolarità qualche cosa di inautentico, un po’ analogo alla decorazione del ristorante in cui in quel momento si trovava. Ma probabilmente si rendeva pure conto che ogni popolarità è fondata su un malinteso; e che la sua, almeno, poteva contare su un’originaria carta di nobiltà genuina e indiscutibile. D’altra parte, alla sua rassegnata e scettica partecipazione doveva anche contribuire la riflessione che per un’attrice come lei, che aveva dovuto il successo proprio al fatto di aver abolito il confine tra la vita e l’arte, tra la persona e il personaggio, tra la passione e l’espressione, era impossibile fare certe schive distinzioni. Essa doveva accettare di essere, così sullo schermo come fuori dello schermo, una presenza fatta di impetuosa vitalità esistenziale, la quale, via via, poteva, come non poteva, coagularsi in una forma riconoscibile. Ma come si fa a sapere quando la vitalità riesce a trovare la forma che le conviene e quando invece si limita a esplodere? Affidata al solo istinto, Anna Magnani probabilmente non era mai del tutto sicura di aver creato un vero personaggio; o invece di esser rimasta al di qua dell’interpretazione, nell’imitazione di se stessa. Ho cercato di illuminare il difficile e oscuro rapporto nella vita e nell’animo di Anna Magnani tra la figura pubblica e l’interprete. Ora però vorrei aggiungere che questa attrice arrivata così tardi alla maturità artistica e al successo, dopo una lunga anticamera nell’avanspettacolo e nel cinema di consumo, questa donna disadattata, affettuosa, incolta e nevrotica, seppe fare qualche cosa che accade molto di rado nel mondo casuale e improvvisato del nostro cinema: intersecare la propria meteorica traiettoria con l’orbita misteriosa e controversa della cometa chiamata storia. A ben guardare e fuori di metafora, la carriera di interprete di Anna Magnani è legata quasi esclusivamente alla regia di Roberto Rossellini e soprattutto al film Roma città aperta. Bellissima di Visconti, pur avendole ispirato una delle sue migliori interpretazioni, è altra cosa; e così pure i film girati da Lattuada, Zampa, Camerini, per tacere dei film del periodo americano e delle molte altre prestazioni addirittura di consumo. Perché Roma città aperta e Roberto Rossellini sono stati così importanti per Anna Magnani? Perché, come ho già detto in quel film Anna Magnani si è trovata con la sua vitalità viscerale, il suo slancio esistenziale, la sua disponibilità passionale nel centro di due esperienze nitide e precise, perfettamente a fuoco sia in senso storico che in senso estetico: la Liberazione e il neorealismo. Qualcuno penserà che io intendo dire che Anna Magnani si “impegnò” allora sia come artista che come persona. Certo il termine di impegno risolverebbe il problema; ma sarebbe una risoluzione un po’ affrettata e convenzionale. Diciamo piuttosto che Anna Magnani negli anni del dopoguerra seppe ricevere più di quanto non diede. All’apertura generosa, alla recettività ingenua di quel breve periodo essa dovette di aver potuto in seguito dare tutto quello che ha dato. LA VILLEGGIATURA

La villeggiatura di Marco Leto racconta la storia del professor Rossini, antifascista inviato al confino nell’isola di Lipari dal governo di Mussolini. Il titolo del film è indicativo. Per Rossini, il cui padre, anche lui insegnante, è stato, per una fortunata combinazione, il professore di diritto del commissario di polizia in carica nell’isola, il confino sarà davvero una specie di villeggiatura. Rossini disporrà di una casa di quattro vani dove vivere con la moglie e la piccola figlia, avrà i suoi libri coi quali proseguire un suo saggio su Giolitti, un pianoforte sul quale suonare i prediletti Bach e Beethoven. Godrà soprattutto della considerazione del commissario Rizzuto il quale un po’ gli si dimostrerà amico per meglio sorvegliarlo, un po’ lo sarà sinceramente perché riconoscerà in lui un membro di diritto, anche se anomalo, della classe dirigente. Tutto diverso è invece il trattamento che lo stato fascista riserba ai confinati di origine popolare. La diversità appare sia nell’alloggio, nel vitto, nel modo di lavoro, sia, più crudamente, nel sussidio: 18.500 lire in cinque anni ai confinati “borghesi” come Rossini, 7.300 lire ai “proletari”. Così Rossini si trova preso, durante la sua “villeggiatura”, tra due poteri ciascuno dei quali ha qualche cosa in comune con lui e gli chiede la sua complicità. Il commissario Rizzuto ha in comune con lui l’origine, la cultura, lo stile borghesi, anche se è un commissario cioè uno strumento del regime che lui combatte. I confinati proletari hanno in comune con lui l’antifascismo, anche se sono ostili alla classe a cui lui appartiene. Il commissario spera che Rossini alla fine si convinca “con le buone” ad accettare il regime fascista (come gli consiglia anche il padre) e così possa tornare ai cosiddetti “studi”, parola che, mezzo secolo fa, aveva un suono evasivo e umanistico che oggi, per fortuna, ha perduto. I confinati proletari, invece, non sperano nulla da lui e questa mancanza di speranza ha altrettanto peso della speranza del commissario. Tra questi due poteri, Rossini, con lenta presa di coscienza, stimolata da alcuni episodi illuminanti, finirà per scegliere il secondo. Egli fuggirà dall’isola perché, come dirà alla moglie lasciandola, “la villeggiatura è finita”. La villeggiatura è soltanto in apparenza o, per lo meno, soltanto in parte un film di piglio quasi documentario sul confino politico in Italia negli anni del fascismo. In realtà è un film sulla lotta di classe e sulla presa di coscienza da parte di un intellettuale dell’esistenza di questa lotta. Il regista, però, non si è proposto questo tema in maniera preconcetta; sembra invece esservi arrivato quasi suo malgrado attraverso la rappresentazione accurata e oggettiva dell’ambiente del confino. Quanto a dire che Leto ha tratteggiato con realismo una certa situazione, cioè il confino, nella quale la lotta di classe è, per così dire, sottolineata dagli stessi mezzi coi quali si cerca di sopprimerla. Ma c’è un’altra lotta di classe, quella tutta interiore, combattuta esclusivamente nell’animo di Rossini, tra le proprie origini sociali e culturali e il sentimento di rivolta contro l’ingiustizia; e di questa sappiamo troppo poco, soprattutto per comprendere l’evoluzione del protagonista. Cosa diventa realmente in un uomo come Rossini la lotta di classe? Distrugge in lui la cultura oppure la vivifica? Fa morire l’intellettuale oppure lo rafforza? Accetta la volontà di potenza propria di ogni superiorità culturale oppure la rifiuta? In altre parole ci sono ne La villeggiatura una descrizione esatta e felice dell’atmosfera sonnolenta e mortificante, da paese depresso e borbonico, del confino fascista, nonché una caratterizzazione assai efficace dei vari personaggi; ma manca, secondo noi, un approfondimento del dramma esistenziale del protagonista né questa mancanza può essere compensata da notazioni assai fini ma pur sempre di specie sentimentale. Le interpretazioni di Adalberto Maria Merli nella parte di Rossini e di Adolfo Celi in quella del commissario sono ottime per misura ed espressività. Accanto a loro bisogna ricordare Milena Vukotic, efficace ma un po’ manierata. MATTATOIO 5 Il cinema può dire “tutto”? Può cioè dire tutte le cose che dice la letteratura? Può dire, per esempio, le cose che hanno saputo dirci Kafka, Proust, Dostoevskij? La questione è controversa.

Bisogna intanto osservare che la letteratura può dire “tutto” perché si serve di segni simbolici mentre il cinema è legato alla riproduzione del reale. Il simbolismo della scrittura permette alla letteratura sia di contaminare senza sforzo apparente il reale con il pensiero, sia di farci passare con naturalezza dal presente al passato e al futuro. Nel cinema, invece, il pensiero, espresso per forza in immagini è sovente un meccanismo insieme pesante ed elementare. E quanto ai tempi, il cinema è sempre al presente, anche se cerca di resuscitare il passato o di proiettarsi nel futuro. Queste riflessioni non nuove ma probabilmente inevitabili mi sono venute in mente assistendo a Mattatoio 5, film di George Roy Hill ricavato da un romanzo di Kurt Vonnegut jr. La storia di Mattatoio 5 è basata su un dato di fatto diciamo così clinico che bisogna accettare per forza: un certo oculista americano a nome Pilgrim, a causa di un trauma psichico riportato in guerra, è uscito dal tempo, cioè è capace di rivivere contemporaneamente il passato, il presente e il futuro. Nel presente egli è un cosiddetto professionista o borghese medio, stimato e agiato con moglie, figli, colleghi; nel passato è un prigioniero di guerra americano nella Germania nazista a cui tocca di assistere al terribile bombardamento di Dresda, autentico genocidio con 130.000 morti; infine nel futuro egli vive sia l’esperienza utopistica di un soggiorno “ideale”, insieme con la donna dei suoi sogni dal significativo nome di Morgana, nel fantascientifico pianeta Trafalmador, sia l’esperienza (diciamo così) della propria morte, per mano di un fanatico mentre riferisce in pubblico sul suo viaggio nel pianeta. In letteratura questo continuo alternarsi del presente, del passato e del futuro, è un problema che si risolve facilmente variando i tempi dei verbi. In Mattatoio 5 abbiamo invece una quantità di “presenti” che si spiegano, si criticano e si illuminano a vicenda in un sottile e sofisticato montaggio di sequenze tutte realistiche. D’altra parte, la riflessione che riunisce il passato al presente e questo al futuro non è delle più originali, essendo esattamente quella che verrebbe in mente a un professionista americano un po’ disintegrato com’è appunto il dottor Pilgrim: la vita oggi non è sostanzialmente diversa da quella nei campi di concentramento nazisti, si può evaderne solo attraverso il sogno di un mondo ideale, utopistico in cui domini l’amore. Come si vede, siamo pur sempre nel realismo anche se gli episodi sono collegati tra di loro da un nesso ideologico. Probabilmente la sola maniera di infrangere la barriera del suono realistica nel cinema consiste non tanto nell’uso di un montaggio insolito ed eloquente, come appunto in Mattatoio 5, quanto nella deformazione del reale, come avviene per lo più nel cinema sperimentale. Così, alla fine, quando tutto è stato detto bisogna riconoscere che le parti migliori del film, cioè la descrizione del bombardamento di Dresda e quella della vita quotidiana del ceto medio americano, le dobbiamo al sentimento di verità umana di cui il regista vi dà prova ora in maniera crudele e polemica, ora misurata e ironica, e sempre con quella complessità tematica che è sinonimo di autenticità. Meno bene le cose vanno nel futuro, con l’amore nel pianeta Trafalmador e con la morte nel teatro affollato. Gli è che George Roy Hill non ha la capacità intellettualistica e astratta di un Kubrik, del quale, peraltro, si avverte talvolta l’influenza. L’interpretazione di Michael Sachs è molto simile alla regia: ottima nelle parti realistiche, desunta da modelli noti in quelle fantastiche. PAOLO IL CALDO Come è noto, Paolo il caldo, il romanzo postumo di Vitaliano Brancati, è un tentativo non del tutto riuscito di trattare seriamente, anzi tragicamente, il tema del cosiddetto “gallismo” che nei primi due romanzi di Brancati, Don Giovanni in Sicilia e Il bell’Antonio, era stato felicemente rappresentato in chiave comica. Perché seriamente? Perché il gallismo, definizione umoristica dell’esuberanza sessuale propria della gioventù, col tempo era venuto configurandosi nell’immaginazione del romanziere coi tratti mortuari dell’erotomania. Paolo il caldo, insomma, racconta la storia di un maniaco sessuale, dalle scoperte dell’adolescenza fino allo spegnersi di

