Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V 8891318647, 9788891318640, 9788891318664

Un tentativo di fissare qualche informazione sulle vicende biografiche di Elio Marciano non puo che prendere le mosse da

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Scriptores ivris Romani, 4

Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone

Volumi pubblicati: 1. Quintus Mucius Scaevola. Opera Jean-Louis Ferrary, Aldo Schiavone, Emanuele Stolfi (2018) 2. Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III Giovanni Luchetti, Antonio L. de Petris, Fabiana Mattioli, Ivano Pontoriero (2018) 3. Antiquissima iuris sapientia. Saec. VI-III a.C. Anna Bottiglieri, Annamaria Manzo, Fara Nasti, Gloria Viarengo. Praefatores Valerio Marotta, Emanuele Stolfi (2019) 4. Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V Domenico Dursi (2019)

Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone 4

AELIVS MARCIANVS INSTITVTIONVM LIBRI I–V Domenico Dursi

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

European Research Council Advanced Grant 2014 / 670436

Scriptores iuris Romani Principal Investigator Aldo Schiavone, Sapienza - Università di Roma Host Institution Sapienza - Università di Roma, Dipartimento di Scienze giuridiche Senior Staff / Comitato editoriale Oliviero Diliberto, Sapienza - Università di Roma Andrea Di Porto, Sapienza - Università di Roma Valerio Marotta, Università di Pavia Fara Nasti, Università di Cassino e del Lazio meridionale Emanuele Stolfi, Università di Siena Direzione della collana Aldo Schiavone Coordinamento della redazione Fara Nasti Redazione Domenico Dursi, Alessia Spina

Volume sottoposto a doppia peer review © Copyright «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER® 2019 Via Marianna Dionigi, 57 - 00193, Roma - Italy Scriptores iuris Romani.4. -1(2019) Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2019. -v.; 24 cm. ISBN CARTACEO: 978-88-913-1864-0 ISBN DIGITALE: 978-88-913-1866-4 ISSN: 2612-503X CDD 349.37 1. Diritto romano

INDICE

I INTRODUZIONE Alla ricerca di Elio Marciano

3

II TESTIMONIA TRADIZIONE MANOSCRITTA

15

III INSTITUTIONUM LIBRI

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

L’OPERA

19

I resti Una possibile datazione La sistematica Le citazioni: Marciano e la giurisprudenza Marciano e Papiniano I temi e la cultura I destinatari Appendice

19 23 25 37 46 52 60 62

FRAGMENTA

64

Libri I - V

64

IV COMMENTO AI TESTI Libro I Libro II Libro III Libro IV Libro V

101 126 151 179 200

APPARATI E INDICI Bibliografia Abbreviazioni Giuristi citati Fonti antiche

207 227 229 231

I INTRODUZIONE

ALLA RICERCA DI ELIO MARCIANO

1. Un tentativo di fissare qualche informazione sulle vicende biografiche di Elio Marciano non può che prendere le mosse dall’unico dato certo a nostra disposizione. Egli visse e operò sotto la dinastia severiana, un’epoca che fu “un tessuto di contraddizioni disperate” caratterizzata, almeno in parte, dal “divorzio tra il diritto ufficiale e la viva realtà”1. Un torno di tempo di imponenti trasformazioni che pose le fondamenta per un’organizzazione politica inedita: un primo nucleo di statualità andava emergendo, fondato su una macchina amministrativa ben strutturata, elaborata, in larga misura, dall’ultima generazione di grandi giuristi2. Furono anche gli anni in cui il cristianesimo iniziò ad avere un ruolo progressivamente crescente nella società e non sembra casuale che proprio sotto i Severi la giurisprudenza iniziò a dedicare attenzione al fenomeno3 che di lì a breve avrebbe condizionato tanto in profondità la società romana, nonostante i tentativi del potere imperiale di opporre, almeno in una fase iniziale, qualche effimera resistenza4. L’avvilupparsi di questi eventi, poi, ebbe quale detonatore una crisi economica, e non solo, lacerante, causata dalla difficoltà di sostenere i costi della crescente burocrazia e dalle sempre maggiori pressioni ai confini. Questa congerie di circostanze determinò il primo sfaldamento della società che avrebbe avuto quale più immediata conseguenza la separazione tra le due parti dell’impero. Ma vi era qualcosa di più profondo: una “crisi di autorità”, causata dalla progressiva perdita di consenso della classe dominante per cui “le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui credevano”. In sostanza, un’epoca stava per concludersi gettando le basi per

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Sono parole di Mazzarino 1974, 70 ss. Schiavone 1996, 208 s.; Schiavone 2017, 377; De Giovanni 2007, 84. 3 Lat. div. inst. 5.11 (Lenel 1889.II, 975): Domitius de officio proconsulis libro septimo rescripta principum nefaria collegit, ut doceret quibus poenis adfici oporteret eos qui se cultores dei confiterentur. (Domizio, nel settimo libro del de officio proconsulis, raccolse gli scellerati rescritti imperiali per spiegare quali erano le pene che si dovevano infliggere a quelli che si professavano adoratori di Dio). È fuor di dubbio che per Domizio debba intendersi Domizio Ulpiano: non ha dubbi, al riguardo, Lenel. 4 Si pensi al provvedimento di Settimio Severo contro il proselitismo giudaico-cristiano e al ruolo di Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, la quale, pure, si prodigò sul piano culturale nella difesa della religione pagana. Su questi temi si veda, ex multis, Sordi 1965, 217 ss.; Dal Covolo 1989, 38 ss.; Jossa 1991, 254 nt. 93. 2

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Domenico Dursi un mondo nuovo, almeno per l’Occidente, che però ancora non poteva nascere5. È questo, sia pur appena abbozzato, il proscenio dell’attività di Elio Marciano. La sua vita è a noi praticamente ignota. Ciò, in effetti, è reso evidente dalla scarna sezione di questo volume dedicata alle testimonianze intorno al giurista, come si vedrà, esigue quantitativamente e, comunque, molto avare di informazioni significative. Il dato, del resto, era già stato registrato al crepuscolo dell’‘800, nella voce relativa al maestro severiano6, redatta da Paul Jörs per la Pauly Wissowa, il quale, in maniera netta, affermava come non vi fossero notizie circa nascita, carriera, morte. Buckland7 si limitava ad asserire l’impossibilità di fissare con certezza gli estremi biografici di Marciano. Kunkel8, ancora, sottolineava l’assenza di informazioni in merito alla vita e alla carriera del maestro severiano e, inoltre, soggiungeva come il nome Elio Marciano ricorresse in tutto l’impero, il che escludeva anche la sola possibilità di individuare l’origine del nostro giurista9. Inoltre, rilevava come non pochi senatori e non pochi cavalieri recassero questo nome. Ancora. Lo studioso segnalava come, per lo più, i senatori e i cavalieri identificati come Aelii fossero vissuti nella seconda parte del II secolo d.C. e avessero, assai spesso, cognomina greci: si sarebbe trattato, pertanto, di personaggi che avrebbero conseguito la cittadinanza romana nel periodo tra Adriano e gli Antonini, torno di tempo al quale, verosimilmente, si può ricondurre il contesto familiare del maestro severiano. Non vi sono, tuttavia, notizie circa l’appartenenza del nostro scriptor iuris a circoli di nuovi cittadini. Tra i tanti, peraltro, possiamo ricordare un Elio Marciano proconsul Baeticae (peraltro ricordato come Aurelio Marciano in Coll. 3.3.3.110), destinatario – apprendiamo da Ulpiano11 e dalle Istituzioni di Giustiniano – di un notissimo rescritto con cui l’imperatore Antonino Pio poneva un freno alle ingiustificate angherie dei padroni nei confronti degli schiavi12. Quali fossero i rapporti con il giurisperito Marciano è difficile dire, al di là della mera constatazione dell’omonimia. Ciononostante, proveremo, in base all’analisi dei testi a noi pervenuti, a formulare qualche ipotesi quanto meno rispetto agli anni in cui si esplicò la sua attività. 2. Qualche supposizione sulla vita e sulla carriera di Elio Marciano è stata, per vero, prospettata da Honoré13 nel suo lavoro sui giuristi severiani, sulla base delle citazioni di provvedimenti imperiali. Egli proponeva quali possibili estremi della vicenda biografica di Marciano il 180

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Formule e concetti di Gramsci 1975, 311. Jörs 1893, c. 523. 7 Buckland 1936, 276. 8 Kunkel 2001, 258; in parte diversamente Liebs 2011, 51, il quale ipotizza che il nostro provenisse dall’Asia minore. 9 In tal senso, da ultimo Fressura, Mantovani 2018, 632 ss. L’importante lavoro è stato pubblicato quando questa ricerca era già stata chiusa: se ne è tenuto conto, dunque, nella misura del possibile, spesso constatando la coincidenza con la ricostruzione da me proposta; in qualche caso, invece, segnalando la divergenza. Si coglie, altresì, l’occasione per ringraziare Marco Fressura che mi ha prontamente messo a disposizione il contributo. 10 Sul passo, diffusamente, Lucrezi 2001a, 62 ss. 11 Ulp. 8 de off. proc., D. 1.6.1.2; Inst. 1.8.2. 12 Recentemente, su questo provvedimento inquadrato nell’ambito di una politica legislativa volta a sanzionare l’abuso del diritto, si veda Longchamps De Bérier 2013, 13 ss. 13 Honoré 1962, 189 ss. e 212 s. 6

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Alla ricerca di Elio Marciano d.C. e un periodo compreso tra il 229 e il 235 d.C. Inoltre, l’autore tentava di colmare le lacune relative alla formazione e alla carriera del giurista immaginando che egli avrebbe svolto il proprio discepolato presso Cervidio Scevola tra il 194 e il 199; sarebbe, quindi, stato collaboratore di Ulpiano presso l’ufficio a libellis e avrebbe ricoperto incarichi nell’amministrazione imperiale tra il 212 e il 217; dal 217 al 222 si sarebbe dedicato alla stesura delle sue opere e, tra il 229 e il 235 avrebbe ricoperto l’incarico di a libellis. L’attività all’interno della burocrazia imperiale si desumerebbe dalla notevole mole di citazioni di costituzioni imperiali, un dato, indubbio, che deve, almeno in certa misura, lasciar riflettere nel senso che potrebbe quanto meno segnalare una qualche dimestichezza con l’apparato imperiale14. Occorre, tuttavia, precisare in primo luogo come non manchino elementi per ritenere che tra il 194 e il 199 Scevola non fosse più attivo15. Del resto, Honoré medesimo pone in rilievo come si tratti di mere ipotesi non supportate da alcuna prova. Proprio in ragione di tanto, De Giovanni16 segnalava come i dati raccolti dallo studioso non fornissero certezze ma, al più, punti di orientamento. Sulla base delle citazioni, anche molto precise, di passi della letteratura greca, della presunta predilezione per il ricorso ad espressioni greche che, congiuntamente allo stile, lo accomunerebbe ad Ulpiano, Liebs17 ha sostenuto che il nostro sarebbe stato allievo di quest’ultimo e, se non proprio suo conterraneo, quanto meno nativo di una provincia orientale dell’impero. Tuttavia, lo stesso autore non manca di rilevare come ciò che noi sappiamo di Marciano dipenda esclusivamente dai suoi scritti. A tal proposito, Liebs, proprio sulla base di un testo marcianeo, ricaverebbe qualche informazione in merito alla possibile professione del giureconsulto. Osserviamo: Marc. lib. sing. de del., D. 40.15.1.4: (…) et Marcellus libro quinto de officio consulis scripsit posse: ego quoque in auditorio publico idem secutus sum. Anche Marcello nel libro quinto sull’ufficio del console scrisse che può; anche io nel pubblico auditorio (auditorio publico) ho sostenuto la stessa cosa.

Il breve lacerto riportato interessa in questa sede in quanto Marciano dichiara di aver sostenuto in auditorio publico una tesi avanzata da Marcello relativa alla non ammissibilità della prescrizione quinquennale concernente le liti volte a conseguire l’elevamento dello status del defunto18. Da ciò, Liebs desume che il nostro giurista avesse svolto lezioni aperte al pubblico in una sede didattica19. È stato, infatti, osservato, nell’ambito di una linea interpretativa co-

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Sull’accessibilità ai giuristi delle cancellerie imperiali si veda Palazzolo 1998, 278 ss.; Varvaro 2006, 381 ss. Jörs 1889, 1989; Fitting 1908, 67 per i quali il giurista sarebbe deceduto durante il regno di Commodo. In base alla ricerca sul giurista condotta da Alessia Spina, che ringrazio per l’anticipazione, nell’ambito del medesimo progetto SIR, l’attività del giurista non parrebbe andare oltre il 192 d.C. Sul giurista si vedano anche Talamanca 2000-2001, 483 ss.; Lamberti 2007, 2735 ss.; Parma 2007, 4019; Spina 2012, passim; Gokel 2014. 16 De Giovanni 1989, 14; De Giovanni 2006, 497. 17 Liebs 2011, 39 ss.; analogamente, sul discepolato di Marciano presso Ulpiano, sia pur in maniera dubitativa, Fressura, Mantovani 2018, 644 e 661. 18 Per una disamina del testo si rinvia a Giodice Sabbatelli 2006, 61 ss.; Pietrini 2012, 48 ss. Più in generale, sulla non prescrittibilità di tali azioni Puliatti 1992, 232 ss. 19 Di attività di insegnamento non elementare parlano Fressura, Mantovani 2018, 634. 15

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Domenico Dursi stellata da illustri precedenti20, che l’auditorium indicherebbe l’aula delle lezioni, il che emergerebbe già in Quintiliano21 e Svetonio22: del resto, anche gli scolari venivano indicati con la parola auditores23. Da ciò, in definitiva, si ricaverebbe, come si è affermato, l’immagine di un Marciano giurista, per così dire, accademico24. Per quanto la richiamata tesi non sia priva di un qualche fondamento, è opportuno segnalare come forse dalle risultanze della fonte riportata si rischi di trarre troppo. Infatti, è noto che il lemma auditorium indichi principalmente l’aula giudiziaria. A titolo meramente esemplificativo, di seguito una rassegna di testi: Paul. 1 sent., D. 1.22.5pr.: Consiliari eo tempore quo adsidet negotia tractare in suum quidem auditorium nullo modo concessum est, in alienum autem non prohibetur. Al membro del consiglio, nel periodo in cui siede in esso, non è in alcun modo concesso trattare affari nel suo tribunale (in suum (…) auditorium); in un altro, invece, non gli è proibito.

Ancora. Paul. 1 sent., D. 42.1.54.1: Is, quid ad maius auditorium vocatus est, si litem inchoatam deseruit, contumax non videtur. Costui, poiché fu convocato all’auditorio maggiore, se abbandonò la lite cominciata, non sembra contumace. Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.18.1: Si autem princeps sententiam dixit, perraro solet permittere restitutionem et induci in auditorium suum eum, qui per infirmitatem aetatis captum se dicat, dum ea, quae pro causa sunt, dicta non allegat

20 Bremer (1868) rist. 1968, 62 nt. 269; Frezza 1977, 244, 261, 264; Voci 1984, 193, nt. 97; Bretone 2006, 268 e nt. 64. 21 Quint. inst. or. 10.1.36: Sed his quoque adhibendum est simile iudicium, ut etiam cum in rebus versemur isdem, non tamen eandem esse condicionem sciamus litium ac disputationum, fori et auditori, praeceptorum et periculorum. (Ma anche qui occorre usare uguale discernimento, di modo che, anche se trattiamo la stessa materia, sappiamo tuttavia che non identica è la condizione delle liti giudiziarie rispetto alle dispute filosofiche, del tribunale rispetto a una sala di conferenze dell’etica rispetto alla procedura). 22 Svet. Tib. 11.3: Tiberius (…) circa scholas et auditoria professorum adsiduus esset (…). (Essendo Tiberio assiduo frequentatore delle scuole e delle sale in cui tenevano conferenze i professori). 23 In tal senso, si pensi a Pomponio, Pomp. lib. sing ench., D. 1.2.2.42: Mucii auditores fuerunt complures, sed praecipuae auctoritatis Aquilius Gallus, Balbus Lucilius, Sextus Papirius, Gaius Iuventius: ex quibus Gallum maximae auctoritatis apud populum fuisse Servius dicit. (Gli allievi che ascoltarono Mucio furono parecchi, ma di precipua autorità furono Aquilio Gallo, Balbo Lucilio, Sesto Papirio, Gaio Giuvenzio. Servio dice che, tra questi, Gallo godette massima autorità presso il popolo; nondimeno costoro, da Servio Sulpicio, vengono nominati tutti. Peraltro, i loro scritti non sono rimasti autonomamente in modo tale che tutti li possano consultare; anzi, i loro scritti non circolano per nulla tra le mani del pubblico, ma Servio li citò ampiamente nei propri libri, e così, tramite gli scritti di Servio, si ha memoria anche di quelli). Ma gli esempi potrebbero continuare sia con riferimento agli allievi di Servio, sia in riferimento agli studenti nella constitutio Omnem. Quanto ai primi, ex multis, si veda Ulp. 20 ad Sab., D. 33.7.12pr.: et ita Servium respondisse auditores eius referunt. (e gli allievi che ascoltarono Servio riferiscono che egli così avesse dato il responso); con riferimento alla Omnem, a titolo d’esempio, si può considerare il § 4: ne autem tertii anni auditores, quos Papinianistas vocant, nomen et festivitatem eius amittere videantur, ipse iterum in tertium annum per bellissimam machinationem introductus est. (Affinché, poi, gli studenti del terzo anno, chiamati ‘papinianisti’, non risultino privati del suo nome e dei festeggiamenti in suo onore, egli stesso è stato di nuovo introdotto nel terzo anno attraverso un elegantissimo artificio). 24 Schulz 1953, 107.

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Alla ricerca di Elio Marciano vel ab advocatis proditum queratur. Denique Glabrionem Acilium divus Severus et imperator Antoninus non audierunt incolorate restitui desiderantem adversus fratrem post speciem in auditorio eorum finitam. Se invece il principe pronunciò la sentenza, assai raramente suole permettere la reintegrazione e che venga introdotto nel suo auditorio (in auditorium suum) chi afferma di essere stato ingannato a causa della debolezza dell’età, fintanto che non alleghi quelle dichiarazioni, che sono a favore della causa, o non lamenti di essere stato tradito dagli avvocati. Pertanto il divo Severo e l’imperatore Antonino non ascoltarono Glabro Acilio, il quale, senza fornire motivazioni, dopo che il caso di specie era stato concluso nel loro auditorio, chiedeva di essere reintegrato nei confronti del fratello. Call. 1 ed. monit., D. 4.8.41pr.: Cum lege Iulia cautum sit, ne minor viginti annis iudicare cogatur, nemini licere minorem viginti annis compromissarium iudicem eligere: ideoque poena ex sententia eius nullo modo committitur. maiori tamen viginti annis, si minor viginti quinque annis sit, ex hac causa succurrendum, si temere auditorium receperit, multi dixerunt. Essendo stato previsto dalla legge Giulia che non si costringa a giudicare un minore di venti anni, a nessuno è consentito scegliere come giudice in un compromesso un minor viginti annis; e perciò in nessun caso diviene efficace la penale in base alla sua sentenza. Tuttavia molti dissero che si deve aiutare il maggiore di vent’anni che sia minore di venticinque, se avventatamente abbia accettato di tenere udienza (auditorium).

Il dato lessicale appare chiaro. Nel primo testo, Paolo, per quel che a noi qui interessa, afferma che un membro del consiglio non può trattare affari in qualità di avvocato nel medesimo tribunale. Lo stesso giurista, poi, di nuovo nelle sententiae, ricorre al lemma auditorium, mentre discute del caso di un tale che, convocato in giudizio (vocatus ad auditorium), se avesse abbandonato la lite iniziata, non avrebbe potuto essere considerato contumace. Nuovamente, dunque, l’auditorium indica l’aula del tribunale. Quanto al lacerto di Ulpiano, il giureconsulto è, invece, intento a discutere l’ammissibilità di una reintegrazione e riammissione nel tribunale del principe dopo che questi abbia pronunciato sentenza, per colui che lamenti di essere stato ingannato a causa dell’età. Non pare sorgano dubbi, in questo caso, sul significato del lemma. Callistrato, infine, discetta intorno all’età di chi debba giudicare una causa, a partire dal precetto della legge Giulia, per la quale non si può costringere un minore di venti anni a tenere udienza. Tuttavia, il giurista si richiama a una communis opinio per la quale se un tale tra i venti e i venticinque anni abbia accettato di tenere udienza debba essere coadiuvato. I testi riportati rappresentano solo alcuni esempi: altri, del resto, sono già stati segnalati tra quelli in cui il lemma in questione si riferirebbe inequivocabilmente al tribunale. Vediamoli: Paul. 3 quaest., D. 12.1.40pr.: Lecta est in auditorio Aemilii Papiniani praefecti praetorio iuris consulti cautio huius modi (…). Venne letto nell’udienza (in auditorio) di Emilio Papiniano, prefetto del pretorio e giureconsulto, un documento di questo tenore: (…). Ulp. 5 disp., D. 36.1.23(22)pr.: (…) Scaevola divum Marcum in auditorio de huiusmodi specie iudicasse refert. (…). Scevola riferisce che il divo Marco nell’auditorio (in auditorio) giudicò intorno a un caso di tal natura (…). Tryph. 11 disp., D. 23.3.78.4: (…) Iulianus de parte tantum dotali loquitur, et ego dixi in auditorio illam solam dotalem esse.

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Domenico Dursi Giuliano parla soltanto di una quota parte dotale, ed io ho sostenuto, nel corso di un’udienza (in auditorio) che quella sola era dotale.

Quanto al primo testo, Paolo sembrerebbe riferirsi all’aula giudiziaria in cui operava Emilio Papiniano25. Benché si sia anche ipotizzato trattarsi di un’aula scolastica26, si ritiene ormai, in maniera condivisibile, che questo testo fornisca la prova che Paolo avrebbe ricoperto il ruolo di assessore di Papiniano quando questi fu prefetto del pretorio27. In tal senso mi pare deponga la circostanza che nel prosieguo del passo28 venga riprodotta una discussione in cui Paolo ri-

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Lovato 2003, 219; Giodice Sabbatelli 2006, 76 s. Bremer (1868) rist. 1968, 62 nt. 269. 27 Pontoriero 2018, 9. 28 Paul. 3 quaest., D. 12.1.40: (…) “Lucius Titius scripsi me accepisse a Publio Maevio quindecim mutua numerata mihi de domo et haec quindecim proba recte dari kalendis futuris stipulatus est Publius Maevius, spopondi ego Lucius Titius, si die supra scripta summa Publio Maevio eive ad quem ea res pertinebit data soluta satisve eo nomine factum non erit, tunc eo amplius, quo post solvam, poenae nomine in dies triginta inque denarios centenos denarios singulos dari stipulatus est Publius Maevius, spopondi ego Lucius Titius. convenitque inter nos, uti pro Maevio ex summa supra scripta menstruos refundere debeam denarios trecenos ex omni summa ei heredive eius.” quaesitum est de obligatione usurarum, quoniam numerus mensium, qui solutioni competebat, transierat. dicebam, quia pacta in continenti facta stipulationi inesse creduntur, perinde esse, ac si per singulos menses certam pecuniam stipulatus, quoad tardius soluta esset, usuras adiecisset: igitur finito primo mense primae pensionis usuras currere et similiter post secundum et tertium tractum usuras non solutae pecuniae pensiones crescere nec ante sortis non solutae usuras peti posse quam ipsa sors peti potuerat. pactum autem quod subiectum est quidam dicebant ad sortis solutionem tantum pertinere, non etiam ad usurarum, quae priore parte simpliciter in stipulationem venissent, pactumque id tantum ad exceptionem prodesse et ideo non soluta pecunia statutis pensionibus ex die stipulationis usuras deberi, atque si id nominatim esset expressum. sed cum sortis petitio dilata sit, consequens est, ut etiam usurae ex eo tempore, quo moram fecit, accedant, et si, ut ille putabat, ad exceptionem tantum prodesset pactum (quamvis sententia diversa optinuerit), tamen usurarum obligatio ipso iure non committetur: non enim in mora est is, a quo pecunia propter exceptionem peti non potest. sed quemadmodum quantitatem, quae medio tempore colligitur, stipulamur, cum condicio exstiterit, sicut est in fructibus: idem et in usuris potest exprimi, ut ad diem non soluta pecunia quod competit usurarum nomine ex die interpositae stipulationis praestetur. («Io, Lucio Tizio, ho scritto di avere ricevuto da Publio Mevio quindici versatimi in contanti come mutuo a casa sua, e Publio Mevio si è fatto promettere con stipulazione, e io Lucio Tizio ho promesso, che gli restituirò questa somma in buona moneta correttamente alle prossime calende. Publio Mevio si è fatto promettere con stipulazione, ed io Lucio Tizio ho promesso che, se nel termine sopra scritto, questa somma non sarà stata data, pagata o non si sia comunque prestata garanzia a Publio Mevio, o a colui al quale tale somma spetterà, io gli dovrò dare come penale, in rapporto al ritardo nell’adempimento, un denaro ogni trenta giorni per ogni cento denari. Ed è stato convenuto tra noi che io, dalla somma sopra scritta, dovrò restituire a Mevio o al suo erede trecento denari al mese dall’intera somma». Si è posto il quesito riguardo all’obbligazione per gli interessi, dal momento che era trascorso il numero dei mesi che era concesso per l’adempimento. Io dicevo che, poiché i patti conclusi contestualmente alla stipulazione si considerano inerire ad essa, era come se taluno si fosse fatto promettere con stipulazione una somma da pagarsi ogni singolo mese e avesse aggiunto gli interessi a partire dal momento in cui questa fosse stata pagata in ritardo; e che in tal caso, trascorso il primo mese, decorrevano gli interessi della prima rata e, similmente, dopo la seconda e la terza scadenza, si accumulavano gli interessi della rata non pagata; non era possibile chiedere giudizialmente gli interessi della somma capitale non pagata, prima che fosse possibile chiedere la somma capitale stessa. Ma alcuni dicevano che il patto che era stato aggiunto riguardava solamente il pagamento della somma capitale e non anche il pagamento degli interessi, i quali, nella prima parte , erano semplicemente stati fatti rientrare nella stipulazione. E che il patto giovava soltanto ai fini di una eccezione e, che quindi, qualora il denaro non fosse stato pagato alle scadenze stabilite, gli interessi erano dovuti dal termine previsto nella stipulazione, come se ciò fosse stato espressamente stabilito. Ma, poiché la richiesta della somma capitale era stata differita, ne consegue che vi si aggiungono anche gli interessi dal momento in cui cadde in mora. Anche se, come quello reputava, sebbene sia prevalso il parere con26

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Alla ricerca di Elio Marciano corda la propria opinione e quella di altri giuristi e nel concludere, pur segnalando che a suo avviso fosse corretta la lettura di Papiniano, ci informa come la tesi di quest’ultimo fosse risultata soccombente. Il secondo, invece, farebbe riferimento al luogo in cui l’imperatore Marco Aurelio emanava sentenze29. Qualche margine di dubbio parrebbe sorgere in riferimento al testo di Claudio Trifonino30. Il giureconsulto sta discutendo su cosa debba intendersi per parte dotale. Egli richiama un parere di Giuliano, per il quale i soli beni conferiti specificamente in dote costituivano la parte dotale. Trifonino, poi, ricorda come egli stesso sostenne questa posizione in auditorio. Per quanto difficile sia ricavare dal testo un significato univoco, a me risulta arduo immaginare che un giurista potesse richiamare all’interno di una sua opera un parere espresso nel corso di una lezione. Sembrerebbe, ai miei occhi, più verosimile, l’ipotesi che un giureconsulto rievocasse una posizione sostenuta in un luogo particolarmente solenne o in una circostanza importante nell’arco della propria attività31: una discussione autorevole tra giuristi, una conferenza pubblica32, o, appunto, una tesi avanzata nel corso di un’udienza, per sostenere le posizioni di una parte in causa. Ragioni analoghe, a mio avviso, potrebbero indurre a ritenere che anche nel testo marcianeo da cui abbiamo preso le mosse il termine auditorium potesse indicare, più probabilmente, l’aula di un tribunale: ma certo, assai difficilmente, un’aula scolastica. Del resto, il rilievo che nel vocabolario giuridico auditorium indicasse il tribunale, determina più di una difficoltà a immaginare che alcuni giuristi potessero ricorrere al lemma per indicare il luogo in cui si svolgevano lezioni. Ciò, infatti, avrebbe potuto ingenerare confusione. Si è, tuttavia, evidenziato che proprio il testo di Marciano sia l’unico nel quale si parli di auditorium publicum: tale ultimo aggettivo fornirebbe preziosi indizi per escludere il significato di tribunale nel passo in esame33. In particolare, da una parte sarebbe difficile immaginare che i contemporanei di Marciano potessero qualificare come publicus il tribunale del principe, il che sarebbe stato scontato; d’altro canto, nell’impiego di publicum da parte di Marciano potrebbe riecheggiare l’insegnamento pubblico che a quell’epoca si andava diffondendo, come testimonierebbe, ad esempio, il liber singularis quaestionum publice tractatarum34 di Cervidio Scevola. A me pare, tuttavia, che si possa sostenere, allo stesso modo, come l’aggettivo publicum potesse essere impiegato proprio per specificare che non si trattasse dell’attività privata di insegnante, anche perché non abbiamo attestazioni certe in re-

trario, il patto giova solamente per una eccezione, tuttavia l’obbligazione per gli interessi non diviene efficace ipso iure: infatti, non è in mora colui al quale il denaro non può essere richiesto giudizialmente a causa di una eccezione. Ma, così come ci facciamo promettere con stipulazione una quantità che può essere raccolta in un certo tempo, fin quando la condizione non si avvererà, come avviene per i frutti, allo stesso modo ci si può pronunciare anche per quanto riguarda gli interessi, così che, nel momento in cui il denaro non venga pagato alla scadenza, si presti ciò che compete a titolo di interessi a partire dal giorno in cui la stipulazione era stata conclusa). Traduzione a cura di Schipani 2007, 19 ss. 29 Così Lovato 2003, 219; Giodice Sabbatelli 2006, 76 s.; Pietrini 2012, 49 nt. 5. 30 Schulz 1953, 234 nt. 1; Lovato 2003, 219. 31 Fressura, Mantovani 2018, 633 ss. parlano di aula in cui si fosse svolta una disputatio dinnanzi a una platea più ampia dei soli allievi. 32 Schiavone 1996, 5, in riferimento alla nota orazione di Elio Aristide del 143 o forse 144 d.C., sottolinea come già in età adrianea le conferenze pubbliche riscontrassero grande successo. 33 Giodice Sabbatelli 2006, 80 ss. 34 Sull’opera scevoliana si rinvia a Masiello 2004, passim.

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Domenico Dursi lazione all’organizzazione di un insegnamento pubblico del diritto, né in tal senso prova in modo decisivo il titolo dell’opera di Scevola. Di più: se anche si volesse intendere per publicum un auditorium caratterizzato dalla presenza di pubblico, certo appare quanto meno iperbolico l’utilizzo dell’aggettivo se riferito agli studenti: d’altro canto, in tal senso, potremmo affermare che tutte le tesi esposte da un maestro di diritto fossero avvenute al cospetto di un pubblico, il che – mi pare – potrebbe inficiare la tesi per cui la specificazione publicum deporrebbe nel senso dell’aula destinata alla didattica. In sostanza, forse proprio in ragione delle confusioni che potevano sorgere, il giurista precisava con l’aggettivo publicum che si trattava di un’attività di rilievo pubblico, non svolta nel chiuso di un’aula d’insegnamento. In questa direzione, peraltro, mi pare degno di nota un testo gelliano. Gell. noct. Att. 13.13.1: Cum ex angulis secretisque librorum ac magistrorum in medium iam hominum et in lucem fori prodissem, quaesitum esse memini in plerisque Romae stationibus ius publice docentium aut respondentium an quaestor populi Romani a praetore in ius vocari posset. All’epoca in cui ero già uscito dagli oscuri cantucci di libri e maestri per tuffarmi nel vivo della folla e nella luce del foro, ricordo che il problema più dibattuto negli ambienti romani dei professori e di coloro che emanavano responsi in pubblico riguardava la possibilità che un questore del popolo romano venisse citato in giudizio dal pretore.

L’erudito, per quel che a noi qui interessa, utilizza il lemma statio per indicare i luoghi in cui i giuristi professavano o pronunciavano responsi se dotati, mi pare di poter ricavare dal dato testuale del brano, del ius publice respondendi. Il ricorso al termine non esclude in assoluto che per indicare questi luoghi si potesse ricorrere a auditorium e, tuttavia, a me pare che, forse, dal luogo riportato possiamo ricavare un’indicazione: proprio al fine di evitare confusioni con i tribunali, per indicare le scuole di diritto, soprattutto tra i giuristi, si ricorreva al termine statio. Mi pare, alla luce di quanto precede, condivisibile l’idea che il significato prevalente di auditorium fosse quello di tribunale e dunque risultano di scarsa utilità ricerche sul lemma, allo scopo di fare chiarezza sulle sedi in cui si svolgeva l’insegnamento del diritto35. In altre parole, non credo si possa escludere in radice, proprio alla luce del testo marcianeo testé richiamato, che Marciano svolgesse la professione forense36 o lavorasse anche nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, magari in funzione di assessor e, in quest’ambito, egli avesse svolto discussioni con altri giuristi di cui abbiamo qualche traccia: mi riferisco, in particolare, a quella di C. 8.47.10pr., in cui è ricordata una disputa in tema di querela inofficiosi testamenti tra Papiniano, Paolo, e, appunto, Marciano37. Se così fosse, quest’ultimo non sarebbe stato soltanto un giurista ‘accademico’. 3. Nelle opere degli storici della tarda antichità (quali Cassio Dione, Erodiano, Aurelio Vittore, la Historia Augusta, Libanio), pur ricorrendo il nome di Marciano, appare evidente trattarsi di altri personaggi.

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Lovato 2003, 218 ss. Analogamente Fressura, Mantovani 2018, 647. 37 Infra. 36

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Alla ricerca di Elio Marciano In Ammiano Marcellino38 risulta un riferimento a un Marciano retore: ma, anche in questo caso, difficilmente può immaginarsi essere il nostro giurista. Infatti, lo storico è intento a discutere i problemi della giustizia al tempo dell’imperatore Valente, quando – apprendiamo – tra gli avvocati regnava corruzione e ignoranza, al punto che non ricordavano di aver mai posseduto un codice o, se in un circolo di dotti si fosse fatta menzione di un antico scrittore, lo avrebbero confuso con il nome straniero di un pesce o di una vivanda. Al riguardo, viene evocato, a titolo d’esempio, il nome del retore Marciano. Questi, pertanto, nell’esempio dello storico, veniva richiamato in un circolo di dotti cui partecipavano anche avvocati. Ammiano, quindi, intendeva riferirsi a qualcuno che gli avvocati avrebbero dovuto conoscere, un personaggio autorevole: ma da qui, immaginare che potrebbe trattarsi del giurista Marciano appare alquanto arduo39. Ad ogni modo, la vita di Marciano, alla luce delle scarsissime informazioni a nostra disposizione, resta priva di contorni precisi. Argomentare dal silenzio è sempre operazione rischiosa, ma, potremmo, con le cautele del caso, dedurre, forse, che il giurista non avesse ricoperto incarichi pubblici particolarmente degni di nota – aspetto per il quale gli storici antichi sono soliti ricordare un uomo di diritto – il che certo segnalerebbe una distanza dalla politica e, quindi, dal potere: non siamo in grado di affermare, però, se i velati accenni critici verso alcune decisioni imperiali che qualche volta affiorano nei testi del giurista – come vedremo appresso40– ne fossero causa o effetto. Resta, comunque, se così fosse, un enigma di difficile soluzione, quello di capire se e entro quali limiti, un giurista di notevole rilievo potesse essere in quell’epoca estraneo ai vertici della macchina burocratica imperiale e, più in generale, del potere politico del tempo.

38 Amm. Marc. res gestae 30.4.17: et si in circulo doctorum auctoris veteris inciderit nomen, piscis aut edulii peregrinum esse vocabulum arbitrantur: si vero aduena quisquam inusitatum sibi antea Marcianum verbo tenus quaesierit oratorem, omnes confestim Marcianos appellari se fingunt. (Se poi in un circolo di dotti si fa il nome di un antico scrittore, pensano che sia il nome straniero di un pesce o di una vivanda; e se qualche straniero chiede notizie, per esempio, dell’oratore Marciano, ad essi ignoto, ecco che subito tutti si chiamano Marciano). 39 Abbiamo notizia da un papiro, contenente il verbale di un processo (CPR 1.18), di un Marciano avvocato, attivo nel 124 d.C. nella provincia d’Egitto, che aveva perso, per un grossolano errore di diritto, una causa in materia ereditaria (sul punto si veda Purpura 2004-2005, 269 ss.): questi, per ragioni cronologiche, non può certamente identificarsi con il giurista severiano, ma appare anche poco verosimile che il riferimento di Ammiano Marcellino sia a questo oscuro avvocato di provincia, peraltro, a quanto pare, neppure brillante professionista. 40 Infra.

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II TESTIMONIA

I TRADIZIONE MANOSCRITTA

Non risultano, come prima si accennava, testimonianze significative sulla figura di Elio Marciano. Vi sono, tuttavia, due testi, di seguito riportati in ordine cronologico, in cui viene ricordata l’opera del iurisperitus. Si tratta di citazioni in cui si riferisce di una fonte normativa rinvenuta negli scritti del giureconsulto, o del ricordo di un suo scritto. Si tratta, per vero, di semplici richiami del maestro severiano, da cui non sembra possibile ricavare sue tesi o sue opinioni. Vediamole. C. 7.7.1.1 Imp. Iustinianus A. Iuliano pp. Et inventa est constitutio apud Marcianum in institutionibus divi Severi, per quam idem imperator disposuit necessitatem imponi heredi militis comparare partem socii et servum libertate donare. D. Costantinopoli XV k. Dec. Lampadio et Oreste vv. cc. conss. Presso Marciano nelle Istituzioni fu rinvenuta una costituzione del divo Severo a mezzo della quale l’imperatore statuì che si imponesse l’obbligo agli eredi del soldato di ricongiungere la parte del socio e di dare la libertà allo schiavo. Const. Deo Auctore 6 (C. 1.17.1.6 Imp. Iust. A. Triboniano viro eminentissimo quaestori sacri palatii) Sed neque ex multitudine auctorum quod melius et aequius est iudicatote, cum possit unius forsitan et deterioris sententia et multos et maiores in aliqua parte superare. et ideo ea, quae antea in notis Aemilii Papiniani ex Ulpiano et Paulo nec non Marciano adscripta sunt, quae antea nullam vim obtinebant propter honorem splendidissimi Papiniani (…) Data XVII k. Ianuarias Costantinopoli dn. Iustiniano pp. A III consule Non giudicherete, però, ciò che è migliore e più equo dal maggior numero di autori, potendo forse il parere di uno solo e di minor autorità superare in qualche parte i molti e di maggiore autorità. E, pertanto, non si dovranno rigettare subito quelle cose che prima erano aggiunte per iscritto nelle annotazioni provenienti da Ulpiano e Paolo a Emilio Papiniano, e in quelle provenienti da Marciano, alle quali prima non era riconosciuta alcuna forza, in considerazione del rispetto per lo splendidissimo Papiniano. (trad. Schipani 2005).

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III INSTITUTIONUM LIBRI

L’OPERA

1. I resti 1. Tra le sette opere di Elio Marciano, di cui è notizia nell’Index Florentinus1, estrema centralità assumono, il dato è di tutta evidenza, le Istituzioni. Esse rappresentano, infatti, lo scritto più esteso, il quale, per sua intrinseca natura, affrontava tutti gli aspetti del ius: in ragione di ciò, costituisce il luogo privilegiato per conoscere la complessiva visione del diritto del giurista; inoltre, è quello a noi più noto, in virtù dell’impiego che ne fecero i compilatori giustinianei. Alcuni dati. Conosciamo lo scritto in esame attraverso 142 brani riportati nel Digesto. A questi, si deve aggiungere il frammento 2 (f. 1 recto col. 1 e verso col. 2) di P. Vindob. L. 59 + 92 e, in particolare, le rr. 14-19 e 20-24a2 assai di recente attribuite al secondo libro delle Istituzioni di Marciano3, a mio modo di vedere convincentemente, in quanto in larga misura coincidenti con testi delle Istituzioni di Giustiniano verosimilmente risalenti a Marciano, come vedremo appresso. Pure risalenti al secondo libro delle Istituzioni marcianee paiono le righe 25-30 (f. 2 recto col. 1) e le righe 30-35 (f. 2 verso col. 2): tuttavia, la frammentarietà dei testi consente al più di formulare ipotesi circa le questioni trattate e la stessa collocazione all’interno del libro, ragione per cui li collocheremo in apposita appendice al libro secondo. Gli editori del papiro hanno, inoltre, ritenuto di ascrivere con buona probabilità alle Istituzioni di Marciano anche il frammento 1. Pur essendovi valide ragioni alla base di una siffatta attribuzione, l’impossibilità di più stringenti confronti testuali e la eventualità, non escludibile in assoluto, che all’interno di un papiro vi fossero testi di giuristi diversi, consente di accogliere nella nostra ricostruzione il testo in via unicamente congetturale: in ragione di ciò, anch’esso sarà accluso in un’appendice al libro primo che più si presta, ratione materiae, ad ospitarlo4. Lenel5, poi, nella sua Palingenesi, aggiunge tre ulteriori testi, tratti rispettivamente da Ulpiano (libro 6 ad Sabinum), da una costituzione di Giustiniano (C. 8.47.10pr.) e da Paolo (75

1 Si tratta, oltre che dei 16 libri delle Istituzioni, dei 5 libri regularum, dei 2 libri de appellationibus, dei 2 libri de iudiciis publicis, dei libri singulares de delatoribus, ad formulam hypothecariam, e ad senatusconsultum Turpillianum. 2 Si veda la sezione Fragmenta. 3 Fressura, Mantovani 2018, 623 ss. Per vero, il papiro ricomprende un ulteriore frammento, il n. 3, la cui attribuzione, come affermato dagli stessi editori, risulta impossibile. 4 Su questo aspetto si veda anche infra Libro primo. Profili Palingenetici. 5 Lenel 1889.I, 657; 658; 661.

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Domenico Dursi ad edictum) ove è citato il giurista, senza, tuttavia, la specifica indicazione dell’opera. L’autore tedesco, con buona probabilità, si era orientato nel senso che le tesi marcianee evocate fossero state espresse nelle Istituzioni in quanto è in questo testo che Marciano affronta gli argomenti oggetto delle opinioni richiamate da Ulpiano, Paolo e Giustiniano. Al riguardo, non si può certo escludere che, essendo le Istituzioni l’opera più nota di Marciano, il richiamo di un parere del medesimo giurista, senza l’indicazione precisa del luogo, si potesse riferire al nostro scritto. In altre parole, si può ipotizzare che l’onere di una maggiore precisione nella citazione si imponesse per le altre opere del giurista, quelle, appunto, meno note. Per una più compiuta ricostruzione dell’opera, bisogna, inoltre, prendere in considerazione i diversi contributi in argomento di Contardo Ferrini6, così da poter integrare la ricostruzione leneliana con le ipotesi palingenetiche dello studioso pavese, anche se con tutte le cautele del caso, nella consapevolezza di dover sottoporre a vaglio critico entrambe le ricostruzioni, qui messe a confronto in maniera sistematica. Ferrini, come noto, riteneva di fondamentale importanza l’utilizzo delle Istituzioni di Giustiniano per ricostruire quelle marcianee. A tal proposito, individuava i seguenti criteri per ricondurre testi delle prime alle seconde: la presenza di citazioni di “scriptores iuris”, il richiamo di costituzioni imperiali, entrambi tipici – come vedremo – dello scritto in esame e, infine, ma, fondamentalmente su un piano indiziario, la lingua, il contenuto e lo stile dei passi. Soffermiamoci, per qualche attimo, sui parametri ferriniani. Essi, infatti, in un primo momento, vennero fissati dall’autore in un contributo del 1890 (Sulla palingenesi delle Istituzioni di Marciano) volto a ricostruire lo scritto di età severiana. Ivi, sulla base dei suddetti criteri, vengono indicati, a titolo esemplificativo, 24 testi7. Inoltre, è pure annunciata una palingenesi dei primi 5 libri, mai edita, benché 11 anni dopo, lo stesso autore fosse tornato ad occuparsi dello scritto del giureconsulto, concentrandosi, però, sui problemi della datazione8. In un secondo momento, sempre nel 1901, il romanista ricorre a quei criteri per riconoscere Marciano come fonte di testi delle Istituzioni imperiali9. In questo caso, dunque, l’autore non intendeva utilizzare i testi delle Istituzioni del VI secolo per ricostruire quelle marcianee. In altri termini, non mi sembra lontano dal vero ipotizzare che lo stesso studioso avesse compreso come, al più, i criteri consentissero solo di individuare tracce di Marciano nell’opera isagogica di Giustiniano. Orbene, la circostanza che vi sia stato un utilizzo delle Istituzioni di Marciano per la redazione di quelle giustinianee, è dato ormai acquisito. Per tentare un approccio sull’argomento, si deve, necessariamente, partire da due dati inequivoci. In primo luogo, occorre ricordare come lo stesso Giustiniano nella costituzione Imperatoriam al paragrafo 610 dichiari

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Ferrini 1929c, 277 ss.; Ferrini 1929b, 285 ss.; Ferrini 1929a, 291 ss.; Ferrini 1929d, 307 ss. Inst. 1.14.1; 1.25.2; 1.25.16; 1.25.18; 1.25.19; 1.26.3; 1.26.4; 1.26.5; 1.26.7; 1.26.9; 2.1.8; 2.6.9; 2.6.13; 2.10.5; 2.10.7; 2.15.3; 2.17.8; 2.20.5; 2.20.12; 2.20.14; 2.20.15; 2.20.16; 2.20.20; 2.25.1. 8 Infra. 9 Ferrini 1929d, 307 ss. 10 Imperatoriam § 6: Quas ex omnibus antiquorum institutionibus et praecipue ex commentariis Gaii nostri tam institutionum quam rerum cottidianarum aliisque multis commentariis. (dopo averle composte in base a tutte le istituzioni degli antichi ed in particolare in base ai commentari tanto delle Istituzioni, quanto delle Cose quotidiane del nostro Gaio e a molti altri commentari). 7

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Institutionum libri che per la composizione del manuale per gli studenti di diritto del VI secolo fossero stati utilizzati gli antichi libri di Istituzioni oltre a quelle gaiane assurte a vero e proprio modello e a vari altri commentari. Tuttavia, al paragrafo 2 della constitutio Omnem si afferma ex omni paene veterum institutionum corpore eliminatas. La precisazione, dunque, sembrerebbe lasciar intendere che non tutti i commentari istituzionali sarebbero stati adoperati11. Vi sono, però, al riguardo, prove evidenti del ricorso allo scritto marcianeo: riproduzioni di ben 25 brani di quest’opera a noi pervenuti attraverso il Digesto si rinvengono, infatti, in 24 paragrafi delle Istituzioni di Giustiniano12. In sostanza, il 17,6 % di quelli a noi noti. Nello specifico si tratta di lacerti in materia di schiavitù, relegatio in insulam, tutela e dispensa da questa, divisio rerum (5 testi), e materia successoria, ove i giustinianei hanno ripreso da Marciano brani sul testamento dei soldati filii familias, sull’istituzione d’erede di un servo, l’istituzione d’eredi per gradi, la querela inofficiosi testamenti, la revoca dell’atto mortis causa, la rinuncia all’eredità di un coerede e il conseguente accrescimento delle quote degli altri, legati di cose altrui, le azioni del legatario per il legato di cose altrui, la delimitazione dell’oggetto del legato, i codicilli e le donazioni a causa di morte. Come si vede, le trattazioni marcianee di maggior successo al cospetto dei giustinianei furono quelle sulle res e quelle sulle successioni, del che vi è conferma anche nel Digesto, considerato che la gran parte dei testi del maestro severiano in esso conservati, affrontano, giustappunto, le suddette materie. Un utilizzo, dunque, ragguardevole, secondo solo a quello gaiano, ulteriormente confermato – parrebbe – dalla scelta dei giustinianei di inserire un titolo (4.18) dedicato ai publica iudicia: essa potrebbe essere stata ispirata dalla scelta del maestro severiano di dedicare nel suo scritto spazio a una siffatta materia. Tutto ciò consente di congetturare come molti altri testi del manuale giustinianeo potessero trarre origine da quello di Marciano. In questa prospettiva, Ferrini, più nel dettaglio, provò a individuare la derivazione di ogni singolo paragrafo del manuale del VI secolo. Applicando i criteri testé richiamati, pure assoggettati aliunde13 a una serrata critica, egli giunse a identificare ben 126 paragrafi14 tra quelli delle Istituzioni di Giustiniano che avrebbero quale loro fonte i libri institutionum di Marciano. Considerato che il manuale consta complessivamente di 852 paragrafi, potremmo ricavare che nel 14,67% di questi vi sarebbero tracce delle Istituzioni marcianee. Ad ogni modo, se ai 126 escerti di cui sopra scorporiamo i 24 brani per i quali vi è una coincidenza evidente con

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Ferrini 1929d, 310 ss., ritiene che, assai verosimilmente, non furono utilizzate le Istituzioni di Callistrato. Si tratta di Marc. 1 inst., D. 1.5.5.2-3 = Inst. 1.4pr.; Marc. 2 inst., D. 48.22.4pr. = Inst. 1.12.2; Marc. 2 inst., D. 27.1.21pr. = Inst. 1.25.4; Marc. 2 inst., D. 27.1.21.1 = Inst. 1.25.16; Marc. 3 inst., D. 1.8.2pr.-1 = Inst. 2.1pr.-1; Marc. 3 inst., D. 1.8.4pr.-1 = Inst. 2.1.1-2; Marc. 3 inst., D. 1.8.6.1 = Inst. 2.1.6; Marc. 3 inst., D. 1.8.6.3 = Inst. 2.1.8; Marc. 3 inst., D. 1.8.6.4 = Inst. 2.1.9; Marc. 4 inst., D. 29.1.22 = Inst. 2.11.5; Marc. 4 inst., D. 28.5.49.2 = Inst. 2.14pr. in fine; Marc. 4 inst., D. 28.6.36pr.-1 = Inst. 2.15pr.-1; Marc. 4 inst., D. 36.1.30(29) = Inst. 2.17.3; Marc. 4 inst., D. 5.2.2 = Inst. 2.18pr.; Marc. 5 inst., D. 38.16.9 = Inst. 3.4.4; Marc. 6 inst., D. 22.3.21 = Inst. 2.20.4; Marc. 6 inst., D. 30.112.1 = Inst. 2.20.16; Marc. 7 inst., D. 29.7.6pr.-1 = Inst. 2.25.2-3; Marc. 7 inst., D. 32.65.4 = Inst. 4.3.1; Marc. 9 inst., D. 39.6.1 = Inst. 2.7.1. 13 Zocco-Rosa 1908, 18 ss. 14 Ferrini 1929d, 307 ss. Si rinvia all’appendice a queste pagine per una valutazione della maggiore o minore verosimiglianza di tutte le attribuzioni a Marciano operate dallo studioso anche con specifico riferimento ai testi che non abbiamo ritenuto di accogliere in questa palingenesi e ad eccezione, ovviamente, di quelli certamente marcianei in virtù del possibile confronto con il Digesto. 12

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Domenico Dursi testi del Digesto tratti dai 16 libri del giurista severiano, potremmo giungere a ritenere che dall’opera di Triboniano, Teofilo e Doroteo si potrebbero ricavare ben 102 testi riconducibili, più o meno direttamente, allo scritto marcianeo. È stato, tuttavia, segnalato come, talvolta, Ferrini tendesse a sovrastimare la presenza del giurista nelle Istituzioni imperiali, anzi, che il nome del giureconsulto finisse “per coprire molta merce di dubbia provenienza”15. L’attribuzione, pertanto, a Marciano di testi delle Istituzioni che potrebbero aver avuto quale fonte il trattato severiano, rischia di presentarsi estremamente congetturale. Né, del resto, – lo si ribadisce – Ferrini, in questo saggio, si poneva l’obbiettivo di ricostruire lo scritto marcianeo. D’altra parte, un tale modo di procedere presupporrebbe, in primo luogo, che i commissari giustinianei nel redigere il manuale avessero proceduto nella stessa maniera in cui avevano operato per confezionare il Digesto, e cioè collazionando brani tratti da opere precedenti con le modifiche rese necessarie dai tempi. Questo, in effetti, è il presupposto da cui parte l’analisi di Ferrini16. Ora, se un siffatto modus operandi non si può escludere, in realtà non siamo in grado di affermare con un discreto grado di verosimiglianza quale sia stato il livello di intervento dei commissari, i quali – è bene ricordarlo – in questo caso non si pongono come raccoglitori dell’antica sapienza giuridica, bensì come veri e propri autori e, anzi, il discorso è condotto nella finzione narrativa da Giustiniano medesimo. In altri termini, se nel Digesto, di ogni brano è dichiarata la provenienza, così non è e non poteva essere per le Istituzioni. La presunta autorialità dei singoli testi, quando più evidente, potrebbe essere stata diluita dalla mano dei commissari, veri artefici del lavoro. In ragione di ciò, più in generale, l’attribuzione di un testo del manuale a un giurista anteriore, in assenza di un possibile confronto, potrebbe lasciare non pochi margini di dubbio17. Certo, i criteri ferriniani, pur non rappresentando solide certezze, forniscono validi elementi di riflessione, che, però, devono essere valutati di volta in volta. Al riguardo, ci orienteremo, almeno in linea tendenziale, nel senso di ritenere marcianei i testi indicati da Ferrini solo ove si trovino connessi a passi di certa derivazione dalle Istituzioni di Elio Marciano, sul presupposto che, verosimilmente, in questi casi, i giustinianei stessero riportando uno squarcio dello scritto adoperato. In effetti, questo modus operandi troverebbe conferma con riferimento a Inst. 1.25.16, la cui attribuzione a Marciano pare rafforzata ora da rr. 20-24a di P. Vindob. L. 59 + 9218. Occorre, tuttavia, tener presente come si tratti pur sempre di un criterio meccanico, che, pertanto, può considerarsi indicativo in assenza di elementi più probanti. Ad ogni modo, così procedendo, siamo in grado di ricondurre alle Istituzioni marcianee 21 paragrafi di quelle giustinianee che accogliamo, pertanto, nella nostra proposta palingenetica19. Un dato, comunque, si staglia oltre ogni ragionevole dubbio: l’impiego del manuale severiano per la redazione di quello giustinianeo consente di desumere la fortuna presso i principali giuristi del VI secolo delle Istituzioni di Elio Marciano, peraltro derivante da una discreta circolazione dell’opera in epoca pregiustinianea20.

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Arangio-Ruiz 1946, 89. Ferrini 1929d, 308; su questi temi e sulla divisione del lavoro tra i commissari si veda Falcone 1998, 221 ss. 17 Luchetti 1996, X. 18 Fressura, Mantovani 2018, 619 ss. 19 Si veda l’appendice. 20 Fressura, Mantovani 2018, 664. 16

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Institutionum libri 2. È sufficiente scorrere le colonne della Palingenesi di Lenel per appurare che, tra i libri istituzionali, quello di Marciano risulti il più utilizzato per la composizione del Digesto (come detto in apertura, ben 142 frammenti). Infatti, solo 14 testi sono tratti dalle Istituzioni gaiane, 5 da quelle di Callistrato, 4 da quelle di Paolo, 24 da quelle di Ulpiano, 41 da quelle di Fiorentino. Ciò troverebbe una prima, semplice, spiegazione nel rilievo che il manuale di Marciano si presentava assai più ampio degli altri, constando di ben 16 libri ed essendo equiparabile, per mole, solo al manuale di Fiorentino, come noto, organizzato in 12 libri. Se, poi, consideriamo le opere della massa sabiniana, all’interno della quale sarebbe avvenuto lo spoglio di questo scritto21, notiamo che il ricorso a quest’ultima è preceduta soltanto dai commentari a Sabino di Pomponio, Paolo e Ulpiano, opere di ben altra dimensione. Se a ciò aggiungiamo quanto abbiamo osservato nel precedente paragrafo, mi pare trovi conferma ulteriore la seguente considerazione. I giustinianei mostravano di apprezzare questo lavoro. Questa evidenza, è appena il caso di ricordare, non impedì a Schulz nel suo studio sulla storia della giurisprudenza romana22, di parlare di lavoro dai tratti assai peculiari, probabilmente dovuti dall’unione postuma di due distinti scritti, un lavoro preparatorio per un libro di Istituzioni e un lavoro preparatorio per dei digesti sistematici, ma il risultato sarebbe stato una ‘mostruosità letteraria’23. Lo studioso, dunque, proponeva un giudizio certo non lusinghiero nei confronti delle Istituzioni marcianee. Ma le tesi prospettate restano mere congetture, poiché di esse non v’è prova. Con buona probabilità, il giudizio di Schulz risentiva del ruolo eccessivo riconosciuto dallo studioso alla categoria di ‘genere letterario’, di cui non v’è traccia nelle fonti24, che rischierebbe di cancellare “l’individualità” e la “realtà” di un’opera “che soltanto in parte viene definita allorché si costringe entro gli schemi astratti di una classificazione”25. In ragione di tanto, come opportunamente rilevato26, sarebbe, forse, più corretto declinare la suddetta nozione alla stregua di ‘problema’. Ciò premesso, proverò a focalizzare l’attenzione su alcuni punti di carattere generale, che, a mio modo di vedere, consentono di cogliere i principali profili di questo scritto, nonché di evidenziarne gli aspetti più controversi. 2. Una possibile datazione Il problema della datazione delle Istituzioni marcianee ha interessato i romanisti sin dagli albori del novecento, allorché Ferrini27 collocava la stesura del manuale dopo la morte dell’im-

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Bluhme 1820, 257 ss.; Mantovani 1987, passim. Per una valutazione sulla History di Schulz si rinvia a Bretone 1984, 333 ss. 23 Schulz 1953, 172, il quale così si esprimeva: “The Institutiones of Marcian are a strange work (…). It embodies two distinct writings: Marcian’s uncompleted preparatory studies for a book of Institutes, and his preparatory for a systematic Digest. (…) but is just a literary monstrosity”. In tal senso anche Wieacker 1975, 203. 24 d’Ippolito 2009, XVIII-XXX. 25 Maschi 1976, 677. 26 Stolfi 2017, 49 ss., ove vi è una disamina del significato della centralità del ‘genere letterario’ nella trattazione schulziana e del suo valore euristico. 27 Ferrini 1929b, 285. 22

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Domenico Dursi peratore Antonino Caracalla, il quale, infatti, è indicato come divus. Secondo l’illustre studioso, poi, laddove in Marc. 2 inst., D. 37.14.5.1, si cita un rescriptum imperatoris nostri, il giurista si riferirebbe a un principe in vita, probabilmente uno tra Macrino, Eliogabalo o Alessandro28. Analogamente, Krüger29 collocava l’opera in anni di poco posteriori alla morte di Caracalla. De Robertis30, invece, retrodatava l’opera marcianea fino ai primi anni del principato di Caracalla. Per lo studioso, l’espressione «divi Severus et Antoninus» che appare nel Digesto, doveva essere lo svolgimento dell’abbreviazione d., adoperata nella tradizione manoscritta tanto per il singolare divus che per il plurale divi31: non sarebbe stato raro – secondo de Robertis – che i Compilatori equivocassero sulle sigle, rendendo al singolare ciò che bisognava rendere al plurale e viceversa. Ma di ciò non fornisce prova. Nel caso in esame, dunque, sarebbe dubbio se sia da considerare esatta la versione pervenutaci «divi Severus et Antoninus» o se, invece, la forma corretta sarebbe «divus Severus et Antoninus». A parere di de Robertis, tale ultima ipotesi risulterebbe preferibile in quanto, ove le Institutiones fossero state scritte dopo la morte di Caracalla, difficilmente si spiegherebbe il silenzio assoluto di Marciano intorno alle sue costituzioni. Tale opinione non appare convincente. Al riguardo, nei frammenti delle altre opere marcianee riportati dai Compilatori, compare la versione «divus Severus et Antoninus» mentre «divi Severus et Antoninus» si riscontra quasi esclusivamente nelle Institutiones. Tale rilievo induce a ipotizzare che i giustinianei avevano a disposizione un manoscritto in cui doveva comparire la forma divi. Sotto questo profilo, inoltre, non mi pare trascurabile la circostanza che tutte le opere del maestro severiano siano state spogliate all’interno della massa sabiniana, con la sola eccezione del liber singularis ad Senatusconsultum Turpillianum, escerpito nella massa papinianea. Ciò, infatti, porrebbe in evidenza come la distinzione tra divus e divi fosse stata operata dagli stessi soggetti. In ragione di tanto, sembrerebbe plausibile ritenere che laddove si riscontra divus, ci troviamo al cospetto di un’opera scritta dopo la morte di Settimio Severo, durante il principato di Antonino Caracalla; le Istituzioni, invece, ove troviamo divi, sembrerebbero composte poco dopo la morte di quest’ultimo32. Si tratterebbe, cioè – come peraltro sostenuto recentemente33 – dell’opera conclusiva, di sintesi, dell’intera produzione scientifica marcianea che si sarebbe posta a cavallo tra le esigenze della burocrazia imperiale e l’insegnamento didattico34, ma su quest’ultimo aspetto si tornerà35. Nella letteratura più recente, si è tornati a sostenere la datazione delle Istituzioni marcianee dopo la morte di Caracalla. Honoré36 le colloca in un torno di tempo compreso tra il 217 e il 222, ad eccezione, però, del primo libro, composto quando l’imperatore sarebbe

28 Gualandi 1963a 237, colloca il provvedimento tra quelli su cui regna incertezza circa la paternità; sul punto, ultimamente, v. Nasti 2006, 122. 29 Krüger 1912, 251 nt. 5. 30 de Robertis 1940, 220 ss. 31 Sulle problematiche poste da sigle e abbreviazione nei manoscritti, spunti in Nasti 2010, 29 ss. 32 Dursi 2017b, 15. 33 Anche Liebs 2011, 56, sembrerebbe considerare le Istituzioni quantomeno la penultima opera del giurista severiano. 34 Pietrini 2012, 63. 35 Infra § 7. 36 Honoré 1962, 212 s.

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Institutionum libri stato ancora in vita. Più recentemente, De Giovanni37, pur sottolineando l’impossibilità di determinare con sicurezza la data di composizione dello scritto, ha ritenuto che Marciano l’avesse redatto negli anni immediatamente successivi alla promulgazione della constitutio Antoniniana. Peraltro, se, da una parte38 si è ritenuto che nell’opera sarebbero rinvenibili riferimenti all’editto di Caracalla, più recentemente si è segnalato come assai probabilmente non vi fossero nelle opere dei giuristi richiami al provvedimento ricordato più significativi di quello, notissimo, che appare nei libri ad edictum di Ulpiano utilizzato dai compilatori39. Liebs40 sembrerebbe collocare l’opera di Marciano tra i regni di Eliogabalo e Severo Alessandro, in particolare tra il 218 e il 235 d.C., dunque, ancora una volta, dopo la morte di Caracalla, mentre da ultimo, Fressura e Mantovani tendono a considerare più verosimile la stesura dell’opera al tempo di Severo Alessandro41. Sarei propenso a ritenere, sia pur con le cautele del caso, che vi siano elementi per collocare la pubblicazione dell’opera, probabilmente l’ultima del giurista, tra il principato, breve, dell’imperatore Macrino (217-218 d.C.), torno di tempo nel quale avvenne la divinizzazione di Caracalla42 e il principato di Eliogabalo quale termine post quem: ciò spiegherebbe la circostanza che Caracalla è, sovente, indicato come divus. Ma sul punto torneremo43. 3. La sistematica 1. La disamina dell’impianto complessivo delle Institutiones marcianee presenta il rischio di essere svolta, esclusivamente, alla luce della lente leneliana, senza tenere nel dovuto conto i presupposti e gli schemi operativi del modus agendi dell’illustre studioso, i quali, ovviamente, necessitano di una verifica, tanto più in riferimento allo scritto qui in esame, che si pone, nel panorama della letteratura giuridica del tempo, quasi alla stregua di un unicum44.

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De Giovanni 1989, 6 e 17; De Giovanni 2006, 498 ss.; si veda anche De Giovanni 2007, 90 ss. In tal senso sembrerebbe propendere Querzoli 2011, 153 ss.; da ultima Pietrini 2012, 52, alla quale si rinvia anche per i precisi ragguagli bibliografici sull’argomento. 38 Talamanca 1976, 102 ss. 39 Marotta 2017, 227. 40 Liebs 2011, 48 e 56. 41 Fressura, Mantovani 2018, 633, 639 e 659. 42 SHA, Macrinus, 5.9: Ad senatum dein litteras misit de morte Antonini divum illum appellans excusansque se et iurans, quod de caede illius nescierit (…) (Mandò, poi, al senato una lettera in cui, informando il consesso della morte di Caracalla e proponendo che fosse annoverato tra gli dei, respingeva ogni accusa e anzi giurava di essere stato assolutamente all’oscuro della sua uccisione). 6.4: dein honores divinos, quod primum faciendum est, decernimus ei viro, in cuius verba iuravimus, cum exercitus ultorem caedis Bassiani neminem digniorem praefecto eius putavit, cui et ipse utique vindicandam factionem mandasset, si vivus deprehendere potuisset. (Vogliamo decretare, in secondo luogo, – cosa importantissima – onori divini all’uomo davanti al quale prestammo giuramento di fedeltà. L’esercito non ha ritenuto nessuno degno di vendicare l’assassinio di Bassiano, all’infuori del suo prefetto, al quale lo stesso imperatore se in vita, avrebbe demandato l’incarico di perseguire i responsabili). 43 Infra. 44 Analogamente Fressura, Mantovani 2018, 641.

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Domenico Dursi È opportuno, infatti, rilevare che Lenel45 – come già abbondantemente sottolineato46 – nel suo tentativo palingenetico, aveva accolto, sia pur con alcune precisazioni, l’idea del ‘Digestensystem’, elaborata da Krüger47. In base ad essa, le opere del periodo aureo della giurisprudenza recanti i titoli di digesta, responsa, quaestiones, disputationes, che contemplavano brani relativi a tutti i settori del diritto, si sarebbero articolate in due parti. La prima, che avrebbe coperto due terzi del tutto, avrebbe seguito l’ordine dell’editto pretorio; la seconda, corrispondente al restante terzo, si sarebbe occupata di tutte le altre materie: in particolare, per Lenel, in questa parte, sarebbero state ricomprese le materie del ius civile, le quali sarebbero state ordinate sulla base di provvedimenti legislativi (leggi comiziali, senatoconsulti, costituzioni imperiali), disposti in ordine cronologico. Ora, un siffatto schema se può trovare riscontro per le opere cui Krüger si riferiva, qualche aspetto controverso manifesta se adoperato per ordinare l’esposizione della materia delle Institutiones marcianee, poiché, appunto, l’opera potrebbe aver seguito altre impostazioni. Potremmo supporre, tuttavia, che Lenel, avendo a disposizione materiale esiguo, quanto meno per sistemare la seconda parte di questo scritto, ricorra al modello richiamato. Tutto ciò, come vedremo tra breve, pone aspetti critici di non poco momento e, anzi, forse proprio in questo potrebbe riscontrarsi l’origine della chiave di lettura schulziana per la quale – come si ricordava – l’opera a noi pervenuta sarebbe stata la unificazione postuma di un manuale istituzionale e di digesta del giurista severiano. In ragione di tanto, per una migliore comprensione del lavoro marcianeo, a me pare opportuno verificare di volta in volta il contenuto dei frammenti, evitando di sovrapporre ai dati testuali concettualizzazioni che se, in alcuni casi, aiutano a meglio figurarsi il contenuto e l’impianto di uno scritto giurisprudenziale, in altri potrebbero indurre a travisare la reale entità di un’opera. Un’ulteriore considerazione preliminare, infine, appare necessaria. L’autore tedesco, come noto, distribuisce la materia sulla base di rubriche: ciò sembrerebbe, ora, trovare riscontro sulla base di P. Vindob. L. 59 + 9248. Proviamo, dunque, a passare in rassegna i testi. I primi frammenti delle Institutiones sono dedicati alle fonti del diritto e a concetti che oggi definiremmo di ‘teoria generale del diritto’, quali le nozioni di legge, diritto, diritto onorario e, forse, a qualche dichiarazione programmatica; è affrontato, poi, il tema del diritto delle persone; il diritto di proprietà e gli altri diritti reali; probabilmente le obbligazioni, ma il punto necessita di qualche approfondimento; vi è quindi un’ampia trattazione della materia ereditaria; vi è, inoltre, una discussione, nei libri 10,11,12 e 13, che, ad avviso di Lenel49, verteva intorno alle più importanti leges publicae; nel libro 14 è trattata la materia penalistica, dei libri 15 e 16 disponiamo di un frammento ciascuno, il che esclude la possibilità di individuare la materia trattata. Da questa rapida elencazione, emergono, ictu oculi, analogie, ma anche significative divergenze dall’ordine del manuale di Gaio, il quale – si ricorderà – dichiarava di ordinare la materia in tre sezioni: quella relativa alle persone, quella relativa alle cose, che ri-

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Lenel 1889.I, 464 nt. 10. Liebs 2017, 281 ss. 47 Krüger 1886, 94 ss.; Krüger 1912, 143 s. 48 Mantovani 2017, 183; Fressura, Mantovani 2018, 628. Sulla presenza di elementi paratestuali nelle opere della giurisprudenza romana, Mantovani 2015, 545 ss.; Ammirati 2017, 247 ss. 49 Conformemente da ultimo Fressura, Mantovani 2018, 641. 46

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Institutionum libri comprendeva diritti reali, successioni e obbligazioni, tutti inclusi nella nozione di res incorporales50 e, infine, il processo. Sulla questione avremo modo di tornare più diffusamente oltre. 2. Circa la possibilità che lo scritto di Marciano affrontasse o meno le obbligazioni sono state prospettate diverse tesi. Vi è stato chi ha ritenuto che il giurista “scrivendo un manuale a uso dei provinciali, potrebbe aver tenuto conto di questa realtà di fatto trascurando certi temi e privilegiandone altri sui quali maggiore era il bisogno di informazione perché più diffuse erano su di esse le resistenze ad applicare il diritto romano”51; altri, invece, hanno supposto che l’argomento fosse stato trattato nella seconda parte del libro nono a noi non pervenuta52. In questo modo, l’impostazione marcianea avrebbe ricordato quella gaiana. Più recentemente, Stefania Pietrini53, sulla scorta di due testi (Marc. 3 inst., D. 46.3.40, ove si affronterebbero questioni relative all’adempimento dell’obbligazione tramite la solutio e Marc. 3 inst., D. 49.16.9 in cui si discute di una emptio venditio di fondi da parte di militari) è giunta a ipotizzare che l’argomento avesse sede nel terzo libro. L’ipotesi merita attenzione. Infatti, nel terzo libro, a mio modo di vedere, vi è un ulteriore testo che potrebbe suffragare questa impostazione. Si tratta di Marc. 3 inst., D. 50.12.4: Propter incendium vel terrae motum vel aliquam ruinam, quae rei publicae contingit, si quis promiserit, tenetur54.

Nel brano, che sembrerebbe ricordare nello stile l’andamento di una clausola edittale55, si affrontano questioni inerenti alla pollicitatio, una promessa unilaterale idonea a produrre obbligazioni56. Proprio questa circostanza impone, a mio avviso, alcune riflessioni. Lenel57 frappone il brano tra un lacerto in tema di res universitatis e un testo sulle associazioni. Po-

50 Sulla nozione di res incorporales attraverso la quale “le figure che inizialmente erano indicate come hereditas, ususfructus e obligationes vengono, invece, richiamate in termini di ius” si è soffermato, recentemente, Falcone 2012, 137 ss. e bibliografia ivi citata. Schiavone 2017, 200 s. rileva come nella elaborazione di Gaio vi sia “un’assimilazione fra esistenza, incorporeità e ius che ci appare in tutta la sua compiutezza (…). Disponendo di una nozione smaterializzata di res, Gaio poteva includervi le forme giuridiche – che era il passaggio che a lui più premeva, che spiegava l’intera costruzione, e portava alla luce due secoli di elaborazione: la metafisica che entrava nel mondo del ius, a dargli realtà e consistenza, e un’inaudita potenza oggettivante (…)”. Occorre, altresì, ricordare come la categoria gaiana delle res incorporales sia stata richiamata al fine di intravedere, almeno in qualche misura, l’antesignano della categoria del diritto soggettivo. Sulle problematicità di una siffatta ricostruzione si rinvia ex multis, a Stolfi 2006b, 138 ss.; Stolfi 2010, 164 ss. 51 De Giovanni 1989, 75; già Schulz 1953, 173, aveva affermato che non vi fosse traccia delle obbligazioni nel manuale marcianeo. 52 Liebs 2011, 56. 53 Pietrini 2012, 79 s. 54 Per la traduzione si veda la sezione di questo volume dedicata ai Fragmenta. 55 Impossibile, allo stato delle nostre conoscenze, affermare se davvero si trattasse di una clausola edittale. Al riguardo, occorre segnalare che in Lenel 1927, XVI ss., non risultano parti dell’editto dedicate alla pollicitatio. Del pari, potrebbe apparire singolare e di difficile spiegazione la circostanza che Marciano nei suoi libri Institutionum riportasse una clausola edittale. 56 Sitzia 1988, 22 ss. 57 Lenel 1889.I, 655.

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Domenico Dursi tremmo, forse, scorgere il criterio di collegamento individuato dallo studioso tedesco nella circostanza che spesso la pollicitatio consisteva nella promessa di costruire uno stadio, un teatro o altri beni che Marciano qualifica res universitatis. Se così fosse, agli occhi dell’autore, il testo doveva presentare ulteriore casistica sulle res universitatis. Occorre, tuttavia, al contempo rilevare come non per forza la pollicitatio consistesse nella costruzione di un’opera, ma poteva altresì concretarsi nella dazione di una somma di denaro58. Se, poi, si volesse immaginare che Marciano si riferisse a una pollicitatio diretta all’edificazione di un’opera pubblica, ma nel testo a nostra disposizione di ciò non v’è traccia, la stessa ricostruzione leneliana presenterebbe qualche contraddizione. Il giurista, infatti, secondo l’autore tedesco, dopo aver parlato di stadi e templi, avrebbe portato quali ulteriori esempi della categoria di res i servi civitatis e, entro certi limiti, i liberti civitatis, per poi tornare, nuovamente, alle opere pubbliche. Ma, più in generale, appare poco plausibile che nel pieno della disamina della classificazione delle res potesse giungersi a ragionare di pollicitatio. Del resto, il frammento è tra i pochissimi, tra quelli a noi pervenuti, che sembrerebbe occuparsi di obbligazioni. Esso, cioè, testimonierebbe che Marciano nel suo manuale si sarebbe occupato di obbligazioni e, almeno in parte, come risulta dall’inscriptio, la sede sarebbe stata il terzo libro. Certo, potrebbe ritenersi che il nostro giurista volesse sottolineare come l’insieme dei cittadini oltre ad essere titolare dei beni poteva, allo stesso modo, essere destinatario di promesse, ma, è bene, al tempo stesso, ribadire che non si affrontava la materia della idoneità delle universitates a essere titolare di situazioni giuridiche, quanto piuttosto, semplicemente, la divisio rerum. In altre parole, in base alla ricostruzione del Lenel si avrebbe la giustapposizione di argomenti molto distanti che presentavano quale aspetto comune, forse, solo il riferimento a una moltitudine di individui. Peraltro, potremmo ulteriormente aggiungere che nelle fonti si parli di rei publicae polliceri59 o al più, ci si riferisca alla civitas, non all’universitas60 di cittadini e, al riguardo, occorre rilevare, una qualche differenza semantica e concettuale tra i lemmi in questione pure esisteva. Alla luce di ciò, una considerazione mi pare indubitabile. Le tracce maggiori della materia obbligatoria si trovano nel terzo libro. Difficile dire se ivi avesse sede la trattazione delle obbligazioni, benché l’ipotesi mi sembri la più verosimile. Se così fosse stato, il maestro severiano nel terzo libro, dopo aver esaurito la materia dei diritti reali, si sarebbe occupato delle obbligazioni. In ciò vi sarebbe una coincidenza con la ricostruzione proposta da Hommel61, il quale chiudeva il terzo libro con questo frammento, in conformità del criterio da lui adoperato di collocare i testi nell’ordine in cui essi appaiono nel Digesto. 3. Può osservarsi, ancora, come alcune peculiarità emergano anche in materia di successioni. Mentre in Gaio, come meglio vedremo oltre, la materia ereditaria procede dalla disamina di quella testamentaria in tutti i suoi aspetti, per poi passare alla successione legittima, Marciano sembrerebbe prima discutere la successione testamentaria, con riguardo alla capacità di fare il testamento, le formule per una valida istituzione, i limiti alla diseredazione e le questioni

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Cancelli 1982, 260; Carro 2012, passim; recentemente Huang 2018, 30. Lepore 2012, passim. 60 Sul significato e sui problemi posti dal termine universitas nelle fonti di età severiana, si tornerà in sede di commento dei testi in cui il lemma appare. 61 Hommel 1767, 403. 59

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Institutionum libri concernenti la revoca del testamento; quindi il maestro severiano parrebbe trattare, nel libro quinto, di cui – è bene sempre aver presente – disponiamo di due soli frammenti, la successione legittima; per poi passare nei libri sesto e settimo, ottavo e nono ai legati e fedecommessi separandoli, quindi, dalla trattazione dell’istituzione d’erede. In Marciano, pertanto, parrebbe emergere una diversa sistematica. Egli, cioè, sembrerebbe soffermarsi dapprima sulle diverse tipologie di successioni a titolo universale, per poi passare a quelle a titolo particolare. 4. Otto Lenel62 avanzava l’ipotesi che nei libri da dieci a tredici Marciano commentasse in sequenza la legge Iulia et Papia, precisamente nei libri dieci, undici e dodici; nel libro tredici un testo sarebbe stato di commento alla legge Falcidia, gli altri di commento alla legge Aelia Sentia. In questa scansione, come si accennava in apertura, potremmo cogliere l’opzione dello studioso tedesco in favore dell’applicazione del ‘Digestensystem’ a uno scritto che, almeno nell’elaborazione originaria della teoria, non avrebbe dovuto seguire un siffatto ordine espositivo63. Tuttavia, si può immediatamente osservare, in riferimento ai libri 10-13 che i supposti commenti o, meglio, titoli, dedicati alle leges non seguirebbero l’ordine cronologico, generalmente adoperato da Lenel nel distribuire la materia della seconda parte delle opere riconducibili al ‘Digestensystem’64. Dall’inscriptio dei diversi escerti, infatti, possiamo osservare come la presunta trattazione della Lex Falcidia del 40 a.C. si troverebbe nel libro 13, mentre la ipotetica disamina di quelle previsioni normative, promulgate tra il 18 a.C. e il 9 a.C.65, cui la giurisprudenza assegnò la denominazione complessiva di lex Iulia et Papia, sarebbe stata allocata nei libri 10, 11 e 12. Ora, se è vero che queste leggi erano state oggetto di ponderosi commentari (a titolo d’esempio, i 15 libri di Gaio alla legge Iulia et Papia, ma non solo), desta non poche perplessità la circostanza che ben tre libri su un totale di 16, all’interno di un’opera sistematica e non di analisi del provvedimento, sarebbero stati dedicati al commento di queste ultime due leggi. Una trattazione eccessiva, nell’economia complessiva dell’opera, della materia matrimoniale. Anche da uno sguardo fugace appare, in particolare con riferimento al libro 13, come una tale impostazione ponga non poche perplessità. Si osservi: Marc. 13 inst., D. 48.19.4: Relegati sive in insulam deportati debent locis interdictis abstinere. et hoc iure utimur, ut relegatus interdictis locis non excedat: alioquin in tempus quidem relegato perpetuum exilium, in perpetuum relegato insulae relegationis, in insulam relegato deportationis, in insulam deportato poena capitis adrogatur. et haec ita, sive quis non excesserit in exilium intra tempus intra quod debuit, sive etiam alias exilio non obtemperaverit: nam contumacia eius cumulat poenam. et nemo potest commeatum remeatumve dare exuli, nisi imperator, ex aliqua causa. I relegati o coloro che sono deportati in un’isola devono astenersi dai luoghi dai quali sono interdetti. Ricorriamo a questo diritto affinché il relegato non si rechi in luoghi vietati. Altrimenti a un relegato a tempo è assegnato l’esilio perpetuo, al relegato in perpetuo la relegazione su un’isola, al relegato in un’isola la deportazione, al deportato nell’isola la pena capitale. E così se qualcuno non sarà andato in esilio quando doveva o non avrà ottemperato altrimenti all’esilio. Infatti la sua contumacia aumenta la pena. Nessuno infatti può concedere agli esuli il congedo o il ritorno se non l’imperatore per qualche ragione.

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Lenel 1889.I, 667-670. Krüger 1886, 94 ss.; Liebs 2017, 280 ss. 64 Liebs 2017, 281. 65 Astolfi 1996, passim. 63

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Domenico Dursi Il testo descrive la condizione dei relegati su un’isola, pena cui erano sottoposti i rei di alcuni crimini, quali ad esempio, lo stupro o l’adulterio. Una prima considerazione. Lenel in nota richiama un passo delle Istituzioni gaiane, Gai. 1.27, in tema di lex Aelia Sentia come spiegazione per la collocazione dell’escerto sotto la rubrica ad legem Aeliam Sentiam. Osserviamolo. Gai. 1.27: Quin etiam in urbe Roma vel intra centesimum urbis Romae miliarium morari prohibentur. et si qui contra ea fecerint, ipsi bonaque eorum publice venire iubentur ea condicione, ut ne in urbe Roma vel intra centesimum urbis Romae miliarium serviant neve umquam manumittantur; et si manumissi fuerint, servi populi Romani esse iubentur. et haec ita lege Aelia Sentia conprehensa sunt. È anzi loro proibito anche trattenersi in Roma città ed entro cento miglia dalla stessa; e se sia stata fatta qualcosa contraria, è ordinato di vendere pubblicamente essi e i loro beni, con la clausola che non servano in Roma ed entro cento miglia dalla stessa, e che non siano mai manomessi; e, se lo fossero, è disposto che siano servi del popolo romano. Queste prescrizioni sono contenute nella legge Elia Senzia.

Il contesto da cui è estrapolato il paragrafo è dedicato alla condizione dei dediticii creati dalla legge Elia Senzia, cioè, appunto, quegli schiavi che erano stati assoggettati a pene piuttosto gravi. Peraltro – occorre segnalare – le sanzioni richiamate paiono diverse da quelle cui si riferisce Marciano. Infatti, vi leggiamo che questi soggetti non possano vivere a Roma e, nel caso di violazione del divieto, debbano essere venduti insieme ai loro beni ed essere schiavi a Roma o a una distanza non maggiore di cento miglia, con l’ulteriore divieto di essere manomessi. In caso di ulteriore violazione, invece, sarebbero divenuti servi poenae. A me pare, alla luce di ciò, sia pur con ogni cautela, che, in questo caso, il rinvio di Lenel sia inconferente. Marciano, infatti, affronta il caso di individui – non schiavi – condannati al divieto di accedere a taluni luoghi, nello specifico, relegati e deportati su un’isola. Qualora il condannato violi l’interdizione, gli è comminata una sanzione più grave. L’aspetto che accomuna i due testi è soltanto quello di una sorta di gradualità nell’applicazione delle sanzioni e cioè, la regola per cui dall’inottemperanza di una pena discende l’irrogazione di una maggiore. Peraltro, Marciano sembrerebbe piuttosto parafrasare il contenuto di un editto di Adriano riferito da Callistrato. Si veda Call. 6 de cogn., D. 48.19.28.13: In exulibus gradus poenarum constituti edicto divi Hadriani, ut qui ad tempus relegatus est, si redeat in insulam relegetur, qui relegatus in insulam excesserit, in insulam deportetur, qui deportatus evaserit, capite puniatur. Con un editto del divo Adriano fu stabilita una gradazione delle pene per gli esuli, di modo che se colui che fu relegato a tempo ritorni è relegato nell’isola, se colui che è relegato nell’isola uscì, è deportato nell’isola, se colui che è deportato evase è punito con il supplizio capitale.

Tra i due testi vi è una notevole coincidenza anche lessicale. In particolare, il provvedimento adrianeo spiega come i soggetti sottoposti a limitazioni non possano allontanarsi dal luogo cui sono stati assegnati, onde evitare di incorrere in pene più gravi. Il contenuto è sostanzialmente identico a quello del passo marcianeo e potremmo forse ritenere che il nostro giurista lo stesse esaminando. Rinviando ai commenti per l’approfondimento delle questioni poste dal frustolo, occorre segnalare in questa sede come il testo non sembrerebbe presentare collegamenti con i pur molteplici aspetti disciplinati dalla legge Aelia Sentia. Ancora. 30

Institutionum libri Marc. 13 inst., D. 30.117: Si quid relictum sit civitatibus, omne valet, sive in distributionem relinquatur sive in opus sive in alimenta vel in eruditionem puerorum sive quid aliud. Se sia stata lasciata qualcosa alle città, è tutto valido, tanto che sia stata lasciato per distribuzioni, quanto per opere, quanto per alimenti quanto per la formazione dei fanciulli quanto per qualsiasi altra cosa.

Nel brano si discute della validità di lasciti alle civitates finalizzati a un qualche scopo. Anche in questo caso non sembrerebbero emergere collegamenti con i diversi profili disciplinati dalla lex Aelia Sentia. Del resto, è appena il caso di segnalare come lo stesso Lenel fosse consapevole del problema, considerato che inserisce un asterisco prima del testo, proprio a significare una collocazione incerta e fuori contesto. Infine, un ulteriore lacerto desta non poche perplessità: Marc. 13 inst., D. 44.1.19: Omnes exceptiones, quae reo competunt, fideiussori quoque etiam invito reo competunt. Tutte le eccezioni che competono al debitore principale competono al fideiussore anche contro la volontà del debitore.

Come si vede, il frammento si sofferma sulla spettanza al fideiussore delle eccezioni proprie del debitore garantito. Dal frustolo sembrerebbero emergere tematiche ben distanti da quelle della lex Aelia Sentia. Infatti, da un lato potrebbero profilarsi questioni inerenti al processo: l’exceptio è istituto squisitamente processuale attraverso cui il convenuto prova a neutralizzare le pretese dell’attore versate nell’azione; dall’altro, al più, problematiche concernenti le obbligazioni di garanzia. Qualche dubbio era sorto nello stesso Lenel66, il quale almeno in nota ipotizzava che il testo potesse essere stato inserito in un commento ad leges de adpromissoribus latas. La concisione del luogo, tuttavia, non consente di immaginare di cosa il giurista si stesse occupando. In sostanza, a me pare che l’esiguità dei dati a nostra disposizione non consenta di pronunciarsi con un adeguato grado di verosimiglianza. L’eterogeneità degli argomenti affrontati nel libro tredici mi indurrebbe, sia pur con le cautele del caso, a escludere che questi testi potessero essere dedicati a un commentario alla legge Aelia Sentia, per quanto esteso potesse essere. Del resto, occorre segnalare come il commentario paolino alla legge, di cui ci sono giunti solo 10 frammenti67, si occupa in ognuno di essi o di manomissioni o di libertà fedecommissaria o, al più, di condizione giuridica dei liberti; del pari, il commentario ulpianeo, a noi noto attraverso 4 testi68, si occupa di manomissioni, cause di libertà e condizione dei deditici. Inoltre, occorre sottolineare come assai peculiare apparirebbe l’inserimento di commentari a leggi all’interno di un’opera sistematica. Sotto questo profilo, le perplessità ora avanzate sembrano rafforzarsi e per le medesime ragioni, con riferimento ai libri decimo, undicesimo e dodicesimo, relativi, secondo lo studioso tedesco, come si ricordava, alle leggi Iulia e Papia: ma, è bene ricordarlo, disponiamo di non più di tre frammenti per libro: altrettanto può os-

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Lenel 1889.I, 670 nt. 2. Lenel 1889.I, 120 s. 68 Lenel 1889. II, 930 s. 67

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Domenico Dursi servarsi in riferimento al primo testo del libro tredici, che sarebbe, secondo Lenel69, dedicato al commento della lex Falcidia. In sostanza, ancora una volta, l’esiguo numero di testi e l’ampiezza degli argomenti richiamati non consente di stabilire di quali materie Marciano si occupasse in questi libri. In altri termini, le opzioni palingenetiche leneliane concernenti la seconda parte delle Institutiones di Elio Marciano appaiono altamente congetturali. Ciò, peraltro, era inevitabile in ragione dei dati a disposizione. 5. Altra importante peculiarità delle Istituzioni, è la trattazione della materia penalistica. Al riguardo, occorre rilevare come le Istituzioni marcianee siano le prime a contemplare, con certezza, una siffatta materia, il che avviene all’interno del libro 14. Si è, invero, sostenuto che anche le Istituzioni di Fiorentino e quelle di Paolo avessero dato spazio all’argomento, ma di ciò non abbiamo traccia sicura70. Anche in questo caso, Lenel ipotizza che l’organizzazione della materia avvenisse sulla base della discussione di singole leggi che reprimevano specifiche ipotesi criminose. Del resto, è stato rilevato che le leges publicorum iudiciorum costituissero indefettibile referente sistematico e concettuale, baricentro non solo della riflessione giurisprudenziale, ma anche dello stesso ordinamento processualcriminale71. Secondo l’impostazione leneliana, le leggi discusse nel libro 14 delle Institutiones sarebbero le seguenti: la lex Iulia maiestatis, la lex Cornelia de sicariis, la lex Pompeia de parricidiis, la lex Cornelia de falsis, la lex Iulia peculatus, la lex Iulia repetundarum, la lex Iulia de residuis, la lex Iulia de vi privata. In questo caso, a supporto della ricostruzione rievocata, a mio avviso, si pongono più fattori. In primo luogo, è appena il caso di osservare che il nostro giurista si occupò in un’opera in due libri di giudizi pubblici, di cui conosciamo 39 frammenti. In questo scritto, Marciano avrebbe discusso della lex Iulia de adulteriis, della lex Pompeia de parricidiis, della lex Cornelia de falsis, della lex Iulia de annona, della lex Iulia peculatus, della lex Fabia de plagiariis, forse della lex Iulia de ambitus, della lex Iulia repetundarum e della lex Iulia de maiestatis. Parrebbe emergere, dunque, una notevole coincidenza di argomenti. Certo, sarebbe utile indagare circa il rapporto tra queste due opere. In proposito, si è osservato che il de iudiciis publicis potrebbe aver costituito, in qualche misura, una sorta di lavoro preparatorio rispetto al libro 14 delle Istituzioni72.

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Lenel 1889.I, 669. Pietrini 2012, 23 ss. 71 Così Botta 2008, 292; di elementare trattazione delle leges iudiciorum publicorum parla, in proposito, Ruggiero 2017, 299. 72 Botta 2008, 315. 73 Marc. 1 de publ. iud., D. 48.2.13pr.: Mulierem propter publicam utilitatem ad annonam pertinentem audiri a praefecto annonae deferentem divus Severus et Antoninus rescripserunt. famosi quoque accusantes sine ulla dubitatione admittuntur. milites quoque, qui causas alienas deferre non possunt, qui pro pace excubant, vel magis ad hanc accusationem admittendi sunt. servi quoque deferentes audiuntur. (Gli imperatori Severo e Antonino stabilirono con un rescritto che una donna che riferisse per una questione di pubblica utilità concernente l’annona fosse sentita dal prefetto dell’annona. Anche gli accusatori infami vi sono ammessi senza alcun dubbio. Anche i soldati che non possono denunziare le altrui cause, che vegliano per la pace, a maggior ragione si devono ammettere per quest’accusa. Si sentono anche le delazioni dei servi). 70

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Institutionum libri Mi pare certamente convincente l’idea che antepone, cronologicamente, il lavoro monografico sul processo penale alle Istituzioni. In tal senso, indirizza un dato: se, infatti, come si segnalava, nelle Institutiones appare la formula divi Severus et Antoninus, nel de iudiciis publicis si trova sempre divus Severus et Antoninus73 e, talvolta, anche divus Severus et Antoninus Magnus74. Mi pare, dunque, abbastanza agevole desumere che lo scritto sui giudizi pubblici fu edito durante il principato di Caracalla, mentre le Istituzioni, come si è già visto, poco dopo la morte di questo imperatore. Possiamo, dunque, ipotizzare che nel libro 14 delle Istituzioni, Marciano affrontasse in maniera sintetica argomenti cui aveva riservato un’apposita trattazione monografica con i necessari approfondimenti. Ciò, proprio in ragione della coincidenza degli argomenti discussi, in qualche misura, fornirebbe conferma all’idea che il libro 14 fosse dedicato alla discussione delle singole leggi disciplinanti publica iudicia. Anche le Istituzioni di Giustiniano sembrerebbero deporre nella medesima direzione. Esse, come è stato rilevato75, sul punto trassero ispirazione da quelle del nostro Marciano. Ma vi è di più. Da un lato, infatti, si profilerebbe la disamina degli stessi argomenti. In entrambi gli scritti, in effetti, ancora una volta, sono discusse le stesse leggi. Inoltre, almeno da ciò che leggiamo nelle Istituzioni del VI secolo d.C. sembrerebbe che i giudizi pubblici fossero esclusivamente quelli previsti in apposite leggi76: quelle indicate, del resto, coincidono con i titoli di argomento penalistico delle Pauli Sententiae77 e con i titoli 48.4 - 48.15 del Digesto. In altre parole, potremmo dedurre che un libro sui giudizi pubblici avrebbe dovuto necessariamente richiamare e discutere le suddette leggi. Un’ultima annotazione sulla trattazione del diritto penale. È stato da più parti rilevato78 l’interesse di Marciano per questioni su cui si era posta l’attenzione dei declamatori. Se ciò non si può escludere, non si può trascurare, però, come la coincidenza tra i temi affrontati nei libri Institutionum e le questioni che venivano discusse nelle scuole di retorica potrebbe trovare spiegazione nel rilievo che, in fin dei conti, in entrambi i contesti si discutesse, sia pur con diverse finalità, delle leges publicorum iudiciorum, nonché della casistica e delle problematiche ad esse connesse. Né si può dimenticare il rilievo che spesso gli argomenti degli oratori, anche in occasione di esercitazioni scolastiche, si svolgevano a partire dalla discussione di un’opinione giurisprudenziale79. Del pari, occorre pure segnalare come già nella legislazione adrianea ed antonina si ricorresse a criteri ermeneutici propri dell’arte retorica, il che pure

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Marc. 2 publ., D. 48.17.1pr.: Divi Severi et Antonini magni rescriptum est, ne quis absens puniatur: et hoc iure utimur, ne absentes damnentur: neque enim inaudita causa quemquam damnari aequitatis ratio patitur. (Il divo Severo e il grande Antonino stabilirono che gli assenti non siano puniti: e per questo gli assenti non sono condannati secondo diritto: un motivo di equità, infatti, non consente di condannare qualcuno senza che ne sia ascoltata la ragione). 75 Pietrini 2012, 158 ss. 76 Inst. 4.18.3: Publica autem iudicia sunt haec. lex Iulia maiestatis, quae in eos, qui contra imperatorem vel rem publicam aliquid moliti sunt, suum vigorem extendit. cuius poena animae amissionem sustinet et memoria rei et post mortem damnatur. (Giudizi pubblici sono i seguenti. Quello di cui alla legge Giulia di lesa maestà, che spiega la sua efficacia a carico di coloro che abbiano macchinato qualcosa contro l’imperatore o la res publica. La pena relativa comporta la perdita della vita, e anche dopo la morte del colpevole ne è condannato il ricordo). 77 P.S. 5.29-5.37. 78 Querzoli 2011, passim; Pietrini 2012, 103 ss.; diversamente, Fressura, Mantovani 2018, 647, i quali hanno posto in rilievo come, al più, ciò potesse segnalare una pratica del giurista come declamatore o avvocato. 79 Mantovani 2007, 352 e 371. Analogamente Marotta 2012, 370.

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Domenico Dursi potrebbe spiegare l’esigenza di interpretare i provvedimenti normativi imperiali con schemi tipici dell’ars oratoria80. 6. Appare opportuno, ora, riepilogare la sistematica delle Istituzioni marcianee che è emersa dall’analisi sin qui condotta. Ciò consentirà anche di meglio focalizzare l’attenzione su analogie e differenze rispetto alle altre opere della giurisprudenza recanti il titolo Institutiones, al fine di valutare pure se tra queste il giurista abbia tratto il suo modello. Andiamo con ordine. L’esposizione marcianea prende le mosse dalla trattazione delle fonti del diritto e dalla spiegazione di nozioni generali e propedeutiche alla successiva esposizione. Passa, quindi, alla disamina del diritto delle persone e del diritto di famiglia, con particolare attenzione alla materia della tutela; la disamina prosegue con le res e i diritti reali; subito dopo, emergono tracce di una possibile trattazione delle obbligazioni, ma la questione resta dubbia; vi è, poi, una ponderosa illustrazione delle successioni, che sembra svolgersi in maniera peculiare, poiché parrebbe articolarsi sulla base dello schema successioni a titolo universale / successioni a titolo particolare e non già su quello più usuale ai nostri occhi devoluzioni testamentarie / devoluzioni legittime. Resta l’enigma delle materie discusse nei libri 10-14 a causa dei pochi frammenti pervenuti, ma non possiamo escludere che qui trovasse sede la materia processuale o, al limite, quella delle obbligazioni, o, ancora, il diritto penale. Infine, il libro 14 è dedicato ai publica iudicia, e ancora una volta, nulla possiamo dire con riguardo agli ultimi due libri. Proviamo a raffrontare questa scansione con quella delle Istituzioni di Gaio, opera sicuramente precedente allo scritto marcianeo, nella consapevolezza, però, che si tratta di un lavoro assai più breve. Le Institutiones del giurista antoniniano presentano una parte iniziale, come già si osservava, analoga in quanto, come noto, le prime battute sono dedicate a fonti del diritto e nozioni generali, quindi il diritto delle persone e di famiglia, la classificazione delle cose e i diritti reali; le successioni, organizzate, però, sulla base dell’esistenza o meno di un testamento; le obbligazioni e, infine, il processo. Per quanto, come meglio si vedrà, differenze si rinvengano anche nella scansione degli argomenti in materia di diritto delle persone, con particolare riguardo all’ordine di esposizione delle sezioni dedicate a schiavi, ingenui e libertini81, la più macroscopica divergenza tra le due opere si rinverrebbe, invece, nella circostanza che nello scritto marcianeo non sembrerebbe esserci – almeno per quel che a noi consta – una parte dedicata al processo. Tuttavia, non si può tacere come una trattazione autonoma della procedura civile, per i dati a nostra disposizione, la si trovi, nell’ambito della giurisprudenza dell’età del principato82, solo in Gaio83. Al riguardo, potremmo ipotizzare che, verosimilmente,

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Marotta 1988, 171 ss. e part. 208. Infra Profili palingenetici libro I. 82 Occorre ricordare, infatti, che nei tripertita di Sesto Elio Peto Cato la terza parte era dedicata alle legis actiones, come riferisce Pomponio. Pomp. l. sing ench., D. 1.2.2.38: (…) Sextum Aelium etiam Ennius laudavit et exstat illius liber qui inscribitur ‘tripertita’ qui liber veluti cunabula iuris continet: tripertita autem dicitur, quoniam lege duodecim tabularum praeposita iungitur interpretatio, deinde subtexitur legis actio. (…) (Anche Ennio fece le lodi di Sesto Elio, e di costui è rimasto un libro che si intitola Tripertita: libro che contiene, per così dire, la culla del diritto; è chiamato Tripertita in quanto, premessa la Legge delle Dodici Tavole, vi si unisce l’interpretazione e, infine, è inserita l’azione di legge). 83 Diversa questione è, invece, quella di stabilire se nel concetto di actio si esprimesse anche il contenuto sostanziale della posizione giuridica o, tra quest’ultima e l’azione i giuristi romani avessero elaborato una distinzione teorica. Sul punto, che qui non interessa, si rinvia alle pagine di Pugliese 1939, 173 ss. 81

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Institutionum libri l’affermarsi delle cognitiones extra ordinem84 possa aver determinato una crescita esponenziale delle regole processuali tali da rendere utile una disamina unitaria della materia, per quanto il maestro antoniniano non affronti espressamente le nuove forme processuali, le quali, forse, non erano riconducibili a un denominatore comune85. Si potrebbe, dunque, ritenere che nonostante il progressivo affermarsi di queste nuove forme di processo, basilare da un punto di vista concettuale, non già normativo, restasse, ancora, per i giuristi il rito formulare. La circostanza che in Marciano non vi siano riferimenti espliciti a questa forma di processo si spiega, ragionevolmente, alla luce dei tagli inflitti dai giustinianei per i quali quel rito era ormai desueto. È bene precisare, però, come i testi delle Istituzioni marcianee a noi pervenuti al più consentano di non escludere che il processo civile potesse avervi trovato spazio. Differenze non trascurabili emergono rispetto alle successioni e alle obbligazioni. Quanto alle prime, da un lato, infatti, Marciano parrebbe esporle, come si diceva, sulla base del criterio devoluzione di eredità a titolo universale / a titolo particolare, che non sembrerebbe, peraltro, costituire una novità assoluta se, come è stato rilevato86, l’esposizione del ius civile di Sabino non trattava i legati nell’ambito della successione testamentaria, ma li posponeva alla successione legittima, la quale ultima era illustrata come seconda possibilità di trasmissione ereditaria a titolo universale. Gaio, invece, di dichiarata ascendenza sabiniana, sul punto si discostava dallo scolarca, probabilmente elaborando egli stesso un canone espositivo destinato a riscuotere grande successo. Egli87, cioè, affrontava anche i legati nell’ambito della successione testamentaria. Come noto, del resto, si tratta pur sempre di disposizioni contemplate nel testamento. In questo caso, purtroppo, risultano vani i tentativi di confronto con la manualistica severiana e con quella di poco precedente, a causa dell’esiguità delle testimonianze. Tuttavia, sull’argomento, i commissari giustinianei nelle Institutiones optarono invece, come si sa, per la sistematica gaiana88. Quanto alle obbligazioni, se si accoglie l’ipotesi che esse avrebbero trovato spazio tra il terzo e il quarto libro, dopo i diritti reali, pure emergerebbe un discostamento dalla sistematica gaiana, recepita nelle Istituzioni di Giustiniano. In questi manuali, infatti, come noto, subito dopo i diritti reali vengono affrontate le successioni, a partire dall’acquisto dell’eredità considerato quasi alla stregua di un modo di acquisto della proprietà. Mi pare, dunque, si possa affermare come lo scritto gaiano fosse certamente presente a Marciano, il quale, però, non ne faceva mai esplicita menzione e se ne discostava in non pochi punti: ciò sia in ragione del fatto, probabilmente, che ancora a quel tempo le Istituzioni di Gaio non avrebbero costituito un modello89, sia, probabilmente, per una diversa destinazione dell’opera90.

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Su cui si rinvia a Orestano 1953, passim; Orestano 1980, 237 ss.; Raggi 1959, passim; Bellodi Ansaloni 1998, passim. Da ultimo Guasco 2017, passim e ivi bibliografia. 85 Orestano 1980, passim. 86 Astolfi 2001, 199 ss. 87 Gai. 2.192 ss. 88 Inst. 2.10 ss. affronta la materia della successione testamentaria; Inst. 3.1 ss., la successione ab intestato. 89 Si deve segnalare, a tal proposito, che lo scritto gaiano costituiva una novità nel panorama della letteratura giuridica romana che per lungo tempo era rimasta ai margini di quel fenomeno di trasformazione “in arte” di una disciplina già avvenuto, ad esempio, per la retorica e l’architettura. La ragione – si è osservato – potrebbe rinvenirsi nella circostanza che la letteratura giuridica era la testimonianza diretta dell’elaborazione della disciplina nel suo divenire, non già l’opera di un erudito che trascriveva e ordinava a partire da altri libri. Così Mantovani 2018, passim. 90 Infra §. 7.

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Domenico Dursi Proprio il problema della collocazione della materia delle obbligazioni, ci conduce al confronto con le Istituzioni di Fiorentino, che per dimensioni (12 libri) si avvicinano a quelle di Marciano. Una considerazione preliminare si rende necessaria: non siamo in grado di collocare cronologicamente con certezza lo scritto di Fiorentino91, il che esclude, allo stato delle nostre conoscenze, la possibilità di individuare possibili rapporti di derivazione. In secondo luogo, si deve sempre tener presente l’esiguità dei dati a nostra disposizione. Ci si dovrà, pertanto, limitare a segnalare analogie e differenze. È interessante porre in evidenza, però, come, se si accetta l’ipotesi che Marciano affrontasse la materia delle obbligazioni tra il terzo e il quarto libro, cioè tra i diritti reali e le successioni, si ricaverebbe un’ampia convergenza nella scansione delle materie con le Institutiones di Fiorentino. Queste ultime, infatti, dopo un’introduzione dedicata alle nozioni generali si occuperebbero del matrimonio, dell’acquisto della proprietà, delle obbligazioni, per concludersi, poi, con testamenti e legati92. La maggiore differenza, in questo caso, risiederebbe nella mancata trattazione della materia penale in Fiorentino, benché si sia ipotizzato come pure quest’argomento potesse essere affrontato93. Ad ogni modo, le analogie paiono più che evidenti: ciò potrebbe lasciar congetturare che questi due giuristi fossero latori di un’idea di Institutiones diversa da quella gaiana94 che poi avrebbe prevalso. Infine, le Istituzioni di Ulpiano. L’opera è sostanzialmente coeva allo scritto marcianeo e si presenta di assai circoscritte dimensioni. Anche in questo caso, peraltro, un compiuto raffronto è impedito dalla scarsità dei frammenti ulpianei. Possiamo, però, provare a individuare somiglianza e diversità nella struttura. In base alla ricostruzione di Lenel95, Ulpiano aveva organizzato il suo manuale partendo dalle nozioni generali, soffermandosi, quindi, sul diritto di famiglia, i diritti reali, le successioni testamentarie e quelle intestate. Alla luce di ciò, allora, con tutte le cautele del caso, possiamo evidenziare come le differenze con Marciano parrebbero emergere nella disposizione degli argomenti successivi ai diritti reali e nella sistemazione della materia ereditaria, ma, lo si ribadisce, il numero dei frammenti delle Istituzioni ulpianee non consente che congetture. Tuttavia, da questo rapido e complicato raffronto parrebbe risultare che, almeno per la parte iniziale dei lavori Istituzionali si fosse formata una regola espositiva, sia pur con piccole differenze nella trattazione di singoli argomenti e sia pur nell’ambito di una dialettica, che possiamo cogliere, al più, come un rumore di sottofondo, tra due visioni complessivamente alternative sulle opere istituzionali, quella gaiano – ulpianea,

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Si tratta, come noto, di dubbi già manifestati da Lenel, il quale in 1889.I, 171 s. afferma dubitativamente che sarebbe stato contemporaneo di Paolo e Ulpiano; Lenel 1889.II, 1246 afferma, altrettanto dubitativamente, che potrebbe essere stato contemporaneo di Cervidio Scevola, dunque attivo in un arco di tempo tra il principato di Marco Aurelio e quello di Settimio Severo. Sul giurista, si veda Querzoli 1996, passim. 92 Altrettanto parrebbe emergere dalle Istituzioni di Callistrato, che nel II libro discute dei diritti reali e nel III le obbligazioni. Tuttavia, quest’ultimo caso risulta poco significativo, in quanto non sappiamo dove trattasse le successioni. Simili congetture potrebbero avanzarsi riguardo alle Istituzioni di Paolo, che addirittura nel II libro affrontano le servitù e le obbligazioni. Ma anche in questo caso, nulla sappiamo della collocazione della materia ereditaria. 93 Supra. 94 Infra. 95 Lenel 1889.II, 926-930.

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Institutionum libri cui potremmo ascrivere i lavori di Callistrato e Paolo (rispettivamente in tre e due libri) di scritti più brevi e quella di trattazioni più ampie, quasi alla stregua di trattati, che sembrerebbe propugnata da Marciano e Fiorentino. 4. Le citazioni: Marciano e la giurisprudenza 1. Un dato che immediatamente emerge dalla lettura dei frammenti è la presentazione di ipotesi di fatto, concatenate le une alle altre, sempre più particolareggiate. Sembrerebbe, quasi, che l’opera, dopo aver presentato definizioni e classificazioni96, avesse un incedere casistico o al fine di misurare ed evidenziare la tenuta delle classificazioni, o, forse, all’opposto, per rilevare come le classificazioni e le definizioni non fossero intrinsecamente in grado di racchiudere la complessità del reale. In ciò, peraltro, sembrerebbe emergere quella “logica che riusciva a combinare positività ed astrazione – dalla concretezza del caso alla forza del concetto che determina la regola, per tornare poi al caso, ma rischiarato dall’astrazione disciplinante (…)”97. Emerge, poi, da una lettura dei frammenti, oltre a un non raro ricorso alla lingua greca, un ragguardevole utilizzo di citazioni, non solo di giuristi98. Lo scritto di Marciano, dunque, si pone in un frequente confronto con la letteratura ad esso precedente, informando i lettori della pluralità di punti di vista tra i giuristi. Si contano, complessivamente, ben 23 citazioni su un totale di 142 testi, approssimativamente, una ogni 7 frammenti, in buona parte derivanti – il dato è curioso – dal libro 7 delle Istituzioni. A queste, poi, dobbiamo aggiungere le 8 citazioni presenti nei testi delle Istituzioni giustinianee ma riconducibili, verosimilmente, in base al criterio a suo tempo fissato99, a quelle di Marciano. Il dato è di un certo rilievo se paragonato con quello delle Istituzioni di Gaio, ove possiamo registrare 51 citazioni all’interno di uno scritto, però, che conosciamo quasi integralmente. Una proiezione statistica, cioè, indurrebbe a ritenere che Marciano avesse una tendenza ben più spiccata di Gaio all’esplicito richiamo delle opinioni dei giuristi. Il raffronto, poi, con le altre opere recanti lo stesso titolo conservate nel Digesto rischia di essere non particolarmente significativo, in quanto diverso è il numero di frammenti a noi pervenuti cui deve aggiungersi il fattore della casualità: non si può, infatti, escludere che testi per noi perduti di scritti istituzionali fossero densi di richiami alle tesi di altri giureconsulti differentemente da quelli a noi noti. Tuttavia, qualche indicazione, forse, si può ricavare. Così, nei pochi residui (41 testi) dello scritto di Fiorentino, risultano due sole citazioni, peraltro di giuristi abbastanza risalenti, Aquilio Gallo e Trebazio Testa; nei sette escerti di Callistrato non si riscontrano richiami di giureconsulti; in Ulpiano troviamo solo il notissimo riferimento a Celso nel brano utilizzato per il formidabile incipit del Digesto; ancora, nei 4 brani delle Institutiones paoline non troviamo alcuna citazione. Alla luce di tanto, potremmo, forse cogliere nel ‘citazionismo’,

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Sulla presenza di definizioni e classificazioni Fressura, Mantovani 2018, 645. Schiavone 2017, 201. 98 In riferimento alle citazioni tra i giuristi romani, si rinvia ai molteplici contributi di Stolfi 2001, 345 ss.; Stolfi 2002, 40 ss.; Stolfi 2010, 197 ss.; Stolfi 2011, 123 ss.; Stolfi 2016a, passim; Stolfi 2016b, 129. 99 Supra §. 1. 97

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Domenico Dursi un elemento dello stile di Marciano100. Peraltro, aspetto degno di nota, assai spesso il maestro severiano richiama i digesti di autori precedenti, il che, in qualche misura, sarebbe conforme all’incedere casistico del suo trattato. Analizziamo più da vicino. I giuristi più citati sono Celso (2 più 1 tratta da un brano delle Istituzioni giustinianee riconducibile a Marciano)101, Marcello (6 cui se ne aggiunge una tratta dalle Istituzioni giustinianee)102, Giuliano (3 più 2 dalle Istituzioni di Giustiniano)103, Papiniano (2 più 4 tratte dalle Istituzioni del VI secolo104, più 1 da P. Vindob. L 59 + 92 fr. 2 f. 1 recto col. 1 r. 16), Cervidio Scevola (2 più 1 tratta dalle Istituzioni giustinianee che corrisponde a fr. 2 di P. Vindob. 59 + 92 f. 1. verso col. 1 r. 23)105, ma vengono richiamati anche Aristone (2)106, Pomponio (1)107 e Papirio Frontone (1)108. Quanto a Celso, si tratta di due riferimenti, entrambi in materia ereditaria, uno dei quali proveniente, come dichiara Marciano, dal ventesimo libro dei digesti celsini, l’altro di non precisata derivazione109. Anche la citazione celsina, ricavabile dalle Istituzioni di Giustiniano, non indica l’opera da cui è tratta e attiene alla materia ereditaria. Quanto a Marcello, questi è richiamato ben sei volte nelle Istituzioni, di cui quattro in un unico escerto, come vedremo tra breve. In due circostanze, Marciano specifica lo scritto di Marcello cui si riferiva: si tratta, precisamente, del libro dodicesimo dei digesti, in materia di fedecommessi a favore del fisco e il libro settimo della stessa opera, in materia di concubinato. Riguardo alle citazioni più generiche di questo giurista, occorre segnalare che quella rinvenuta nelle Istituzioni di Giustiniano riguarda la nascita di un figlio da una schiava manomessa durante la gestazione; nelle citazioni tratte dai brani del Digesto, invece, vengono in rilievo questioni concernenti fedecommessi e legati. Su talune peculiarità che paiono riscontrarsi in uno di questi riferimenti, si tornerà poco oltre. Si contano, invece, tre richiami a Salvio Giuliano, uno relativo a un parere espresso nel libro ventisette dei suoi digesti, relativo alla manomissione di uno schiavo da parte di un filius familias alieni iuris; un secondo, di ignota provenienza, concernente una istituzione d’erede assoggettata a condizione impossibile; infine, il terzo, tratto dal libro trentesimo dei digesti, riguardante l’interpretazione del contenuto di un legato. Vertono pure sulla materia ereditaria e sui legati in particolare, le due citazioni giulianee che ricaviamo dai testi delle Istituzioni di Giustiniano. Cervidio Scevola è richiamato in materia di fedecommessi e in riferimento a un testamento con un legato di uno schiavo il quale era stato manomesso dallo stesso de cuius. Quanto al richiamo di Scevola ricavabile dalla Istituzioni imperiali, l’argomento discusso, invece, è quello del computo dei termini per richiedere l’excusatio dalla tutela. Aristone è richiamato in tema di prelegati senza alcuna indicazione dell’opera ove il giurista traianeo aveva esposto il parere citato e sul signi-

100 Ferrini 1929c, 280, pure nota l’elevata frequenza delle citazioni in Marciano. Da ultimo, analogamente, Fressura, Mantovani 2018, 654. 101 Marc. 7 inst., D. 32.65.3; Marc. 8 inst., D. 28.5.52.1; Inst. 2.20.12. 102 Marc. 7 inst., D. 30.113pr.; Marc. 8 inst., D. 30.114.3-4-16 (4 volte); Marc. 12 inst., D. 25.7.3.1; Inst. 1.4pr. 103 Marc. 1 inst., D. 38.2.22; Marc. 4 inst., D. 28.7.16; Marc. 6 inst., D. 36.2.20; Inst. 2.20.18; Inst. 2.20.20. 104 Marc. 7 inst., D. 28.7.18.1; Marc. 7 inst., D. 30.113.5; Inst. 1.25.2; Inst. 2.20.14; Inst. 2.25.1. 105 Marc. 7 inst., D. 40.5.50; Marc. 8 inst., D. 30.114.7; Inst. 1.25.16. 106 Marc. 6 inst., D. 30.88; Marc. 7 inst., D. 33.7.17.1. 107 Marc. 6 inst., D. 34.5.14. 108 Marc. 8 inst., D. 30.114.7. 109 Dursi 2017b, 16 ss.

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Institutionum libri ficato del lemma naucella adoperato per confezionare un legato. Di Pomponio è ricordato un parere circa la validità di una disposizione a titolo particolare di un testamento. Papirio Frontone è menzionato insieme a Cervidio Scevola sul tema dei fedecommessi. Alla presenza di Papiniano nelle Istituzioni di Marciano dedicheremo un apposito spazio. Oltre ai giuristi attivi tra il II e il III secolo d.C., nelle Istituzioni marcianee possiamo rinvenire anche citazioni di giuristi di epoche precedenti. Procedendo a ritroso nel tempo, si deve segnalare una citazione di Gaio Cassio Longino110 del quale è richiamata un’opinione in tema di legato di bestiami, ove il giureconsulto affermava che dovessero intendersi ricompresi nella disposizione mortis causa oltre che i quadrupedi che pascolano in gregge anche i maiali. Risalendo ulteriormente si devono ricordare i richiami delle opinioni di Trebazio Testa (1)111, in tema di validità dei legati e di Labeone (1)112 in tema di interpretazione di disposizioni mortis causa a titolo particolare . Quanto a Trebazio, tuttavia, non si può escludere che si trattasse di citazioni di seconda mano, in quanto il parere del giurista repubblicano è ricordato insieme alle tesi di Pomponio (altrettanto avviene nei libri regularum113), il che consente di ipotizzare come il maestro severiano rinvenisse l’opinione dell’antico giurista proprio nell’opera di Pomponio. 2. Di più. Alcuni confronti testuali potrebbero rilevare ulteriori riferimenti impliciti che – è stato rilevato114– mostrerebbero una certa dipendenza da opere della giurisprudenza preseveriana e severiana. Vediamoli. Occorre, in primo luogo, appuntare l’attenzione su un lacerto tratto dall’ottavo libro delle Istituzioni marcianee: Marc. 8 inst., D. 30.114.15: Cum pater filio herede instituto, ex quo tres habuerat nepotes, fideicommisit, ne fundum alienaret et ut in familia relinqueret, et filius decedens duos heredes instituit, tertium exheredavit, eum fundum extraneo legavit, divi Severus et Antoninus rescripserunt verum esse non paruisse voluntati defuncti filium. I divi Severo e Antonino stabilirono a mezzo di rescritto che è corretto ritenere che il figlio non abbia rispettato la volontà del defunto quando il padre al figlio istituito, dal quale aveva avuto tre nipoti, chiese per fedecommesso di non alienare un fondo affinché restasse nella famiglia e il figlio morendo istituì due eredi e diseredò il terzo e lasciò in legato quel fondo a un estraneo.

Il brano si presenta, in diversi punti, coincidente con un testo estrapolato dai Digesti di Ulpio Marcello. Marcell. 15 dig., D. 35.2.54: Pater filium ex quo tres habebat nepotes, heredem instituit fideique eius commisit, ne fundum alienaret et ut in familia eum relinqueret: filius decedens tres filios scripsit heredes. (…). Il padre istituì erede un figlio dal quale aveva tre nipoti e affidò alla sua fede di non alienare un fondo e di lasciarlo nella famiglia. Il figlio, morendo istituì eredi i tre figli. (…).

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Marc. 7 inst., D. 32.65.4. Marc. 6 inst., D. 34.5.14. 112 Marc. 7 inst., D. 32.65pr. ove, per vero, il nome del giurista augusteo appare due volte, ma sempre nel medesimo contesto. 113 Marc. 4 reg., D. 18.1.45. 114 Mattioli 2017, 409 e nt. 40. 111

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Domenico Dursi Come si anticipava, i due luoghi sono in parte sovrapponibili. In particolare, si può agevolmente osservare, in entrambi i lacerti la proposizione relativa di cui al primo rigo è a tratti, coincidente. Inoltre, in entrambi i testi troviamo la proposizione finale negativa introdotta da ne fundum alienaret. In quest’ultimo caso vi è una coincidenza perfetta. Una prima considerazione. Nel lungo frustolo marcianeo conservato in D. 30.114 risultano ben 4 citazioni di Marcello. Il dato è assai più significativo se si pensa che in ciò che a noi resta della complessiva produzione scientifica marcianea vi sono in tutto 8 citazioni di Marcello115. Da ciò, si può ricavare, agevolmente, che Marciano stesse discutendo, in questo passaggio delle sue Istituzioni, assai da vicino opinioni di Marcello in tema di diritto ereditario. Tuttavia, le ragioni della coincidenza testuale, a mio avviso, sono da ricercare altrove. Se, infatti, rispetto alla finale negativa, si capisce immediatamente come entrambi i giuristi stessero riportando una clausola che spesso doveva essere stata apposta nei testamenti e che perciò era, in qualche modo, stilizzata; quanto al resto mi pare che il riferimento al padre che aveva avuto tre nipoti dal figlio fosse anch’esso un modo schematico, quasi una formula, di descrizione di alcune fattispecie di diritto ereditario. D’altra parte, è appena il caso di segnalare che era forse il modo più lineare per descrivere la situazione di fatto che si intendeva analizzare. Ma, l’elemento decisivo in grado di illuminare la possibile ragione della sovrapponibilità tra i due testi è, a mio avviso, il rilievo che Marciano stesse parafrasando un rescritto, di cui, con ogni probabilità, riproduceva alcune espressioni. Da ciò, potremmo, forse, ipotizzare che la questione discussa dal giurista antoniniano fosse stata poi sottoposta a Settimio Severo e Antonino Caracalla, al fine di fissare una regola. Ulteriori coincidenze si palesano tra un luogo di Marciano e un testo tratto dai libri de cognitionibus di Callistrato. Soffermiamoci: Marc. 14 inst., D. 48.6.5.1: Si de vi et possessione vel dominio quaeratur, ante cognoscendum de vi quam de proprietate rei divus Pius τῷ κοινῷ τῶν θεσσαλῶν Graece rescripsit: sed et decrevit, ut prius de vi quaeratur quam de iure dominii sive possessionis. Il divo Pio stabilì con un rescritto in greco alla comunità dei Tessali che se si indaga sulla violenza e il possesso o sul dominio, si deve prima indagare sulla violenza e poi sulla proprietà della cosa: ma decretò anche, che prima si indaghi sulla violenza e poi sul diritto di proprietà o del possesso. Call. 5 de cogn., D. 5.1.37: Si de vi et possessione quaeratur, prius cognoscendum de vi quam de proprietate rei divus Hadrianus τῷ κοινῷ τῶν θεσσαλῶν Graece rescripsit. Il divo Adriano decise con rescritto in greco alla comunità dei Tessali che se si indaghi sulla violenza o sul possesso, la cognizione concernente la violenza va svolta prima di quella relativa alla proprietà.

I due testi raffrontati si presentano, in larga misura, sovrapponibili per quanto non manchino discrasie. In entrambi, infatti, è riportato il disposto di un rescritto116 relativo alla pregiudizialità del iudicium publicum de vi, rispetto all’interdetto unde vi. Occorre, tuttavia, segnalare come da Marciano il provvedimento sia attribuito ad Antonino Pio, da Callistrato ad Adriano. La questione, meritevole di approfondimento, sarà affrontata in sede di commento117, ma

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Liebs 2011, 72. Voci 1999, 17 s., ritiene che dovesse trattarsi, più precisamente, di un’epistula.

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Institutionum libri qui possiamo rilevare come la soluzione più rispettosa dei dati testuali indurrebbe a ritenere che vi sarebbero stati due provvedimenti – in tal senso deporrebbe anche il riferimento al dominium presente nel rescritto ricordato da Marciano e assente invece, in quello citato da Callistrato – richiesti118, entrambi, dai Tessali, i quali, forse, proprio a un diverso imperatore avrebbero sottoposto una seconda volta la questione o per l’emersione di nuovi elementi o nella speranza di una valutazione diversa dalla precedente. Ma Antonino Pio avrebbe confermato la decisione del predecessore. Per quanto, in questo caso, si possa affermare con un buon grado di verosimiglianza che lo scritto di Callistrato sia precedente a quello di Marciano119, a me pare che la coincidenza testuale si spieghi proprio in ragione della citazione di un rescritto in larga misura identico a quello di Adriano. In altre parole, le parti coincidenti dei due lacerti sarebbero i verba dei provvedimenti. 3. Passiamo, ora, ad alcuni raffronti tra le Istituzioni marcianee e alcune opere di Giulio Paolo. Marc. 1 inst., D. 40.9.9.2: Qui hac lege venierint, ne manumittantur, vel qui testamento prohibiti sint manumitti vel iussu praesidis provinciae, licet manumittantur, tamen ad libertatem non perveniunt120. Paul. lib. sing. reg., D. 40.1.9: Servus hac lege venditus, ne manumittatur, vel testamento prohibitus manumitti, vel a praefecto vel a praeside prohibitus ob aliquod delictum manumitti ad libertatem perduci non potest. Uno schiavo, venduto con la clausola “non sia manomesso” o che abbia subito divieto di essere manomesso per testamento o fu vietato dal preside o dal prefetto per qualche delitto non può conseguire la libertà.

I testi dei due giuristi, al di là dei profili squisitamente giuridici, analizzati in altra sede121, in effetti, presentano una certa assonanza e sono, sia pur limitatamente, sovrapponibili: in particolare, si tratta dell’espressione ne manumittatur, in Marciano, invero, al plurale, forse allo scopo di adoperare una forma impersonale per generalizzare, in Paolo al singolare e il riferimento al testamento. Al riguardo, dal momento che, ovviamente, risulta arduo fissare un rapporto di derivazione, in quanto si tratterebbe di stabilire quale delle due opere fosse stata scritta prima, a mio modo di vedere, vi è un’altra plausibile spiegazione di questa corrispondenza testuale: i due giuristi starebbero riportando il testo di una clausola, apposta in un contratto o in un testamento, contenente il divieto di manomettere lo schiavo trasferito, appunto, la clausola ne manumittatur. Essa, come vedremo nell’apposita sede, era stata al centro dell’attenzione dei principali giuristi severiani122, in quanto avrebbe potuto profilare una clausola negoziale valevole erga omnes. Inoltre:

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Sul punto si veda Mattioli 2017, 406 ss. Nel senso che Antonino Pio avrebbe ribadito la decisione di Adriano si veda Marotta 1988, 314; Solidoro Maruotti 1998, 63 s.; diversamente, ex multis, Mattioli 2017, 408 e ivi bibliografia, si orienta nel senso che si sarebbe trattato dello stesso provvedimento. 119 Mattioli 2017, 409. 120 Per la traduzione si veda la sezione di questo volume dedicata ai Fragmenta. 121 Infra. 122 Infra, Libro primo. 118

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Domenico Dursi Marc. 8 inst., D. 36.1.31.1: Si quis “bona sua” vel “omnia sua” rogaverit restituere, fideicommissariam restitutionem esse intellegendum est: nam meorum et tuorum appellatione etiam actiones contineri dicendum est. Se qualcuno chieda di rendere i ‘suoi beni’ o ‘tutte le sue cose’, si deve intendere che sia una restituzione fedecommissaria: infatti si dice che anche le azioni sono comprese nella nozione di cose mie e tue. Paul. 2 fideicomm., D. 50.16.91: ‘Meorum’ et ‘tuorum’ appellatione actiones quoque contineri dicendum est. Si dice che anche le azioni sono comprese nella nozione di cose mie e tue.

L’escerto marcianeo coincide perfettamente con il testo paolino a partire dal possessivo genitivo plurale meorum. Anche in questo caso si deve segnalare l’impossibilità di individuare la derivazione di un testo dall’altro, stante la difficoltà di definire quale dei due sia stato scritto prima. Ma, nuovamente, sembrerebbe profilarsi una possibile spiegazione. Infatti, la presenza di dicendum est potrebbe palesare la possibile natura di espressione di uso comune tra i giuristi, una sorta di ditterio. In questo senso, peraltro, parrebbe deporre il nam che introduce la frase nel testo marcianeo. In esso potrebbe, forse, cogliersi l’evocazione di una massima. Del pari, la circostanza che il luogo paolino sia versato dai compilatori nel titolo de verborum significatione del libro 50 del Digesto indurrebbe nella stessa direzione. Ancora. Marc. 14 inst., D. 48.10.1.4: (…) Qui in rationibus tabulis cerisve vel alia qua re sine consignatione falsum fecerint vel rem amoverint, perinde ex his causis, atque si erant falsarii, puniuntur (…). Sono puniti non diversamente che se fossero falsari coloro che hanno commesso un falso nei calcoli, nelle tavole o nella cera o in qualsiasi altra cosa senza sottoscrizione o sottraggono la cosa. Paul. 3 resp., D. 48.10.16.2: (…) Sed et ceteros, qui in rationibus tabulis litteris publicis aliave qua re sine consignatione falsum fecerunt vel, ut verum non appareat, quid celaverunt subripuerunt deleverunt subiecerunt resignaverunt, eadem poena adfici solere dubium non esse. Ma non vi è dubbio che con la medesima pena siano puniti anche gli altri, che nei conti, nelle tavole, nelle lettere pubbliche, o in altra qualunque cosa senza documento commisero una falsità, o per celare la verità nascosero, sottrassero, sostituirono o falsificarono qualche cosa.

Siamo nuovamente al cospetto di una sovrapponibilità tra un testo di Marciano e uno di Paolo e, nuovamente, non siamo in grado di stabilire un rapporto cronologico tra gli stessi123. In questo caso, tuttavia, a me pare chiaro che, a prescindere dalla possibile derivazione di un testo dall’altro, i due giurisperiti stessero riportando dei verba legis. Mi riferisco, in particolare, alla lex Cornelia de falsis di cui trattano i due giuristi nei frammenti richiamati. In particolare, Marciano è intento a descrivere le diverse fattispecie in cui è irrogata la pena contemplata nella legge suddetta. È appena il caso di segnalare come il lungo brano di Marciano sia aperto dalla formula Poena legis Corneliae irrogatur ei, cui segue la descrizione delle diverse condotte perseguite. Analogamente, il frustolo paolino è preceduto da un paragrafo ove leggiamo:

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Per un confronto tra i due passi sui profili sostanziali, Botta 2001, 283 ss. Si veda anche Nasti 2006, 119 ss. e, soprattutto, 153 ss.

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Institutionum libri Paulus respondit legis Corneliae poena omnes teneri, qui etiam extra testamenta cetera falsa signasset. Come si può vedere, anche Paolo stava descrivendo le condotte alla cui repressione era indirizzata la lex Cornelia de falsis. In altre parole, mi pare assai plausibile che i giuristi utilizzassero una fonte comune, il testo, appunto, della lex ricordata. Ciò, peraltro, mi parrebbe confermato da un ulteriore confronto con un testo di Ulpiano, da più parti considerato maestro di Marciano124. Osserviamo: Marc. 14 inst., D. 48.10.1pr.: Poena legis Corneliae irrogatur ei, qui falsas testationes faciendas testimoniave falsa inspicienda dolo malo coiecerit. La pena della legge Cornelia è irrogata a colui che intenzionalmente ha organizzato che si dessero false testimonianze o si dovessero esaminare falsi testimoni. Ulp. 8 de off. proc., D. 48.10.9.3: Poena legis Corneliae irrogatur ei, qui quid aliud quam in testamento sciens dolo malo falsum signaverit signarive curaverit, item qui falsas testationes faciendas testimoniave falsa invicem dicenda dolo malo coierint. La pena della legge Cornelia è irrogata a colui il quale con coscienza e volontà commise o fece in modo che si commettesse qualche altra falsità come nel testamento e del pari a coloro che con coscienza e volontà hanno organizzato false testimonianze o che si dicessero vicendevolmente falsità.

Il testo marcianeo, si coglie ictu oculi, coincide con l’escerto tratto dall’ottavo libro de officio proconsulis di Ulpiano da item in poi. In questo caso, potremmo, forse, individuare un rapporto cronologico tra le due opere e ritenere, sia pur con le cautele del caso, che il de officio proconsulis sia precedente alle Istituzioni di Marciano. Ciò in quanto in alcuni testi dell’opera ulpianea parrebbe farsi riferimento a Caracalla come a un imperatore vivente125. La precedenza cronologica, tuttavia, da sola non basta a manifestare una dipendenza più profonda. A ben vedere, infatti, l’incipit dei due testi, anche in questo caso, rende evidente che i due giureconsulti stavano elencando i casi in cui veniva irrogata la sanzione prevista dalla legge Cornelia sul falso: anche questa volta, pertanto, i due giuristi potrebbero aver utilizzato i verba legis. Di più. Nel caso di specie, non si tratterebbe delle parole contenute nel testo originario della lex Cornelia de falsis, ma di quelle del senatoconsulto Libonianum (?) che ne aveva esteso l’ambito di applicazione126, come parrebbe risultare dalla Collatio: Coll. 8.7.1: Ulp. 8 de off. proc. sub titulo de poena legis Corneliae testamentariae: Praeterea factum est senatusconsultum Statilio et Tauro consulibus, quo poena legis Corneliae inrogatur ei qui quid aliud quam testamentum sciens dolo malo falsum signaverit signarive curaverit, item qui ad falsas testationes faciendas testamentave falsa invicem dicenda aut consignanda dolo malo coierint, Licinio V et Tauro conss.

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Liebs 2011, 39 ss.; con cautela anche Fressura, Mantovani 2018, 644 e 661. Ulp. de off. proc., D. 1.16.6.3: (…) Quam rem divus Severus et imperator Antoninus elegantissime epistula sunt moderati cuius epistulae verba haec sunt: (…). (La qual cosa il divo Severo e l’imperatore Antonino regolarono assai elegantemente con una epistola le cui parole sono queste). 126 Sulla portata del provvedimento senatorio, si veda Archi 1981, 1527 ss.; più recentemente Botta 2001, 283 ss. 125

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Domenico Dursi Ulpiano, libro ottavo sui doveri del proconsole sotto il titolo relativo alla pena della legge Cornelia testamentaria. Inoltre fu promulgato un senatoconsulto durante il consolato di Statilio e Tauro, per il quale la pena della legge Cornelia è irrogata a colui che con coscienza e volontà commise o fece in modo che si commettesse qualche altra falsità come nel testamento e del pari a coloro che con coscienza e volontà hanno organizzato false testimonianze o che si dicessero vicendevolmente o si autenticassero falsità. Licinio V. e Tauro, consoli.

Una annotazione preliminare: le indicazioni dei consoli assai verosimilmente risultano corrotte: quanto alla prima, si tratterebbe, infatti, più correttamente, della coppia consolare del 16 d.C. costituita da Sisenna Statilio Tauro e da Lucio Scribonio Libone127; la seconda coppia di cui è menzione, invece, sembrerebbe doversi riferire ai consoli del 45 d.C. composta da M. Vinicius II e T. Statilius Taurus128. Ciò chiarito, dal luogo in questione, che riporta il brano tratto dall’ottavo libro ulpianeo de officio proconsulis di cui a D. 48.10.9.3, ma in versione più estesa, sembrerebbe che Ulpiano avesse riportato il testo del senatoconsulto Liboniano129. Del resto, si è osservato130 come una delle caratteristiche, soprattutto della parte relativa ai reati, dell’opera dedicata al bonus praeses dal giurista di Tiro fosse, appunto, quella di svilupparsi a partire da un provvedimento normativo, cui spesso venivano concatenate ulteriori citazioni di disposizioni che avevano innovato la materia. Siffatte annotazioni, dunque, confermerebbero che la coincidenza testuale tra Marciano ed Ulpiano, in questo caso fosse dovuta alla citazione di testi normativi. Peraltro, la circostanza che il testo del libro 14 delle Istituzioni di Marciano nella parte dedicata alla lex Cornelia de falsis, si mostri in un caso identico con il testo ulpianeo testé disaminato e in un altro a tratti coincidente con un lacerto paolino, poco sopra richiamato sempre in tema di lex Cornelia de falsis, lascerebbe emergere come, appunto, il nostro giurista, nella sua illustrazione, facesse abbondantemente ricorso alle disposizioni della legge. Occorre indugiare ulteriormente su possibili confronti testuali tra questi due giuristi, proprio in ragione dell’ipotizzato apprendistato di Marciano presso Ulpiano. Si veda: Marc. 2 inst., D. 26.1.9: In eos extra ordinem animadvertitur, qui probentur nummis datis tutelam occupasse vel pretio accepto operam dedisse, ut non idoneus tutor daretur, vel consulto in edendo patrimonio quantitatem minuerit, vel evidenti fraude pupillorum bona alienasset131. Ulp. lib. sing. de off. praef. urb., D. 1.12.1.7: Solent ad praefecturam urbis remitti etiam tutores sive curatores, qui male in tutela sive cura versati graviore animadversione indigent, quam ut sufficiat eis suspectorum infamia: quos probari poterit vel nummis datis tutelam occupasse, vel praemio accepto operam dedisse ut non idoneus tutor alicui daretur, vel consulto circa edendum patrimonium quantitatem minuisse, vel evidenti fraude pupilli bona alienasse.

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d’Ors 1971, 530; Piazza 1991,164 s.; Nasti 2006, 154 nt. 99. Piazza 1991,164 s.; Nasti 2006, 154 nt. 99; diversamente d’Ors 1971, per il quale Licinio V. starebbe per Libone. 129 Per Volterra 1969, 1065 n. 77, il testo riportato nella Collatio sarebbe forse quello di un altro senatoconsulto. 130 Mantovani 1993 - 1994, 249. 131 Per la traduzione, si rinvia alla sezione relativa ai Fragmenta del volume. 128

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Institutionum libri Alla prefettura dell’Urbe sogliono essere rimessi anche i tutori o i curatori che, essendosi comportati male nella tutela o nella cura, necessitano di una punizione più grave non essendo per costoro sufficiente l’infamia destinata ai tutori e ai curatori sospetti: coloro a carico dei quali si sia provato che abbiano assunto la tutela per essere stati dati loro denari, oppure abbiano accettato un premio per darsi da fare affinché a qualcuno fosse nominato un tutore non idoneo, oppure, nella dichiarazione concernente il patrimonio pupillare ne abbiano diminuito intenzionalmente la quantità, o abbiano alienato i beni del pupillo con frode evidente.

I due testi si presentano, con qualche piccola differenza, sostanzialmente identici a partire da nummis datis sino al termine. Il contesto da cui sono stati estrapolati, tuttavia, è assai diverso. Infatti, mentre Marciano era intento a descrivere la disciplina della tutela e si soffermava sulle questioni relative alla giurisdizione per le controversie in cui erano parti queste figure, Ulpiano, invece, stava descrivendo la giurisdizione del prefetto dell’Urbe disciplinata da un provvedimento di Settimio Severo in una epistula a Fabio Cilone, come si evince dal paragrafo di apertura di questo lungo escerto132. In essa si stabiliva che era attratta al praefectus urbis la materia criminale, anche relativamente ad alcune condotte penalmente rilevanti di tutori e curatori. In sostanza a me pare che Ulpiano stesse discutendo il contenuto dell’epistula, parafrasandone il contenuto: da qui la concreta possibilità che in diversi momenti egli adoperasse i verba del provvedimento imperiale133. Del resto, Marciano nel dover descrivere la procedura per le medesime condotte di curatori e tutori potrebbe aver riportato, anch’egli, come spesso gli capitava, il testo dell’epistula o, alcune parole, il che spiegherebbe la coincidenza testuale sopra evidenziata134. D’altro canto, congetturare una dipendenza di Marciano da Ulpiano, ancora una volta, imporrebbe di chiarire quale delle due opere fosse stata scritta prima. Particolarmente degno di nota, poi, è un ulteriore confronto testuale tra i due giuristi. Marc. 14 inst. D. 48.8.1.3: Divus Hadrianus rescripsit eum, qui hominem occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non occidit, sed vulneravit, ut occidat, pro homicida damnandum: et ex re constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse: sed si clavi percussit aut cuccuma in rixa, quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo. leniendam poenam eius, qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit. Il divo Adriano statuì a mezzo di rescritto che colui il quale uccise un uomo ma commise ciò senza la volontà di uccidere, può essere assolto e colui che non uccise l’uomo ma lo ferì allo scopo di ucciderlo deve essere condannato come omicida: e per questa cosa si stabilì ciò: infatti se avrà stretto il gladio e lo avrà colpito senza dubbio commise ciò con l’intenzione di uccidere: ma se colpì con una chiave o con una pentola in una rissa, sebbene abbia colpito con il ferro, tuttavia non vi è intenzione di uccidere. Si deve attenuare la pena di chi in una rissa per caso più che per volontà commise omicidio.

132 Ulp. lib. sing. de off. praef. urb., D. 1.12.1pr.: Omnia omnino crimina praefectura urbis sibi vindicavit, nec tantum ea, quae intra urbem admittuntur, verum ea quoque, quae extra urbem intra Italiam, epistula divi Severi ad Fabium Cilonem praefectum urbi missa declaratur. (Nella epistola del divo Severo, inviata a Fabio Cilone prefetto dell’Urbe, si dichiara che la prefettura dell’Urbe rivendicò a sé in assoluto tutti i crimini: non soltanto su quelli che vengano commessi entro l’Urbe, ma anche su quelli commessi fuori dell’Urbe entro l’Italia). 133 In tal senso Mantovani 1988, 199. 134 In tal senso si veda Burrillo Loshuertos 1978, 25; si sarebbe trattato, invece, della citazione di un rescritto secondo De Giovanni 1989, 55 e Reinoso-Barbero 1997, 215 s. Per Mantovani 1988, 213 la fonte comune sarebbe stata, più in generale, un provvedimento autoritativo.

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Domenico Dursi Coll. 1.6.1-2: Ulpianus libro VII de officio proconsulis sub titulo de sicariis et veneficiis: 1. Distinctionem casus et voluntatis in homicidio servari rescripto Hadriani confirmatur. 2. Verba rescripti: ‘Et qui hominem occidit absolui solet, sed si non occidendi animo id admisit: et qui non occidit, sed voluit occidere, pro homicida damnatur’. Ulpiano libro settimo sull’ufficio del proconsole sotto il titolo dedicato ai sicari e agli avvelenamenti. 1. È confermato attraverso un rescritto di Adriano che nell’omicidio si osserva la distinzione tra il caso e la volontà. 2. Le parole del rescritto: anche colui che uccide suole essere assolto, ma se non lo commise con la volontà di uccidere. E colui che non uccise, ma volle uccidere, è condannato come omicida.

Nuovamente ci troviamo dinnanzi a una chiara coincidenza testuale a partire da qui hominem. Tuttavia, questa volta, Ulpiano dichiara apertamente di riportare il testo del rescritto adrianeo di cui discuteva, mentre Marciano, verosimilmente, ne parafrasava il contenuto, ricorrendo in taluni frangenti ai verba della previsione imperiale135. Come si può vedere, in quasi tutti i raffronti operati tra Marciano e Ulpiano (con una sola eccezione) l’opera del giurista di Tiro che viene in rilievo è il de officio proconsulis. Alla luce di ciò, condivisibilmente, si è sottolineato come le due opere presentino molti punti di contatto, dovuti ai molteplici riferimenti alla legislazione imperiale136. Tuttavia, ai miei occhi, non potrebbe giungersi a individuare una dipendenza di Marciano da Ulpiano, se non un vero e proprio rapporto di discepolato, desumibile – come è stato affermato137– da una certa comunanza di stile e, forse, da una comune patria. Al riguardo, infatti, occorre rilevare come le coincidenze siano spiegabili in ragione dell’utilizzo da parte di entrambi i giuristi, di verba legis o di citazioni testuali di rescritti o epistulae, come abbiamo visto. D’altro canto, non abbiamo informazione alcuna circa la possibile origine di Marciano138, e, infine, immaginare che il nostro giurista sia stato allievo di Ulpiano imporrebbe di definire, in maniera verosimile, che quest’ultimo sia stato almeno di qualche generazione più adulto. Ma anche questo aspetto resta avvolto da una coltre di nebbia e, anzi, come si proverà ad evidenziare poco oltre, sembrerebbero profilarsi elementi in grado di lasciar immaginare una anteriorità, sia pur minima, di Marciano tra due giuristi in sostanza contemporanei. 5. Marciano e Papiniano A questo proposito, ulteriori confronti testuali, potrebbero, invece, offrire qualche spunto nuovo concernente la biografia intellettuale del giurista, rispetto a quanto la dottrina ha sino ad oggi variamente sostenuto. Un dato mi pare degno di particolare rilievo. Papiniano risulta citato due volte nei testi delle Istituzioni ripresi dal Digesto e, ben quattro volte dai brani delle Istituzioni di Giustiniano che riteniamo di attribuire alle Istituzioni di età severiana, più una ulteriore al rigo 16 del fr. 2 (f. 1 recto col. 1) di P. Vindob. L. 59 + 92 di sicura ascrivibilità ai Libri institutionum139.

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Chiazzese 1931, 62 nt. 4 parla di testi gemini in quanto riferiscono una medesima costituzione testualmente. De Giovanni 1989, 72 s. 137 Liebs 2011, 41 ss. 138 Supra. 139 Fressura, Mantovani 2018, 666. 136

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Institutionum libri Ad ogni modo, complessivamente, è il giurista più citato da Marciano, con ben 18 riferimenti solo nei testi di derivazione dalla raccolta di iura140. Tuttavia, occorre rilevare, ben oltre le citazioni dirette vi sono in Marciano alcune rilevantissime tracce dell’opera papinianea e dei Responsa in particolare. Si osservi: Marc. 3 inst., D. 44.3.7: Si quisquam in fluminis publici deverticulo solus pluribus annis piscatus sit, alterum eodem iure uti prohibet141. Pap. 1 resp., D. 41.3.45pr. (…) vel si quis, quod in fluminis publici deverticulo solus pluribus annis piscatus sit, alterum eodem iure prohibeat. O se taluno, poiché solo per più anni abbia pescato in un ramo di fiume pubblico, impedisca ad altro lo stesso diritto.

Al di là delle problematiche giuridiche poste dai due testi142, su cui ci si soffermerà in sede di commento, appare immediatamente come il luogo marcianeo sia il calco delle affermazioni di Papiniano. Da sottolineare, poi, la circostanza che Marciano, pur utilizzando chiaramente materiale papinianeo, diversamente dal solito, non dichiari apertamente il suo debito, sempre che l’esplicito riferimento non sia stato omesso dai compilatori, né la coincidenza testuale può dipendere dal riferimento a un provvedimento normativo. Vi è, poi, un altro luogo delle nostre Istituzioni in cui risulta una chiara dipendenza dai Responsa di Papiniano. Osserviamo. Marc. 7 inst., D. 28.7.18pr.-1: Cum servus pure liber et heres scriptus sub condicione sit et, si heres non exstiterit, legatum acceperit, in legato repetitam videri condicionem divus Pius rescripsit. Hac ratione et Papinianus scribit, cum avia nepotem sub condicione emancipationis pro parte heredem instituit et postea codicillis scriptis hoc amplius ei legavit quam quod heredem eum instituit, repetitam videri condicionem emancipationis etiam in legato, quamvis in legato nullam, ut in hereditate, substitutionem fecisset. Essendo stato scritto che il servo sia libero senza condizione e vi sia erede sotto condizione, e se l’erede non accetti, riceverà un legato, Antonino Pio emanò un rescritto per il quale si ritenga che la condizione sia ripetuta nel legato. Per la stessa ragione anche Papiniano, avendo un’ava istituito erede per una quota il nipote sotto la condizione dell’emancipazione e successivamente, redatti codicilli, gli lasciò in legato più di quanto gli aveva lasciato a titolo di erede, scrisse che doveva ritenersi che la condizione dell’emancipazione si ripetesse nel legato pur non avendo previsto alcuna sostituzione nel legato, come per l’eredità.

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Già Ferrini 1929c, 279; sottolineava il ragguardevole richiamo delle opinioni papinianee; recentemente, Liebs 2011, 73 s. 141 Per la traduzione, si veda la sezione del volume relativa ai Fragmenta. 142 Generalmente giustapposti al fine di stabilire se Papiniano e Marciano esprimessero la stessa regola, si veda al riguardo Nörr 1969, 97 s., il quale giungeva ad affermare che i compilatori avessero accluso nel testo di Marciano una sintesi mal riuscita di quello di Papiniano; Kaser 1993, 113 ss.; d’Ors 1981, 651 ss.; Ankum 1998, 361 ss. Da ultimo d’Amati 2016, 659 rilevando che Marciano sosterrebbe la tesi opposta rispetto a quella enunciata da Papiniano, nel tentativo di conciliare i due testi si è orientata, sia pur dubitativamente, nel senso che il testo sia stato fortemente alterato dai giustinianei. Su questi temi si tornerà, come ovvio, in sede di commento del lacerto marcianeo.

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Domenico Dursi La citazione marcianea di Papiniano è precisa. Si osservi, a questo proposito: Pap. 7 resp., D. 35.1.77pr.-1: Avia, quae nepotem sub condicione emancipationis pro parte heredem instituerat, ita postea codicillis scribsit: ‘hoc ampius nepoti meo, quam quod eum heredem institui, lego praedia illa’. Condicionem emancipationis repetitam videri placet, quamvis avia nullam in legatis, ut in hereditate, substitutionem fecisset. Nam et cum servus pure quidem liber, heres autem sub condicione scriptus et, si heres non exstiterit, legatum accipere iussus est, in legato repetitam videri libertatem divus Pius rescripsit. L’ava, la quale aveva istituito erede parziale il nipote sotto la condizione dell’emancipazione, successivamente così scrisse nei codicilli: “assegno in legato quei fondi al mio nipote, in aggiunta a quanto l’ho istituito erede”. Si ritiene ripetuta la condizione di emancipazione, benché l’ava nei legati come nell’eredità non avesse indicato alcuna sostituzione. Infatti, l’imperatore Pio stabilì con rescritto che sembra ripetuta la condizione anche quando lo schiavo puramente libero, ma erede sotto condizione, ebbe l’ordine di ricevere un legato.

Anche in questo caso, si rinvia ai commenti per la disamina delle questioni giuridiche poste dai testi. Ciò che rileva in questa sede è, ancora una volta, la sovrapponibilità del testo di Marciano a quello tratto dal settimo libro dei Responsa di Papiniano. Si può, infatti, agevolmente constatare come Marciano inverta l’ordine espositivo di Papiniano, utilizzando, però, pressoché le medesime parole. La prima parte del discorso marcianeo coincide, senza residui, con l’ultima parte del testo di Papiniano. Entrambi i giuristi richiamano la regola espressa in un rescritto di Antonino Pio143. La coincidenza tra i due testi consente di ipotizzare che i due giuristi citassero le parole del rescritto o lo parafrasassero. La seconda parte del testo di Marciano, invece, coincide con la prima del testo di Papiniano. Marciano, questa volta, richiama espressamente Papiniano e la citazione è estremamente puntuale, potremmo dire quasi testuale. Questa volta, dunque, la sovrapponibilità non è spiegabile sulla base del rilievo che i due giureconsulti riporterebbero parole di un testo normativo. Aspetto di ulteriore interesse è che la corrispondenza tra i due luoghi raffrontati si attenua proprio nella parte in cui Papiniano riporta testualmente una clausola testamentaria, richiamata in sintesi da Marciano. In altre parole, la coincidenza non sembrerebbe spiegabile in ragione del rilievo che i due giureconsulti riporterebbero una clausola negoziale. Del resto, la interscambiabilità tra i due luoghi è ben più ampia. Marciano, cioè, sta usando le parole di Papiniano per riportarne il pensiero. Ancora. Si osservi: Marc. 7 inst., D. 36.3.12: (…) quia postquam remitti talem cautionem iure publico placuit nec onus cautionis sequitur nec quidem condicio intellegitur (…) in quanto dopo che sembrò opportuno per diritto pubblico escludere questa cauzione né l’onere della cauzione segue né si ritiene esservi la condizione. Pap. 7 resp. 35.1.77.3: (…) quod adversus invitum hodie iure publico sequi non potest, postquam remitti posse cautionem placuit. (…) ciò adesso per diritto pubblico non può avvenire contro qualcuno che non voglia, dopo che si ritenne che la cauzione potesse essere dispensata.

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Sulla produzione normativa di Antonino Pio si vedano Müller Eiselt 1982, passim; Marotta 1988, passim.

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Institutionum libri Anche in questo caso, come si può facilmente osservare, vi è una chiara sovrapposizione di una parte del testo delle Istituzioni di Marciano, da postquam a placuit, con il testo papinianeo da postquam in avanti. Bisogna, peraltro, segnalare come delle 4 citazioni papinianee tratte da brani delle Istituzioni di Giustiniano verosimilmente riconducibili a Marciano, ben 2 sono richiami espliciti ai responsa. Possiamo continuare, per così dire, con due confronti tra i giuristi ricavabili aliunde, rispetto alle Istituzioni. Infatti, la ricorrenza testuale di Papiniano, può riscontrarsi sia nel liber singularis ad formulam hypothecariam, sia nell’ad Senatus consultum Turpillianum. Procediamo con ordine. Marc. l. s. ad form. hyp., D. 20.4.12.5: Papinianus libro undecimo respondit, si prior creditor postea novatione facta eadem pignora cum aliis accepit, in suum locum eum succedere (…). Papiniano nell’undicesimo libro rispose, se il primo creditore, dopo aver posto in essere una novazione prese gli stessi pegni insieme agli altri, succede nella sua stessa posizione. Pap. 11 resp., D. 20.4.3pr.: Creditor acceptis pignoribus (quae secunda conventione secundus creditor accepit) novatione postea facta pignora prioribus addidit. Superioris temporis ordinem manere primo creditori placuit tamquam in suum locum succedenti. Il creditore, avendo ricevuto delle cose in pegno (che un secondo creditore ricevette in pegno con un secondo accordo), fatta successivamente una novazione, aggiunse altri pegni ai precedenti. Parve bene che, per il primo creditore, rimanesse l’ordine temporale precedente, come se egli succedesse nella sua stessa posizione.

Marciano, tralasciando questioni che ci allontanerebbero dai nostri intendimenti, cita con estrema precisione Papiniano. Egli, infatti, ci informa che si tratta di una posizione espressa nel libro undicesimo dei Responsa. I giustinianei hanno conservato il luogo cui il nostro giurista si riferiva. In ragione di tanto, possiamo rilevare come il giureconsulto adoperasse parole papinianee, magari con l’accortezza di invertirne l’ordine (postea novatione facta in luogo di novatione postea facta). Neppure in questa circostanza, le coincidenze testuali parrebbero potersi spiegare in ragione della citazione di un provvedimento normativo. In questo, ma anche nei casi precedenti, quella marcianea sembrerebbe, quasi, una tecnica di citazione in grado di lasciar trasparire una qualche deferenza verso Papiniano. Passiamo alla monografia marcianea sul senatoconsulto Turpilliano. Marc. l. sing. ad sen. Turp., D. 48.16.1.4: (…) nam, ut Papinianus respondit, facti quidem quaestio in arbitrio est iudicantis, poenae vero persecutio non eius voluntati mandatur, sed legis auctoritati reservatur. Infatti, come Papiniano rispose, la questione di fatto è rimessa all’arbitrio del giudicante, ma l’esecuzione della pena non è rimessa alla sua volontà, ma è soggetta all’autorità della legge. Pap. 1 resp., D. 50.1.15pr.: (…) cum facti quidem quaestio sit in potestate iudicantium, iuris autem auctoritas non sit. Essendo certamente la questione di fatto nella potestà dei giudicanti, non essendovi l’autorità del diritto.

Come si può osservare, Marciano cita ancora i responsa di Papiniano, e, almeno parzialmente, ne ricalca il testo, con precipuo riferimento all’espressione facti quidem quaestio. In sostanza, anche in questo caso valgono le considerazioni svolte in riferimento al precedente confronto testuale. 49

Domenico Dursi Infine, occorre appuntare l’attenzione sulla circostanza che tra i due giuristi sembrerebbe emergere anche una comune ‘Weltanschauung’ in riferimento al fondamento della legge. Consideriamo: Marc. 1 inst., D. 1.3.2: Nam et Demosthenes orator sic definit: […] καὶ μάλιστα ὅτι πᾶς ἐστι νόμος εὕρημα μὲν καὶ δῶρον θεοῦ, δόγμα δὲ ἀνθρώπων φρονίμων, ἐπανόρθωμα δὲ τῶν ἑκουσίων καὶ ἀκουσίων ἁμαρτημάτων, πόλεως δὲ συνθήκη κοινή, καθ’ ἣν ἅπασι προσήκει ζῆν τοῖς ἐν τῇ πόλει144.

Pap. 1 def., D. 1.3.1: Lex est commune praeceptum, virorum prudentium consultum, delictorum quae sponte vel ignorantia contrahuntur coercitio, communis rei publicae sponsio. La legge è precetto comune, deliberazione di uomini prudenti, repressione dei delitti che vengono commessi volontariamente o per ignoranza, comune solenne accordo della repubblica.

Del brano marcianeo è stata riportata la sola parte che qui interessa, poiché esso sarà vagliato sotto altri profili poco oltre e, naturalmente, in sede di commento. Mi pare degno di nota il rilievo che i due giuristi esprimano una notevole identità di vedute sulla legge, per quanto non priva di difformità non trascurabili145: per entrambi, infatti, la legge è un comune accordo che consente di vivere nella città, scaturisce da uomini saggi, corregge le condotte delittuose. Marciano non fa mistero di ricavare la nozione da Demostene, nel che, non possiamo escludere, come vedremo146, ci fosse anche un intento pratico ben definito; ma, come pure è stato rilevato147, anche la definizione di Papiniano presenta una chiara matrice demostenica. Mi pare, cioè, che anche sul punto si possa constatare una qualche ascendenza papinianea in Marciano. Il confronto tra i tre testi delle Istituzioni di Marciano e i tre testi dei responsa di Papiniano, nonché tra i testi dello scritto marcianeo sulla formula ipotecaria e sul senatoconsulto Turpilliano e, ancora, i responsa papinianei, e, infine, la vicinanza tra le nozioni di legge fornite dai due giuristi, potrebbe, allora, raccontare qualcosa di più di una semplice citazione del più importante giurista severiano. Una dipendenza così chiara dalla lettura delle Istituzioni, ma anche da uno sguardo d’insieme all’intera produzione marcianea non si coglie nei riguardi di nessun altro giurista precedente: certo, ciò potrebbe spiegarsi in ragione del fatto che non abbiamo a disposizione i luoghi di altri giuristi citati da Marciano. Tuttavia, preme segnalare che non solo Papiniano è il giurista più citato da Marciano, il quale, in ben cinque casi, tra quelli a nostra disposizione, ne riporta i testi; ma a ciò deve anche aggiungersi che il nostro giurista scrisse delle note al de adulteriis di Papiniano, di cui ci sono giunti, attraverso il Digesto, due testi. Al riguardo, è noto che anche altri giuristi, in particolare Paolo e Ulpiano, scrissero note a Papiniano148, il cui impiego, è appena il caso di ricordare, fu proibito da una Costituzione di Costantino149.