quella ragione che, secondo Brancati, per bocca di Michele il padre suicida di Paolo, è sinonimo di felicità. Strana ragione quella di Brancati, probabilmente il surrogato illuministico di qualche cosa di molto diverso. In realtà, con Paolo il caldo Brancati ha voluto dirci che il dominio dell’erotismo porta inevitabilmente alla morte spirituale. Forse, se Brancati non fosse scomparso così presto, la sua meditazione sul sesso avrebbe avuto un’evoluzione analoga a quella di Bataille. Come ha risolto Marco Vicario il problema di portare sullo schermo questo romanzo così triste e cattolico? La risposta purtroppo deve essere negativa; ma questa negatività si presta ad alcune riflessioni forse non del tutto inutili. Dunque in Paolo il caldo il tema di fondo che, come abbiamo detto, è la tragedia dell’erotismo, appare insidiato da due specie di irrealtà, l’una dovuta all’autore del romanzo e l’altra all’autore del film. Della prima irrealtà ci sbrigheremo dicendo che è quella dell’ambizione di tipo balzachiano, di descrivere un’intera società (qui, ahimè, la inesistente società mondano-intellettuale di Roma), ambizione già velleitaria e infelice nel romanzo e rimasta tale nel film. Ma la seconda irrealtà è più interessante. È l’irrealtà che l’ossessione consumistica introduce in una vicenda che, altrimenti, pur nei limiti di una regia poco ambiziosa come quella di Marco Vicario, avrebbe potuto forse aspirare alla sola credibilità valida, cioè quella dell’arte. Dove scatta in Paolo il caldo il meccanismo consumistico? Un po’ dappertutto ma specialmente, in maniera esemplare, nell’episodio della cameriera Giovanna contesa tra Paolo e suo nonno, entrambi erotomani. Nel romanzo, Brancati descrive questa cameriera come una povera analfabeta, inarticolata quasi al limite della bestialità e tuttavia umana proprio perché dolorosamente consapevole di questo suo carattere. Bastonata a sangue dallo zio, Giovanna si ammala, respinge Paolo senza saper perché, e subito dopo va a gettarsi in un pozzo. Dopodiché, salvata, “con la stessa inerte semplicità con cui si era buttata nel pozzo, continuò a vivere”. Che è diventata Giovanna nel film di Vicario? Ci troviamo di fronte a una fotomodella cosmopolita, a una deliziosa creatura dagli occhi di viola e dalla nudità ben tornita che si inserisce in maniera inverosimile nell’intrigo nonno-nipote, senza alcuna ragione apparente all’infuori di quella, appunto consumistica, di farsi spiare dal ragazzo e dunque dagli spettatori, nel momento in cui, tutta nuda, si impadronisce del portafogli del vecchio. Ora non era affatto obbligatorio che Vicario ricalcasse Brancati; poteva anche fare un personaggio tutto diverso ma egualmente “credibile”. La sua cameriera siciliana invece ha l’irrealtà dei nudi delle riviste per soli uomini; la irrealtà, cioè, propria di quella che di solito viene inesattamente chiamata pornografia e non è invece (la pornografia non esiste) che il trattamento volgare del sesso. Perché Vicario ha ceduto alla tentazione consumistica? Probabilmente perché non crede che l’arte sia “consumabile”. Cioè non crede al fecondo malinteso per cui, a ogni stagione, un certo numero di film d’autore vengono, più o meno inopinatamente, “consumati”. Giancarlo Giannini riesce a creare il personaggio soprattutto verso la fine, quando l’erotomania di Paolo scopre il suo fondo mortuario. Rossana Podestà è più efficace nelle scenate manesche che negli abbandoni idilliaci. LA FESSURA La prostituzione è un mistero e non serve dire che chi la trova misteriosa vuole ignorare i motivi sociali che sono all’origine della prostituzione. Certo la prostituta non è sola a vendere qualche cosa che pur essendo apprezzato, almeno in apparenza non costa nulla, essendo, per così dire, un regalo della natura. Anche il bracciante vende una parte del corpo, forse meno apprezzata di quella che la prostituta offre ai suoi clienti ma non meno “regalata”. Eppure, alla fine bisogna riconoscere che l’alienazione del bracciante non è così degradante o per lo meno comporta una degradazione diversa da quella della prostituta. D’altra parte è chiaro che la degradazione della prostituta è collegata al disprezzo sociale che pesa su di lei il quale a sua volta rispecchia il carattere misterioso che

l’umanità non può fare a meno di attribuire al sesso. In altri termini: la prostituta sarebbe disprezzata perché, con il suo commercio, dissacrerebbe cioè toglierebbe ogni mistero al sesso, riducendolo al livello di merce. E così si torna al punto di partenza: la prostituzione è misteriosa perché il sesso lo è o almeno si vuole che lo sia. La fessura di Gustav Ehmk è un film sulla prostituzione girato con ambizioni sociologiche e da cinéma-vérité. Ma allora perché, nonostante la manifesta serietà e buona fede degli autori, non possiamo sottrarci all’impressione di trovarci di fronte a un’ultima reincarnazione della Justine di De Sade? Secondo noi il sadismo innegabile del film viene proprio dall’idea, in fondo sadica, di fare della protagonista una vittima totale, altrettanto innocente e ribelle nell’animo che corrotta e passiva nel corpo. Così da suscitare la stessa domanda che ispira Justine: “Perché subisce, visto che non vuole?” A questa domanda nel caso di De Sade è facile rispondere: “Perché l’autore, appunto, è sadico.” Ma nel caso de La fessura si deve ammettere che il sadismo del film deriva da una involontaria amputazione di qualsiasi facoltà di autonomia e di scelta nel carattere della protagonista. Il film, insomma, e sadico perché, invece di creare un personaggio si riduce a essere un veristico atto di accusa contro la società, sola colpevole. La ragazza de La fessura scappa da un orfanotrofio, va direttamente nella strada malfamata di una città tedesca, si lascia abbordare da un lenone, è sverginata dal suo primo cliente, accetta di essere messa in vendita nel retrobottega di un caffè frequentato da lavoratori di provenienza sudeuropea. Triste e musona (la vediamo sorridere una sola volta e soltanto per sottolineare la rassegnazione), del tutto “inaderente” al suo mestiere, non si ribella se non fisicamente, con contorsioni e strilli, piuttosto come un animale brado che come una persona dotata di riflessione e di volontà. È vero che tenta due o tre volte la fuga, ma anche questo lo fa in maniera muscolare e istintiva, proprio come un animale selvaggio non del tutto addomesticato. All’obiezione che essa potrebbe ricorrere alla legge e alla polizia, gli autori del film rispondono, con ragione, che lo stato con le sue schedature e i suoi riformatori è di gran lunga peggiore dei lenoni e della strada. E, infatti, il film finisce su una triste prospettiva: i lenoni cercano di rapire la ragazza in una “comune” hippy in cui si è rifugiata; scoppia una rissa, la polizia arresta tutti quanti e alla fine spedisce la protagonista in un istituto di rieducazione, da cui, come ci avverte la voce fuori campo, uscirà definitivamente rassegnata alla sua squallida vocazione. In proprio, nonostante la schematicità dimostrativa della vicenda o forse a causa di essa, La fessura ha un suo stile tedesco che ricorda un poco la pittura crudele, tetra e moralistica del primo espressionismo. E almeno nella sequenza dell’iniziazione alla prostituzione nel retrobottega del caffè per lavoratori stranieri, riesce a fondere i due temi del film, cioè quello della degradazione morale e quello dell’alienazione sociale. Berhild Berkhold è forse troppo avvenente per non farci sospettare un’intenzione sadica. Ma alla fine il suo personaggio disperato e passivo riesce a convincerci. CON UNA MANO TI ROMPO E CON DUE PIEDI TI SPEZZO Sono andato anch’io a vedere un film violento “made in Hong Kong” e precisamente Con una mano ti rompo e con due piedi ti spezzo (titolo quanto mai funzionale!) del regista Wang Yu. Cosa racconta questo film? Racconta che a Hong Kong ci sono due scuole di lotta libera (ossia Kung-fu) rivali e nemiche, la prima delle quali ha tutti i connotati della “positività” (saggezza, religione, onore, probità, lealtà ecc. ecc.), e la seconda, invece, quelli della “negatività” (traffico di droghe, prepotenza, brutalità, malvagità, slealtà ecc. ecc.). La prima è capeggiata da un famoso quanto saggio maestro il cui figlio è un autentico campione; la seconda, da un losco trafficante di oppio. Dopo alcuni scontri sfortunati, il mercante, non riuscendo a vincere il rivale con gli atleti locali,