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Per la traduzione, si rinvia ai Fragmenta. Stolfi 2004, 444 ss. 146 Infra. 147 Rotondi 1912, 10; Serrao 1973, 839; Talamanca 1977b, 214 nt. 28; da ultimo Fressura, Mantovani 2018, 644 nt. 84. 148 Santalucia 1965, 50 ss. 149 C.Th. 1.4.1 Imp. Costantinus ad Maximum P.U.: Perpetuas prudentium contentiones eruere cupientes Ulpiani ac Pauli in Papinianum notas, qui, dum ingenii laudem sectantur, non tam corrigere eum, quam depravare maluerunt, aboleri praecipimus. Dat. IIII K. Oct. Crispo et Costantino conss. (L’imperatore Costantino a Massimo Prefetto dell’Urbe: deside145

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Institutionum libri Le note marcianee, peraltro, non erano espressamente menzionate nel divieto, il che ha prodotto discussioni su cui non è il caso di indugiare in questa sede150. Nell’ambito del tentativo di formulare una spiegazione circa il silenzio testé ricordato, si è rilevato151 che un testo delle notae marcianee (dei due a nostra disposizione) consiste nella pedissequa riproduzione di un brano dei Responsa di Papiniano152, mentre la seconda nota pure deriverebbe da rescritti riportati dallo stesso Papiniano nel libro 36 delle quaestiones e dal libro 1 dei suoi Responsa. In ragione di questi rilievi, si è in maniera condivisibile ritenuto che siffatte note marcianee sarebbero consistite in “notae riproduttive di brani papinianei derivanti da opere composte successivamente al de adulteriis libri II”153. In ciò potrebbe, forse, intravedersi l’opera di un allievo devoto intento ad aggiornare una vecchia opera del maestro alla luce delle più recenti elaborazioni del maestro medesimo. Dalle considerazioni sin qui condotte, a me pare vi siano una pluralità di indizi in grado di fondare l’ipotesi che Marciano possa essere stato allievo di Papiniano, diversamente da quanto sin qui sostenuto e cioè che il nostro giurista fosse stato discepolo di Ulpiano154, il quale cita Marciano, ma non è da questi citato. Ciò, peraltro, potrebbe indurre a revocare in dubbio l’opinione secondo la quale l’autore delle nostre Istituzioni sarebbe stato, sia pur di poco, posteriore a Ulpiano e Paolo155, i quali – occorre ricordarlo – risultano ancora attivi sotto Severo Alessandro156, e ritenerlo, invece, di poco precedente. Del resto, il rilievo che il giureconsulto in alcune sue opere evochi provvedimenti del divus Severus e di Antoninus, sem-

rando che siano superate le continue dispute tra i giuristi, disponiamo che siano abolite le note a Papiniano di Ulpiano e Paolo, i quali mentre ricercano la lode dell’ingegno, preferiscono non tanto correggerlo, quanto piuttosto corromperlo). 150 Si vedano, al riguardo, l’ipotesi del Jörs 1894, 524; Buonamici 1896, 9 nt. 2; Krüger 1930, 312; Dell’Oro 1960, 170; Pescani 1974, 231; Giuffrè 1976, 364 nt. 5, per i quali il divieto, rectius, l’abolizione sarebbe stata implicitamente contenuta nelle costituzioni; altri, invece, hanno ipotizzato che l’utilizzo delle notae marcianee sarebbe stato vietato da una costituzione andata perduta: in tal senso Schulz 1953, 397 s.; Sixto 1989, 7 ss.; Costa 1894, 367, invece, parlò di totale desuetudine di questo scritto. 151 Guareschi 1993, 453 ss. 152 In libro secundo de adulteriis Papiniani Marcianus notat, D. 48.5.8: Incesti commune crimen adversus duos simul intentari potest. (Nel secondo libro sull’adulterio di Papiniano Marciano nota che il crimine comune di incesto può essere intentato simultaneamente contro due soggetti). Pap. 15 resp., D. 48.5.40.7: Incesti commune crimen adversus duos simul intentari potest. (Il crimine comune di incesto può essere intentato simultaneamente contro due soggetti). 153 Guareschi 1993, 466, il quale in ciò trova la ragione per cui le note marcianee non sarebbero state vietate a differenza di quelle di Ulpiano e Paolo. In altri termini, per l’autore queste note erano “riproduttive di passi presenti anche in altre opere di Papiniano, la cui autenticità poteva pertanto essere facilmente dimostrata mediante un diretto confronto con le opere da cui erano state tratte”. 154 Liebs 2011, 41. 155 Così anche Lenel 1889.I, 639-640; recentemente De Giovanni 2007, 90 ss. 156 L’esistenza in vita di Ulpiano e Paolo sotto l’ultimo principe severiano è attestata da Aurelio Vittore 24.6: Adhuc Domitium Ulpianum, quem Heliogabalus praetorianis praefecerat, eodam honore retinens Pauloque inter exordia patriae reddito, iuris auctoribus, quantus erga optimos atque aequi studio esset, edocuit. (Inoltre, egli mantenne nella sua carica Domizio Ulpiano che Eliogabalo aveva posto al comando dei pretoriani, con lo stesso onore rese Paolo alla sua patria dall’inizio del suo regno; erano dei giuristi ed egli attraverso queste cose mostrava quanto grande fosse il suo attaccamento agli uomini più onesti e il suo gusto per la giustizia). Ma la notizia su Paolo è riportata anche in alcuni passi dell’Historia Augusta. Per Paolo, in particolare, SHA, Pescennius Niger, 7.4; Alexander Severus, 26.4. Quanto a Ulpiano, a titolo meramente esemplificativo, si veda C. 8.37 (38) ove è riportato un rescritto in cui l’imperatore Alessandro menziona il giurista come prefetto dell’annona.

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Domenico Dursi brerebbe mostrarlo all’opera quando ancora – come si osservava157 – l’imperatore Caracalla era vivo, diversamente dall’indicazione leneliana per cui Marciano avrebbe scritto tutte le sue opere dopo la morte di questo imperatore. Siffatta, sia pur lieve, retrodatazione consentirebbe, inoltre, di gettare luce su un ulteriore aspetto relativo a due citazioni di Marciano compiute da Ulpiano, come si diceva, nel libro 6 a Sabino158 e Paolo nel libro 75 ad edictum159, generalmente considerate insiticie proprio sul presupposto della posteriorità di Marciano a Paolo e Ulpiano160, nonostante che anche sul testo della Fiorentina il nome del nostro giurista sia indicato per esteso. Infine, ciò consentirebbe anche di spiegare la ragione per cui non vengano richiamate costituzioni successive161, di Eliogabalo o Severo Alessandro senza la necessità di dover immaginare una scelta precisa del giurista volta ad espungere i provvedimenti di un imperatore, Eliogabalo, appunto, condannato alla damnatio memoriae162: del resto, è appena il caso di segnalare come altri giuristi ricordino costituzioni di quest’ultimo imperatore. Il nostro giureconsulto, infatti, avrebbe ultimato la propria attività scientifica, come si ipotizzava163, sotto l’imperatore Macrino o, al più, non oltre Eliogabalo. 6. I temi e la cultura Non poche, risultano, poi, tra i testi a nostra disposizione, le citazioni di autori non giuristi: due riferimenti ad Omero, entrambi tratti dall’Odissea, una citazione di Demostene, una di

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Supra. Ulp. 6 ad Sab., D. 28.1.5: utrum autem excessisse debeat quis quartum decimum annum, ut testamentum facere possit, an sufficit complesse? propone aliquem kalendis Ianuariis natum testamentum ipso natali suo fecisse quarto decimo anno: an valeat testamentum? dico valere. plus arbitror, etiamsi pridie kalendarum fecerit post sextam horam noctis, valere testamentum: iam enim complesse videtur annum quartum decimum, ut Marciano videtur. Per la traduzione si rinvia alla sezione Fragmenta. 159 Paul. 75 ad ed., D. 7.9.8: Si tibi ususfructus et mihi proprietas legata sit, mihi cavendum est: sed si mihi sub condicione proprietas legata sit, quidam et Marcianus et heredi et mihi cavendum esse putant: quae sententia vera est. (Se a te sia stato legato l’usufrutto e a me la nuda proprietà mi deve essere data una garanzia: ma se a me la proprietà è legata sotto condizione, alcuni e tra questi Marciano ritengono che si deve dare garanzia agli eredi e a me: tale parere è corretto). 160 Lenel 1889.II, 1247-1248 colloca tutte le opere di Marciano chiaramente dopo l’ad Sabinum di Ulpiano e l’ad edictum di Paolo. Buckland 1936, 276 s. per il quale il riferimento a Marciano sarebbe stato inserito successivamente. Più in dettaglio, poi, in riferimento al testo ulpianeo si è ipotizzato che potesse trattarsi di Meciano: così Fitting 1908, 114; Schulz 1953, 282 nt. 4 parla di citazioni frutto di corruzione dei testi. Salva il riferimento a Marciano Honoré 1962, 210 s., il quale afferma che la citazione sarebbe stata inserita in una seconda edizione (di cui è notizia in Cordi 3) ove Ulpiano avrebbe tenuto conto delle Istituzioni di Marciano, ancora non pubblicate quando la prima edizione dei libri ad Sabinum avrebbe visto la luce. Tuttavia, non siamo in grado di individuare quale edizione dell’opera ulpianea utilizzarono i giustinianei nel Digesto, posto che nella Cordi, il riferimento è al Codex Iustinianus; né, tantomeno, anche ove vi fosse la certezza che nel Digesto fosse stata adoperata la seconda edizione, saremmo in grado di affermare con un minimo grado di verosimiglianza se nella prima edizione vi fosse o meno il riferimento a Marciano. In riferimento al testo di Paolo è lo stesso Lenel 1889.I, 661 nt. 1, a prospettare qualche dubbio, seguito, ex multis da Ferrini 1929b, 285 e Grosso 1958, 292; da ultimo de Petris 2018, 34. 161 Si veda, al riguardo, Coriat 1997, 49 s. 162 In tal senso Liebs 2011, 46 s. 163 Supra § 2. 158

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Institutionum libri Crisippo, (su cui torneremo), una di Virgilio. Al riguardo, è opportuno segnalare come Marciano sia l’unico ‘scriptor iuris’ a citare il poeta augusteo e anche su questo punto avremo modo di soffermarci. Un simile rilievo, inoltre, ha indotto molti studiosi a sottolineare la levatura culturale del maestro severiano164; più recentemente, si è rivelato come questi richiami svolgessero la funzione di “rafforzare la fiducia dei discenti nella ragionevolezza del diritto, nella sua stabilità, e nella conformità a valori condivisi”165. Ulteriore elemento caratterizzante l’opera, notissimo, è l’elevato numero di riferimenti alle costituzioni imperiali, che potrebbe segnalare, è stato osservato, anche una qualche familiarità con la cancelleria imperiale166. Gualandi167, nel primo volume del suo lavoro su legislazione imperiale e giurisprudenza, scheda ben 84 testi delle Istituzioni di Marciano che citano provvedimenti imperiali, cui si deve aggiungere un provvedimento dei divi fratres e un rescritto dei divi Severus et Antoninus di cui abbiamo notizia grazie a P. Vindob. L. 59 + 92 rispettivamente in fr. 2 (f. 2 verso col. 2) riga 34 e fr. 2 (f. 2 recto col. 1) riga 27168. In sostanza, in più di un testo su due, di quelli a noi pervenuti, vi è un richiamo alle costituzioni. Questo dato potrebbe anche indurre a considerare lo scritto di Marciano una sorta di repertorio di costituzioni imperiali. Ma, a mio modo di vedere, esso è sintomatico della temperie in cui l’opera vide la luce. Voglio, cioè, sottolineare come il punto di fondo posto in rilievo dal giureconsulto è che la produzione del diritto, appannaggio, in misura preponderante della giurisprudenza nelle epoche precedenti, si spostasse, ormai, sempre più verso la sfera imperiale. Egli, infatti, riporta a conclusione di molti suoi discorsi un provvedimento, il più delle volte di Severo e Caracalla, che sanciva la regola. Ciò, probabilmente, in quanto egli operò sotto una dinastia che accentrò notevolmente il potere in un’epoca in cui si affermò definitivamente la figura del “sovrano legislatore”169. Il giurista, dunque, aveva colto, sia pur con qualche ritrosia, come il ruolo della giurisprudenza fosse ormai ancillare almeno nel momento della produzione del diritto e dovesse in concreto sostanziarsi in un commento delle decisioni imperiali170. Tuttavia, è interessante osservare uno dei passi iniziali delle Istituzioni, già in parte richiamato, per intravedere, forse, qualche accenno critico. Si osservi: Marc. 1 inst., D. 1.3.2: Nam et Demosthenes orator sic definit: τοῦτό ἐστι νόμος, ᾧ πάντας ἀνθρώπους προσήκει πείθεσθαι διὰ πολλά, καὶ μάλιστα ὅτι πᾶς ἐστι νόμος εὕρημα μὲν καὶ δῶρον θεοῦ, δόγμα δὲ ἀνθρώπων φρονίμων, ἐπανόρθωμα δὲ τῶν ἑκουσίων καὶ ἀκουσίων ἁμαρτημάτων, πόλεως δὲ συνθήκη κοινή, καθ’ ἣν ἅπασι προσήκει ζῆν τοῖς ἐν τῇ πόλει. sed et philosophus summae stoicae sapientiae Chrysippus sic incipit libro, quem fecit περὶ νόμου: ὁ νόμος πάντων ἐστὶ βασιλεὺς θείων τε καὶ ἀνθρωπίνων πραγμάτων· δεῖ δὲ αὐτὸν προστάτην τε εἶναι τῶν καλῶν καὶ τῶν αἰσχρῶν καὶ ἄρχοντα καὶ ἡγεμόνα, καὶ κατὰ τοῦτο κανόνα τε εἶναι δι-

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Pernice 1900, 3 ss.; Orestano 1968a, 254. Fressura, Mantovani 2018, 646. 166 Honoré 1962, 189 ss. 167 Gualandi 1963a, 372 ss.; Coriat 1997, 48, pone in rilievo come dai testi marcianei risultano ben 163 costituzioni imperiali, di cui 3 riportate e 160 solo citate. Da ultimo, Fressura, Mantovani 2018, 636 ss. rilevano come maggiore sia la densità di citazione di costituzioni per colonna della Palingenesia leneliana, rispetto agli altri giuristi coevi. 168 Fressura, Mantovani 2018, 667 s. 169 Schiavone 2017, 413. 170 Schiavone 1993, 963. 165

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Domenico Dursi καίων καὶ ἀδίκων καὶ τῶν φύσει πολιτικῶν ζῴων, προστατικὸν μὲν ὧν ποιητέον, ἀπαγορευτικὸν δὲ ὧν οὐ ποιητέον171.

Il brano, nella prima parte, riporta una definizione di legge, tratta dall’orazione contro Aristogitone sulla cui paternità demostenica si discute172. Al di là dei molteplici profili, anche di traducibilità173, su cui non ci si può soffermare in questa sede, si può rilevare come Marciano riporti una definizione di νόμος che, certo, non descriveva la realtà del periodo severiano174. In ragione di ciò, potremmo, forse, osservare un Marciano che, pur consapevole del suo ruolo, non rinuncia ad una certa autonomia di giudizio, sia pur servendosi del dotto e autorevole schermo di Demostene. Nella seconda parte del brano, poi, il giurista riporta le parole del filosofo Crisippo, ove risalta la concezione del νόμος βασιλεὺς. Tale elaborazione che si rinviene per la prima volta in Pindaro175 in una accezione – come evidenziato da Marcello Gigante – religiosa volta a indicare “la legge di Zeus che domina la storia come la natura”176, stava ad indicare la sovranità della legge a cui tutti gli uomini dovevano soggiacere. Ora, se, da un lato, in ciò potremmo vedere la resa del giurista in ordine al fatto che, ormai, la principale fonte del diritto fosse la costituzione imperiale; d’altra parte, sembrerebbe emergere una qualche distanza con la realtà effettuale severiana, ove, nei fatti, la sovranità apparteneva al princeps, non già alla legge. Anche in questo caso – potremmo allora ipotizzare – Marciano, per esprimersi in difformità dallo ‘spirito del tempo’ parrebbe farsi schermo delle altrui parole. Ad ogni modo, il nostro giurista appare protagonista di quella riflessione sul tema della legge e del nesso tra questa e l’imperatore che caratterizzò la giurisprudenza severiana, se solo si pensi che Ulpiano, in quel torno di tempo, affermava quod principi placuit, legis habet vigorem (1 inst, D. 1.4.1pr.) o, ancora, princeps legibus solutus est (Ulp. 13 ad leg. Iul et Pap., D. 1.3.31), formulazioni che, al netto degli utilizzi successivi, potrebbero manifestare una tendenza del giureconsulto a dare rilievo alla circostanza che il princeps fosse titolare, ormai, “di un potere legislativo senza confini, in grado di vincolare alla propria volontà la condotta dei sudditi di un impero sterminato”177.

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Per la traduzione, infra, Fragmenta. La questione, per vero, si era già posta presso gli antichi, del che ce ne dà conto Libanio nelle sua ὑποθέσεις

τῶν κατὰ Ἀριστογείτονος λόγων 11: Διονύσιος δέ ὁ Ἀλικαρνασεὺς οὐ δέχεται τούτους τούς λόγους Δημοσθένους εἶναι ἐκ τῆς ἰδεας τεκμαιρόμενος. Dal passo apprendiamo che già Dionigi di Alicarnasso poneva in dubbio la au-

torialità demostenica dell’orazione. La questione si è protratta per secoli, con pareri discordanti. Tra i più autorevoli seguaci dell’Alicarnassense troviamo nell’ottocento Wilamowitz-Moellendorff 1893, 402. Nel senso dell’autenticità Paoli 1956, 224. Per un ragguaglio puntuale della questione si veda Stolfi 2004, 458 ntt. 90 e 91, Stolfi 2012, 134 s. 173 Stolfi 2004, 441 ss.; Stolfi 2013, 283 ss. 174 Si veda, al riguardo, ex multis, De Giovanni 2007, 77 ss., il quale, pure evidenzia il tentativo dei giuristi severiani di conservare una certa autonomia di giudizio dai principi. 175 (152 B. = 169 Schr.) νόμος ὁ πάντων βασιλεὺς θνατῶν τε καὶ ἀθανάτων (la legge regina di tutte le cose mortali e immortali). Su cui, diffusamente, Gigante 1956, 72 ss. 176 Gigante 1956, 91. 177 Schiavone 2017, 415 s.; di diverso avviso Frezza 1983, 418 ss., per il quale si tratterebbe di un’affermazione da cogliersi in relazione alle decisioni del principe volte a definire i processi. Evangelisti 2018, 207 pone tuttavia in evidenza che l’affermazione per cui un atto ha vigore di legge è diversa dall’identificare quell’atto con la legge. La stessa autrice, peraltro, ritiene che la solutio legibus non sarebbe un’affermazione generale concernente l’assoluta preminenza dell’imperatore rispetto alla legge, ma una “misura tecnica” diretta a dispensare il principe dal rispetto di specifici precetti che rappresenterebbero un ostacolo per la sua azione di governo.

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Institutionum libri Al riguardo, infine, preme segnalare come Marciano medesimo faccia analogo uso di Virgilio in un frammento del terzo libro delle Istituzioni, riportato in D. 1.8.6.5178. Sia qui sufficiente sottolineare come il maestro severiano richiami il poeta per affermare la natura di locus religiosus del cenotafio, passando sotto silenzio un rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero (dunque a lui precedente), ricordato da Ulpiano179, che affermava l’esatto contrario. Alla luce di tanto, sembrerebbe che il nostro utilizzasse i dotti dell’antichità per esprimersi in maniera difforme dall’orientamento imperiale, per veicolare cioè idee non collimanti con quelle del potere politico e, forse, una tale cautela scaturiva, appunto, dalla difficoltà dei tempi. Alcuni motivi che affiorano nell’opera, poi, sembrano assumere particolare rilievo in quanto pongono il giureconsulto in rapporto con i grandi temi dell’età severiana. In primo luogo, notevole importanza acquistano i molti frammenti che, in maniera trasversale, si soffermano sul fiscus. In particolare, in ben undici testi delle Istituzioni si può osservare la centralità che questa entità acquista nella società romana del tempo180. Segnatamente, il lavoro marcianeo ci informa intorno a un fisco che raccoglie i beni degli ostaggi e dei prigionieri181; inoltre, osserviamo un fisco in grado di porre in essere manomissioni di schiavi182; infine, in due lacerti183 è fatta menzione dei debitori del fisco, che viene presentato con la fisionomia di un centro di imputazione di situazioni giuridiche184. In sostanza, dai brani richiamati, per il cui approfondimento si rinvia al commento, risulta una intensa attività del fiscus, quantunque, forse, come rilevato185, su que-

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Marc. 3 inst., D. 1.8.6.5: Cenotaphium quoque magis placet locum esse religiosum, sicut testis in ea re est Vergilius. La traduzione si trova nella sezione Fragmenta di questo volume. 179 Ulp. 25 ad ed., D. 1.8.7: Sed divi fratres contra rescripserunt (Ma i divi fratres emanarono un rescritto di segno contrario); Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.6.1: Si adhuc monumentum purum est, poterit quis hoc et vendere et donare. Si cenotaphium fit, posse hoc venire dicendum est: nec enim esse hoc religiosum divi fratres rescripserunt. (Se il monumento è ancora profano, lo si potrà vendere e donare. Se viene eretto un cenotafio, si deve dire che sia possibile vendere il luogo; infatti i divi fratres stabilirono con rescritto che non si tratta di un luogo religioso). 180 In generale, sui molteplici aspetti del ius fisci si rinvia, senza pretese di esaustività, a Vassalli 1908, 67 ss.; Orestano 1968b, 232 ss.; Puliatti 1992, passim; Lo Cascio 2000, 36 ss., 97 ss. Più recentemente, si vedano i saggi raccolti nei due volumi sul diritto amministrativo e fiscale romano apparsi a Madrid tra il 2011 e il 2013: in particolare Agudo Ruiz 2011, 161 ss.; Agudo Ruiz 2013, 487 ss.; Aparicio Pérez 2011, 185 ss.; Aparicio Pérez 2013, 499 ss.; ( Juan Manuel) Blanch Nougués 2011, 115 ss.; Zamora Manzano 2011, 427 ss.; ( José Maria) Blanch Nougués 2013, 529 ss.; Herrera Bravo 2013, 549 ss.; López Huguet 2013, 565 ss. Ulteriore bibliografia sarà richiamata in sede di commento dei brani che affrontano l’argomento. 181 Marc. 4 inst., D. 49.14.31: Divus Commodus rescripsit obsidum bona sicut captivorum omnimodo in fiscum esse cogenda. La traduzione si veda nella sezione riguardante i Fragmenta. Sul testo, recentemente, Marotta 2018, 213 ss. 182 Marc. 9 inst., D. 40.5.51pr.: Non tantum ipse, qui rogatus est manumittere, ad libertatem perducere potest, sed et successores eius, sive emptione sive quo alio modo successerint. sed et si nemo successor extiterit, ad fiscum ita transit, ut libertas ab eo praestetur. (Non solo quello che è richiesto di manomettere può concedere la libertà, ma anche i suoi successori che gli subentrarono per acquisto o in altro modo. Ma ove non esista alcun successore, i beni passano al fisco in modo che da questo sia garantita la libertà). 183 Marc. 12 inst., D. 50.7.5: (…) Debitores autem fisci non prohibentur legatione fungi (…) (Ai debitori del fisco non è proibito svolgere ambascerie). Marc. 13 inst., D. 40.9.11.1: sed divi fratres rescripserunt, non utique, si debitor fisci manumiserit, libertates impediuntur, sed ita, si, cum non erat solvendo, in fraudem manumisit. (Ma i divi fratres stabilirono a mezzo di rescritto che, comunque, se il debitore del fisco avesse manomesso, fossero impedite le libertà, solo se, non essendo solvibile, effettuò le manomissioni in frode). 184 Orestano 1968b, 260. 185 Puliatti 1992, passim. Con riguardo agli altri giuristi severiani, 116 ss.

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Domenico Dursi stioni secondarie, per l’espletamento della quale occorreva, necessariamente, un apparato burocratico di una certa consistenza, tanto che si è parlato di “minutissimo quanto colossale apparato organizzativo (…) per cui fin dal II secolo il fiscus si presenta come l’unione di un patrimonio sterminato e di un’organizzazione burocratica ed amministrativa che lo rende operante”186. Del resto, in età severiana, fiorì, presso diversi giuristi, un interesse verso la materia fiscale che portò alla pubblicazione di alcuni contributi monografici: basti pensare all’opera di Callistrato187. Reputo di una certa utilità ricordare accanto ai riferimenti delle Istituzioni marcianee al fiscus un testo della medesima opera, su cui pure si rinvia al commento, in materia di divisio rerum. Si tratta di Marc. 3 inst., D. 1.8.6.1188. Nel brano Marciano descrive le res universitatis, che elenca in teatri, stadi e altri beni simili: siffatte res, per il nostro giurista, dovevano essere distinte dai beni pubblici, altrimenti non si spiegherebbe la diversa qualificazione. Emerge, dunque, una categoria di cose di pertinenza dei cittadini intesi collettivamente189. In sostanza, il testo racconta di un’articolazione tra i beni del populus Romanus e quelli delle singole città: ciò lascia intravedere una struttura burocratica articolata deputata ad occuparsi della gestione di res destinate all’uso comune organizzata su più livelli, che si affianca a quella, poc’anzi ricordata, in materia fiscale. Nelle Istituzioni, dunque, si coglie la trama della progressiva costruzione di un’amministrazione pubblica190, che rappresenta il contributo di Marciano a quello sforzo di estensione “delle categorie del ius dal disciplinamento privato all’organizzazione amministrativa e costituzionale”191. Merita attenzione, inoltre, l’approccio del nostro giurista al tema della schiavitù. Esso era discusso nel primo libro delle Istituzioni ove, assai verosimilmente, era affrontata la ma-

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Orestano 1968b, 239. Lo stesso autore, a p. 257, sottolinea come le molteplici funzioni del fisco assumessero una valenza “ordinamentale”. 187 Puliatti 1992, 116 ss. 188 Marc. 3 inst., D. 1.8.6.1: Universitatis sunt non singulorum veluti quae in civitatibus sunt theatra et stadia et similia et si qua alia sunt communia civitatium. (…). Si può leggere la traduzione nella sezione dedicata ai Fragmenta. 189 Su questi temi si veda Thomas 2002, 1431 ss. 190 Il tema del diritto amministrativo romano ha suscitato non poco dibattito nella nostra tradizione di studi. Al riguardo, occorre ricordare come Schulz 1946, 110 segnalasse la grave lacuna costituita dalla mancanza di un trattato di diritto amministrativo romano. Su analoghe posizioni si attestava Riccobono jr. 1964, 663. Del resto, alcuni tra i più autorevoli amministrativisti escludevano la configurabilità di un diritto amministrativo romano sul presupposto che il diritto amministrativo non sarebbe scindibile dai concetti di stato di diritto e divisione dei poteri: in tal senso, ex multis, Giannini 1958, 231 ss. Sul punto si vedano le osservazioni di Lucrezi 2001b, 781, ad avviso del quale “appare molto più corretto, molto più affidante far dipendere l’individuazione del momento amministrativo (…) da una peculiare funzione espletata dall’intervento pubblico, la quale può essere qualificata ‘amministrativa’ quando tenda a coniugare la protezione del singolo con la salvaguardia di esigenze collettive (secondo un principio oggi espresso dal concetto di ‘interesse legittimo’, ma perfettamente conosciuto già nell’antichità romana […])”. Sul ritardo con cui la romanistica ha affrontato quest’ambito del diritto si veda anche Licandro 2004, 95 s. e, assai di recente, Arcaria 2017, 45 ss. Occorre, al riguardo, segnalare come l’attenzione sull’argomento sia notevolmente cresciuta. A titolo meramente esemplificativo, si devono ricordare i due volumi “Hacia un Derecho Administrativo y Fiscal Romano”, I e II, pubblicati, il primo a cura di A. Fernández de Buján, G. Gerez Kraemer e B. Malavé Osuna, il secondo soltanto dai primi due. Più recentemente, Fasolino 2016, 171 ss. e, tra i tanti dell’autore, il recente Trisciuoglio 2016, 1199 ss. 191 Schiavone 2017, 381, il quale evidenzia come i giuristi severiani “tennero a battesimo la nuova forma statuale della politica”.

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Institutionum libri teria dello status hominum, come abbiamo visto in sede di disamina della sistematica dell’opera. Particolarmente perspicui, ai nostri fini, appaiono due testi. Vediamoli. Marc. 1 inst., D. 1.5.5pr.-1: Et servorum quidem una est condicio: liberorum autem hominum quidam ingenui sunt, quidam libertini. (1). Servi autem in dominium nostrum rediguntur aut iure civili aut gentium: iure civili, si quis se maior viginti annis ad pretium participandum venire passus est. iure gentium servi nostri sunt, qui ab hostibus capiuntur aut qui ex ancillis nostris nascuntur192.

Il frammento, su cui pure ci soffermeremo in sede di commento, ai miei occhi, appare particolarmente significativo in quanto il giurista radica la schiavitù o nel diritto delle genti o nel diritto civile. Da questo punto di vista, occorre segnalare come fosse ben nota al nostro autore la categoria del diritto naturale che egli richiama, in particolare e non a caso, come vedremo tra breve, in materia di res communes omnium. In ragione di tanto, dunque, sembrerebbe che per Marciano la schiavitù non fosse radicata nel ius naturale benché occorra segnalare come in quel torno di tempo non emerga, nei giuristi, l’idea di una gerarchia tra il diritto naturale e quello delle genti o civile193. Con ciò, però, almeno in qualche misura, egli contribuiva ad acuire la crisi, già in atto da tempo, dell’impostazione aristotelica194 per cui esisterebbero schiavi per natura195 e, forse, più in generale, della visione di natura propria dello Stagirita, intesa come qualcosa di funzionale ad uno scopo. In particolare – è bene ricordare – schiavo per natura, per il filosofo, era soltanto colui che avesse particolari requisiti psichici, fisici od etici tali da renderlo diverso dai liberi. Il maestro severiano, del resto, in quel torno di anni, non era il solo a esprimersi in tal senso. Come noto, posizioni analoghe, per quanto – con buona probabilità – indipendenti le une dalle altre196, esponevano Ulpiano197, Fiorentino198, e Trifonino199. In termini più generali,

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Per la traduzione, infra, Fragmenta. Thomas 2011, 21 ss. 34. 194 Schiavone 2017, 435. 195 Arist., pol. 1.1254a - b. 196 Schiavone 2017, 434 s. 197 Ulp. 1 inst., D. 1.1.4: Manumissiones quoque iuris gentium sunt. Est autem manumissio de manu missio, id est datio libertatis (…) quae res a iure gentium originem sumpsit, utpote cum iure naturali omnes liberi nascerentur nec esset nota manumissio, cum servitus esset incognita: sed posteaquam iure gentium servitus invasit, secutum est beneficium manumissionis. Et cum uno naturali nomine homines appellaremur, iure gentium tria genera esse coeperunt: liberi et his contrarium servi et tertium genus liberti, id est hi qui desierant esse servi. (Anche le manomissioni sono di diritto delle genti. Manomissione viene da mandare con la mano, cioè concedere la libertà (…). La qual cosa trae origine dal diritto delle genti, posto che, nascendo tutti liberi per diritto naturale, la manomissione vi è ignota essendovi sconosciuta la schiavitù; ma dopo che la schiavitù fu introdotta dal diritto delle genti, ne seguì il beneficio della manomissione. E mentre per diritto naturale gli uomini sono tutti chiamati con un solo nome, per diritto delle genti di essi si fecero tre generi: i liberi, il loro opposto, gli schiavi, e un terzo genere, i libertini, e cioè coloro che avevano smesso di essere schiavi). Ulp. 43 ad Sab., D. 50.17.32: quod attinet ad ius civile, servi pro nullis habentur: non tamen et iure naturali, quia quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt. (Per ciò che attiene al diritto civile, gli schiavi è come se non esistessero: ma non tuttavia per il diritto naturale, perché, per quanto attiene al diritto naturale, tutti gli uomini sono uguali). 198 Flor. 9 inst., D. 1.5.4.1: Servitus est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur. (La schiavitù è un’istituzione di diritto delle genti, attraverso cui taluno soggiace, contro natura, alla proprietà di un altro). 199 Tryph. 7 disp., D. 12.6.64: (…) ut enim libertas naturali iure continetur et dominatio ex gentium iure introducta est (…) ([…] e infatti la libertà è prevista dal diritto naturale, mentre la soggezione fu introdotta dal diritto delle genti). 193

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Domenico Dursi mi pare di poter osservare come Marciano al pari degli altri giuristi appena richiamati, ricollegandosi a una tradizione risalente a Cicerone, avversasse l’idea della schiavitù per natura, in quanto, nella prospettiva romana, gli schiavi erano tali in ragione di precisi eventi, si potrebbe dire, per convenzione sociale200; in effetti, questa visione traeva fondamento sia dal rilievo che spesso giungevano a Roma schiavi di ingegno raffinato, che pure strideva con le idee aristoteliche in materia, sia dalla circostanza che non sarebbe stato possibile ammettere che gli schiavi fossero tali per natura e poi consentirne la manomissione. Si andava consolidando, così, il progressivo “distacco dello schiavismo dal piano della naturalità, per spostarne il fondamento su quello di una convenzione sociale unanimemente accolta, e come conseguenza, l’identificazione fra condizione naturale e libertà degli uomini”201. In effetti, proprio quest’ultima idea sembrerebbe trapelare da un testo in materia di restitutio natalium. Osserviamo. Marc. 1 inst., D. 40.11.2: Interdum et servi nati ex post facto iuris interventu ingenui fiunt, ut ecce si libertinus a principe natalibus suis restitutus fuerit. illis enim utique natalibus restituitur, in quibus initio omnes homines fuerunt, non in quibus ipse nascitur, cum servus natus esset202.

Al di là dei diversi profili posti dal testo, che saranno vagliati in sede di commento, quel che importa sottolineare in questa sede è il periodo illis enim utique natalibus restituitur, in quibus initio omnes homines fuerunt, non in quibus ipse nascitur, cum servus natus esset, con il quale il giurista specifica la situazione in cui viene a trovarsi un soggetto nato schiavo beneficiario del provvedimento del principe di restituzione dei natali, attraverso cui viene considerato libero e non libertino203. Ebbene, Marciano precisa come attraverso la benevolenza dell’imperatore si venga collocati in quella situazione in origine propria di tutti gli uomini, benché, in concreto, il destinatario della decisione sia nato schiavo: in altre parole, a me pare che in questo escerto il nostro giurista espliciti la convinzione per cui in un momento, per così dire, originario, tutti gli uomini sono liberi. Vi è l’eco, anche qui, della concezione per cui la schiavitù operi solo sul piano del ius gentium e del ius civile, non già del ius naturale. Del resto, l’idea stessa di restitutio che vive nel verbo restituere appare evocativa della restitutio in integrum, come noto, idonea a porre nel nulla effetti giuridici verificatisi a danno di una persona, reintegrando lo stato di diritto precedente al loro verificarsi. In sostanza, nella prospettiva di Marciano si sarebbero eliminati gli effetti giuridici derivanti dal diritto civile e dal diritto delle genti, per ripristinare l’originaria condizione di libertà esistente in natura. La libertà naturale – è stato rilevato204 – verrebbe adoperata, però, come un artificio per costituire la libertà giuridica. I due testi richiamati, dunque, suggerirebbero di ascrivere Marciano a quella corrente di pensiero per la quale, come si diceva, vi è una dimensione, quella del ius naturale, non sovraordinata alle altre, in cui tutti gli uomini sono liberi.

200

Schiavone 1997, 175 ss. Schiavone 2017, 435. 202 Si veda, per la traduzione, la sezione Fragmenta. 203 Thomas 2011, 35. 204 Thomas 2011, 35. 201

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Institutionum libri Di più: il nostro scriptor iuris sembrerebbe compiere un ulteriore passo. Vediamo: Marc. 3 inst., D. 1.8.2pr.-1: Quaedam naturali iure communia sunt omnium, quaedam universitatis, quaedam nullius pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur. 1. Et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris205.

I testi affrontano la dibattutissima tematica dei beni comuni206. Si tratta di res che per diritto naturale appartengono a tutti e sono l’aria, l’acqua che scorre, il mare e il lido del mare. Preme segnalare, in primo luogo, l’insistenza di Marciano sulla nozione di ius naturale, evocata dal giurista due volte a distanza di poche righe. La riscontriamo, infatti, sia per fissare il fondamento delle res communes omnium, sia per introdurre l’elenco delle singole res ascrivibili alla categoria. Si coglie, agevolmente, come si tratti di beni tutti presenti in natura senza la necessità di alcun apporto umano, che, in quanto tali sono a disposizione di tutti con il precipuo scopo di soddisfare l’esigenza dell’autosostentamento. Del resto, è stato rilevato come le res communes omnium sarebbero state pensate secondo l’impostazione stoica “come il terreno e il mezzo di una utilità spettante a tutti gli esseri umani: naturalmente e senza limiti estrinseci” in cui il giurista avrebbe ripreso spunti e termini dal de officiis di Cicerone e avrebbe dato uno spazio positivo al ius naturale207, offrendo, così, un contributo che si andava ad aggiungere a una lunga elaborazione giurisprudenziale volta a offrire garanzia alla necessità economica della libertà di pesca208 (per quanto riguarda il mare res communis omnium). Sembrerebbe, pertanto, emergere nelle Istituzioni una dimensione, quella del ius naturale, nella quale non solo tutti gli uomini nascerebbero liberi, ma sarebbero anche titolari, in egual misura, di quelle cose che la natura pone a disposizione di tutti. Infine, qualche riflessione sui tratti salienti dell’apparato concettuale adoperato dal maestro severiano nelle sue Istituzioni. Nuovamente, al riguardo, occorre richiamare l’attenzione sul concetto del νόμος βασιλεὺς. In esso – è stato rilevato209 – così come recepito a Roma, per lo meno da Cicerone, vivrebbe l’idea della costruzione di un “ordinamento senza sovrano (…) giustificato solo da una filosofia unanimemente condivisa, perché iscritta nella ragione di tutti gli uomini” che diveniva fondamento di un diritto universale radicato nella ragione naturale. Come abbiamo visto, inoltre, nelle Istituzioni risultano riferimenti al diritto naturale e all’idea per cui non vi sono schiavi per natura. In altri termini, in Marciano sembrano presenti due idee di fondo, l’eco di una ratio naturalis in grado di governare il mondo e l’idea dell’eguaglianza naturale di tutti gli uomini, che lo collocano, a buon diritto, tra i fautori di ciò che è stato definito giusnaturalismo romano210, anzi, forse, tra coloro che tentarono di fornire maggiore spessore al diritto naturale.

205

Per la traduzione si veda la sezione Fragmenta. Sulle problematiche poste dalla categoria di res communes omnium sia consentito rinviare a Dursi 2017b, passim. Ulteriore bibliografia sarà richiamata in sede di commento ai testi. 207 Così Brutti 2015, 260. 208 Dursi 2017b, 5 ss., 41 ss. e 139 ss. 209 Schiavone 2017, 287 s. 210 Sulla riferibilità e il significato in quel contesto di questa nozione, si veda Schiavone 2007, 3 ss.; Schiavone 2017, 275 ss. e 431 ss. 206

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Domenico Dursi 7. I destinatari È tempo di svolgere qualche considerazione sui destinatari dell’opera. Da una parte, si è ritenuto che lo scritto fosse destinato per lo più alle esigenze della prassi provinciale211; tuttavia, le citazioni dotte potrebbero lasciare immaginare altro. Inoltre, se è assai verosimile che l’opera si occupasse spessissimo del preside di provincia e alla sua giurisdizione si riferisse, ciò potrebbe trovare spiegazione anche nel rilievo che, in quel tempo, la gran parte dei soggetti cui si applicava il diritto romano si trovava sotto la iurisdictio di questi magistrati. Ad ogni modo, appare eccessivamente riduttivo ritenere che l’opera fosse un manuale per i provinciali212. Si è, poi, anche di recente, ritenuto che l’opera si rivolgesse agli studenti al primo anno degli studi giuridici, di una scuola, però, diversa da quella in cui erano state studiate le Istituzioni di Gaio213. Peraltro, occorre rilevare come sia stato sostenuto che nell’età dei Severi le scuole di diritto avrebbero seguito, ormai, esclusivamente il modello sabiniano, sia pur riformato su richiesta dell’imperatore Adriano da Salvio Giuliano, i cui intenti sarebbero stati realizzati da Gaio, attraverso la redazione delle Istituzioni e Pomponio con quella dell’enchiridion e dei commenti a Quinto Mucio, a Sabino e all’Editto214. Più specificamente, già agli inizi del III secolo grande rilevanza avrebbe acquisito la scuola di Beirut il cui piano di studi potrebbe ricavarsi dalle indicazioni relative ai primi tre anni degli studi giuridici contenute nel paragrafo 1 della constitutio Omnem215, sia pur orientativamente e con molta cautela dovuta sia al periodo cui il provvedimento si riferisce, sia all’area geografica considerata (le scuole orientali). Ivi, Giustiniano, nel rammentare il sistema dell’istruzione precedente alla sua riforma ricorda lo studio delle Istituzioni di Gaio e di altri quattro libri al primo anno e non menziona l’opera di Marciano che pure gli era ben nota e comunque si presentava assai più estesa rispetto al complesso delle opere destinate agli studenti del primo anno. Sul punto, peraltro, è opportuno rilevare come nella scuola di epoca tardo antica grande fortuna avesse conosciuto il manuale di Gaio, come dimostra l’esistenza di diverse epitomi dello stesso216. Del resto, a me pare difficile che un’opera dalla mole più volte richiamata, con le caratteristiche elencate potesse rivolgersi a studenti del primo anno. Né, a mio modo di vedere, decisivo per una destinazione scolastica, può essere il titolo dell’opera, poiché con libri institutionum, vengono indicate opere alquanto diverse, il che del resto appare conforme al già ricordato scarso rilievo che i giuristi romani assegnavano al genere letterario217; occorre, peraltro, rilevare che non necessariamente doveva indicarsi la semplicità della trattazione. Quanto alla nostra opera, in essa emergono definizioni e classificazioni, ma con un notevole approfondimento. La grande quantità di casi presentati lascia, infatti, immaginare un lettore in grado di orientarsi tra istituti diversi tra loro e collegarli: abilità difficilmente riscontrabile in chi si accinge a studiare il diritto.

211

De Giovanni 1989, 76; De Giovanni, 2006, 499; Lambertini 1995, 271 nt. 2. Così Fressura, Mantovani 2018, 653 e 659 s. 213 Pietrini 2012, 89 ss. 214 Frezza 1977, 246 ss. 215 Marrou 1950, 383 nt. 47; Frezza 1977, 255. 216 Sulle scuole di diritto nel tardo antico si vedano Collinet 1925, passim; Campolunghi 2007, 337 ss.; Marotta 2007, 1654 ss.; Giomaro 2011, 13 ss., 35 ss.; Giomaro 2016, 7 ss. 217 Lantella 1979, 63 ss.; d’Ippolito 2009, XXVII ss.; Stolfi 2017, 49 ss. 212

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Institutionum libri Ciò, peraltro, doveva essere ben chiaro ai giustinianei. Una prima considerazione: quando decidono di scegliere un modello per il manuale di studio che stavano compilando per gli studenti del primo anno, optano, principalmente, per le Istituzioni di Gaio, sia pur con integrazioni tratte dalle altre opere istituzionali, come abbiamo già visto218. Di più: dal paragrafo 5 della Omnem219 apprendiamo che la parte V del Digesto veniva studiata al quarto anno, sul finire, dunque, del percorso di studi. Il paragrafo 6 della Costituzione Tanta220 ci informa sulla circostanza che la V parte del Digesto, dedicata per lo più alla materia ereditaria nelle sue varie articolazioni, era quella ricompresa tra il libro 28 e 36. Orbene, ben 42 testi a noi pervenuti delle Istituzioni di Marciano su un totale di 142, cioè un terzo circa del totale, erano ricompresi in questa parte. Ancora: si può agevolmente riscontrare come la maggior parte dell’opera marcianea sia collocata tra le parti V, VI e VII del Digesto (107 frammenti) che, apprendiamo, erano destinati ai giovani i quali, però, avessero completato la parte fondamentale degli studi, cioè quelli del quinto anno. Possiamo, dunque, affermare che, almeno per i commissari di Giustiniano, l’opera di Marciano non si rivolgeva a studenti del primo anno, bensì a coloro che avevano quasi ultimato il loro percorso di studi. I frammenti dell’opera erano, dunque, utilizzati, per lo più, da studenti denominati λύται, cioè risolutori di questioni giuridiche, e prolytae ossia risolutori provetti, i quali, nell’opera in esame, trovavano non pochi esempi di come si affronta una questione giuridica. Alla luce delle considerazioni svolte, a me pare, sia pur con le prudenze del caso, che l’opera di Marciano avesse le sembianze di un trattato di diritto, non circoscritto, come è emerso, al solo ius civile, con l’ambizione di rivolgersi ai giuristi coevi e agli esperti di diritto e non con intenti squisitamente didattici221. In conclusione, l’opera sembra partecipe di quel tentativo di “cristallizzazione e consolidamento dottrinario che era il punto di arrivo di una tradizione”222 il cui scopo era una sintesi inedita della letteratura giurisprudenziale precedente, quasi riaffermata alla stregua di un codice223.

218

Supra §. 1. Sui profili dell’organizzazione delle scuole di diritto all’epoca di giustiniano, Giomaro 2011, 53. Omnem § 5: Sed quia solitum est anni quarti studiosos Graeco et consueto quodam vocabulo λύτας appellari, habeant quidem, si maluerint, hoc cognomen (…) et ita omnis ordo librorum singularium a nobis compositus et in decem et septem libros partitus eorum animis inponetur (quem in duabus digestorum partibus posuimus, id est quarta et quinta, secundum septem partium distributionem) (…). (E poiché è abituale che gli studenti del quarto anno siano designati con il termine greco e consueto di lutas, tengano pure, se vogliono, questo appellativo […] E così sarà impressa nelle loro menti l’intera successione dei libri unici da noi composta e ripartita in diciassette libri (che abbiamo collocato in due parti del Digesto, cioè la quarta e la quinta, rispetto alla suddivisione in sette […]). 220 Tanta § 6: Quintus autem exoritur nobis digestorum articulus, in quem de testamentis et codicillis tam privatorum quam militum omne, quidquid antiquis dictum est, inveniat quis depositum: qui de testamentis appellatur. De legatis autem et fideicommissis quinque librorum numerus adgregatus est. (Come quinta ci si presenta, poi, la sezione dei Digesti in cui si trova collocato tutto ciò che gli antichi hanno detto in tema di testamenti e codicilli redatti tanto da privati quanto da militari; essa è chiamata ‘Sui testamenti’. A questa è stato aggiunto un gruppo di cinque libri sui legati e sui fedecommessi). Sul Digesto come oggetto di studio all’interno dei programmi scolastici, Giomaro 2011, 55 ss. 221 Di corrispondente manualistico dei libri digestorum e di manuale globale che presentava il diritto romano nella sua dimensione ecumenica parlano Fressura, Mantovani 2018, 659 s. 222 Schiavone 2017, 398. 223 Il riferimento è, ovviamente, a Schulz 1953, 198 ove così leggiamo: «Ulpian was to achieve, and achieve without departing from the classical tradition (…) but by his private enterprise as an authoritative jurist, a codification in the form of a restatement». 219

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Domenico Dursi APPENDICE In questa appendice riportiamo i brani delle Istituzioni di Giustiniano che per Ferrini224 avrebbero quale fonte lo scritto marcianeo, diversi, ovviamente, da quelli per i quali vi sia una coincidenza testuale con testi del Digesto ricavati dalle Istituzioni marcianee225. Distingueremo i testi in tre gruppi: il primo relativo ai paragrafi delle Istituzioni di Giustiniano che consideriamo verosimilmente riconducibili a Marciano e accogliamo nella nostra palingenesi, sulla base – come si segnalava – della presenza di uno dei criteri ferriniani e, al contempo, di una stretta connessione con un brano di certa derivazione marcianea, in quanto confrontabile con un testo delle Istituzioni marcianee riportato nel Digesto; nel secondo gruppo saranno raccolti quei testi che potrebbero presentare tracce marcianee, ma che non si ritiene si possano accogliere con un buon grado di verosimiglianza nella palingenesi dell’opera che qui si propone perché non strettamente connessi a un testo di sicura derivazione marcianea o, perché, al contrario, pur essendo connessi a un testo certamente di Marciano, non presentano i criteri ferriniani; nel terzo gruppo, infine, quei testi ove risulta più arduo intravedere una qualche derivazione marcianea perché, tendenzialmente, manchevoli di entrambi i criteri che abbiamo indicato.

224 225

Ferrini 1929d, 307 ss. Su cui vedi supra § 1 nt. 12.

62

Institutionum libri Testi individuati da Ferrini at- Testi individuati da Ferrini Testi individuati da Ferrini tribuibili alle Istituzioni di con possibile presenza di nu- difficilmente riconducibili Marciano clei di pensiero marcianei alle Istituzioni Marciano Inst. 1.14.4; Inst. 1.25.1; Inst. 1.25.2; Inst. 1.25.3; Inst. 1.25.6; Inst. 1.25.8; Inst. 1.25.9; Inst. 1.25.10; Inst. 1.25.16; Inst. 1.25.18; Inst. 1.25.19; Inst. 2.15.2; Inst. 2.15.3; Inst. 2.20.5; Inst. 2.20.12; Inst. 2.20.13; Inst. 2.20.14; Inst. 2.20.15; Inst. 2.20.18; Inst. 2.20.20; Inst. 2.25.1

Inst. 1.4.1; Inst. 2.6.9; Inst. 2.6.13; Inst. 2.6.14; Inst. 2.11.3; Inst. 2.11.4; Inst. 2.17.7; Inst. 2.17.8; Inst. 2.20.9; Inst. 2.20.10; Inst. 2.20.11; Inst. 3.4pr.

63

Inst. 1.2.10; Inst. 1.8.2; Inst. 1.11.3; Inst. 1.12.3; Inst. 1.12.4; Inst. 1.13.5; Inst. 1.14pr.; Inst. 1.14.1; Inst. 1.14.2; Inst. 1.14.3; Inst. 1.16.4; Inst. 1.16.5; Inst. 1.20.3; Inst. 1.20.4; Inst. 1.23.2; Inst. 1.23.3; Inst. 1.24.1; Inst. 1.24.2; Inst. 1.24.3; Inst. 1.24.4; Inst. 1.25pr; Inst. 1.25.5; Inst. 1.25.7; Inst. 1.25.11; Inst. 1.25.12; Inst. 1.25.13; Inst. 1.25.14; Inst. 1.25.15; Inst. 1.25.17; Inst. 1.25.20; Inst. 1.26.4; Inst. 1.26.5; Inst. 1.26.6; Inst. 1.26.7; Inst. 1.26.8; Inst. 1.26.9; Inst. 2.1.3; Inst. 2.1.7; Inst. 2.6.10; Inst. 2.6.11; Inst. 2.6.12; Inst. 2.9.5; Inst. 2.10.5; Inst. 2.10.6; Inst. 2.10.7; Inst. 2.12pr.; Inst. 2.13.6; Inst. 2.13.7; Inst. 2.14pr.; Inst. 2.18.1; Inst. 2.18.2; Inst. 2.20.6; Inst. 2.20.17; Inst. 2.20.19; Inst. 2.20.21; Inst. 2.20.36; Inst. 2.25pr; Inst. 3.1.3; Inst. 3.1.4; Inst. 3.1.5; Inst. 3.3.3; Inst. 3.3.7; Inst. 3.4.2; Inst. 3.4.3; Inst. 3.11pr.; Inst. 3.11.1; Inst. 3.11.2; Inst. 3.11.3; Inst. 4.6.6.

FRAGMENTA1 INSTITUTIONUM LIBRI I-V

Liber I

[De iure] 1. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.1.8 (Lenel, Marc. 42) Nam et ipsum ius honorarium viva vox est iuris civilis. 2. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.3.2 (Lenel, Marc. 44) Nam et Demosthenes orator sic definit: τοῦτό ἐστι νόμος, ᾧ πάντας ἀνθρώπους προσήκει πείθεσθαι διὰ πολλά, καὶ μάλιστα ὅτι πᾶς ἐστι νόμος εὕρημα μὲν καὶ δῶρον θεοῦ, δόγμα δὲ ἀνθρώπων φρονίμων, ἐπανόρθωμα δὲ τῶν ἑκουσίων καὶ ἀκουσίων ἁμαρτημάτων, πόλεως δὲ συνθήκη κοινή, καθ’ ἣν ἅπασι προσήκει ζῆν τοῖς ἐν τῇ πόλει. sed et philosophus summae stoicae sapientiae Chrysippus sic incipit libro, quem fecit περὶ νόμου: ὁ νόμος πάντων ἐστὶ βασιλεὺς θείων τε καὶ ἀνθρωπίνων πραγμάτων· δεῖ δὲ αὐτὸν προστάτην τε εἶναι τῶν καλῶν καὶ τῶν αἰσχρῶν καὶ ἄρχοντα καὶ ἡγεμόνα, καὶ κατὰ τοῦτο κανόνα τε εἶναι δικαίων καὶ ἀδίκων καὶ τῶν φύσει πολιτικῶν ζῴων, προστατικὸν μὲν ὧν ποιητέον, ἀπαγορευτικὸν δὲ ὧν οὐ ποιητέον. εγρνμα Fa, εγρεμα Fb – κανον οʾ α F - καὶ ἄρχοντα καὶ ἡγεμόνα τῶν φύσει πολιτικῶν ζῴων καὶ κατὰ τοῦτο κανόνα τε εἶναι (τε εἶναι fortasse del.) δικαίων καὶ ἀδίκων καὶ προστατικὸν (Hercher?) (Mommsen in app. crit.

ed. maioris).

1

Soluzioni grafiche: testo in latino in tondo quando il frammento non è nelle fonti attribuito a Marciano, ma lo si ritiene assai verosimilmente marcianeo e perciò incluso in questa palingenesi. Si è, invece, adoperato il corsivo nel caso di Inst. 2.1pr. che pur non essendo direttamente attribuito nelle fonti a Marciano coincide con una piccola differenza con un testo del Digesto attribuito a Marciano: in questo caso, per le ragioni esposte in sede di commento, si è preferito il testo delle Istituzioni. La riproduzione dei frammenti è accompagnata da un apparato critico che non pretende di essere esaustivo. Per quanto riguarda i frammenti del Digesto, sono stati segnalati tutti i casi in cui il testo adottato differisce da quello della littera Florentina (F), e quelli in cui il testo di F è stato emendato dallo scriba stesso (Fa / Fb) o da un correttore del VI secolo (F1 / F2). Sono state sistematicamente riportate le correzioni suggerite da Mommsen, integrate con quelle indicate nell’edizione Mommsen - Krueger e con quelle segnalate da Lenel.

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FRAGMENTA INSTITUTIONUM LIBRI I-V

Liber I

[De iure] 1. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.1.8 (Lenel, Marc. 42) Infatti anche lo stesso diritto onorario è viva voce del diritto civile. 2. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.3.2 (Lenel, Marc. 44) Infatti anche l’oratore Demostene così si espresse: la legge è ciò a cui conviene che gli uomini obbediscano per molte e importanti ragioni, e soprattutto poiché ogni legge è creazione e dono della divinità, è dottrina di uomini saggi, correzione delle trasgressioni volontarie o involontarie, comune accordo della città secondo il quale conviene a tutti vivere in essa. Ma anche il filosofo Crisippo della più alta sapienza stoica così iniziò in un libro che scrisse intorno alla legge: “la legge è la sovrana di tutti i fatti umani e divini; pertanto occorre che essa governi le buone e le cattive azioni, ne sia arconte ed egemone; e perciò sia canone delle azioni giuste ed ingiuste degli animali che per natura sono politici, imponendo quello che si deve fare e vietando quello che non si deve fare”.

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Domenico Dursi 3. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.1.12 (Lenel, Marc. 43) Nonnumquam ius etiam pro necessitudine dicimus veluti “est mihi ius cognationis vel adfinitatis.”

[De statu hominum] 4. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.5.5pr.-3 (Lenel, Marc. 45), Inst. 1.4pr. Et servorum quidem una est condicio: liberorum autem hominum quidam ingenui sunt, quidam libertini. (1). Servi autem in dominium nostrum rediguntur aut iure civili aut gentium: iure civili, si quis se maior viginti annis ad pretium participandum venire passus est. iure gentium servi nostri sunt, qui ab hostibus capiuntur aut qui ex ancillis nostris nascuntur. (2). Ingenui sunt, qui ex matre libera nati sunt: sufficit enim liberam fuisse eo tempore quo nascitur, licet ancilla concepit. et e contrario si libera conceperit, deinde ancilla pariat, placuit eum qui nascitur liberum nasci. (nec interest iustis nuptiis concepit an vulgo), quia non debet calamitas matris nocere ei qui in ventre est. (3). Ex hoc quaesitum est, si ancilla praegnas manumissa sit, deinde ancilla postea facta aut expulsa civitate pepererit, liberum an servum pariat. et tamen Marcellus probat liberum nasci et sufficere ei qui in ventre est liberam matrem vel medio tempore habuisse. ‘c’rediguntur F – civili] civlet F1 – isre Fa – pererit F

5. Marcianus, liber primus institutionum, D. 18.1.42 (Lenel, Marc. 48) Domini neque per se neque per procuratores suos possunt saltem criminosos servos vendere ut cum bestiis pugnarent. et ita divi fratres rescripserunt. 6. Marcianus, liber primus institutionum, D. 48.19.17pr.-1 (Lenel, Marc. 49) Sunt quidam servi poenae, ut sunt in metallum dati et in opus metalli: et si quid eis testamento datum fuerit, pro non scriptis est, quasi non Caesaris servo datum, sed poenae. (1) Item quidam ἀπόλιδες sunt, hoc est sine civitate: ut sunt in opus publicum perpetuo dati et in insulam deportati, ut ea quidem, quae iuris civilis sunt, non habeant, quae vero iuris gentium sunt, habeant. non] no F – scripto (edd.)? (Mommsen in app. crit. ed. maioris). – qui vero F1

7. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.11.2 (Lenel, Marc. 46) Interdum et servi nati ex post facto iuris interventu ingenui fiunt, ut ecce si libertinus a principe natalibus suis restitutus fuerit. illis enim utique natalibus restituitur, in quibus initio omnes homines fuerunt, non in quibus ipse nascitur, cum servus natus esset. hic enim, quantum ad totum ius pertinet, perinde habetur, atque si ingenuus natus esset, nec patronus eius potest ad successio66

Fragmenta. Institutionum libri I-V 3. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.1.12 (Lenel, Marc. 43) Talvolta definiamo il diritto anche nel senso di vincolo come quando si dice “ho il diritto di consanguineità o il diritto di affinità”.

[De statu hominum] 4. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.5.5pr.-3 (Lenel, Marc. 45), Inst. 1.4pr. Vi è una sola condizione degli schiavi: mentre tra gli uomini liberi vi sono gli ingenui e i libertini. (1) Gli schiavi, invece, si collocano nel nostro dominio o per diritto civile o per diritto delle genti: per diritto civile, se qualcuno maggiore di venti anni si sia lasciato vendere per condividere il prezzo; per diritto delle genti sono nostri schiavi coloro che sono stati catturati o che sono nati dalle nostre schiave. (2) Sono ingenui coloro che sono nati da madre libera. È sufficiente infatti che sia libera al tempo in cui è nato, quand’anche concepì da schiava. Al contrario, se abbia concepito da libera, quindi partorisca da schiava, è parso opportuno che colui che nasce, si ritenga libero (né interessa se concepì nell’ambito di un giusto matrimonio o al di fuori di esso), poiché la disgrazia della madre non deve nuocere al nascituro. (3) In ragione di ciò si pone il quesito se una schiava gravida sia manomessa, quindi tornata ad essere schiava o espulsa dalla città, partorisca uno schiavo o un libero. E tuttavia più correttamente Marcello ritiene che nasca libero e che sia sufficiente per il nascituro avere avuto la madre libera anche in un tempo intermedio. 5. Marcianus, liber primus institutionum, D. 18.1.42 (Lenel, Marc. 48) I padroni non possono vendere né direttamente, né attraverso rappresentanti, nemmeno schiavi delinquenti affinché combattano nel circo con le bestie. Così, infatti, rescrissero i divi fratres. 6. Marcianus, liber primus institutionum, D. 48.19.17pr.-1 (Lenel, Marc. 49) Taluni sono schiavi per così dire della pena dato che sono assegnati alle miniere e ai lavori forzati: se qualcosa fosse stata loro assegnata per testamento, si ha per non scritta, come se fosse dato non allo schiavo di Cesare, ma della pena. (1) Inoltre, alcuni sono apolidi, cioè senza cittadinanza: come ad esempio coloro che sono assegnati per sempre ai lavori pubblici e deportati su un’isola, in modo che non siano loro riconosciute le situazioni di diritto civile, ma quelle che sono di diritto delle genti. 7. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.11.2 (Lenel, Marc. 46) Talora i nati schiavi in forza di una circostanza sopravvenuta diventano per diritto ingenui, così ad esempio se un libertino sia stato ristabilito dal principe nei suoi diritti di nascita. Sono restituiti particolarmente in quelle condizioni di nascita nelle quali inizialmente si trovavano tutti gli uomini, non nelle quali essi sono nati, essendo nati schiavi. Qui, infatti, ci si riferisce 67

Domenico Dursi nem venire. ideoque imperatores non facile solent quemquam natalibus restituere nisi consentiente patrono. veniret F

8. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.10.3 (Lenel, Marc. 47) Divus Commodus et ius anulorum datum ademit illis qui invitis aut ignorantibus patronis acceperant.

[De manumissionibus] 9. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.16.2pr.-1 (Lenel, Marc. 50) Omnes proconsules statim quam urbem egressi fuerint habent iurisdictionem, sed non contentiosam, sed voluntariam: ut ecce manumitti apud eos possunt tam liberi quam servi et adoptiones fieri. (1) Apud legatum vero proconsulis nemo manumittere potest, quia non habet iurisdictionem talem. proconsule˖s˖ F

10. Marcianus, liber primus institutionum, D. 38.2.22 (Lenel, Marc. 51) Si filius familias miles manumittat, secundum Iuliani quidem sententiam, quam libro vicensimo septimo digestorum probat, patris libertum faciet: sed quamdiu, inquit, vivit, praefertur filius in bona eius patri. sed divus Hadrianus Favio Apro rescripsit suum libertum eum facere, non patris. facie sed F – in om. Fa

11. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.4.23pr.-1 (Lenel, Marc. 52) Testamento manumissus ita demum fit liber, si testamentum valeat et ex eo adita sit hereditas, vel si quis omissa causa testamenti ab intestato possideat hereditatem. (1) Testamento data libertas competit pure quidem data statim, quam adita fuerit hereditas vel ab uno ex heredibus: si in diem autem libertas data est vel sub condicione, tunc competit libertas, cum dies venerit vel condicio extiterit. ommissa F

12. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.9.9pr.-2 (Lenel, Marc. 53) Ille servus liber non erit, qui vi coegerit, ut eum dominus manumittat, et ille perterritus scripsit liberum eum esse. (1) Item nec ille liber fieri potest, qui a domino non est defensus in capitali crimine posteaque absolutus est. (2) Qui hac lege venierint, ne manumittantur, vel qui testamento prohibiti sint manumitti vel iussu praesidis provinciae, licet manumittantur, tamen ad libertatem non perveniunt. qui ‘vi’ coegerit Fb - etsi (εἰ καὶ BS)? (Mommsen in app. crit. ed. maioris) – capitoli F1

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Fragmenta. Institutionum libri I-V a tutto il diritto, come se si avesse, e si fosse nato ingenuo, né il suo patrono può partecipare alla successione. In ragione di ciò gli imperatori non sono soliti restituire facilmente un liberto nei diritti di nascita se non con il consenso del patrono. 8. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.10.3 (Lenel, Marc. 47) Il divo Commodo privò anche della dignità equestre concessa a quelli che l’avessero accettata contro la volontà o all’oscuro del patrono.

[De manumissionibus] 9. Marcianus, liber primus institutionum, D. 1.16.2pr.-1 (Lenel, Marc. 50) Tutti i proconsoli, appena lasciano la città, hanno giurisdizione non contenziosa ma volontaria: così presso di essi si possono affrancare tanto i figli quanto gli schiavi e fare le adozioni. (1) Nessuno può per vero affrancare presso il legato del proconsole poiché egli non ha siffatta giurisdizione. 10. Marcianus, liber primus institutionum, D. 38.2.22 (Lenel, Marc. 51) Se un soldato figlio di famiglia affranca, secondo un parere di Giuliano, espresso nel ventisettesimo libro dei Digesti, crea un liberto del padre: fino a quando vive, disse, il figlio è preferito nei beni a suo padre. Ma il divo Adriano stabilì in un rescritto a Flavio Apro che egli facesse suo il liberto, non del padre. 11. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.4.23pr.-1 (Lenel, Marc. 52) L’affrancato è quindi libero per testamento se il testamento sia valido e l’eredità sia stata accettata da qualcuno, o se qualcuno, senza tener conto del testamento, possegga l’eredità ab intestato. (1) La libertà concessa per testamento compete perfettamente e immediatamente anche se l’accettazione dell’eredità sia stata compiuta da uno solo tra gli eredi: se la libertà è concessa a partire da un termine o sottoposta a condizione, allora la libertà compete, quando sia giunto il termine o quando la condizione si sia verificata. 12. Marcianus, liber primus institutionum, D. 40.9.9pr.-2 (Lenel, Marc. 53) Quello schiavo che costrinse il padrone ad affrancarlo e questi atterrito scrisse che sia libero non sarà libero. (1) Parimenti, non può diventare libero colui che non fu difeso dal padrone in un processo per un delitto capitale e successivamente sia stato assolto. (2) Coloro che sono stati acquistati in forza di questa previsione, che non siano manomessi, o quelli che non possono esserlo per un testamento o per ordine del preside della provincia laddove siano manomessi, tuttavia non conseguono la libertà.

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Domenico Dursi Appendice2 P. Vindob. L. 59+92: Fr.1 col. 1 recto? 1 [6±7] nullius sunt civitatis [6±7]d Latini faciunt qui sint [6±7] condicionis nec ex t(estamen)to col. 2 verso? ductam ipse prostitu[±6] constitutione adiect[um est] 13 si novicium mancip̣[ium

2 Si riporta il testo di P. Vindob. L. 59 + 92: Fr. 1 col. 1 e col. 2 così come riedito da Fressura, Mantovani 2018, 665. Sulle considerazioni che inducono a inserirlo in un’appendice si veda supra Introduzione all’opera § 1 I resti, e infra Libro I, § 1 Considerazioni palingenetiche.

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Fragmenta. Institutionum libri I-V Appendice Lo stato del testo non consente una traduzione significativa.

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Domenico Dursi

Liber II

[De iure nuptiarum] 13. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 23.2.57 (Lenel, Marc. 54) Qui in provincia officium aliquid gerit, prohibetur etiam consentire filio suo uxorem ducenti. 14. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.18.5 (Lenel, Marc. 56) Si quis viduam vel alii nuptam cognatam, cum qua nuptias contrahere non potest, corruperit, in insulam deportandus est, quia duplex crimen est et incestum, quia cognatam violavit contra fas, et adulterium vel stuprum adiungit. denique hoc casu servi in personam domini torquentur. corru‘m’perit F2 – stuprum vel adulterium (cf. u. 30 et quod sequitur hoc casu et D. 48,5,40,8)? (Mommsen in app. crit. ed. maioris) – adiungit del. (Mommsen in app. crit. ed. maioris) - denique ‘eum’ hoc F2

15. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.22.4 (Lenel, Marc. 63) Relegati in insulam in potestate sua liberos retinent, quia et alia omnia iura sua retinent: tantum enim insula eis egredi non licet. et bona quoque sua omnia retinent praeter ea, si qua eis adempta sunt: nam eorum, qui in perpetuum exilium dati sunt vel relegati, potest quis sententia partem bonorum adimere. 16. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 30.128 (Lenel, Marc. 55) Si tutor pupillam suam contra senatus consultum uxorem duxit, illa quidem ex testamento eius capere potest, ipse autem non potest, et merito: delinquunt enim hi, qui prohibitas nuptias contrahunt et merito puniendi sunt: quod imputari non potest mulieri, quae a tutore decepta est. delinqu˖u˖nt Fb – quae] que F

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Fragmenta. Institutionum libri I-V

Liber II

[De iure nuptiarum] 13. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 23.2.57 (Lenel, Marc. 54) Colui che eserciti una qualche carica in provincia, non può neanche dare il suo consenso al figlio per prendere moglie. 14. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.18.5 (Lenel, Marc. 56) Se taluno corrompa una vedova o una parente sposa di altro, con la quale non può contrarre nozze, deve essere deportato in un’isola, poiché vi è un duplice crimine, sia l’incesto perché ha violato la parente contro la legge divina, e, in aggiunta, lo stupro o l’adulterio. Pertanto, in questo caso gli schiavi sono sottoposti alle torture contro la persona del padrone.

15. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.22.4 (Lenel, Marc. 63) I relegati in un’isola mantengono sotto la propria potestà i figli, poiché mantengono anche tutti gli altri diritti: non è loro consentito soltanto di lasciare l’isola. Mantengono anche tutti i loro beni tranne quelli loro sottratti: infatti qualcuno può con una sentenza sottrarre parte dei beni di coloro che sono in esilio perpetuo o relegati. 16. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 30.128 (Lenel, Marc. 55) Se un tutore in violazione del senatoconsulto abbia preso in moglie una sua pupilla, ella può ricevere dal suo (di lui) testamento, egli non può e a ragione: delinquono, infatti, coloro che contraggono nozze proibite e a ragion veduta devono essere puniti: ciò non si può imputare alla moglie che fu raggirata dal tutore.

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Domenico Dursi [De tutelis] 17. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 26.1.9 (Lenel, Marc. 57) In eos extra ordinem animadvertitur, qui probentur nummis datis tutelam occupasse vel pretio accepto operam dedisse, ut non idoneus tutor daretur, vel consulto in edendo patrimonio quantitatem minuerit, vel evidenti fraude pupillorum bona alienasset. minuisse (Hal.)? (Mommsen in app. crit. ed. maioris) – alienasse (Hal.)? (Mommsen in app. crit. ed. maioris)

18. Inst. 1.14.4; Marcianus, liber secundus institutionum, D. 26.2.14 (Lenel, Marc. 58) Certae autem rei vel causae tutor dari non potest quia personae, non rei vel causae datur. 19. Inst. 1.25.1-3 (1) Item divus Marcus in semestribus rescripsit eum, qui res fisci administrat, a tutela vel cura quamdiu administrat excusari posse. (2) Item qui rei publicae causa absunt, a tutela et cura excusantur. sed et si fuerunt tutores vel curatores, deinde rei publicae causa abesse coeperunt, a tutela et cura excusantur, quatenus rei publicae causa absunt, et interea curator loco eorum datur. qui si reversi fuerint, recipiunt onus tutelae nec anni habent vacationem, ut Papinianus responsorum libro quinto scripsit: nam hoc spatium habent ad novas tutelas vocati. (3) Et qui potestatem aliquam habent, excusare se possunt, ut divus Marcus rescripsit, sed coeptam tutelam deserere non possunt. 20. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 27.1.21pr.-4 (Lenel, Marc. 59) Propter litem, quam quis cum pupillo habet, excusare se a tutela non potest, nisi forte de omnibus bonis aut plurima parte eorum controversia sit. (1) Qui se vult excusare, si plures habet excusationes et de quibusdam non probaverit, aliis uti intra tempora non prohibetur. (2) Licet datus tutor ad universum patrimonium datus est, tamen excusare se potest, ne ultra centensimum lapidem tutelam gerat, nisi in eadem provincia pupilli patrimonium sit: et ideo illarum rerum dabunt tutores in provincia praesides eius. (3) Nec senatores ultra centensimum lapidem urbis tutelam gerere coguntur. (4) Habenti ergo tutorem tutor datur: sed aliarum rerum, non earundem datur. 21. Inst. 1.25.6; 8 – P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 14-16 – Inst. 1.25.9; 10; 16 (6) Sed et propter paupertatem excusationem tribui tam divi fratres quam per se divus Marcus rescripsit, si quis imparem se oneri iniuncto possit docere. (8) Similiter eum qui litteras nesciret excusandum esse divus Pius rescripsit: quamvis et imperiti litterarum possunt ad administrationem negotiorum sufficere ... P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 14-16: litterarum … exp[er/tes iṇ ṇum ̣ ẹ ṛ u ̣ m ̣ decurionum [ / n(on) e(ss)e adsumendos lib(ro) I r(esponsorum) Pap(inianus) scrib(it). (9) Item si propter inimicitiam aliquem testamento tutorem pater dederit, hoc ipsum praestat ei excusationem: sicut per contrarium non excusantur, qui se tutelam 74

Fragmenta. Institutionum libri I-V [De tutelis] 17. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 26.1.9 (Lenel, Marc. 57) Sono puniti al di fuori dell’ordine dei giudizi privati coloro che si ritiene abbiano svolto la tutela in cambio di denaro o, ricevuta una somma, abbiano agito in modo che fosse dato un tutore non idoneo, o nel dichiarare il patrimonio abbiano diminuito deliberatamente la quantità, o abbiano alienato i beni dell’infante con evidente frode. 18. Inst. 1.14.4; Marcianus, liber secundus institutionum, D. 26.2.14 (Lenel, Marc. 58) Non si può dare un tutore per una determinata cosa o un determinato affare poiché è assegnato alla persona, non alla cosa o al rapporto. 19. Inst. 1.25.1-3 (1) Allo stesso modo, il divo Marco stabilì a mezzo di un rescritto nei semestri che chi amministra beni del fisco, fino a quando amministra, può essere dispensato da tutela o cura. (2) Allo stesso modo quelli che sono lontani per causa della cosa pubblica, sono dispensati da tutela e cura. Anche se erano tutori o curatori, e successivamente iniziarono ad essere lontani per ragioni concernenti la res publica, sono dispensati da tutela e cura fino a quando sono lontani per causa della res publica, e nel frattempo, è nominato al loro posto un curatore. Se essi ritornano, riprendono l’ufficio della tutela senza la dilazione di un anno, come ha scritto Papiniano nel quinto libro dei responsi: questa vacatio, per vero, ce l’hanno i chiamati a tutele nuove. (3) Anche coloro che siano stati investiti di qualche potestà possono ottenere dispensa, ma non possono disertare una tutela iniziata. 20. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 27.1.21pr.-4 (Lenel, Marc. 59) Colui che abbia una lite con il pupillo, non può esimersi dalla tutela sempre che la controversia non riguardi tutti i beni o la gran parte di essi. (1) Colui che vuole dispensarsi, se ha molteplici giustificazioni e non ne abbia provata qualcuna, può ricorrere alle altre entro il tempo stabilito. (2) Benché il tutore dativo sia dato per l’intero patrimonio, tuttavia può dispensarsi per non gestire la tutela oltre le cento miglia, a meno che il patrimonio dell’infante non si trovi, comunque, nella stessa provincia: nel primo caso, i presidi di essa assegneranno i tutori per quei beni. (3) Né i senatori sono costretti a gestire la tutela oltre le cento miglia dalla città. (4) La tutela è dunque in questi casi assegnata a chi ha già un tutore: ma è data per altri beni, non per gli stessi. 21. Inst. 1.25.6; 8 – P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 14-16 – Inst. 1.25.9; 10; 16 (6) Tanto i divi fratres e allo stesso modo il divo Marco da solo rescrisse che si accordi una dispensa anche per la povertà, se taluno possa non essere all’altezza dell’onere impostogli. (8) Similmente il divo Pio stabilì per rescritto che dovesse esonerarsi colui che non avesse perizia nelle lettere, benché anche coloro che non conoscono le lettere possano essere in grado di amministrare gli affari … P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 14-16 Papiniano scrisse che gli illetterati non dovevano essere ammessi nel novero dei decurioni. (9) Allo stesso modo, se un padre abbia indicato nel testamento un tutore per inimicizia, ciò, appunto, consente al tutore l’esenzione; men75

Domenico Dursi patri pupillorum administraturos promiserunt3. (10) Non esse autem admittendam excusationem eius, qui hoc solo utitur, quod ignotus patri pupillorum sit, divi fratres rescripserunt. (16) (…) qui excusare se volunt, non appellant: sed intra dies quinquaginta continuos, ex quo cognoverunt, excusare se debent (cuiuscumque generis sunt, id est qualitercumque dati fuerint tutores), si intra centesimum lapidem sunt ab eo loco, ubi tutores dati sunt: si vero ultra centesimum habitant, dinumeratione facta viginti milium diurnorum et amplius triginta dierum. quod tamen, ut Scaevola dicebat, sic debet computari, ne minus sint quam quinquaginta dies4. 22. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 27.1.29pr.-1 (Lenel, Marc. 60) Plane si in exilium datus sit tutor, potest se excusare, si in perpetuum datus est. (1) Facilius autem exulis ignorantia, qui contutorem suspectum facere non potuerit, veniam habebit. excusare F1 – est] F1, sit F2 – potuerit] F2, potuerint F1

23. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 30.111 (Lenel, Marc. 61) Etiam si partis bonorum se excusaverit tutor, puta Italicarum vel provincialium rerum, totum quod testamento datum est ei auferetur, et ita divi Severus et Antoninus rescripserunt. 24. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 37.14.3 (Lenel, Marc. 62) Si quis tutor datus, cum sibi legata esset ancilla et rogatus eam manumittere, manumiserit adgnito legato et tutela pupilli se excusaverit, divi Severus et Antoninus rescripserunt hunc esse quidem patronum, sed omni commodo patronatus carere. omni] omini F

25. Inst. 1.25.18-19 (18) Qui tutelam alicuius gessit, invitus curator eiusdem fieri non compellitur, in tantum ut, licet pater, qui testamento tutorem dederit, adiecit se eundem curatorem dare, tamen invitum eum curam suscipere non cogendum divi Severus et Antoninus rescripserunt. (19) Idem rescripserunt maritum uxori suae curatorem datum excusare se posse, licet se immisceat. 26. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.10.7 (Lenel. Marc. 64) Nullo modo servi cum dominis suis consistere possunt, cum ne quidem omnino iure civili neque iure praetorio neque extra ordinem computantur: praeterquam quod favorabiliter divi Marcus et Commodus

3 P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (f. 1 recto col. I) rr. 17-19: item qui p[ropter inimiciti]ạm quem [ / testam(en)t[o tutorem ded]erunt, pr[ae-/stant excụ[sationem. Così Fressura, Mantovani 2018, 666. 4 P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (f. 1 verso col. 2) rr. 20-24a: ] Proṿin ̣ [c]i` i´[[ạ]]s [[i]] ultra c̣[entensi-/ ]ṃụm habitat, adnueratione / ] XX mi(lium) diurnor(um) et amplius XXX / ] dierum; [q(uod) t(a)m(en), ut Sca]euola dice/ ] b[at, sic debet compu]tari, ne mi-/[nus sint quam I. dies. - - -]. Così Fressura, Mantovani 2018, 667.

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Fragmenta. Institutionum libri I-V tre, al contrario, non vengono esonerati coloro che avevano promesso al padre dei pupilli che avrebbero gerito la tutela. (10) I divi fratres stabilirono con rescritto non doversi concedere la dispensa a colui che invoca esclusivamente che sia ignoto al padre dei pupilli. (16) Coloro che desiderano l’esenzione non ricorrono, ma (di qualunque tipo siano, cioè comunque siano stati dati i tutori) devono chiedere dispensa, se stanno entro le cento miglia dal posto in cui sono stati nominati tutori, nei cinquanta giorni continuativi da quando ebbero la notizia; se invece abitano oltre le cento miglia, facendo il conto di venti miglia diurne più trenta giorni. Il computo, però, come diceva Scevola, deve essere fatto in modo che non siano meno di cinquanta giorni. 22. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 27.1.29pr.-1 (Lenel, Marc.60) Certamente, se il tutore dativo sia in esilio, può esimersi, se è assegnato senza soluzione di continuità. (1) Più facilmente inoltre sarà perdonata l’ignoranza dell’esiliato che non avrà potuto denunciare come sospetto il cotutore. 23. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 30.111 (Lenel, Marc. 61) Se il tutore avrà escluso dalla sua tutela una parte dei beni, ad esempio dei beni italici o di quelli provinciali, gli sarà tolto tutto ciò che gli è stato dato per testamento, e così rescrissero i divi Severo e Antonino. 24. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 37.14.3 (Lenel, Marc. 62) Se qualcuno assegnato come tutore, essendogli legata una schiava e chiesto di manometterla, manomise preso atto del legato e si dispensò dalla tutela dell’infante, i divi Severo e Antonino rescrissero che questi fosse il patrono, ma che mancasse di tutti i vantaggi del patronato.