decide di assoldare in vari paesi dell’Asia i campioni più celebri e più feroci. Forma così una formidabile squadra di cui fanno parte due tibetani, due tailandesi, due birmani, un indiano, altri di altre nazionalità, tutta gente terribile con facce da orchi e gesti da epilettici. Naturalmente questo arruolamento, che ricorda gli analoghi ingaggi di campioni stranieri nelle nostre squadre di calcio, ottiene un primo completo successo. La squadra dei “buoni” viene sgominata; il maestro rimane ucciso; al figlio, uno dei “cattivi” fa addirittura saltar via un braccio. Ma il male non può vincere. Il figlio monco ricorre a una specie di stregone il quale gli trasforma l’unica mano in un ferreo strumento di morte. Con questa mano “fatata”, il figlio vendica il padre, uccidendo uno dopo l’altro tutti i mercenari. Tempo fa ebbi a vedere un film di propaganda della Cina popolare, nel quale un soldato “buono” cioè comunista veniva inviato dai suoi superiori in un lontano villaggio, a debellare un contadino “cattivo” cioè criptocapitalista. La vicenda, nel film di Pechino, come in quello di Hong Kong, si svolgeva su sfondi non tanto diversi, con tavolini da tè, porcellane e lanterne, ciotole di riso e bacchette, paraventi con motivi di nuvole e aironi e umanità in tunica e brache di cotone. Ma la vera somiglianza era nell’ingenuo manicheismo della lotta tra il bene e il male, con finale vittoria del primo sul secondo, un bene che aveva il carattere, tradizionale in Cina, della saggezza; un male che, dal canto suo, si presentava col volto risaputo del denaro corruttore. A questo punto, qualcuno obietterà che il carattere distintivo dei film di Hong Kong non è tanto la lotta tra il bene e il male quanto la violenza. Su questa violenza, a cui i film di Hong Kong, pur così rozzi e così elementari, debbono in questi giorni in Italia un successo sconcertante, è stato scritto parecchio. Si è parlato di spettacoli in cui si sfogherebbe la carica inconscia dell’aggressività collettiva. A mio parere, questa ipotesi sarebbe giusta se i film cinesi fossero davvero violenti, come, mettiamo, certi film del genere dell’Arancia meccanica o del Padrino. Ma i film di Hong Kong non hanno l’acre, avvilente sapore della violenza perché non è violenta l’ideologia che li informa, e perché la violenza, a sua volta, vi appare talmente codificata e regolata da trasformare anche le risse più spietate in qualche cosa di simile a spettacolari e distanti pantomime. La vera violenza che è soprattutto ideologica invece contagia per canali oscuri gli spettatori, come si poteva vedere alle prime rappresentazioni del film di Kubrik durante le quali un pubblico per lo più di giovani dei quartieri alti parteggiava visibilmente per il protagonista mentre si dedicava con baldanza allo stupro e all’assassinio. Il successo dei film di Hong Kong, alla fine, farebbe pensare piuttosto a una inconsapevole nostalgia per i miti della moribonda civiltà contadina. I film di Hong Kong non rassomigliano ai film della vera violenza decadente e moderna, quella della mafia e dei teppisti delle grandi metropoli; ma alle rappresentazioni dei teatri dei pupi, alle gesta eroiche dei romanzi cavallereschi. E forse il loro successo si deve piuttosto alle tecniche inedite ed esotiche della lotta libera cinese che agli effetti inverosimili anche se atroci di queste stesse tecniche. NON HO TEMPO La vita di Evariste Galois fu breve ma di straordinaria intensità creativa; la sua fine, tragica e misteriosa. Galois è, dunque, il tipo del genio romantico come è spesso raffigurato da Balzac nella Comédie Humaine. Ma Galois, oltre che un personaggio da romanzo balzachiano, fu anche un autentico genio della matematica, la cui opera ha tutt’oggi un valore fondamentale. Da una parte, dunque, il Galois romanzesco eccelle in una scienza inaccessibile, si getta con ardore nella lotta rivoluzionaria, muore in un misterioso duello per amore (ma forse il duello fu provocato dai suoi avversari politici). Dall’altra, il Galois storico, ha la serietà creativa di un Einstein ventenne. Ciò che conferisce alla figura di Galois una straziante tragicità, è che egli fu consapevole di essere un genio e ciononostante di doversi sottomettere a un destino sociale livellatore ed egualitario e,

appunto per questo, ingiusto. In margine alle pagine del suo testamento scientifico, sedici pagine buttate giù febbrilmente la notte prima della morte, Galois scrive più volte: “Non ho tempo.” E dice al fratello: “Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent’anni.” Perché insistiamo tanto sul fatto che Galois era un genio? Perché in questo film di Ansano Giannarelli su Galois, Non ho tempo, serpeggiano due polemiche parallele: l’una contro il “sistema”, repressivo e persecutorio ieri come oggi; l’altra a favore dell’impegno politico degli intellettuali e contro il disimpegno. Ora, mentre la prima polemica ha buon gioco nel mostrare che le polizie e le magistrature sono sempre pronte, ieri come oggi, a mettere in prigione il Valpreda di turno, sull’altra polemica c’è da osservare che l’aver scelto Galois come esempio di intellettuale impegnato è per lo meno fuorviante. Infatti Evariste Galois non è un intellettuale tra i tanti, che è difficile immaginare capace di esistere fuori dell’impegno; è invece quel tipo umano rarissimo che, anche senza l’impegno politico, è “di per sé”, a causa della propria genialità, rivoluzionario e impegnato. Così, si potrebbe dire che, senza volerlo, il film di Giannarelli sottolinea l’ingiustizia che l’egualitarismo politico opera ai danni delle preziose quanto misteriose ineguaglianze naturali. Il suo film non illustra tanto il dramma dell’intellettuale che si impegna quanto la tragedia del genio che sa di essere un genio e ciononostante non può comportarsi che come un intellettuale. La tragedia di Gargia Lorca, di Lautréamont, di Babel, di Mandelstam, di Puskin. Come in Sierra Maestra suo primo film, Ansano Giannarelli non ha voluto fare un film narrativo più o meno tradizionale sulla vita e la morte di Evariste Galois; ma ha “composto” un ritratto del matematico francese sullo sfondo sociale e politico della Francia del 1830. Questa specie di ritratto in piedi oratorio-agiografico è dipinto con il metodo brechtiano dell’estraniamento ottenuto a sua volta attraverso la dissociazione delle strutture narrative e l’abolizione della durata. In Non ho tempo il montaggio, così importante nel cinema, non è dissimulato per creare illusione e identificazione bensì mostrato e additato; i significati diventano personaggi cioè significanti; i ruoli vengono sdoppiati e capovolti. È un modo di fare cinema di chiara origine teatrale; infatti, mentre il cinema, come il romanzo, è per sua natura narrativo, il teatro non lo è: estraniamento brechtiano e crudeltà artaudiana sono in certo modo impliciti nel teatro, i moderni non hanno fatto che riscoprirli. Nel cinema questo metodo risolve enormi difficoltà narrative con grande, forse eccessiva facilità. Al punto che si potrebbe persino affermare che un film come Non ho tempo ha un massimo di probabilità di essere, come infatti è, un’opera riuscita. Ma il vero merito di questo notevole film è in realtà il sentimento di simpatia espressiva che il regista ed Edoardo Sanguineti che ha collaborato alla sceneggiatura, mostrano di provare per il loro protagonista. Mario Garriba ha disegnato egregiamente una figura di precoce e sfortunato genio romantico al tempo stesso infantile e consapevole. Gli altri interpreti, scelti e diretti con acume dal regista, non sono da meno e compongono un quadro convincente dell’ambiente rivoluzionario dell’epoca. IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA Come poteva essere raccontata in maniera tradizionale la vicenda dell’ultimo film di Luis Buñuel Il fascino discreto della borghesia; e come invece Buñuel l’ha raccontata? Poteva essere raccontata come la storia piuttosto banale, da film poliziesco, di un gruppo di trafficanti di droga alle prese al tempo stesso con la polizia parigina e con la contestazione sudamericana. Il gruppo, infatti, fa capo all’ambasciatore della repubblica di Miranda, un immaginario paese dell’America latina, tra i più depressi e fascisti. L’ambasciatore, valendosi della valigia diplomatica, importa chili e chili di cocaina di ottima qualità che poi alcuni soci, tutti amici suoi personali, si incaricano di rivendere al minuto. Il clan dei trafficanti di droga non ha, in apparenza, nulla di losco. Si tratta di buoni, solidi borghesi, rispettosi delle istituzioni, bene educati, amanti dell’ordine. Il loro è un edonismo