25. Inst. 1.25.18-19 (18) Colui che si occupò della tutela di uno non è tenuto a divenire suo malgrado curatore dello stesso, tantoché, se pure il padre, che l’ha dato per testamento come tutore, abbia aggiunto che lo dava anche come curatore, tuttavia i divi Severo e Antonino rescrissero che non lo si doveva costringere ad assumere controvoglia la cura. (19) Gli stessi stabilirono con rescritto che un marito dato come curatore alla moglie può ottenere dispensa anche se s’immischi. 26. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.10.7 (Lenel, Marc. 64) In alcun modo gli schiavi possono stare in giudizio con i loro padroni quando neppure sono assolutamente considerati dal diritto civile, né dal diritto pretorio né al di fuori dell’ordine del processo: ad eccezione del caso in cui i divi Commodo e Marco Aurelio graziosamente

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Domenico Dursi rescripserunt, cum servus quereretur, quod tabulae testamenti, quibus ei data erat libertas, subprimerentur, admittendum ad suppressi testamenti accusationem. computantur] putantur vel consistere posse putantur (u. i.)? (Mommsen in app. crit. ed. maioris) - faborabiliter F1

27. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.12.1 (Lenel, Marc. 65) Constitit inter servum et dominum iudicium, si annonam publicam fraudasse dicat dominum. fraud‘e’asse Fb

28. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 40.1.5pr.-1 (Lenel, Marc. 66) Si quis dicat se suis nummis emptum, potest consistere cum domino suo, cuius in fidem confugit, et queri, quod ab eo non manumittatur, Romae quidem apud praefectum urbis, in provinciis vero apud praesides ex sacris constitutionibus divorum fratrum, sub ea tamen denuntiatione, ut is servus, qui hoc intenderit nec inpleverit, in opus metalli detur, nisi forte dominus reddi eum sibi maluerit, utique non maiorem ex ea causa poenam constituturus.(1) Sed et si rationibus redditis liber esse iussus fuerit, arbiter inter servum et dominum, id est heredem, datur de rationibus excutiendis. se ‘d’ suis Fb – emptum] septum Fa

Appendice5 P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (f. 2 recto col. 1) rr. 25-30 – (f. 2 verso col. 2) rr. 30-36 25

facere priorem ..[7±8 bonor(um) periculum sụst[inebit; ita {`et´} d(ivi) Severus et Antonin[us] r(escripse)r(unt). [ [ r(ubrica) DE TUTORE HONORARIO r(ubrica) [ honoris q(uo)q(ue) c(ausa) tutor dat[ur ±3 […] obser[[r]]vare ṇ….[..].[6 (f. 2 verso col. 2) rr. 30 – 36…...de inofficioso .]. …ere test͞… idẹm tutor a pr(aetore) ] detur, ut e`x´ [[t]] {`e´} eventu appareat, ex ] q̣ụọ tutor [[.]]`a´ uctor fuerit. d(ivi) a(u)t(em) 35 f(ratres) ……]o cuidam clarissimo viro ±6 ]tris filior(um) tutor7.

5 Non si riporta la traduzione dei due testi raccolti in quest’appendice, in quanto lo stato frammentario dei brani consentirebbe, al più, la trasposizione in italiano di singole parole o spezzoni di frasi prive di senso compiuto. Qualche chiarimento sarà fornito in sede di commento. 6 Fressura, Mantovani 2018, 667. 7 Fressura, Mantovani 2018, 668.

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Fragmenta. Institutionum libri I-V emanarono rescritti in base ai quali si doveva concedere l’accusa per la soppressione delle tavole testamentarie allo schiavo che aveva sporto querela poiché erano state soppresse le tavole testamentarie con le quali gli era stata concessa la libertà.

27. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 48.12.1 (Lenel, Marc. 65) Può sussistere un giudizio tra lo schiavo e il padrone se quegli affermi che il padrone abbia frodato l’annona. 28. Marcianus, liber secundus institutionum, D. 40.1.5pr.-1 (Lenel, Marc. 66) Se un tale affermi di aver comprato la propria libertà con proprio denaro, può stare in giudizio con il suo padrone, alla cui fede ricorre, e dolersi di non essere stato manomesso da lui, a Roma certamente davanti al prefetto della città, in provincia davanti al preside in base a sacre costituzioni dei divi fratres, sotto l’avvertimento che questo schiavo, che ha intentato ciò e non ha vinto, sia assegnato ai lavori forzati (in miniera) se per caso il padrone non preferisca riprenderlo, sempre che per questo fatto non abbia stabilito una pena maggiore. (1) Ma anche se si sia disposto che fosse libero riconoscendogli ragione, è assegnato un arbitro tra lo schiavo e il padrone, o l’erede, per discutere i conti.

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Domenico Dursi

Liber III

[De rerum divisione] 29. Inst. 2.1pr. (…) Quaedam enim naturali iure communia sunt omnium, quaedam publica, quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur. (…) 30. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.2.1 - D. 1.8.6pr. (Lenel, Marc. 68) Et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris. D. 1.8.6pr. … In tantum, ut et soli domini constituantur qui ibi aedificant, sed quamdiu aedificium manet: alioquin aedificio dilapso quasi iure postliminii revertitur locus in pristinam causam, et si alius in eodem loco aedificaverit, eius fiet. quique Fa

31. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.4pr.-1 (Lenel, Marc. 69) Nemo igitur ad litus maris accedere prohibetur piscandi causa, dum tamen villis et aedificiis et monumentis abstineatur, quia non sunt iuris gentium sicut et mare: idque et divus Pius piscatoribus Formianis et Capenatis rescripsit. (1) Sed flumina paene omnia et portus publica sunt. Capenatis] firmant BS (Steph.): Καπενάτοις: fuitne Caietanis (Burmann ad Suetonii Tib. 60)? (Mommsen in app. crit. ed maioris) - flumina‘e’ F – e˖t˖ F

32. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 44.3.7 (Lenel, Marc. 70) Si quisquam in fluminis publici deverticulo solus pluribus annis piscatus sit, alterum eodem iure uti prohibet. 33. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.6.1 - D. 2.4.23 (Lenel, Marc. 71) (1) Universitatis sunt non singulorum veluti quae in civitatibus sunt theatra et stadia et similia et si qua alia sunt communia civitatium. ideoque nec servus communis civitatis singulorum pro parte intellegitur, sed universitatis et ideo tam contra civem quam pro eo posse servum civitatis torqueri divi fratres rescripserunt. ideo et libertus civitatis non habet necesse veniam edicti petere, si vocet in ius 80

Fragmenta. Institutionum libri I-V

Liber III

[De rerum divisione] 29. Inst. 2.1pr. Vi sono alcune cose comuni che appartengono a tutti per diritto naturale, alcune pubbliche, alcune di collettività riconosciute, alcune di nessuno e la maggior parte dei singoli, le quali sono acquistate in forza di diversi modi. 30. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.2.1 - D. 1.8.6pr. (Lenel, Marc. 68) E senza dubbio per diritto naturale sono comuni di tutti le seguenti: l’aria, l’acqua che scorre, il mare ed in conseguenza di ciò i lidi del mare: D. 1.8.6pr. … così coloro che ivi edificano sono considerati padroni del suolo, ma fino a quando esista l’edificio: altrimenti, venuto meno l’edificio, il luogo torna nella sua originaria condizione giuridica come se vi fosse un diritto di postliminio, e se altri edifichi in quel medesimo luogo, se ne appropria. 31. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.4pr.-1 (Lenel, Marc. 69) A nessuno può proibirsi l’accesso al lido per ragioni di pesca, ma bisogna stare lontani da ville, edifici e monumenti, poiché non sono di diritto delle genti come al mare: così il divo Pio rescrisse ai pescatori di Formia e Capena. (1) Ma quasi tutti i fiumi e i porti sono pubblici.

32. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 44.3.7 (Lenel, Marc. 70) Se qualcuno abbia pescato in un braccio di fiume da solo per più anni, può proibire ad altri di utilizzarlo. 33. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.6.1 - D. 2.4.23 (Lenel, Marc. 71) (1) Sono cose della collettività e non dei singoli quelle come i teatri, gli stadi, e altre simili nella città se ve ne sono, comuni a tutti i cittadini. Né pertanto un servo comune della città è ritenuto dei singoli cittadini per quota, ma della comunità, e così i divi fratres rescrissero che lo schiavo della città potesse essere torturato sia contro un cittadino sia a suo favore. Così anche il liberto 81

Domenico Dursi aliquem ex civibus. D. 2.4.23. Communis libertus licet plurium sit, debet a praetore petere, ut ei liceat vel quendam ex patronis in ius vocare, ne in poenam incidat ex edicto praetoris. th˖e˖atra ˖e˖t F2 – libertis F1 – p‘ra’etere F

34. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 47.22.1pr.-2 (Lenel, Marc. 73) Mandatis principalibus praecipitur praesidibus provinciarum, ne patiantur esse collegia sodalicia neve milites collegia in castris habeant. Sed permittitur tenuioribus stipem menstruam conferre, dum tamen semel in mense coeant, ne sub praetextu huiusmodi illicitum collegium coeat. Quod non tantum in urbe, sed et in Italia et in provinciis locum habere divus quoque Severus rescripsit. (1) Sed religionis causa coire non prohibentur, dum tamen per hoc non fiat contra senatus consultum, quo illicita collegia arcentur. (2) Non licet autem amplius quam unum collegium licitum habere, ut est constitutum et a divis fratribus: et si quis in duobus fuerit, rescriptum est eligere eum oportere, in quo magis esse velit, accepturum ex eo collegio, a quo recedit, id quod ei competit ex ratione, quae communis fuit. sed] senatus consulto (u. p. 793,1 verb. quod non tantum in urbe)? cf. legi collegii Dianae et Antinoi constituti a.p. Chr. 133 (Henzen inscr. n. 6086) praescriptum Kaput ex s(enatus) c(onsulto) p(opuli) R(omani). Quib[us coire co]nvenire collegiumq[ue] habere liceat. Qui stipem menstruam conferre volen[t in fune]ra, in it collegium coeant neq(ue) sub specie eius collegi nisi semel in mense c[oeant con]ferendi causa, unde defuncti sepeliatur (Mommsen in app. crit. ed. maioris) - h˖u ˖iusmodi Fb – resscripsit F – relicionis F – sic ordina et supple: permittitur tenuioribus stipem menstruam conferre, dum tamen semel in mense coeant [conferendi causa]: sed religionis causa coire non prohibentur, dum tamen per hoc non fiat contra senatus consultum, quo illicita collegia arcentur, ne sub praetextu huiusmodi illicitum collegium coeat (ne sub…coeat fortasse del.). quod non tantum in urbe, sed et in Italia et in provinciis locum habere divus quoque Severus rescripsit (Mommsen in app. crit. ed. maioris) – lice‘a’t Fb – divis] diut F1

35. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.6.2-3 (Lenel, Marc. 74); Inst. 2.18; Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.6.4-5 (Lenel, Marc. 74) (2) Sacrae res et religiosae et sanctae in nullius bonis sunt. (3) Sacrae autem res sunt hae, quae publice consecratae sunt, non private: si quis ergo privatim sibi constituerit sacrum, sacrum non est, sed profanum. semel autem aede sacra facta etiam diruto aedificio locus sacer manet ut et Papinianus scripsit. (4) Religiosum autem locum unusquisque sua voluntate facit, dum mortuum infert in locum suum. in commune autem sepulchrum etiam invitis ceteris licet inferre. sed et in alienum locum concedente domino licet inferre: et licet postea ratum habuerit quam illatus est mortuus, religiosus locus fit. (5) Cenotaphium quoque magis placet locum esse religiosum, sicut testis in ea re est Vergilius. sacrum ˖constituerit sacrum˖ F2 - ae˖de˖ F2 – sacra‘e’ facta F – sepulcrhum F – Aen 3,303: libabat cineri Andromache manesque vocabat Hectoreum ad tumulum, viridi quem caespite inanem et geminas, causam lacrimis, sacraverat aras (Mommsen in app. crit. ed maioris)

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Fragmenta. Institutionum libri I-V della città non deve chiedere necessariamente la dispensa (autorizzazione) contemplata nell’editto, se convochi in giudizio qualcuno tra i cittadini. D. 2.4.23. Per non incorrere in qualche pena prevista dall’editto, il liberto comune benché di più padroni, deve chiedere al pretore affinché gli sia consentito di convocare in giudizio anche uno solo di questi. 34. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 47.22.1pr.-2 (Lenel, Marc. 73) È data istruzione ai presidi di provincia a mezzo dei mandati dei principi di non consentire associazioni, né corporazioni di soldati negli accampamenti. Ma è permesso ai poveri di versare una quota mensile mentre si radunano una sola volta a mensa affinché sotto tale pretesto non riuniscano associazioni illecite. Anche il divo Severo rescrisse che non solo a Roma, ma anche in Italia e nelle province si applichino tali disposizioni. (1) Ma non è proibito riunirsi per ragioni religiose purché in ragione di ciò non si violi il senatoconsulto dal quale sono impediti i collegi illeciti. (2) Non è possibile, tuttavia, partecipare lecitamente a più collegi come è stato stabilito anche dai divi fratres: e se qualcuno prenda parte a due, vi è un rescritto per cui è obbligato a scegliere di quale preferisca far parte, e che riceverà da quel collegio dal quale si allontana ciò che gli spetta dei beni comuni.

35. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.6.2-3 (Lenel, Marc. 74); Inst. 2.18; Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.8.6.4-5 (Lenel, Marc. 74) (2) Le cose sacre, religiose e sante non si trovano nei beni di alcuno. (3) Le cose sacre sono quelle che vengono consacrate pubblicamente, non privatamente: se qualcuno dunque da privato abbia consacrato per sé qualcosa, essa non è sacra, ma profana. Invece, una volta che sia stato consacrato un tempio anche dopo il crollo dell’edificio il luogo resta sacro, come anche Papiniano scrisse. (4) Un luogo religioso è tale per la volontà di chiunque tra noi allorché da morto sia sepolto nel proprio luogo. È possibile anche inumare in sepolcri comuni contro la volontà degli altri. Ma è altresì possibile inumare in un luogo altrui con il permesso del titolare: e tuttavia, il luogo diviene religioso anche se abbia ratificato dopo che il morto sia stato seppellito. (5) Anche il cenotafio è preferibilmente considerato luogo religioso, come Virgilio testimonia in argomento.

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Domenico Dursi 36. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 11.7.39 (Lenel, Marc. 75) Divi fratres edicto admonuerunt, ne iustae sepulturae traditum, id est terra conditum corpus inquietetur: videtur autem terra conditum et si in arcula conditum hoc animo sit, ut non alibi transferatur. sed arculam ipsam, si res exigat, in locum commodiorem licere transferre non est denegandum. et si in arcula] id est terra F1

37. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 47.12.7 (Lenel, Marc. 76) Sepulchri deteriorem condicionem fieri prohibitum est: sed corruptum et lapsum monumentum corporibus non contactis licet reficere. munumentum F

[De adquirendo rerum dominio] 38. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 41.3.39 (Lenel, Marc. 77) Si solum usucapi non poterit, nec superficies usucapietur. 39. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 41.1.8pr.-1 (Lenel, Marc. 78) [prope confinium arbor posita, si etiam in vicinum fundum radices egerit, communis est.] Pro regione cuiusque praedii. (1) Sed et si in confinio lapis nascatur et sunt pro indiviso communia praedia, tunc erit lapis pro indiviso communis, si terra exemptus sit. et] idem Graeci (u.i.): nec (similiter Cuiacius)? (Mommsen in app. crit. ed maioris) - et sunt…praedia aut gloss. aut Trib. (Lenel in app. crit.)

40. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 41.1.11 (Lenel, Marc. 79) Pupillus quantum ad adquirendum non indiget tutoris auctoritate: alienare vero nullam rem potest nisi praesente tutore auctore, et ne quidem possessionem, quae est naturalis, ut Sabinianis visum est: quae sententia vera est. 41. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 46.3.40 (Lenel, Marc. 80) Si pro me quis solverit creditori meo, licet ignorante me, adquiritur mihi actio pigneraticia. item si quis solverit legata, debent discedere legatarii de possessione: alioquin nascitur heredi interdictum, ut eos deicere possit. 42. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 49.14.30 (Lenel, Marc. 81) Ne procuratores Caesaris bonorum actores, quae ad fiscum devoluta sunt, alienent, imperatores Severus et Antoninus rescripserunt: et, si manumissi fuerint, revocantur ad servitutem. qu˖a˖e F2

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Fragmenta. Institutionum libri I-V 36. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 11.7.39 (Lenel, Marc. 75) I divi fratres intimarono con un editto che il corpo affidato a una giusta sepoltura, cioè riposto sotto terra, non debba essere molestato; si ritiene sepolto con terra anche ove sia sistemato in un’urna con questa intenzione, che non sia trasferito altrove. Ma non si deve rifiutare che la medesima urna si possa spostare in un luogo più comodo, se le circostanze lo richiederanno. 37. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 47.12.7 (Lenel, Marc. 76) È proibito deteriorare la condizione del sepolcro: ma è lecito riparare un monumento danneggiato e pericolante senza toccare i cadaveri.

[De adquirendo rerum dominio] 38. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 41.3.39 (Lenel, Marc. 77) Se non si potrà usucapire il suolo, non si potrà usucapire la superficie. 39. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 41.1.8pr.-1 (Lenel, Marc. 78) [Se un albero è posto proprio sul confine e le radici invadano il fondo del vicino, l’albero è comune] conformemente alla zona di quel campo. (1) Ma se anche una pietra di valore spunti lungo il confine e i fondi si trovino in una comunione indivisa, allora la pietra si troverà in comunione indivisa ove sia estratta dalla terra.

40. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 41.1.11 (Lenel, Marc. 79) Chi è sottoposto a tutela non ha bisogno dell’autorità del tutore per gli acquisti: ma non può alienare alcunché se non sia presente il tutore, neanche il possesso, che è naturale, come parve ai Sabiniani: questa opinione è corretta. 41. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 46.3.40 (Lenel, Marc. 80) Se qualcuno adempia al creditore al mio posto, benché a mia insaputa, a me è concessa l’azione pignoratizia. Inoltre se taluno adempia ai legati, i legatari devono lasciare il possesso: del resto è previsto per l’erede un interdetto per poterli scacciare. 42. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 49.14.30 (Lenel, Marc. 81) Gli imperatori Severo ed Antonino rescrissero che i procuratori di Cesare non alienassero schiavi amministratori, devoluti al fisco, di beni: e, se vi fossero state manomissioni, che fossero ricondotti alla condizione servile. 85

Domenico Dursi 43. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 39.5.15 (Lenel, Marc. 82) Post contractum capitale crimen donationes factae non valent ex constitutione divorum Severi et Antonini, nisi condemnatio secuta sit. ontonini F (em. f)

44. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 49.16.9pr.-1 (Lenel, Marc. 83) Milites prohibentur praedia comparare in his provinciis, in quibus militant, praeterquam si paterna eorum fiscus distrahat: nam hanc speciem Severus et Antoninus remiserunt. sed et stipendiis impletis emere permittuntur. fisco autem vindicatur praedium illicite comparatum, si delatus fuerit. sed et si nondum delata causa stipendia impleta sint vel missio contigerit, delationi locus non est. (1) Milites si heredes extiterint, possidere ibi praedia non prohibentur. militant] militiam F

45. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 47.19.1 (Lenel. Marc. 84) Si quis alienam hereditatem expilaverit, extra ordinem solet coerceri per accusationem expilatae hereditatis, sicut et oratione divi Marci cavetur. [De adquirendo vel amittendo usu fructu] 46. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 7.1.38 - D. 7.1.40 (Lenel, Marc. 85) Non utitur usufructuarius, si nec ipse utatur nec nomine eius alius, puta qui emit vel qui conduxit vel cui donatus est vel qui negotium eius gerit. plane illud interest, quod, si vendidero usum fructum, etiamsi emptor non utatur, videor usum fructum retinere, D. 7.1.40 quod si donavero, non alias retineo, nisi ille utatur.

47. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 7.4.4 (Lenel, Marc. 86) Si legatum usum fructum legatarius alii restituere rogatus est, id agere praetor debet, ut ex fideicommissarii persona magis quam ex legatarii pereat usus fructus. 48. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.18.11 (Lenel, Marc. 87) Omnia enim provincialia desideria, quae Romae varios iudices habent, ad officium praesidum pertinent. des˖id˖eria F2

49. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 50.12.4 (Lenel, Marc. 72) Propter incendium vel terrae motum vel aliquam ruinam, quae rei publicae contingit, si quis promiserit, tenetur. vel terrae motum om. F1

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Fragmenta. Institutionum libri I-V 43. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 39.5.15 (Lenel, Marc. 82) Non valgono le donazioni effettuate dopo aver commesso un delitto capitale se non sia seguita una condanna in ragione di una costituzione dei divi Severo e Antonino.

44. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 49.16.9pr.-1 (Lenel, Marc. 83) Ai soldati è vietato acquistare fondi in quelle province nelle quali prestano servizio, salvo che il fisco venda i loro beni paterni: infatti, Severo e Antonino esclusero questa ipotesi. Ma essi consentirono di acquistarli anche con la paga ricevuta. Tuttavia sono rivendicati dal fisco quei fondi acquistati illecitamente, ove vi sia denuncia. Ma anche se il pagamento sia stato compiuto a causa non incardinata o spetti la licenza, la denuncia non ha luogo. (1) Ai soldati, se sono istituiti eredi, non è proibito possedere ivi fondi. 45. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 47.19.1 (Lenel. Marc. 84) Se taluno derubi l’altrui eredità, si suole punirlo al di fuori dell’ordine del processo criminale con un’accusa di furto dell’eredità, come si sostiene anche nell’orazione del divo Marco. [De adquirendo vel amittendo usu fructu] 46. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 7.1.38 - D. 7.1.40 (Lenel, Marc. 85) L’usufruttuario non usa, se non usi egli stesso o un altro a suo nome, ad esempio colui che acquista o colui che ha locato o colui al quale è donato o chi gestisce un suo negozio. Chiaramente, sussiste questa differenza, poiché, se avrò venduto un usufrutto, anche se l’acquirente non ne usi, si ritiene che io mantenga l’usufrutto, D. 7.1.40 perciò se l’avrò donato, non lo conservo altrimenti che se quegli non lo usi. 47. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 7.4.4 (Lenel, Marc. 86) Se al legatario è richiesto di trasmettere ad altri un legato d’usufrutto, il pretore deve agire in modo tale che l’usufrutto si estingua per il fedecommissario più che per il legatario. 48. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 1.18.11 (Lenel, Marc. 87) Infatti tutte le istanze provinciali, che a Roma rientrano nella competenza di vari giudici, rientrano nella competenza del preside. 49. Marcianus, liber tertius institutionum, D. 50.12.4 (Lenel, Marc. 72) Se qualcuno avrà promesso per il caso che un incendio, un terremoto o altra sciagura abbia colpito la repubblica, è obbligato.

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Domenico Dursi

Liber IV

[Qui testamenta facere possunt] 50. Ulpianus, liber sextus ad Sabinum, D. 28.1.5 (Lenel, Marc. 88) (…) Utrum autem excessisse debeat quis quartum decimum annum, ut testamentum facere possit, an sufficit complesse? propone aliquem kalendis Ianuariis natum testamentum ipso natali suo fecisse quarto decimo anno, an valeat testamentum? dico valere. plus arbitror, etiamsi pridie kalendarum fecerit post sextam horam noctis, valere testamentum: iam enim complesse videtur annum quartum decimum, ut Marciano videtur. 51. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.1.13pr.-2 (Lenel, Marc. 89) Qui a latronibus capti sunt, cum liberi manent, possunt facere testamentum. (1) Item qui apud externos legatione funguntur, possunt facere testamentum. (2) Si quis in capitali crimine damnatus appellaverit et medio tempore pendente appellatione fecerit testamentum et ita decesserit, valet eius testamentum. ex˖t˖ernos legatione’s’ F2

52. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 29.1.22 (Lenel, Marc. 90) Miles filius familias si capite minutus fuerit, vel emancipatus vel in adoptionem datus a patre suo, testamentum eius valet quasi ex nova voluntate. patre] parte F1

53. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 49.14.31 (Lenel, Marc. 91) Divus Commodus rescripsit obsidum bona sicut captivorum omnimodo in fiscum esse cogenda. sicut˖i˖ F2

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Fragmenta. Institutionum libri I-V

Liber IV

[Qui testamenta facere possunt] 50. Ulpianus, liber sextus ad Sabinum, D. 28.1.5 (Lenel, Marc. 88) Chi voglia fare testamento deve aver superato il quattordicesimo anno di età oppure è sufficiente che l’abbia compiuto. Ad esempio se taluno sia nato alle calende di gennaio e abbia confezionato il testamento nel giorno del suo natale al quattordicesimo anno, il testamento è valido? Io ritengo sia valido. Di più: ritengo che pure se l’abbia fatto il giorno prima delle calende, dopo la sesta ora della notte, il testamento valga: si considera, infatti, come ritiene Marciano, che avesse già compiuto i quattordici anni. 51. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.1.13pr.-2 (Lenel, Marc. 89) Coloro che sono catturati dai briganti, poiché restano liberi, possono fare testamento. (1) Inoltre coloro che compiono un’ambasceria presso stranieri, possono fare testamento. (2) Se qualcuno condannato alla pena capitale avrà fatto appello e nel tempo intermedio di pendenza dell’appello abbia fatto testamento e quindi sia morto, il suo testamento è valido. 52. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 29.1.22 (Lenel, Marc. 90) Se un soldato sotto la patria potestà abbia subito una modifica di status familias, sia stato emancipato o dato in adozione da suo padre, il suo testamento è valido, come per una rinnovata volontà. 53. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 49.14.31 (Lenel, Marc. 91) Il divo Commodo emanò un rescritto per il quale i beni degli ostaggi, come quelli dei prigionieri si debbano in ogni modo raccogliere nel fisco.

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Domenico Dursi [De heredibus instituendis] 54. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.5.49pr.-3 (Lenel, Marc. 92) His verbis: “Titius hereditatis meae dominus esto”, recte institutio fit. (1) Illa institutio valet: “filius meus impiissimus male de me meritus heres esto”: pure enim heres instituitur cum maledicto et omnes huiusmodi institutiones receptae sunt. (2) Interdum nec cum libertate utiliter servus a domina heres instituitur, ut constitutione divorum Severi et Antonini significatur, cuius verba haec sunt: “servum adulterii accusatum non iure testamento manumissum ante sententiam ab ea muliere videri, quae rea fuerit eiusdem criminis postulata, rationis est”. quare sequitur, ut in eundem a domina collata institutio nihil momenti habeat. (3) Si in patre vel patria vel alia simili adsumptione falsum scriptum est, dum de eo qui demonstratus sit constet, institutio valet. instituitui F1 – interd‘ict’um Fb – ab ea] ante F1

55. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.6.36pr.-1 (Lenel, Marc. 93) Potest quis in testamento plures gradus heredum facere, puta: “si ille heres non erit, ille heres esto”, et deinceps plures, ut novissimo loco in subsidium vel servum necessarium heredem instituat. (1) Et vel plures in unius locum possunt substitui vel unus in plurium vel singulis singuli vel invicem ipsi qui heredes instituti sunt. servum] sesvum Fa – et] ut Fa

56. Inst. 2.15.2-3 (2) Et si ex disparibus partibus heredes scriptos invicem substituerit et nullam mentionem in substitutione habuerit partium, eas videtur partes in substitutione dedisse, quas in institutione expressit: et ita divus Pius rescripsit. (3) Sed si instituto heredi et coheredi suo substituto dato alius substitutus fuerit, divi Severus et Antoninus sine distinctione rescripserunt ad utramque partem substitutum admitti. 57. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.7.14 (Lenel, Marc. 94) Condiciones contra edicta imperatorum aut contra leges aut quae legis vicem optinent scriptae vel quae contra bonos mores vel derisoriae sunt aut huiusmodi quas praetores improbaverunt pro non scriptis habentur et perinde ac si condicio hereditati sive legato adiecta non esset, capitur hereditas legatumve. Marcianus] papinianus F1 – improvaverunt F1

58. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.7.16 (Lenel, Marc. 95) “Si Titius heres erit, Seius heres esto: si Seius heres erit, Titius heres esto”. Iulianus inutilem esse institutionem scribit, cum condicio existere non possit. institutionum F1 – scripsit F2

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Fragmenta. Institutionum libri I-V [De heredibus instituendis] 54. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.5.49pr.-3 (Lenel, Marc. 92) L’istituzione d’erede correttamente è fatta con queste parole: ‘Tizio sia padrone della mia eredità’. (1) È valida anche questa istituzione: sia erede mio figlio dal comportamento irrispettoso e per me non meritevole. L’erede infatti sia pure con imprecazioni è istituito senza condizioni e tutte le istituzioni di tale natura sono ammesse. (2) Talvolta il servo non è validamente istituito erede dalla padrona neppure nel caso in cui vi sia la esplicita concessione della libertà, come è accennato in una costituzione dei divi Severo ed Antonino, le cui parole sono le seguenti: ‘è ragionevole che prima della sentenza un servo accusato di adulterio non sia ritenuto manomesso per testamento secondo diritto da quella donna, che sia stata accusata di quello stesso reato’. Di conseguenza risulta che nessuna istituzione si abbia a favore di quello da parte della donna. (3) È valida l’istituzione se è scritto il falso sul padre, la patria o altro aspetto simile mentre sia chiaro chi sia indicato. 55. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.6.36pr.-1 (Lenel, Marc. 93) È possibile istituire in un testamento più eredi per gradi, per esempio: se un tale non sarà erede, lo sia il tal altro, e così molti altri, al punto che si può istituire in posizione del tutto insolita in riserva uno schiavo come erede necessario. (1) O più persone possono essere sostituite in luogo di uno soltanto, o l’uno dai più o il singolo dal singolo o a vicenda gli stessi che sono istituiti eredi. 56. Inst. 2.15.2-3 (2) E se abbia sostituito fra di loro degli eredi istituiti per quote differenti, senza fare in sede di sostituzione alcun riferimento alle quote, si reputa che abbia attribuito nella sostituzione le quote indicate nella istituzione: e così rescrisse il divo Pio. (3) Se a colui che è stato istituito erede e dato come sostituto al suo coerede sia stato sostituito un altro, stabilirono per rescritto i divi Severo ed Antonino che il sostituto va comunque ammesso ad entrambe le quote. 57. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.7.14 (Lenel, Marc. 94) Le condizioni contro gli editti degli imperatori o contro le leggi o contro disposizioni che hanno valore di legge o che sono contro il buon costume o derisorie o di natura tale che i pretori le invalidarono, sono considerate non apposte e quindi come se la condizione non sia apposta all’eredità o piuttosto al legato, si acquista l’eredità o il legato. 58. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 28.7.16 (Lenel, Marc. 95) Se Tizio sarà erede, Seio sia erede: se Seio sarà erede, Tizio sia erede. Giuliano scrive che l’istituzione è inefficace, poiché la condizione è impossibile.

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Domenico Dursi [De inofficioso et rupto testamento] 59. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 5.2.2 (Lenel, Marc. 96) Hoc colore inofficioso testamento agitur, quasi non sanae mentis fuerunt, ut testamentum ordinarent. et hoc dicitur non quasi vere furiosus vel demens testatus sit, sed recte quidem fecit testamentum, sed non ex officio pietatis: nam si vere furiosus esset vel demens, nullum est testamentum. de ins (Pb al.) (Mommsen in app. crit. ed maioris) – ut] cum? (u. i.) (Mommsen in app. crit. ed maioris)

60. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 5.2.30pr.-1 (Lenel, Marc. 97) Adversus testamentum filii in adoptionem dati pater naturalis recte de inofficioso testamento agere potest. (1) Tutoribus pupilli nomine sine periculo eius, quod testamento datum est, agere posse de inofficioso vel falso testamento divi Severus et Antoninus rescripserunt. tutorem? (Mommsen in app. crit. ed maioris)

61. C. 8.47.10pr. Imp. Iustinianus A. Iohanni PP. (Lenel, Marc. 98) (…) in adoptivis filiis, qui filii familias constituti a patribus naturalibus aliis dantur, antiquae sapientiae incidit quaedam dubitatio, si oportet talem filium, si praeteritus a naturali patre fuerat, habere contra eius testamentum de inofficioso actionem (quam Papinianus quidem negat, Paulus autem sine effectu derelinquit, Marcianus vero distinguit, ne ex hac causa utriusque patris perderet successionem, naturalis quidem voluntate eius circumventus, adoptivi propter egestatem, quam forte habebat) (…) D. k. Sept. Costantinopoli Lampadio et Oreste vv. cc. conss. 62. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 36.1.30 (Lenel, Marc. 99) Si quis priore facto testamento posterius fecerit testamentum, etiamsi ex certis rebus in posteriores tabulas heredes instituit, superius tamen testamentum sublatum est, ut divi quoque Severus et Antoninus rescripserunt, cuius constitutionis verba rettuli, cum alia quoque praeterea in constitutione expressa sunt. “Imperatores Severus et Antoninus Cocceio Campano. testamentum secundo loco factum, licet in eo certarum rerum heres scriptus sit, iure valere, perinde ac si rerum mentio facta non esset, sed teneri heredem scriptum, ut contentus rebus sibi datis aut suppleta quarta ex lege Falcidia hereditatem restituat his, qui priore testamento scripti fuerant, propter inserta fideicommissaria verba, quibus ut valeret prius testamentum expressum est, dubitari non oportet”. et hoc ita intellegendum est, si non aliquid specialiter contrarium in secundo testamento fuerit scriptum. ˖testamen˖tum F2 – rescripserint F - ali˖a˖ Fb – cumpano F – fideicommisaria om. inst.(Mommsen in app. crit. ed. maioris) – secundo testamento ins. Inst. (Mommsen in app. crit. ed. maioris) – et del. (Mommsen in app. crit. ed maioris)

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Fragmenta. Institutionum libri I-V [De inofficioso et rupto testamento] 59. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 5.2.2 (Lenel, Marc. 96) Si agisce per un testamento non rispettoso dei doveri familiari, come se non fossero sani di mente per redigere un testamento. E perciò si dice non che il testatore sia veramente un pazzo o un demente, ma egli confezionò correttamente il testamento, sia pure inosservante dei doveri familiari: infatti se fosse realmente pazzo o demente, il testamento sarebbe nullo. 60. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 5.2.30pr.-1 (Lenel, Marc. 97) Contro il testamento di un figlio dato in adozione il padre naturale può agire correttamente per testamento inofficioso. (1) I divi Severo ed Antonino stabilirono con rescritto per tutori che essi possono agire in nome del pupillo per testamento inofficioso o falso senza pericolo di quello, quale che sia la cosa lasciata nel testamento. 61. C. 8.47.10pr. Imp. Iustinianus A. Iohanni PP. (Lenel, Marc. 98) (…) tra i figli adottivi, coloro che trovatisi nella condizione di figli di famiglia sono dati ad altri dai padri naturali, si presenta un dibattito tra gli antichi studiosi se tale figlio possa, ove fosse stato omesso dal padre naturale, esperire contro il suo testamento l’azione per testamento inofficioso: il che Papiniano certo lo ha negato, mentre Paolo ritenne che il testamento fosse privo di effetti, Marciano, invece, distingue affinché il figlio non perda la successione, sia del padre naturale sia dell’adottivo, nel primo caso raggirato dalla volontà di quello, nel secondo per l’indigenza in cui per caso si trovava (…) 62. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 36.1.30 (Lenel, Marc. 99) Se qualcuno dopo aver confezionato un testamento ne abbia redatto un altro, anche se nelle tavole successive vi sia stata un’istituzione di erede limitatamente ad alcuni specifici beni, il testamento precedente è revocato, come hanno stabilito con rescritti i divi Severo ed Antonino dai quali ho ripreso le parole mentre anche altre cose furono espresse nella costituzione. Gli imperatori Severo e Antonino a Cocceio Campano. Il testamento fatto in un secondo momento, benché in esso risulti un istituito limitatamente ad alcuni beni, non si deve dubitare che è valido per il diritto, come se non fosse fatta menzione di queste cose, ma l’erede indicato soddisfatto per le cose a lui date o rispettata la quota dei legittimari in base alla legge Falcidia, è tenuto a restituire l’eredità a coloro che furono indicati nel primo testamento in ragione delle parole fedecommissarie inserite per le quali il primo testamento era valido. E così deve essere inteso, se nel secondo testamento non fu scritto nulla di incompatibile.

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Domenico Dursi [De hereditatis aditione] 63. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 29.2.52pr.-1 (Lenel, Marc. 100) Cum heres institutus erat filius et habebat patrem furiosum, in cuius erat potestate, interponere se suam benivolentiam divus Pius rescripsit, ut, si filius familias adierit, perinde habeatur atque si pater familias adisset, permisitque ei et servos hereditatis manumittere. (1) Qui ex parte heres institutus est pure, ex parte sub condicione solus, etiam pendente condicione, si adierit hereditatem, ex asse heres erit, quia solus heres futurus est omnimodo, nisi habeat in condicionalem partem substitutum.

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Fragmenta. Institutionum libri I-V [De hereditatis aditione] 63. Marcianus, liber quartus institutionum, D. 29.2.52pr.-1 (Lenel, Marc. 100) Poiché un figlio era istituito erede e il padre, sotto la cui potestà si trovava, era impazzito, il divo Pio stabilì con rescritto che egli interponeva la sua benevolenza affinché anche se avesse accettato da figlio di famiglia, si considerasse come se avesse accettato il padre di famiglia, e gli si consentì manomettere anche gli schiavi dell’eredità. (1) Colui che per una parte è istituito erede unico senza condizione, per un’altra sotto condizione, anche in pendenza della condizione, se avrà accettato l’eredità sarà erede universale, poiché sarà il solo erede in ogni caso a meno che non abbia un sostituto per la parte sottoposta a condizione.

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Domenico Dursi

Liber V

[De legitima hereditate] 64. Marcianus, liber quintus institutionum, D. 37.14.4 (Lenel, Marc. 101) Iura libertorum patronorum liberis, cum pater eorum erat perduellionis damnatus, salva esse divi Severus et Antoninus benignissime rescripserunt, sicut ex alia causa punitorum liberis iura libertorum salva sunt. patronum liberas F1

65. Marcianus, liber quintus institutionum, D. 38.16.9 (Lenel, Marc. 102) Si ex pluribus legitimis heredibus quidam omiserint adire hereditatem vel morte vel qua alia ratione impediti fuerint, quo minus adeant, reliquis, qui adierint, adcrescit illorum portio et licet decesserint, antequam adcresceret, hoc ius ad heredes eorum pertinet. alia causa est instituti heredis et coheredi substituti: huic enim vivo defertur ex substitutione hereditas, non etiam, si decesserit, heredem eius sequitur. coheredi˖s˖ Fb

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Fragmenta. Institutionum libri I-V

Liber V

[De legitima hereditate] 64. Marcianus, liber quintus institutionum, D. 37.14.4 (Lenel, Marc. 101) Assai benevolmente i divi Severo e Antonino emanarono un rescritto in forza del quale erano salvi i diritti verso i liberti dei figli dei patroni, quando il loro padre veniva condannato per alto tradimento, così come erano salvi i diritti verso i liberti per i figli di coloro che erano puniti per altra causa. 65. Marcianus, liber quintus institutionum, D. 38.16.9 (Lenel, Marc. 102) Se tra più eredi legittimi alcuni omisero di accettare l’eredità o ne furono impediti dalla morte o da qualche altra causa, per cui accettano in meno, agli altri che accettano si accresce la porzione di quelli e ammesso che siano morti prima che si accresca, questo diritto spetta ai loro eredi. Altra situazione è quella di un erede istituito in sostituzione di coerede: l’eredità è conferita per sostituzione infatti a un soggetto in vita, e non anche segue il suo erede nel caso egli sia morto.

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IV COMMENTO AI TESTI

LIBRO PRIMO

1. Profili palingenetici I Compilatori giustinianei hanno conservato 12 testi del primo libro delle Istituzioni di Elio Marciano. Come si segnalava1, si è ipotizzato, non senza argomenti, che ivi fosse incluso anche il frammento 1 di P. Vindob. L. 59 + 92 relativo alla condizione dei Latini e della loro capacità testamentaria2 e, probabilmente, alla ipotesi della schiava venduta con la clausola ne prostituatur. Sembrerebbe trattarsi di ipotesi concernenti la condizione degli uomini o le manomissioni, argomenti che, come vedremo, Marciano affronta nel primo libro. Al riguardo, però, da una parte il problema già indicato dell’attribuzione che gli stessi editori del papiro si limitano a ritenere solo probabile3, dall’altro la esiguità delle porzioni di testo che non consente delle valutazioni precise in ordine alla possibile collocazione, mi induce a includere il testo in un’apposita appendice alla palingenesi del primo libro. Quanto agli altri frammenti, gli argomenti affrontati attengono a concetti quali diritto onorario, legge, ius, allo status personae e a un atto costitutivo di status, quale la manomissione. Lenel4, nel suo tentativo di raggruppare i brani ratione materiae, ha distinto, condivisibilmente, all’interno del libro, tre diversi titoli, per l’appunto de iure, de statu hominum, e de manumissionibus. Occorre, tuttavia, sottolineare come non poche perplessità permangano in ordine alla collocazione di singoli testi all’interno dei diversi titoli. Qualche dubbio, in vero, si pone già rispetto all’individuazione del lacerto più prossimo all’incipit del nostro manuale. Sotto questo profilo, infatti, occorre richiamare le perplessità avanzate a suo tempo da Lambertini5, in riferimento all’opzione palingenetica del Lenel il quale, peraltro, confermava la ricostruzione operata da Hommel6, seguendo cioè l’ordine in cui i testi appaiono nel titolo del Digesto, in mancanza di possibili ulteriori criteri ordinatori. Il lacerto sul ius honorarium di cui a Marc. 1 inst., D. 1.1.8, cioè, avrebbe ben potuto collocarsi dopo il frammento tràdito in Marc. 1 inst., D. 1.1.12 ove si parla di ius come necessitudo. In particolare – questa l’ipotesi

1

Introduzione all’opera § 1. I resti. Fressura, Mantovani 2018, 626 ss. 3 Fressura, Mantovani 2018, 625. 4 Lenel 1889.I, 652. 5 Lambertini 1995, 271 ss. 6 Hommel 1767, 399, il quale, come noto, seguiva all’interno di ogni singolo libro l’ordine in cui i frammenti erano stati distribuiti nel Digesto. 2

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Domenico Dursi dello studioso – così come l’apertura delle Istituzioni ulpianee si sofferma sull’etimologia del termine ius, oggetto di studio del manuale; allo stesso modo, Marciano avrebbe potuto aprire la sua opera con l’indicazione della possibile sfumatura semantica di ius come necessitudo, di cui a Marc. 1 inst., D. 1.1.12. L’autore, per vero, conclude nel senso che la ricostruzione leneliana appare più plausibile di quella alternativa e ciò in ragione del testo paolino escerpito dal quattordicesimo libro del commentario a Sabino e trasmesso in Paul. 14 ad Sab., D. 1.1.117, ove Paolo, pure, dopo essersi soffermato sulle partizioni generali del ius, analizzava i possibili significati assunti dal lemma ed, in particolare, raccontava dell’utilizzo di ius nel significato di tribunale. Siffatte conclusioni appaiono convincenti e, anzi, a mio modo di vedere, vi sarebbe qualche ulteriore argomento in questa direzione. In primo luogo, al riguardo, occorre segnalare come si sia visto in Marc. 1 inst., D. 1.1.12 una lesione dell’ordine dei frammenti individuato da Bluhme e, più precisamente, una coda8; ma, più di recente, si è osservato come, in realtà, l’intero titolo 1 del libro 1 appaia eccezionalmente del tutto riordinato dai Compilatori9: ciò potrebbe essere dipeso dalla circostanza che, trattandosi della sezione introduttiva del Digesto si poneva la necessità di adoperare concetti generali e affermazioni di principio, che l’ordine delle masse non avrebbe consentito di collazionare. Esclusa, dunque, la possibilità di recuperare qualche indicazione dalla “teoria delle masse”, a me pare che il comune denominatore dei lavori istituzionali a noi pervenuti sia rappresentato non già dalle indagini etimologiche, sulle quali, peraltro, non sembra particolarmente indugiare il nostro giurista10, quanto dalla descrizione di nozioni, per così dire, di ‘teoria generale del diritto’11. Di più: la specificazione marcianea per cui ius può essere anche inteso come vincolo e gli esempi che il giurista porta in tal senso (est mihi ius cognationis vel adfinitatis), lascerebbero immaginare che il passo avesse lo scopo di introdurre il diritto delle persone e il diritto di famiglia12. Ciò solleva qualche criticità rispetto alla collocazione palingenetica del passo operata da Lenel.

7 Paul. 14 ad Sab., D. 1.1.11: Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale. Altero modo, quod omnibus aut pluribus in quaque civitate utile est, ut est ius civile. Nec minus ius recte appellatur in civitate nostra ius honorarium. Praetor quoque ius reddere dicitur etiam cum inique decernit, relatione scilicet facta non ad id quod ita praetor fecit, sed ad illud quod praetorem facere convenit. Alia significatione ius dicitur locus in quo ius redditur, appellatione collata ab eo quod fit in eo ubi fit. Quem locum determinare hoc modo possumus: ubicumque praetor salva maiestate imperii sui salvoque more maiorum ius dicere constituit is locus recte ius appellatur. (Si dice ‘diritto’ in più modi: in un modo, quando si dice ‘diritto’ quel che è sempre buono ed equo, come è il diritto naturale; in altro modo si dice diritto ciò che è utile a tutti o ai più in ciascuna città, come è il diritto civile; né meno rettamente viene detto ‘diritto’, nella nostra città, il diritto onorario. Del pretore, si dice, persino, che ‘rende diritto’ anche quando decide iniquamente, in relazione, s’intende, non a ciò che il pretore abbia fatto, ma a ciò che conviene che il pretore faccia. Con altro significato è detto ‘diritto’ il luogo in cui il diritto viene reso, con una denominazione traslata da ciò che si fa al luogo in cui si fa; questo luogo può essere definito così: dovunque il pretore, fatta salva la maestà del suo imperio e fatto salvo il costume dei nostri antenati, abbia stabilito di dire il diritto, questo luogo correttamente si chiama diritto). 8 Honoré 1973, 285. Sul concetto di coda, Bluhme 1820, 396 ss. 9 Mantovani 1987, 61 nt. 118. 10 Ceci 1892, 174, il quale nel suo censimento delle etimologie nei giuristi romani ne riscontra soltanto una in Marciano su un totale di 275 testi risalenti al giurista nel Digesto. 11 Analogamente Fressura, Mantovani 2018, 642 ss. 12 La circostanza che il termine necessitudo sia adoperato per indicare i rapporti di famiglia, recentemente, Rizzelli 2018, 147 ss.

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Commento Se, infatti, si accetta il postulato che, almeno in linea di principio, i libri institutionum si aprivano con la spiegazione dei concetti generali e l’elencazione delle fonti del diritto con annessa illustrazione (come possiamo osservare in Gai. 1.1 – 8 e Ulp. 1 inst., D. 1.1.1), la circostanza che nel frustolo riportato in Marc. 1 inst., D. 1.3.2, si affronti il tema della legge e se ne spieghi l’origine, il significato e la funzione avvalendosi delle autorevoli parole di Demostene e Crisippo, lascerebbe propendere per una successione diversa da quella immaginata da Lenel13 che, in questo caso, conferma l’ordine in cui i frammenti appaiono nel Digesto. A me pare, in altre parole, che questo testo nella sua originaria collocazione doveva precedere quello tràdito in Marc. 1 inst., D. 1.1.12 che, piuttosto, sembrerebbe introdurre, come si diceva, il tema del diritto delle persone e di famiglia. Del resto, il lemma necessitudo, che ivi appare, nelle fonti giuridiche, sovente viene utilizzato per indicare fattispecie di diritto di famiglia14. Appare, allora, più verosimile, ai miei occhi, che il passo in questione, nella sua collocazione originaria, seguisse il ricordato Marc. 1 inst., D. 1.3.2 e fosse posto alla stregua di introduzione del nuovo argomento oggetto di trattazione, giustappunto, il diritto delle persone. In ragione di tanto, propenderei per modificare nel senso testé descritto l’ordine leneliano. Quanto al titolo de statu hominum, pure emergono talune incongruità. Lenel, infatti, riteneva che Marciano, dopo aver affrontato il tema dei modi in cui si diventa schiavi, si sarebbe occupato di restitutio natalium e di ius aureorum anulorum, benefici in generale riferibili ai liberti; si sarebbe, quindi, soffermato, rispettivamente, sull’impossibilità di alienare un servo criminoso e sui servi della pena, i quali ultimi spesso erano tali proprio per aver commesso un crimine. I due testi, dunque, a mio avviso, convincentemente, sono posti l’uno di seguito all’altro15, occupandosi entrambi di servi colpevoli di crimina. Tuttavia, non mi parrebbe peregrina l’ipotesi che entrambi, nella loro collocazione originaria potessero precedere i testi in materia di restitutio natalium e di ius anulorum. Infatti sembra plausibile che Marciano possa aver affrontato integralmente l’argomento della schiavitù in tutti i suoi profili, anche i più specifici, compresi quelli di natura – potremmo dire – penalistica, per poi passare alla condizione di ingenui e libertini. In tal senso, Marciano, dopo aver descritto i termini della partitio di cui a Marc. 1 inst., D. 1.5.5 e cioè schiavi e liberi ed essersi soffermato sulla condizione servile fissando regole ed eccezioni, potrebbe aver affrontato la disamina della condizione dei liberi a sua volta articolata in quella degli ingenui e quella dei libertini. Del resto, a ben pensare, il caso di un liberto che diviene ingenuo in forza di un provvedimento dell’imperatore potrebbe essere stato il punto di congiunzione, rectius, di passaggio tra la descrizione della condizione degli ingenui e quella dei libertini, come a voler sottolineare che sebbene gli ingenui siano coloro che nascono liberi, in realtà vi sono anche ingenui che provengono da una condizione servile. In sostanza, a me

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Lenel 1889.I, 652. Così già Hommell 1767, 399. Gai. 3.24: Similiter non admittuntur cognati, qui per feminini sexus personas necessitudine iunguntur (…) (Analogamente non sono ammessi i cognati, uniti da vincolo parentale tramite persone di sesso femminile); Mod. 1 de heurem., D. 26.10.9: Si tutor aliquo vinculo necessitudinis vel adfinitatis pupillo coniunctus sit (…) (Se il tutore sia legato al pupillo da un qualche vincolo di parentela o affinità […]); Flor. 11 inst., D. 35.1.34: Nominatim alicui legatur ita ‘Lucio Titio’ an per demonstrationem corporis vel artificii vel officii vel necessitudinis vel adfinitatis, nihil interest (…). (Se sarà stato predisposto un legato nominativamente per Lucio Tizio in questi termini se attraverso la dimostrazione del corpo, del mestiere, o della parentela o dell’affinità […]). 15 Non appare convincente la costruzione di Hommel 1767, 400, il quale frappone tra il testo in esame e quello tràdito in Marc. 1 inst., D. 48.19.17 relativo ai servi della pena, ben cinque testi. 14

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Domenico Dursi pare che Marciano prima avesse descritto la condizione degli ingenui, quindi, quella dei libertini e, infine, i modi in cui vi si diventa. Ciò, a ben vedere, porrebbe in rilievo una certa simmetria rispetto all’elencazione attraverso cui il maestro severiano presentava lo status hominum. Al fine di ulteriormente chiarire, il giureconsulto in Marc. 1 inst., D. 1.5.5 aveva affermato che vi è un’unica condizione di schiavi, laddove i liberi possono essere ingenui e libertini. Seguendo questo schema iniziale, dunque, il giurista verosimilmente, avrebbe prima spiegato la condizione degli schiavi, quindi quella degli ingenui e, infine, quella dei libertini, che chiudeva, appunto, con i modi con cui vi si diventa, il titolo de manumissionibus. Peraltro, se così fosse, il manuale di Giustiniano, che presenta una siffatta scansione argomentativa, probabilmente, in ciò, prese a modello le Istituzioni di Marciano, considerato che diversa sistematica governa le Istituzioni di Gaio16, che prima parlano degli ingenui, quindi dei libertini, ed infine degli schiavi. Tali ultime, come si accennava17, peraltro, parrebbero aver trovato cittadinanza sul tavolo di lavoro del nostro giurista. F. 1 – D. 1.1.8 Il frammento è collocato nel primo titolo del primo libro del Digesto dedicato ex professo a formulare spiegazioni in ordine alle diverse possibili manifestazioni del diritto. Nella catena di testi, infatti, come noto, si rinvengono le nozioni di ius, ius gentium, ius naturale, ius civile e ius honorarium. Focalizzando l’attenzione sul testo, occorre in primo luogo chiedersi per quale ragione Marciano si soffermasse su una nozione, quella di ius honorarium, che a partire dalla cristallizzazione giulianea, aveva, forse, esaurito la sua spinta propulsiva. Al riguardo, infatti, si è sostenuto che la nozione apparirebbe conforme a un topos della cultura giuridica anteriore, non già alla realtà dell’epoca severiana, allorché il diritto pretorio avrebbe perso influenza a vantaggio del diritto imperiale18. D’altro canto, i principali giuristi severiani furono impegnati a produrre importanti commentari all’editto. Del resto, anche a voler accogliere l’idea della fusione tra ius honorarium e ius civile che sarebbe sfociato nel c.d. ius novum, il processo sarebbe iniziato solo a partire dall’imperatore Costantino19. A me pare, come ho provato a sottolineare altrove20, che nel caso di specie, Marciano non avesse riguardo al diritto di fonte pretoria, che al suo tempo, si era notevolmente ridimensionato, ma a un insieme più ampio, il diritto di fonte magistratuale, con specifico riferimento anche alle nuove magistrature che andavano affermandosi in un periodo di grandi cambiamenti21, un esempio su tutti: i presidi delle province. In tal senso, peraltro, mi indurrebbe la circostanza, da un lato che Papiniano22, quando parla di ius praetorium utilizzi, a mio avviso non a caso, un tempo verbale al passato con specifico riferimento al diritto che i pretori ‘in-

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Gai. 1.9-54. Supra, Introduzione all’opera. 18 De Giovanni 1983, 100, ora in De Giovanni 1989, 23. 19 Riccobono 1924, ma in realtà s.d., 118. 20 Dursi 2017a, 187 ss. 21 De Giovanni 2007, passim. 22 Pap. 2 def., D. 1.1.7.1: Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. (Il diritto pretorio è quello che i pretori introdussero per aiutare o supplire o correggere per pubblica utilità il diritto civile). 17

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Commento trodussero’; dall’altra, il rilievo che Gaio23, Pomponio24, e, in epoca ben più tarda, le Istituzioni di Giustiniano25, segnalino come il ius honorarium sia quello che promani dal ius edicendi dei magistrati. In tale ultimo senso, Marciano sembrerebbe utilizzare la locuzione, tanto più, se si considera un altro testo delle sue Istituzioni26 ove egli ricorre all’espressione iure praetorio. Come si vedrà27 in sede di commento al testo, Marciano parrebbe riferirsi con essa esclusivamente al processo formulare, cioè, appunto al diritto di matrice pretoria. Alla luce di tanto, dunque, il riferimento marcianeo sarebbe al diritto prodotto dai magistrati. È giunto il momento di porre l’accento sul possibile significato dell’espressione ‘viva vox iuris civilis’. La questione ha interessato tanta parte della dottrina28, stante la centralità del problema dei rapporti tra ius civile e ius honorarium. Se da un lato vi è stato chi29 ha sostenuto che si tratti di un ‘emblema Triboniani’ in considerazione del fatto che in età giustinianea fosse venuta meno la concorrenza tra i due ordinamenti; altri studiosi30, del pari, pur riconoscendo la paternità marcianea dell’espressione, ne hanno ricondotto la portata ad un’epoca in cui il praetor fosse mera voce del diritto civile. Vi è, poi, chi sottolinea la funzione innovatrice ed evolutiva del ius honorarium nell’ambito

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Gai. 1.6: . Ius autem edicendi habent magistratus populi Romani; sed amplissimum ius est in edictis duorum praetorum, urbani et peregrini, quorum in provinciis iurisdictionem praesides earum habent; item in edictis aedilium curulium, quorum iurisdictionem in provinciis populi Romani quaestores habent; nam in provincias Caesaris omnino quaestores non mittuntur, et ob id hoc edictum in his provinciis non proponitur. (Editti sono i precetti di coloro che hanno il ius edicendi. Hanno questo diritto i magistrati del popolo romano; amplissimo lo si rinviene negli editti dei due pretori, urbano e peregrino, la cui giurisdizione compete nelle province del popolo romano ai questori, mentre nelle province di Cesare non sono inviati questori e, in ragione di ciò, questo editto in siffatte province non è proposto). 24 Pomp. lib. sing. ench., D. 1.2.2.10 e 12: Eodem tempore et magistratus iura reddebant et ut scirent cives, quod ius de quaque re quisque dicturus esset, seque praemunirent, edicta proponebant. Quae edicta praetorum ius honorarium constituerunt. Honorarium dicitur, quod ab honore praetoris venerat (…) (Nello stesso torno di tempo, anche i magistrati rendevano diritto ed emanavano editti esponendoli, affinché i cittadini, venuti a conoscenza di quale sarebbe stato l’esercizio della giurisdizione da parte di ciascun magistrato, si premunissero. Questi editti dei pretori costituirono il diritto onorario; è detto ‘onorario’ perché era derivato dalla carica del pretore. […]); 12. Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit, aut sunt legis actiones, quae formam agendi continent, aut plebi scitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum aut est magistratum edictum, unde ius honorarium nascitur, aut senatus consultum (…) aut est principalis constitutio, id est ut quod ipse princeps constituit pro lege servetur. (Così nella nostra città, o si statuisce con diritto, cioè con la legge; oppure c’è il diritto civile proprio, che senza lo scritto, consiste nella sola interpretazione dei giuristi; oppure vi sono le azioni di legge, che contengono la forma dell’agire in giudizio; oppure il plebiscito, che è promulgato senza il concorso dell’autorità dei patres; oppure vi è l’editto dei magistrati, da cui nasce il diritto onorario; oppure il senatoconsulto […] oppure vi è la costituzione del principe, cioè che venga osservato come legge ciò che il principe statuì). 25 Inst. 1.2.7: Praetorum quoque edicta non modicam iuris optinent auctoritatem. Haec etiam ius honorarium solemus appellare, quod qui honores gerunt, id est magistratus, auctoritatem huic iuri dederunt. (Anche gli editti dei pretori hanno una rilevanza giuridica non secondaria. Siamo soliti chiamarli altresì diritto onorario, poiché a tale diritto conferirono autorità coloro che esercitano gli ‘onori’, cioè le magistrature). 26 Marc. 2 inst., D. 48.10.7: Nullo modo servi cum dominis suis consistere possunt, cum ne quidem omnino iure civili neque iure praetorio neque extra ordinem computantur (…). Per la traduzione si rinvia alla sezione del volume dedicata ai Fragmenta. 27 Infra. In tal senso, già Dursi 2017a, 193. 28 Lambertini 1995, 279 ss. 29 Frese 1922, 466 ss. 30 Robleda 1979, 133.

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Domenico Dursi del diritto civile e anzi che il praetor fosse la viva vox31 e chi ha evidenziato come siffatta espressione rendesse chiara la funzione di adeguamento svolta dal pretore con lo scopo di ammodernare il diritto civile e trasformarlo in sistema32; o ancora, che il passo riflettesse “l’intero ordinamento giuridico nella sua dimensione privatistica”33. Al netto delle molteplici suggestioni cui il passo può indurre, appare chiaro che per coglierne a pieno la portata occorrerebbe avere contezza del significato che Marciano assegnava al sintagma ius civile: ciò, purtroppo, non è dato sapere. Certo, il testo sembrerebbe escludere che nella prospettiva del giurista il ius honorarium fosse un ordinamento distinto da quello del ius civile. È stata, poi, prospettata una lettura secondo cui Marciano avesse una visione onnicomprensiva del ius civile al cui interno una branca, la più innovatrice, sarebbe stata rappresentata dal ius honorarium34. Del resto, se il ius civile era quello proprio dei cittadini35, il diritto che si era andato stratificando negli editti del pretore pure trovava applicazione nelle controversie tra cittadini. In sostanza, dunque, emergerebbe l’idea di un diritto onorario che svolgeva la sua funzione di ammodernamento del ius civile al fine di renderlo meglio rispondente alla realtà in costante divenire. Se così fosse, vi sarebbe una chiara interconnessione e un rapporto di funzionalità tra il diritto di matrice pretoria e il diritto civile36. Infine, qualche ulteriore parola sull’espressione viva vox. Essa, tra gli ‘scriptores iuris’ appare solo in Marciano: trattasi, dunque di un ἄπαξ λεγóμενον. Taluni hanno ritenuto l’espressione una metafora37, altri, invece, hanno parlato di un vero e proprio aforisma38. L’espressione parrebbe di uso comune e particolarmente ricorrente in ambito pedagogico ove sembrerebbe riferirsi alle qualità ‘taumaturgiche’ dell’ascolto diretto del maestro39. Così – mi pare – essa viene utilizzata in Seneca40, Quintiliano41, Plinio il gio-

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Riccobono 1949, 34 e 34 nt. 1. Wieacker 1988, 465. 33 Bretone 2006, 150 nt. 92. 34 Lambertini 1995, 280. 35 Gai. 1.1. 36 Gallo 1996, 1 ss.; Gallo 1999, 31 ss. 37 Wieacker 1988, 471 nt. 8. 38 Lambertini 1995, passim. 39 Dursi 2017a, 195 ss. 40 Sen. ad Luc. 1.6.5: Mittam itaque ipsos tibi libros, et ne multum operae inpendas dum passim profutura sectaris, inponam notas, ut ad ipsa protinus quae probo et miror accedas. Plus tamen tibi et viva vox et convictus quam oratio proderit; in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis quam auribus credunt, deinde quia longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla. (Pertanto ti manderò i libri stessi e, affinché tu non spenda troppa fatica a cercare qua e là i pensieri utili a recarti giovamento, metterò dei segni; così ti balzeranno subito agli occhi quei passi che giudico migliori e che apprezzo. Tuttavia la viva voce e la convivenza ti riusciranno più utili che un discorso scritto; bisognerebbe che tu venissi sul posto, perché lunga è la via che porta alla saggezza attraverso i precetti, breve e sicura quella che vi conduce attraverso gli esempi). Sen. ad Luc. 4.33.9: «Hoc dixit Zenon, hoc Cleanthes». Aliquid inter te intersit et librum. Quosque disces? Iam et praecipe. Quid est quare audiam quod legere possum? «Multum» inquit «viva vox facit». Non quidem haec quae alienis verbis commodatur et actuari vice fungitur. («Questo è un pensiero di Zenone, quest’altro di Cleante». Deve esserci qualche differenza tra te ed un libro: fino a quando ti limiterai ad imparare? Ormai comincia anche ad insegnare. Perché dovrei ascoltare da te ciò che posso leggere? «Grande è l’efficacia della viva voce», si dice). 41 Quint. inst. or. 2.2.8: Ipse aliquid, immo multa cotidie dicat, quae secum auditores referant. Licet enim satis exemplorum ad imitandum ex lectione suppeditet, tamen viva illa, ut dicitur, vox alit plenius praecipueque praeceptoris, quem discipuli, si modo recte sunt instituti, et amant et verentur. Vix autem dici potest, quanto libentius imitemur eos, quibus favemus. 32

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Commento vane42 e Gellio43. Si tratterebbe di capire per quale ragione tale ultima agevolasse l’apprendimento. Non è da escludere che ciò potesse derivare dalla capacità dell’insegnante di passare dall’illustrazione teorica dei concetti ad esempi pratici, in modo da consentire ai discenti di cogliere il significato concreto delle nozioni presentate anche nella loro prassi quotidiana. Di più: la viva voce del maestro doveva altresì sostanziarsi nella riflessione di questi intorno alle nozioni note per aggiornarle. Se così fosse, potremmo forse ritenere che Marciano nell’adoperare il sintagma viva vox volesse intendere il ius honorarium proprio come quell’insieme di regole frutto della costante riflessione intorno all’ius civile e del suo costante aggiornamento ad opera dei magistrati. In altre parole, una visione del diritto onorario come bagaglio di esperienze accumulate e derivanti dal vivere concreto del diritto di cui i magistrati erano ad un tempo artefici e osservatori. La quotidianità del diritto cioè che determinava l’esigenza di adiuvare, supplere, corrigere ius civile. F. 2 – D. 1.3.2 Il frammento si presenta assai denso, sia sotto un profilo contenutistico, sia nella prospettiva del humus culturale del nostro giurista. Appare, in primo luogo, da sottolineare come le parole di Demostene e Crisippo abbiano una portata generale, sembrerebbero quasi una sorta di giustificazione filosofica della legge; non possiamo escludere, dunque, che si trattasse di argomenti introduttivi rispetto a ulteriori annotazioni di carattere squisitamente giuridico. Le citazioni dotte, inoltre, dovevano avere la finalità di accattivare i fruitori dell’opera. Mi pare, inoltre, di qualche interesse che Marciano, tra i giuristi utilizzati nel Digesto, sia l’unico, come si osservava44, a richiamare espressamente Demostene e Crisippo a dimostrazione della sottolineata attenzione del giurista per la letteratura e la filosofia45. Si è rilevato, del resto, come “richiamare il pensiero di autori greci era da tempo un’operazione frequente presso i giuristi romani (…) esse dovevano rappresentare (…) un punto d’avvio privilegiato per chi intendesse proporsi come «sacerdote della giustizia», cultore di una ‘vera, non simulata philosophia’ ”46.

(Ogni giorno dica loro qualcosa, anzi molte cose, che gli allievi possano poi ripetere tra sé. Benché la lettura presenti una quantità sufficiente di esempi da imitare, tuttavia il nutrimento più completo è fornito dalla cosiddetta «viva voce» e specialmente del maestro, che i discepoli, se siano stati ben educati, venerano e rispettano). 42 Plin. ep. 2.3.9: Dices: «habeo hic, quos legam, non minus disertos»; etiam, sed legendi semper occassio est, audiendi non semper. Praeterea multo magis, ut volgo dicitur, viva vox adficit. Nam, licet acriora sint, quae legas, altius tamen in animo sedent, quae pronuntiatio, voltus, habitus, gestus etiam dicentis adfigit. (Tu mi dirai: «Ho anche qui da leggere oratori e non meno fecondi». Certo, però tu hai sempre la possibilità di leggere, ma non hai sempre quella di ascoltare. Del resto – come è opinione corrente – la viva voce esercita un effetto assai più intenso. Infatti, pur ammettendo che ciò che leggi sia più incisivo, tuttavia penetrano più profondamente nell’animo quelle nozioni che vi vengono innestate dal tono della voce, dalla mimica del volto, dall’atteggiamento generale e anche dai gesti dell’oratore). 43 Gell. noct. Att. 14.2.1: Quo primum tempore a praetoribus lectus in iudices sum ut iudicia quae appellantur privata susciperem, libros utriusque linguae de officio iudicis scriptos conquisivi ut homo adulescens, a poetarum fabulis et a rhetorum epilogis ad iudicandas lites vocatus, rem iudiciariam, quoniam vocis ut dicitur vivae penuria erat, ex mutis quod aiunt magistris cognoscerem. (Quando i pretori per la prima volta mi inserirono nel novero dei giudici, affinché mi occupassi dei giudizi che sono chiamati privati, io ho provato a reperire libri scritti in entrambe le lingue sulle funzioni del giudice in modo tale che, giovane uomo chiamato dagli scritti poetici e dalle orazioni dei retori a giudicare dei processi, iniziassi a conoscere la realtà giudiziaria attraverso i maestri muti, come si dice, poiché vi era penuria della voce che siamo soliti definire viva). 44 Supra, Introduzione all’opera. 45 Orestano 1968a, 254. 46 Stolfi 2004, 468.

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Domenico Dursi Un’ultima rapida annotazione preliminare: le citazioni in lingua greca lasciano senz’altro immaginare che i destinatari della stessa fossero in grado di leggere il greco. Ciò, del resto, non deve stupire considerato che i rampolli delle classi dirigenti dell’impero e queste ultime medesime quasi certamente dovevano avere dimestichezza sia con il latino sia con il greco. D’altro canto – è stato condivisibilmente rilevato47 – gli autori di lingua greca utilizzati da Marciano “costituivano l’‘ABC’ dell’insegnamento letterario anche a Roma”. Volgiamo ora lo sguardo alla definizione che della legge forniva il maestro severiano, una nozione da lui, certo condivisa, attribuita a Demostene, ma di dubbia paternità48. Nello specifico, in questa trama di citazioni dotte, da cui emerge un certo eclettismo filosofico49, si può cogliere che per Marciano la legge è πóλεως δὲ συνθήκη κοινή, καθ᾽ἣν ἅπασι προσήκει ζῆν τοῖς ἐν τῇ πóλει, cioè un accordo tra tutti i consociati per il quale a tutti conviene vivere nella città. Analoga nozione di legge, è bene ricordare, è offerta da Papiniano in un testo pervenutoci in Pap. 1 def., D. 1.3.150, tanto che la dottrina51 soffermatavisi non ha mancato di sottolineare come anche questo giurista fosse debitore di Demostene52, o, comunque, dell’autore dell’orazione 25 contro Aristogitone. Tuttavia, non è mancato chi53 ha rilevato l’esistenza di “non trascurabili difformità” tra la citazione letterale marcianea del luogo demostenico e la traduzione libera che di quest’ultimo opera Papiniano. Ad ogni modo, paiono abbastanza evidenti in queste definizioni gli echi della legge come contratto, al punto che potrebbe parlarsi, per certi versi, di un Marciano contrattualista. È appena il caso di rilevare come da più parti54 si sia posto in rilievo che la definizione di legge come accordo comune fosse una tradizione abbastanza consolidata in Grecia e da qui giunta fino a Roma, anzi che “la legge come κοινòν πρóσταγμα e come ἐπανóρθωμα è appunto concezione mista di socratismo e di stoicismo”55. Ma spunti analoghi si colgono anche in Aristotele56. Certo è che, da un lato possiamo scorgere un notevole sforzo definitorio dei severiani rispetto alla lex; d’altra parte, non sfugge come una siffatta visione della legge era ben lungi da ciò che essa rappresentava nel III secolo d.C., allorché, come noto, veniva promulgata dall’imperatore in forma di costituzioni. D’altro canto, Marciano, come vedremo, nel corso della sua trattazione, a più riprese si sofferma su leggi di età tardo repubblicana, dunque, esse dovevano ancora essere applicate e necessitavano di una qualche spiegazione. In altre parole, mi pare di dover sottolineare come, probabilmente, la circostanza che non venissero più promulgate leggi comiziali, non toglieva interesse alla trattazione circa la loro natura e il loro significato, posto che esse continuavano a disciplinare importanti materie. Sotto questo punto

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Così Fressura, Mantovani 2018, 657 s. Gigante 1956, 272 ss. part. 275. 49 Gigante 1956, 277. 50 Pap. 1 def., D. 1.3.1: Lex est commune praeceptum, virorum prudentium consultum, delictorum quae sponte vel ignorantia contrahuntur coercitio, communis rei publicae sponsio. (La legge è precetto comune, decisione di uomini saggi, repressione dei delitti che sono compiuti volontariamente o per ignoranza, comune solenne stipulazione della repubblica). 51 Rotondi 1912, 10; Serrao 1973, 839; Talamanca 1977b, 214 nt. 28. 52 Dem. or. 25.16, ove è riportato il testo citato da Marciano. 53 Stolfi 2004, 444 ss. 54 Orestano 1967, 187; Frezza 1968, 14; Gallo 1984, 662 nt. 38. 55 Gigante 1956, 276 ss. 56 Arist. pol. 3.1287a. 48

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Commento di vista, occorre, del resto, osservare come i giustinianei nel primo libro del Digesto dedicano il titolo terzo alle leggi, ai senatoconsulti e alle consuetudini, in un contesto in cui almeno le prime due tipologie di fonti erano da molto tempo non più promulgate. L’inaridirsi della fonte, cioè, non ne determinava l’irrilevanza. A ben vedere, del resto, non possiamo neppure escludere che il rilievo assegnato da Marciano alla nozione di legge potesse lasciar trasparire una qualche polemica rispetto all’ormai consolidato assetto delle fonti del periodo: insomma, una velata contrapposizione al potere costituito, peraltro, dietro l’autorevole e dotto schermo di Demostene57. Si tratterebbe di capire, tuttavia, se νóμος nel discorso di Marciano indichi la legge in senso stretto, o, diversamente, un qualsiasi precetto normativo58. Se si propende per l’idea per la quale il giurista si riferisse alle regole giuridiche in generale, dovrebbe allora, concludersi che il testo si soffermi sul fondamento del diritto. Ma ciò, mi sembra, provi troppo, perché nel torno di tempo in esame, le regole giuridiche scaturivano, sia pur in misura recessiva, anche dalle opinioni dei giureconsulti, che, certamente, non presupponevano alcun accordo dei consociati. A me pare più convincente la tesi secondo cui il riferimento fosse alla legge in senso tecnico. Del resto, risulta difficile immaginare che i Compilatori utilizzassero un passo marcianeo sul fondamento del diritto, per spiegare il significato della legge. Subito dopo, Marciano richiama le parole di Crisippo, ove, oltre all’eco di topoi aristotelici59, degna di nota appare l’espressione ὁ νόμος πάντων ἐστὶ βασιλεὺς θείων τε καὶ ἀνθρωπίνων πραγμάτων. In essa, infatti, emerge, in maniera piuttosto chiara, la formulazione del νóμος βασιλεὺς. Tale concezione ha il suo antecedente storico in Pindaro60, in un significato religioso che indicherebbe la legge di Zeus61 idonea a dominare la storia e la natura, ma insensibile al rapporto con una qualche idea di giustizia62; questa visione si era in progresso di tempo laicizzata, grazie ai contributi di Erodoto63 e Platone64 (che, per vero, ricorre ad espressioni vicine ma non sovrapponibili), fino a indicare una “prescrizione proveniente dagli appositi organi della città”65. Nel brano di Crisippo richiamato da Marciano, vi sarebbe, tuttavia, una riproposizione dell’originaria immagine pindarica del νóμος βασιλεὺς, che, per vero, non implicherebbe un ritorno al significato religioso che ne dava il poeta; piuttosto, come rilevato

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Supra, Introduzione all’opera. Serrao 1973, 839, per il quale trattasi della definizione di legge in generale, qualsiasi norma dell’ordinamento giuridico e non della legge comiziale; diversamente Talamanca 1977b, 214 nt. 28 che sottolinea come, almeno in Demostene la nozione di νóμος doveva riferirsi a statuizioni positive simili alle leges rogatae romane. Recentemente, Stolfi 2004, 470 s. propende per la nozione di legge in generale. 59 Mi riferisco con tutta evidenza all’espressione καὶ τῶν φύσει πολιτικῶν ζῴων quasi totalmente coincidente con Arist. pol. 1.1253a: (…) ὁ ἄνθρωπος φύσει πολιτικòν ζῷων (…) (l’uomo per natura è animale politico). 60 (152 B. = 169 Schr.) νóμος ὁ πάντων βασιλεὺς θνατῶν τε καὶ ἀθανάτων (la legge regina di tutte le cose mortali e immortali). Su cui si veda Gigante 1956, 72 ss.; l’immagine pindarica è stata richiamata da Agamben 1995, 36 ss., il quale vi intravede il nucleo primordiale della teorizzazione della sovranità; recentemente, Banfi 2010, 26, ha parlato del νóμος in Pindaro come di un “ordinamento universale e sovrano”. 61 Gigante 1956, 91. 62 Talamanca 1996, 363. 63 Her. 3.38.20: καὶ ὀρθῶς μοι δοκέει Πίνδαρος ποιῆσαι νóμον πάντων βασιλέα φήσας εἶναι (e a me sembra che giustamente Pindaro abbia detto nei suoi poemi, affermando che la legge è regina di tutte le cose); 7.104 ove leggiamo δεσπóτης νόμος (la legge sovrana). 64 Plat. Prot. 337: (…) ὁ δὲ νόμος, τὺραννος ὢν τῶν ἀνθρώπων, πολλὰ παρὰ τὴν φύσιν βιάζεται (la legge che è tiranna degli uomini, agisce violentemente contro natura). 65 Stolfi 2006a, 129; Stolfi 2012, 40 ss. 58

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Domenico Dursi in maniera condivisibile66, nel filosofo stoico persisterebbe il significato di νóμος “come fonte giuridica della comunità politica”. Anzi, in questa antica dottrina, potrebbe forse intravedersi – come è stato rilevato – il tentativo di collocare la legge al di sopra degli stessi governanti, già presente nella cultura romana del I secolo che si sostanziava in “un ordinamento senza sovrano e senza preciso riferimento territoriale (…), giustificato solo da una filosofia unanimemente condivisa, perché iscritta nella ragione di tutti gli uomini”67. Ciò posto, è ben possibile ritenere che Marciano accogliesse la costruzione del νóμος βασιλεὺς così come la prospettava Crisippo. In quest’ottica, pertanto, per il maestro severiano la legge contemplerebbe imposizioni e divieti, legittimati dalla comune intesa del popolo. In altre parole, in questa prospettiva, la legge è un atto che scaturisce dall’accordo del popolo da cui nascono ordini per i consociati medesimi i quali vi ottemperano proprio in ragione del consenso prestato a monte, in quanto, cioè, vi si sono auto-assoggettati. Dunque – potremmo dire – un ordine del popolo a sé medesimo. In ciò possiamo senz’altro rinvenire il iussum populi, nucleo forte del concetto di legge, che attraversa le definizioni pervenuteci68, da quella di Ateio Capitone ricordato da Gellio69 a quella di Gaio70. F. 3 – D. 1.1.12 Il testo, anch’esso di indubbio carattere introduttivo, offre una tra le possibili accezioni del termine ius nell’ottica di Marciano. Ciò, a ben vedere, non è del tutto usuale tra i giuristi romani, considerato che pochi sono i tentativi di ricognizione dei significati di ius a noi noti. L’accezione richiamata dal giurista è quella di vincolo nel senso di rapporto. Egli, poi, avverte la necessità di meglio chiarire ciò che intende con alcuni esempi, e, al riguardo, ne porta due notevolmente esplicativi. Infatti – egli dice – ‘diritto’ deve essere inteso come rapporto quando si parla di ius cognationis vel adfinitatis. Per quanto numerosi potessero essere gli esempi, il giureconsulto si limita alla materia del diritto di famiglia. E, anzi, sono proprio questi ultimi riferimenti che inducono, come si osservava in sede di considerazioni palingenetiche, a rendere necessitudo con vincolo71. Con questo lemma, piuttosto, Marciano indicherebbe che ognuno dei soggetti legati da vincolo potesse invocare il rispetto delle regole che sovraintendono alle relazioni familiari72. Soffermiamoci sul contenuto del testo. Occorre, infatti, sottolineare come, se il diritto di consanguineità parrebbe delineare un vincolo naturale e, dunque, una necessità (il lemma

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Stolfi 2006a, 131; Stolfi 2010, 135; Stolfi 2012, 40. Schiavone 2017, 283 e 287. 68 Diversamente Serrao 1973, 840, per il quale l’elemento convenzionale emergente dalle definizioni di legge in questione, avrebbe soppiantato il iussum populi 69 Gell. noct. Att. 10.20.2: Ateius Capito, publici privatique iuris peritissimus, quid lex esset hisce verbis definivit: lex, inquit, est generale iussum populi aut plebis, rogante magistratu. (Ateio Capitone, grande esperto del diritto pubblico e privato, definì con le seguenti parole cosa fosse la lex: la legge – dice – è un comando generale del popolo o della plebe su proposta di un magistrato). Sulla giurisprudenza in Aulo Gellio si veda Diliberto 1992, 134 ss.; Diliberto 2017, 141 ss.; D’Alessio 2014, 447 ss. 70 Gai. 1.3: Lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit. (La legge è ciò che prescrive e stabilisce il popolo). 71 Supra § 1. 72 Rizzelli 2018, 156 s. 67

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Commento utilizzato è necessitudo), in realtà il ius adfinitatis era, come noto, il legame che scaturiva tra il coniuge e i parenti dell’altro coniuge sicché, venuto meno il rapporto di coniugio, anche quello che potremmo definire vinculum adfinitatis si scioglieva73. Di più. Nel testo non vi è menzione dell’adgnatio che era il vero vincolo giuridico della famiglia romana: ciò potrebbe apparire strano posto che, come noto, solo in epoca giustinianea prevalse la parentela di sangue su quella giuridica74. Si potrebbe, tuttavia, ritenere che Marciano fosse intento in esempi e, dunque, per tale ragione in questa sede non facesse menzione dell’adgnatio; o, ancora, che per quanto in età severiana essa in linea teorica ancora esisteva, sul piano pratico non esplicava più effetti e pertanto il giurista non avvertiva il bisogno di richiamarla anche in ragione della circostanza che l’agnazione doveva rappresentare uno dei più tipici aspetti della famiglia romana75 destinato a cadere in desuetudine. F. 4. – D. 1.5.5pr.-3 Il testo, nella ricostruzione del Lenel76, inaugura la parte dell’opera marcianea dedicata allo status personae e, infatti, analogamente all’incedere delle Istituzioni gaiane, viene affrontata la problematica dello status libertatis. Nello specifico, il giurista contrappone la condizione degli schiavi, unitaria, a quella dei liberi, diversamente distinguibili in ingenui e libertini. Dopo questa prima classificazione, il giureconsulto severiano focalizza la sua attenzione sulla schiavitù e afferma che si può finire sotto l’altrui dominio o per diritto civile o per diritto delle genti. Al riguardo, si è opportunamente osservato come ci si trovi al cospetto di una perfetta diairesis / divisio77 cui seguono esempi che parrebbero l’inizio di una partitio e, del pari, l’influenza dello stoicismo che avrebbe indotto il nostro giurista a non radicare la schiavitù nel diritto naturale, rectius, nella natura ma soltanto nel diritto civile o nel diritto delle genti, entrambi artificio dell’uomo78, aspetti per i quali si rinvia a quanto già osservato in precedenza79. Ad ogni modo, Marciano non giunge a porre in discussione lo status giuridico dello schiavo, e, conformemente a molti dei giuristi severiani80, sembra muoversi lungo il difficile crinale di una velata critica teoretica della schiavitù sia pur nella consapevolezza della sua insostituibilità, che sembrerebbe vederlo aderire a quella tendenza “dei tanti provvedimenti filantropici della legislazione antoniniana, tesi ad ad-

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Guarino 1939, 77 ss. Talamanca 1990, 153. 75 Bonfante 1925, 11. 76 Lenel 1889.I, 652. Così già Hommell 1767, 399 s. 77 Su questi temi si veda Nörr 1972, passim; Talamanca 1977a, passim. 78 Modrzejewski 1976, 11 ss. Al riguardo, si veda quanto osservato in sede di Introduzione all’opera § 6. 79 Introduzione all’opera § 6. 80 Si pensi, a titolo di esempio, a Trifonino: Tryph. 7 dig., D. 12.6.64: Si quod dominus servo debuit, manumisso solvit, quamvis existimans ei aliqua teneri actione, tamen repetere non poterit, quia naturale adgnovit debitum: ut enim libertas naturali iure continetur et dominatio ex gentium iure introducta est, ita debiti vel non debiti ratio in condicione naturaliter intellegenda est. (Se il padrone doveva qualcosa allo schiavo e glielo ha pagato dopo la manomissione, anche se pensando di essere tenuto da qualche azione nei confronti dello schiavo, tuttavia non potrà ripeterlo, dal momento che ha riconosciuto un debito naturale: infatti, come la libertà è contenuta nel diritto naturale e la potestà dominicale è stata introdotta dal diritto delle genti, così, nell’azione per intimazione, il fondamento di ciò che è dovuto o non dovuto si deve riconoscere conforme alla natura). 74

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Domenico Dursi dolcire e mitigare la durezza della condizione servile, pur senza discuterne minimamente l’assoluta legittimità”81. Marciano, poi, si sofferma in primo luogo su una causa di schiavitù di diritto civile assai peculiare, tra i diversi esempi che avrebbe potuto portare. Infatti, il nostro affronta il caso di un uomo libero maggiore di venti anni che si sia lasciato vendere come schiavo, abbia partecipato ai proventi della vendita e abbia, quindi, rivendicato la sua libertà con la conseguenza di porre nel nulla il negozio. Si deve, peraltro, rilevare come la questione dovesse presentarsi con una certa frequenza, considerato che diversi giuristi vi si soffermassero: mi riferisco, in particolare a Paolo82, dal quale apprendiamo che anche Licinnio Rufino se ne fosse occupato, Ulpiano83, ma anche Pomponio84, il quale informa che già Sabino e Celso figlio ne avevano discusso. Quanto al divieto di reclamare la libertà in capo a colui che si fosse fatto vendere ad pretium partecipandum sembrerebbe da farsi risalire ad Adriano85. Diversa parrebbe, invece, l’ipotesi di un uomo libero che vende se stesso, di cui è ricordo in Petronio86: ivi, infatti, sembrerebbe trattarsi di un provinciale che si vende ad un cittadino romano con l’accordo di un’immediata affrancazione al fine di conseguire la cittadinanza romana. Per quanto non risulti chiaramente dal frammento (non siamo in grado di escludere un possibile taglio), l’unica ipotesi immaginabile è, cioè, quella di un raggiro posto in essere da un uomo libero, il quale in accordo con un complice si finge schiavo per conseguire un vantaggio economico. Tuttavia, ove venga dimostrato il raggiro, costui subisce una denegatio nell’ambito della vindicatio in libertatem e la conseguente capitis deminutio maxima. Tale ipotesi, peraltro, ben poteva essere connessa con la clausola edittale si ex libertate in servitutem petatur, come opportunamente rilevato87. D’altro canto, si deve precisare come per il giurista Paolo si diverrebbe schiavi in ragione dell’indegnità della condotta88. Ad ogni modo – potremmo dire – sembrerebbe trattarsi di una causa di schiavitù avente natura sanzionatoria, una sorta, dunque, di contrappasso dantesco. Marciano, poi, passa alle cause di schiavitù che rinvengono il loro fondamento nell’ambito del diritto delle genti. E, tra queste, indica la cattività e la nascita da madre schiava, ipotesi no-

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Schiavone 2017, 436. Secondo lo studioso, anzi, i giuristi severiani furono “gli ultimi grandi interpreti” del sistema schiavistico, e le loro enunciazioni di principio avevano perso qualsiasi carica eversiva, ma erano soltanto funzionali a una sistemazione concettuale. 82 Paul. 12 quaest., D. 40.13.4. Sul testo si veda Sicari 1996, 310 nt. 37; Nasti 2005, 267. 83 Ex multis Ulp. 2 de off. proc., D. 40.13.1pr. 84 Pomp. 9 ad Sab., D. 18.1.4-6pr.; Su questo testo si veda Arangio-Ruiz 1954, 131 e nt. 4; Reggi 1958, 249. Si veda anche Pomp. 11 ep. et var. lect., D. 40.13.3. 85 Paul. 54 ad ed., D. 40.12.23.2. 86 Petr. sat. 57.4: Quid habet quod rideat? Numquid pater fetum emit lamna? Eques Romanus es: et ego regis filius. “quare ergo servivisti?” quia ipse me dedi in servitutem et malui civis Romanus esse quam tributarius (…). (Ma cos’ha da ridere? Forse il tuo babbino ha comprato un capretto per due soldi? Sei cavaliere romano: sì, e io figlio del re. “Ma allora perché hai fatto lo schiavo?”, mi dirai: perché mi sono fatto schiavo di mia iniziativa e ho preferito essere cittadino piuttosto che tributario di Roma) (Trad. di A. Aragosti, Milano 1995, 265). 87 Lenel 1927, 382. In tal senso si veda Zilletti 1968, 35 nt. 13. 88 Paul 12 quaest., D. 40.13.4: (…) sed in proposito magis probandum est, ut denegetur ei libertatis petitio, qui potuit petere libertatem et maluit se venum dari, quia indignus est auxilio praetoris fideicommissarii. (Ma al riguardo ritengo doversi piuttosto approvare il diniego della domanda di libertà a colui che poté domandarla e volle, invece, essere venduto; poiché è indegno del soccorso del pretore fedecommissario).

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Commento tissime e del tutto pacifiche. Così come l’affermazione per cui sono ingenui coloro che sono nati da madre libera, la quale è interessante in quanto totalmente incentrata sulla condizione della madre89, a ben vedere, fattore decisivo per individuare la condizione del nuovo nato. Il giurista enuncia, allora, la regola generale per cui ad essere considerato è lo status libertatis della madre al momento della nascita, non già a quello del concepimento. Egli procede, quindi, a una disamina casistica da cui emergono alcune eccezioni alla regola appena fissata: i casi descritti sono quelli di una donna che, pur avendo concepito da libera, partorisca da schiava e quella – ancor più controversa – di una donna che concepisca da schiava, venga manomessa, quindi cada nuovamente in schiavitù o venga espulsa dalla città prima del parto. In entrambi i casi, il neonato sarà libero sulla base di una giustificazione che il giurista quasi richiama in un obiter dictum e cioè quia non debet calamitas matris nocere ei qui in ventre est. Infatti, se è vero che Marciano rispetto alla seconda ipotesi trattata afferma che è sufficiente che la madre sia stata libera anche solo per un tempo intermedio, a ben vedere anche questa regola poggia sul principio poco sopra ricordato, in quanto una schiava che dopo esser stata manomessa torni nella condizione servile indubbiamente subisce una disgrazia che – come aveva appena ricordato il giurista – non può nuocere al nascituro. Mi pare degna di nota, infine, la circostanza che il testo di Marciano sia, poi, stato utilizzato per la confezione delle Istituzioni di Giustiniano, si osservi: Inst. 1.4pr.: (…) ex his et illud quaesitum est, si ancilla praegnans manumissa sit, deinde ancilla postea facta peperit, liberum an servum pariat? Et Marcellus probat liberum nasci: sufficit enim ei qui in ventre est liberam matrem vel medio tempore habuisse: quod et verum est. Dato ciò, si è chiesto anche se partorisca un libero o uno schiavo la schiava incinta che, manomessa, abbia poi partorito ridivenuta schiava. Marcello ritiene che nasca libero: basta, infatti, a chi è nel ventre aver avuto la madre libera anche in un tempo intermedio: ed è esatto.

Dal testo, in larga parte sovrapponibile, risulta che la soluzione fatta propria da Marciano risaliva a Marcello. La circostanza che quest’ultimo sia tra i giuristi più citati da Marciano90 parrebbe un buon argomento per ritenere che l’espresso richiamo dovesse risultare anche nel manuale marcianeo91. Ciò appare verosimile, e potrebbe palesare un taglio dei commissari, i quali avrebbero rimosso il riferimento a Marcello nel testo tradito nel Digesto. In ragione di ciò, se nel complesso si preferisce il brano riportato nella raccolta di iura, in quanto direttamente attribuito a Marciano, appare congrua l’integrazione di quest’ultimo con la citazione di Marcello.

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De Giovanni 2006, 500. Dai conteggi effettuati da Liebs 2011, 72 s., nelle sole Istituzioni, vi sono ben sei citazioni di Marcello e dieci in totale se si considerano le altre opere. Si veda anche l’Introduzione all’opera. 91 Ferrini 1929d, 278, il quale reputa più vicina all’opera marcianea la versione del testo riportata nelle Istituzioni imperiali, in quanto Marciano è solito citare Marcello e inoltre la versione et tamen rectius probatum est che appare nel Digesto secondo l’illustre studioso avrebbe “uno spiccato sapore bizantino”. Anche Wieacker 1975, 203 porta questo confronto testuale per evidenziare come il testo del Digesto in questo caso presenterebbe alcune omissioni rispetto a quello riportato nelle Istituzioni non dovute, tuttavia, ai commissari di Giustiniano. In tal senso, più recentemente Cavallini 1994, 83 nt. 35, la quale parla di “tipica interpolazione privativa giustinianea”. Per quanto la questione resti a mio avviso di difficile soluzione, non penso si possa escludere la tesi a suo tempo avanzata da Wieacker 1949, 577 ss. della possibile esistenza di diverse versioni delle Istituzioni marcianee. 90

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Domenico Dursi F. 5 – D. 18.1.42 Marciano afferma che un padrone non può alienare un servo criminoso nemmeno per destinarlo al combattimento con le bestie. Proviamo ora a cogliere il senso della regola riportata. In primo luogo bisogna rilevare che essa era stata sancita in un rescritto emanato da Lucio Vero e Marco Aurelio. Il caso proposto all’attenzione degli imperatori doveva scaturire – sembrerebbe scorgersi in controluce – da una controversia tra il venditore di uno schiavo e l’acquirente, probabilmente un lanista, cioè un istruttore e organizzatore di giochi gladiatori. Del resto, una dura invettiva di Tertulliano92 pressoché coevo al nostro giurista ci informa che questi ultimi fossero fiorenti al tempo di Marciano e, peraltro, spesso vedevano come protagonisti anche soggetti liberi, gli auctorati93: se lo scrittore cristiano si scagliava con la veemenza di cui era capace contro i suddetti spettacoli, molto probabilmente essi dovevano essere ancora parecchio diffusi. Tuttavia, per provare a cogliere a pieno il senso del passo, occorre tentare di stabilire in quale rapporto il rescritto ricordato da Marciano si collocasse rispetto alla legge Petronia. Circa il contenuto di questa legge, qualche informazione fornisce Modestino. Osserviamo Mod. 6 reg., D. 48.8.11.2: Post legem Petroniam et senatus consulta ad eam legem pertinentia dominis potestas ablata est ad bestias depugnandas suo arbitrio servos tradere: oblato tamen iudici servo, si iusta sit domini querella, sic poenae tradetur. Dopo la legge Petronia e i senatoconsulti ad essa relativi, ai padroni fu tolta la facoltà di esporre per loro arbitrio i loro servi al combattimento con le bestie: tuttavia se il servo sarà stato presentato al giudice e sia giusta la querela del padrone, sarà assoggettato a questa pena.

Modestino afferma che il provvedimento legislativo e i successivi senatoconsulti, avevano impedito al padrone di punire di sua iniziativa attraverso il combattimento con le bestie gli schiavi, in quanto solo un giudice avrebbe potuto accertare la colpevolezza e irrorare una siffatta pena. Tale ultimo aspetto, del resto, era stato più in generale affermato dall’imperatore Adriano, come sembrerebbe emergere dal passo della Historia Augusta di seguito riportato: SHA Hadrianus 18.7: Servos a dominis occidi vetuit eosque iussit damnari per iudices, si digni essent. Vietò che i servi fossero uccisi dai padroni e stabilì che, ove lo meritassero, fossero condannati dai giudici.

In sostanza, anche Adriano aveva imposto – sembrerebbe – alcune garanzie in favore degli schiavi per il caso che da una loro condotta potesse scaturire la pena capitale e aveva sottratto ai padroni la possibilità di stabilire direttamente la pena di morte94. In altre parole, vi era il

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Tert. de spect. cap. 19. Sul fenomeno dei giochi gladiatori si veda, ex multis, Fora 1996; Ricci 2006; Ville 2014, passim; più recentemente il contributo di Carro 2018, 93 ss. 93 Su cui Diliberto 1981, 104 ss., per il quale il fenomeno sarebbe scomparso con la fine dei ludi gladiatori. 94 Sul testo Lucrezi 2001a, 62 nt. 52.

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Commento riconoscimento che lo schiavo in quanto uomo è titolare di un ius suum che il padrone deve rispettare95. A ben vedere, il contenuto della legge richiamata parrebbe essere rievocato nel rescritto imperiale ricordato da Marciano. Peraltro, qualche indicazione parrebbe cogliersi dal corrispondente passo dei Basilici. Si veda Bas. 19.1.42 (Scheltema, A III 920): Οὔτε τοὺς μεγάλοις ἐγκλήμασιν ὑποκειμένους δούλους οἱ δεσπόται, δι᾿ἑαυτῶν ἢ διὰ τῶν διοικούντων τὰ πράγματα αὐτῶν δύνανται πωλεῖν ἐπὶ τῷ θηριομαχῆσαι96.

Il brano, in larga parte riepilogativo dell’escerto marcianeo, rende l’espressione criminosos servos con schiavo sottoposto a una grave accusa. In ragione di tanto, l’aggettivo criminosus ben lungi dall’individuare uno schiavo già condannato, nel qual caso sarebbe diventato servus fisci che, al più, avrebbe potuto determinare un caso di responsabilità per evizione in capo all’alienante, sembrerebbe indicare uno schiavo accusato ma non ancora condannato. Se così fosse, allora potremmo cogliere come i divi fratres riconfermassero la necessità che fosse il giudice ad accertare la colpevolezza del servus il quale non avrebbe potuto essere mandato ad bestias dal padrone neppure nelle more del procedimento concernente l’investigazione sulla sua responsabilità. Sembrerebbe, dunque, trattarsi di un rescritto ispirato da spirito umanitario verso gli schiavi, i quali pur se responsabili di gravi misfatti, non dovevano essere sottoposti a trattamenti disumani come il combattimento con le bestie97, senza il previo accertamento della loro reità. F. 6 – D. 48.19.17pr.-1 Il testo si sofferma su una peculiare figura, quella dello schiavo della pena. Costui era un soggetto che in conseguenza di una condotta gravemente illecita subiva una capitis deminutio maxima, cioè diveniva schiavo perdendo, ipso facto, lo status libertatis, lo status civitatis e lo status familiae. Si trattava di una condizione della peggior specie, posto che colui che vi si trovava non aveva neppure la speranza della manomissione, essendo alla stregua di un servus sine domino98. Più nello specifico, poi, Marciano sembrerebbe affiancare alla damnatio ad metalla, più dura e consistente nella costrizione a lavorare nelle miniere senza poter vedere la luce, quella all’opus metalli in perpetuum, meno gravosa, in quanto, verosimilmente, limitata all’attività di trasporto e di lavorazione dei minerali, che implicavano appunto la perdita della libertas, non già all’opus metalli ad tempus cui non seguiva la capitis deminutio maxima99. Il brano, poi, presenta una dettagliata descrizione di questa peculiare categoria di servi. Marciano procede, infatti, all’elencazione delle conseguenze su un piano squisitamente giu-

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Casavola 1980, 224. Occorre segnalare come nell’edizione curata da Heimbach il testo è riportato in forma più rimaneggiata. Heimbach II, 264: Bas. 19.1.40: Καὶ ὅτι δοῦλοι, κἂν μεγάλῳ ἐγκλήματι ὑπόκεινται, οὐ δύνανται πωλεῖσθαι ἐπὶ τῷ θηριομαχῆσαι. Trad.: Servi, licet atrocis criminis rei sint, vendi non possunt, ut cum bestiis pugnent. 97 In tal senso parrebbe propendere Robleda 1976, 84 nt. 373. 98 Sul tema specifico, su cui non ci si può soffermare ex professo in questa sede si rinvia a Donatuti 1934, 219 ss.; Zilletti 1968, 32 ss.; da ultimo McClintock 2010, passim. 99 Beggio 2017, 26 s. 96

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Domenico Dursi ridico, in particolare sul piano del diritto successorio. E, sotto questo profilo, il giurista sembra ricorrere ad una fictio, che parrebbe emergere dall’espressione ‘quasi non’. Leggiamo infatti che si considerano non apposte disposizioni testamentarie in favore di costoro, perché è come se non fossero servi di Cesare nella quale ipotesi i beni sarebbero del fisco, ma servi della pena. In altre parole, sembra che, a seguito della damnatio ad metalla o ad opus metalli in perpetuum, il soggetto condannato divenisse un servus fisci100 ma sul piano del diritto successorio verrebbe configurato alla stregua di un servus nullius e, dunque, servus poenae. Mi pare opportuno rilevare come lo stesso Marciano fissi analogo principio in materia di legati in un frammento dedicato precipuamente alla materia ereditaria, ove, peraltro, apprendiamo che la regola doveva risalire ad un rescritto di Antonino Pio101. La circostanza, poi, che il testo in esame contenga meno dettagli di quello in cui è riportata l’analoga regola in materia di legati, potrebbe spiegarsi – a mio avviso – in ragione del fatto che quest’ultimo è collocato nella parte relativa alle successioni, dunque, ratione materiae il giurista sentiva il bisogno di meglio precisare l’origine e le conseguenze della regola. È bene sottolineare, inoltre, come il prosieguo del frammento sia stato indicato da Mario Talamanca102 come uno di quelli in cui emergerebbe maggiormente la piena consapevolezza nell’opera di Marciano della nuova realtà creata dalla constitutio Antoniniana. In particolare, lo studioso ha ritenuto prive di fondamento le ipotesi, pur autorevolmente avanzate, circa la genuinità del frammento, con specifico riferimento al termine ἀπóλιδες103, in quanto l’espressione sarebbe “il preciso corrispondente greco dell’espressione latina peregrini nullius civitatis”, cioè del tutto privi di una cittadinanza. Marciano, dunque, individua la categoria degli ἀπóλιδες 104. Si tratta di soggetti senza cittadinanza e titolari soltanto di quelle situazioni giuridiche che discendono dal ius gentium, assegnati per sempre ai lavori pubblici o deportati in un’isola. Nello specifico, costoro dovevano essere responsabili di crimini meno gravi di quelli per i quali si diventava servi della pena e venivano condannati alla perdita della cittadinanza romana, senza acquistarne un’altra e, dunque, alla condizione di apolidi. Costoro, tuttavia, a differenza dei servi della pena conserverebbero una sorta di soggettività giuridica iure gentium105. Del resto, una qualche conferma a questa chiave di lettura parrebbe derivare da una

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Beggio 2012, 299 ss.; Beggio 2017, 39 e nt. 59. Marc. 11 inst., D. 34.8.3pr.: Si in metallum damnato quid extra causam alimentorum relictum fuerit, pro non scripto est nec ad fiscum pertinet: nam poenae servus est, non Caesaris: et ita divus Pius rescripsit (…). (Se a un tale condannato ai lavori nelle miniere fu lasciata qualcosa non in una causa per alimenti, si ritiene non scritta e non appartiene al fisco: infatti è servo della pena, non di Cesare: e così stabilì per rescritto il divo Pio). Sul punto, però, recentemente Beggio 2017, 39 ritiene che la definizione della figura del servus poenae sia precedente ad Antonino Pio. 102 Talamanca 1976, 213 ss. 103 Brasiello 1937, 364 ss.; Volterra 1959, 473 ss., il quale partendo dal presupposto che “i giuristi romani non potessero concepire l’esistenza di un uomo libero senza che a questo fosse attribuito uno status civitatis” è costretto, poi, a considerare interpolati tutti i testi in cui appare la parola ἀπóλιδες. 104 Il termine ricorre anche in Ulpiano. Si osservi. Ulp. 1 fid., D. 32.1.1.2: Hi, quibus aqua et igni interdictum est, item deportati fideicommissum relinquere non possunt, quia nec testamenti faciendi ius habent, cum sint ἀπóλιδες. (Coloro che sono incorsi nell’interdizione dell’acqua e del fuoco, e allo stesso modo, i deportati, non possono lasciare un fedecommesso, poiché non hanno neppure il diritto di fare testamento, essendo apolidi). Dal testo ulpianeo apprendiamo che sono apolidi i destinatari dell’aqua et igni interdictio e anche i deportati. 105 Analogamente, McClintock 2010, 66. 101

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Commento costituzione di Adriano ricordata da Callistrato106 che, infatti, come osservava Volterra107, contemplerebbe l’ipotesi di conservazione della libertà per i condannati perpetuamente all’opus publicum, perché – a mio modo di vedere – era proprio ciò che avveniva nel caso di specie, ove si perdeva solo lo status civitatis. Qualche parola, infine, sull’espressione ea quae iuris civilis sunt. Ai nostri occhi, infatti, essa potrebbe avvicinarsi a indicare le situazioni giuridiche soggettive di diritto civile. Senza poter indugiare troppo sul punto, tuttavia, occorre rilevare come in essa si manifesti quella “concezione fondamentalmente «obiettivistica»” del diritto, che non vuol dire, tuttavia, escludere che, talvolta, i giuristi romani considerassero le situazioni giuridiche a parte subiecti108. F. 7 – D. 40.11.2 Il testo affronta sempre la materia della condizione personale degli uomini. Nuovamente, mi pare, risulta da sottolineare l’attenzione per le eccezioni alla regola generale e, quindi, alla descrizione dei dettagli. Al proposito, infatti, si deve osservare come siffatta ipotesi non venga presa in considerazione dalle Istituzioni gaiane e da quelle di Giustiniano. È tempo di volgere l’attenzione alla regola riportata da Marciano. In particolare, il giurista dopo aver spiegato che è nel potere del principe restituire le condizioni di nascita ad un liberto, rendendolo ingenuo, precisa come si tratta di quei natali nei quali inizialmente si trovano tutti gli uomini non in quelli in cui questi effettivamente si trovavano, trattandosi di nati schiavi. Sono parole importanti in quanto sembrerebbe emergere, nuovamente, un’idea di fondo della complessiva ‘filosofia del diritto’ del nostro giurista per cui la libertà sarebbe la condizione umana conforme a natura109. Lo stesso concetto di restitutio natalium parrebbe evocare quasi il ripristino, una sorta di restitutio in integrum, di una condizione originaria, caratterizzata dall’uguaglianza tra tutti gli uomini, modificata dalla condizione servile110. Di più: il soggetto destinatario del beneficio è considerato in tutto e per tutto un ingenuo111 al punto che non trovava applicazione una regola risalente addirittura alle XII tavole per cui il patrono e i suoi discendenti succedevano ab intestato al liberto che non avesse lasciato sui heredes112. Proprio tale ultimo aspetto, da cui scaturiva una potenziale perdita per il patrono – ricorda tuttavia il giurista – aveva determinato che la concessione fosse del tutto eccezionale e comunque avvenisse solo previo consenso del patronus. Da ciò appare come in epoca severiana qualche rilievo avessero ancora i rapporti di parentela, al punto che l’imperatore su questi aspetti doveva rispettare la volontà di un privato. Quale fosse la ratio della restitutio non è dato sapere con certezza. Molto probabilmente doveva trattarsi di un istituto finalizzato a cooptare liberti particolarmente autorevoli nel novero

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Call. 3 de cogn., D. 48.19.28.6: (…) huius enim libertas manet, quamdiu etiam hi, qui in perpetuum opus damnantur. (Infatti la libertà di costui si manterrà per tutto il tempo che costui sarà condannato al lavoro perpetuo). 107 Occorre precisare che l’illustre studioso (Volterra 1959, 482, ora 1991, 488) utilizzava l’argomento per ribadire la presunta interpolazione del testo marcianeo. 108 Orestano 1978, 182 s. 109 Cavallini 1994, 83, giunge a parlare di “adesione di Marciano alla tesi della schiavitù come istituto contra naturam” che emergerebbe dal passo in esame. 110 Thomas 2011, 35. 111 Duff 1958, 86 ss. 112 Ex multis, Gai. 3.40. Su questi temi si rinvia a Diliberto 1990, part. 1302 s.; Talamanca 1999, in part. 168 ss.

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Domenico Dursi dei gruppi dirigenti dell’impero consentendo loro di concorrere per incarichi di governo o anche, semplicemente la concessione di una benemerenza per una qualche opera meritoria. F. 8 – D. 40.10.3 Il frammento si sofferma su una ipotesi relativa al ius aureorum anulorum, cioè concessione di un beneficio ad un liberto da parte del princeps, ancorché di natura diversa rispetto alla restitutio natalium. Esso dava l’illusione di una nascita libera, in quanto una lex Visellia del 24, sotto Tiberio, aveva accordato ai titolari del ius anuli aurei l’accesso alle cariche pubbliche113. Come si accennava, però, benché la restitutio natalium e il ius aureorum anulorum presentino talune affinità, non si possono tacere evidenti divergenze di fondo. Se, infatti, attraverso la restitutio natalium si acquistava la condizione di ingenui che lasciava aperta la strada per l’ascesa nelle gerarchie del potere; diversamente con il ius anulorum si conferiva la dignità equestre, ma erano salve le spettanze del patronus. Potremmo dire che attraverso di esso un liberto acquisiva la dignità equestre, restando, invece, inalterati i rapporti di potere privati114. Resta, tuttavia, la centralità della voluntas del patrono, sicché l’imperatore Commodo, con un suo provvedimento, aveva ritenuto di revocare la concessione della dignità equestre ove fosse stata accettata in assenza di un preventivo assenso del patronus. Parrebbero, poi, profilarsi due diverse ipotesi di revoca, quella di una aperta contrarietà del patrono emersa – a me pare – dopo la concessione (se si fosse manifestata prima non si sarebbe, con buona probabilità, giunti alla revoca) e quella in cui il patronus fosse stato all’oscuro di tutto e, quindi, privato della possibilità di pronunciarsi in maniera, per così dire, vincolante. La regola, dunque, parrebbe analoga a quella ricordata in tema di restitutio natalium e tuttavia se in questo caso la giustificazione potrebbe rinvenirsi nella circostanza che il patrono avrebbe perso i diritti successori, altrettanto non può dirsi, almeno per ciò che apprendiamo da Paolo115, nel caso del ius anulorum: in questo caso, infatti, i diritti successori erano salvi, dunque non si poneva un conflitto di interessi di natura patrimoniale. È come se Commodo avesse voluto, in qualche misura, riconoscere al patrono il potere di determinare la condizione sociale del liberto. F. 9 – D. 1.16.2pr.-1 Il frammento apre, nella ricostruzione di Lenel116, il capitolo dedicato alle manomissioni, che avrebbe costituito l’ultimo argomento del primo libro. Non è questa la sede per indugiare sull’istituto della manumissio, anche perché i lacerti delle Istituzioni marcianee a noi pervenuti trattano, tutti, di ipotesi assai particolareggiate. Il testo, nello specifico, si articola su più livelli. Dapprima, infatti, fissa i limiti al ius dicere dei proconsoli, sottolineando come, una volta lasciata Roma, essi avevano soltanto una iuri-

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Thomas 2011, 34. Duff 1958, 85 ss. 115 Paul. 9 ad leg. Iul. et Pap., D. 40.10.5: Is, qui ius anulorum impetravit, ut ingenuus habetur, quamvis in hereditate eius patronus non excludatur. (Colui che ottenne il ius anulorum è considerato ingenuo, benché il patrono non venga escluso dall’eredità di lui). 116 Lenel 1889.I, 653. Per Wacke 1989, 202 il testo si sarebbe collocato in sezione relativa allo status personae e alle manomissioni. 114

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Commento sdictio voluntaria, non quella contentiosa. In ragione di siffatta precisazione, potremmo dedurre che il lasso di tempo considerato doveva essere quello compreso tra la partenza dalla città e l’insediamento nella sede di competenza117, posto che in essa il proconsole, come si era stabilito fin dai tempi di Silla118, disponeva dell’imperium comprensivo di tutte le sue estrinsecazioni e quindi della piena iurisdictio. Non si può trascurare, inoltre, che una qualche forma di giurisdizione fosse stata riconosciuta ai governatori per il frangente del viaggio da e verso la provincia loro assegnata già in epoca tardo repubblicana, come potrebbe desumersi dalla lex de provinciis praetoriis nella versione di Cnido, alle righe 31-39119. Più nello specifico, la regola per cui il proconsole non potesse esercitare funzioni giurisdizionali contenziose prima di entrare nella provincia per la quale era stato designato, è affermata anche da Ulpiano120. È bene, peraltro, segnalare che Cassio Dione121 ricordi come al proconsole in base a un provvedimento del 27 a.C., probabilmente la lex Iulia de provinciis, spettassero le insegne dell’imperium dal momento in cui usciva dall’Urbe fino al momento in cui vi avrebbe fatto ritorno oltrepassando il pomerium. In ciò, peraltro, devono cogliersi alcune differenze sostanziali rispetto ai legati Augusti pro praetore: questi, infatti, in primo luogo, assumevano le insegne del officium nel momento in cui giungevano nella sede di competenza; in secondo luogo, fuori dalla sede loro assegnata erano soltanto dei privati cittadini, dunque non esercitavano neanche la voluntaria iurisdictio122. Quanto al praefectus Aegypti, di cui a Ulp. 15 ad ed., D. 1.17.1, invece, la questione appare dibattuta: se, infatti, taluni tendono ad assimilarlo ai legati Augusti pro praetore123, d’altro canto vi è chi rileva come ben maggiori fossero le similitudini tra il praefectus Aegypti e i proconsules di quante il governatore d’Egitto ne presentasse con i legati124. Si deve, poi, rilevare come la dicotomia voluntaria iurisdictio / contentiosa iurisdictio che appare nel testo sia del tutto inusuale, non trovando riscontro in altri giuristi, né in testi normativi. Quale fosse il preciso significato è difficile dire. Né si può tacere come una parte della dottrina125, invero risalente, abbia ritenuto il passo assai sospetto. Non è mancato chi, con altrettanti

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De Giovanni 1989, 48 s. Ex multis Grosso 1965, 252 s. 119 In senso positivo Giovannini 1983, 9 nt. 53, 95; di diverso avviso Spagnuolo Vigorita 1990, 162; possibilista Marotta 1991, 133. 120 Ulp. 1 de off. proc., D. 1.16.4.6: Post haec ingressus provinciam mandare iurisdictionem legato suo debet nec hoc ante facere, quam fuerit provinciam ingressus. Est enim perquam absurdum, antequam ipse iurisdictionem nanciscatur (nec enim prius ei competit, quam in eam provinciam venerit) alii eam mandare, quam non habet. (Dopo di ciò, giunto nella provincia, deve conferire mandato ad un suo legato per la giurisdizione e non deve farlo prima di essere entrato nella provincia; è infatti sommamente assurdo, prima che egli stesso consegua la giurisdizione [né infatti gli spetta prima che sia giunto nella provincia), delegare a un altro la giurisdizione che non ha]. In sostanza dal testo apprendiamo che il proconsole deve conferire mandato per l’esercizio della giurisdizione ad un suo legato, ma non può farlo prima di giungere nella provincia, in quanto fino a quel momento, egli stesso è privo della giurisdizione. Per ragguagli sul testo, si rinvia a Fanizza 1999, 63 ss. Più in generale si vedano Mantovani 1993-1994, 203 ss. e Marotta 2000, passim. 121 Cass. Dio 53.13.4. 122 Su tutto ciò, Marotta 1991, 131 ss. Più recentemente Licandro 2008, 91. 123 Marotta 1991, 131. 124 Licandro 2008, 80 ss. 125 Solazzi 1927, ora 1960, 1 ss.; in parte diversamente Lauria 1930, 534 ss. e nt. 326, il quale pur considerando non classica l’espressione voluntaria iurisdictio reputa, tuttavia, classica la distinzione tra iurisdictio contentiosa e iurisdictio voluntaria. De Martino 1937, 279 ss.; più recentemente, De Giovanni 1989, 48 s. 118

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Domenico Dursi argomenti, ne ha sostenuto la genuinità, così da affermare la paternità marcianea dell’espressione volta a significare la giurisdizione dei proconsoli che si concretizzava mediante la in iure cessio126. Ma proviamo a soffermarci sul significato di voluntaria iurisdictio. Marciano, in primo luogo, afferma che il proconsole può esercitare la giurisdizione volontaria solo dopo aver lasciato la città. Una tale regola doveva rendersi necessaria, probabilmente, per evitare conflitti con cariche investite del medesimo potere all’interno dell’Urbe o con i titolari di iurisdictio nei territori attraversati dal proconsole per giungere nella provincia ove avrebbe dovuto insediarsi. In particolare, poi, dianzi al proconsole potevano svolgersi soltanto, da quel che leggiamo, affrancazioni di figli e schiavi, che – come noto – avvenivano mediante manomissioni e le adozioni. Gli atti elencati da Marciano, restando escluse le ipotesi della manumissio censu e della manumissio testamento in ragione della presenza del proconsole, avevano un comune denominatore: in tutti, infatti, momento essenziale era costituito dall’in iure cessio. Al riguardo, sia sufficiente qui dire che si trattava di un’applicazione del processo a scopi negoziali127 per sancire pubblicamente un accordo già tra le parti intervenuto. Da questo punto di vista, dunque, si può forse comprendere la ragione del ricorso all’espressione voluntaria iurisdictio da parte del nostro giurista. Si trattava, con buona probabilità, di un sintagma attraverso cui Marciano descriveva situazioni che ricordavano un processo (si tenevano in iure), ma che, in effetti, svolgevano la funzione di sanzionare accordi tra privati, dunque mancava la contesa e le parti si recavano volontariamente in iure. La parte conclusiva del passo, infine, sottolinea come non si potesse procedere ad affrancazioni di filii familias e di schiavi alla presenza di un legato del proconsole, quasi a voler sottolineare un divieto di delega della iurisdictio voluntaria, a soggetti diversi da quelli dotati di imperium128. F. 10 – D. 38.2.22 Il testo affronta, sempre, la materia della concessione agli schiavi della libertas. In particolare, il caso discusso è quello di una manomissione avvenuta ad opera di un filius familias. Prima di passare alla disamina della fattispecie, occorre sottolineare come il maestro severiano citasse una tesi di Giuliano espressa nel libro ventisette dei suoi Digesti (secondo Lenel129, questo testo giulianeo era diretto ad affrontare il problema della bonorum possessio del testamento dei soldati, e nello specifico, doveva riguardare la categoria dei legitimi, cioè, appunto, i sui heredes). Da qui, due rapide considerazioni: Marciano conosceva e utilizzava l’opera di Giuliano, posto che nei frammenti a noi noti delle Istituzioni lo cita tre volte (più due ulteriori citazioni da brani delle Istituzioni giustinianee riconducibili a quelle di Marciano)

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Gioffredi 1947, 38 s.; Talamanca 1988, 795; Wacke 1989, 201; Spagnuolo Vigorita 1990, 127, per il quale il giurista severiano avrebbe utilizzato l’espressione per proporre una categoria residuale ove far rientrare funzioni accomunate dall’estraneità allo schema imperium merum, imperium mixtum, iurisdictio; più recentemente, Fernàndez De Bujàn 1999, 56 ss.; Fanizza 1999, 68 pur riconoscendo fondati i sospetti circa la genuinità, non esclude in assoluto che la dicotomia possa essere frutto di un’elaborazione marcianea. 127 Talamanca 1990, 434. 128 Analoga regola emerge in Ulp. 26 ad Sab., D. 1.16.3: Nec adoptare potest: omnino enim non est apud eum legis actio. (Né alcuno può adottare: presso di lui, infatti, non vi è assolutamente l’azione di legge). Si veda, al riguardo, Fanizza 1999, 142 ss. 129 Lenel 1889.I, 390.

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Commento e, considerando anche gli altri scritti, risultano, complessivamente, sei citazioni130. Ciò, del resto, è quasi ovvio, stante la centralità di questo giurista nell’ambito della giurisprudenza romana di età imperiale; in secondo luogo, il problema delle manomissioni da parte dei filii familias doveva essere abbastanza dibattuto tra i giuristi precedenti a Marciano: il testo del giurista severiano, infatti, consente di scorgere l’excursus storico della regola e le discussioni intorno ad essa sorte. Quanto alla fattispecie, mi pare fuor di dubbio la circostanza che si trattava della manomissione di uno schiavo del peculium castrense, che, come noto, era costituito dai beni conseguiti durante e in ragione del servizio militare, fino a ricomprendere, in progresso di tempo, anche i beni derivanti dalle donazioni fatte al filius in occasione dell’ingresso nell’esercito. Di questi beni, è appena il caso di ricordare, il filius poteva disporre mortis causa131. La circostanza che si tratti di siffatte sostanze è resa verosimile sia dalla precisazione che il filius familias fosse un soldato, sia perché altrimenti non si sarebbe neppure posto il problema di stabilire di chi fosse il liberto, considerato che il filius familias non avrebbe potuto procedere alla manomissione di uno schiavo il quale, ancorché nel peculio del figlio, era pur sempre di proprietà del padre. Interessante è, poi, osservare come Giuliano in conformità alla tradizione ritenga che il liberto sia tenuto all’obsequium verso il padre e, tuttavia, non senza qualche contraddizione, affermi sul tema della successione nei beni del liberto come la posizione del filius familias dovesse prevalere su quella del pater. Sembrerebbe quasi che il giureconsulto distinguesse tra le situazioni giuridiche squisitamente patrimoniali di spettanza del figlio e quelle di natura personale, invece, di pertinenza del pater. Ciò, è stato rilevato132, denoterebbe “la incapacità del giurista di liberarsi dello schema concettuale del rapporto potestativo”133; tuttavia, emergerebbe nella posizione giulianea anche un passo in avanti rispetto alla precedente giurisprudenza che, forse, preparava la strada all’intervento imperiale134. Da parte sua, infatti, Adriano, che ebbe un ruolo decisivo nel processo di progressiva definizione del peculium castrense, fino a determinare la concreta sparizione del potere del pater su di esso135, nel rescritto richiamato da Marciano, probabilmente successivo136, sembrerebbe, per così dire, portare alle estreme conseguenze la breccia aperta dal giurista, forse, in certa misura, anche discostandosene137: benché questo non sia l’unico caso138, sarebbe abbastanza eclatante in quanto, come noto, Salvio Giuliano era tra i più illustri giuristi del suo consilium139. L’imperatore, infatti, rispon-

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Liebs 2011, 72. Si veda anche l’Introduzione all’opera. Guarino 1941, 41 ss.; Talamanca 1990, 122 s. 132 Gualandi 1963b, 133. 133 Casavola 1980, 209. 134 De Giovanni 1989, 54. 135 Guarino 1941, 71. 136 Masi Doria 1996, 325. 137 Di correzione dell’imperatore al giurista parla Brutti 2012, 151 e nt. 126. 138 De Giovanni 1989, 54. 139 Guarino 1945, 81 ora 1964, 405, da cui si cita, il quale afferma che Giuliano doveva, proprio in ragione della sua partecipazione al consilium, conoscere bene i rescritti e, dunque, conclude nel senso che all’epoca di Adriano e Antonino Pio i giuristi non si sentivano tenuti a rispettare i criteri seguiti dagli imperatori nella risoluzione dei casi pratici. Se così fosse, peraltro, poco senso avrebbe porsi il problema della priorità dell’opera rispetto al rescritto imperiale, questione, peraltro, di difficile soluzione. 131

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Domenico Dursi deva a Flavio Apro, non sappiamo se il console ordinario del 130140 o un suo omonimo, che aveva posto la questione, di poter considerare il liberto di sua pertinenza e non già del padre. Certo, non possiamo escludere che la ratio decidendi tenesse conto di alcune peculiarità del caso concreto a noi ignote. Mi riferisco, appunto, alla possibile posizione di particolare prestigio di Flavio Apro, che, probabilmente, era un esponente dei gruppi dirigenti, tanto più se davvero fosse stato il personaggio asceso al consolato durante il principato adrianeo. Ma di ciò non abbiamo prova. Certo, la circostanza che se ne ricordi il nome, potrebbe lasciar propendere proprio in questa direzione e potrebbe suscitare qualche suggestione. Si potrebbe cioè immaginare che la richiesta venisse dal console Flavio Apro, a testimonianza di un intervenuto mutamento di valori, magari sollecitato dallo stesso imperatore intento nel perseguimento del suo disegno riformatore in materia. Ma si ribadisce, siamo sul piano di mere congetture. È fuor di dubbio, invece, che la decisione dell’imperatore rappresentava un colpo inferto alla struttura patriarcale della famiglia romana che, come autorevolmente posto in rilievo141, al principe “doveva apparire piuttosto un ostacolo che non uno strumento per la promozione dei suoi ideali civili”. Ad ogni modo, siamo al cospetto di una tappa del cammino verso il pieno riconoscimento della capacità giuridica del filius sul peculium castrense, questione che all’epoca di Marciano doveva ormai essere del tutto pacifica e, tuttavia, il giurista severiano avvertiva l’esigenza di fornire ai suoi lettori un’informazione assai completa sul travagliato percorso142. F. 11 – D. 40.4.23pr.-1 Il frammento affronta il problema del termine a quo dell’efficacia di una disposizione testamentaria contenente la declaratoria di libertà in favore di uno schiavo. Da esso, infatti, apprendiamo che lo schiavo acquista la libertà nell’istante in cui viene accettata l’eredità, ma, allo stesso modo, vi si legge, il servo acquista la libertà quantunque l’accettazione avvenga non in base alla delazione testamentaria, ma a quella legittima. Questo punto è di particolare interesse: si tratta di comprendere, infatti, le ragioni della omissa causa testamenti. Da un lato, potrebbe pensarsi a un soggetto istituito erede con il testamento che opti per la devoluzione legale, proprio al fine di raggirare altre disposizioni testamentarie per lui non gradite, ad esempio la manomissione, o, peggio, evitare un testamento oneroso; o ancora, si può pensare al caso di chi chieda la bonorum possessio per timori circa la validità del testamento. In siffatta ipotesi, sia per il favor libertatis, sia, in certa misura, per sanzionare la condotta dolosa dell’erede, non rispettosa delle ultime volontà del de cuius, lo schiavo consegue, ugualmente, la libertà. Tuttavia, il tenore del testo non consente di escludere in radice un’ulteriore ipotesi, quella di un testamento non produttivo di effetti nella sua parte fondamentale e cioè l’istituzione d’erede: anche in questo caso, resterebbe pienamente valida ed efficace la disposizione contenente la manomissione, tanto che, verificatasi l’accettazione dei chiamati ex lege, lo

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Dessau, 2098 e 2162 = CIL VI. 2088, VI. 2162. Al riguardo si veda Groag 1943, 135 nr. 208; Degrassi 1952, 37. Casavola 1980, 201 ss., per il quale l’imperatore avrebbe stabilito il legame potestativo solo se gli fosse risultato che fosse vantaggioso ai figli. 142 De Giovanni 1989, 54. 141

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Commento schiavo conseguiva, pur sempre, la libertà. Ciò, se da un lato potrebbe smentire la regola nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest143, in realtà potrebbe spiegarsi, ancora una volta, con il favor libertatis ormai principio acquisito in epoca severiana. Al riguardo, appare significativa una decisione, di poco precedente, di Marco Aurelio. Si osservi: Marcell. 29 dig., D. 28.4.3pr.: […] Cornelius Priscianus advocatus Zenonis dixit: “Nomina heredum tantum induxit”. Calpurnius Longinus advocatus fisci dixit: “Non potest ullum testamentum valere, quod heredem non habet”. Priscianus dixit: “Manumisit quosdam et legata dedit”. Antoninus Caesar remotis omnibus cum deliberasset et admitti rursus eosdem iussisset, dixit: “Causa praesens admittere videtur humaniorem interpretationem, ut ea dumtaxat existimemus Nepotem irrita esse voluisse, quae induxit”. Nomen servi, quem liberum esse iusserat, induxit. Antoninus rescripsit liberum eum nihilo minus fore: quod videlicet favore constituit libertatis. Cornelio Prisciano, avvocato di Zenone, disse: “Ha cancellato esclusivamente i nomi degli eredi”. Calpurnio Longino, avvocato del fisco, affermò: “Non può avere alcun valore un testamento che non indichi alcun erede”. Prisciano disse: “ha disposto manomissioni e dato legati”. Antonino Cesare, essendo stati allontanati tutti, una volta deciso e ordinato che tutti fossero nuovamente ammessi, statuì: “La presente causa consente un’interpretazione più umana, di modo che si ritiene che Nepote abbia voluto che diventasse irrito solo ciò che aveva cancellato”. Ma aveva cancellato anche il nome del servo di cui aveva disposto la liberazione. Antonino stabilì con rescritto che nondimeno fosse libero, il che decise di tutta evidenza per favorire la libertà.

Come si può chiaramente osservare, già Marco Aurelio, sulla base di una humanior interpretatio144 aveva ritenuto che un testamento potesse produrre i suoi effetti soltanto per alcune parti, consentendosi – sembrerebbe – che per quanto non previsto nell’atto mortis causa si desse luogo alla successione ab intestato. Peraltro, nella chiusa del passo, l’imperatore, dopo aver dichiarato che continuavano a produrre effetti le disposizioni testamentarie non cancellate dal de cuius, decide di andare oltre lo stesso principio da lui stesso fissato. Egli, infatti, afferma che anche se sia stata cancellata la disposizione concernente la manomissione dello schiavo, questi comunque acquista la libertà, in tal modo realizzando una finalità politica145. In sostanza l’escerto di Marcello ben descrive, mi pare, la cornice entro cui si inquadra la fattispecie esaminata da Marciano. Viene quindi affrontata l’ipotesi in cui siano istituiti più eredi, nel qual caso il servus acquista l’eredità quando anche uno solo di essi abbia accettato, il che, peraltro, era stato anche affermato da Pomponio e Ulpiano146. Infine, spiega Marciano, laddove la manomissione sia sottoposta a un termine iniziale o a una condizione sospensiva, essa produrrà i suoi effetti al realizzarsi dell’evento dedotto nel termine o nella condizione: fino a quel momento – apprendiamo da altre fonti – il servus si trovava nella condizione di statuliber147.

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Su questo tema si veda Pérez Simeón 2001, passim; più recentemente Coppola 2012, passim. Palma 1992, 40 ss., pone in rilievo come l’humanior interpretatio di Marco Aurelio coincidesse con la benignior interpretatio di Marcello entrambi criteri ermeneutici utilizzati per giustificare decisioni sulla base di visioni di giustizia sostanziale. Sul testo, diffusamente, Brutti 2012, 175 ss. 145 Così Brutti 2012, 178. 146 Pomp. 7 ad Sab., D. 40.4.11.2; Ulp. 4 ad Sab., D. 40.7.2pr. 147 Tit. ex corp. Ulp. 2.3; Ulp. 4 ad Sab., D. 40.7.2pr. Su questi temi, Voci 1963, 409; recentemente Puliatti 2016, 161. 144

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Domenico Dursi F. 12 – D. 40.9.9pr.-2 Marciano si occupa qui di ipotesi di manomissioni inidonee a produrre effetti giuridici. Il primo caso portato all’attenzione dei suoi lettori è quello della libertà concessa sotto costrizione. Si tratta, è di tutta evidenza, di una violenza mossa dallo schiavo nei confronti del dominus, il quale, dunque, non ha espresso una libera determinazione. Questa violenza nel caso ricordato da Marciano inficiava la manomissione. Quanto al tipo di manomissione cui doveva riferirsi il giurista, corre l’obbligo di ricordare come taluni studiosi abbiano affermato trattarsi di una manomissione testamentaria coatta148, mentre altri hanno optato per una manomissione per epistulam149. In ragione delle informazioni che ricaviamo dal testo in esame, a me pare difficile propendere, in modo deciso, per l’una o per l’altra. L’unico dato a nostra disposizione al riguardo è rappresentato dall’affermazione ‘scripsit liberum eum esse’. Si trattava, dunque, di una libertà riconosciuta attraverso il ricorso alla scrittura, la qual cosa, se da un lato era ormai del tutto prevalente nel II / III secolo d.C., ad ogni modo accomuna tanto la manumissio testamento quanto quella per epistulam. Vi sarebbe, tuttavia, più di qualche argomento in grado di indurmi in quest’ultima direzione: in primo luogo, infatti, un soggetto in grado di suscitare terrore nei confronti del suo dominus avrebbe avuto interesse a capitalizzare subito la sua forza intimidatoria e ben difficilmente avrebbe atteso la morte del dominus per conseguire la libertà; in secondo luogo, se anche avesse usato violenza al momento della confezione del testamento, il dominus ben avrebbe, in un altro momento, potuto redigere un nuovo testamento, così da revocare le precedenti disposizioni, senza considerare, peraltro, l’elevato livello di pubblicità150 richiesto per quest’atto mortis causa. Infine, occorre rilevare, la prova della violenza sarebbe stata infinitamente più difficoltosa per gli eredi. Non si può, tuttavia, tacere, per quanto ciò non fornisca un argomento decisivo, come in Bas. 48.7.9151 si faccia chiaramente riferimento alla manomissione testamentaria. Ad ogni modo, quale che fosse la tipologia di manomissione considerata, ove fosse stata frutto di una violenza, essa era pur sempre inidonea a produrre effetti giuridici. Passiamo alla seconda ipotesi considerata. Marciano affermava che non avrebbe conseguito la libertas il servus imputato in un processo criminale, non difeso dal dominus, ma assolto all’esito del giudizio. Si deve segnalare come analoga regola si legga in Ermogeniano. Erm. 1 ep. iur., D. 1.5.13: Servus in causa capitali fortunae iudicii a domino commissus, etsi fuerit absolutus, non fit liber. Lo schiavo, lasciato dal padrone alla sorte del giudizio in un processo capitale, non diviene libero quand’anche sia stato assolto.

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Longo 1934, 105; Betti 1935, 309 nt. 2. Zoz 1973, 124. 150 Voci 1963, 65, ricorda come in età classica fosse presente soltanto il testamento per aes et libram che si confezionava al cospetto del familiae emptor, del libripens e di cinque testimoni. 151 Bas. 48.7.9 (Scheltema A, VI, 2214): Εἰ βιάσεταί με ὁ δοῦλός μου ἐλευθερῶσαι αὐτὸν ἐν διαθήκῃ, οὐκ ἐλευθεροῦται, ὥσπερ οὐδέ ὃν οὐ διεξεδίκησα ἐπ᾽ἐγκλήματι κεφαλικῷ, ἐξ οὖ μετὰ ταῦτα ἀφείθη. Trad. Heimbach, IV, 717: Si servus meus coegerit me, ut eum manumitterem testamento, liber non fit: sicut nec is, quem non defendi in capitali crimine, quo postea absolutus fuit. (Se un mio schiavo mi avrà costretto affinché lo manometta attraverso il testamento, non sia libero: allo stesso modo, colui il quale non difesi in un giudizio capitale, dopo che fu assolto). Mi pare opportuno rilevare come il testo dei Basilici sia molto sunteggiato rispetto al corrispondente del Digesto e, peraltro, doveva essere calato in una ben diversa realtà socio economica. 149

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Commento La coincidenza di contenuto tra i due passi è evidente152. La ratio sottesa alla regola sembrerebbe essere quella per cui, nonostante il dominus avesse mostrato disinteresse per la sorte del suo schiavo, al punto da accettare il rischio di una perdita economica, qualora il servus fosse stato assolto, comunque sarebbe tornato sotto il dominium del padrone. In altre parole, la mancata difesa in giudizio del servus non avrebbe estinto – parrebbe – la proprietà sullo stesso. Ancora, l’ultima fattispecie analizzata è quella di declaratorie di libertà avvenute in contrasto con altre disposizioni di diversa natura. È preso in considerazione, dapprima, il caso di uno schiavo acquistato attraverso una compravendita in cui era stata inserita la clausola ne manumittatur, la quale, oggetto d’attenzione da parte dei principali giuristi severiani153, doveva essere apposta a motivo di punizione o vendette nei confronti del servus154. La violazione di tale clausola determina che la manomissione non produca i suoi effetti. Ciò ha portato taluni studiosi a parlare di clausola di carattere assoluto, cioè efficace erga omnes155: del resto, almeno in linea di principio, la violazione di una tale clausola avrebbe dovuto determinare l’insorgere della responsabilità contrattuale in capo all’acquirente nei confronti del venditore e non riverberare i suoi effetti sullo schiavo. Infine, l’ultima ipotesi di manomissioni, per dir così, inutiliter datae, è quella della dichiarazione di libertà effettuata contro la volontà del testatore o contro un ordine del preside di una provincia, cui, come opportunamente posto in rilievo156, doveva essere riconosciuto un siffatto potere.

Appendice P. Vindob. L. 59 + 92: Fr. 1 (col. 1 recto? – 2 verso?) Molto poco può dirsi in ordine a questi frustoli papiracei in ragione della esiguità delle porzioni di testo che emergono. Li si accoglie, come si diceva, in appendice al primo libro perché ove effettivamente risalissero alle Istituzioni marcianee, questa sarebbe la loro sede naturale, in quanto affrontano le questioni dello status personae forse connesse con le manomissioni. Dalle poche parole residue, apprendiamo che in essi fosse affrontata la capacità testamentaria dei latini e, forse, l’ipotesi di una schiava venduta con la clausola ne prostituatur157, nell’ambito della quale veniva menzionata una costituzione. Quanto alla possibile eventuale collocazione nel libro, si condividono le ipotesi avanzate dagli editori del papiro158 e cioè o all’interno della sezione concernente lo status hominum, o in quella relativa alle manomissioni. Peraltro, quest’ultima ipotesi mi pare più plausibile, se si ritiene che i due escerti sviluppassero un unico tema: potrebbe cioè essersi trattato di ipotesi sempre più particolari di manomissioni.

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Liebs 1964, 46; analogamente Dovere 2001, 62 nt. 30. Sicari 1996, 121 ss. 154 Impallomeni 1967, 90, il quale rileva come Sabino e Papiniano, come si evincerebbe da Pap. 27 quaest., D. 18.7.6pr. ne contestassero la validità, diversamente da Paolo e Trifonino secondo quanto risulta, rispettivamente, da Paul. 1 reg., D. 40.1.9 e da Tryph. 4 disp., D. 49.15.12. 155 Wilinsky 1974-75, 322 s.; Sicari 1996, 121 ss. 156 De Giovanni 1989, 37. 157 Su cui si veda McGinn 1990, 315 ss.; McGinn 1998, 292 ss. Si veda anche Sicari 1991, passim. 158 Fressura, Mantovani 2018, 626 ss. cui si rinvia anche per il dettagliato commento, part. 670 ss. 153

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Domenico Dursi

LIBRO SECONDO

1. Profili palingenetici Del secondo libro delle Istituzioni marcianee conosciamo tredici frammenti derivati dal Digesto, anch’essi dedicati al diritto delle persone, con particolare riguardo a matrimonio, tutela e alcuni frammenti concernenti il divieto in capo agli schiavi di citare in giudizio i propri domini. Inoltre, questo libro è quello che può maggiormente integrarsi grazie alle Istituzioni di Giustiniano. Da queste, infatti, ricaviamo ben 11 testi, tutti in materia di causae excusationis per la tutela o per la cura che presentano il duplice parametro individuato in sede di introduzione: almeno uno dei criteri ferriniani e, del pari, la vicinanza ad un testo di sicura derivazione marcianea. Qualche conferma di questo approccio ora risulta dalla coincidenza di due di siffatti testi (Inst. 1.25.9 e 1.25.16) con il frammento 2 (f. 1 recto col. 1 e verso col. 2) P. Vindob. L. 69+ 92 rr. 17 – 19 e 20 – 24a. Le righe 14 – 16 dello stesso documento, inoltre, consentono di integrare, come vedremo, Inst. 1.25.8. Infine, le righe 2530 (f. 2 recto col. 1) e le righe 30-35 (f. 2 verso col. 2) del frammento 2 del papiro permettono di cogliere ulteriori squarci del secondo libro dello scritto marcianeo, ma la difficoltà di ipotizzare una collocazione plausibile all’interno di esso ha indotto a inserire questi escerti in apposita appendice. Tutto ciò, se, certamente, non consente di verificare sempre la sussistenza degli ipsissima verba marcianei, indubbiamente permette di avere un quadro più completo dell’esposizione del giurista nelle materie indicate. Soffermiamoci sulla disposizione dei frammenti tratti dal Digesto. Hommel159 li dispone secondo l’ordine in cui compaiono nella raccolta di iura. Lenel160, nella sua ricostruzione, a mio avviso in maniera più condivisibile, ipotizza che i frammenti a noi conservati dai giustinianei, potessero essere suddivisi in due distinti titoli, il primo rubricato de iure nuptiarum, il secondo de tutelis. In sostanza, egli ricorre al criterio, pregnante, della divisione per argomenti. Bisogna, tuttavia, evidenziare come talvolta la collocazione leneliana di singoli frammenti non appaia condivisibile. A tal proposito, sorgono – a mio modo di vedere – talune perplessità rispetto al titolo de iure nuptiarum, sia in ordine alla composizione, sia in ordine alle sequenze.

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Hommel 1767, 401 ss. Lenel 1889.I, 653-654.

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Commento Quanto alla composizione, a me pare, infatti, che a questo titolo vada ricondotto anche il frammento tradito in Marc. 2 inst., D. 48.22.4 (n. 63 nella numerazione dell’autore tedesco). Il testo, su cui torneremo in apposito luogo, si occupa della conservazione della potestas in capo ai patres familias condannati alla relegatio in insulam. Lenel161 lo colloca, in apparenza fuori contesto, nel titolo – a suo avviso e condivisibilmente – dedicato alla tutela, benché il lacerto nulla dica al riguardo. Nella prospettiva dello studioso tedesco, probabilmente, il brano doveva essere stato ritagliato da un luogo del manuale dedicato ai casi in cui non si doveva ricorrere alla nomina di un tutore benché il pater fosse assente ed in concreto impossibilitato a prendersi cura del figlio. A ben vedere, potrebbe trattarsi di ipotesi per certi versi assimilabili a quelle di un tutore in esilio che non poteva occuparsi dei beni. Nello specifico, poi, Lenel include il frustolo tra un testo relativo al tutore testamentario che esegue un fedecommesso e rinuncia all’incarico e uno relativo alle ipotesi di uno schiavo che citi in giudizio il proprio dominus. A mio modo di vedere, tuttavia, sussistono argomenti per una radicale critica della collocazione leneliana sul punto, in quanto il testo – come si osservava – si occupa di relegatio in insulam. Quest’ultima era sanzione comminata, anche, a quanti avessero commesso ‘reati contro il matrimonio’162, per cui si potrebbe anche ipotizzare che il testo in esame fosse collocato tra quelli del medesimo libro concernenti i divieti di matrimonio e raggruppati da Lenel nel titolo de iure nuptiarum. In altre parole, potrebbe ritenersi che il testo seguisse quello tradito in Marc. 2 inst., D. 48.18.5 ove pure si parla di sanzioni nei confronti di chi abbia commesso incesto e adulterio. Questo frustolo precederebbe – a mio avviso – rispetto all’ordine leneliano, quello riportato in Marc. 2 inst., D. 30.128 e, tra i due, si collocherebbe il brano sulla relegatio in insulam. Del resto, tale ultimo affronta il tema della permanenza della potestas sui figli in capo al relegato, che, tuttavia, in quanto assente, non è in grado, in concreto, di prendersi cura di questi. Potremmo in ciò ravvisare un progressivo avvicinamento ai casi in cui il pater sia morto, quando, cioè, bisogna ricorrere alla tutela, non a caso argomento di seguito affrontato dal maestro severiano. Se così fosse, il testo sarebbe il terzo tra quelli a noi noti del secondo libro e precederebbe quello relativo a un divieto matrimoniale proprio del tutore di cui a Marc. 2 inst., D. 30.128 (frammento 55 nella numerazione leneliana), preambolo, per certi versi, del successivo titolo de tutelis. Non pochi dubbi, poi, genera la collocazione nel secondo libro del lacerto tradito in Marc. 3 inst., D. 26.1.9. Il testo, secondo quanto apprendiamo dall’inscriptio della littera Florentina, sarebbe stato escerpito dal libro terzo delle Istituzioni. Siffatta informazione è confermata anche dalla tradizione bolognese del Digesto163. Hommel164, in effetti, nella sua ricostruzione, si attiene all’indicazione ricavata dalla rubrica. Quale sia stata la ragione che ha indotto Lenel165 a discostarsi dal dato testuale non è difficile dire. Si tratta, infatti, di un testo in tema di sanzioni irrogate a chi, anche indirettamente, ha danneggiato un soggetto sottoposto a tutela. In ragione di ciò, probabilmente, lo studioso ha ritenuto di collocare il frammento al-

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Lenel 1889.I, 654-655. Fayer 2005, 337 nt. 467. 163 (Accursius Franciscus: Corpus iuris civilis: Digestum vetus, Lugduni, 1482) Marc. 1 inst., D. 26.1.9. 164 Hommel 1767, 402. 165 Lenel 1889.I, 654. 162

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Domenico Dursi l’interno del libro delle Istituzioni in cui più diffusamente è affrontato tale argomento, per l’appunto il secondo. Del resto, nel terzo libro, questo frammento rappresenterebbe una sorta di unicum, nel senso che l’argomento della tutela è sfiorato solo da un altro brano166 ivi allocato, la cui collocazione, però, è presto spiegata: esso, infatti, affronta la problematica dell’acquisto dell’appartenenza del pupillus in piena armonia con i testi che lo precedono e lo seguono. Benché la ricostruzione del Lenel appaia verosimile e meritevole di essere assecondata non si può, ad ogni modo, trascurare la circostanza che essa si ponga in contrasto con i dati univoci che emergono dalle fonti. Qualche criticità, a mio modo di vedere, potrebbe, infine, suscitare l’ultima sequenza di brani del libro secondo. In questo caso, il tema attiene a possibili controversie tra lo schiavo e il proprio dominus. Come si diceva, infatti, tutti i testi di questo libro o sono relativi al matrimonio o alla tutela. Diversamente, il tema della schiavitù è affrontato nel primo libro. Ad ogni modo, in assenza di diverse prove, bisogna prestar fede all’indicazione non equivoca dell’inscriptio. Del resto, non possediamo tutti i testi del secondo libro, dunque non siamo in grado di stabilire se vi potesse essere uno specifico titolo dedicato a questo particolare argomento, o, ancora, se questi frammenti rappresentassero un excursus o un approfondimento rispetto ad altro argomento affrontato in testi non conservati dai Compilatori. Pare, poi, condivisibile l’ordine interno individuato dal Lenel, in quanto segue lo schema, frequente in Marciano, di indicare una regola e specificarne le eccezioni. Qualche considerazione, infine, sulla collocazione degli 11 testi tratti dalle Istituzioni di Giustiniano di cui si diceva. Essi, infatti, in ragione dell’argomento trattato, verosimilmente, dovrebbero essere inclusi nella sezione dedicata alla tutela. Più specificamente, poi, non mi pare si ponga un problema di ordine dei singoli escerti, in quanto, in base al criterio individuato, essi, nelle Istituzioni giustinianee sono collocati poco prima o poco dopo testi di cui abbiamo il passo corrispondente nel Digesto. Alla luce di ciò, appare del tutto naturale sistemare i testi tratti dalle Istituzioni del VI secolo esattamente nella sequenza in cui appaiono rispetto al testo di sicura derivazione marcianea. Va precisato, tuttavia, come sia parso preferibile posporre i paragrafi di cui a Inst. 1.25.18-19, in materia di causae excusationis per la curatela, al termine della trattazione relativa alla tutela e ciò sia per non spezzare l’unità tematica della sezione, sia perché in Gaio, per quel che qui rileva, l’esposizione segue quest’ordine167. In alcuni casi, infine, è sembrato opportuno incastonare una parte del testo recuperato dalle Istituzioni giustinianee, direttamente al brano del Digesto. Ciò, sia pure con le cautele del caso, avrebbe l’ulteriore conseguenza di mostrare alcuni tagli operati dai commissari di Giustiniano nella riproduzione dell’opera. F. 13 – D. 23.2.57 Il testo si occupa delle limitazioni matrimoniali in capo ai figli di chi esercitasse funzioni di governo nelle province.

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Marc. 3 inst., D. 41.1.11: Pupillus quantum ad adquirendum non indiget tutoris auctoritate: alienare vero nullam rem potest nisi praesente tutore auctore, et ne quidem possessionem, quae est naturalis, ut Sabinianis visum est: quae sententia vera est. Per la traduzione si veda la sezione dedicata ai Fragmenta. 167 Gai. 1.198 ss.

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Commento In particolare, apprendiamo, infatti, che il figlio di colui che ricopra una carica in una qualche provincia non può prendere moglie. Si è, al proposito, sottolineato come, affinché il matrimonio fosse valido per il ius civile occorresse al filius il consensus del pater, con il che “nel testo marcianeo, (…), attraverso il divieto comminato al pater funzionario provinciale di dare il consenso alle nozze del figlio si vuole impedire che costui possa contrarre matrimonio valido agli effetti di legge”168. Si tratterebbe, tuttavia, di stabilire se il divieto di prestare il consenso fosse in generale, o riguardasse il matrimonio del figlio nella provincia ove il pater espletava le sue funzioni. Quest’ultima mi sembra l’ipotesi più ragionevole, in quanto l’idea che in coincidenza dell’incarico, il pater non potesse prestare il consenso in assoluto determinerebbe una limitazione eccessiva per il filius familias; del resto, di una tale, abnorme, limitazione non si coglierebbe la ragione a fronte di un matrimonio da celebrarsi in altro luogo dell’impero, se non quella di dare rilievo a un’impossibilità di fatto nel prestare il consenso, per vero, giuridicamente ininfluente, tanto più se si considera che in quel tempo la funzione del pater familias di acconsentire al matrimonio del filius andava scemando169. Occorre, inoltre, a mio avviso, indugiare sull’etiam che appare nel frammento. Esso, infatti, lascerebbe immaginare che prima di affrontare la questione dei divieti matrimoniali gravanti sui figli, nell’opera si discutesse dello stesso argomento con riferimento ai governatori medesimi170, questione, come noto, del tutto pacifica. Qualche conferma in tale direzione parrebbe derivare da un altro testo delle Istituzioni, Marc. 11 inst., D. 34.9.2.1171, ove, per quel che a noi qui interessa, si ricorda come anche il funzionario provinciale non potesse sposarsi nella provincia di sua competenza172. Se così fosse, il giurista avrebbe sottolineato come, né i funzionari, né i loro figli avrebbero potuto sposarsi nel luogo ove espletavano le loro funzioni. Il fondamento di una siffatta regola doveva forse rinvenirsi nella convinzione che la costituzione di legami familiari poteva incidere negativamente sullo svolgimento dell’incarico, intaccando – secondo questa impostazione – autorevolezza e imparzialità. Occorre, infine, rilevare come De Giovanni173 abbia letto il testo in una cornice più complessiva relativa alla natura e alla funzione dell’opera da cui è tratto. Ad avviso dello studioso, il brano, infatti, sarebbe un indizio nel senso dell’attenzione del giurista per il mondo provinciale che non sarebbe “né superficiale né occasionale”. F. 14 – D. 48.18.5 Marciano si sofferma ancora sulle conseguenze della violazione di un divieto matrimoniale. I casi esaminati in questo brano sono quelli della corruzione di una vedova o di una parente sposata con un altro uomo.