moderato e decoroso: niente eccessi, niente intemperanze, l’adulterio alle cinque, qualche bicchierino, un buon pranzo, una bella macchina una casa arredata con gusto. Tuttavia questa brava gente colpevole, in fondo, soltanto di andare incontro, come si dice alla domanda del mercato con un’offerta adeguata, si muove in uno spazio sociale pieno di minacce. Sono perseguitati dalla polizia; insidiati dalla contestazione. La prima minaccia viene sventata: arrestati da un commissario più zelante che informato, i mercanti di droga vengono rimessi subito in libertà per ordine di un ministro probabilmente coinvolto anche lui nel traffico della cocaina. Ma la seconda minaccia si rivela effettiva: i tupamaros, incomprensivi e idealisti, irrompono nella villa in cui il clan si è riunito a tavola e fanno fuori tutti quanti a colpi di mitra. Come invece racconta la vicenda Buñuel? In realtà non la racconta affatto. Il film non contiene una storia ma un’idea; e quest’idea non è tradotta in una narrazione mobile e lineare, bensì in una rappresentazione circolare e in certo modo immobile. Siamo di fronte al serpente che si morde la coda; al gioco dell’oca che a ogni errore bisogna ricominciare daccapo. L’idea, poi, è semplicemente quella del biblico “Mane, Tecel, Fares”. La borghesia, dopo aver ammucchiato il cosiddetto capitale, vorrebbe godersi la vita. Che importa se il capitale è stato ammassato con mezzi poco puliti; l’importante è mettersi a tavola. Ma mettersi a tavola è precisamente quello che la borghesia non riesce a fare. Il film, infatti, comincia con un pranzo interrotto e finisce con un pranzo interrotto. Ora, perché la borghesia non riesce a mettersi a tavola? Cosa gliel’impedisce? Esternamente, la rivoluzione, sempre in agguato; interiormente, il sentimento di colpa, sempre sveglio. I tupamaros coi loro mitra, la coscienza coi suoi incubi, impediscono alla borghesia di pranzare in pace. D’altra parte, però, Buñuel sembra pensare che la borghesia è forse una condizione eterna dell’umanità. Essa continuerà, dunque, la sua marcia verso un avvenire enigmatico, inseguendo il miraggio della tavola imbandita, come si può capire dalla immagine geniale che ci mostra il clan dei trafficanti che avanzano imperterriti su uno stradone deserto. Il fascino discreto della borghesia è un apologo morale espresso coi mezzi del surrealismo. Quanto a dire che Buñuel in questo suo ultimo film si è disfatto ancor più che nei precedenti dei due caratteri principali del realismo: la durata e la verosimiglianza. Il film non ha durata perché la vicenda (cioè il pranzo) è continuamente interrotta e continuamente ricominciata. Non è verosimile perché è infarcito di sogni i quali, ovviamente, sono “reali” ma non sono “veri”. Così ancora una volta Buñuel ha saputo fondere la lezione surrealista con la religiosità moralistica spagnola. Il surrealismo di Buñuel è quello classico, degli incubi granguignoleschi e degli stralunati paesaggi onirici, come nei quadri di Delvaux e di Magritte; la religiosità, dura e fanatica pur sotto il velo di un’elegante ironia mistificatrice, risale più indietro, alla Controriforma. Come si vede Buñuel è un regista antitradizionale fornito però di una tradizione tutta sua. Ciò che lo rende miracolosamente moderno è la sua mano di artista che con gli anni ha acquistato una leggerezza, una capacità evocativa, una saggezza poetica addirittura stregonesche. Luis Buñuel ha ottenuto dai suoi attori proprio quella discrezione fascinosa di cui parla il titolo del film. Fernando Rey è un ambasciatore latinoamericano affabile, flemmatico e corrotto, Delphine Seyrig, Stephane Audran, Bulle Ogier, Jean-Pierre Cassel, Paul Frankeur e Julien Bertheau formano, intorno a lui, con bravura quasi da vaudeville, il clan dei borghesi trafficanti di droga. IL GRANDE DITTATORE Siamo tornati a vedere Il grande dittatore di Charlie Chaplin. Il film ha più di trent’anni; ma rivela la sconcertante vitalità delle opere d’arte nelle quali la qualità, che è di tutti i tempi, si accompagna con l’attualità. La storia è nota; ma mette conto di raccontarla una volta di più. Charlot è un modestissimo barbiere in un borgo dell’Europa orientale. Soldato durante la guerra del 1914, rimane ferito, perde la memoria, è internato in un manicomio. Passano vent’anni; e Hinkel (cioè

Hitler) dittatore fascista della Tomania (cioè la Germania) invade il paese del barbiere. Ora avviene che costui è un perfetto sosia di Hinkel; e Chaplin interpreta ambedue le parti. Nel borgo i nazisti fanno le solite prepotenze; liberato dal manicomio in quei giorni, il barbiere, ignaro di tutto, torna alla sua bottega e la ritrova piena di polvere e di ragnatele; ma riprende a lavorare, incoraggiato da Anna, una povera sguattera. Va a finire che il barbiere, quasi suo malgrado, si scontra coi nazisti che pattugliano il borgo; scappa; durante la fuga, a causa della propria somiglianza con Hinkel, viene scambiato per il dittatore e portato di peso a un’adunata “oceanica”. Allora, in un impeto di disperata rivolta, il finto Hinkel pronunzia, di fronte alla folla che alla fine l’applaude, un veemente discorso pacifista. Il grande clown che è Chaplin si esibisce in alcune sequenze geniali come quella del suo incontro con Napaloni (cioè Mussolini) e l’altra famosa in cui Hinkel prende a calci il mappamondo. Tuttavia ciò che colpisce di più, oggi, è l’attento studio della psicologia hitleriana. Chaplin mostra di avere intuito con grande lucidità il motivo principale del successo di Hitler: la capacità di illudere, prim’ancora che gli altri, se stesso. Cosa contrappone Chaplin al delirio di grandezza hitleriano? Con gemale intuito proprio quello che alla fine determinò la caduta dei due dittatori: il senso comune, l’umanitarismo esistenziale della piccola gente. Chaplin in questo film dimostra una volta di più di non avere niente a che fare con gli illuminismi tradizionali e contemporanei. La sua trovata, se così si può chiamare, consiste nell’estendere ai campi della politica, della guerra e delle lotte sociali il senso dei valori tradizionali e probabilmente eterni, della verità, della libertà e della giustizia. Come abbiamo notato, Il grande dittatore oggi fa un effetto sconcertante e in fondo deprimente perché, purtroppo, non “data” affatto, anzi appare più attuale che mai. Visto nella prospettiva del 1940 e sapendo che è stato girato in piena guerra, il film fa di Chaplin una personificazione simbolica di tutto quello per cui affermavano di battersi allora gli Alleati. Visto nella prospettiva oggi, Chaplin perde ogni carattere simbolico, ridiventa se stesso, vale a dire un uomo di buona volontà le cui parole sincere e commoventi contro la guerra e la dittatura, a favore di un mondo “nuovo e pulito”, echeggiano in un’atmosfera di nuovo guerresca e inquinata dalla realpolitik e dalle ideologie di destra. Resterebbe adesso da formulare qualche osservazione sull’uso che fa Chaplin di situazioni e personaggi convenzionalmente “positivi”, in contrasto con situazioni e personaggi comici. Il personaggio di Anna, interpretato da Paulette Goddard, l’ambiente ebraico, la famiglia che scapperà in una leggendaria terra promessa hanno tutti un loro singolare carattere edificante e “positivo” che ridesta echi lontani e vicini. Indubbiamente il mondo di Chaplin ha molto di dickensiano. Anche nel romanziere inglese, ai personaggi comici, sempre realistici appunto perché comici, sono contrapposti personaggi sentimentali ed edificanti “positivi”. Ma l’idealizzazione, in Chaplin, della povera gente oppressa e perseguitata, ricorda addirittura figure e situazioni sia del realismo socialista sia di certa illustrazione popolare americana. Come riesce Chaplin ad amalgamare il realismo comico con l’idealizzazione sentimentale? Diremmo in una maniera molto moderna: facendo capire, con un distacco forse ironico, di essere consapevole del carattere puramente strumentale dei personaggi “positivi”. PRENDI I SOLDI E SCAPPA Stimolati da un entusiastico articolo di Alberto Arbasino, siamo andati a vedere due film dell’attore e regista comico americano Woody Alien, Prendi i soldi e scappa con la regia dello stesso Woody Alien, e Provaci ancora, Sam con la regia di Herbert Ross. Il primo finge una burlesca inchiesta sociologica sulla personalità di uno sfortunato e pervicace bandito, Virgil Starkwell, dall’infanzia fino alla sua ultima condanna o meglio alla sua ultima evasione dal carcere.