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De Giovanni 1989, 38. Arangio-Ruiz rist.1994, 442. 170 Dell’Oro 1965, 529, il quale rileva come il passo in esame si collochi nel solco giurisprudenziale volto a limitare la capacità matrimoniale dei funzionari delle province. 171 Marc. 11 inst., D. 34.9.2.1: Item si quis contra mandata duxerit uxorem ex ea provincia, in qua officium aliquid gerit, quod ei ex testamento uxoris adquisitum est divi Severus et Antoninus rescripserunt retinere eum non posse, tamquam si tutor pupillam contra decretum amplissimi ordinis in domum suam duxisset. (Allo stesso modo se taluno abbia preso una moglie contro le indicazioni della provincia nella quale gestisce qualche affare, i divi Severo e Antonino stabilirono per rescritti che non può trattenere ciò che ha acquisito per testamento dalla moglie, così come se il tutore avrà condotto presso la propria abitazione la fanciulla contro il decreto del più alto ordine). 172 De Giovanni 1989, 40. 173 De Giovanni 1989, 38 e 52. 169

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Domenico Dursi Volgiamo l’attenzione alle fattispecie considerate. In primo luogo, è affrontato il caso di chi insidi una vidua o una parente moglie di un altro uomo. In entrambi i casi – ricorda il maestro severiano – la conseguenza della condotta è rappresentata dalla deportatio in insulam174. Si tratta, infatti, di due crimini di identica natura: ambedue, in effetti, ledono il bene giuridico dell’onorabilità della donna. In particolare, poi, il giurista indica quali fattispecie criminose siffatte condotte integrerebbero. Afferma, infatti, che possono venire in rilievo il crimine di stupro e, inoltre, di incesto quando vi sia un rapporto di parentela e adulterio laddove la donna sia già legata in matrimonio. Val la pena, al riguardo, di sottolineare, infatti, come la circostanza che vengano richiamati tanto lo stuprum quanto l’adulterium, rende evidente che ormai, differentemente da quanto previsto dalla lex Iulia de adulteriis175, il secondo non ricomprendesse più il primo. Anzi, vi sono autorevoli testimonianze di giuristi severiani in tal senso176. Quanto alla vidua, occorre precisare che il termine, come ricorda Labeone riportato da Giavoleno, poteva indicare oltre che la vedova, anche la donna non sposata177. Dovendosi, in ragione di ciò, escludere l’adulterio e, con buona probabilità, l’incesto, considerato che non emerge dal testo il legame di parentela con l’uomo, si tratterebbe di stabilire quando fosse integrata la fattispecie dello stupro178. Qualche indicazione si ricava da un altro testo delle Institutiones marcianee, tradito in Marc. 12 inst., D. 25.7.3pr.179, da cui emergerebbe che stupra, nell’ottica del nostro, sarebbero tutti quei rapporti al di fuori del matrimonio

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Sulla deportatio e il matrimonio Schiavone 1967, 421 ss.; più recentemente Ravizza 2014, online. Branca 1958, 620. 176 Pap. 1 de adult., D. 48.5.6.1: Lex stuprum et adulterium promiscue et καταχρηστικώτερον appellat. Sed proprie adulterium in nupta committitur, propter partum ex altero conceptum composito nomine: stuprum vero in virginem viduamve committitur, quod Graeci φτορὰν appellant. (La legge promiscuamente e abusivamente usa stupro e adulterio. Ma propriamente l’adulterio è commesso con una sposata formandosi il nome in ragione del parto concepito da un altro: lo stupro, invero, è commesso nei confronti di una vergine o vedova, che i greci chiamano corruzione). Mod. 9 diff., D. 50.16.101pr.: Inter stuprum et adulterium hoc interesse quidam putant, quod adulterium in nuptam, stuprum in viduam committitur. Sed lex Iulia de adulteriis hoc verbo indifferenter utitur. (Taluni ritengono che tra lo stupro e l’adulterio vi sia differenza in questo, che l’adulterio si commette nei riguardi di una donna sposata, lo stupro nei confronti di una vedova. Ma la legge Giulia sugli adulteri usa questo vocabolo indifferentemente). Su questi passi si rinvia a Rizzelli 1987, 355 ss. e part. 380 ss.; Rizzelli 1997, 171 ss. Si veda anche Botta 2004, passim; Rizzelli 2016, 87 ss. 177 Iav. 2 ex post. Lab., D. 50.16.242.3: Viduam non solum eam, quae aliquando nupta fuisset, sed eam quoque mulierem, quae virum non habuisset, appellari ait Labeo (…). (Labeone dice chiamarsi vedova non solo colei che una volta fu sposata, ma anche quella che non avesse avuto marito […]). 178 Guarino 1943, 185 e 205, sostiene che stuprum non sia genuino. 179 Marc. 12 inst., D. 25.7.3pr.-1: In concubinatu potest esse et aliena liberta et ingenua et maxime ea quae obscuro loco nata est vel quaestum corpore fecit. alioquin si honestae vitae et ingenuam mulierem in concubinatum habere maluerit, sine testatione hoc manifestum faciente non conceditur. sed necesse est ei vel uxorem eam habere vel hoc recusantem stuprum cum ea committere: nec adulterium per concubinatum ab ipso committitur. nam quia concubinatus per leges nomen assumpsit, extra legis poenam est, ut et Marcellus libro septimo digestorum scripsit. (Può trovarsi nel concubinato sia una liberta altrui sia un’ingenua e soprattutto chi nacque in condizioni umili o chi trasse guadagno dal proprio corpo. Del resto se si preferisce avere in concubinato una donna libera di vita onesta, non si consente ciò senza renderlo manifesto attraverso un’attestazione, ma è inevitabile per costui o prendere quella come moglie o rifiutando ciò, commettere con lei il reato di illecito sessuale. Né è commesso dal medesimo adulterio attraverso il concubinato. Infatti poiché il concubinato venne riconosciuto per legge, la pena è al di fuori dell’ambito della legge, come anche Marcello scrisse nel settimo libro dei digesti). Sul testo, diffusamente, Sanna 2015, 49 ss. 175

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Commento che non costituiscono concubinato180. In sostanza, rapporti senza il consenso della vidua o relazioni occasionali181. Riguardo all’incesto182, è appena il caso di evidenziare, esso trova il suo elemento costitutivo nel vincolo di consanguineità e il suo fondamento – afferma Marciano – nella legge divina; pare chiaro, quindi, che il nostro giurista lo riferisse al caso del soggetto che instauri una relazione con la parente sposata con un altro; si configurerebbe, altresì, l’adulterio, in ragione del rapporto matrimoniale in essere della donna: da ciò, infatti, scaturirebbe la relazione extra coniugale. Trattandosi, poi, di crimine bilaterale, colpirebbe sia l’uomo, sia la donna sposata. Infine, non possiamo escludere che Marciano alludesse anche all’ipotesi dello stupro incestuoso, allorché la parente sposata con un altro uomo non fosse consenziente183. La chiusa del frammento è dedicata all’ipotesi in cui una delle condotte appena descritte sia posta in essere da uno schiavo. Costoro – apprendiamo – sono assoggettati alla tortura benché ciò rappresenti un danno per il dominus. F. 15 – D. 48.22.4 Il testo si occupa di relegatio in insulam, probabilmente qui affrontata in relazione alle implicazioni connesse alla lex Iulia de adulteriis che comminava per l’adulterio una siffatta sanzione184. Quest’ultima, come noto, costituiva una pena concretantesi nella permanenza forzata in un’isola, cui, tuttavia, non seguiva né la perdita della cittadinanza, né quella del patrimonio185. Inoltre, essa doveva considerarsi perpetua solo ove non fosse stato previsto un termine finale della permanenza coatta nell’isola186. Nello specifico, il maestro severiano afferma che, sebbene un pater sia stato condannato alla relegatio in insulam, perciò solo non perde la potestas, così come conserva ogni diritto, in quanto la pena consiste esclusivamente nel non poter lasciare l’isola. Del resto, è appena il caso di ricordare che la potestas si estingueva soltanto con la morte del pater familias187 o con la sua capitis deminutio. Il giurista ricorda, inoltre, come i condannati a una pena siffatta, conservano anche i loro beni, sempre che taluno non ottenga a mezzo di una sentenza di poter appropriarsi di una parte di questi. In riferimento all’ultima parte del frammento, da nam eorum in poi, sono stati

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Così Rizzelli 1997, 231. Inoltre, per quanto nel brano vi sia una sottolineatura della condizione vedovile della donna, non pare che in questo caso venga in rilievo il tempus lugendi, la violazione del quale, come noto, implicava altre sanzioni, quali l’infamia e l’incapacità di ricevere l’eredità, non già l’inefficacia del consenso prestato e la conseguente invalidità del matrimonio. Su questi temi Volterra 1933, 190. Più specificamente, Volterra 1935, 399 ss. Si veda anche Rasi 1947, 393 ss. 182 Guarino 1943, 175 ss. 183 Diversamente Guarino 1943, 183 ss. il quale esclude radicalmente l’ipotesi di concorso tra stuprum e incestum. 184 Santalucia 1998, 204; Solidoro Maruotti 2014, 8 ss. Sulle tematiche poste da questa legge, senza pretese di esaustività, si veda Raditsa 1980, 296 ss.; Venturini 1993, 25 ss.; Rizzelli 1997, passim; Rizzelli 2008, passim; Spagnuolo Vigorita 2010, 31 ss.; Sanna 2010-2011, 203 ss.; Sanna 2015, 43 ss. 185 Brasiello 1937, 292 ss. 186 Brasiello 1937, 292; Fayer 2005, 338 nt. 467. 187 Talamanca 1990, 129. 181

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Domenico Dursi avanzati dubbi circa la genuinità188 e la spia sarebbe l’espressione exilium perpetuum. Tale ultima, è bene precisare, ricorre più volte in Marciano (tre)189, e talvolta in altri giuristi severiani, in particolare Papiniano190 (ulteriore spia di una stretta dipendenza da parte di Marciano191) e Arrio Menandro192. Al riguardo, è stato rilevato come da questo testo di Marciano, letto congiuntamente con un altro del medesimo giurista, tratto dal primo libro sulle regole e tradito in Marc. 1 reg., D. 48.22.5193, emerga una chiara distinzione tra relegatio ed exilium194. A me pare, invece, che Marciano utilizzi in maniera omnicomprensiva il termine exilium, per indicare tutte quelle pene che consistevano nell’allontanamento coatto dalla patria. Diversamente, Paolo adottava una nozione di exilium assai più circoscritta195. Se, poi, non era previsto un limite temporale all’allontanamento coatto, il nostro parlava di exilium perpetuum, come emerge anche da Marc. 13 inst., D. 48.19.4 e da Marc. 14 inst., D. 48.8.1.5. Nel testo in esame, poi, la condizione degli esiliati viene, almeno in qualche misura, equiparata a quella dei relegati. Ciò mi induce a ritenere che, in questo caso, il riferimento a relegati potesse, verosimilmente, indicare un allontanamento temporaneo, nel corso del quale, la condizione del relegatus coincideva con quella dell’esiliato sine die. Un siffatto rapporto tra relegatio ed exilium perpetuum mi pare emerga anche dal già richiamato Marc. 13 inst., D. 48.19.4, ove la relegatio ad tempus è affiancata all’exilium perpetuum, il quale ultimo viene, poi, chiamato relegatio in

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Brasiello 1937, 284 e 338; De Villa 1953, 312 ss. Marc. 14 inst., D. 48.8.1.5: Sed et in eum, qui uxorem deprehensam in adulterio occidit, divus Pius leviorem poenam irrogandam esse scripsit, et humiliore loco positum in exilium perpetuum dari iussit, in aliqua dignitate positum ad tempus relegari. (Ma anche verso colui che uccise la moglie colta in adulterio, il divo Pio stabilì con un rescritto che deve essere irrogata una pena più lieve e ordinò che fosse condannato all’esilio perpetuo uno posto nella condizione più umile, uno collocato in altra dignità che fosse relegato a tempo). Marc. 13 inst., D. 48.19.4: Relegati sive in insulam deportati debent locis interdictis abstinere. et hoc iure utimur, ut relegatus interdictis locis non excedat: alioquin in tempus quidem relegato perpetuum exilium, in perpetuum relegato insulae relegationis, in insulam relegato deportationis, in insulam deportato poena capitis adrogatur. et haec ita, sive quis non excesserit in exilium intra tempus intra quod debuit, sive etiam alias exilio non obtemperaverit: nam contumacia eius cumulat poenam. et nemo potest commeatum remeatumve dare exuli, nisi imperator, ex aliqua causa. (I relegati o coloro che sono deportati in un’isola devono astenersi dai luoghi dai quali sono interdetti. Ricorriamo a questo diritto affinché il relegato non si inoltri in luoghi vietati. Altrimenti a un relegato a tempo è assegnato l’esilio perpetuo, al relegato in perpetuo il confino in un’isola e al deportato nell’isola la pena capitale. E così se qualcuno non andò in esilio quando doveva o non ottemperò altrimenti all’esilio. Infatti la sua contumacia aumenta la pena. Nessuno infatti può concedere agli esuli il congedo o il ritorno se non l’imperatore per qualche ragione). 190 Pap. 16 resp., D. 49.14.39pr.: Bona fisco citra poenam exilii perpetuam adiudicari sententia non oportet. (Non si devono assegnare beni al fisco attraverso una sentenza, in assenza di una pena perpetua all’esilio). 191 Supra, Introduzione all’opera. 192 Arr. Men. 1 de re mil., D. 49.16.4.3: Temporarium exilium voluntario militi insulae relegationem adsignat, dissimulatio perpetuum exilium. (Al soldato volontario l’esilio temporaneo viene commutato in relegazione in un’isola, la dissimulazione commuta la relegazione nell’esilio perpetuo). 193 Marc. 1 reg., D. 48.22.5: Exilium triplex est: aut certorum locorum interdictio, aut lata fuga, ut omnium locorum interdicatur praeter certum locum, aut insulae vinculum, id est relegatio in insualm. (L’esilio consiste in tre tipologie: o divieto di luoghi determinati, o un allontanamento assoluto in modo tale che vi sia divieto di qualsiasi luogo ad eccezione di uno determinato, o la destinazione in un’isola, cioè la relegazione in essa). Sul testo si veda Brasiello, 1937, 278 ss. 194 Sanchez-Moreno Ellart 2015, 32 ss. 195 Paul. 15 ad ed., D. 48.1.2: (…) nam cetera non exilia, sed relegationes proprie dicuntur: tunc enim civitas retinetur. (…). (infatti le altre non si dicono esili, ma propriamente, relegazione, perché allora si mantiene la cittadinanza). 189

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Commento perpetuum. In sostanza, appare verosimile che il giureconsulto considerasse exilium come categoria generale, e vi ricorresse anche al fine di evitare la ripetizione di un medesimo lemma (relegatio ad tempus / relegatio perpetua) in successione. Del resto, nel testo escerpito dal primo libro delle regole, il nostro giurista rilevava come la relegatio sia null’altro che una delle tre possibili ipotesi di esilio. Si può, dunque, in certa misura ritenere, almeno per quel che a noi consta, che Marciano sistemò compiutamente la materia delle pene consistenti nell’allontanamento coatto dalla città, forse riprendendo spunti da giuristi coevi. Era quest’ultimo, a ben vedere, l’elemento unificante, il denominatore comune, di una molteplicità di sanzioni che, pure, in concreto si articolavano in modo diverso. In ciò, dunque, Marciano è partecipe di quel grande restatement196 o, meglio, di quel lavoro di “consolidamento dottrinario”197 che caratterizzò l’operato dei giuristi severiani. In fin dei conti, i giustinianei, in questo caso, fecero propria l’impostazione di Marciano, posto che, come si è rilevato198, per essi l’exilium sarebbe l’allontanamento in genere. F. 16 – D. 30.128 Marciano prosegue nella disamina delle situazioni patologiche relative al matrimonio. Egli affronta, infatti, la fattispecie di un tutore che abbia preso in moglie, attraverso un raggiro, una pupilla a lui affidata. Il giurista ricorda come una siffatta condotta fosse vietata da un senatoconsulto intorno al quale egli non offre ulteriori indicazioni. Quasi certamente doveva trattarsi del provvedimento senatorio che vietava le nozze tra tutore e pupilla, e anche tra quest’ultima e il figlio del tutore199: era stato emanato sulla base di una oratio di Marco Aurelio e Commodo, la quale fu commentata da Giulio Paolo200. Non mi pare dubbio, poi, che doveva trattarsi di un tutor impuberum, considerato che nel testo ci si riferisce espressamente alla pupilla. Al riguardo, inoltre, a me pare che il matrimonio vietato doveva essere quello del tutore con la ex pupilla, cioè con una fanciulla precedentemente a lui affidata, subito dopo il raggiungimento da parte di questa della pubertas. In tal senso parrebbe deporre un altro luogo delle Istituzioni marcianee201, su cui torneremo, ove si fa riferimento al tutor vel curator fuit. D’altronde, è bene precisare, le nozze tra un uomo e una ragazza che ancora non aveva raggiunto la pubertà configuravano certamente iniustae nuptiae, con la conseguente inutilità di un provvedimento ad hoc202 per reprimere questo tipo di matrimonio. Non è questa la sede per soffermarsi sulla possibile ratio del suddetto senato-

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Schulz 1953, 198. Schiavone 2017, 398. 198 Brasiello 1937, 323. 199 Volterra 1969, 102; Fayer 2005, 153; Lamberti 2016, 19. 200 Conosciamo questo commento attraverso due passi riportati in Paul. l. sing. ad or. divi Severi et Commodi, D. 23.2.20 e in l. sing. ad or. divi Severi et Commodi, D. 23.2.60. 201 Marc. 10 inst., D. 48.5.7: Qui pupillam suam duxit uxorem contra senatus consultum, nec matrimonium est hoc et potest adulterii accusari, qui tutor vel curator fuit et intra vicensimum sextum annum duxit uxorem non a patre desponsam vel destinatam vel testamento denominatam. (Colui che prenda in moglie una fanciulla sottoposta alla sua tutela contro le disposizioni del senatoconsulto, non contrae matrimonio e può essere accusato di adulterio colui che fu tutore o curatore e entro il ventiseiesimo anno prese in moglie la fanciulla che non gli era stata promessa in matrimonio dal padre o destinata o indicata per testamento). 202 Borrelli 1997, 370. 197

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Domenico Dursi consulto. Tuttavia, in maniera del tutto cursoria, possiamo dire con Callistrato203 che il provvedimento sanzionava questo tipo di nozze per impedire che le pupille fossero circuite rispetto al patrimonio di famiglia da coloro che erano tenuti a rendere il conto della tutela gestita204. Il prosieguo del frammento, poi, si sofferma sulle conseguenze in materia di diritto successorio in capo al tutore incurante del senatoconsulto. Marciano, infatti, descrive e spiega la regola secondo cui nell’ipotesi di morte della moglie, il marito già tutore non può ricevere l’eredità nonostante sia stato istituito erede per testamento; viceversa, la moglie già pupilla può ricevere l’eredità in base al testamento del marito. Il giurista, quindi, fornisce la spiegazione di questa apparente disparità di trattamento. Essa è da rinvenirsi – afferma il maestro severiano – nel rilievo per cui il marito delinque nel momento in cui contrae nozze proibite e, dunque, è, a ragion veduta, punito, laddove la mulier, parte debole del rapporto, essendo stata vittima di un inganno, non è colpevole di alcunché. F. 17 – D. 26.1.9 Il testo, è stato osservato, utilizza quasi le stesse parole di un passo ulpianeo tratto dal liber singularis de officio praefecti urbi205 e si è ipotizzato che con una certa plausibilità i due giuristi avessero una stessa fonte, probabilmente la Epistula Severi ad Fabium Cilonem206 o, più in generale, un rescritto imperiale207. Veniamo al contenuto. Marciano, in un contesto in cui la tutela ha ormai assunto la funzione di garantire gli interessi del pupillus e, dunque di un onere208, afferma, in primo luogo, che devono essere puniti extra ordinem coloro che abbiano versato una somma di denaro per poter svolgere l’ufficio di tutore. Il testo non dice nulla circa il destinatario del denaro, che, tuttavia, con ogni probabilità, doveva essere un soggetto incaricato di nominare il tutore: un pater nel caso della tutela testamentaria, il pretore in quella dativa. Ma, ai fini del discorso

203 Call. 2 quaest., D. 23.2.64.1: Senatus consulti, quo prohibentur tutores et filii eorum pupillas suas ducere, puto heredem quoque tutoris extraneum sententia adprehendi, cum ideo prohibuerit huiusmodi nuptias, ne pupillae in re familiari circumscribantur ab his, qui rationes eis gestae tutelae reddere compelluntur. (Reputo che, nel senso del senatoconsulto con cui si vieta ai tutori ed ai loro figli di prendere in moglie le proprie pupille, sia incluso anche l’erede estraneo del tutore, in quanto esso ha proibito questo genere di nozze affinché le pupille non vengano raggirate riguardo al patrimonio di famiglia da coloro che sono tenuti a rendere loro i conti della tutela gestita). Sul punto si rinvia a Orestano 1942, 25 ss., per il quale la ratio sarebbe da rinvenirsi nella presunzione di violenza e raggiro da parte del tutore nella conclusione del matrimonio. Astolfi 1994, 90 ss. invece l’ha individuata nella soggezione della pupilla verso il tutore che le impedirebbe di chiedere il rendimento del conto. Per Borrelli 1997, 380, invece il rapporto tra tutore e pupilla sarebbe di pseudo filiazione e un eventuale matrimonio avrebbe costituito un legame incestuoso. Più recentemente, si rinvia a Sanna 2012, 125 ss., la quale, pure, è del parere che il divieto servisse ad impedire che il tutore non rendesse il conto. 204 Fayer 2005, 153. 205 Ulp. l. sing. de off. praef. urb., D. 1.12.1.7: Solent ad praefecturam urbis remitti etiam tutores sive curatores, qui male in tutela sive cura versati graviore animadversione indigent quam ut sufficiat eis suspectorum infamia: quos probari poterit vel nummis datis tutelam occupasse, vel praemio accepto operam dedisse, ut non idoneus tutor alicui daretur, vel consulto circa edendum patrimonium quantitatem minuisse, vel evidenti fraude pupilli bona alienasse. Per la traduzione, supra, Introduzione all’opera 4.3. 206 Burrillo Loshuertos 1978, 25. 207 De Giovanni 1989, 55; analogamente Reinoso-Barbero 1997, 215 s. Si veda Introduzione all’opera. 208 Infra.

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Commento che Marciano sta conducendo, il dato è del tutto secondario, in quanto l’angolo visuale è quello del procedimento sanzionatorio cui viene sottoposto il tutore. La ragione della pena, peraltro, appare abbastanza chiara: se un tale ha versato una somma di denaro per assumere un incarico che, indubbiamente, presenta una qualche gravosità, si deve presumere che voglia trarne qualche beneficio. Ciò avrebbe potuto determinare il rischio concreto del raggiro del minore e, comunque, una chiara ipotesi di conflitto d’interessi. La seconda fattispecie richiamata, poi, pure perseguita extra ordinem, è quella di chi ha ricevuto denaro per indurre la nomina di un tutore inidoneo. A me pare che in questo caso non era il tutore ad essere assoggettato alla procedura extra ordinem, quanto piuttosto colui che aveva un ruolo determinato nella scelta del tutore, il quale riceveva denaro per nominarne uno non in grado di curare al meglio gli interessi del pupillus. Sotto questo profilo, si deve, del resto, ricordare che regnante l’imperatore Traiano, era stata creata un’actio tutelae utilis, concessa ai pupilli contro magistrati municipali responsabili della nomina di tutori insolventi209 e, peraltro, con Marco Aurelio, oltre all’istituzione del praetor tutelaris, fu estesa a diversi magistrati la competenza alla datio tutoris. L’ultimo caso richiamato è quello del tutore che, con dolo, probabilmente in sede di rendimento del conto, aveva dichiarato un patrimonio inferiore a quello effettivo dell’infante o ne aveva alienato i beni con frode. È questa la tipica ipotesi di malversazioni del tutore a danno del pupillus. F. 18 – Inst. 1.14.4; D. 26.2.14 Il breve frammento sembrerebbe esprimere una regola generale in tema di tutela. Prima di analizzare il precetto esposto, giova, tuttavia, volgere l’attenzione su alcuni profili formali. Il testo adoperato per la composizione del Digesto, infatti, appare chiaramente tagliato, posto che è costituito da una sola proposizione subordinata, una causale introdotta da quia. Questa, peraltro, risulta utilizzata anche nelle Istituzioni giustinianee, precisamente nella parte finale del paragrafo 4 del titolo 14 del primo libro, ove, però, è collegata con una proposizione principale, in grado di fornirle senso compiuto. Ora a me pare estremamente ragionevole ritenere che quest’ultima sia riconducibile a Marciano e, pertanto, utilizzarla per integrare il testo del Digesto. Passiamo, ora, al contenuto del brano così come da noi integrato. In esso leggiamo che non si può assegnare un tutore per una singola cosa o uno specifico affare, in quanto questi viene assegnato per coadiuvare una persona in tutte le sue attività giuridicamente rilevanti. Viene cioè in rilievo la funzione dell’istituto, per così dire, onnicomprensiva. Si tratterebbe, peraltro, di capire la ragione di questa precisazione, che, forse, potremmo cogliere alla luce del brano precedente. Infatti, il giurista dopo essersi soffermato sulle ipotesi di malversazione ai danni del pupillus, ben avrebbe potuto sottolineare come tali condotte fossero da considerarsi tanto più gravi in ragione della funzione di protezione da svolgere verso la persona e non verso il patrimonio. Ad ogni modo, il breve lacerto in qualche modo racconta anche delle trasformazioni subite dall’istituto nel corso del tempo. Se, infatti, in epoca più risalente la tutela, specie nella forma legittima e testamentaria, era più assimilabile a un potere volto a tutelare gli interessi

209

Viarengo 1996, 110.

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Domenico Dursi di chi lo esercitava, con l’introduzione della tutela dativa la funzione fu quella di proteggere il pupillus210, con il conseguente mutamento di natura da potere a onere. Successivamente, i molteplici interventi di Adriano, prima, e Marco Aurelio, poi, furono tutti nel senso di richiamare all’ufficio della tutela e a contrastare i frequenti tentativi dei privati di sottrarsi a quest’onere211. Del resto, tra il II e il III secolo d.C., i giuristi compiono la trasformazione della tutela da officium in vero e proprio munus212. Quanto al tipo di tutela cui poteva riferirsi il brano, la circostanza che in esso si sottolinei la funzione di protezione della persona e non dei beni, che, in epoca diversa avrebbe lasciato pensare alla tutela dativa, non appare in questo caso indicativa. In età severiana, ormai, tutti i tipi di tutela si informavano a questa visione. Benché il lacerto sia utilizzato dai giustinianei nel titolo del Digesto de testamentaria tutela, e il testo gemino nelle Istituzioni del VI secolo pure appare in un titolo dedicato alla tutela testamentaria, a me pare che esso rifletta un principio riguardante la tutela in generale. F. 19 – Inst. 1.25.1-3 I testi che ci apprestiamo a discutere sono tratti dalle Istituzioni di Giustiniano, ma vi sono diversi elementi che potrebbero indurre a ritenere verosimile che siano stati tratti dalle Istituzioni marcianee. Essi, infatti, contengono citazioni di provvedimenti imperiali di Marco Aurelio in materia di tutela, aspetto oggetto d’attenzione da parte di Marciano; ma si può, altresì, riscontrare una citazione dai responsa di Papiniano che, come abbiamo segnalato213, è tra le opere più adoperate dal nostro giurista. Ma vi è di più: si tratta di testi che nella collazione di brani delle Istituzioni del sesto secolo si trovano immediatamente prima di un escerto di sicura derivazione marcianea, in quanto di esso abbiamo il corrispondente nel Digesto, (Marc. 2 inst., D. 27.1.21pr.) per l’appunto, di seguito analizzato. In sostanza, ricorre il parametro che abbiamo provato ad individuare al fine di ricondurre con qualche verosimiglianza testi delle Istituzioni giustinianee a quelle di Marciano. Certo, risulta impossibile affermare quale, da un punto di vista formale, sia stato l’intervento dei giustinianei, ma, in linea di massima, possiamo ascrivere il frammento al trattato del III secolo. Si ritiene, poi, opportuno riunire i tre paragrafi delle Istituzioni giustinianee, per la stringente connessione tematica e stilistica. In sostanza, questi testi costituirebbero ulteriori paragrafi della sezione, non scarna, dedicata alla tutela dei minori dall’opera di età severiana. Passiamo alle regole esposte. In primo luogo, è riportato un provvedimento di Marco Aurelio che concedeva la possibilità di chiedere ed ottenere la dispensa dall’esercizio della tutela quando si fosse stati incaricati di amministrare beni del fiscus214. Del resto, è stato rilevato215, l’esenzione dalla tutela

210

Talamanca 1990, 160 ss.; più recentemente, Brutti 2015, 153 ss.; Viarengo 2015, 7 ss. Viarengo 1996, 113 ss. 212 Solazzi 1912, 275 s. nt. 4; Cervenca 1974, 213 s.; Viarengo 1996, 130. 213 Introduzione all’opera. 214 Si veda Cervenca 1974, 181. 215 Viarengo 1996, 102. 211

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Commento era accordata a tutte le professioni che godevano della più alta considerazione. In quest’ottica, gli amministratori dei beni del fisco potevano liberarsi dalla tutela per il periodo in cui avessero espletato queste funzioni di pubblica utilità. Cessato l’incarico, venivano contestualmente meno le ragioni della dispensa, con la conseguenza che non si potesse evitare di gerire la tutela. Qualche parola sull’espressione in semestribus. Essa farebbe riferimento a raccolte semestrali di costituzioni imperiali. Si tratta di una prassi attestata nelle fonti solo per il periodo di Marco Aurelio, ed avrebbe avuto la funzione di agevolare la ricerca dei rescritti in un periodo caratterizzato da una copiosa produzione di questi provvedimenti216. Occorre, inoltre, osservare come il testo renda manifesta la crescente rilevanza dell’amministrazione del fiscus e di una connessa estensione di funzioni, per così dire amministrative217 all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio, il quale, come noto, molto si prodigò per definire la disciplina della tutela. Fu l’imperatore filosofo, infatti, ad introdurre un nuovo apposito magistrato, il praetor tutelaris, come apprendiamo dalla Historia Augusta218; fu lo stesso Marco Aurelio a riformare la materia delle excusationes sotto il profilo procedurale219; ancora, nell’ambito di un’oratio Marci stabilì gli atti per i quali si potesse adire il pretore tutelare anche nei giorni festivi220. In sostanza, almeno per quel che a noi consta, fu l’imperatore che più incise in tema di tutela degli impuberi. Il rescritto di cui è menzione nel passo, dunque, deve essere collocato nel quadro di una complessiva riforma dell’istituto. Il paragrafo successivo prosegue con un’ulteriore ipotesi di dispensa fondata su una ratio analoga a quella della excusatio poc’anzi discussa. Si tratta, infatti, sempre di un caso che trova fondamento nell’espletamento di funzioni di pubblica utilità da parte del nominato alla tutela o alla cura. Anzi, l’incipit del brano sembrerebbe avere il tenore dell’esposizione di una regola generale a supporto di quanto si era affermato poco sopra e di quanto ci si accingeva a descrivere subito dopo. Ivi, infatti, leggiamo che anche qualora già si gerisse la tutela o la curatela e, in un secondo momento, il tutore o il curatore fosse stato inviato in un luogo lontano, avrebbe potuto ottenere la dispensa temporanea221, una sorta di sospensione222. Nel periodo di assenza sarebbe stato nominato in sostituzione un curatore, il quale avrebbe cessato le sue funzioni al momento del rientro del titolare. In questa particolare ipotesi, peraltro, non avrebbe avuto luogo la vacatio di un anno che, invece, sarebbe spettata a colui che fosse stato chiamato a una nuova tutela. In sintesi, dunque, dal brano sembrerebbero emergere due di-

216 Su questi temi si veda Orestano 1937, 74 e nt. 254, per il quale sarebbe stato istituito un apposito ufficio con il compito di raccogliere le costituzioni in repertori chiamati semestria; più recentemente, Varvaro 2006, 381 ss. 217 Si veda, al riguardo, Introduzione all’opera §. 6. 218 SHA, Marcus Antoninus Philosophus, 10.11: Praetorem tutelarem primus fecit, cum ante tutores a consulibus poscerentur, ut diligentius de tutoribus tractaretur. (Per primo istituì un pretore tutelare, mentre in precedenza la designazione dei tutori era rimessa ai consoli, per garantire che la scelta dei tutori avvenisse con maggiore serietà). 219 Ulp. 1 de appell., D. 49.4.1.1: Si quis tutor datus fuerit vel testamento vel a quo alio, qui ius dandi habet, non oportet eum provocare (hoc enim divus Marcus effecit), sed intra tempora praestituta excusationem allegandam habet et, si fuerit repulsa, tunc demum appellare debebit: ceterum ante frustra appellatur. (Se taluno fu assegnato come tutore o in base a un testamento o da chi ha il diritto di nominarlo, non conviene che appelli [infatti il divo Marco stabilisce ciò], ma entro il termine stabilito ha una dispensa da allegare e se sarà rigettata, allora soltanto dovrà appellare: prima, invero, si appella invano). 220 Viarengo 1996, 113 ss.; più in generale, sul contenuto dell’oratio Marci, Arcaria 2003, passim. 221 Viarengo 1996, 129 nt. 27. 222 Luchetti 2004, 237.

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Domenico Dursi stinte discipline. Quella di un soggetto che veniva nominato tutore mentre stava svolgendo funzioni di interesse pubblico lontano dal luogo in cui avrebbe dovuto amministrare la tutela. In questo caso, vi era il diritto alla dispensa e alla dilazione di un anno per la nomina a tutore una volta cessato l’incarico. La seconda ipotesi, invece, riguardava coloro i quali gestissero la tutela o la curatela prima dell’incarico di pubblico interesse da espletarsi in un luogo lontano. In questo caso, nuovamente sussisteva il diritto alla dispensa, ma non già quello alla vacatio annuale, nel senso che la tutela riprendeva ipso facto non appena ultimate le mansioni. Da segnalare, infine, la citazione esplicita dei responsa di Papiniano che, come abbiamo provato a evidenziare223, costituisce, quasi, una costante dello scritto marcianeo. F. 20 – D. 27.1.21pr.-4 Il frammento è dedicato alla possibilità del tutore di non assumere l’onere della tutela attraverso il ricorso ad excusationes, cioè un motivo idoneo ad esonerarsi dall’incarico. L’attenzione di Marciano è, in certo modo, come già si è segnalato, figlia dei molteplici interventi imperiali in materia, soprattutto ad opera di Marco Aurelio, tutti caratterizzati dall’obiettivo di imporre l’onere della tutela e limitare il ricorso alle esenzioni224. Né questa tendenza era destinata ad invertirsi all’epoca dei Severi se Settimio rivendicava a sé il dovere di difendere i pupilli225. Passiamo alle ipotesi considerate dal giurista. In primo luogo, egli esclude che una lite con il pupillo possa essere una valida ragione da addurre per esimersi dalla tutela, salvo che oggetto del contendere sia stato l’intero patrimonio del pupillus o una parte consistente di esso. In questo caso, in effetti, il rischio di malversazioni sarebbe stato ben maggiore, stante la concretezza del conflitto d’interessi. In ragione di ciò, dunque, per evitare problemi successivi, nella fase del rendimento del conto, si riteneva preferibile evitare l’insorgere di una situazione di rischio. Il maestro severiano, poi, discute l’ipotesi di un tutore che non sia riuscito a provare una causa excusationis, addotta per liberarsi da una tutela, tra le diverse che aveva a disposizione. In tal caso – spiega Marciano – il tutore può ricorrere alle altre purché lo faccia entro il tempo stabilito. Da ciò potremmo forse desumere che si potesse decadere da questa facoltà. Non siamo, invece, in grado di affermare se il termine cui si fa riferimento nel testo sia relativo al procedimento, già avviato, nel quale far valere il motivo di giustificazione, o, invece, un termine entro cui, chi fosse stato nominato tutore di un impubere avrebbe dovuto far valere la sua excusatio. La circostanza che si parli di mancata prova di una di queste e della possibilità di provare le altre, sembrerebbe lasciar propendere per la prima ipotesi. Il testo prosegue con un’ulteriore ipotesi peculiare: quella di un tutore dativo chiamato ad assistere un pupillus i cui beni patrimoniali fossero dislocati in più province. In questo caso, Marciano spiegava ai suoi lettori che sebbene il tutore fosse stato designato per l’intero patrimonio, egli aveva la facoltà di esonerarsi dalla gestione dei beni collocati in un’altra pro-

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Introduzione all’opera § 5. Viarengo 1996, 120. 225 Mod. 1 exc., D. 26.6.2.2: Divus Severus Cuspio Rufino. Omnem me rationem adhibere subveniendis pupillis, cum ad curam publicam pertineat, liquere omnibus volo (…). (Il divo Severo a Cuspio Rufino. Voglio che sia chiaro per tutti che io impiego ogni mezzo per venire in aiuto dei pupilli, spettando ciò alla cura pubblica. […]). 224

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Commento vincia a oltre cento miglia dall’Urbe. È, infatti, compito del preside della provincia assegnare un tutore per i beni ivi situati226. La ragione di questa esenzione va, con ogni probabilità, individuata nella particolare gravosità dell’incarico insita nel dover amministrare beni a molta distanza e in province diverse. Inoltre, anche i senatori potevano esimersi dall’amministrazione dei beni di un pupillus collocati a oltre cento miglia da Roma. Il fondamento appare, anche qui, analogo alla facoltà di esonero prevista poche righe sopra per i tutori in generale. La regola, tuttavia, non coincide con quella ricordata per questi ultimi. Nel caso dei senatori, infatti, al fine di ottenere la dispensa, era sufficiente la distanza di 100 miglia da Roma, non serviva che i beni si trovassero altresì in un’altra provincia. La possibile spiegazione di questo ‘privilegio’, deve rinvenirsi, verosimilmente, nella circostanza che costoro dovevano svolgere altre e ben più importanti funzioni pubbliche in Roma e, dunque, non potevano dedicare tempo a gestire affari che avrebbero comportato anche il rischio di doversi allontanare da Roma per un tempo non brevissimo. Rispetto a questi ultimi due capoversi analizzati, infine, si è ricordato come si tratti di luoghi dedicati al mondo provinciale, che proverebbe una certa attenzione del giurista per quegli ambienti227. La chiusa del frammento, infine, sottolinea come sia ben possibile, in ragione di quanto il giurista ha appena affermato, avere due tutori contestualmente. È precisato, tuttavia, che il tutore nominato successivamente amministra beni diversi da quelli rimessi alle cure del tutore nominato in prima battuta, quelli appunto situati in province dell’impero ad oltre cento miglia da Roma. F. 21 Inst. 1.25.6; 8 – P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 14-16 – Inst. 1.25.9-10; 16 Si tratta di cinque ulteriori paragrafi, che si ritiene opportuno discutere congiuntamente ratione materiae, tratti dalle Istituzioni di Giustiniano, integrati con due righe di P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 14-16. Quanto all’attribuzione dei testi del manuale del VI secolo sono presenti i criteri proposti da Ferrini, ma sussiste uno stretto collegamento con un testo di sicura derivazione marcianea (Marc. 2 inst., D. 27.1.1pr.) posto poco sopra nell’esposizione giustinianea sia rispetto ai paragrafi 6, 8, 9, 10, sia rispetto al paragrafo 16 (Marc. 2 inst., D. 27.1.1.1). Peraltro, recenti ricerche228, sulla base di P. Vindob. L. 59 + 92 sembrerebbero confermare una siffatta attribuzione, specie con riferimento all’ipotesi della designazione del tutore per inimicizia di cui a Inst. 1.25.9 e 16, parte relativa ai termini per presentare l’excusatio che contempla una citazione di Scevola. Non si può tralasciare, infine, la chiara connessione di contenuto. I testi, infatti, discutono sempre questioni concernenti la possibilità che venga accordata la dispensa dall’espletamento della tutela. E, ancora una volta, si può osservare l’intervento di Marco Aurelio in materia229. Questi, infatti, sia quando resse le sorti dell’impero con Lucio Vero, sia quando restò unico imperatore, stabilì che anche la povertà fosse un valido motivo di excusatio. Tuttavia, dalla lettura, apprendiamo che doveva trattarsi di una

226

Su questi temi si vedano Grelle 2006, 61 ss. e Sciuto 2007, 349 ss. De Giovanni 1989, 40. 228 Mantovani 2017, 183; Fressura, Mantovani 2018, 619 ss. 229 Luchetti 1996, 118 ss., segnala, peraltro, come il titolo 25 del primo libro delle Istituzioni giustinianee si caratterizzi per il massiccio ricorso alla citazione di rescritti imperiali. 227

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Domenico Dursi causa di per sé inidonea, in quanto da essa doveva altresì scaturire l’impossibilità di far fronte all’onere che derivava dalla gestione della tutela. È, peraltro, il caso di ricordare come la medesima causa fosse richiamata da Paolo230, che passava sotto silenzio i provvedimenti imperiali, ma precisava come non sempre la povertà desse luogo all’esonero e da Ulpiano231, il quale, però, ricordava solo l’intervento dei divi fratres, senza soffermarsi sul fatto che il solo Marco Aurelio fosse tornato a esprimersi sul punto. Il secondo paragrafo accordava la dispensa a coloro che non avessero dimestichezza con le lettere. Occorre segnalare che tradurre l’espressione litteras nesciret o imperiti litterarum con il termine analfabeti potrebbe non essere del tutto congruo, in quanto presupporrebbe, anche per quell’epoca, un sistema di formazione in cui si imparasse pressoché contestualmente a leggere e scrivere. Si ritiene preferibile, pertanto, ricorrere a perifrasi meno pregnanti. Ad ogni modo, dal brano apprendiamo che fu Antonino Pio a introdurre una siffatta causa excusationis. Peraltro, interessante risulta soffermarsi sull’indicazione per cui non per forza la condizione di illetterato desse luogo ad un’incapacità di gestire gli affari. Ciò, infatti, se da un lato consente di prefigurare un soggetto comunque capace di far di conto, d’altra parte, pone in rilievo la circostanza che l’excusatio fosse accordata, come del resto era ovvio, nell’interesse di colui che fosse stato nominato tutore, non già del tutelato. Tuttavia, sul punto occorre segnalare una posizione in parte diversa di Modestino, il quale si esprimeva in questi termini: Mod. 2 exc., D. 27.1.6.19: Περί τῶν ἀγροίκων καὶ τῶν ταπεινῶν καὶ τῶν ἀγραμμάτων γράφει Παῦλος οὑτωσί· Mediocritas et rusticitas interdum excusationem praebent secundum epistulas divorum Hadriani et Antonini. eius qui se neget litteras scire, excusatio accipi non debet, si modo non sit expers negotiorum. Riguardo agli abitanti della campagna, ai poveri e agli illetterati, Paolo scrive così: «La mediocrità e la condizione di abitante della campagna talvolta valgono come causa di giustificazione secondo quanto stabiliscono le epistole dei divi Adriano e Antonino. L’essere illetterati non deve però dar luogo ad una causa di giustificazione, a meno che non si tratti di persona non pratica di affari».

Modestino richiama un’opinione di Paolo, tratta – come apprendiamo dai Fragmenta Vaticana232 – dal liber singularis de officio praetoris tutelaris, per cui, per quel che rileva ai nostri fini, la scarsa dimestichezza con le lettere costituisce una valida causa di giustificazione solo laddove si concretizzi anche in una incapacità negli affari. Una prima osservazione: sembrerebbe che anche Modestino accogliesse l’impostazione di Paolo, posto che nel testo non emerge nulla che possa lasciar ipotizzare il contrario. Ora, da più parti si è evidenziato come il testo

230 Paul. 2 sent., D. 27.1.40.1: Paupertas, quae operi et oneri tutelae impar est, solet tribuere vacationem. (Una povertà, non compatibile con le incombenze e con l’onere della tutela, di solito dà luogo all’esonero). 231 Ulp. lib. sing. exc., D. 27.1.7: Paupertas sane dat excusationem, si quis imparem se oneri iniuncto possit probare, idque divorum fratrum rescripto continetur. (La povertà costituisce senza dubbio causa di giustificazione, se si possa provare di essere incapaci all’incarico che si aggiunge, e questo è contenuto in un rescritto dei divi fratres). 232 Fr. Vat. 244. Paul. lib. sing. de off. praet. tut.: Mediocritas et rusticitas et domesticae lites interdum excusationes merentur ex epistulis divorum Hadriani et Antonini et fratrum ad Caerellium Priscum praetorem tutelarem. (La mediocrità, la scarsa cultura, le liti familiari, talvolta consentono l’esonero come si ricava dalle lettere dei divi Adriano e Antonino e dei divi fratres al pretore tutelare Cerellio Prisco).

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Commento in esame si porrebbe in contrasto con quello delle Istituzioni giustinianee233 attribuibile a Marciano che stiamo commentando. Infatti, se in quest’ultimo leggiamo che la causa excusationis opera a prescindere dalla capacità di colui che è nominato tutore di amministrare gli affari, diversamente, per Paolo e Modestino la condizione di illetterato per dar luogo a dispensa avrebbe dovuto implicare anche l’incapacità nella gestione degli affari. A me pare, tuttavia, che, verosimilmente, la divergenza potrebbe essere frutto di una diversa interpretazione che i giuristi davano degli interventi imperiali ove, plausibilmente, doveva essere indicata soltanto la causa di esonero. Del resto, si deve rilevare come la chiave di lettura proposta da Paolo e Modestino tenesse conto più delle ragioni del tutelato che non quelle del nominato alla tutela, benché le excusationes fossero previste nell’interesse di quest’ultimo. Infine, occorre ancora sottolineare come, tendenzialmente, in un solo caso si sarebbe potuta configurare l’ipotesi di un tutore incapace di gestire affari, quella del tutore legittimo, in quanto in tutti gli altri casi, la nomina di un tutore inidoneo avrebbe configurato quanto meno la malafede del soggetto che aveva provveduto alla nomina. In altre parole, sembrerebbe più conforme alla ratio delle excusationes la lettura attribuibile a Marciano, accolta nelle Istituzioni di Giustiniano. Come si segnalava in apertura, appare ragionevole integrare il paragrafo con P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 14-16. Dal documento ricaviamo un’ulteriore citazione del venerato Papiniano, e, forse un parallelismo istituito da quest’ultimo. In altre parole, potremmo desumere, pur con tutte le cautele del caso, come Papiniano segnalasse che così come gli illetterati non potevano svolgere la tutela, allo stesso modo non potevano espletare i munera derivanti dall’amministrazione di colonie e municipi234. Il successivo paragrafo coincide con P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (recto col. 1) rr. 17-19 con minime e non significative differenze testuali. Ivi è affrontato il caso di un padre che nomini nel testamento un tutore per inimicizia. Ciò costituisce ulteriore causa di dispensa dalla tutela235. Tracce di una siffatta causa excusationis si rinvengono anche in Trifonino236 e Modestino237, ove,

233

Ex multis, Albanese 1979, 471 e nt. 204; Fröschl 1987, 94 ss. Fressura, Mantovani 2018, 673 ss. 235 Viarengo 2015, 25 nt. 89. 236 Tryph. 14 disp., D. 26.3.8: In confirmando tutore hoc praetor inquirere debet, an duraverit patris voluntas: quod in facili est, si proximo mortis tempore tutores non iure vel curatores scripserit pater. nam si ante annos, ut spatio medio potuerit facultatium dati non iure tutoris a patre fieri deminutio, vel morum ante celata vel ignorata emersit improbitas, aut inimicitiae cum patre exarserunt (Nel confermare il tutore, il pretore deve indagare se la volontà del padre non sia venuta meno; la qual cosa risulta semplice, se il padre, in prossimità della sua morte, abbia indicato per iscritto, in modo non conforme al diritto, i tutori o i curatori. Se, infatti, anni prima, cosicché nell’intervallo di tempo abbia potuto verificarsi una diminuzione dei beni del tutore nominato dal padre difformemente dal diritto, oppure emerse la dissolutezza di costumi del tutore, in precedenza nascosta o ignorata, oppure si accesero inimicizie con il padre). 237 Mod. 7 diff., D. 26.2.4: Pater heredi instituto filio vel exheredato tutorem dare potest, mater autem non nisi instituto, quasi in rem potius quam in personam tutorem dare videatur. sed et inquiri in eum, qui matris testamento datus est tutor, oportebit, cum a patre datus, quamvis minus iure datus sit, tamen sine inquisitione confirmatur, nisi si causa, propter quam datus videbatur, in eo mutata sit, veluti si ex amico inimicus vel ex divite pauperior effectus sit. (Il padre può nominare il tutore per il figlio, sia ove lo abbia istituito erede, sia nel caso in cui lo abbia diseredato; la madre, invece, solamente per il figlio istituito, quasi che il tutore si consideri nominato più per il patrimonio che per la persona. Riguardo a colui che è stato nominato tutore con il testamento dalla madre, sarà però pure necessario indagare, mentre il tutore nominato dal padre, anche nei casi in cui sia stato nominato in modo meno conforme al diritto, è cionondimeno confermato senza indagine, a meno che la ragione, per la quale si considerava che fosse stato nominato, non sia mutata, per esempio se da amico sia divenuto nemico, o se da ricco sia divenuto più povero). 234

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Domenico Dursi però, parrebbe che l’inimicizia del padre nei confronti del tutore designato sia sopravvenuta alla confezione del testamento. Non siamo in grado di affermare se la differenza di prospettiva che emerge rispetto agli altri giuristi severiani sia da ricondurre a una posizione isolata di Marciano, oppure, più probabilmente, dipenda dalla diversità di fattispecie esaminate dai giuristi, oppure, ancora, risenta dell’intervento dei giustinianei. Dalla lettura della parte finale del brano apprendiamo che se il tutore nominato aveva promesso al padre di gerire la tutela nei confronti del figlio, il motivo di esonero non si sarebbe concretizzato. Peraltro, la promessa del soggetto designato come tutore spiegherebbe la ragione per la quale il pater lo avesse nominato nonostante l’inimicizia. Mi pare, dunque, che il testo delle Istituzioni di VI secolo consenta di individuare due ipotesi. La prima è quella di un pater che nomini tutore un soggetto con cui non si trovi in buoni rapporti, per arrecargli un qualche nocumento, nel qual caso può aver luogo la dispensa; la seconda è quella di un pater che nonostante l’inimicizia nomini tutore un soggetto che gli aveva formulato la promessa di svolgere i munera evidentemente prima che il rapporto si incrinasse. In quest’ultimo caso, l’esonero non poteva avere luogo. Infine, viene presentata un’ipotesi di esclusione della dispensa: si tratta del caso di un tale che aveva addotto a motivo della richiesta la circostanza che il padre dei fanciulli cui era stato assegnato come tutore, non lo conoscesse. Marco Aurelio e Lucio Vero con un rescritto affermarono che la ragione richiamata non fosse idonea a fondare l’esonero dall’onere. Anche in questo caso, giova segnalare come la medesima regola sia riaffermata da Modestino238, senza tuttavia che venga attribuita ai divi fratres. Lo squarcio prosegue, a mio modo di vedere, con la seconda parte di Inst.1.25.16, sovrapponibile con P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (f. 1 verso col. 2) rr. 20-24a salvo qualche marginale differenza, quale ad esempio il verbo al singolare (habeat) nel papiro, in luogo della forma al plurale (habeant) nel testo delle Istituzioni del VI secolo, o ancora, l’utilizzo di adnumeratione nel papiro in luogo di dinumeratione239. Ad ogni modo, vengono esposte alcune regole in tema di computo dei termini per chiedere la dispensa quando il tutore si trovi in un luogo diverso da quello in cui sia stato designato all’ufficio. Si tratta – viene specificato – di regole valide per tutti i tipi di tutela240. Nel dettaglio, apprendiamo che il tutore se si trova entro 100 miglia dal luogo della nomina, può presentare la richiesta di esonero nel termine di 50 giorni decorrente dal momento in cui ha appreso la notizia. Se, invece, il nominato risiede oltre le 100 miglia, viene fissata una regola per il calcolo del termine: si deve, cioè, considerare che si possano percorrere 20 miglia ogni giorno, cui debbono aggiungersi 30 giorni ulteriori. Così, ad esempio, se il designato si trovasse a 120 miglia, il termine per presentare la richiesta sarebbe di 6 giorni (20 miglia ogni dì) più 30 giorni, quindi, complessivamente, 36 giorni. Come si vede, il calcolo secondo la regola esposta avrebbe penalizzato coloro che si fossero trovati oltre le 100 miglia, i quali avrebbero avuto in alcune circostanze perfino meno giorni a di-

Mod. 6 exc., D. 27.1.15.14: ὁ φράσκων ἑαυτὸν ἄγνωστον εἶναι τῷ πατρὶ ἢ τῇ μητρὶ τοῦ ὀρφανοῦ οὐ διὰ τοῦτο ἀφεθήσεται. (Colui che sostenga di non essere stato conosciuto dal padre o dalla madre dell’orfano, non per questo 238

sarà dispensato). 239 Su tutto ciò si vedano Fressura, Mantovani 2018, 680 ss. 240 Sulla procedura per far valere la causa excusationis Viarengo 1996, 115 ss.; sul computo dei termini Luchetti 2004, 188 ss.

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Commento sposizione. Come apprendiamo da Modestino241, questo metodo di calcolo era stato sancito da una costituzione di Marco Aurelio, di cui non è menzione nel passo delle Istituzioni giustinianee. La questione non passò inosservata ai più attenti giuristi dell’epoca e, infatti, Scevola in un parere qui rievocato, aveva ritenuto che il termine non potesse essere comunque inferiore a 50 giorni. Peraltro, sempre Modestino ricorda come analogamente si fossero espressi Paolo ed Ulpiano. In sostanza, in argomento vi era stato un intervento ermeneutico chiarificatore della giurisprudenza rispetto a una costituzione imperiale che aveva creato non poche ambiguità. Un’ultima osservazione: benché non venga specificato il dies a quo della decorrenza dei termini, appare assai verosimile che anche oltre le cento miglia si dovesse fare riferimento al momento in cui si fosse venuti a conoscenza della nomina. F. 22 – D. 27.1.29pr.-1 Anche in questo brano, Marciano discute una peculiare ipotesi di esenzione del tutore. Si tratta, infatti, del caso di un tutore per una qualche ragione esiliato. In siffatta ipotesi – afferma il giurista – costui, se è stato assegnato continuativamente, ha una fondata ragione per chiedere di essere esonerato. Il motivo, di facile intuizione, si rinviene nel rilievo che un tutore assente non è in grado di svolgere le sue funzioni di integrazione di quella che oggi definiremmo ‘deficitaria capacità di agire’ del pupillo e, più in generale, di assistenza. Sulla base della medesima ratio, poi, il maestro severiano riconosce come si debba giustificare il tutore che, non avendo avuto contezza, in ragione dell’esilio, dell’‘infedeltà’ del cotutore, concre-

241 Mod. 4 exc., D. 27.1.13.2: Ἕτερον δὲ ἐκεῖνο εὑρίσκομεν ἐκ τῆς Μάρκου νομοθεσίας ζητήσεως ἄξιον· τῷ γὰρ ἐν αὐτῇ τῇ πόλει ὄντι ἐν ᾗ κεχειροτόνηται, ἢ ἐντός ἑκατὸν μιλίων πεντήκοντα ἡμερῶν ἔδωκεν ὁ νομοθέτης προθεσμίαν. τῷ δὲ ὑπὲρ ἑκατὸν μίλια διατρίβοντι καθ᾽ἑκάστην ἡμὲραν δεῖν ἀριθμεῖσθαι εἴκοσι μίλια ἐκέλευσεν καὶ ἔξωθεν τούτων ἄλλας τριάκοντα ἡμέρας προσέθηκεν εἰς δικαιολογίαν. ὅθεν συμβαίνει, ἐάν ᾖ τις ἀπὸ ἑκατὸν ἑξήκοντα μιλίων τὰς διατριβὰς ποιούμενος τοὑτῳ εἶναι προθεσμίαν ὄκτω καὶ τριάκοντα ἡμερῶν, ὄκτω μὲν τῶν ἑκατὸν ἑξήκοντα μιλίων, ὡς καθ᾽ἐκάστην ἡμέραν εἴκοσι μιλίων ἀριθμουμένων, τριάκοντα δὲ τὰς πρὸς τὴν δικαιολογίαν. ἔσται οὖν ἐν χείρονι τάξει ὁ πόῤῥωθεν διατρίβων τοῦ ἐντὸς ἑκατὸν μιλίων ὄντος ἢ ἐν αὐτῇ τῇ πόλει, εἴγε τοὑτοις μὲν ἀεὶ πεντήκοντα ἡμέραι προθεσμίας εἰσὶν, ἐκείνοις δὲ ἐλάττους. ἀλλ᾽εἰ καὶ τὰ μάλιστα τὸ ῥητὸν τοῦ νόμου ταύτην ἀποτελεῖ τὴν διάνοιαν, ὅμως ἡ γνώμη τοῦ νομοθέτου ἄλλο βούλεται. οὕτως γὰρ καὶ Κερβίδιος Σκαίβολας καὶ Παῦλος καὶ Δομίτιος Οὐλπιανὸς οἱ κορυφαῖοι τῶν νομικῶν γράφουσιν, φάσκοντες οὕτως δεῖν ταῦτα παραφυλάττειν,ὡς μηδέποτέ τινι ἐλάττω δίδοσθαι τῶν πεντήκοντα ἡμερῶν προθεσμίαν, τότε δὲ μακροτέραν, ὁπόταν ἡ διαρίθμησις τῶν ἐπὶ τῇ ὁδῷ ἡμερῶν προστιθεμένη ταῖς τριάκοντα ἡμέραις, ἃς πρὸς δικαιολογίαν ὁ νόμος δίδωσιν, ὑπερβαίνει τὰς πεντήκοντα ἡμέρας, οἷον ἐάν τινα φῶμεν ἀπὸ τετρακοσίων τεσσαράκοντα μιλίων διατρίβειν· (Tro-

viamo anche quest’altro di rilevante in una costituzione di Marco: infatti, a chi stia nella stessa città in cui è stato nominato, o dimori entro una distanza di cento miglia, il legislatore ha concesso un termine di cinquanta giorni, ma a chi risiede oltre le cento miglia ordinò di calcolare un giorno per ogni venti miglia e, oltre a questi, aggiunse altri trenta giorni per sostenere la sua causa. Ne deriva che per chi abita a centosessanta miglia, il termine temporale fissato è di trentotto giorni, otto per le centosessanta miglia, quanto viene calcolando venti miglia per ogni giorno, e trenta per perorare la causa. Chi, dunque, abita più lontano si troverà in una situazione peggiore rispetto a chi si trova nel raggio di cento miglia o nella città stessa, se è vero che per questi il termine è sempre di cinquanta giorni mentre per quelli è più breve. Ma sebbene le parole della legge abbiano in effetti questo significato, l’intenzione del legislatore era altra. Così, infatti, scrivono appunto anche Cervidio Scevola, Paolo e Domizio Ulpiano, i corifei dei giuristi, sostenendo che vadano osservate le regole di modo che a nessuno debba mai essere dato un termine inferiore a cinquanta giorni, ma uno più lungo allorquando la somma dei giorni di viaggio, aggiunta ai trenta giorni che la legge concede per perorare la causa, supera i cinquanta giorni, come se ci riferiamo a chi abita a quattrocentoquaranta miglia: costui, infatti, avrà ventidue giorni per il viaggio e altri trenta giorni per perorare la causa). Su tutto questo si veda Cervenca 1974, 188 ss.

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Domenico Dursi tantesi in atti posti in essere con dolo o colpa, non abbia sporto denuncia nei confronti di questi per il crimen suspecti tutoris, al fine di ottenerne la rimozione. F. 23 – D. 30.111 Il testo si occupa delle conseguenze della scelta del tutore di chiedere l’esenzione dall’ufficio della tutela per una parte dei beni del pupillo, ad esempio quelli collocati in provincia o in Italia. Più precisamente, questa volta – come si vedrà appresso – viene in considerazione il tutore testamentario, come del resto, nel frammento successivo. Si può pertanto ritenere che il brano in esame inauguri una breve sequenza sulle excusationes dei tutori testamentari. In particolare, Marciano ricorda l’intervento di un rescritto di Settimio Severo e Antonino Caracalla in forza del quale il tutore, che avesse richiesto e conseguito l’esenzione ricordata, si vedeva privato di ciò che gli era stato attribuito per mezzo del testamento. Per quanto il testo non lo specifichi, vi è da credere che l’atto mortis causa richiamato dovesse essere quello del genitore del pupillus. In esso, probabilmente, oltre ad essere contemplata la nomina del tutore, doveva essere stata assegnata a quest’ultimo una quota di beni a titolo – potremmo dire – di parziale ricompensa per l’onere derivante dallo svolgimento di questa particolare funzione. Il tutore, pertanto, perdeva le sue attribuzioni testamentarie in quanto, pur esercitando un diritto di excusatio, non aveva ottemperato alla volontà testamentaria242. F. 24 – D. 37.14.3 Il frammento affronta ancora problemi connessi all’excusatio tutelae. In particolare, Marciano discute il caso di un soggetto che, nominato tutore di un pupillus all’interno di un testamento a mezzo del quale gli era conferito altresì il legato di una schiava, con la preghiera di renderla libera, dopo essere venuto a conoscenza del legato con il fedecommesso, manomette la schiava e, al contempo, si esonera dallo svolgimento delle funzioni di tutore. Occorre sottolineare, al riguardo, come, con buona probabilità, la volontà del testatore, nel caso preso in esame, doveva essere quella di riconoscere al tutore, a titolo di ricompensa, o forse, di gratitudine per le mansioni svolte, i benefici derivanti dal rapporto di patronato nelle sue diverse articolazioni. Proprio in ragione di ciò – a me pare – Settimio Severo e Antonino Caracalla stabilirono a mezzo di un rescritto (non possiamo escludere che fosse lo stesso rescritto ricordato nel passo precedente, in ragione della ratio, pienamente coincidente tra le due decisioni) che il tutore dispensatosi perdeva i vantaggi del rapporto di patronato, essendo venuta meno la ragione per cui questi ultimi gli erano stati riconosciuti, sia pur attraverso una procedura indiretta. Peraltro, sembrerebbe emergere, quasi, un intento sanzionatorio da parte degli imperatori. Dalla scansione della condotta del tutor, del resto, parrebbe che egli si sia esonerato dalla tutela, dopo aver dato esecuzione al fedecommesso. Il tutore testamentario, cioè, agendo nel modo descritto, dimostrerebbe di non accettare la volontà del testatore, che non era quella di assegnargli la schiava, ma solo i benefici del patronato, inidonei, ai suoi occhi, come ricompensa per le mansioni svolte. In considerazione di ciò, non avrebbe dovuto beneficiare neppure di ciò che il testatore aveva per lui predisposto.

242

Viarengo 1996, 61.

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Commento F. 25 – Inst. 1.25.18-19 Si tratta di due brani estrapolati ancora una volta dalle Istituzioni giustinianee. Benché, come ovvio, risulti arduo stabilire se si tratti degli ipsissima verba di Marciano, non mancano elementi che inducono a ritenere verosimile trattarsi di testi escerpiti dalle Istituzioni del III secolo. In primo luogo, infatti, in essi rinveniamo citazioni di rescritti di Severo e Caracalla su un tema, le causae excusationis, cui il maestro severiano aveva dedicato non poca attenzione. In secondo luogo, essi sono collocati subito dopo un brano (Inst. 1.25.16) la cui parte iniziale è di sicura derivazione marcianea in quanto coincidente con Marc. 2 inst., D. 27.1.21.1. In questo caso, si pone, però, un’ulteriore questione. Infatti, i rescritti di cui è menzione nei due paragrafi delle Istituzioni imperiali sembrerebbero essere ricordati anche da Ulpiano: Fr. Vat. 200-201 (Ulp. l. sing. de off. pr. tut.): 200. Erit haec etiam excusatio, si quis se dicat tutelam alicuius administrasse et ad curam eius vocetur: nam invitum non esse compellendum suscipere imperator noster cum patre Polo Terentiano rescripsit. 201. Item si quis uxori suae curator datur, nam sicuti senatus censuit, ne quis eam ducat, cuius tutor vel curator fuit, ita uxoris suae non debere curam administrare divus Severus Flavio Severiano rescripsit. Vi sarà anche questa dispensa, se uno si sarà dedicato ad amministrare la tutela di qualcuno e sia chiamato alla cura dello stesso: infatti il nostro imperatore con suo padre rescrisse a Polo Terenziano che non si deve essere costretti ad assumerla controvoglia. Allo stesso modo, se taluno è dato come curatore a sua moglie, come il senato ha stabilito che nessuno sposi colei della quale è stato tutore o curatore, così il divus Severo rescrisse a Flavio Severiano di non dover amministrare la cura di sua moglie.

Non vi è dubbio che il giurista di Tiro, nel testo riportato nel paragrafo 200 dei Fragmenta Vaticana faccia riferimento a un rescritto di Settimio Severo e Caracalla sulla medesima materia e, tuttavia, emerge qualche diversità rispetto a quanto leggiamo nelle Istituzioni imperiali. Ivi, infatti, sembrerebbe che il contenuto dell’intervento fosse circoscritto al caso di tutori e curatori nominati nel testamento; invece, Ulpiano parrebbe ricollegare al provvedimento imperiale una portata più generale. Sul punto, in ben altra temperie di studi, è stata avanzata l’ipotesi che nel testo delle Istituzioni giustinianee vi fosse stata un’alterazione della portata del rescritto243. È stato pure ritenuto244 che potrebbe essere stato Ulpiano a generalizzare la disposizione imperiale, posto che, peraltro, la costituzione non faceva che chiarire come la causa excusationis si applicasse anche alla fattispecie della tutela e curatela testamentarie. Qualche problema in più si pone in riferimento al paragrafo 201, ove si riporta un provvedimento di identico contenuto a quello di cui a Inst. 2.1.19, ma mentre in queste ultime è attribuito sempre a Severo e Caracalla, in Fr. Vat. 201 risulta risalire al solo Severo. Per quanto non si possa escludere che i due provvedimenti ricordati nei Fragmenta Vaticana siano gli stessi cui si fa riferimento nelle Istituzioni imperiali245, si deve, allo stesso modo rilevare come le differenze ricordate potrebbero giustificarsi anche in ragione della diversità di interventi pure per più versi sovrapponibili.

243

Solazzi 1912, 27. Desanti 1995, 276. 245 Nasti 2013, 145 e 150. 244

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Domenico Dursi Sul presupposto della identità delle disposizioni imperiali ricordate che sarebbero per di più rievocate nelle Istituzioni di Giustiniano nella stessa sequenza in cui si rinvenivano nell’opera ulpianea cui risalgono i due paragrafi dei Fragmenta, si è ritenuto non potersi escludere che i giustinianei potessero aver adoperato, in questo caso, proprio lo scritto di Ulpiano sull’officium del pretore tutelare246. Ora, per quanto non vi siano certezze e la questione, allo stato, sia destinata a restare dubbia, a me pare vi siano anche elementi per ritenere verosimile l’ascendenza marcianea dei due testi delle Istituzioni imperiali. In primo luogo, come si segnalava, vi sono non irrilevanti differenze di contenuto, ma anche di stile tra i testi dei provvedimenti riportati nelle due opere: dunque, la stessa circostanza che si tratti degli stessi interventi imperiali, benché probabile, non assume i caratteri dell’assoluta certezza. Al di là degli aspetti già richiamati in apertura di questo commento per l’attribuzione dei paragrafi in questione a Marciano e, in paricolare la stretta connessione con un brano di certa derivazione marcianea, non si può, peraltro, tralasciare come per la composizione dell’opera isagogica, secondo quanto dichiarato da Giustiniano medesimo247, fossero stati adoperati, principalmente, i libri institutionum delle epoche precedenti. Volendo, poi, ammettere che i rescritti ricordati nelle Istituzioni fossero i medesimi su cui si soffermava Ulpiano, la circostanza per cui i due provvedimenti venissero citati nella stessa sequenza potrebbe trovare spiegazione, sia pur con tutte le cautele del caso, nella possibilità che nella trattazione dell’argomento si fosse creato, per così dire, una sorta di canone espositivo, per il quale subito dopo aver richiamato il rescritto sulla possibilità di non esercitare la curatela per chi avesse già gerito la tutela, si faceva riferimento a quello che consentiva al marito di rinunciare alla curatela della moglie, proprio perché, a ben vedere, poteva trattarsi di un’ipotesi fondata, in certa misura, su una analoga ratio. Ad ogni modo, benché la questione resti di incerta definizione, alla luce delle riflessioni esposte si ritiene preferibile accogliere il testo in questa palingenesi. Soffermiamoci, più da vicino, sulle regole che si ricavano dalla lettura dei testi. Appare, peraltro, utile leggere congiuntamente i due paragrafi delle Istituzioni in ragione della chiara connessione. Una prima considerazione. Vengono qui descritti motivi di dispensa relativi alla cura, non più alla tutela, la quale, comunque, viene in rilievo. Ciò rende evidente come anche per la curatela si fosse compiuta quella trasformazione in un ufficio non rinunciabile che si può osservare in materia di tutela248. Più nel dettaglio, in primo luogo, apprendiamo che chi abbia già gerito la tutela, può esimersi dallo svolgere le funzioni di curatore, anche laddove sia stato dato sia come tutore sia come curatore nel testamento dal pater del pupillus249. In quest’ultimo caso, è bene ricordare, il curatore individuato nel testamento avrebbe dovuto essere confermato dal pretore250. La fattispecie considerata, dunque, è quella di un fanciullo che, fuoriuscito dalla condizione di impubere, necessiti di un curatore, in quanto minore di 25 anni. Del resto, se anche si fosse trattato di prodigo o di pazzo, fino al compimento del venticinquesimo anno di età era co-

246

Nasti 2013, 147, la quale, per vero, ipotizza anche la possibile paternità marcianea. Imperatoriam § 6. Su tutto ciò si veda l’Introduzione all’opera. 248 Talamanca 1990, 174. Più in generale sui problemi posti dalla curatela si veda Sitzia 1973, 918 s. 249 Spunti in Solazzi 1912, 27; Cervenca 1974, 155 nt. 53; Desanti 1995, 274 ss.; Luchetti 1996, 121 nt. 160. 250 Talamanca 1990, 171. 247

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Commento munque già prevista una forma di curatela, divenuta generale con Marco Aurelio. Dalla lettura del brano, poi, sembrerebbe che fosse pacifico il divieto di imporre a un soggetto che aveva già svolto la funzione di tutore di espletare quella di curatore, purché la nomina non fosse avvenuta a mezzo di testamento. Qualche controversia, invece, dovette verificarsi proprio per l’ipotesi di tutori e curatori testamentari, tanto che fu necessario l’intervento di un rescritto di Severo e Caracalla che ribadì il medesimo principio. Si è rilevato, peraltro, che il contenuto del rescritto imperiale implicherebbe che il tutore testamentario nominato curatore potesse essere confermato in questo ruolo251. Passiamo al paragrafo successivo. In esso è discussa una particolare ipotesi di excusatio curae, quella del marito designato curatore della moglie. La circostanza che si potesse configurare una siffatta curatela, lascia supporre che il matrimonio fosse sine manu: diversamente, non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere alla cura trovandosi la moglie nella condizione di assoggettata a un potere del marito. Peraltro, mi pare verosimile che si trattasse di ipotesi di prodigalità o pazzia, in quanto, diversamente, come noto, la donna sarebbe stata assoggettata alla tutela muliebre, assai meno invasiva. Si tratterebbe di stabilire il significato dell’espressione licet se immisceat. Essa indicherebbe l’aver già intrapreso l’amministrazione della tutela252. In effetti, un’interpretazione letterale indurrebbe a leggervi una confusione tra il patrimonio del marito e quello della moglie che potrebbe discendere dall’aver già iniziato a svolgere la funzione di accompagnamento della parziale capacità di agire della donna. F. 26 – D. 48.10.7 Il testo apre una sequenza di tre brani, una ‘trilogia’, dedicata alle ipotesi di controversie tra un servo e il suo dominus. Analizziamo il brano sotto il profilo sostanziale. Marciano afferma che il servo non può citare in giudizio il proprio dominus, in quanto ciò non gli è consentito né dal diritto civile, né dal diritto pretorio e neppure nell’ambito delle cognitiones extra ordinem. Al riguardo, occorre precisare come, a ben vedere, i riferimenti al diritto civile e al diritto pretorio debbano, più puntualmente, essere intesi come rinvii al processo per legis actiones e al processo formulare, attraverso il ricorso alla sineddoche253. Questi tipi di processo, come noto, componevano l’ordo iudiciorum privatorum, cui venivano contrapposte le cognitiones extra ordinem. Intendere, qui, ius civile e ius praetorium come partizioni del ius e affiancarle alle cognitiones extra ordinem, avrebbe poco senso. Inoltre, è appena il caso di ricordare, gli schiavi sono privi di capacità processuale. Tuttavia, il nostro giurista precisa come intervennero dei provvedimenti in forma di rescritti emanati da Marco Aurelio e Commodo, in forza dei quali si concedeva allo schiavo l’azione per la soppressione delle tavole testamentarie nei confronti del dominus, laddove la doglianza fosse stata relativa alla distruzione o, come sottolineato254, alla falsificazione delle tavole che, tra l’altro, avrebbero disposto la sua manomissione. Si è, al riguardo, evidenziato come l’utilizzo nel testo dell’avverbio favorabiliter renderebbe chiara la peculiare natura di questo intervento255, se non le ragioni di

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Desanti 1995, 275. Luchetti 1996, 121 nt. 161. 253 Diversamente Robleda 1976, 69. 254 Marino 1988, 661. 255 De Giovanni 1989, 56. 252

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Domenico Dursi equità alla base del pronunciamento imperiale256, fondate sul diritto naturale. Dal testo, dunque, emerge come la prima eccezione alla regola generale fu sancita da interventi imperiali, peraltro, in un contesto in cui la condizione dello schiavo conosceva, come noto, progressivi miglioramenti. F. 27 – D. 48.12.1 Il testo contempla una seconda eccezione alla regola per cui il servo non può citare in giudizio il suo dominus. In questo caso, la possibilità che il servo possa citare in giudizio il suo dominus sembrerebbe risiedere su ragioni, per così dire, di pubblico interesse257. Proprio in ragione di ciò parrebbe favorita la delazione, di modo che anche agli schiavi veniva riconosciuto un ruolo nella tutela degli interessi pubblici. Tale era, infatti, l’esigenza di contrastare condotte idonee ad arrecare danno al sistema dell’approvvigionamento pubblico. Di tutta evidenza risulta la diversità di questa eccezione rispetto alla prima ricordata dal giurista, che risiedeva su ragioni di equità volte a garantire un interesse privato. Quanto alle condotte dannose per l’annona – è bene ricordare – vi rientravano, secondo la previsione della lex Iulia de annona258, anche gli accordi volti a determinare un rialzo del prezzo del grano, oltre che, con buona probabilità, la contraffazione degli strumenti di misurazione. In ragione di ciò, come è stato posto in rilievo259, nell’ambito della cognitio extra ordinem del praefectus annonae260 fu estesa anche ai servi la possibilità di esercitare il diritto di accusa. Ciò doveva, da un lato, svolgere una funzione deterrente, in quanto chi poneva in essere tali condotte poteva essere facilmente scoperto e denunciato; dall’altro, garantire un più diffuso contrasto di queste pratiche illecite e dannose per la collettività. F. 28 – D. 40.1.5pr.-1 Si tratta dell’ultimo brano della ‘trilogia’ relativa alle liti giudiziarie tra servo e padrone. Marciano, in questo lacerto, rendeva edotti i suoi lettori di un’ultima eccezione alla regola generale per cui i servi non possono citare in giudizio i loro padroni. Si affronta, a ben vedere, un’ipotesi abbastanza complicata. Il caso prospettato è, infatti, quello dello schiavo che acquisti, attraverso le sostanze del suo peculio, la propria libertà, rectius, la promessa del dominus di manometterlo. In effetti, è appena il caso di ricordare come in punto di stretto diritto, il peculio del servo, pur essendo nella disponibilità di fatto dello schiavo, in linea teorica era di proprietà del dominus medesimo. Inoltre, il servo non aveva alcuna capacità negoziale, dunque, non avrebbe mai potuto porre in essere un valido negozio con il suo dominus. È, tuttavia, opportuno richiamare l’esistenza di una prassi secolare, almeno fin dalla tarda repubblica, che consentiva questo tipo di rapporti, che hanno rappresentato la genesi delle obbligazioni

256

Gualandi 1963b, 143. Pollera 1991, 405; su tutto ciò si rinvia a Scevola 2012, 257 ss. 258 Ulp. 9 de off. proc., D. 48.12.2pr.: Lege Iulia de annona poena statuitur adversus eum, qui contra annonam fecerit societatemve coierit, quo annona carior fiat. (Dalla legge Giulia sull’annona è stabilita la pena contro colui che avrà operato contro l’annona o avrà fatto monopoli per i quali l’annona diventi più cara). 259 Höbenreich 1997, 191 ss. 260 Sui problemi relativi a siffatta competenza del praefectus, si rinvia a Scevola 2012, 264 ss. 257

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Commento naturali261. Significativo, del resto, – a me pare – che il giurista faccia riferimento al fidem confugit. Siffatta espressione potrebbe indicare la semplice affidabilità delle parole e dei comportamenti del dominus o, anche, un giuramento, con la conseguente assunzione di un obbligo di carattere, per così dire, religioso, stante, nel caso di specie, la non configurabilità di un obbligo giuridico262. In altre parole, l’unico possibile fondamento dell’operazione descritta, non poteva che essere il prestar fede alla parola data da parte del dominus. In ragione di ciò, al servo veniva riconosciuta la capacità di stare in giudizio contro il suo dominus, a Roma dinnanzi al praefectus urbi, in provincia davanti al preside della stessa. Tale ultima precisazione, è stato rilevato, manifesterebbe la costante attenzione del giurista per il mondo provinciale263. Marciano, poi, ricorda come questa regola risalisse ad alcune costituzioni imperiali di Marco Aurelio e Lucio Vero. Con buona probabilità, doveva trattarsi dell’Epistula divorum fratrum ad Urbium Maximum di cui è menzione anche in Ulp. 6 disp., D. 40.1.4pr.264, che si occupava, appunto, di chi avesse acquistato la libertà attraverso i propri averi. Gli imperatori – apprendiamo – al contempo, probabilmente al fine di scongiurare accuse tendenziose, prevedevano sanzioni severissime per lo schiavo che avesse intentato il processo e fosse risultato soccombente. In questa ipotesi il servus era condannato ai lavori forzati in miniera, sempre che il dominus non avesse voluto riprenderlo e comminargli una pena più dura, cioè la tortura e la morte. Marciano, infine, si sofferma su un’ultima delicata questione. Egli, infatti, ricorda come, qualora lo schiavo avesse vinto la causa e ne fosse stata dichiarata la libertà, sarebbe stato necessario nominare un arbitro per definire i conti con il vecchio dominus o con il suo erede. Quest’ultimo riferimento lascia aperte due ipotesi: in primo luogo, il caso che, in base all’accordo, la manomissione si sarebbe dovuta porre in essere a mezzo del testamento; in secondo luogo e più plausibilmente, l’ipotesi che il dominus fosse morto, ma la controversia e, nella specie, la definizione dei conti, proseguisse nei riguardi del suo successore. La necessità di nominare l’arbitro doveva discendere, probabilmente, dalla possibile confusione patrimoniale che poteva verificarsi tra i beni del dominus, quelli del peculium versati al dominus quale ‘prezzo’ della manomissione e, infine, i beni ancora rientranti nel peculium, su cui – come si ricordava – continuava a esistere una, sia pur teorica, appartenenza in capo al dominus. L’arbitro, dunque, aveva l’arduo compito di districare questa ingarbugliata matassa.

Appendice P. Vindob. L. 59 + 92 Fr. 2 (f. 2 recto col. 1) rr. 25-30 – (f. 2 verso col. 2) rr. 30-36 La prima parte dell’escerto riporta la citazione di un rescritto di Settimio Severo e Caracalla di cui è difficile ipotizzare il contenuto. La riga 26 potrebbe invece lasciar pensare che ove il

261

Talamanca 1990, 529. Su questi temi si rinvia a Fiori 2008, 237 ss. e bibliografia ivi citata 263 De Giovanni 1989, 57. 264 Ulp. 6 disp., D. 40.1.4pr.: Is qui suis nummis emitur epistula divorum fratrum ad Urbium Maximum in eam condicionem redigitur, ut libertatem adipiscatur. (Colui che si compra con suo denaro, in base ad un’epistula dei divi fratres ad Urbio Massimo, è posto in condizione di poter acquistare la libertà). 262

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Domenico Dursi tutore aggiunto non avesse denunciato il prior tutor, avrebbe risposto con i propri beni in concorso con quest’ultimo265. Interessante, poi, la presenza della rubrica de tutore honorario, un unicum nella letteratura giuridica romana a noi nota, ma come sottolineato dagli editori del papiro, non è possibile affermare se sia stata fissata da Marciano o da editori successivi266. Difficile comprendere, poi, la ragione per la quale Marciano dopo aver discusso le causae excusationis tornasse a soffermarsi sulle tipologie di tutori. Ciò potrebbe trovare spiegazione nel rilievo che il tutore onorario rappresentasse una figura particolarissima di tutela o, ancora, nella possibilità che il foglio II del papiro precedesse il foglio I267. Quanto alla parte finale, si può forse desumere che Marciano discutesse l’ipotesi di un tutore testamentario confermato dal pretore per l’esercizio della querela inofficiosi testamenti per il caso di diseredazione del pupillus, fattispecie affrontata anche in Pap. 4 resp., D. 26.2.26.2268.

265

Così Fressura, Mantovani 2018, 686. Fressura, Mantovani 2018, 687. 267 Fressura, Mantovani 2018, 631. 268 Fressura, Mantovani 2018, 631 s. e 688 ss. 266

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Commento

LIBRO TERZO

1. Profili palingenetici Il terzo libro delle Istituzioni si apre con la classificazione delle cose riportata in Marc. 3 inst., D. 1.8.2pr. L’argomento ha un indubbio carattere introduttivo. È appena il caso di ricordare, infatti, come questo schema espositivo abbia un illustre precedente in Gaio269. Infatti, come noto, questi apriva il secondo commentario delle sue Istituzioni con la classificazione delle res. Appare, poi, abbastanza chiaro che il testo riportato in Marc. 3 inst., D. 1.8.2.1 nell’‘originale’ marcianeo seguisse, immediatamente, quello contenente l’elencazione generale. Ciò, in quanto, probabilmente Marciano, per ragioni, per così dire, di simmetria espositiva, iniziava la descrizione delle caratteristiche e del regime delle singole categorie di res, seguendo l’ordine in cui le aveva presentate nella iniziale partizione. Se così fosse, posto che, nel manuale marcianeo, per le ragioni che vedremo in sede di commento a Marc. 3 inst., D.1.8.2pr., doveva essere contemplata la categoria delle res publicae, collocata subito dopo le res communes omnium, secondo ciò che leggiamo nelle Istituzioni di Giustiniano270, l’incedere del lavoro di Marciano parrebbe essere stato il seguente: descrizione delle res communes omnium, quindi, res publicae, res universitatis, res nullius e res singulorum. Una qualche conferma, del resto, giungerebbe dalle Istituzioni di Giustiniano, che sul punto riprendono, quasi pedissequamente, quelle di Marciano271 e seguono questa scansione argomentativa. Di più: reputo valida la scelta leneliana272 di presentare unitariamente i testi traditi, rispettivamente, in Marc. 3 inst., D. 1.8.2.1 e Marc. 3 inst., D. 1.8.6pr. Tale ultimo frammento, non utilizzato nell’opera isagogica di Giustiniano, invece, nel Digesto segue il lacerto di cui a Marc. 3 inst., D. 1.8.4 sempre relativo al lido ma che si conclude con il richiamo di alcune res publicae. Esso, infatti, alla luce di quanto osservato, avrebbe potuto introdurre il paragrafo relativo a queste ultime res. Di diverso avviso Hommel273, che si attiene all’ordine digestino, da cui discende una diversa disposizione dei frammenti.

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Gai. 2.1 e ss. Vedi supra. 271 Inst. 2.1.1: Et quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aer et aqua profluens et mare et per hoc litora maris. (…). (E così per diritto naturale sono comuni di tutti queste: l’aria e l’acqua che scorre e il mare e in ragione di ciò i lidi del mare). 272 Lenel 1889.I, 655. 273 Hommel 1767, 402. 270

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Domenico Dursi Anche la collocazione di Marc. 3 inst., D. 1.8.6.1 individuata dal Lenel appare condivisibile, in quanto conforme al criterio testé individuato. Si condivide, altresì, la scelta dello studioso tedesco di accludere al testo tradito in Marc. 3 inst., D. 1.8.6.1, quello di cui a Marc. 3 inst., D. 2.4.23, in quanto in esso è riportata la regola generale che disciplina la citazione in giudizio del liberto nei confronti del patrono. Il richiamo, a ben vedere, doveva rendersi necessario, in quanto il giurista aveva appena descritto un’eccezione ad essa per chiarire la peculiare natura dei beni di pertinenza delle universitates. Più problematica appare, invece, la collocazione del testo di cui a Marc. 3 inst., D. 50.12.4 in quanto, in questo caso, l’opzione leneliana solleva non poche perplessità. Nel testo si affrontano questioni inerenti alla pollicitatio, una promessa unilaterale idonea a produrre obbligazioni. Proprio questa circostanza impone, a mio avviso, alcune riflessioni. Come si osservava in sede di Introduzione all’opera, a me pare che il lacerto rappresenti una spia della trattazione nello scritto di Marciano delle obbligazioni274. Per le ragioni sottolineate in quella sede, riterrei plausibile che il frammento si collocasse nella seconda parte di questo libro, e nel dettaglio, sarebbe l’ultimo tra quelli a noi noti. Il maestro severiano nel terzo libro, infatti, completati i diritti reali, avrebbe discusso le obbligazioni. In ciò vi sarebbe una coincidenza con la ricostruzione di Hommel275, il quale chiudeva il terzo libro con questo frammento, in conformità del criterio da lui adoperato di collocare i testi nell’ordine in cui essi appaiono nel Digesto. Nonostante la diversità dalla sistematica gaiana, poi accolta nelle Istituzioni di Giustiniano, un precedente rispetto all’impostazione marcianea potrebbe rintracciarsi in Fiorentino. Questi, infatti, nel suo manuale che per mole (12 libri) si avvicina a quello di Marciano, nel sesto libro si occupava dei diritti reali, nel settimo e nell’ottavo delle obbligazioni e posponeva le successioni dal libro decimo in poi276. Per quanto, come ovvio, si tratti di semplici ipotesi, potrebbe, allora, prospettarsi che, allo stesso modo, Marciano avesse organizzato il suo lavoro, e, dunque, come si diceva, collocare il testo sulla pollicitatio, alla fine del terzo libro. Merita, a mio avviso, qualche osservazione la presenza in questo libro di un testo in materia di associazioni, quale quello trádito in Marc. 3 inst., D. 47.22.1. Non siamo, infatti, in grado di affermare con certezza se il giurista severiano affrontasse l’argomento, che certo rientrava tra quelli di suo interesse, considerato che vi si soffermava anche nel secondo libro sui giudizi pubblici, come apprendiamo da Marc. 2 iud. publ., D. 47.22.3, oppure, come sembrerebbe ipotizzare il Lenel, vi si soffermasse soltanto come excursus nell’ambito di un discorso in cui il giurista avrebbe considerato i beni dei collegia alla stregua di res universitatis277. Per quanto ci si debba limitare alle congetture, mi pare di una certa plausibilità l’impostazione dello studioso tedesco, che parrebbe confermata anche dall’incedere compendioso del passo278. Tuttavia, poiché dal tenore letterale dei brani a nostra disposizione non risulta che Marciano considerasse res universitatum i beni delle associazioni, sarebbe preferibile, a mio avviso, parlare, al più, di assimilazione per la sussistenza, verosimilmente, di tratti comuni tali da giustificare una trattazione ravvicinata.