La voce fuori campo del biografo intervista via via seriosamente i più diversi personaggi (i genitori, un maestro di musica, un direttore di prigione, uno psicanalista ecc. ecc.) sul protagonista. Accanto a queste dichiarazioni, Virgil Starkwell ci è mostrato all’azione negli innumerevoli furti, scassi e atti di banditismo della sua vita. Qual è la vera novità di Woody Alien? Principalmente, l’uso sistematico di quel tradizionale procedimento comico tipicamente anglosassone che è l’understatement cioè, in italiano, la minimizzazione. Non soltanto la voce fuori campo del biografo adopera l’under statement parlando dell’attività criminale del protagonista come di una normale carriera professionale; ma esso è introdotto pure come elemento, diciamo così, portante, della vicenda. Un esempio, tra i tanti: Virgil Starkwell si presenta, timido e rispettoso, allo sportello di una banca per ottenere il pagamento di un assegno di 15.000 dollari. In calce all’assegno c’è scritto: “agite con calma”. In realtà si tratta di una rapina; la cui comicità, tuttavia, scaturisce dal fatto che le parole: “agite con calma” non sono scritte con chiarezza e quindi provocano una discussione accanita e formalistica tra il personale della banca, riducendo così la rapina al livello di una qualsiasi operazione finanziaria. Il secondo film: Provaci ancora, Sam è la storia di Allan, uomo timido, brutto, goffo e imbelle, frequentatore assiduo di sale cinematografiche, che ha eletto come modello di vita nientemeno che Humphrey Bogart, nel suo prestigioso ruolo in Casablanca. Il protagonista vorrebbe essere un conquistatore di donne; questa sua velleità provoca in lui una specie di dissociazione per cui, mentre tenta senza fortuna di avere delle avventure, ha sempre alle costole l’ombra di Bogart il quale, brutale e autoritario, lo consiglia e lo guida. Va a finire che Allan riuscirà, inopinatamente, ad andare a letto con Linda la moglie del suo migliore amico, Dick. Più tardi, in un finale molto simile a quello di Casablanca, Allan rinuncia a Linda e fa sì che i due coniugi si riconcilino. In questo film, di nuovo, un luogo comune del cinema, il personaggio del “duro”, viene smantellato con l’understatement. D’altra parte, il film è tutto una sola citazione da Chaplin e da Keaton, soprattutto per quanto riguarda il contrasto tra il sogno e la realtà, con la finale rivincita del primo sulla seconda. Ma Woodie Alien non ha né la genialità clownesca di Chaplin né la metafisica umiltà di Keaton. Egli non tanto crea, come i suoi due grandi predecessori, un personaggio immaginario, quanto si dà per quello che è nella vita quotidiana, cioè un intellettuale di New York. Che faccia il bandito come in Prendi i soldi e scappa, oppure il critico cinematografico, come in Provaci ancora, Sam, si sente sempre, infatti, che il suo senso del comico non si esercita direttamente sulla realtà, ma su una certa cultura di massa o meglio sui luoghi comuni di questa cultura come si presentano in tante opere del cinema, del teatro e della letteratura. Anche il suo aspetto fisico non subisce alcuna modificazione nel passaggio dalla vita allo schermo: stessi vestiti sciatti, stessa faccia occhialuta, nasuta, insieme riflessiva e impassibile: i vestiti e la faccia, appunto, di un giovane intellettuale di New York connesso con i mass-media dell’era tecnologica. Ma è anche vero che, tenendosi, come fa, dentro i limiti di quella stessa cultura di cui si prende gioco, egli riesce a essere altrettanto rappresentativo che un vero personaggio. ELECTRA GLIDE Electra Glide è il titolo di un film di James William Guercio, nonché il nome di una motocicletta in uso presso la polizia stradale dell’Arizona. Il regista, Guercio, prima di questo suo primo film, è stato via via compositore, suonatore di contrabbasso, editore discografico, organizzatore e animatore di orchestre e, da ultimo, anche fondatore di una cosiddetta “comunità creativa” situata nel Colorado e chiamata Caribou Ranch. La comunità è provvista di tutta la tecnologia necessaria per “creare” nelle migliori condizioni, tra l’altro, per esempio, di una sala di registrazione di estrema modernità. Forniamo queste informazioni non per vacuo nozionismo ma perché esse contribuiscono a illuminare i significati del film nonché le sue qualità e i suoi limiti.

Di che si tratta in Electra Glide? Di John Wintergreen, agente motociclista il quale, stanco di elevare contravvenzioni per eccesso di velocità e per altre infrazioni dello stesso genere, sogna di far parte della squadra omicidi, cambiando così il casco della polizia stradale con il feltro a larghe tese del detective e le due ruote della Electra Glide con le quattro di una potente automobile. Quest’ambizione così legittima è finalmente soddisfatta. In un caso di apparente suicidio, Wintergreen subodora correttamente un omicidio. Il paradiso della squadra omicidi si dischiude per lui. Ma Wintergreen ha il torto di avere un’anima tenera, sempre un errore nella vita ma soprattutto nella vita di un poliziotto. Le indagini a fianco di Harve Poople, un brutale e stupido sceriffo, gli scoprono un aspetto della carriera poliziesca che, a quanto pare, finché perlustrava le strade, gli era sfuggito. Inorridito, Wintergreen assiste a prepotenze e violenze di ogni genere. Quel che è peggio, comincia a vergognarsi di essere un poliziotto; è attirato da altri modi di vita non più repressivi ma permissivi, per esempio quello delle comunità hippy. Purtroppo, però, sarà proprio un hippy che esasperato dalla bestiale brutalità dello sceriffo, lo stenderà morto sulla strada, con una fucilata. Electra Gilde appartiene al filone dei film contestatori ed edificanti iniziato a suo tempo da Easy Rider. Di quest’ultimo, non ha la novità, il vigore e l’ingenuità. Come avviene in America, paese delle rapide maturazioni, il genere è già arrivato alla maniera. Tuttavia, proprio il fatto che Guercio è un fautore della controcultura hippy, rende il film interessante e non casuale. Quali sono i temi di Electra Gilde? Prima di tutto l’America, quell’America per la quale la canzone finale ci invita a pregare, tutta l’America cioè, simboleggiata però, in maniera significativa, dai grandi spazi spopolati, dalle strade sterminate, dai deserti mistici in cui vivono individui inselvatichiti e comunità ascetiche. Poi, le due società in cui l’America è spaccata, insanabilmente, quella repressiva e alienata di cui la polizia è il simbolo e la punta di diamante; e quella della contestazione giovanile. A questa America malata, Guercio propone il rimedio della fratellanza hippy, a base di musica pop, di povertà stracciona, di sincretismo religioso. Ma il regista si rende conto che, forse, gli hippy non sono poi tanto migliori dei loro avversari; da questa consapevolezza viene la morale amara del film. Ci troviamo, insomma, di fronte a una visione sociologica fragile e orecchiata, più da canzone suggestiva che da riflessione veramente critica. In proprio il nuovo regista è caratterizzato da un singolare ossessivo feticismo fotografico. La sua America è una specie di vetrina rutilante piena di oggetti che la macchina da presa privilegia con enormi primi piani. Anche le persone diventano oggetti in questo mondo feticizzato, e così pure la loro vita e la loro morte, ambedue casuali e alienate. Guercio e sincero e perfino ingenuo; ma la sua sensibilità non oltrepassa il mestiere. Robert Blake, nella parte del protagonista è molto bravo e, a momenti, perfino commovente. Accanto a lui ma non al suo livello, bisogna ricordare Mitchell Ryan che è lo sceriffo e Billy “Green” Bush che è il suo compagno motociclista. DUEL Un uomo d’affari parte in automobile da una città americana per arrivare in serata in un’altra città. Non è un uomo ricco; viaggia in un’automobile vecchia e scassata, ormai incapace di velocità superiori alla media. Il viaggiatore esce dalla città, prende a guidare per un paesaggio montagnoso e semidesertico. Dopo un certo numero di chilometri percorsi a velocità moderata ascoltando le musiche facili e i dialoghi faceti della radio, ecco si profila sulla strada finora deserta la massa barcollante e oscura di un enorme autotreno con relativo serbatoio pieno di liquido infiammabile. Si tratta di un tipo di veicolo chiaramente antiquato: il serbatoio è di rozzo ferraccio rugginoso e annerito; il cofano ha una forma anacronistica, alta e stretta; la cabina di guida torreggia con una sagoma antidiluviana, fornita tra l’altro di uno smilzo fumaiolo che erutta in continuazione un

turbine pestilenziale. Il colore generale dell’oggetto, come più e più volte appare, nelle più diverse situazioni, sulla strada piena di luce, è oscuro, tenebroso, quasi nero. Si tratta, insomma, di un “mostro” della meccanica, sopravvissuto chissà come e ancora in piena efficienza. Tra l’altro il mostro, come si accorge ben presto l’ingenuo viaggiatore al primo sorpasso, è capace di una velocità notevolissima, senz’altro superiore a quella della sua macchina. In breve, tra la macchina del viaggiatore solitario e l’autotreno incomincia un duello di velocità; o meglio l’autotreno manifesta sempre più chiaramente l’intenzione malvagia di dare la caccia all’automobilista e provocare un incidente mortale. L’autotreno ora corre a perdifiato e quasi tampona l’automobile; ora, se questa rallenta, si ferma per aspettarla e riprendere la persecuzione. Poi, ad una sosta presso una pompa, l’autotreno addirittura si getta sull’automobilista, tenta in tutti i modi di investirlo. Ma quando l’automobilista, disperato, si ferma con l’autotreno in un ristorante e cerca tra i molti camionisti che seggono al bar, l’uomo che ha tentato di ucciderlo, non riesce a identificarlo. La corsa riprende e a nulla servono gli accorgimenti e le astuzie del malcapitato automobilista: l’autotreno lo vuole morto. Allora, la disperazione ispira al viaggiatore un’idea e anche il coraggio di metterla in atto. Spingerà a tutta velocità, a marcia indietro, la macchina contro l’autotreno, in modo che nel cozzo il serbatoio si incendi; lui salterà a terra in tempo. Il piano riesce. L’automobile si incendia, l’autotreno, investito dalle fiamme, rotola con la macchina in fondo a un burrone. L’automobilista si è liberato finalmente del suo persecutore. Questa è la storia di Duel, film americano di Steven Spielberg. Si tratta, come è ovvio, di una vicenda ad alto potenziale simbolico, di fronte alla quale anche allo spettatore di media cultura, è da credere che affiorino alla memoria una quantità di riferimenti letterari. L’autotreno omicida è la civiltà meccanica che ci opprime, è la violenza bruta che ci minaccia, è tutto ciò che è materiale, insensibile, stupido e feroce, è il Male. Così viene fatto di pensare sia a un Moby Dick di ferraglia; sia all“‘enorme Satana”, di cui parla Baudelaire, che, alla fine, come l’autotreno, è sconfitto da un “essere tutto luce, oro e velo”. Le interpretazioni sono infinite perché la vicenda è basata su un dualismo che, pur essendo estraneo alla cultura italiana, è invece fondamentale in quella anglosassone. Ma i riferimenti letterari e culturali non sarebbero possibili se non ci fosse la felice invenzione insieme realistica e fantastica dell’autotreno. Grazie a quest’invenzione straordinaria, l’aderenza al reale è mantenuta con coerenza e razionalità per tutto il film; il quale, in tal modo, può essere letto sia come un’allegoria della lotta del Bene contro il Male, sia come la storia veritiera di una terribile avventura stradale. Del camionista omicida non vediamo mai il volto così che l’autotreno sembra fornito di una sua animistica malvagità. Il  viaggiatore è Dennis Weaver molto bravo nel mantenere la sua parte nei limiti di una kafkiana genericità. MANSON E LA FAMIGLIA DI SATANA Manson e la famiglia di Satana è un film documentario di Laurence Mericks sul famoso gruppo di hippies sanguinari della California. Il regista ha messo insieme il suo film sia con sequenze girate dallo stesso Manson nel ranch di Death Valley, sia con interviste al procuratore Bugliosi, a membri del clan e infine allo stesso Manson. Inoltre il film ci fa vedere i luoghi che fecero da sfondo a questa tragedia americana: le strade squallide di Los Angeles con i loro padiglioni commerciali di un piano solo schiacciati da enormi cartelloni pubblicitari; le bidonville ai margini del deserto; il ranch con le baracche e i cavalli; Bel Air e Hollywood dove abitavano i Polanski, e così via. Quel che colpisce di più nel film è che Manson non era, come si potrebbe credere, un barbone abbrutito dalla droga, dal sesso, dal carcere e dalla miseria; bensì un uomo che sapeva, in maniera più o meno ideologizzante, quello che voleva. Certo egli aveva una mente di second’ordine e la sua