274

Analogamente Pietrini 2012, 77 ss. Hommel 1767, 403. 276 Su questi problemi si rinvia a quanto osservato supra, Introduzione all’opera. 277 Lenel 1889.I, 655 nt. 6. 278 Per vero, tale rilievo ha indotto Randazzo 1991-1992, 80 ss., a ritenere il testo quanto meno epitomato. 275

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Commento Ancora. Corre l’obbligo di avanzare qualche dubbio rispetto alla scelta di Lenel279 di non includere il frammento di cui a Marc. 3 inst., D. 41.3.39 tra quelli che egli raccoglie sotto la rubrica de adquirendo rerum dominio. La ipotetica ragione di una tale discutibile scelta sembrerebbe risiedere nel rilievo che, probabilmente, l’autore tedesco doveva ritenere il suolo inusucapibile di cui è questione, un locus religiosus. In ragione della impossibilità di stabilire, in base al dato testuale, se si trattasse di loci religiosi, mi pare più semplice immaginare che Marciano stesse discutendo dei modi di acquisto della proprietà e si stesse soffermando su alcune ipotesi peculiari o eccezionali di inapplicabilità dell’istituto dell’usucapione. Del resto, non soltanto i loci religiosi erano inusucapibili. Tanto premesso, se davvero il terzo libro delle Istituzioni marcianee contemplava una sezione sui modi di acquisto della proprietà, certamente in esso sarebbe stato ricompreso il testo in esame. Interessante, poi, il rilievo che nel terzo libro un certo numero di frammenti siano dedicati alla materia fiscale. Probabilmente, anche in questo caso, Marciano si stava dilungando in uno dei suoi excursus che andava a lambire la materia fiscale, o forse si stava soffermando sull’acquisto della proprietà da parte del fiscus. In tal senso, a mio modo di vedere, si spiega la scelta – condivisibile – del Lenel280, di collocazione del testo sul crimen expilatae hereditatis: infatti, come è stato sostenuto281, l’introduzione del crimen si rese necessaria in ragione dei divieti di accettare l’eredità previsti a tutela delle ragioni del fiscus. Infine, nella ricostruzione del Lenel282 gli ultimi testi andavano a costruire un blocco relativo all’usufrutto e all’acquisto dello stesso. È ben plausibile, a mio modo di vedere, che, ultimata la classificazione delle res e la trattazione del dominium si passasse all’usufrutto, tra i più importanti iura in re aliena. E, al riguardo, appare verosimile la scelta di riportare congiuntamente Marc. 3 inst., D. 7.1.38 e Marc. 3 inst., D. 7.1.40, quest’ultimo, brevissimo, in materia di donazione dell’usufrutto, ove Marciano ribadisce la medesima regola poco sopra riportata in riferimento alla compravendita. Tuttavia, a me pare non improbabile, come si sottolineava poco sopra, che la parte finale del libro potesse affrontare anche la materia delle obbligazioni. F. 29 – Inst. 2.1pr. Il testo, notissimo, affronta la classificazione delle res sulle quali, come si osservava283, Marciano nei successivi paragrafi si sofferma, nell’ordine in cui qui le presenta, e ne descrive caratteristiche e statuto. Il giurista presenta un approccio innovativo all’argomento. Nella sua ‘teoria dei beni’, infatti, vi sono res che per diritto naturale apparterrebbero a tutti gli uomini, res delle collettività, res nullius e, infine, categoria più cospicua, le cose dei singoli284. In anni ormai lontani, è stato

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Lenel 1889.I, 656. Lenel 1889.I, 657. 281 Lemosse 1998, 258. 282 Lenel 1889.I, 657. 283 Supra § 1. 284 Sul frammento mi sia consentito di rinviare a Dursi 2017b, 6 ss. Si vedano anche i saggi raccolti nel volume I beni di interesse pubblico nell’esperienza giuridica romana, I, Napoli, 2016 a cura di Luigi Garofalo, apparsi in sostanziale contemporaneità con il mio lavoro, di cui, pertanto, non ho potuto tener conto in quella sede. Mi riferisco, in particolare a Lambrini 2016, 85 ss.; Lambrini 2017, 394 ss.; Falcon 2016 107 ss.; Ortu 2016, 165 ss. e, infine, d’Amati 2016a, 645 ss.; d’Amati 2016b, 333 ss. 280

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Domenico Dursi al riguardo osservato285 come Marciano, abbandonati i criteri classificatori gaiani, ne introducesse uno nuovo fondato sulla pertinenza che “non è necessariamente proprietà”. In altri termini, secondo questa impostazione, il giurista severiano distinguerebbe tra le cose che possono essere di pertinenza dei singoli e quelle che non possono esserlo. Ad ogni modo, l’elemento più interessante di questa classificazione è, certamente, l’utilizzo della categoria delle res communes omnium. Essa, infatti, tra i trattati istituzionali, almeno per ciò che a noi consta, appare per la prima volta in Marciano. Tuttavia, come ho provato a porre in rilievo altrove286, la categoria era già nota a Celso e fu adoperata da Ulpiano: entrambi i giureconsulti la richiamano per dipanare ipotesi controversiali e Ulpiano, addirittura, ricorda come saepissime intervennero rescritti imperiali. Le res communes omnium, dunque, erano frequentemente oggetto di liti tra privati; ciò, in certa misura, dimostra come non si trattasse di una categoria frutto di riflessioni teoriche e in concreto priva di rilevanza pratica. Per vero, già molti secoli prima Plauto287, nella Rudens, sia pur in un contesto destinato a suscitare ilarità, faceva affermare al pescatore Gripo, tra i protagonista della pièce, che essendo il mare comune di tutti, così come chi pesca acquista la proprietà del pesce, chi vi trova un baule ne acquisterebbe la titolarità, come a voler affermare che tutto ciò che si rinviene su una res communis, è res nullius288, per quanto – è di tutta evidenza – il parallelismo sia inappropriato. Non è questa la sede per indugiare oltre, ma l’aspetto da porre in evidenza è che, con un buon grado di plausibilità, le res communes omnium affondassero le loro radici fin dalle epoche più remote del diritto romano. Probabilmente, ed è forse la ragione per cui i giustinianei ne conservarono il luogo, Marciano fu il giurista che meglio precisò i contorni di tale categoria, che per molto tempo si era presentata in forme assai nebulose. La classificazione proposta, peraltro, dovette riscuotere un certo successo se anche i giustinianei, come noto, la adoperano nelle Istituzioni in un testo per larghi tratti coincidente con quello marcianeo. Tuttavia, in queste ultime, è appena il caso di sottolineare, si fa menzione delle res publicae, di cui non v’è traccia nel frammento in esame. Ciò posto, mi pare chiaro che Marciano contemplasse anche la categoria delle res publicae, come emerge da Marc. 3 inst., D. 1.8.4, su cui torneremo appresso. Ritengo ragionevole che, nel caso di specie, il testo delle Istituzioni imperiali sia più vicino all’originale marcianeo289 rispetto al testo tradito nel Digesto proprio in quanto il nostro giurista nelle Istituzioni discute di ipotesi relative alle res publicae290. F. 30 – D. 1.8.2.1 – D. 1.8.6pr. Il testo si sofferma sulla prima categoria di cose che appare nella partizione marcianea delle res, quella più dirompente rispetto alla classificazione gaiana a noi nota, cioè, appunto, le res

285

Branca 1940, 241 ss. Dursi 2017b, 5 ss. 287 Per una lettura giuridica della Rudens di Plauto, si veda Costa 1890, 253 e 434; Charbonnel 1995, 303 ss.; recentemente, si rinvia a Ducos 2011, 157 ss.; Pellecchi 2013, 103 ss.; Sanna 2016, 324 ss. Più in generale, sul lessico giuridico di epoca repubblicana nelle opere letterarie si veda Diliberto 2012a, 141 ss.; Diliberto 2012b, 387 ss. 288 Dursi 2017b, 139 ss. Sul passo plautino, spunti anche in Ortu 2016, 165 ss. 289 In tal senso Branca 1940, 241; da ultimo, anche Falcon 2016, 113 ss. Diversamente, Wieacker 1975, 205 confrontando i due luoghi paralleli poneva l’accento sulle possibili differenze di tradizione testuale. 290 Dursi 2017b, 7 ss. 286

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Commento communes omnium. Nel brano, infatti, leggiamo che per diritto naturale le cose comuni che appartengono a tutti sono l’aria, l’acqua fluente, il mare e in ragione di questo, quasi a voler sottolineare lo stretto collegamento291, se non una vera e propria accessorietà292, i lidi che, infatti, sono definiti dal gioco di flussi e riflussi del mare. Quanto all’elencazione, il principale problema che si pone è quello relativo alla sua tassatività. A me pare che l’elenco proposto dal giurista sia tassativo293, e ciò sulla base di due ordini di considerazioni. In primo luogo, rileva il dato testuale, categorico e privo di aperture che possano lasciare spazio all’inclusione nella categoria di ulteriori res. Del resto, ciò appare tanto più evidente in confronto a Marc. 3 inst., D. 1.8.6.1 sempre tratto dal manuale marcianeo, su cui ci soffermeremo a breve, ove sono elencate le res universitatis. In siffatta elencazione, infatti, Marciano, volendo segnalare come si tratti di un elenco esemplificativo, utilizza l’espressione et similia et si qua alia sunt communia civitatum, che non lascia adito a dubbi. Ma vi è un ulteriore argomento. A ben vedere, infatti, i beni comuni di tutti, avendo – potremmo ritenere – caratteristiche e disciplina assai peculiari in quanto essenziali alla sopravvivenza della specie umana, non potrebbero che essere i soli indicati dal maestro severiano294. Quanto al significato che le singole res assumono nell’elencazione in esame, mi sia, ancora una volta, consentito di rinviare a quanto osservato altrove295. L’aspetto che, tuttavia, vorrei porre in evidenza in questa sede è che trattasi di beni tutti esistenti in natura296, a prescindere da qualsiasi intervento dell’uomo e, inoltre, come il giurista ne rinvenga il fondamento nel ius naturale, quel ius per il quale – egli sembra affermare in altri luoghi del manuale297 – tutti gli uomini sono uguali; in ragione di tanto, vi sono beni che spettano, indifferentemente, a tutti gli uomini, nessuno escluso. Qualche ulteriore osservazione merita il prosieguo del passo, ove il giureconsulto discute del peculiare regime del lido. In particolare, apprendiamo come chiunque costruisca sul lido ne acquisti il dominium. Tuttavia, il giurista annota alcune considerazioni di grande rilievo. In primo luogo, specifica che l’appartenenza dura soltanto sino a quando permanga l’edificio. Venuta meno la struttura – puntualizza Marciano – il lido torna nella sua condizione originaria, quasi come quando trova applicazione il ius postliminii, che – si ricorderà – consentiva al cittadino romano caduto in cattività, una volta libero, di recuperare i diritti che aveva prima della cattura298. Sembrerebbe, per certi versi, che Marciano paragoni la situazione di costrizione in cui versa il civis Romanus in condizione di prigionia a quella del lido su cui si è costruito. Per vero, a me pare più plausibile che il giurista volesse segnalare due elementi: da un canto, l’esistenza di un’eventualità remota (il crollo dell’edificio), che poteva consentire al lido di recuperare l’originaria condizione; d’altra parte, doveva essere un modo per sotto-

291

Dursi 2017b, 35 ss. In tal senso, ex multis, Masi Doria 2014, 235 ss.; d’Amati 2016b, 334 ss. 293 Dursi 2017b, 10. 294 Analogamente Falcon 2016, 137, per il quale “la nozione ‘descrittivo – naturalistica che si può desumere dalle quattro res elencate difficilmente potrebbe essere applicata ad altre cose”; Ortu 2016, 188 e nt. 75. 295 Dursi 2017b, 21 ss. 296 Thomas 2011, 27. 297 Marc. 1 inst., D. 40.11.2 su cui si veda supra. 298 Thomas 2011, 28; più in generale sul postliminium si vedano Amirante 1950; Cursi 1996; Sanna 2001. Più recentemente, Barbati 2014, 587 ss. 292

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Domenico Dursi lineare la non perpetuità della situazione di appartenenza creatasi con la costruzione299. La chiusa del passo risulta parecchio interessante. In essa, infatti, Marciano utilizza l’espressione generica ‘eius fiet’, che riprende da vicino le espressioni utilizzate da giurisperiti precedenti e contemporanei per descrivere la singolare appartenenza sul lido300. In altre parole, benché Marciano parli di dominium, a me non pare che egli volesse fare riferimento al dominium ex iure Quiritium, ma a una situazione di fatto, giuridicamente rilevante, caratterizzata da esclusività, ma non tutelata da azioni fondate sul ius civile301. F. 31 – D. 1.8.4pr.-1 Il testo prosegue con la trattazione dei conflitti di interesse che possono sorgere intorno al lido. In particolare, in esso Marciano riporta il contenuto di un rescritto imperiale emesso da Antonino Pio302 su richiesta dei pescatori di Formia e, probabilmente, della zona del golfo di Gaeta303. Nel brano, se, per un verso, è sottolineata l’impossibilità di vietare a chicchessia di accedere al lido per ragioni di pesca, per altro verso, si afferma che è bene astenersi (abstineatur) da ville, edifici e monumenti, che non sono di diritto delle genti. Il frammento appare interessante sotto diversi profili. In primo luogo, si può osservare quale sia la ragione del divieto di impedire l’accesso al lido. Questa, infatti, è individuata, tra le diverse possibili, nella pesca. Cambiando prospettiva, potremmo osservare come la natura communis del lido, a sua volta derivante da quella del mare, abbia per il giurista severiano, la finalità di garantire la pesca304. Si tratta, infatti, a ben vedere, di uno strumento primario di approvvigionamento del cibo. Ulteriore aspetto meritevole di attenzione riguarda la tipologia di costruzioni da cui ci si doveva astenere, ville, edifici e monumenti. Da ciò emerge, abbastanza chiaramente, come sui lidi ormai si costruissero non solo capanne temporanee per il ricovero dei pescatori, ma imponenti strutture305 di lunga durata. Ancora. Si deve, infatti, precisare come Marciano, dopo aver sottolineato il dovere di astenersi da siffatte costruzioni, afferma che queste non sono di diritto delle genti sicut mare. Sembrerebbe, cioè, che la condizione del mare sia fissata dal ius gentium. Il punto, invero, appare di difficile comprensione. Infatti, il nostro giurista, poche righe prima, aveva affermato che il mare e il lido sono comuni di tutti naturali iure.

299

Di riferimento “meramente strumentale” parla, da ultimo, d’Amati 2016a, 675. Dursi 2017b, 100 ss. 301 Pomp. 6 ex Plaut., D. 41.1.50 su cui Dursi 2017b, 85. 302 d’Amati 2016a, 687, parla di provvedimento che riprendeva, probabilmente, regole già elaborate dai giuristi. 303 Nel testo, per vero, si parla di pescatori capenati. Allo stesso modo in Sch. 1 ad Bas 46.3.2 di Stefano, si legge Καπενάτοις. È difficile pensare potesse trattarsi di pescatori provenienti da Capena, molto lontano dal mare. Potrebbe, invece, trattarsi di pescatori provenienti da Capua che operavano nel golfo di Gaeta. Tuttavia, vi è chi ha sostenuto che il testo originario potesse contemplare l’aggettivo caietanis (Marc. 3 inst., D.1.8.4pr. nt. 17), nel qual caso si sarebbe trattato di pescatori di Gaeta, che come noto è molto vicina a Formia, l’altra località richiamata nel frammento. 304 La libertà di pesca – mi sia consentito di segnalare – sembra essere la ragione di fondo che portò alla progressiva enucleazione delle res communes omnium. Su questi temi, si veda, ancora, Dursi 2017b, 41 ss. 305 Sull’importanza di tali strutture, Fiorentini 1996, 143 ss.; da ultimo Dursi 2017b, 53 ss. e bibliografia ivi citata. 300

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Commento Non potendosi argomentare nel senso della intrinseca contraddittorietà di Marciano, o in quello della non genuinità del testo, occorre cercare una chiave di lettura plausibile. Una spiegazione, infatti, mi pare si possa abbozzare, sia pur nella consapevolezza che ci si muove su un terreno sdrucciolevole. Probabilmente, il riferimento al ius naturale per ville, edifici e monumenti, non doveva essere consono, trattandosi di res non rinvenibili in natura, a differenza delle res communes omnium che esistono a prescindere da qualsiasi intervento dell’uomo. Parrebbe emergere in Marciano, se così fosse, una differenziazione chiara tra ius gentium e ius naturale, la qual cosa, peraltro, lo avrebbe accomunato agli altri giuristi severiani presso i quali, come è stato osservato306, emergerebbe l’idea “di un diritto naturale completamente svincolato dall’azione degli uomini e dall’intervento della storia”. Resterebbe, tornando al testo, a questo punto, da spiegare il sicut et mare. A mio modo di vedere, siffatta precisazione va riferita al nemo ad litus maris accedere prohibetur piscandi causa. In altri termini, si può con una certa ragionevolezza ritenere che Marciano equiparasse il lido e il mare anche in riferimento al divieto di impedire l’accesso per motivi di pesca, come a voler dire, con un argomentare per certi versi ellittico, che le regole descritte per i lidi, valessero anche per il mare. Il frammento si chiude con l’indicazione secondo la quale quasi tutti i fiumi e i porti sono pubblici. È questa la prova, ineludibile, che Marciano nella sua summa divisio rerum adoperasse le res publicae e, per ciò stesso, le distinguesse dalle res communes omnium. Un’ultima considerazione. È ragionevole immaginare che il giurista con questa affermazione iniziasse la descrizione delle res publicae. F. 32 – D. 44.3.7 Si affronta, nel lacerto, il caso di un soggetto il quale abbia pescato per molti anni, in via esclusiva, lungo un ramo secondario di un fiume. Secondo Marciano, costui può impedire ad altri di utilizzare quel medesimo tratto. Il testo, per vero, si presenta, in certa misura, coincidente, come si rilevava, con la chiusa di un notissimo lacerto papinianeo. Si osservi Pap. 10 resp., D. 41.3.45pr.: Praescriptio longae possessionis ad optinenda loca iuris gentium publica concedi non solet. Quod ita procedit, si quis, aedificio funditus diruto quod in litore posuerat (forte quod aut deposuerat aut dereliquerat aedificium), alterius postea eodem loco extructo, occupantis datam exceptionem opponat vel si quis quod in fluminis publici deverticulo solus pluribus annis piscatus sit, alterum eodem iure prohibeat. (La prescrizione di lungo possesso non suole concedersi per ottenere luoghi pubblici di diritto delle genti. Poiché così si procede, se qualcuno, distrutto dalle fondamenta un edificio che aveva costruito sul lido [nel caso che demolisca o abbandoni l’edificio] e successivamente un altro abbia costruito in quello stesso luogo, opponga l’eccezione data di altro occupante o se uno solo perché abbia per più anni pescato in un braccio di fiume pubblico, impedisca ad un altro lo stesso diritto).

Come si vede, il testo di Marciano è perfettamente sovrapponibile a quello di Papiniano da in fluminis publici in poi. Si potrebbe, infatti, ipotizzare che Marciano lavorasse su materiali

306

Schiavone 2017, 438.

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Domenico Dursi papinianei307; ciò, del resto, parrebbe confermato dalla circostanza che egli scrisse delle note a Papiniano ben prima di comporre le sue Istituzioni308. Non è mancato, peraltro, chi ha sostenuto che il testo attribuito a Marciano sarebbe una sintesi dell’ultima parte del testo papinianeo operata dai Compilatori309, come a dire che la soluzione marcianea sarebbe stata innestata sul testo di Papiniano. Ma di ciò non abbiamo prove. Per vero, in dottrina tante sono state le voci310 che hanno sottolineato come, in realtà, Marciano avrebbe indicato una regola diversa da quella descritta da Papiniano nel luogo appena riportato. Costoro, poi, ritengono di poter superare siffatta presunta antinomia, considerando il passo di Marciano non genuino, in quanto i giustinianei, alla soluzione negativa proposta dal giurista, avrebbero sostituito quella positiva. Secondo questa ipotesi, cioè, Marciano avrebbe affermato che non si poteva proibire ad altri di pescare, con ciò ponendosi sulla medesima lunghezza d’onda di Papiniano. Questa lettura, tuttavia, non appare convincente. A me pare che le richiamate spiegazioni non considerino alcuni elementi. In primo luogo, è bene sottolineare come poteva anche accadere che due giuristi avessero posizioni diverse311. Ma, a ben vedere, non è questo il caso. Infatti, da una lettura complessiva del testo papinianeo, emerge come la regola in esso espressa attiene alla negazione della longi temporis praescriptio per la conservazione della facoltà esclusiva di pescare nel braccio di un fiume312, laddove Marciano si limita ad affermare che chi utilizza a fini di pesca un braccio secondario di un fiume può proibire ad altri di utilizzare quel medesimo braccio, nulla dicendo circa il ricorso alla longae possessionis praescriptio, la quale ultima, del resto, non aveva funzione proibitoria, ma piuttosto, quella di determinare l’acquisto di un diritto. In altre parole, Papiniano escludeva che chi già utilizzasse il ramo del fiume, convenuto in un processo (exceptionem datam), potesse ricorrere alla praescriptio per bloccare l’altrui azione e acquistarne l’appartenenza con la conseguenza di impedire ad altri di utilizzarlo, ma ciò non esclude che chi già utilizzasse quel tratto potesse impedirne l’altrui utilizzo attraverso altri strumenti e comunque non nella posizione di resistente in giudizio. Del resto, il tratto di fiume secondario e, forse, isolato, non doveva apparire in tutto e per tutto equiparabile al corso principale del fiume, ove, peraltro, risulterebbe impossibile l’ipotesi dell’utilizzo esclusivo a fini di pesca. F. 33 – D. 1.8.6.1 – D. 2.4.23 Il testo, ripreso letteralmente dalle Istituzioni di Giustiniano (Inst. 2.1.6), prosegue nella descrizione della innovativa (rispetto a quella gaiana) divisio rerum proposta dal giurista. In particolare, Marciano illustra i beni delle universitates che sono – puntualizza – teatri, stadi e simili. Questo paragrafo delle Istituzioni pone diverse questioni. In primo luogo, infatti, occorre chiarire in che senso Marciano qui utilizzasse il termine polisemico universitas. Si è ritenuto313 che con universitas si intendesse qui la civitas. Al riguardo, del resto, è stato

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Supra, Introduzione all’opera. Così Liebs 2011, 56. 309 Nörr 1969, 97 ss. 310 In tal senso, Fiorentini 2003, 275; d’Amati 2016a, 658 ss. e bibliografia ivi richiamata. 311 Di fattispecie diverse parla Ankum 1998, 374 ss. 312 Fiorentini 2003, 273. 313 Branca 1940, 213; Pasquino 2016, 90, per la quale questi beni erano comunque considerati pubblici. Analogamente Siracusa 2016, 95. 308

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Commento autorevolmente precisato314 che questo lemma poteva anche assumere un significato astratto, indicando una “situazione unificata, considerata come non più identificantesi con gli elementi che la compongono”. Più in dettaglio, le res universitatis sarebbero “le cose che, non essendo di tutti gli uomini, non sono né dello Stato, né dei singoli ma delle città che hanno perduto l’indipendenza originaria (…) dato che l’universitas per antonomasia in Marc. D. 1.8.6.1 è l’insieme dei cittadini”315. A mio modo di vedere, tuttavia, l’espressione è, in primo luogo sintomatica della partecipazione di Marciano a quel tentativo di costruire una primordiale teoria dello stato, inteso quale stato ordinamento, che impegnò la gran parte dei giuristi severiani316. Poi, ciò che indusse Marciano a concepire l’innovativa categoria delle res universitatis risiedeva non già nella necessità di distinguere beni imperiali da beni di città che avevano perso la loro sovranità, quanto piuttosto nell’esigenza di discernere le res publicae, i beni del populus Romanus, che, dopo il 212 d.C., quando probabilmente furono scritte le Istituzioni, erano tutti i sudditi dell’impero, e i beni appartenenti a singole città (anche quelle eventualmente fondate da Roma, non solo quelle che avessero perso l’originaria indipendenza), rectius, all’insieme dei cittadini di una singola civitas. Del resto Ulpiano317, nello stesso torno di tempo, spiegava che i bona civitatis abusive publica dicta sunt. Tuttavia, si tratta, pur sempre, di beni sottratti al circuito dell’appropriabilità, come emerge dal rilievo che il giurista le qualifichi, più in generale, come nullius in bonis318. Volgiamo lo sguardo alle singole res incluse nella categoria. Vi troviamo teatri e stadi e, inoltre, leggiamo che anche altre cose simili a questi ultimi debbono considerarsi res universitatis. Siffatta precisazione rende evidente il carattere aperto dell’elencazione319 e, infatti, proseguendo nella lettura del frammento ritroviamo gli schiavi comuni della città320. Occorre, al riguardo, sottolineare come non si possa escludere qualche taglio da parte dei Compilatori, che, forse, non consente di intendere pienamente la portata del riferimento allo schiavo della città. Questi, precisa il giurista, non dovevano ritenersi appartenenti pro quota ai singoli cittadini, ma alla collettività – potremmo dire – soggettivizzata, benché l’aggettivo communis potesse lasciar pensare a una communio di diritto privato, tanto che i divi fratres stabilirono che si potesse sottoporre a tortura a prescindere dall’interesse dei singoli cittadini. Il giurista, per vero, utilizza l’espressione tam contra civem quam pro eo posse servum civitatis torqueri. A mio avviso, trattasi di un’endiadi che voleva indicare l’irrilevanza dell’interesse privato del singolo cittadino rispetto allo schiavo della comunità e alla sua sorte321. In altre parole, la tortura dello schiavo della città era del tutto indifferente alla circostanza che essa potesse determinare un vantaggio o uno svantaggio a un cittadino romano. Per ulterior-

314

Orestano 1968b, 164. Così Branca 1940, 213. 316 Schiavone 1993, 964; Schiavone 2000, 56; Schiavone 2017, 381. 317 Ulp. 10 ad ed., D. 50.16.15: Bona civitatis abusive ‘publica’ dicta sunt, sola enim ea publica sunt, quae populi Romani sunt. (I beni della città sono chiamati ‘pubblici’ abusivamente, infatti sono pubblici solo quelli che sono del popolo Romano). 318 Thomas 2002, 1434 e nt. 3. 319 Vedi supra. 320 Sulle molteplici problematiche poste dalla comproprietà sullo schiavo si rinvia a Bretone 1958, passim. 321 Diversamente Siracusa 2016, 95, la quale parla di testimonianza a favore o contro un cittadino previa sottoposizione a tortura. 315

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Domenico Dursi mente chiarire la peculiare appartenenza delle res universitatis, il giureconsulto porta un ultimo esempio. È il caso del liberto della città, cioè un servus civitatis manomesso, che in ius vocat un cittadino. È bene ricordare, come del resto fa Marciano nella chiusa del lacerto, che nell’ipotesi ordinaria un liberto che volesse citare in giudizio il suo vecchio dominus o anche domini, doveva previamente munirsi di un’autorizzazione del magistrato onde evitare di incorrere nelle pene previste dall’editto322. Nel caso di specie, invece, proprio in quanto il servus civitatis non appartiene pro quota al singolo cittadino, nessuno tra questi ultimi è titolare di un rapporto di patronato verso il libertus civitatis. Costui è, dunque, libero di citare in giudizio tutti i membri della civitas che lo ha manomesso, senza dover richiedere alcun tipo di autorizzazione. F. 34 – D. 47.22.1pr.-2 Il frammento si sofferma sul tema delle associazioni, che non trova specifica trattazione nelle Istituzioni di Gaio, né in quelle giustinianee. Dalla lettura del testo, apprendiamo che attraverso provvedimenti dei principi era stato esteso alle province il divieto, già previsto dalla lex Iulia de collegiis, di costituire associazioni. In particolare, oltre alle associazioni in generale, i provvedimenti imperiali dovevano soffermarsi, specificamente, sulle organizzazioni costituite da militari, che, in ragione del rischio di frazionare l’esercito o, ancora, della nascita di consorterie armate, maggiormente potevano turbare l’ordine pubblico, alla cui tutela era diretto il provvedimento legislativo sopra richiamato, promulgato, per impedire i tumulti cui le associazioni avevano dato luogo al tramonto della repubblica. Anche per le province, tuttavia, restava valida l’eccezione relativa ai collegia tenuiorum, cioè le associazioni di mutuo soccorso dei poveri323, per le quali, pure, tuttavia, si prevedevano restrizioni. Leggiamo, infatti, che i membri di tali associazioni avrebbero potuto riunirsi una sola volta al mese, nella quale circostanza avrebbero dovuto versare la quota associativa. Si deve osservare, poi, come le parole utilizzate da Marciano quasi coincidano con il testo di un caput di un senatoconsulto che consentiva riunioni di collegia aventi scopi di sepoltura (probabilmente quello sui tenuiores324), a noi noto grazie ad un’epigrafe rinvenuta a Lanuvio nel 1816, relativa ad un collegio funeratizio costituito nel 133 d.C.325. Si osservi: CIL XIV.2112, 10-13: Kaput ex s(enatus) c(onsulto) p(opuli) R(omani): quib(us coire co]nvenire collegiumq(ue) habere liceat. Qui stipem menstruam conferre vo/len[t in fun]e/ra, in it collegium coeant, neq(ue) sub specie eius collegi nisi semel in men/se c[oeant co]nferendi causa, unde defuncti sepeliantur. Capitolo del senatoconsulto del popolo Romano: a coloro ai quali è lecito riunirsi, radunarsi e avere un’associazione. Coloro che vogliono versare la quota mensile per i funerali si riuniscono in questo collegio, né sono nella tipologia di questo collegio se non si riuniscono una volta al mese allo scopo di versare, onde siano seppelliti i defunti.

322

Fernàndez Barreiro 1971, 261 ss. In tal senso Randazzo 1998, 232 s. 324 Mommsen 1843, 81 ss.; Coli 1913, 110; de Robertis 1971, 282. 325 Buongiorno 2010, 424. 323

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Commento Sembrerebbe, alla luce di ciò, che il giurista riportasse, almeno in parte, il testo del provvedimento normativo326 sulla cui datazione persistono divergenti opinioni327. Poi, tra i diversi principi che avevano applicato il divieto, Marciano richiama il divus Settimio Severo, quasi a voler segnalare l’attualità dell’interdizione, ribadita da un imperatore di cui era ancora vivo il ricordo. Il maestro severiano, inoltre, segnalava un’ulteriore eccezione al divieto, e cioè la possibilità di riunirsi per scopi religiosi sempre che tali ultimi non dissimulassero associazioni vietate dal senatoconsulto, in quanto illecite. Si tratterebbe di identificare, per una piena comprensione del testo, il senatoconsulto cui si riferiva il giurista. Il punto, è facile immaginare, ha suscitato non poco interesse in dottrina. Già Mommsen nel suo De collegiis et sodaliciis328 si cimentò sulla questione e ipotizzò che si trattasse di un provvedimento senatorio, quello sui tenuiores, appunto, ma non limitato solo a questi, di portata generale, che avrebbe riformato la disciplina fissata nella lex Iulia de collegiis329. Del resto, occorre, al riguardo, sottolineare come per quanto poche siano le informazioni a nostra disposizione intorno alla legge Giulia, da alcune epigrafi, in cui ricorre la formula ‘senatus permisit e lege Iulia’330 apprendiamo che il senato potesse autorizzare la formazione di specifiche associazioni331. La questione, come si comprende, non pare, allo stato delle nostre conoscenze, pienamente definibile. Tuttavia, a me pare che da una parte Marciano richiami implicitamente il senatoconsulto sui tenuiores, laddove afferma la generale possibilità per questi ultimi di riunirsi, utilizzando, non a caso, parole coincidenti con quelle del provvedimento ricordato nell’epigrafe lanuvina; d’altra parte, quando richiama il senatoconsulto quo illicita collegia arcentur, sembrerebbe accennare a un diverso intervento senatorio che doveva indicare, nello specifico, le associazioni vietate. Da ciò, potremmo, forse, desumere che da un generale divieto di costituire associazioni, introdotto con la lex Iulia de collegiis, si fosse passati a un provvedimento che individuava, specificamente, le tipologie di collegia vietati, e ciò almeno con riferimento alle associazioni di culto, considerato che il maestro severiano lo menziona quando afferma la possibilità di riunirsi per scopi religiosi. In altre parole, mi pare si debba distinguere tra collegia tenuiorum, finalizzati alla causa funeris e associazioni di culto, destinate, invece, allo svolgimento di riti religiosi332.

326 Si veda De Giovanni 1989, 43. Di singolare simmetria tra il luogo marcianeo e il testo dell’epigrafe di Lanuvio parla Randazzo 1991-1992, 80. 327 Per una sintesi delle opinioni in campo, Buongiorno 2010, 424 nt. 39; più recentemente, Bendlin 2016, 435 ss. 328 Mommsen 1843, 98 ss. 329 Aderiva a questa impostazione uno dei più illustri studiosi dell’argomento, de Robertis 1971, 341; de Robertis 1988, 239, ove l’autore, sul presupposto che il senatoconsulto quo illicita collegia arcentur fosse quello sui tenuiores, giunge ad affermare che Giustiniano aveva sostituito lo scopo funerario, presente nella versione marcianea, con quello religioso, aderendo ai desiderata delle comunità cristiane. Più recentemente, propende per la lettura mommseniana Buongiorno 2010, 422 ss. 330 CIL VI.4416. 331 In tal senso Castagnetti 2007, 234. 332 Così Arangio-Ruiz 1972, 101 nt. 1, per il quale, nel testo marcianeo, subito dopo tenuioribus, sarebbe caduto il riferimento in funera, che avrebbe puntualizzato lo scopo dei collegi in questione. Diversamente, Randazzo 1998, 239, che, invece, parla di utilizzo dell’espressione religio nel suo senso arcaico, e cioè nell’accezione di pratiche di culto rivolte ai morti.

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Domenico Dursi Infine, Marciano ricorda un intervento di Marco Aurelio e Lucio Vero, in forma di rescritto, attraverso cui fu stabilito che non si potesse partecipare a più associazioni, nel qual caso si sarebbe dovuta scegliere la preferita, salvo il diritto a vedersi restituita dall’associazione abbandonata la propria quota di beni, detratta dal patrimonio comune. F. 35 – D. 1.8.6.2-3; Inst. 2.18; D. 1.8.6.4-5 Ultimata la trattazione delle res universitatis e assimilate, Marciano, nel rispetto dell’ordine dell’iniziale elencazione delle res, passa alla disamina delle res nullius in bonis, tra le quali annovera res sacrae, res religiosae e res sanctae, in sostanza beni in diversa misura utilizzati o consacrati per finalità di culto: del resto, Gaio riconduceva le prime due tipologie di res tra le cose divini iuris e a queste affiancava le res sanctae333 e, comunque, le poneva sempre tra quelle nullius in bonis. Il maestro severiano sottolineava, quindi, che il fatto costitutivo della sacralità di una res fosse la cerimonia pubblica della consacrazione, tanto che lo svolgimento privato del medesimo rito non avrebbe determinato quell’effetto. Del resto, specifica il giurista, il luogo in cui era sorto un tempio che era stato consacrato, restava una res sacra anche a seguito del crollo del tempio medesimo. A questo punto, a mio modo di vedere, il brano in esame può essere integrato con quello in larga misura coincidente, conservato in Inst. 2.18, ove appare una citazione dei responsa di Papiniano334, il quale si esprimeva in termini analoghi. Mi sembra verosimile che la citazione dovesse apparire anche nel trattato marcianeo, sia in quanto il brano tratto dal manuale del VI quasi ne riproduce per larghi tratti il testo, sia per la spiccata tendenza del nostro giurista a citare i responsa di Papiniano. È, inoltre, opportuno segnalare come, probabilmente, un autorevole precedente di quanto affermato dai due giuristi severiani è da rinvenirsi in un testo dell’imperatore Traiano, il quale, in una lettera di risposta a Plinio, così si esprimeva: Ep. 10.71: (…) Illud tamen parum expressisti, an aedes in peristylio Claudio facta esset. Nam, si facta est, licet collapsa sit, religio eius occupavit solum. Non hai però specificato a sufficienza un particolare: il tempio a Claudio nel peristilio è stato effettivamente costruito? Infatti, in caso affermativo, quantunque sia diroccato, la superficie rimane ancora vincolata dalla consacrazione a lui fatta335

L’imperatore afferma che se un tempio (nel caso esaminato, dedicato all’imperatore Claudio) crolla, il luogo sul quale è edificato resta luogo religioso336. Per quanto Marciano e Papiniano parlino di luogo sacro, mentre Traiano si sofferma sul luogo religioso, la regola espressa appare simmetrica. Mi pare, poi, degna di nota la circostanza che se da un lato, alla stregua di quanto si legge nel manuale gaiano, occorreva una cerimonia pubblica, d’altro canto nel nostro giurista non

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Gai. 2.2-9. Pap. 3 resp., D. 18.1.73: Aede sacra terrae motu diruta locus aedificii non est profanus et ideo venire non potest. (…). (Sebbene sia stato distrutto un tempio sacro da un terremoto il luogo dell’edificio non è profano e perciò non si può vendere). 335 Traduzione a cura di Trisoglio 1996. 336 Tellegen 1986, 80 s. 334

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Commento si legge alcun riferimento alla consacrazione agli dei Superi, come del pari, non sono richiamati gli dei Mani, cui, secondo quanto apprendiamo da Gaio, erano, invece, dedicate le res religiosae. La natura di tali ultime, afferma Marciano, dipende da una scelta, per così dire, privata, e cioè la sepoltura di un uomo nel suo terreno. I giustinianei, peraltro, dovettero ritenere la descrizione della nozione di res religiosae di Marciano la migliore a loro disposizione, considerato che l’adoperarono nel loro manuale337. Inoltre, il giurista ricorda come la inumazione in un sepolcro comune contro la volontà di uno dei condomini, fosse ugualmente possibile. L’espressione sepulchrum commune, per vero, è stata ritenuta sospetta338. Non mi pare, poi, alla luce di un testo tratto dal secondo libro delle Istituzioni di Callistrato339, da escludere l’ipotesi che Marciano dovesse riferirsi al caso in cui ad essere sepolto dovesse essere uno dei condomini. Infine, ricorda il maestro severiano come sia ben possibile essere sepolti in un terreno altrui, ma, in questa ipotesi, è richiesto il consenso del proprietario del fondo. Un dato, a mio avviso, emerge dalla lettura del brano e dal suo raffronto con la parzialmente diversa descrizione gaiana: nel discorso marcianeo, l’elemento qualificante delle res sacrae è la destinazione ai culti di interesse pubblico, laddove, le res religiosae erano destinate al culto, tutto privato, del ricordo dei propri defunti340. Marciano si sofferma, infine, sul monumento sepolcrale privo del cadavere341, che, a suo avviso, doveva preferibilmente considerarsi locus religiosus. In ciò esprimeva, consapevolmente, – come emerge dall’espressione magis placet – un’opinione diversa da quella di Ulpiano342 e non solo. Osserviamo: Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.6.1: Si adhuc monumentum purum est, poterit quis hoc et vendere et donare. Si cenotaphium fit, posse hoc venire dicendum est: nec enim esse hoc religiosum divi fratres rescripserunt. Se il monumento è ancora

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Inst. 2.1.9. Tra gli altri, De Visscher 1963, 126. 339 Call. 2 inst., D. 11.7.41: Si plures sint domini eius loci, ubi mortuus infertur, omnes consentire debent, cum extranei inferantur: nam ex ipsis dominis quemlibet recte ibi sepeliri constat etiam sine ceterorum consensu, maxime cum alius non sit locus in quo sepeliretur. (Se vi siano più titolari di quel luogo in cui si voglia seppellire un morto, tutti debbono acconsentire quando vengano seppelliti estranei: infatti è certo che uno qualsiasi degli stessi proprietari può esservi correttamente sepolto anche senza il consenso degli altri, soprattutto quando non vi sia altro luogo in cui seppellirlo). 340 Scherillo 1945, 49. 341 Flor. 7 inst., D. 11.7.42: Monumentum generaliter res est memoriae causa in posterum prodita: in qua si corpus vel reliquiae inferantur, fiet sepulchrum, si vero nihil eorum inferatur, erit monumentum memoriae causa factum, quod Graeci κενοτάφιον appellant. (In generale, è monumento una cosa tramandata ai posteri per la memoria; se in esso si sotterrano un corpo o dei resti umani diverrà un sepolcro, se invece non vi si introduce nulla di ciò, sarà un monumento eretto alla memoria, che i Greci chiamano cenotafio). 342 Ciò, del resto, è posto in rilievo dagli stessi Compilatori, i quali pongono, subito dopo il passo marcianeo, un brano escerpito dal libro venti del commentario all’editto di Ulpiano: Ulp. 20 ad ed., D. 1.8.7 Sed divi fratres contra rescripserunt. (Ma i divi fratres emanarono un rescritto di senso contrario). La questione ha suscitato interesse sin da epoche risalenti. Alciatus 1548, 102 ss., escludeva il contrasto ritenendo che i giuristi parlassero di cenotafi diversi; Gothofredus 1774, 334 ss., in sostanza riteneva che Marciano e Ulpiano si occupassero del medesimo tipo di cenotafio, ma mentre il primo avrebbe cercato di conservare un antico mos religiosus, il secondo avrebbe preferito far prevalere concezioni laiche, per le quali la religiosità scaturiva dalla illatio corporis. Per una puntuale ricognizione di queste posizioni si rinvia a Ferretti 2000, 415 ss. per il quale il rescritto dei divi fratres avrebbe avuto una portata limitata soltanto a specifici cenotafi e, pertanto, i giustinianei avrebbero riportato le due opinioni proprio per significare che, per stabilire se un cenotafio si dovesse considerare locus religiosus, si doveva di volta in volta stabilirne la tipologia. 338

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Domenico Dursi profano, lo si potrà vendere e donare. Se viene eretto un cenotafio, si deve dire che sia possibile vendere il luogo; infatti i divi fratres stabilirono con rescritto che questo non è un luogo religioso.

Da questo testo del commento edittale ulpianeo apprendiamo che il cenotafio potesse essere venduto in quanto, in base ad un rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero non doveva considerarsi luogo religioso. Alla luce di tanto, il nostro giurista non solo si distanziava dall’opinione ulpianea, il che rientrava pur sempre nella ordinaria dialettica tra giuristi, ma mostrava di non condividere l’intervento imperiale, o, quantomeno, di volerne limitare la portata. Impossibile supporre che non ne avesse conoscenza, posto che la sua opera rappresenta una vera e propria miniera di provvedimenti di questo genere, da cui certamente emerge una grande attenzione per l’attività legislativa degli imperatori, senza dimenticare che a un tale intervento accennava uno dei principali giuristi della sua epoca. Del resto, la circostanza che egli richiami – unico tra i giuristi romani all’interno del Digesto – l’autorità di Virgilio, potrebbe lasciar intravedere una polemica verso un provvedimento che egli doveva ritenere ingiusto e, in qualche misura, contrario alla tradizione, se anche Virgilio, depositario delle vicende che avevano portato alla fondazione di Roma, si era espresso diversamente343. Quanto al luogo virgiliano cui doveva riferirsi Marciano, è difficile dire. Tuttavia, qualche suggerimento ci è fornito da uno scolio al corrispondente passo dei Basilici. Si osservi: Sch. 11 ad Bas. 46,3,5 (Scheltema B, VII, 2747): (…) Καὶ τὸ κενοτάφιον δὲ ῥελεγίοσον μᾶλλον ἤρεσεν εἶναι, ὅσον ἐκ τῆς Βιργιλίου μαρτυρίας, ὃς ὑποτίθεται τὴν Ἀνδρομάχην κενοτάφιον τῷ Ἕκτορι κατασκευάσασαν μετὰ τὸ ἀναιρεθῆναι αὐτὸν καὶ ταφῆναι ἐν Τροίη. Ἀνάγνωθι τὸ ἑξῆς διγ. Απὸ μὲν οὖν τῆς Βιργιλίου μαρτυρίας τὸ κενοτάφιον ῥελεγίοσον εἶναι δοκεῖ. Ἀντιγραφὴ μέντοι Βασιλέων ἐστίν, ἥτις βούλεται τὸ ἐναντίον, ὥστε μὴ εἶναι ῥελεγίοσον τὸ κενοτάφιον Trad. Heimbach, IV, 561: Cenotaphium quoque magis placuit esse religiosum, ex testimonio Virgilii, qui ponit, Andromacham cenotaphium construxisse Hectori, postquam fuit interfectus et Troiae sepultus. Lege dig. Sequens. Ex Virgilii ergo testimonio cenotaphium videtur esse religiosum. Extat tamen rescriptum Imperatorum, quod contrarium vult, cenotaphium scilicet non esse religiosum. Si ritiene per lo più che il cenotafio sia luogo religioso, in base alla testimonianza di Virgilio il quale descrive Andromaca che costruisce un cenotafio per Ettore, dopo che fu ucciso e seppellito a Troia. In base alla testimonianza di Virgilio il cenotafio è luogo religioso. Esiste, tuttavia, un rescritto di imperatori che stabilisce il contrario, cioè che il cenotafio non è luogo religioso.

Lo scoliasta allude ad un luogo dell’opera virgiliana in cui si parla di un cenotafio eretto da Andromaca per Ettore sepolto a Troia. Heimbach344 e Scheltema345 hanno individuato il passo in Aen. 3.304. Leggiamo il testo. Virg. Aen. 3.304-305: (…) libabat cineri Andromache manisque vocabat Hectoreum ad tumulum, viridi quem caespite inanem et geminas, causam lacrimis, sacraverat aras. offriva Andromaca e le ceneri e i mani invocava di Ettore innanzi a un tumulo di verdi zolle, vuoto, consacrato insieme a una coppia di are, fonte di lacrime346

343 Sulle citazioni dei poeti presso i giuristi romani, si veda Van Den Bergh 1974, 27 ss.; più di recente, Fiorentini 2013, 167 ss. 344 Heimbach, IV, 561 nt. b. 345 Scheltema B, VII, 2747, apparato critico alla riga 28. 346 Traduzione a cura di Carena 1976.

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Commento Il poeta narra di Andromaca che offriva i doni e invocava i Mani dinnanzi a un tumulo di zolle verdi, vuoto (da cui si desume trattarsi di un cenotafio) consacrato insieme a una coppia di are. Pochi dubbi, a mio avviso, sussistono circa il fatto che lo scoliasta si riferisse a questo passo. Quanto a Marciano, sebbene nel testo virgiliano non manchino i riferimenti a un cenotafio consacrato sul quale venivano invocati i Mani e svolti riti funebri, alla stregua di quanto avveniva su un sepolcro, non possiamo dire con assoluta certezza che questo fosse il passo del poeta latino che egli intendeva citare. F. 36 – D. 11.7.39 Nel testo in esame, Marciano prosegue nella disamina delle res religiosae e delle situazioni in cui esse vengono in rilievo. Il giurista ricorda, infatti, un provvedimento di Marco Aurelio e Lucio Vero volto a impedire la profanazione di sepolcri, la quale si integrava – apprendiamo dalla lettura del brano – ove si fosse profanata una salma. Si tratta, questa volta, di un editto che, quindi, aveva una portata generale. Per vero, occorre ricordare come già in epoca più risalente, fosse stato emanato da un non meglio precisato imperatore del I secolo d.C., un provvedimento, l’Editto di Nazareth, con lo scopo di reprimere la violazione dei sepolcri in Palestina347. Non siamo in grado di stabilire quale fosse il rapporto tra quest’ultimo e l’editto dei divi fratres di cui si occupa Marciano, ma non può escludersi che il primo avesse una valenza territoriale limitata, laddove il secondo poteva trovare applicazione in tutto l’impero. Il nostro giurista, peraltro, non ci informa circa la pena per i reprobi, che – apprendiamo aliunde348 – doveva essere il supplizio capitale. Certo è che per emanare un provvedimento di questa portata, le condotte che venivano punite dovevano aver assunto un notevole grado di allarme sociale. Ciò non doveva rappresentare una novità se solo sul punto si pensi alle affermazioni, riferite a un epoca più risalente, vicina all’editto di Nazareth, di Filone Alessandrino, il quale ricordava come gli esattori giungevano al punto di aprire le tombe dei debitori insolventi del fisco349. L’intervento imperiale, tuttavia, si limitava a coloro che avessero beneficiato di una giusta sepoltura, la quale ultima ricorreva non solo quando il corpo senza vita fosse stato inumato, ma anche quando fosse stato riposto in un’urna cineraria che si ritenesse sistemata nella sua collocazione definitiva. La circostanza – precisa il maestro severiano – che l’urna fosse spostata in un luogo di più facile accesso non la sottraeva dalla tutela accordata attraverso l’editto. F. 37 – D. 47.12.7 Il frustolo discute ulteriore casistica in materia di violazione delle tombe. Marciano, dopo aver ribadito il divieto di deteriorare la condizione del sepolcro, afferma che, ad ogni modo, possono essere effettuati lavori di ristrutturazione, rectius restauro350, laddove il sepolcro sia

347 Sulle molteplici problematiche poste da questo editto, che non si possono, ex professo, affrontare in questa sede, si rinvia a Luzzatto 1942, 231 ss.; De Visscher 1963, 161 ss.; Purpura 2012, 133 ss.; Martini, Pietrini 2016, 601 ss. 348 P. Berol. 1024, del IV d.C., ci informa che la sanzione prevista per le violazioni di sepolcro era la pena capitale. 349 De specialibus legibus 2.94; 3.159 ss. 350 Manfredini 1987, 224 ss.

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Domenico Dursi danneggiato, purché non siano toccate le spoglie. Ciò, peraltro, non deve stupire, posto che una tomba pericolante oltre a non dare lustro alla memoria del defunto, poteva, al tempo stesso, porre problemi di incolumità. Nonostante la brevità del testo, inoltre, siamo in grado di ricavare una preziosa informazione. Nella visione marcianea, come già emerso nella lettura del precedente frammento, elemento costitutivo e perciò indispensabile della violazione del sepolcro era rappresentato dal contatto, o meglio dalla profanazione del corpo esanime. F. 38 – D. 41.3.39 Il testo si occupa dei modi di acquisto della proprietà. Nello specifico, si affronta l’ipotesi della inusucapibilità del suolo e delle relative conseguenze. La regola ricordata da Marciano è quella per cui laddove non si possa acquistare a mezzo di usucapione, modo di acquisto dell’appartenenza basato sul possesso della cosa e sul decorso del tempo, la proprietà di un suolo, a fortiori non si può usucapire la superficie. L’affermazione marcianea sembrerebbe scontata, tanto più se si considera il generale principio superficies solo cedit351, da cui discende che la superficie segue la condizione del suolo. Per quanto la brevitas del testo non consenta di argomentare troppo, a me pare di poter affermare come il nostro giurista non concepisse una proprietà separata per piani, né tanto meno una proprietà superficiaria352. Ma, a mio modo di vedere, dal testo si ricava altresì l’impossibilità, nella prospettiva di Marciano, di usucapire anche il solo diritto di superficie: egli, dunque, mostra di non concepire ipotesi di possessio iuris e resta ancorato alla visione per cui si possono possedere solo le cose corporali, conformemente all’opinione dominante nella sua epoca353. F. 39 – D. 41.1.8pr.-1 Il frammento si apre con un periodo privo di senso compiuto, il che appare dovuto, palesemente, a un taglio dei Compilatori: per una sua comprensione, Lenel354 ritenne di dover riportare l’ultima parte del frammento precedente della catena del Digesto, un testo tratto dalle res cottidianae di Gaio355. Nonostante il carattere sibillino dell’incipit, possiamo dedurre, con buona approssimazione, che Marciano stesse affrontando il problema dell’acquisto della proprietà di beni situati al confine tra due fondi, e ne affermasse l’appartenenza in capo ai titolari di entrambi i fondi, proprio in ragione dello spazio occupato sull’uno e sull’altro appezzamento di terreno. Ciò, del resto, sembrerebbe trovare conferma nelle successive argomentazioni marcianee, questa volta, pienamente intellegibili. Infatti, il maestro severiano spiega che, laddove venga rinvenuta una pietra (con ogni probabilità, di valore, altrimenti non si sarebbe posta neppure la questione) lungo il confine tra due fondi in comunione indivisa tra soggetti diversi, dunque

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Gai. 2.73. Sull’argomento, diffusamente, Sitzia 1979, passim. 353 Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3pr.: Possideri autem possunt, quae sunt corporalia (Possono poi possedersi le cose che sono corporali); Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4.26: (…) quia nec possideri intellegitur ius incorporale (…). (poiché s’intende di non aver posseduto il diritto incorporale […]). D’altro canto la possessio iuris sarà elaborata in epoche più recenti: sul punto, Carcaterra 1942, 1 ss.; Mannino 2007, 3163 ss. Fernàndez De Bujàn 2018, 195 ss. 354 Lenel 1889.I, 656. 355 Gai. 2 res. cott., D. 41.1.7. 352

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Commento senza una ripartizione per quote, nell’ipotesi in cui la pietra venga estratta, si troverà anch’essa, in comunione indivisa, alla stregua della condizione in cui si trova il suolo da cui è stata raccolta. La pietra di valore, dunque, seguiva la condizione del suolo, ancora una volta, in ossequio al principio superficies solo cedit356. Degna di nota, appare, poi, la precisazione per la quale l’appartenenza sulla pietra sorge al momento dell’estrazione: del resto, è stato osservato, l’acquisto dei prodotti minerari si fonda “sull’attività di escavazione”357, la exemptio, a ben vedere, il momento in cui si manifesta la volontà di appropriarsi del bene. Un’ultima considerazione. La problematica affrontata, assai specifica, pone in rilievo, ulteriormente, l’approccio casistico adoperato dal nostro giurista nella sua opera. F. 40 – D. 41.1.11 Il testo affronta la peculiare ipotesi dell’acquisto della proprietà da parte di un adolescente, un fanciullo, cioè, sottoposto a tutela, in quanto, per ragioni d’età, ritenuto incapace di badare, adeguatamente, ai propri interessi. La circostanza, poi, che, nel prosieguo del frammento, si discuta circa la necessità o meno dell’auctoritas del tutore, consente di stabilire che doveva trattarsi di un infans maior358, altrimenti sarebbe stato necessario che il tutore sostituisse l’infans e non si limitasse a presenziare per integrarne la capacità. Marciano spiega la regola generale sul punto: il pupillo non necessita dell’auctoritas del tutore per ciò che concerne atti idonei ad incrementare il patrimonio. A me pare che in questi atti potessero essere ricompresi solo gli atti meramente acquisitivi, non dunque, quelli corrispettivi, i quali a fronte di un acquisto implicano una perdita, nel qual caso, doveva rendersi opportuno l’intervento del tutore al fine di evitare raggiri o, comunque, operazioni sconvenienti. Del resto, il giovinetto – leggiamo – non poteva, in assenza del tutore, porre in essere negozi idonei a determinare una riduzione patrimoniale. Occorreva, in questo caso, che il tutore garantisse circa la ponderatezza dell’operazione patrimoniale. La presenza del tutore, inoltre, era richiesta anche nell’ipotesi in cui la diminutio del patrimonio derivasse dalla alienazione359 di un possesso, trattandosi, pur sempre, di una condizione in grado di arrecare miglioramenti patrimoniali. L’espressione quae est naturalis sembrerebbe significare che il possesso non è un diritto, ma un dato naturale, di fatto e lascerebbe intravedere una sorta di contrapposizione tra il momento materiale e quello giuridico360. La soluzione prescelta dal giurista appare orientata da un criterio, per così dire, sostanzialista: infatti, il bene posseduto veniva trattato alla stessa stregua delle cose in proprietà, nonostante la non coincidenza in punto di stretto diritto; sotto questo profilo, la precisazione che si trattasse di un’opinione che risaliva ai Sabiniani, consente di ipotizzare l’esistenza, sull’argomento, di una discussione giurispruden-

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Reputo opportuno segnalare come in alcun modo, nel caso di specie, possa venire in rilievo l’acquisto del tesoro, posto che il lapis di cui è questione non integra la nozione di tesoro, fissata dal giurista Paolo e accolta, con buona approssimazione dai giuristi coevi, e cioè Paul. 31 ad ed., D. 41.1.31.1: (…) vetus quaedam depositio pecuniae, cuius non exstat memoria, ut iam dominum non habeat. (è un antico deposito di denaro la cui memoria è perduta così che non ha un padrone). Sul tema dell’acquisto del tesoro vi è ampia letteratura, pertanto, si rinvia, da ultimo a Hassan 2014, 140 ss. e Manfredini 2018, passim e bibliografia ivi citata. 357 Negri 1985, 332; Astolfi 1987, 372 ss.; da ultimo Cherchi 2017, passim. 358 Tondo 1962, 392 ss.; Burdese 1984, 769 ss. 359 Burdese 1984, 771. 360 Mantello 1979, 382.

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Domenico Dursi ziale, almeno in epoca precedente361, nonché la possibilità che il passo serbi un nucleo di pensiero originario di Sabino362. Ciò potrebbe trovare una qualche conferma dal seguente testo: Ulp. 30 ad Sab., D. 41.2.29: Possessionem pupillum sine tutoris auctoritate amittere posse constat, non ut animo, sed ut corpore desinat possidere: quod est enim facti, potest amittere. Alia causa est, si forte animo possessionem velit amittere: hoc enim non potest. È chiaro che il pupillo possa perdere il possesso senza l’autorità del tutore: non con l’animo ma corporalmente cessa di possedere; poiché, in effetti è di fatto, può ammettersi. Diverso è il caso se per ipotesi voglia perdere il possesso con l’animo: ciò infatti, non è possibile.

Ulpiano sta commentando l’opera di Sabino, il cui pensiero – potremmo supporre – il maestro severiano avrebbe riportato sino a desinat possidere, da dove, poi, avrebbe iniziato il commento vero e proprio. In particolare, afferma, probabilmente, appunto, per chiarire il pensiero del giurista del I secolo d.C., che il pupillo senza l’autorità del tutore può dismettere il possesso in via di fatto, senza l’animus di compiere questo gesto: in ciò, peraltro, risulta chiara l’allussione alla possibilità di trattenere solo animo il possesso con una scissione tra l’elemento soggettivo e quello oggettivo della situazione possessoria363. Non può, invece, per qualsiasi altra causa e con atto intenzionale, quindi con atti di volontà, liberarsi del possesso. Non vi è nella parte finale del testo un riferimento esplicito all’auctoritas tutoris, ma, a mio modo di vedere, l’argomentare ellittico si spiega in quanto è chiaro che il non potest è riferito, come il potest della prima parte, a operazioni poste in essere senza la presenza del tutore. Se così è, anche da questo brano si ricava che per un atto di alienazione del possesso da parte del pupillo è richiesta la presenza del tutore. Se, poi, si considera, come si sottolineava, che Ulpiano, discuteva, plausibilmente, tesi di Sabino, c’è da ritenere che la regola esposta, nella sostanza coincidente a quella ricordata da Marciano e da questi attribuita ai sabiniani nel testo in commento, risalisse, giustappunto a Sabino364. Il nostro giurista ci informa, infine, che egli ritiene si debba condividere questa impostazione, in quanto doveva ritenerla estremamente ragionevole. F. 41 – D. 46.3.40 Il testo affronta ipotesi, ancora una volta, assai particolareggiate. Vengono, infatti, discussi casi peculiari di dismissione di situazioni possessorie che non hanno più una giustificazione. Ma andiamo con ordine. In primo luogo, Marciano si sofferma sul pegno, un diritto reale di garanzia a tutela delle ragioni creditorie, che si costituiva a mezzo della consegna di un bene al creditore, il quale ne diveniva possessore365, fino al momento dell’adempimento della prestazione, allorché avrebbe dovuto restituire il bene al proprietario. In caso di mancato adempimento, invece, il creditore poteva vendere il bene in pegno e conseguire quanto di sua spet-

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Si veda Lambrini 1998, 47 nt. 38. Diversamente Burdese 1984, 772. Tondo 1962, 394. Su Sabino, si veda Astolfi 2001, passim; Morgera 2007, passim. 363 Sul punto, che ci porterebbe lontano dai nostri più limitati intenti, si rinvia al classico lavoro di Rotondi 1922, 94 ss.; e al recente lavoro di Ferretti 2017, passim, ove bibliografia. 364 Di diverso avviso, Mantello 1979, 384 nt. 326, per il quale nulla esclude che il richiamo ai Sabiniani fosse scorretto. 365 Talamanca 1990, 480. 362

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Commento tanza dal prezzo ricavato, in base ad un pactum vendendi. Dal lacerto marcianeo apprendiamo che il diritto alla restituzione sorgeva anche laddove ad adempiere fosse stato un soggetto diverso dal debitore e l’esecuzione della prestazione, rectius, il pagamento, sarebbe stato effettuato all’oscuro del debitore. Infatti, specifica Marciano, anche in questo caso, in presenza della mancata spontanea restituzione del bene, sarebbe spettata al soggetto che aveva prestato la garanzia, l’actio pignoraticia, volta, appunto, al recupero del possesso del bene. Dall’affermazione marcianea, peraltro, desumiamo che doveva trattarsi di una prestazione fungibile, perché, diversamente, il debitore non sarebbe stato liberato dalla prestazione di un terzo. In secondo luogo, il giurista si sofferma sull’ipotesi in cui un soggetto diverso dall’erede e, perciò, non legittimato, avesse consegnato ai legatari beni oggetto di legati all’interno di un testamento. In questo caso, tali ultimi avrebbero conseguito un possesso non giustificato e pertanto avrebbero dovuto restituire i beni all’erede, il quale, in caso contrario, avrebbe potuto chiedere un interdetto di natura restitutoria, all’uopo previsto, con ogni probabilità il quod legatorum. Questo interdetto, infatti, nasceva, dapprima, per tutelare il bonorum possessor e, in un secondo momento, ogni successore mortis causa contro coloro che, senza la sua volontà, possedevano singole cose a titolo di legato366. Inoltre, mi pare ragionevole ritenere, per quanto manchi nel testo una specificazione al riguardo, che doveva trattarsi di legati per vindicationem, poiché in tal senso depongono la consegna di un bene e il sorgere di una situazione possessoria. La circostanza, poi, che i legatari non risultino coeredi consente di escludere, in linea di massima, che si trattasse di un legato per praeceptionem, benché quest’ultimo, disposto a favore di un estraneo, in origine nullo, dopo la metà del I secolo d.C., avrebbe potuto essere convalidato in base al senatoconsulto Neroniano, almeno secondo Giuliano e Africano; diversamente, sul punto, si esprimeva Sabino367. Tuttavia, in primis, il soggetto terzo, dando esecuzione al legato, avrebbe disposto di beni di cui non aveva la disponibilità, in contrasto con il principio che leggiamo in Ulp. 46 ad ed., D. 50.17.54: nemo plus iuris ad alium transferre potest quam ipse haberet. È di un qualche interesse, poi, osservare come l’erede avrebbe, comunque, dovuto consegnare i beni ai legatari, per cui, volendo attenersi alla lettera delle affermazioni del giurista, si sarebbe potuto verificare che l’erede, recuperati i beni, magari attraverso l’esercizio dell’interdetto di cui è parola nel frammento, li avrebbe, poi, nuovamente dovuti consegnare ai soggetti indicati nel testamento. Tutto ciò, forse, trovava la sua ragion d’essere nella necessità che si aprisse la successione e avvenisse l’acquisto dell’eredità da parte dell’erede, in assenza della quale i legati venivano meno. Non mi pare, infine, sotto questo profilo, trascurabile la circostanza che in questo modo l’erede potesse avere contezza della reale entità dei legati al fine di stabilire se risultasse lesa la sua quota di legittima. F. 42 – D. 49.14.30 Il lacerto si occupa di materia fiscale, sia pure di una questione secondaria368. Nello specifico, il giurista tratta di schiavi, devoluti al fisco, che svolgevano la specifica mansione di amministrare beni. Marciano rende edotti i suoi lettori circa un rescritto di Set-

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Gandolfi 1960, 24. Talamanca 1990, 740. 368 Puliatti 1992, 120. 367

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Domenico Dursi timio Severo e Antonino Caracalla, con il quale si faceva divieto ai procuratores Caesaris, deputati alla gestione dei beni nelle province dell’imperatore369, di alienare i suddetti. Ciò, nuovamente, sembrerebbe porre in rilievo l’attenzione del giurista per le province370. Una tale regola, peraltro, è ribadita anche da Modestino371 e da Ermogeniano372, tra i giuristi di epoca più tarda di cui abbiamo notizia, il quale ultimo, tuttavia, afferma che la vendita era proibita se non fosse stata consentita dal principe. La vendita contraria a siffatto precetto nullas vires habebit, leggiamo nel frammento del maestro di diritto tardo antico. Inoltre – prosegue Marciano – laddove questi schiavi fossero stati liberati, vi sarebbe stata la revoca della manomissione. Quanto al fondamento della regola testé descritta, non appare convincente l’ipotesi che l’alienazione o la manomissione di uno schiavo rientrassero tra gli atti di ‘straordinaria amministrazione’ e, dunque, non potessero essere compiuti direttamente da un procurator, ma necessitassero di una speciale autorizzazione, come sembra emergere dal testo di Ermogeniano. Se così fosse stato, infatti, poco senso avrebbe avuto il riferimento specifico agli schiavi auctores bonorum, rientrando tra gli atti ‘straordinari’ la vendita e la manomissione di tutti gli schiavi. Forse, dunque, la ragione deve essere ricercata altrove. In un periodo, come quello severiano, caratterizzato da un notevole favor libertatis verso gli schiavi, la lettura organica del frammento, potrebbe indurre, allora, a rinvenire la giustificazione, tanto del divieto di vendita, quanto della revoca delle manomissioni relative agli schiavi amministratori di beni, nella circostanza che tali ultimi dovevano essere pochi, di fiducia e di grande valore, ai quali, in ragione di ciò, tendenzialmente, venivano consentite anche buone condizioni di vita. F. 43 – D. 39.5.15 Il testo, in passato è stato sospettato nel senso che la versione autentica avrebbe contemplato un et innanzi al nisi373 che, peraltro, non mi pare strettamente necessario ai fini della comprensione del brano. Né il manoscritto della Fiorentina giustifica i suddetti dubbi. Marciano continua ad occuparsi della tutela delle ragioni del fisco, benché ciò non appaia da una prima lettura. Nel passo, infatti, si afferma l’impossibilità delle donazioni effettuate dopo la commissione di un delitto capitale, nonostante, ancora, non vi sia una condanna. Sebbene non possa del tutto escludersi, in ragione del tenore letterale del frammento, che il reo, sia pur non condannato, di delitto capitale, fosse non già colui che avesse effettuato la donazione, quanto piuttosto, il beneficiario della stessa, con lo scopo di sanzionare una sorta di indegnità per i misfatti posti in essere, appare più verosimile una diversa lettura.

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Orestano 1966, 1247; Boulvert 1982, 826. De Giovanni 1989, 51. 371 Mod. 5 reg., D. 49.14.8: Bonorum fisco vindicatorum actores venundari a procuratoribus non possunt, et, si distrahantur, irritam fieri venditionem rescriptum est. (Gli amministratori di beni rivendicati dal fisco non possono essere venduti da procuratori e, se vengano distratti, fu rescritto che la vendita è considerata nulla). 372 Herm. 6 iuris epitom., D. 49.14.46.7: Actores, qui aliquod officium gerunt, in bonis quae distrahunt procuratores venundare incosultis principibus prohibentur, et, si veneant, venditio nullas vires habebit. (È proibito che i procuratori vendano gli schiavi amministratori che gestiscano qualche affare, nei beni che rivendono senza aver consultato i principi e se sono venduti la vendita non avrà alcun effetto). 373 Brasiello 1937, 127 nt. 78. 370

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Commento In particolare, a mio avviso, il rescritto imperiale sanciva l’impossibilità di donare in capo al reo di un delitto capitale, quand’anche non fosse stato iniziato il processo a suo carico. In tal senso, deporrebbe l’espressione donationes factae. Così, peraltro, si orientavano gli autori dei Basilici. Si osservi: Bas. 47.1.14 (Scheltema, A VI, 2130): Τοῦ δωρησαμένου κεφαλικῶς καταδικασθέντος αἱ παρ᾽αὐτοῦ μετὰ τὸ ἁμάρτημα γενόμεναι δωρεαὶ οὐκ ἰσχύουσιν. Trad. Heimbach, IV, 569: Donatore capitaliter condemnato, donationes post delictum ab eo factae non valent. Essendo stato condannato alla pena capitale il donatore, le donazioni da lui fatte dopo il delitto non valgono.

Nel genitivo assoluto del testo greco, reso da Heimbach con un ablativo assoluto, il soggetto è il donatore. Inoltre, il παρ᾽αὐτοῦ sembra eliminare ogni dubbio, dunque, è chiaro che la donazione vietata – nella visione dei bizantini – è quella del reo. La ragione del divieto è da rinvenirsi, probabilmente, nella circostanza che i beni di un condannato alla pena capitale erano devoluti al fisco e, pertanto, al fine di evitare ciò, un soggetto in procinto di subire un processo per uno di questi delitti poteva, attraverso donazioni, spogliarsi di tutti i suoi averi. Questa interpretazione, a ben vedere, sembrerebbe presentare una aporia, in quanto si tratterebbe di stabilire come un soggetto non ancora condannato potesse considerarsi colpevole di un delitto capitale. In altre parole, il problema concreto che parrebbe emergere è quello di capire come si potesse impedire la donazione di un soggetto, il quale, magari, all’esito del processo fosse stato assolto dalle accuse che gli si movevano. Il testo riportato nel Digesto resta criptico sul punto. Tuttavia, la questione dovette porsi anche a un anonimo scoliasta bizantino. Sch. 1 ad Bas. 47.1.14. (Scheltema, B VII, 2757). Ὁ ἁμαρτήσας κεφαλικὸν ἔγκλημα οὐκέτι δύναται δωρεῖσθαι καλῶς τὰ διαφέροντα αὐτῷ· ἐὰν γὰρ ὅλως καταδικασθῇ, ἄνωθεν ἀσθενοῦσιν αἱ δωρεαί. Trad. Heimbach, IV, 570: donatore capitaliter condemnato] Qui crimen capitale admisit, res suas recte amplius donare non potest. Nam si omnino condemantus fuerit, retro irritae fiunt donationes. [essendo stato condannato il donatore alla pena capitale] Colui che commise un delitto capitale in maniera corretta più ampiamente non può donare. Infatti se fu condannato del tutto, le donazioni diventano invalide retroattivamente.

L’ignoto autore del commento al testo dei Basilici sopra riportato, spiega che colui che ha commesso un delitto capitale, non può donare i propri beni e, laddove sia stato condannato, la donazione non vale retroattivamente. In sostanza, ad avviso del maestro bizantino, l’effetto del divieto di donazione, si produceva, in concreto, solo dopo la condanna che determinava anche la caducazione ex tunc della liberalità. Non possiamo da ciò dedurre che questo fosse il contenuto del rescritto imperiale, né che questa fosse l’opinione di Marciano, ma, di sicuro, l’opinione che si legge nello scolio appare estremamente ragionevole. F. 44 – D. 49.16.9pr.-1 Si tratta di un testo relativo ancora a questioni concernenti il fisco. Marciano, questa volta, si sofferma sul divieto posto in capo ai soldati di acquistare terreni collocati nella provincia in cui erano di stanza. La regola trovava il proprio fondamento nell’esigenza di garantire che i milites svolgessero al meglio le loro funzioni evitando che potessero sorgere interessi privati 171

Domenico Dursi in grado di distrarre dal servizio374. È appena il caso di ricordare come non sia questo l’unico passo delle Istituzioni ove Marciano descrive le limitazioni cui andavano incontro i soldati e anche i loro figli. Ciò sicuramente denota una certa preoccupazione, dettata dai tempi, per la difesa dei territori dell’impero, quasi un assillo per le classi dirigenti dell’epoca375. Inoltre – si deve notare – ciò era funzionale a evitare il radicamento dei soldati nei luoghi ove svolgevano le mansioni anche al fine di salvaguardare le esigenze di mobilità dell’esercito376. Dopo l’affermazione della regola generale, il giurista prosegue con la descrizione di una prima eccezione, invero particolarmente rilevante, poiché fissata da un rescritto da Settimio Severo e Antonino Caracalla. In particolare, nell’intervento imperiale si stabiliva che laddove il fisco avesse provveduto ad alienare i beni del soldato di derivazione paterna, questi avrebbe potuto acquistare i terreni in provincia, a condizione che il pagamento fosse avvenuto con i soldi ricevuti in ragione del servizio prestato. Una giustificazione alla deroga, per quanto debole, potrebbe rinvenirsi in ciò: il milite, privato dei beni ereditari paterni, la cui gestione avrebbe comportato, di certo, impegni più o meno gravosi, poteva acquistare fondi nella provincia in quanto conservava, pur sempre, il diritto di avere beni di sua proprietà. Del resto, l’impegno nella cura dei fondi non avrebbe compromesso l’espletamento del servizio, proprio in ragione della mancanza di altri beni di provenienza ereditaria. Tuttavia, a me pare, le vere ragioni di questo privilegio erano di natura politica. Sul punto, qualche utile indicazione per provare a contestualizzare il rescritto di Settimio Severo e Antonino Caracalla è fornita da Cassio Dione377, il quale dichiara, nella sua Storia di Roma, di riportare fedelmente le ultime parole rivolte ai figli Caracalla e Geta dal fondatore della dinastia sul letto di morte: “ὁμονοεῖτε, τοὺς στρατιώτας πλουτίζετε, τῶν ἄλλων πάντων καταφρονεῖτε”. Settimio raccomandava ai figli di andare d’accordo, ma soprattutto di arricchire i soldati e di disinteressarsi degli altri uomini. Da questa affermazione apprendiamo sia quale fosse la stella polare della politica di Settimio Severo, sia quale fosse il suo testamento morale per i figli e per la storia. Peraltro, sempre Cassio Dione ci informa che Caracalla seguì alla lettera gli insegnamenti paterni378. Alla luce di ciò, mi pare di poter dire che il privilegio in esame si collochi pienamente nella Weltanschauung della dinastia, che, del resto, doveva la sua ascesa proprio ai militari379. Ad ogni modo, in caso di violazione del precetto ricordato in apertura del frammento, era previsto che i beni acquistati fossero devoluti al fisco, qualora vi fosse stata apposita denuncia. Quest’ultima, tuttavia, non produceva gli effetti suoi propri, laddove fosse stato versato il prezzo, tratto dalla propria paga, per l’acquisto o il soldato avesse ottenuto il congedo prima dell’inizio del processo. In sostanza, Marciano descrive una nuova eccezione all’interdizione con cui si apre il passo. Infatti, se non fosse stato intrapreso il processo attraverso cui il fisco intendeva appropriarsi del terreno provinciale acquistato in spregio al divieto ma fosse

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Macer 2 de re mil., D. 49.16.13pr.: Milites agrum comparare prohibentur in ea provincia, in qua bellica opera peragunt, scilicet ne studio culturae militia sua avocentur. (Ai soldati è vietato acquistare un campo in quella provincia nella quale conducono operazioni militari, affinché per il desiderio di coltivarlo non siano distolti dalla milizia). 375 De Giovanni 1989, 51 s.; si veda Carrié 1993, 92 ss. 376 In generale, sull’esercito in età severiana e oltre, si veda Carrié 1993, 83 ss. 377 Cass. Dio 77.15.2. 378 Cass. Dio 78.1 ss. 379 De Giovanni 2007, 39 ss.

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Commento stato versato il guadagno conseguito dallo svolgimento della propria funzione o il soldato avesse conseguito il congedo, la denuncia non aveva luogo, per cui l’acquirente manteneva la titolarità del terreno. L’inizio del processo successivamente all’effettuazione del pagamento con proprio denaro, a ben vedere, integra una delle condizioni indicate nel rescritto imperiale richiamato dal giurista. La circostanza, poi, che il pagamento fosse avvenuto prima dell’inizio del processo finiva per sanare l’eventuale mancanza dell’altra condizione, cioè l’acquisizione da parte del fisco dei bona paterna. Quanto alla deroga al divieto di acquisto ove il militare avesse conseguito il congedo, mi pare del tutto evidente che in questo caso venivano meno le ragioni di potenziale conflitto di interessi alla base dell’interdizione. Infine, Marciano descrive un’ulteriore eccezione; leggiamo, infatti che non era vietato ai soldati il possesso di quei fondi situati nella provincia di competenza che fossero stati acquistati a titolo di eredità. L’espressione si heredes extiterint, da cui si è argomentato nel senso che l’hereditas sarebbe l’unica base giuridica del transire per universitatem380, lascia aperta tanto la possibilità che il miles avesse ricevuto beni in base a una successione legittima (si pensi al padre o ad un adgnatus titolari di beni in quella provincia), sia che fosse stato istituito erede all’interno di un testamento. Si trattava, infatti, di fondi conseguiti a prescindere dalla volontà del soldato e d’altro canto, la proibizione all’acquisto dei suddetti avrebbe determinato una limitazione della capacità successoria, tale da rendere la condizione di soldato oltremodo gravosa. F. 45 – D. 47.19.1 Nel testo Marciano ricorda come la sottrazione dell’altrui eredità fosse punita attraverso una procedura extra ordinem, con una specifica accusa all’uopo prevista. Per quanto non sia questa la sede per soffermarvisi, è appena il caso di osservare come nonostante tale condotta potesse apparire un furto, per i giuristi romani così non doveva essere381. Si osservi. Iul 9 dig., D. 9.4.40: (…) si idem servus hereditariam rem subtraxerit (…) furti actio cessabit, quia huiusmodi rerum furtum non fit: ad exhibendum autem actio competit. Se lo stesso servo abbia sottratto una cosa ereditaria, verrà meno l’azione di furto, poiché non vi è furto per cose di questo genere; tuttavia compete l’azione per l’esibizione.

Giuliano afferma che l’actio furti non spetta, in ragione della loro peculiare natura, per le res hereditariae. Altro dato interessante è, invece, che il giurista non menzioni il crimen expilatae hereditatis, ma si limita a ritenere ammissibile l’actio ad exhibendum, su cui torneremo tra breve. Un momento fondamentale nella definizione di questa fattispecie fu – ricorda Marciano – un intervento dell’imperatore Marco Aurelio. A me pare che il tenore letterale del brano, ove dapprima è sottolineato come si soleva punire una siffatta condotta extra ordinem e quindi viene puntualizzato che ciò era stato affermato anche (sicut et) nell’orazione dell’imperatore, lascia intendere che tale ultima non introdusse il crimen, ma piuttosto che esso era già perse-

380 381

Robbe, 1965 13 s.; spunti anche in Genovese 2007, 104 ss. Lemosse 1998, 256.