cultura non era che una razionalizzazione della sua passione vendicativa cioè una sottocultura; ma questo era anche il caso di un personaggio tanto più famoso e fortunato di lui, vogliamo dire Adolfo Hitler. Il procuratore Bugliosi cerca di convincerci che Manson “odiava la società” Ma noi non abbiamo bisogno di essere convinti; lo siamo già in partenza. Come poteva, infatti, Manson non odiare la società che l’aveva tenuto in carcere metà della sua vita? E soprattutto che non aveva saputo integrarlo e utilizzarlo? Si dirà: Manson aveva commesso vari delitti per i quali era stato giustamente condannato; e d’altra parte, non aveva qualità che permettessero il suo inserimento nella società. Ma è appunto questa la molla segreta dell’eversione sottoculturale di Manson e di Hitler: il sentimento di un’ingiustizia particolare e personale commessa ai loro danni. Beninteso, l’ingiustizia era immaginaria; la vera ingiustizia, che è sempre sociale, sfugge allo sguardo stravolto dell’individuo sottoculturale. Tutto in lui è falso, salvo un punto: ritenendosi superiore per diritto ideologico, egli non intende essere un esecutore ma un mandante. Manson non ha partecipato personalmente alla strage di Bel Air; Hitler faceva ammazzare, non ammazzava. Così essi potevano illudersi di essere nella cultura che, infatti, per quest’aspetto, rassomiglia alla sottocultura. Tuttavia, nonostante queste somiglianze, Manson è fallito e Hitler è riuscito, perché? Pensiamo che il motivo principale è che Hitler era il mostro sottoculturale giusto nel momento giusto e Manson no. Ma ci sono almeno altri due motivi importanti. Il primo è che la rivolta di massa non è permissiva ma moralistica. Hitler, rivoltato contro una borghesia decadente, poteva facilmente atteggiarsi a moralista. Disgraziatamente per Manson, avendo a che fare con una middle class, tutto sommato puritana e repressa, egli ha dovuto porre l’accento sulla permissività sessuale e questo gli ha nociuto proprio presso quelle masse che avrebbe voluto sollevare. Il secondo motivo è rivelato chiaramente dal film di Merick. Chi è Manson, chi sono i suoi seguaci? Sono donne sporche, puzzolenti, vestite di stracci; uomini barbuti, pidocchiosi, sudici; bambini selvaggi e irsuti. Ma perché sono così? Perché le SA hitleriane, con un corredo ideologico altrettanto aberrante, erano invece pulite, ben vestite, ordinate, disciplinate? Il motivo è che Manson, a differenza di Hitler, non aveva capito che le idee, sia pure quelle della sottocultura, hanno bisogno di denaro, di molto denaro per imporsi. Hitler predicava la rivoluzione; ma, in segreto, riceveva denaro dagli industriali. Manson, invece, era disinteressato. Il fatto che Manson, alla fine, sia stato condannato a morte come omicida, depone in fondo a suo favore. Con lo stesso genere di pseudoidee, con la stessa mente di second’ordine, con delitti non meno atroci e infinitamente più numerosi, Hitler è invece andato al potere legalmente, attraverso il voto favorevole di un’intera grande nazione. A questo punto qualcuno obietterà che Manson e Hitler non sono paragonabili e che il mio ragionamento non regge. E io rispondo che esso regge per quanto riguarda cultura e sottocultura. Tutto il resto è questione di grandezza, non di sostanza. L’ULTIMA CASA A SINISTRA In una villetta in campagna, due genitori preparano una festicciola per l’anniversario della giovanissima figlia. Ma la figlia annunzia che vuole andare in città con una sua amica; la festa si farà al suo ritorno. Lo scopo della gita in città è procurarsi della marijuana; che serve essere giovani, se non si è anche drogati? Un hippy spilungone, dall’aria ebete, che se ne sta all’angolo di una strada, pare alle due ragazze quello che ci vuole. E infatti alla richiesta della droga, lui risponde che lo seguano a casa sua, la droga è là. Lo seguono; ma, invece della droga, trovano una banda di quattro spietati assassini di recente evasi da un penitenziario. Le due ragazze sono percosse, tagliuzzate, denudate e, alla fine, violentate. Viene la notte, allora i quattro stordiscono le loro vittime con la droga, le legano e imbavagliano, le mettono nel portabagagli della loro automobile e lasciano la città. Il caso vuole che la macchina abbia un guasto proprio a pochi passi dalla villetta in cui è stata preparata invano la festa per la figlia assente. I quattro tirano fuori le due ragazze dal

portabagagli, le spingono in un bosco e lì ricominciano, con accresciuta ferocia, a torturarle. Le costringono, con la punta del pugnale, a orinarsi addosso; a fare l’amore tra di loro; a concedersi. Una scappa, gli assassini l’inseguono, la raggiungono, la violentano, la finiscono a pugnalate, la fanno a pezzi con un “machete”. L’altra, dopo un ultimo stupro, è costretta a camminare fin nel mezzo di un fiume e lì uccisa nell’acqua, a rivoltellate. Ma anche per gli assassini, la morte non tarda. I genitori di una delle ragazze li ospitano per la notte, in qualche modo scoprono il delitto, allora decidono di vendicare la figlia. Che faranno con ferocia pari a quella degli assassini, coi denti, col pugnale, con la sega elettrica. Questa la storia di L’ultima casa a sinistra di Wes Craven. Si tratta di un film di rozzissima fattura e, per metà almeno, privo di qualsiasi interesse. Ma l’altra metà ha una sua validità se non artistica almeno psicologica. A dirla in breve, L’ultima casa a sinistra è un film sadico, altrettanto sadico che Justine; ma il regista non se n’è accorto. Ha creduto di fare uno dei soliti film neri, di puro consumo, costruiti sullo schema tradizionale della legge del taglione. Senonché il sadismo di fondo affiora in alcuni caratteri della storia. Quali sono questi caratteri? Sono, esattamente come in De Sade, la convenzionalità dei ruoli da una parte, e l’autenticità dei dettagli crudeli dall’altra. Da una parte abbiamo due genitori modello in quanto affezionati alla loro figlia, e quattro assassini esemplari in quanto evasi dal penitenziario; dall’altra alcuni particolari, come quello dell’amore lesbico imposto con la minaccia di morte, che non si inventano ma si “sentono”. Purtroppo, però, il regista come abbiamo già notato non si è accorto di avere tra le mani un film sadico; se se ne fosse accorto, la materia avrebbe lievitato surrealmente per quel tanto di gioco che è proprio del sadismo in arte e che rende “filosofica” la crudeltà. Così, ha commesso l’errore di far finire bene (cioè con la punizione dei malvagi) il suo film; mentre, invece, secondo la logica di De Sade che è anche quella, se non della società, per lo meno della vita a livello biologico, il vizio avrebbe dovuto restare impunito e venire magari premiato. Ora perché il vizio avrebbe dovuto essere premiato? È giunto il momento di dirlo: perché esso è premiato nell’animo stesso dei viziosi, con la partecipazione della loro sensibilità alla crudeltà, come appunto era premiato nell’animo di De Sade. Ma De Sade lo sapeva, e ha salvato il salvabile razionalizzando la crudeltà; gli autori del film non lo sanno e, alla fine, pur concedendo che hanno “sentito” la crudeltà, bisogna dire che la vicenda del loro film rassomiglia molto a quella di una mosca a cui un ragazzino annoiato e inconscio strappa prima le ali, poi le zampe, infine la testa. La mosca continua a muoversi e il ragazzino si diverte. Quanto a dire che la crudeltà è immaturità, incompletezza e innocenza. Soltanto la ragione può renderla matura, completa e colpevole. UN AMLETO DI MENO Ammiro da anni Carmelo Bene perché lo considero un attore e regista di grande originalità o meglio qualche cosa di più che un attore e un regista: un artista, un poeta. A mio parere il suo carattere principale, raro dovunque ma soprattutto in Italia, è la carica di rabbiosa protesta, di viscerale contestazione che si porta addosso fin dagli inizi e che con gli anni non accenna a diminuire. Per questo penso spesso a lui come all’interprete e regista di una vicenda vera, di cui ho saputo recentemente e che sarebbe realmente avvenuta proprio in quella Puglia in cui Carmelo Bene è nato e ha fatto le prime esperienze della sua vita. È una storia un po’ anacronistica, nel senso che rispecchia la visione del mondo della civiltà contadina che, ormai, in Europa è quasi scomparsa ma, giova sottolinearlo, ancora sopravvive nell’Italia meridionale. Comunque si tratta di questo. In una fattoria (oppure in un castello: fa lo stesso), un uomo uccide con il veleno il fratello per soppiantarlo nella proprietà delle terre e nel letto della moglie. C’è però un figlio, studente di lettere a Bari, uno strambo, un originale di paese, il quale viene a sapere in qualche modo del delitto e decide di vendicare il padre. Per meglio giungere al suo scopo, si finge pazzo e, tra l’altro, in un accesso della

sua finta pazzia, uccide il padre della propria fidanzata. Quest’ultima, dal dolore, si uccide gettandosi in un fiume; e allora il finto pazzo passa decisamente all’azione e ammazza tutti quanti: zio, madre, fratello della fidanzata, se stesso. Ecco la storia. Mi rendo conto che si tratta di una materia molto rozza e molto primitiva, quasi di un delitto d’onore, anche se curiosamente mescolato con le ambiguità del complesso di Edipo; ma, come ho già osservato, essa rispecchia una visione del mondo forse anacronistica ma ancora viva nelle parti meridionali dell’Italia. Del resto Carmelo Bene che è pugliese e conosce senza dubbio a fondo la propria regione, saprà ricavare da questa storia di contadini (o di castellani: fa lo stesso) balorda e incredibile, un magnifico dramma o un non meno ammirevole film. E perché questo? Perché la storia pare fatta apposta per permettergli di sfogare una buona volta tutta la carica della sua rabbia, della sua rivolta, della sua nausea. A questo punto qualcuno che da un pezzo freme di intervenire, grida: “Alto là. Ma questa pretesa vicenda pugliese non è altro che l’Amleto di Shakespeare. E il film è stato già fatto. È Un Amleto di meno che appunto Carmelo Bene ha girato recentemente.” Preso in questo modo di contropiede, rispondo: “Piano. La vicenda che ho raccontato è realmente avvenuta qualche centinaia di anni or sono in Danimarca; e, Shakespeare, che era anche lui un poeta, ne ricavò la tragedia che porta il nome di Amleto. Ma Carmelo Bene non ha fatto come Shakespeare. Invece di girare un film su un evento reale ha fatto del cinema a partire da una composizione letteraria e precisamente dal dramma che Shakespeare ha ricavato a suo tempo dagli avvenimenti di Elsinore. In altri termini, si è occupato non già di Amleto ma di Shakespeare, o meglio della maniera con la quale Shakespeare si è occupato di Amleto. Ora la domanda che vorrei fare è questa: come può credere Carmelo Bene che la sua rivolta, la sua protesta, la sua rabbia possano trovare espressione adeguata su un pretesto letterario e culturale? Non sarebbe stato preferibile che lui le avesse appuntate contro le figure reali di una società reale in un mondo reale?” Mi accorgo a un tratto che trasportato dalla foga ho oltrepassato Carmelo Bene e il suo Un Amleto di meno. Torniamo indietro. Dunque questa volta Carmelo Bene se l’è presa con un capolavoro che, per così dire, è stato scritto in modo da includere nelle proprie strutture anche quella della parodia. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l’Amleto shakespeariano non può essere messo in caricatura perché l’operazione la fa continuamente proprio il protagonista colpito, come è noto, da quello stesso lucido e furente senso di impotenza creativa che è all’origine di ogni parodia. Carmelo Bene questo lo sa benissimo e infatti nel suo Un Amleto di meno non c’è una parodia bensì il dramma di un attore, cioè di Carmelo Bene alle prese con un personaggio di cui non si può fare la parodia. Carmelo Bene, di fronte a questa impossibilità, ora scuote velocemente i vetri multicolori di un frenetico caleidoscopio; ora sbatte sullo schermo un paio di natiche femminili di rotonda eloquenza; ora smania e si dibatte come un tiranno epilettoide alla sua ultima ora, e infatti muore esclamando come Nerone: “Qualis artifex pereo.” L’impossibilità della parodia, in questo film si esprime nella nostalgia disperata della recitazione seria, realistica, profonda, tragica, quella appunto che un tempo permetteva di portare sulle tavole della ribalta l’Amleto shakespeariano e che oggi per una quantità di ragioni non è più possibile. Questo dimostra se non altro che la violenza contestatrice di Carmelo Bene dovrebbe lasciare le secche esauste della letteratura e scagliarsi contro qualche cosa di reale. Magari contro se stesso. LA GRANDE BOUFFE Ho visto ieri sera La grande bouffe di Marco Ferreri e mi è sembrato a un tratto di capire che le proteste degli spettatori di Cannes e altrove contro questo film e contro altri non meno inconsueti come quello di Bertolucci, erano quelle di una società in fondo formalista contro l’infrangimento delle norme di buona creanza da lei stessa istituite. Con Tango si potevano avere dei dubbi; con La grande bouffe, no. In realtà la buona educazione vieta che si parli delle proprie prodezze erotiche

come dei disturbi della digestione. Non si tratterebbe dunque di morale; ma di galateo. La differenza è importante: la morale proibisce di fare certe cose tanto in pubblico che in privato; la buona educazione vieta di farle in pubblico ma le ammette in privato. Alla luce di queste riflessioni La grande bouffe sarebbe dunque nient’altro che un film “maleducato”. Ma sarà poi vero? La storia è delle più semplici, della semplicità, però, lineare e dimostrativa che è propria degli apologhi. Dunque, un pilota, un giudice, un proprietario di ristorante e un animatore di programmi televisivi decidono di abbandonarsi senza freni alle loro due passioni dominanti, la gola e la lussuria. A questo fine, organizzano un’orgia di tipo classico, del genere della cena di Trimalcione, in una vecchia dimora parigina in stile liberty cioè dell’ultimo periodo egemonico della borghesia. Il cibo, in abbondanza strabocchevole e inverosimile, sarà cucinato dai quattro amici medesimi; il sesso sarà fornito da alcune compiacenti professioniste. Ora si sa come finivano le orge ai tempi di Petronio: con un sonno riparatore. Ma Ferreri, come abbiamo già detto, ha voluto fare un apologo, ha inteso dimostrare qualche cosa. Così i quattro amici si autocondanneranno a una specie di suicidio “erotico-gastronomico”. Con lo stomaco traboccante e i genitali svuotati, moriranno uno dopo l’altro, mangiando e copulando. Nella casa non resteranno che i cani a ululare alla morte. Marco Ferreri è il nostro regista più autenticamente ed esclusivamente moralista. Il suo moralismo può esprimersi in maniera direttamente realistica; oppure allegorica; oppure ancora fondendo realismo e allegoria; ma gli sarà sempre preclusa l’invenzione stilistica nonché la sospensione del giudizio. L’invenzione di Ferreri è nudamente contenutistica; e il suo giudizio è sempre incombente. Ne segue una rappresentazione spietata e senza sfondi positivi che oscilla tra l’humour nero e la satira di costume e rivela una lontana, archetipica origine cristiana anzi biblica. La grande bouffe, prim’ancora che un attacco al “sistema” occidentale, com’è, per esempio, Il fascino discreto della borghesia che in fondo tratta lo stesso argomento, è una specie di sacra rappresentazione in cui è descritta la fine che aspetta i ghiottoni e i lussuriosi. Mentre Buñuel è “attuale”, Ferreri, almeno in questo film, è “eterno”; e infatti non ci si meraviglierebbe troppo di vedere, alla fine, alcuni diavoli armati di forconi portarsi via le anime dei quattro protagonisti. Dunque Ferreri non è un “maleducato” che indulge a peti e a rutti; ma un predicatore che vuol ricordare che al mondo non ci sono soltanto il cibo e il sesso. Questo predicatore è forte, fortissimo soprattutto nella rappresentazione schifata e crudele della bulimia dei suoi personaggi. In questo senso La grande bouffe è un film di notevole originalità, geniale in più punti e, nel suo genere, unico. I caprioli, i porcellini, i volatili, le bistecche, le pastasciutte, le minestre, le terrine e i budini di Ferreri hanno la verità nera e dannata del peccato che si commette non solo per piacere ma anche per empia sfida. I personaggi mangiano con voracità, con gusto, con stanchezza, con sforzo; mai semplicemente con appetito. Il mangiare per loro è un vizio, non un bisogno. Invece lo stesso non si può dire del sesso che, nel film, dovrebbe avere la stessa importanza peccaminosa del cibo. Forse i peccati si escludono e bisogna trattarli uno per volta; forse Ferreri non ha l’ossessione del sesso come del cibo. Certo i suoi seni, i suoi pubi, le sue natiche femminili non hanno la necessità e la plasticità dei suoi arrosti e delle sue minestre. Il migliore dei quattro attori è Philippe Noiret, un ghiottone e un erotomane triste e intelligente. Ugo Tognazzi ha delle impennate di bravura grottesca. Michel Piccoli è soltanto convincente. Marcello Mastroianni non è neppure questo. Una menzione speciale merita Andrea Ferreol, dal nudo rubensiano, brava nella lussuria come nella ghiottoneria.

INDICE DEI NOMI

Registi Albicocco Jean-Gabriel Aldrich Robert Allen Woody Allio René Altman Robert Anderson Lindsay Anger Kenneth Antonioni Michelangelo Argento Dario Arkin Alan Avildsen John Bellocchio Marco Bene Carmelo Bergman Ingmar Bertolucci Bernardo Boisset Yves Bolognini Mauro Boorman John Bresson Robert Brook Peter Buñuel Luis Camerini Mario Castiglioni Alfredo Castiglioni Angelo Cavani Liliana Chaplin Charlie

Clair René Clementi Pierre Coppola Ford Francis Corman Roger Craven Wes Damiani Damiano Disney Walt Ehmk Gustav Eisenstein Fellini Federico Ferreri Marco Flaherty Forman Milos Frezza Friedkin William Gavras Costa Germi Pietro Giannarelli Ansano Godard Jean-Luc Guercio James William Guerrasio Domenico Harris James Harvey Anthony Has Wojciech Hill George Roy Hiller Arthur Hopper Dennis Hughes Ken Huston John Jancsó Miklós Kadar Jan Klein William Klos Elmar Kramer Stanley Kubrick Lattuada Alberto Lean David Leaud Jean-Pierre Lelouch Claude Lester Richard Leto Marco Lewis Gilbert Lionello Alberto Lizzani Carlo Loach Kenneth Losey Joseph Lumet Sidney Malle Louis

Marker Chris Markopoulos Gregory Maselli Francesco Menzel Jiri Mericks Laurence Mizoguchi Montaldo Giuliano Morrissey Paul Mulligan Robert Muzi Enzo Pabst Pakula Pasolini Pier Paolo Patroni Griffi Giuseppe Peckinpah Sam Pellini Oreste Penn Arthur Perry Frank Petri Elio Polansky Roman Pontecorvo Gillo Quilici Folco Rafaelson Bob Resnais Alan Richardson Toby Risi Nelo Robson Rosi Francesco Ross Herbert Rossellini Roberto Russell Ken Samperi Sarafian Richard Schaaf Johannes Schlesinger John Schlöndorff Volker Schroeder Barbet Scola Ettore Seta Vittorio De Shindo Kaneto Sica Vittorio De Sjoman Vilgot Spielberg Steven Straub Jean-Marie Talankin Igor Tati Jacques Tognazzi Ugo Truffaut François

Vadim Roger Vancini Florestano Varda Agnès Vicario Marco Visconti Luchino Welles Orson Zampa Warhol Andy Zeffirelli Franco Zetterling Mai

Attori Aimée Anouk Allen Woody Andersson Bibi Annis Francesca Anspach Susan Apra Pier Luigi Arandjelovic Stojan Arkin Alan Audran Stephane Balducci Armenia Bardot Brigitte Bates Alan Beatty Ned Beck Julian Belmondo Jean-Paul Bendova Ilitka Bene Carmelo Beneyton Yves Bergen Candice Berger Helmut Berkhold Berhild Bertheau Julien Berto Juliette Betti Laura Biette Jean-Claude Birri Fernando Björnstrand Gunnar Black Caren Blaise Jean Blake Robert Boccardo Delia Bogarde Dirk Bolkan Florinda Bouquet Michel Boyle Peter Bradford Richard Brando Marlon Brejhova Hana Bron Eleanor Brook Claudio Bruijin Leo De Burton Richard Bush Billy Green Caine Michael Caire Audrey Campo Cesar Del Capolicchio Lino Cargol Jean-Pierre Carlisi Olimpia Cassel Jean-Pierre Castel Lou Celi Adolfo Cevallos Fabian Chaplin Charlie Chaplin Geraldine Carrière Christie Julie Cittì Franco Clementi Pierre Cortese Valentina Courtenay Tom Cox Ronny

Cruz Andres Jose Cucciolla Riccardo Cusack Ciril Dallesandro Joe Darby Kim Delon Alain Deneuve Catherine Denner Charles Dexter Rosemarie Dickinson Angie Ek Anders Ekland Britt Fabbri Marisa Fabbro Nino Del Faggioni Piero Falk Rossella Falsi Antonio Farmer Mimsy Ferreol Andrea Ferzetti Gabriele Finch John Finch Peter Fonda Jane Fonda Peter Fossey Brigitte Fox James Franjin Guy Frankeur Paul Fraser John Fratello Rosanna Frechette Mark Fresson Bernard Gallardo Lucy Galvani Graziella Garko Gianni Garrani Ivo Garriba Mario Gastoni Lisa George Susan Gerace Liliana Giannini Gian Carlo Gielgud John Girardot Annie Girotti Massimo Goddard Paulette Gora Claudio Gould Elliott Goya Chantal Gravina Carla Graziosi Paolo Grunberg Klaus Guinnes Alec Haggiag Brahim Head Murray Hell Erik Hepburn Katharine Hoffman Dustin Hoffman Robert Hopkins Miriam Hopper Dennis Houghton Katharine Ivernel Daniel Jackson Glenda Jeanson Francis

Kaminska Ida Keen Geoffrey Kraus’s Werner Kroner Jozef Lancaster Burt Lauricella Ennio Léaud Jean-Pierre Lind Lara Linden Jennie Loren Sophia Loy Nanni Lozano Margarita Lullo Giorgio De Lyman Lena Mac Graw Ali Magnani Anna Mancinelli Lydia Manfredi Nino Mangano Silvana Mann Claude Marchi Laura De Margine Marco Mari Glauco Marotta Gea Marshall Martin Jean Masè Mauro Mason James Mastroianni Marcello Mc Dermott Pat Menor Reno Merli Adalberto Maria Mifune Toshiro Milian Tomas Milland Ray Mitchell Yvonne Montand Yves Moriconi Valeria Moschin Gastone Musante Tony Nechar Vasciav Newman Barry Nicholson Jack Noiret Philippe Nymark Leif O’Neal Ryan O Shea Milo O’Toole Peter Occhini Ilaria Ogier Bulle Oliver Thelma Orfeo Valentino Orsay Ghislaine D. Otowa Nobuko Pacino Al Padovani Lea Page Geneviève Papas Irene Parolini Marilù Patrick Dennis Patrick Nigel Patte Jean-Marie Perier François Perrin Jacques

Petrelli Giuliano Piccoli Michel Piccolo Ottavia Pinal Silvia Piperno Giacomo Pitagora Paola Plummer Christopher Podestà Rossana Poitier Sidney Price Vincent Prince William Proietti Luigi Pucholt Vladimir Rabal Francisco Rambal Enrique Rampling Charlotte Randone Salvo Ranieri Massimo Redford Robert Redgrave Vanessa Reed Oliver Rey Fernando Reynolds Burt Rigillo Mariano Rule Janice Ryan Mitchell Saadi Yacef Sachs Michael Salerno Enrico Maria Salines Antonio Salvadori Renato Sanchez Jaime Sanda Dominique Sandrelli Stefania Santuccio Gianni Sapienza Goliarda Sarandon Susan Sarchielli Massimo Sassard Jacqueline Sassi Aldo Scarpa Renato Schneider Marie Schneider Romy Seberg Jean Semenisko Michel Seyrig Delphine Sharif Omar Shepherd Elizabeth Silvye Skerrit Tom Sordi Alberto Sorel Jean Stamp Terence Steele Barbara Steiger Rod Surina Daniela Sutherland Donald Sydow Max von Tattoli Elda Taylor Elizabeth Testi Fabio Thulin Ingrid Tobias Oliver Tognazzi Ugo

Totò Tracy Spencer Tramonti Sergio Trintignant Jean-Louis Truffaut François Tushingham Rita Ullmann Liv Valli Romolo Vida Piero Voight John Volonté Gian Maria Vukotic Milena Weaver Dennis Webb Alan Welles Orson White Carol Wiazemsky Anne Widmark Richard Willmer Catherine Wilson George Wilson Scott Wood Natalie Yoshimura Jitsuko

INDICE GENERALE

Introduzione Come si guarda un film. Intervista di Giuseppe Catalano Marat-Sade Nazarin Libertà e paura Festa per il compleanno del caro amico Harold Donne in amore Totò a colori Rifiuti Le stagioni del nostro amore I pugni in tasca Stato di allarme Svegliati e uccidi L’angelo sterminatore Gioventù, amore e rabbia Maschile, femminile Onibaba Repulsione Lo strano mondo di Daisy Clover La tomba di Ligeia Gli amori di una bionda La caccia Un uomo a metà Giochi di notte Alfie Manoscritto trovato a Saragozza Il dottor Zivago L’avvento al potere di Luigi XIV La battaglia di Algeri Persona

La contessa di Hong Kong A ciascuno il suo L’uomo del banco dei pegni La bisbetica domata L’immorale Negozio al corso Dolci vizi al foro Edipo re La donna maritata Vivere per vivere La Cina è vicina Bella di giorno Lo straniero C’era una volta… Il garofano verde Riflessi in un occhio d’oro Porcile Lontano dal Vietnam La cinese Indovina chi viene a cena? Playtime Il gran Meaulnes Treni strettamente sorvegliati Teorema Tre passi nel delirio Poor cow Falstaff Un uomo a nudo La vergogna I turbamenti del giovane Torless Un tranquillo posto di campagna Nude restaurant L’armata a cavallo I misteri di un’anima 2001. Odissea nello spazio Il seme dell’uomo Il leone d’inverno La caduta degli dei Un uomo da marciapiede La mite Se… L’orgia del potere Chronique d’Anna Magdalena Bach Metti, una sera a cena Quattrocentonovantuno Tatuaggio La via lattea Diario di una schizofrenica Nostra signora dei turchi Venga a prendere il caffè… da noi Leone l’ultimo Don giovanni Mash

La macchia rosa More (di più, ancora di più) I cannibali Lenin Scorpio rising Lettera aperta ad un giornale della sera Political portraits La mia droga si chiama Julie Sierra maestra Othon Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto Africa ama Oceano Alice nel paese delle meraviglie Il signor Hulot nel caos del traffico Messaggero d’amore I diavoli Addio fratello crudele Una squillo per l’ispettore Klute Una stagione all’inferno Grissom gang Il decameron Couch Cinque pezzi facili Punto zero Le soufflé au coeur Love story La vieille dame indigne La guerra del cittadino joe Sacco e Vanzetti Morte a Venezia Il ragazzo selvaggio Il rito Bubù di Montparnasse Macbeth Salomè Un tranquillo week-end di paura L’attentato Girolimoni Il padrino In nome del padre Piccoli omicidi L’assassinio di Trotzki Bronte cronaca di un massacro Heat Domenica, maledetta domenica Roma Tempi moderni Il cane di paglia Ultimo tango a Parigi Trevico-Torino Anna Magnani La villeggiatura

Mattatoio 5 Paolo il caldo La fessura Con una mano ti rompo e con due piedi ti spezzo Non ho tempo Il fascino discreto della borghesia Il grande dittatore Prendi i soldi e scappa Electra glide Duel Manson e la famiglia di satana L’ultima casa a sinistra Un amleto di meno La grande bouffe Indici

Finito di stampare nel mese di ottobre 1975 dalla Edigraf s.r.l. – Segrate (Milano)