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Domenico Dursi guito e l’intervento imperiale ne definì i contorni382. Al riguardo, appare assai verosimile che si fosse trattato di un discorso svolto in senato al fine di sostenere la necessità della promulgazione di un provvedimento in materia. Difficile dire di quale provvedimento senatorio si trattasse. È stato ipotizzato383 che potesse trattarsi del senatoconsulto relativo ai dies iudiciarii, risalente all’imperatore filosofo, di cui è menzione nella Historia Augusta384 che doveva contemplare un elenco di azioni. Si è, tuttavia, osservato385 come, benché l’epoca della piena definizione del crimen possa senz’altro essere quella di Marco Aurelio, la circostanza che sia Giuliano (il quale ritiene applicabile l’actio ad exhibendum), sia le Istituzioni di Gaio quando affrontano il tema della sottrazione di cose ereditarie, non considerano minimamente il crimen in questione, ponga notevoli ostacoli circa la possibilità di individuare con elevato grado di verosimiglianza l’orazione cui si fa riferimento nel passo e il conseguente senatoconsulto. Quest’ultimo argomento, tuttavia, non mi pare decisivo, in quanto potrebbe ben ritenersi che nel II secolo d.C. il crimen expilatae hereditatis non rientrasse tra le nozioni istituzionali386 e, d’altro canto, occorre pur sempre considerare che se nel manuale gaiano non è dato spazio ai crimina e il discorso viene svolto in una prospettiva di diritto privato, medesimo angolo visuale potrebbe aver assunto Giuliano. Alla luce di tanto, pare plausibile ritenere che l’oratio Marci di cui è menzione nel testo fosse il provvedimento con cui Marco Aurelio riformò profondamente la materia processuale387. F. 46 – D. 7.1.38 – 7.1.40 Il frammento è dedicato al diritto di usufrutto. Prima di inoltrarci nel commento, tuttavia, mi sembra di un qualche interesse ricordare la posizione del nostro giurista sull’usufrutto, per quanto non espressa nelle Istituzioni, ma nel terzo libro delle regole388. In particolare, Marciano riteneva che l’usufrutto rientrasse tra le servitutes personarum, insieme all’usus, diversamente, le servitù prediali rustiche e urbane, rientravano tra le servitutes rerum. Al netto

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In tal senso parrebbe deporre anche C. 9.32.6. Imp. Philippus A. et C. Basiliae. Expilatae hereditatis crimen loco deficientis actionis intendi consueuisse non est iuris ambigui. (L’imperatore Filippo a Basilia. Non è dubbio in diritto che si possa dimostrare il crimine di furto dell’eredità in luogo di un’azione che manca). Sul punto si veda Solazzi 1936 (ora 1960 da cui si cita) 547 ss., il quale osserva come sarebbe assai strano che se il delitto fosse stato introdotto da Marco Aurelio, Filippo si richiamasse alla consuetudine piuttosto che all’intervento di un suo predecessore. In tal senso anche Arcaria 2003, 222. 383 Solazzi 1936 (ora 1960 da cui si cita) 548; Volterra 1969, 1075 nt. 178; più recentemente Arcaria 2003, 221. 384 SHA, Marcus Antoninus philosophus 10.10: Iudicariae rei singularem diligentiam adhibuit. Fastis dies iudiciarios addidit, ita ut ducentos triginta dies annuos rebus agendis litibusque disceptandis constitueret. (Rivolse una cura particolarmente attenta all’amministrazione della giustizia. Aggiunse ai normali giorni consentiti altri giorni di udienza, così da stabilire complessivamente duecentotrenta giorni all’anno dedicati al dibattimento delle cause e alla discussione delle controversie giudiziarie). 385 Gnoli 1984, 11. 386 Arcaria 2003, 222. 387 Arcaria 2003, 222 ss. 388 Marc. 2 reg., D. 8.1.1: Servitutes aut personarum sunt, ut usus et usus fructus, aut rerum, ut servitutes rusticorum praediorum et urbanorum. (Le servitù o sono personali, come l’uso e l’usufrutto, o reali, come le servitù rustiche prediali e urbane). Sul testo, si rinvia a Buckland 1936, 277, il quale rileva in questo come in altri passi la tendenza del giurista alla coordinazione e alla classificazione; Grosso 1958, 6 s.; Bretone 1962, 2 nt. 3; Stein 1966, 86 s.; De Giovanni 1989, 139 ss.

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Commento dei tanti sospetti avanzati sul testo, per Marciano, l’usufrutto altro non sarebbe che una particolare forma di servitù, il che rappresenta, in certa misura, un tratto innovativo, destinato a essere accolto dai bizantini. Il testo in commento spiega che il titolare dell’usufrutto utilizza il bene, direttamente o per interposta persona e, tra costoro, sono accomunati il compratore, il conduttore, il donatario e il gestore degli affari dell’usufruttuario. Oggetto dei contratti menzionati era, ovviamente, l’usufrutto, ancorché sia stato posto in rilievo389 come nel passo sia taciuto l’oggetto del conducere. In altre parole, il giurisperito severiano afferma che l’uso può essere diretto o indiretto, dunque, apprendiamo che l’usufrutto si potesse esercitare anche attraverso la vendita o la locazione390. Si trattava, insomma, di una sorta di utilizzo indiretto del bene oggetto del diritto391, in quanto la vendita o la locazione consentiva all’acquirente o al locatore di esercitare l’usufrutto solo in ragione di un rapporto obbligatorio con l’usufruttuario. Ciò, peraltro, come già evidenziato392, era pacifico presso i giuristi romani, per lo meno a partire da Sabino. L’usufruttuario che aveva alienato, poi, con la percezione del prezzo o di un canone periodico, avrebbe ottenuto dei frutti che oggi definiremmo frutti civili393. Il giurista afferma, quindi, che il diritto di usufrutto parrebbe risultare ancora in capo all’originario usufruttuario alienante, ove l’acquirente del diritto non ne avesse usato. Infine, spiega il giureconsulto, colui che ha donato il diritto d’usufrutto, ne mantiene la titolarità se il beneficiario non utilizzi il bene. Il mancato utilizzo del bene da parte del donatario e dell’acquirente, quindi non determinava l’estinzione per non uso del diritto d’usufrutto in capo all’usufruttuario. F. 47 – D. 7.4.4 Il testo, per vero assai conciso, affronta un’ipotesi di coesistenza in capo ad un medesimo soggetto del ruolo di legatario, avendo egli conseguito un legato d’usufrutto, e di incaricato dell’esecuzione di un fedecommesso avente ad oggetto il medesimo diritto d’usufrutto. Occorre, per meglio intendere il frammento, in primo luogo sottolineare come, se il legato avesse avuto ad oggetto l’usufrutto, l’erede avrebbe conservato la titolarità del dominium sul bene su cui insisteva anche l’usufrutto, presumibilmente costituito attraverso un legatum per vindicationem. Tuttavia, il legatario aveva l’onere di restituere l’usufrutto ad un terzo, al quale il pretore, ad avviso di Marciano, doveva riconoscere tutte le forme di tutela che spettavano all’usufruttuario e non nei limiti di durata dell’usufrutto in testa al legatario che ne era titolare per diritto civile394. Bisogna, al riguardo precisare come i fedecommessi avessero mera efficacia obbligatoria395, per cui non erano intrinsecamente idonei a costituire un diritto reale in capo al fedecommissario. In sostanza, a ben vedere, l’ipotesi descritta dal giurista ricorda assai da vicino quella presentata nel brano precedente di alienazione del diritto di usufrutto. In

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Amirante 1962, 212. Sul locare usum fructum, più recentemente, si veda Sánchez-Moreno Ellart 2000-2001, 293 ss. 390 Bretone 1962, 99 nt. 35. 391 In tal senso, Pugliese 1954, 516. 392 Bretone 1962, 99. 393 Grosso 1958, 147. 394 Grosso 1962, 54 s. 395 Talamanca 1990, 751.

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Domenico Dursi altre parole, il beneficiario godeva del diritto di usufrutto in forza di un credito che vantava nei confronti del legatario, non già dell’erede o erga omnes. In ragione di ciò, come autorevolmente evidenziato396, la regola enunciata dal giurista acquisiva un certo rilievo qualora il legatario che aveva eseguito il fedecommesso fosse premorto al fedecommissario. In questo caso, infatti, in assenza della norma testé descritta da Marciano, l’usufrutto si sarebbe estinto anche per il fedecommissario, con il conseguente consolidamento del dominium in capo all’erede. F. 48 – D. 1.18.11 Il testo ove si chiarisce che i presidi nelle province cumulavano tutte le competenze a Roma spettanti ai giudici, parrebbe essere una precisazione all’interno di un discorso più ampio, e ciò potrebbe spiegare la sua collocazione nel terzo libro delle Istituzioni. Occorre sottolineare come una tale affermazione si rinvenga anche in altri giuristi, precedenti, contemporanei e successivi a Marciano: mi riferisco, in particolare, a Proculo397, Ulpiano398 ed Ermogeniano399, i quali, per vero, parlano di magistratus. Al riguardo, tuttavia, mi pare opportuno rilevare come non pare plausibile ritenere che Marciano facesse riferimento ai giudici privati, posto che, al suo tempo, come noto, il processo formulare era sostanzialmente scomparso e con esso la figura dell’iudex privatus400. Peraltro, è appena il caso di ricordare come Marciano dedichi un’opera monografica ai giudizi di appello401, sorti proprio nell’ambito delle cognitiones extra ordinem402, che al suo tempo erano ormai prevalenti. Né, mi pare, il riferimento possa essere al iudex pedaneus, figura troppo specifica e con competenze assai più limitate per poter essere paragonato a un preside di provincia, il quale, del resto, era competente a nominarlo403. In ragione di ciò, il nostro giurista, forse, utilizzava il lemma iudex come sinonimo di magistratus, conformemente a quanto sarebbe avvenuto in anni di là da venire404. Come è stato osservato405, il carattere sintetico del testo marcianeo, ricorda da vicino la formulazione ulpianea escerpita dal de officio proconsulis, opera, appunto dedicata alle funzioni

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Grosso 1958, 373 nt. 1. Proc. 4 ep., D. 1.18.12: Sed licet is, qui provinciae praeest, omnium Romae magistratuum vice et officio fungi debeat, non tamen spectandum est, quid Romae factum est, quam quid fieri debeat. (Ma sebbene colui che è preposto alla provincia debba fare le veci e l’ufficio di tutti i magistrati a Roma, tuttavia non si deve osservare ciò che è stato fatto a Roma, bensì ciò che debba essere fatto). 398 Ulp. 2 de off. proc., D. 1.16.7.2: Cum plenissimam autem iurisdictionem proconsul habeat, omnium partes, qui Romae vel quasi magistratus vel extra ordinem ius dicunt, ad ipsum pertinent. (Inoltre, poiché il proconsole ha giurisdizione pienissima, gli spettano le competenze che spettano a tutti coloro che a Roma esercitano la giurisdizione o come magistrati o al di fuori dell’ordine). 399 Herm. 2 iur. ep., D. 1.18.10: Ex omnibus causis, de quibus vel praefectus urbi vel praefectus praetorio itemque consules et praetores ceterique Romae cognoscunt, correctorum et praesidum provinciarum est notio. (Per tutte le cause, nelle quali a Roma esercitano la cognizione il prefetto dell’Urbe o il prefetto del pretorio, nonché i consoli e i pretori e gli altri, la competenza a conoscere è dei correttori e dei presidi delle province). 400 Wlassak 1919, 29 nt. 35; De Martino 1937, 338 ss.; Orestano 1953, 2 ss.; si veda anche Provera 1960, 8 nt. 4; su questi temi, diffusamente, Barbati 2012, 1 ss. 401 Lenel 1889.I, 639 s. 402 Orestano 1980, 236 ss. 403 Liva 2012, 81 ss. 404 Da ultimo, Liva 2012, 81 s.; Barbati 2012, passim. 405 De Giovanni 1989, 49. 397

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Commento dei magistrati provinciali406. Diversamente, più analitiche sembrano le affermazioni di Proculo ed Ermogeniano. Ciò, a mio modo di vedere, potrebbe trovare una spiegazione non tanto nei probabili ma non provabili rapporti tra Ulpiano e Marciano407, quanto, nella circostanza che l’opera ulpianea sui compiti del proconsole fosse quella di riferimento per l’epoca, ma soprattutto, come già si ipotizzava in apertura, nel carattere di obiter dictum dell’affermazione, nel contesto del terzo libro delle Istituzioni. Del resto, già in testi tratti dai libri precedenti Marciano aveva richiamato le funzioni del preside, dunque si può ben immaginare, per quanto di ciò non abbiamo conferme testuali, che egli già avesse illustrato ai suoi lettori, la corrispondenza tra le funzioni dei magistrati in Roma e quelle del preside in provincia. F. 49 – D. 50.12.4 Il testo è di grande interesse. Marciano afferma che se un tale abbia promesso qualcosa alla repubblica per il caso in cui questa sia colpita da un terremoto, un incendio o altra catastrofe, è tenuto ad adempiere. La ragione della promessa, come si intuisce, è quella di prestare soccorso alla res publica, ove fosse eventualmente colpita da un evento di forza maggiore. Non siamo in grado di stabilire, sulla base del tenore letterale del lacerto, in cosa potesse consistere la promessa se in un facere o nel versamento di una somma di denaro. Ad ogni modo, l’istituto che viene in rilievo è la pollicitatio, cioè una promessa unilaterale che, almeno in epoca classica, sarebbe stata vincolante solo se rivolta alla res publica408. Ciò si coglie sia dalla fattispecie concreta che dal testo si evince, sia dalla circostanza che i giustinianei l’abbiano collocato nel titolo de pollicitationibus. Siamo, dunque, al cospetto di una reliquia delle Istituzioni, in cui viene, quanto meno, sfiorata la materia delle obbligazioni. Non è questa la sede per affrontare ex professo l’argomento della pollicitatio, sia pertanto sufficiente qui segnalare, in primo luogo, che – come sottolinea Servio in ad Aen. 1.237409 – già in Virgilio il verbo polliceri, il cui utilizzo più risalente si riscontra in Plauto410, si caratterizzava per l’elemento dell’unilateralità e l’assenza di dialogo con la parte destinataria della promessa411; in secondo luogo, che questa promessa affinché producesse il vincolo obbligatorio non solo doveva essere rivolta alla res publica, ma doveva anche essere stata pronunciata ob honorem o ob aliam iustam causam, in assenza dei quali requisiti non sarebbe sorto alcun vincolo, sempre che non fosse stata iniziata l’opera, o, comunque l’esecuzione della prestazione412. Nel caso in esame, la iusta causa risiedeva, giustappunto, nel prestare un qualche soccorso in caso di terremoti, incendi o altre

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Su cui Mantovani 1993-1994, passim; Marotta 2004, passim. Dursi 2017b, 13 ss. 408 Sitzia 1988, 22 ss. 409 Serv. Ad Aen. 1.237: Pollicemur sponte, rogati promittimus. (Promettiamo attraverso pollicitatio spontaneamente, promettiamo richiesti). 410 Cancelli 1982, 257. 411 Diliberto 1988b, 309. 412 Ulp. lib. sing. de off. cur. rei publ., D. 50.12.1.1: Non semper autem obligari eum, qui pollicitus est, sciendum est. Si quidem ob honorem promiserit decretum sibi vel decernendum vel ob aliam iustam causam, tenebitur ex pollicitatione: sin vero sine causa promiserit, non erit obligatus. (Si deve sapere che non sempre resta obbligato colui il quale promise. Se mai promise per qualche onore a lui riconosciuto o da riconoscersi, o per altra giusta causa, sarà tenuto in ragione della promessa: ma se promise senza causa non sarà obbligato). Su questi temi si veda Archi 1933, 563 ss.; Sitzia 1988, 22 ss.; più recentemente, Lepore 2012, passim; da ultimo Huang 2018, 30. 407

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Domenico Dursi sciagure413. Ciò ha indotto taluno414, per vero in una diversa temperie di studi, a ritenere il testo non genuino, in quanto, nel III secolo d.C., il recare soccorso alla città non avrebbe costituito una iusta causa pollicitationis; si sarebbe trattato, dunque, di una pollicitatio non vincolante, in quanto, in assenza di giusta causa, l’obbligatorietà sarebbe scattata soltanto una volta iniziata l’opera. Occorre sottolineare, però, come si tratti di posizioni ormai pressoché del tutto abbandonate415.

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Lepore 2012, 283 s. Albertario 1936, 270 s. 415 Di “impiego certamente eccessivo del metodo interpolazionistico” da parte dell’Albertario ha parlato Sitzia 1988, 25; da ultimo Lepore 2012, 288 ss. 414

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Commento

LIBRO QUARTO

1. Profili palingenetici Del quarto libro delle Istituzioni marcianee, il Digesto conserva soltanto undici lacerti, tutti aventi ad oggetto la materia successoria. Lenel416, nella sua ricostruzione, include oltre a questi ultimi, due ulteriori testi, il primo tratto dal commentario di Ulpiano a Sabino, ove è riportata un’opinione di Marciano, il secondo, invece, è il testo di una costituzione di Giustiniano, ove è ricordata una disputa tra Papiniano, Paolo e Marciano riguardo alla legittimazione attiva alla querela inofficiosi testamenti. A mio modo di vedere, inoltre, il libro va integrato con due paragrafi delle Istituzioni giustinianee (Inst. 2.15.2-3) verosimilmente tratte dalle Istituzioni di Marciano, in quanto sono presenti i parametri più volte richiamati. Una prima considerazione di carattere generale. L’esiguità dei brani a nostra disposizione, da un lato, potrebbe corroborare l’ipotesi già avanzata417 per cui in questo libro poteva essere svolta una quota della materia delle obbligazioni, l’altra, si ricorderà, avrebbe occupato la seconda parte del terzo libro; d’altro canto, nell’ultima sezione del libro quarto avrebbe avuto inizio la materia successoria. In tal senso deporrebbe, con un certo grado di verosimiglianza, la circostanza che un discreto numero di testi recanti l’inscriptio libro quarto institutionum, tre, nello specifico, di undici complessivi, affronta problematiche connesse con la capacità di fare testamento. È bene, tuttavia, ribadire come lo stato delle nostre conoscenze, sul punto, non consenta che mere ipotesi. Ma soffermiamoci sulla collocazione dei singoli frammenti e, in primo luogo, sul testo tràdito dal sesto libro del commentario di Ulpiano a Sabino (D. 28.1.5). Ad avviso di Lenel, esso doveva contemplare un’opinione marcianea in materia di capacità successoria. Mi pare questa la più plausibile spiegazione, posto che Ulpiano non specifica il luogo preciso né l’opera marcianea cui si riferisce. È fuor di dubbio che nel brano in questione, Ulpiano tratti della materia ereditaria in quanto egli stava discettando circa la possibilità di fare testamento e, del resto, Marciano nel libro quarto affrontava, come si osservava, anche questa materia. Tuttavia, a ben vedere, Ulpiano richiama una posizione marcianea relativa al momento in cui debba intendersi compiuto il quattordicesimo anno di età. Se Marciano può aver espresso questa opinione analizzando il medesimo problema discusso da Ulpiano, si coglie

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Lenel 1889.I, 657 ss. Supra, Introduzione all’opera.

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Domenico Dursi agevolmente come l’autore delle nostre Istituzioni avrebbe potuto riferire questa posizione in tutt’altro contesto, ad esempio, nell’affrontare il tema, più generale, del superamento della condizione di impubere. In questo caso, Ulpiano vi avrebbe fatto ricorso perché funzionale al discorso che andava conducendo. Poiché, tuttavia, risulta difficile provare l’una o l’altra ipotesi, si ritiene, nonostante le perplessità, di accogliere la scelta leneliana. Dubbi pone, invece, il brevissimo frammento tràdito in Marc. 4 inst., D. 49.14.31, ove è ricordato un rescritto dell’imperatore Commodo. Il testo affronta il problema della situazione dei beni di soggetti che siano stati catturati o presi in ostaggio. Esso, nella scansione leneliana418, chiude la terna dedicata alla testamenti factio attiva, che si apre con le ipotesi peculiari di conservazione della stessa, a fronte di situazioni in cui la si poteva perdere, per poi procedere alla più macroscopica eccezione in argomento, cioè quella relativa al peculium castrense dei soldati ancora soggetti alla potestà paterna. Con quest’ordine, peraltro, Lenel, dopo aver raccolto tutti i testi di materia consimile, li dispone secondo l’ordine in cui essi appaiono nel Digesto. Anche in questo caso, poi, risulta difficile seguire il diverso ordine individuato da Hommel419. Tuttavia, proprio alla luce del contenuto del frammento richiamato, su cui si rinvia al commento, mi sembra di non poter escludere una diversa successione, fondata – potremmo dire – sulla priorità di trattazione dell’eccezione di maggior rilievo, che, evidentemente, nella materia in esame era rappresentata dalla sussistenza in capo al filius familias soldato della testamenti factio attiva sui beni del peculium castrense. Se così fosse, si potrebbe immaginare che questo squarcio del quarto libro poteva aprirsi con il testo sulla testamenti factio del filius soldato; quindi, Marciano, per quanto di ciò non vi sia traccia, si sarebbe soffermato sull’ulteriore peculiare profilo dei soldati caduti in prigionia e morti in questa condizione, allorché, in forza della fictio legis Corneliae, il soldato si considerava morto al momento della cattura, con la conseguenza di salvare la validità del testamento. A questi argomenti, il nostro giurista avrebbe fatto seguire il testo concernente la cattura ad opera dei ladroni, il testamento dell’ambasciatore durante lo svolgimento dell’incarico e, infine, il testamento del condannato a morte che aveva proposto appello. Non mancherebbero argomenti in suffragio di questa successione. Si intuisce, ictu oculi, infatti, che si tratta di questioni connesse al tema del filius soldato. Nello specifico, quanto alla cattura ad opera dei briganti, sembrerebbe volersi porre in rilievo, per contrapposizione, che mentre la cattura di un soldato nel corso di una guerra dava luogo alla perdita della libertas, altrettanto non avveniva con riguardo al sequestro di persona, cui non seguiva – apprendiamo dal testo – la capitis deminutio maxima. Inoltre, è utile sottolineare come anche il tema della capacità di testare degli ambasciatori in missione presenta qualche analogia con la testamenti factio attiva del soldato soggetto alla patria potestà. Si tratta, a ben vedere, di soggetti che svolgono funzioni, per così dire, di interesse pubblico, per le quali, peraltro, incorrevano in non pochi pericoli. Tutto ciò, in qualche misura, giustificava alcuni privilegi nei loro confronti. Rispetto, invece, alla questione della validità del testamento di un condannato a morte, si trattava di un’ulteriore eccezione alla regola generale e, dunque, Marciano la riportava, appunto, a mo’ di mera segnalazione. Dopo tutto ciò, egli, invece, richiamando un rescritto dell’imperatore Commodo, ricordava come

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Lenel 1889.I, 657. Hommel 1767, 403 ss.

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Commento i beni dei soggetti in ostaggio – potremmo dire sequestrati – e quelli dei soggetti catturati erano raccolti nel fisco. Come accennavo, il frammento potrebbe apparire la giusta chiosa di un discorso in cui si erano sottolineate le divergenze tra la situazione di un soldato catturato in guerra e quella di un ostaggio o di un soggetto catturato dai romani. In questo caso, tuttavia, in ragione del medesimo grado di plausibilità delle due ipotetiche sequenze, reputo opportuno conservare l’ordine fissato da Otto Lenel. Risulta, poi, condivisibile la scelta di far seguire al tema della capacità di fare testamento quello della istituzione d’erede poiché la trattazione relativa alla testamenti factio, di cui ai brani precedenti, è prodromica a quella, più specifica, sulla composizione dell’atto mortis causa, come emerge, dichiaratamente, dalle Istituzioni di Gaio420. Il contenuto, poi, del primo lacerto sul tema, ove si focalizza l’attenzione su alcune peculiari forme di istituzione d’erede, peraltro, lascia immaginare come esso fosse preceduto dalla descrizione dell’ipotesi base, cioè il Titius heres esto. Dai testi a nostra disposizione, apprendiamo, poi, che Marciano affrontasse la complessa problematica della querela inofficiosi testamenti, soffermandosi, in qualche misura, sul tema dei limiti alla possibilità di fare testamento. Tra questi brani, Lenel riporta la costituzione giustinianea di cui si diceva. Tuttavia, ai fini di una corretta valutazione, si deve segnalare come il testo imperiale non indichi il luogo in cui Marciano aveva espresso la richiamata opinione, dunque non siamo in grado di dire se si trovasse nelle Istituzioni. La scelta leneliana si fonda – è di tutta evidenza – sulla materia affrontata, cioè la possibilità di attaccare un testamento a mezzo della querela inofficiosi testamenti, medesimo argomento discusso nel blocco di testi ove il paragrafo della costituzione imperiale egli ha inserito. Occorre, inoltre, rilevare, per quanto ciò non sia decisivo, come in nessun altro luogo a noi noto della produzione marcianea si affronti questo istituto e d’altro canto, nel brano immediatamente precedente, si affronta l’ipotesi simmetrica della legittimazione attiva alla querela del pater nei confronti del testamento del figlio naturale dato in adozione. Infine, come si osservava nell’Introduzione sull’opera, per i giustinianei e non solo le Istituzioni dovevano essere l’opera di riferimento di Marciano. Benché non vi siano prove in base alle quali affermare che l’opinione marcianea ricordata fosse stata ripresa dalle sue Istituzioni, a me pare che il brano fornisca importanti elementi per ricostruire il pensiero del maestro severiano in tema di querela inofficiosi testamenti e, in ragione di tanto, pur con le perplessità evocate, si condivide l’opzione leneliana. Infine, pure condivisibile appare la collocazione del testo concernente la revoca del testamento. Infatti, se osserviamo le Istituzioni gaiane421 possiamo rilevare come il tema della revoca sia affrontato dopo l’argomento dell’invalidità del testamento e prima della distinzione tra eredi necessari, propri ed estranei. Del resto, anche il successivo testo delle nostre Istitu-

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Gai. 2.114: Igitur si quaeramus, an valeat testamentum, inprimis advertere debemus, an is qui id fecerit habuerit testamenti factionem; deinde si habuerit, requiremus, an secundum iuris civilis regulam testatus sit, exceptis militibus, quibus propter nimiam inperitiam, ut diximus, quomodo velint vel quomodo possint, permittitur testamentum facere. (Se indaghiamo sulla validità del testamento, per prima cosa dobbiamo guardare se chi l’ha fatto aveva la capacità di fare il testamento; poi, se l’aveva, verificheremo se l’abbia fatto secondo le norme del diritto civile, eccettuati i militari, ai quali, per la loro troppa inesperienza, come dicemmo, si permette di fare testamento come vogliano o come possano). 421 Gai. 2.151 ss.

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Domenico Dursi zioni, relativo a un filius nominato erede in un testamento diverso da quello del pater, sembrerebbe riferirsi ad un heres extraneus. I testi a noi noti delle altre opere isagogiche più o meno coeve a quella marcianea, non consentono sul punto un confronto fruttuoso. D’altro canto, non siamo in grado di escludere che il frammento potesse costituire nel suo originario contesto, nulla più che un excursus, ma – si deve osservare – a ciò osterebbe la citazione letterale di un rescritto imperiale, che potrebbe essere la spia dell’importanza che il nostro giurista voleva assegnare al tema. In conclusione, mi pare di poter rilevare come, per quanto in certa misura discutibile, l’ordine individuato da Lenel dei frammenti a noi noti del quarto libro, appare nel complesso condivisibile. F. 50 – D. 28.1.5 Il testo è tratto dal commentario di Ulpiano a Sabino. Il giurista, segnatamente, afferma che l’età minima per confezionare un valido testamento è il compimento del quattordicesimo anno di età. Pone, poi, la questione della validità del testamento predisposto nel giorno del compimento dell’età prescritta. Egli ritiene di poter dare una risposta affermativa, anzi asserisce che il testamento sarebbe stato valido quand’anche fosse stato confezionato nel giorno precedente, purché dopo la sesta ora della notte. In ciò Ulpiano dichiara, apertis verbis, di aderire alla posizione di Marciano, per il quale, dopo la sesta ora della notte si doveva ritenere già iniziato il nuovo giorno. Per ciò che a noi interessa, apprendiamo soltanto che Marciano sul punto aveva espresso una posizione in materia di computo dei termini, accolta da uno tra i più importante giurista della sua epoca. F. 51 – D. 28.1.13pr.-2 Il testo si sofferma su questioni relative alla capacità a succedere. Nel dettaglio, Marciano afferma che colui il quale fosse stato rapito da briganti, avrebbe conservato la capacità testamentaria attiva, in quanto siffatto sequestro non determinava la perdita della libertà. La precisazione si rendeva necessaria, in quanto, in generale, la captivitas fuori dai confini rappresentava una causa di schiavitù, con la conseguente perdita di tutte le facoltà connesse allo status libertatis. Tuttavia, significativo al riguardo risulta l’utilizzo del lemma latrones, che indicava, per lo più, i delinquenti comuni422. La fattispecie, dunque, non è quella della cattura da parte dei nemici, quanto piuttosto, quella del sequestro di persona. Marciano, quindi, si sofferma sull’ipotesi di un tale che faccia testamento allorché si trovi fuori dai confini dell’impero al fine di svolgere un’ambasceria. Del resto – si potrebbe rilevare – l’attenzione per il testamento di un soggetto impegnato in un’ambasceria lascia intravedere una progressiva precarietà dei confini e, dunque, la necessità crescente di costruire rapporti con l’esterno: era il segno dei tempi. È facile intuire, poi, il motivo che può aver indotto qualcuno a confezionare il testamento in queste circostanze. Il pericolo di essere sequestrati o anche di essere ammazzati, infatti, aumentava esponenzialmente durante lo svolgimento, magari in territorio ostile, di questi incarichi. Quanto alle ragioni della precisazione ad opera del giurista, a me pare che si debbano

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Morgese 1983, 161 s.

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Commento rinvenire nel rilievo che, dato il peculiare contesto in cui il testamento veniva posto in essere, talune formalità per esso prescritte non avrebbero potuto essere rispettate: ciò avrebbe potuto, in linea di massima, inficiare l’atto mortis causa, predisposto all’interno dell’impero. In tal senso, la previsione di considerare valido il testamento, doveva costituire un beneficio concesso in ragione dell’incarico da espletarsi, non privo di rischi e pur sempre nell’interesse di Roma. Nell’ultimo periodo del frammento, Marciano presenta un’ulteriore, peculiare ipotesi relativa alla possibilità di fare un valido testamento. Si tratta del caso di un soggetto che condannato a morte abbia richiesto un giudizio d’appello nell’ambito di un procedimento penale. Ove, nelle more del procedimento, costui avesse confezionato un testamento e fosse, poi, morto, in pendenza di giudizio, l’atto mortis causa avrebbe conservato la sua validità. In ragione di tanto, è stato osservato come gli eredi, in questo caso, non avrebbero avuto interesse a proseguire nell’impugnazione della sentenza di primo grado sempre che non venisse in rilievo il crimine di alto tradimento423, e a condizione che, come peraltro, apprendiamo da un’altra opera marcianea424, non si sia trattato di suicidio per evitare la condanna. Sembrerebbe, nel passo, emergere l’idea che la morte interrompe la persecuzione penale, da cui sarebbe discesa la privazione al reus della testamenti factio attiva425. Del resto, altrettanto può leggersi in Ulpiano nel suo commentario a Sabino426, da cui emerge da un lato che sul punto vi fu un intervento di Marco Aurelio, dall’altro che, il giurista, utilizzando il verbo puto, non presentava l’affermazione con i caratteri dell’assoluta certezza, il che, tuttavia, potrebbe comprendersi alla luce di una situazione in parte diversa da quella descritta da Marciano. Ulpiano, infatti, prospetta anche il caso che l’appello non sia stato receptum dal giudice a quo, nel caso di specie il praesides, il quale, tuttavia si sia rimesso all’imperatore. In attesa dell’intervento di quest’ultimo, il testamento doveva reputarsi pienamente valido. F. 52 – D. 29.1.22 Il testo, in parte adoperato anche per la composizione delle Istituzioni di Giustiniano427, si sofferma sull’ipotesi di un soldato ancora sottoposto alla potestà del padre, dunque filius, che

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Zilletti 1968, 88. Marc. l.s. de delat., D. 48.21.3pr.: Qui rei postulati vel qui in scelere deprehensi metu criminis imminentis mortem sibi consciverunt, heredem non habent. (Coloro che accusati come rei o che sorpresi nella scelleraggine, per timore del crimine sovrastante si diedero la morte, non hanno erede). 425 Manni 2013, 21 nt. 44. 426 Ulp. 10 ad Sab., D. 28.3.6.9: Quid tamen si appelationem eius praeses non recepit, sed imperatori scribendo poenam remoratus est? Puto hunc quoque suum statum interim retinere nec testamentum irritum fieri: nam, ut est oratione divi Marci expressum, tametsi provocantis vel eius pro quo provocatur appellatio non fuerit recepta, poena tamen sustinenda est quoad princeps rescripserit ad litteras praesidis et libellum rei cum litteris missum (…). (Che dire tuttavia, se il preside della provincia non ha ammesso l’appello di quello, ma, scrivendo all’imperatore, ha ritardato la pena? Reputo che anche costui conservi intanto la sua condizione giuridica, e il suo testamento non diventi irrito: infatti, come è detto in una orazione del divo Marco, pure se l’appello dell’interessato o di chi l’ha proposto per lui non sia stato ammesso, la pena dovrà essere tuttavia sospesa fino a quando il principe non avrà risposto con rescritto alla lettera del preside della provincia e al libello del reo inviato con la lettera […]). Sul punto, Campolunghi 1972, 152 ss. 427 Inst. 2.11.5: Denique et si in adrogationem datus fuerit miles vel filius familias emancipatus est, testamentum eius quasi militis ex nova voluntate valet nec videtur capitis deminutione irritum fieri. (Infine, anche se il soldato fu arrogato o come figlio di famiglia fu emancipato, il suo testamento è valido come per volontà nuova del soldato, né si ritiene che diventi irrito a causa della perdita della precedente condizione). 424

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Domenico Dursi ha confezionato un atto mortis causa, argomento che, pure, rientra tra quelli concernenti la capacità di testare. Come noto, ciò che contraddistingueva la condizione di soldati alieni iuris era non soltanto, almeno a far data dall’età di Augusto, la titolarità del peculium castrense, ma anche la possibilità di disporre mortis causa di siffatti beni428. Il caso affrontato da Marciano, a ben vedere, si riferisce, giustappunto a una siffatta ipotesi. La fattispecie descritta è, infatti, quella della validità di un testamento predisposto da un soldato figlio di famiglia, il quale cambi status e cioè venga emancipato, divenendo così soggetto sui iuris, o sia dato in adozione, nel qual caso viene ad essere modificato il titolare della potestas su di lui. In entrambe le circostanze, afferma il giurista, il testamento resta valido e ciò si comprende agevolmente, in quanto nel caso della emancipatio il soggetto diventa sui iuris, dunque può, con pienezza di facoltà, preparare un nuovo testamento; rispetto alla seconda ipotesi, invece, quella dell’adoptio, il filius in armi mantiene, pur sempre, la facoltà di testare sui beni acquistati durante e in ragione del servizio militare. Alla luce di tanto, in entrambe le ipotesi presentate, il figlio che aveva fatto testamento in armi poteva, ove avesse cambiato idea, riformularlo: in mancanza di ciò, sembra potersi dedurre dall’argomentare marcianeo, si doveva ritenere che vi fosse una conferma, anzi che permanesse la precedente manifestazione di volontà. La regola che il nostro giurista espone, sembra, dunque espressione di ius receptum. F. 53 – D. 49.14.31 Il testo richiama un rescritto di Commodo che equiparava la sorte dei beni di un ostaggio a quella dei beni dei soldati catturati in guerra. In entrambi i casi, infatti, i beni sarebbero stati raccolti nel fisco429. Una prima considerazione: il rilievo che l’imperatore equiparasse gli ostaggi ai prigionieri di guerra potrebbe lasciar pensare che la condizione di queste due categorie di soggetti non fosse identica. Se vi fosse stata piena coincidenza di statuto giuridico, non sarebbe stato necessario, forse, distinguerli per poi assimilarli sotto il profilo considerato. Si deve, inoltre, precisare come gli obsides potessero fare testamento ove ciò gli fosse stato consentito, come ci informa Ulpiano nel suo commento a Sabino430. In ragione di ciò, possiamo ritenere, plausibilmente, che il rescritto fosse rivolto a soggetti che non disponevano della ricordata concessione. Difficile dire se l’intervento imperiale avesse carattere innovativo. Al riguardo, tuttavia, sembrerebbe più verosimile ritenere che la pronuncia si limitasse a svolgere una ricognizione del diritto in vigore431. Un’ultima considerazione intorno a questo breve escerto. Si deve, infatti, segnalare come il tema degli obsides ritorni in un altro luogo delle Istituzioni di Marciano, nel libro 14432, ove il giurista richiama un rescritto di Marco Au-

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Guarino 1941, 41 ss.; Talamanca 1990, 123; Fascione 2008, 1043, ss. Boulvert 1974, 46 nt. 272; Giangrieco Pessi 1988, 138 nt. 266; Puliatti 1992, 121 nt.126; Marotta 2018, 216. 430 Ulp. 10 ad Sab., D. 28.1.11: Obsides testari non possunt, nisi eis permittitur (Gli ostaggi non possono fare testamento, se non sia stato loro permesso). 431 Così Marotta 2018, 218. 432 Marc. 14 inst., D. 49.14.32: Sed si accepto usu togae Romanae ut cives Romani semper egerint, divi fratres procuratoribus hereditatium rescripserunt sine dubitatione ius eorum ab obsidis condicione separatum esse beneficio principali, ideoque idem ius eis servandum, quod habent, si a legitimis civibus Romanis heredes instituti fuissent. (Ma se avendo avuto l’uso della toga romana abbiano operato sempre come cittadini romani, i divi fratres stabilirono per rescritti ai procuratori delle eredità che la loro condizione giuridica per beneficio del principe è diversa dalla condizione dell’ostaggio per cui deve essere loro conservato il diritto che avevano gli eredi se fossero stati istituiti da legittimi cittadini romani). 429

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Commento relio e Lucio Vero in base al quale, ove gli ostaggi avessero usato la toga romana e si fossero comportati da cittadini romani, proprio in virtù di una concessione imperiale, avrebbero potuto destinare i propri beni mortis causa proprio come i cittadini romani. Non è questa la sede per soffermarsi oltre sul testo del libro 14, ma si deve qui considerare come i Compilatori giustinianei fusero questo testo con quello testé analizzato, forse proprio in ragione della materia affrontata, senza con ciò alterare l’ordine bluhmiano delle masse433. Certo è, in definitiva, che le Istituzioni di Marciano forniscono un contributo non secondario per la ricostruzione dello status degli ostaggi. F. 54 – D. 28.5.49pr.-3 Nel brano si possono osservare una serie di esempi di istituzione che si discostano dalla forma solenne Titius heres esto. Marciano afferma che devono considerarsi valide formule quali ‘Tizio sia padrone della mia eredità’; ‘sia erede mio figlio irrispettoso e per me non meritevole’. In ciò, il giurista severiano sembra voler accordare prevalenza a un criterio di tipo, per così dire, sostanzialista, in quanto, a ben vedere, riconosce valida una dichiarazione di volontà, purché sia chiara434. In ciò notevoli appaiono le differenze con Gaio, il quale riteneva efficaci solo le formule Titius heres hesto e Titium heredem esse iubeo, mentre non dovevano ritenersi approvate espressioni come ‘Titium heredem esse volo’, ‘Titium heredem instituo’ e ‘heredem facio’435. La diversa impostazione tra i due giuristi che interviene in un torno di tempo di circa 70 – 80 anni, pone in rilievo la sempre maggiore rilevanza che andava acquisendo il favor testamenti (espressione che – è bene ricordarlo – non trova riscontro nei giuristi romani), cui sembra connettersi almeno in materia, una linea di tendenza volta al progressivo superamento della rigidità delle forme. Basti pensare, al riguardo, che nelle Istituzioni di Giustiniano non vi è un solo riferimento al problema della formula da adoperare per una valida istituzione di erede. Tornando al lacerto in esame, invece, apprendiamo che il nostro giurista non assegna valenza giuridica alcuna a eventuali improperi o giudizi di valore rivolti all’erede che accompagnavano l’istituzione. Ancora una volta, emerge una visione estremamente pragmatica, in forza della quale non venivano prese in considerazione affermazioni ultronee del de cuius che non si erano concretizzate in una diversa scelta. In altre parole, a ben vedere, il testatore, al netto dei giudizi espressi, aveva optato per la nomina ad erede, piuttosto che a una diseredazione, ciò che, in fin dei conti, giuridicamente rilevava. Il testo prosegue attraverso la disamina della invalidità dell’istituzione d’erede di uno schiavo ad opera della sua padrona al fine di contrastare la relazione adulterina tra i due. In particolare, mi pare, in primo luogo, degna di sottolineatura la specificazione ‘interdum nec cum libertate’. Essa, infatti, lascia sullo sfondo, ancorché pienamente percettibile, la discussione giurisprudenziale se per l’istituzione d’erede di un servus fosse necessaria, prima, una manomissione. Di siffatta discussione è ricordo nelle Istituzioni di Giustiniano436, dalle quali apprendiamo come un tempo molti pareri erano per la contestualità tra manomissione e istituzione di erede, ma ciò – evidentemente – non era pacifico; al tempo di Giustiniano si poteva

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Su tutto ciò Marotta 2018, 217. De Giovanni 1989, 125. 435 Gai. 2.117. 436 Inst. 2.14pr. Sul testo si veda Luchetti 1996, 27 ss. e 602; Luchetti 2004, 107 ss. 434

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Domenico Dursi anche solo procedere ad una istituzione di erede senza declaratoria di libertà, come era stato stabilito dal medesimo imperatore in una costituzione del 531437. Dallo stesso luogo del manuale, inoltre, apprendiamo che primo fautore dell’opinione accolta da Giustiniano era stato Atilicino, il che ai commissari risultava dai commenti di Paolo a Sabino e a Plauzio. Gaio, invece, affermava, apertis verbis, che per una valida istituzione di erede di un servo, occorresse la contestuale manomissione e indicava anche le formule utilizzabili438. Marciano, proprio in forza dell’espressione adoperata, sembrerebbe considerare la contestuale manomissione dello schiavo non un requisito strettamente necessario. In altre parole, dalla lettura del testo parrebbe ricavarsi che l’istituzione d’erede di un servo è, in linea di massima, valida ed efficace, ma, in talune circostanze, essa non è valida neppure se ricorra l’ulteriore requisito della contestuale manomissione. Quest’ultima, insomma, parrebbe qui presentata come il più alto grado di correttezza formale, ormai desueta nella prassi negoziale. Alla luce di ciò, mi pare di poter osservare come, probabilmente, Marciano accogliesse una posizione in origine minoritaria, contribuendo, poi, con la sua adesione, almeno in parte, al sovvertimento dell’opinione dominante. Del resto, il paragrafo delle Istituzioni richiamato acclude al suo interno anche il brano marcianeo qui in commento. La fattispecie descritta, nello specifico, è quella dell’istituzione di erede del servus accusato di adulterio da parte della proprietaria che era stata imputata del medesimo crimen. Il giurista ricorda come sul tema intervenne una costituzione dei divi Settimio Severo e Caracalla, le cui parole egli dichiara di riportare. Sul punto, in primo luogo, andrebbe chiarito a quale tipo di provvedimento imperiale facesse riferimento Marciano attraverso il lemma, per certi versi generico, di costituzione imperiale. A me pare che, con un certo grado di verosimiglianza, si possa escludere potesse trattarsi di un rescritto: il giurista, infatti, quando richiama questo tipo di provvedimento utilizza l’espressione tecnica. Peraltro, la circostanza che in questo caso Marciano dichiari di riportare il testo potrebbe essere un indizio circa la portata generale dell’intervento stesso, dunque potrebbe trattarsi di edicta o mandata. Sulla questione, tuttavia, occorre segnalare una discrasia. Infatti, si può osservare agevolmente come il testo del provvedimento imperiale riportato nel brano in esame, presenti delle sia pur lievi differenze con quello riportato nel passo corrispondente delle Istituzioni di Giustiniano439. In particolare, nel testo del Digesto si parla di schiavo accusato di adulterio; in quello del manuale del VI secolo si parla di servo che si era macchiato di adulterio. Quest’ultimo lemma, nel primo caso compare al genitivo, nel secondo all’ablativo; infine, in un caso si legge quae rea fuerit, nell’altro quae rea fuerat. Queste piccole divergenze sembrerebbero riproporre “il problema del testo delle Costituzioni imperiali” che sarebbe sorto in ragione della sottolineata attività di ‘massimizza-

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C. 6.27.5. Gai. 2.185-190. 439 Inst. 2.14pr.: (…) ut constitutione divorum Severi et Antonini cavetur, cuius verba haec sunt: ‘servum adulterio maculatum non iure testamento manumissum ante sententiam ab ea muliere videri, quae rea fuerat eiusdem criminis postulata, rationis est: quare sequitur, ut in eundem a domina collata institutio nullius momenti habeatur’. (…) ([…] come è disposto da una costituzione dei divi Severo ed Antonino, i termini della quale sono: “è ragionevole che, prima della sentenza, lo schiavo macchiato d’adulterio non appaia legittimamente manomesso per testamento, da parte della donna che era stata incolpata del medesimo crimine: ne consegue che l’istituzione del medesimo da parte della padrona si debba ritenere senza effetto”. […]). 438

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Commento zione’ cui andavano incontro questi testi440; per vero, occorre precisare che esse, nel nostro caso, non incidono sulla sostanza della costituzione. Tale ultima considerazione, peraltro, è indicativa, in certa misura, dell’attendibilità di Marciano. Segnatamente, il provvedimento autoritativo stabiliva che prima della emanazione della sentenza, uno schiavo imputato per adulterio non potesse considerarsi manomesso attraverso il testamento, ove quest’ultimo fosse stato confezionato dalla donna accusata per il medesimo misfatto. In ragione di tanto, chiosava il giurista, l’istituzione di erede posta in essere dalla donna non aveva alcuna validità. Il fondamento della decisione imperiale riportata è da rinvenirsi, probabilmente, nell’irrogazione di una sanzione accessoria per lo schiavo. La pendenza del processo, cioè, determinava una sorta di sospensione dell’efficacia di una clausola testamentaria redatta a regola d’arte. È di tutta evidenza, del resto, che la condanna per adulterio nei confronti di uno schiavo avrebbe avuto conseguenze ben più gravi di quella rivolta ad un uomo libero. Non si può, d’altra parte, fare a meno di rilevare come la costituzione imperiale determinasse una limitazione della capacità testamentaria della donna adultera. Ciò, a ben vedere, non può stupire perché anch’ella, in caso di condanna dello schiavo, sarebbe risultata colpevole di adulterio441. La chiosa del frammento chiarisce, in via definitiva, il pensiero di Marciano sul punto. L’unico aspetto rilevante in tema di istituzione d’erede era la chiarezza dell’indicazione, a nulla valendo false affermazioni circa il padre, la patria o altri aspetti simili. È da credere che il riferimento sia ad affermazioni contenute nel testamento e quindi ad opera del de cuius e ciò in ragione dell’apertura del paragrafo, ove si dice, appunto, che questo tipo di considerazioni non sono idonee ad inficiare l’istituzione di erede. F. 55 – D. 28.6.36pr.-1 Il brano, ripreso sia pur in maniera rimaneggiata nelle Istituzioni di Giustiniano442, prosegue nella trattazione di questioni concernenti la scelta dell’erede testamentario. Vi leggiamo, infatti, che è consentito formulare un’istituzione in forza della quale si individuino successori ex testamento per l’ipotesi in cui il primo istituito non diventi erede. Si tratta, in altre parole, di una ulteriore istituzione sottoposta alla condizione che il primo chiamato non acquisti l’eredità. La figura che viene in rilievo è quella della substitutio cosiddetta volgare443. Il brano ci rende edotti circa la possibilità di prevedere all’interno di un testamento una sostituzione di un grado o di più gradi, a seconda che il sostituto abbia a sua volta sostituti. Il meccanismo, specifica Marciano, può essere ripetuto per un numero indefinito di volte. Tuttavia, ove il testatore desideri porre fine alla catena di sostituzioni, può sempre individuare tra i sostituti

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Volterra 1971, 826 ss. e 1094 ss. Botta 2016, 112, rileva come si tratti “di un crimine a necessaria compartecipazione”. 442 Inst. 2.15pr.: Potest autem quis in testamento suo plures gradus heredum facere, ut puta ‘si ille heres non erit, ‘ille heres esto’: et deinceps in quantum velit testator substituere potest et novissimo loco in subsidium vel servum necessarium heredem instituere. (Taluno può nel proprio testamento fissare più gradi di eredi, ad esempio “se non sarà erede quello, sia erede quell’altro”; e così di seguito il testatore può sostituire quante volte vuole, e, alla fine, come riserva, istituire erede necessario anche un servo). Wieacker 1975, 203 ritiene che il testo presenti meno omissioni rispetto al corrispondente del Digesto i cui responsabili, per lo studioso, non sarebbero stati, tuttavia, i giustinianei. 443 Voci 1963, 160. 441

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Domenico Dursi uno schiavo, il quale, in quanto erede necessario, non può rifiutare l’eredità444, il che avveniva, per lo più, nei casi di eredità oberate445. Non è questa la sede per indugiare sulle ragioni che potevano indurre un istituito a non accettare; pertanto, sia qui sufficiente segnalare come ciò potesse discendere o dalla mancanza di volontà, dovuta ad esempio, come si ricordava, ad un’eredità svantaggiosa o dall’incapacità, nel qual caso, tuttavia, erano previsti rimedi. Inoltre, il giurista specifica che a un soggetto istituito possono sostituirsene una molteplicità e viceversa. D’altro canto, è bene precisare che la sostituzione, ove acquisti efficacia, è in tutto e per tutto una istituzione d’erede. L’ultima ipotesi richiamata è quella di un testamento in cui più istituiti eredi vengano vicendevolmente indicati come sostituti, ove uno dei coeredi non acquisti l’eredità. L’ipotesi più semplice è quella di due coeredi che siano, reciprocamente, l’uno il sostituto dell’altro. In questo caso, l’istituito che accetta, acquista tutto il patrimonio ereditario. F. 56 – Inst. 2.15.2-3 I brani appaiono attribuibili a Marciano446, in quanto risultano collocati nel manuale giustinianeo subito di seguito a Inst. 2.15.1 in larga misura coincidente con un testo marcianeo tratto dal libro IV delle Istituzioni del giurista e trádito in D. 28.6.36.1 e poco sopra esaminato. Inoltre, in essi ricorre il criterio ferriniano della citazione di rescritti imperiali. In ragione, ancora una volta, della materia affrontata, sembra utile esaminarli congiuntamente. Conformemente alla sezione del IV libro ove appare verosimile collocare i due paragrafi in questione, essi discutono casistica concernente l’istituzione d’erede e, più in particolare, quella peculiare ipotesi di istituzione sottoposta a condizione che è la sostituzione. Già la parte conclusiva del brano poco sopra commentato, in effetti, indugiava su questa fattispecie e, anzi, giustappunto, sull’ipotesi che due coeredi fossero vicendevolmente indicati l’uno sostituto dell’altro. Il primo dei testi in esame, in effetti, prosegue su quest’ipotesi, aggiungendo, però, l’ulteriore elemento della diversità delle quote dell’iniziale istituzione. In altre parole, siamo al cospetto dell’istituzione di due coeredi per quote diverse e di una sostituzione dell’uno all’altro e viceversa, senza la specificazione delle quote. La questione dovette essere al centro di qualche controversia se fu necessario un intervento di Antonino Pio, peraltro conservato ancora nel Codice di Giustiniano. Osserviamolo: C. 6.26.1.Tit. Ael. Ant. A. Secundo: Cum heredes ex disparibus partibus instituti et invicem substituti sunt nec in substitutione facta est ullarum partium mentio, verum est non alias partes testatorem substitutioni tacite inseruisse, quam quae manifeste in institutione expressae sunt. D. Claro II et Severo conss. [a. 146] Essendo stati gli eredi istituiti per parti diverse e vicendevolmente sostituiti l’uno all’altro nella sostituzione non fu fatta menzione di alcuna parte, è corretto ritenere che il testatore non abbia tacitamente inserito altre parti nella sostituzione che quelle espresse manifestamente nell’istituzione.

444

Spina 2012, 113 nt. 95. Biondi 1955, 105. 446 Analogamente, sia pur con qualche dubbio, Luchetti 1996, 246. 445

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Commento Si tratta, è bene ricordarlo, del più antico provvedimento di Antonino Pio ricordato nel Codex e, più in generale, di uno dei più antichi in assoluto447. Come si evince agevolmente, la prima parte del testo analizza la fattispecie disaminata nel testo delle Istituzioni imperiali e, verosimilmente, attribuibile a Marciano. Ciò che più importa, è tuttavia, la regola sancita per disciplinare il caso. Si deve ritenere – statuisce Antonino Pio – che il de cuius abbia inteso che la sostituzione riguardasse le quote per le quali era stato istituito l’erede che non aveva acquistato l’eredità, dunque, appunto, quelle chiaramente indicate in sede di istituzione. L’ulteriore paragrafo, pure, indugia su un’ipotesi assai particolare di sostituzione. La situazione di fatto che viene in rilievo è quella di un soggetto che sia coerede di un altro e, al contempo, indicato come sostituto qualora il coerede non acquisti l’eredità. A sua volta, il testatore si è ulteriormente cautelato individuando un sostituto per il primo istituito erede. In sostanza, in base alla previsione testamentaria, sembrerebbe operare un meccanismo per il quale, ove il coerede non accetti, l’eredità è acquistata dall’altro coerede indicato anche come sostituto, il quale acquisirebbe, in virtù della sostituzione, l’intero asse ereditario, sempre che si tratti di due coeredi. Ove, però, anche questi, per qualsivoglia causa, non abbia acquistato l’eredità, acquista il soggetto individuato come suo sostituto, il quale è come se si trovasse nella posizione di istituito di grado ulteriore per entrambi i coeredi e, dunque, sottoposto alla duplice condizione della mancata accettazione da parte di entrambi gli eredi, con la conseguenza di acquisire le quote di spettanza di entrambi gli istituiti448. Ciò fu stabilito, in effetti, da un intervento di Settimio Severo e Caracalla, i quali, verosimilmente, pervennero a questa decisione sul presupposto che la mancata accettazione del primo coerede automaticamente desse luogo all’acquisto dell’asse da parte dell’altro coerede indicato in sostituzione. In ragione di ciò, la mancata accettazione di quest’ultimo, apriva al di lui sostituito la possibilità di acquistare tutto il patrimonio ereditario. F. 57 – D. 28.7.14 Marciano in questo luogo illustra il caso di un testamento ove l’istituzione di erede o il riconoscimento di un legato siano sottoposti a una condizione, cioè vi è una subordinazione dell’efficacia di siffatte dichiarazioni testamentarie al verificarsi di un evento futuro e incerto. In particolare, però, le condizioni considerate dal giurista sono quelle che contrastano con gli editti imperiali, le leggi o altre disposizioni di analoga natura, o ancora, violino il buon costume, siano irridenti o si presentino in una forma tale che, alla luce dei precedenti, si possa immaginare che il pretore le avrebbe invalidate. Prima di soffermarci sulle questioni di diritto successorio, è bene ricordare come il testo sia stato vagliato anche sotto il profilo delle teorie giuridiche in materia di potere normativo imperiale. Al riguardo, è stato sottolineato come nell’elencazione di fonti presente nel brano sembrerebbe emergere un “maggior rango della norma imperiale rispetto alle stesse leggi pubbliche”449. Ad ogni modo, le condizioni con i caratteri esplicitati, afferma il giurista, non inficiano il testamento e, pertanto, sia l’istituzione d’erede accompagnata da una siffatta clausola, sia la

447

Si veda, per un’attenta disamina, Müller-Eiselt 1982, 35 ss. Luchetti 1996, 248. 449 Marotta 2000, 82; Marotta 2016, 66 nt. 16. 448

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Domenico Dursi designazione di un legatario, sono da reputarsi perfettamente valide, in quanto la condizione è da considerarsi non apposta. Si tratta, come è stato rilevato450, di un’applicazione della ‘regula Sabiniana’ per la quale si nega l’esistenza di un fatto sussistente. In passato, molti sono stati i dubbi avanzati circa l’autenticità del testo451, ma le ragioni addotte, fondate – par di capire – sulla circostanza che vi sarebbe un duplice richiamo all’interno dell’elencazione alle costituzioni imperiali, non appare convincente. A ben vedere, infatti, non per forza l’espressione vicem legis optinet, che in Gaio indica anche le costituzioni imperiali, in Marciano assumeva analogo significato. A me pare, anzi, che Marciano in questo caso adoperasse la locuzione alla stregua di una clausola di chiusura, come a voler indicare tutte le fonti del diritto che in tal modo evitava di elencare e, tra queste, vi rientravano senatoconsulti, responsa prudentium e, forse, le formae generali dei prefetti del pretorio452. Così come, poco convincente risulta la circostanza, sottolineata da Voci453, che sull’argomento vi sarebbero delle differenze tra la posizione di Ulpiano, per il quale le condizioni improbatae non si avrebbero civilmente per non scritte, e quella di Marciano. Nulla esclude che i due giuristi avessero opinioni discordanti. In altri termini, non mi pare vi siano fondati motivi per ritenere il testo manipolato454, dunque, ciò che in esso emerge, è ragionevolmente ascrivibile al pensiero del nostro giurista. Né possiamo escludere che Marciano sull’argomento fosse un innovatore, o, quanto meno, che assegnasse portata generale alla regola per cui le condizioni illecite si considerassero non apposte. Possiamo osservare come Papiniano, parrebbe esprimersi in maniera non del tutto collimante: Pap. 16 quaest., D. 28.7.15: Filius, qui fuit in potestate, sub condicione scriptus heres, quam senatus aut princeps improbant, testamentum infirmet patris, ac si condicio non esset in eius potestate: nam quae facta laedunt pietatem existimationem verecundiam nostram et, ut generaliter dixerim, contra bonos mores fiunt, nec facere nos posse credendum est. Un figlio, che era in potestà, istituito per iscritto erede sotto una condizione che il senato o il principe riprovano, renderà invalido il testamento del padre, come se non fosse in sua potestà: giacché gli atti che offendono la nostra pietà, la nostra dignità, il nostro senso del pudore, e, per esprimersi in termini generali, che vanno contro i buoni costumi, si deve credere che non possiamo neppure compierli.

Il giureconsulto sostiene che una condizione riprovevole per il principe o il senato apposta all’istituzione d’erede del filius rendeva invalido l’intero testamento. Ciò, secondo il maestro di diritto, perché si doveva ritenere che non si potessero compiere gli atti contrari al buon costume. Per quanto la parte finale del frammento potrebbe indurre a ritenere che l’affermazione di Papiniano volesse avere una portata generale, potremmo anche immaginare che si riferisse all’ipotesi particolare dell’istituzione testamentaria del suus. Di più: nel testo sembrerebbe farsi riferimento a una specifica condizione disapprovata dal senato o dal principe,

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Cossa 2013, 432 ss. Voci 1963, 804. 452 In tal senso, Marotta 2000, 82; esclude la sussistenza di un potere normativo in capo al prefetto del pretorio, almeno in riferimento all’età severiana, Arcaria 1997, 301 ss. 453 Così, Voci 1963, 804. 454 Calore 1988, 231 ss. 451

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Commento non a una condizione contra leges. Certo è che agli occhi dei giustinianei i due testi non dovevano presentarsi in antitesi, considerato che li collocarono uno di seguito all’altro, a meno che non si voglia immaginare una svista, magari dovuta all’estrapolazione dei due testi da parte di due diverse sottocommissioni: la sabiniana e la papinianea. Anche a voler intravedere una possibile antitesi tra i due brani, non si può, come si osservava, escludere che sul punto Marciano proponesse un’opinione innovativa rispetto a quella di giuristi a lui coevi. Infatti, non sfugge come una condizione tra quelle descritte, apposta all’istituzione di erede avrebbe potuto essere considerata idonea a manifestare la mancanza di un serio intento testamentario e, perciò solo, determinare l’invalidità dell’atto mortis causa. Tuttavia, anche in questo caso, per Marciano doveva trovare applicazione il favor testamenti, per cui si tendeva sempre a salvare il testamento. Di più: è stato evidenziato455 come l’utilizzo da parte del giurista dell’espressione pro non scriptis, che contiene in sé il concetto di inesistenza, implichi il superamento della remissio, procedimento pretorio, fino ad allora applicato in questi casi, che impediva la realizzazione degli effetti di un atto valido per il diritto civile. In altre parole, quest’ulteriore innovazione consisteva nel venir meno della necessità di chiedere l’intervento del magistrato per porre nel nulla le suddette condizioni, che, ora, venivano considerate automaticamente inesistenti. L’impostazione di Marciano dovette prevalere, se è vero che il testo è stato ripreso, sia pur con qualche differenza, dall’autore delle Pauli Sententiae456 e dai Compilatori giustinianei. F. 58 – D. 28.7.16 Il testo tratta ancora di ipotesi peculiari di istituzione d’erede. In particolare, si prospetta un’istituzione in base alla quale, ove un soggetto fosse diventato erede, lo sarebbe diventato anche l’altro e viceversa. Si capisce che se la condizione affinché Seio sia erede risiede nel fatto che Tizio accetti l’eredità, e, di contro, affinché quest’ultimo possa considerarsi erede occorre che Seio già lo sia diventato, si sta descrivendo una situazione che non può realizzarsi. Il nostro giurista richiama l’opinione di Giuliano sul punto. Questi riteneva che l’istituzione fosse inefficace in quanto sottoposta a condizione impossibile. Non siamo in grado di stabilire, dal dato testuale, in quale opera il giurista adrianeo avesse espresso questa opinione. Lenel457 suppone potesse trattarsi del trentesimo libro dei Digesti giulianei ove veniva affrontato il tema dell’istituzione d’erede e delle sostituzioni. Qualche studioso, tuttavia, ha parlato, non già di impossibilità, quanto piuttosto, di condizione perplessa che discenderebbe dalla illogicità della medesima che la renderebbe incomprensibile458. Dal testo non risulta se Marciano condividesse il parere di Giuliano, tuttavia, non emergendo un diverso punto di vista, appare verosimile ritenere che il nostro accogliesse la chiave di lettura offerta dal giureconsulto adrianeo. Se così fosse, pare utile segnalare come Marciano

455

Calore 1988, 231 ss. P.S. 3.4b.2; d’Ors 1995-1996, 20 ss.; sul più generale tema dell’attribuzione dell’opera si veda Ruggiero 2017, passim. 457 Lenel 1889.I, 394. 458 Voci 1963, 614 nt. 113; recentemente Cossa 2013, 336 nt. 264 e 352 nt. 283, il quale sottolinea come mentre le condizioni impossibili si avrebbero per non apposte, quelle perplesse inficerebbero l’atto. 456

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Domenico Dursi distinguesse tra condizioni illecite e condizioni impossibili. Nel testo esaminato subito prima, infatti, il giurista considerava non apposte condizioni contrarie a costituzioni imperiali, leggi e buon costume, e, dunque, il testamento risultava salvo. In questo caso, invece, in presenza di una condizione impossibile, l’istituzione stessa restava inficiata. D’altro canto, il subordinare l’efficacia della nomina di un erede al verificarsi di un evento impossibile palesa la mancanza di una reale volontà testamentaria, pertanto, non poteva salvaguardarsi la volontà del de cuius attraverso il ricorso al favor testamenti. F. 59 – D. 5.2.2 Il lacerto, ripreso in parte nelle Istituzioni di Giustiniano459, inaugura un blocco di brani sul tema della querela inofficiosi testamenti. Appare verosimile che quello in esame fosse uno dei paragrafi introduttivi dell’argomento in quanto il testo presenta un contenuto definitorio. In particolare, trattavasi, come noto, di un’azione esperibile dal figlio o da un ascendente diseredato460, il quale lamentava la condotta paterna non rispettosa dei doveri familiari, che si fingeva causata – come leggiamo – da uno squilibrio mentale del pater. Essa, in caso di esito positivo, determinava la caduta del testamento e l’apertura della successione ab intestato461, producendo, pertanto, effetti rescindenti462 e, in estrema sintesi, in certa misura, dava luogo a una successione necessaria463. Chiara, nel testo, risulta l’allusione al color insaniae, che, come posto in rilievo464, traeva origine dagli ambienti retorici già a partire dall’età repubblicana. Il giurista precisa con specifiche scelte lessicali come si trattasse di una mera finzione. Ciò, infatti, oltre a desumersi dal quasi non sanae mentis fuerunt, dal dicitur non quasi vere furiosus, è puntualizzato dall’affermazione che, in realtà, il testamento è correttamente confezionato, salva, appunto, la mancanza del rispetto degli officia familiaria465: l’artificio – è stato rilevato466 – serviva a giustificare, verosimilmente, l’atteggiamento riprovevole verso i propri più stretti congiunti da parte del pater. Del resto, chiosa Marciano, se il de cuius fosse stato davvero pazzo, il testamento sarebbe stato nullo467. Bisogna soffermarsi su quest’ultima annotazione. Infatti, l’eventuale esito positivo della querela, avrebbe determinato, pur sempre, il venir meno del testamento. In ragione di tanto, pare opportuno ritenere che il maestro di diritto si riferisse, con argomentare ellittico,

459 Inst. 2.18pr.: (…) hoc colore, quasi non sanae mentis fuerunt, cum testamentum ordinarent. Sed hoc dicitur, non quasi vere furiosus sit, sed recte quidem fecit testamentum, non autem ex officio pietatis: nam si vere furiosus est, nullum est testamentum. (evocando l’apparenza che i testatori, quando fecero testamento, non fossero sani di mente. Ma ciò detto nel senso non che il testatore sia effettivamente pazzo, ma che pur avendo fatto testamento in modo regolare, non l’ha tuttavia fatto in maniera conforme alle esigenze etiche: invero, se è davvero pazzo, il testamento è nullo). Sul confronto tra i due testi si veda Wieacker 1975, 204. 460 Pap. 4 quaest., D. 5.2.15pr.; Paul. lib. sing. de sept. iud., D. 5.2.31.1. 461 Marrone 1955, 7, 89 ss. e 493 ss. 462 La Pira 1930, 438, il quale, per vero, dubita della genuinità del testo; Fercia 2013, 6 ss. 463 Marrone 1962, 34, ss.; di Lella 1972, 2 ss.; più recentemente, Tuzov 2014, 233 s. 464 Diliberto 1988a, 192 ss.; Di Ottavio 2012, 48 ss. 465 Renier 1942, 71; di Lella 1972, 144 s. 466 Di Ottavio 2012, 46 s.; 112. 467 Querzoli 2000, 163 nt. 159; Gagliardi 2017, 13 nt. 32 ha rilevato come da ciò si ricaverebbe che il testamento inofficiosum non fosse nullo.

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Commento all’esperimento di un’azione diversa che non necessitava del ricorso a una finzione, ma che si fondava, più semplicemente, sulla deficitaria capacità di agire del furiosus468, la quale ne inficiava, ovviamente, la testamenti factio attiva. F. 60 – D. 5.2.30pr.-1 Il testo prosegue nella disamina di ipotesi concernenti la querela inofficiosi testamenti. Il caso discusso, invero, si presenta assai peculiare. Viene in considerazione, infatti, la possibilità di esperire il ricordato rimedio da parte del padre naturale per un testamento confezionato da un suo figlio biologico che era stato dato in adozione a un altro pater. Occorre, in primo luogo, precisare come l’adozione determinava la costituzione, in via artificiale, del rapporto di filiazione, ovviamente, sul presupposto dell’estinzione del precedente rapporto. Per essere più chiari, in linea di principio, tra il padre naturale e il figlio dato in adozione non sussisteva alcun legame giuridico, ma una semplice cognatio, la quale aveva acquisito rilievo a fini successori, soltanto a seguito dell’intervento pretorio in materia. Dal frustolo in esame, apprendiamo, dunque, che il vincolo di cognatio esplicava effetti anche al fine di individuare i legittimati attivi alla querela inofficiosi testamenti469. Occorre, tuttavia, indugiare su un ulteriore aspetto. Nel testo si parla di filius dato in adozione: ciò lascerebbe credere che il soggetto in questione fosse ancora sottoposto alla potestas del pater adoptivus. D’altro canto, la circostanza che egli fosse premorto al padre naturale consente di immaginare una morte in giovane età, quando ancora vivo poteva essere il pater adoptivus. Se così fosse, l’unico testamento ipotizzabile sarebbe quello sui beni del peculium castrense: nei confronti di questi beni, pertanto, erano da annoverarsi tra i soggetti verso cui si doveva adempiere agli officia familiaria, tanto il padre naturale, quanto quello adottivo. È bene, tuttavia, precisare come non si possa escludere che l’espressione filius facesse riferimento, semplicemente, alla posizione del testatore rispetto al padre biologico. Se così fosse, i beni oggetto del testamento erano tutti quelli del patrimonio del de cuius e la posizione del padre biologico veniva in rilievo solo in via subordinata, cioè in mancanza del padre adottivo. L’ultimo periodo del frammento rievoca un rescritto di Settimio Severo e Antonino Caracalla, che attribuiva ai tutori la legittimazione ad agire per conto del pupillus in un’azione per un testamento inofficioso o per un testamento falso. Si è ritenuto che il rescritto traeva scaturigine dalla richiesta di un tutore, il quale voleva accertarsi di non correre alcun rischio in caso di esperimento della querela per conto del pupillo470: ciò può apparire ragionevole per il caso di un tutore che avesse ricevuto qualcosa dal testamento che intendeva attaccare. In questo caso, infatti, si è sostenuto471, una eventuale soccombenza nel giudizio, ne avrebbe determinato l’indegnità a succedere con la conseguente perdita dei beni a lui conferiti da quel testamento. In tal senso, potrebbe lasciar propendere l’espressione sine periculo eius presente nel testo che, in tal caso, verrebbe riferita ai tutori. Una simile interpretazione, tuttavia, si

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Sulla fascinosa tematica delle forme giuridiche del controllo dell’alienazione mentale nel diritto romano si veda Diliberto 1984, passim; Lanza 1990, passim; Zuccotti 1991, 174 ss.; Zuccotti 1992, passim. 469 La Pira 1930, 419 sottolinea come “la querella è concessa ai figli e ai genitori indipendentemente dalla loro posizione agnatizia e sul solo fondamento del loro vincolo cognatizio”. 470 Renier 1942, 320. 471 Voci 1963, 700 nt. 110; Voci 1967, 473.

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Domenico Dursi scontra, in primo luogo, con il rilievo che il pronome è al singolare mentre i tutori sono menzionati al plurale. In secondo luogo, se anche si volesse accogliere la modifica proposta, sia pur dubitativamente, dal Mommsen472 e cioè che la versione corretta avrebbe contemplato tutorem in luogo di tutoribus, ciò, comunque, non spiegherebbe il ricorso a eius in luogo di suum che, come noto, è il pronome possessivo che si riferisce al soggetto di una proposizione. In altre parole, da una parte non reputo utile la modifica del testo pur autorevolmente prospettata; in secondo luogo, a mio modo di vedere, eius farebbe riferimento ai pupilli. In tal senso, il pericolo per il pupillo sarebbe stato quello di non poter più, in caso di soccombenza, acquistare beni che in qualche altra forma, si pensi a un legato o a un fedecommesso, gli erano stati lasciati nel testamento. In sostanza, il provvedimento imperiale poteva rendersi necessario per garantire la posizione dei pupilli, a fronte di un’incauta azione della querela da parte dei tutori, sulla quale determinazione, a ben vedere, il pupillus poco avrebbe potuto. Così, ove la querela avesse avuto esito positivo, il pupillus avrebbe potuto beneficiare dell’intero asse ereditario; in caso contrario non avrebbe, comunque, perso i beni comunque lasciatigli attraverso il testamento peraltro attaccato senza una sua decisione pienamente consapevole. F. 61 – C. 8.47.10pr. Il testo è tratto da una costituzione di Giustiniano del 530 d.C.473 rivolta al prefetto del pretorio Giovanni. Doveva trattarsi, con ogni probabilità e salvo che non si tratti di un errore, di Giovanni di Cappadocia, che ricoprì quell’incarico in quel torno di tempo. Prima della disamina dei contenuti del brano, occorre chiedersi se gli estensori della costituzione avessero ricostruito il dibattito giurisprudenziale o lo avessero tratto dall’opera di uno dei giuristi richiamati. A me pare, per quanto si tratti di mere congetture, più probabile la seconda opzione, in quanto difficilmente nell’elaborazione di un testo normativo si sarebbe dedicato tempo nella ricostruzione di un’antica ipotesi di ius controversum. Peraltro, non si può escludere che la fonte per i giustinianei fosse stata appunto Marciano: un elemento indiziario in questa direzione parrebbe essere proprio il rilievo che questi sia citato per ultimo nella sequenza. Ad ogni modo, il brandello della costituzione riporta, senza dubbio, una opinione densa di pensiero giuridico del nostro, e anzi, consente di osservare Marciano nel pieno di un confronto di idee con alcuni dei più autorevoli giuristi del suo evo, nello specifico Papiniano e Paolo, discussione di cui non vi è ricordo nel Digesto474. Ciò pone in ulteriore rilievo, a mio

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Mommsen 1868.I, 181 nt. 3. Occorre sul punto, segnalare una qualche discrasia. Infatti in C. 8.47.10 è indicato, come anno di emanazione, il 530. Tuttavia, la costituzione risulta essere stata inviata non a Giuliano, prefetto in carica per quell’anno, ma a Giovanni, che svolse l’incarico a partire dall’aprile del 531. Su questo problema si rinvia a Stein 1949, 784, ove è riportato un elenco dei prefetti del pretorio che si sono succeduti in quegli anni; Stein 1929-30, ora 1968, da cui si cita, 249 nt. 1, il quale afferma che Giovanni ricoprì la carica di prefetto del pretorio a partire dagli inizi del 531; analogamente Purpura 1976, 65. Deve essere stata questa incongruenza la ragione per cui Krüger (Corpus iuris civilis II, 508), nella sua edizione del Codice di Giustiniano nell’appendice finale colloca la costituzione in esame, sia pur dubitativamente, nel 531, ma nel marzo, quando era prefetto del pretorio Giuliano, dunque in una fase di transizione, o forse, meglio, di passaggio di consegne. 474 Voci 1963, 673. 473

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Commento modo di vedere, come egli fosse protagonista del dibattito scientifico del suo tempo al livello più elevato e così appariva agli occhi dei giustinianei (che per vero, in più occasioni mostrano di apprezzarne l’opera); inoltre – mi sia consentito – il brano lascia intravedere una certa autonomia di giudizio e una notevole capacità analitica nel rappresentarsi le fattispecie. Ma vediamo cosa affermava Marciano e in cosa si differenziava da Paolo e Papiniano. In particolare, la questione intorno alla quale vengono richiamati i pareri dei giuristi è quella relativa alla possibilità, da parte del filius dato in adozione, di esperire la querela inofficiosi testamenti per attaccare il testamento del padre naturale nel quale sia stato praeteritus475. Sul punto, la costituzione rievoca una diversità di vedute tra i giuristi severiani e, sia pur in maniera stringata, passa in rassegna le opinioni degli autori richiamati. Vediamole. Per Papiniano, apprendiamo, il figlio dato in adozione non poteva attaccare attraverso la querela il testamento del pater naturalis, che lo avesse diseredato. Il punto di vista papinianeo sembrerebbe legato a un’impostazione tradizionale, per cui, venuto meno il vincolo di adgnatio con il padre biologico, cadeva anche l’aspettativa successoria del figlio dato in adozione e i connessi doveri familiari del pater. Paolo, invece, riteneva invalido il testamento476. Il testo, peraltro, non consente di stabilire se occorresse comunque, nell’impostazione di questo giurista, l’esercizio della querela o l’invalidità dovesse eccepirsi con altri strumenti, per quanto la prima ipotesi appaia più verosimile. Infine, il nostro Marciano evita una risposta schematica e rende un parere ben più argomentato. Egli, in primo luogo, parrebbe ritenere che la questione potesse porsi solo laddove il filius non avesse ricevuto in successione dal padre adottivo. Nell’opposta ipotesi – sembrerebbe desumersi – il filius non avrebbe vantato alcun titolo successorio nei confronti del pater naturalis. Nel caso, invece, di mancato acquisto dell’eredità del padre adottivo, benché sul punto il testo sia abbastanza ellittico, sembrerebbe doversi intendere che per Marciano il filius avesse la legittimazione attiva alla querela inofficiosi testamenti, solo ove fosse stato raggirato dal padre naturale e non avesse percepito nulla dal pater adoptivus a causa della sua situazione economica di indigenza477. In tal senso, giunge in nostro soccorso un ulteriore paragrafo della costituzione di Giustiniano. Osserviamo. C. 8.47.10.1b: Neque enim Marciani distinctioni locum esse in hoc casu invenimus, ubi nullius circumventionis suspicio potest aliquam sibi vindicare licentiam, avita et proavita adfectione haec omnia resecante. Né, infatti, in questo caso riteniamo che vi sia la causa della distinzione di Marciano per cui si possa avere qualche licenza per il sospetto del raggiro, escludendo queste cose l’affetto degli avi o dei proavi.

Il brano mostra come il maestro severiano si preoccupasse di una qualche forma di circonvenzione, che in un’ipotesi su cui non ci possiamo soffermare in questa sede478, non poteva

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Luchetti 1996, 77. Diversamente La Pira 1930, 420, per il quale Paolo non si sarebbe pronunciato. In tal senso, Nardi 1984, 15; recentemente, Mattioli 2018, 22. 477 Sul punto, analogamente, Russo Ruggeri 1995, 219 s.; Coppola 2014, 105. È bene, peraltro, ricordare come Val. Max. 7.7.2 richiamasse il caso di un figlio dato in adozione che esperiva la querela contro il padre naturale. Su questi testi, si veda La Pira 1930, 412 ss.; Nardi 1984, 12 ss.; più recentemente Di Ottavio 2012, 9 nt. 34, 21 ss. 478 Al riguardo, si veda C. 8.47.10.1a ove, in estrema sintesi, si prende in esame il caso di un figlio dato in adozione ad avi materni da un padre emancipato, dunque privo di legami ereditari con la famiglia di provenienza. Per un analitico esame della costituzione si veda, diffusamente, Russo Ruggeri 1995, 213 ss. 476

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Domenico Dursi venire in rilievo. Il raggiro stigmatizzato da Marciano doveva essere quello determinato dal combinato operare della dazione in adozione del figlio e della successiva preterizione del medesimo. In tal modo, infatti, il pater, da un lato evitava che la preterizione del filius determinasse l’invalidità del testamento, d’altro canto, la mancata espressa diseredazione gli avrebbe impedito l’esercizio della querela. In sostanza, una vera e propria diseredazione surrettizia e ben congegnata con lo scopo di impedire al figlio il ricorso all’azione per il testamento inofficioso479. Inoltre, il che doveva apparire inaccettabile, il padre naturale aveva altresì individuato un padre adottivo in stato di indigenza. Se ben intendo, dunque, l’esperibilità della querela si poneva in caso di premorienza del pater adoptivus rispetto al padre biologico, da cui era disceso il mancato acquisto di beni a titolo di eredità480. L’acquisto di quest’ultima, invece, avrebbe sanato l’intera situazione. Risalta, nonostante il brano, in ragione delle sue finalità, sia estremamente sintetico, l’acribia marcianea nel disaminare il caso da cui emerge uno sforzo ulteriore, almeno sul punto, rispetto a Papiniano e Paolo di giustificare la soluzione proposta, fondata, mi sembra di intendere, sul criterio dell’equità, intesa quale giustizia del caso concreto, che rappresentava una sorta di strumento di lavoro, o forse di più: l’orizzonte culturale del tempo481. Più in generale, dal testo parrebbe emergere una particolare predisposizione di Marciano al rispetto degli officia pietatis482, ma anche alla corretta ripartizione dei vantaggi economici483, e, più in generale, per i temi del diritto successorio: in effetti, tra i testi marcianei, quelli in materia ereditaria furono di gran lunga i più utilizzati dai giustinianei. F. 62 – D. 36.1.30 Il testo, che coincide in larga misura con inst. 2.17.3, si occupa dell’ipotesi di revoca o, quanto meno, di parziale modifica di un testamento precedente, a mezzo di una nuova manifestazione di ultime volontà di senso contrario. In altre parole, si tratta della confezione di un nuovo testamento, che supera le previsioni incompatibili del precedente484. Nel brano in esame, Marciano richiama un rescritto di Settimio Severo e Antonino Caracalla. In esso si statuiva circa la validità di un secondo testamento, sul punto nulla innovando. Il nostro giurista, poi, fornisce al lettore il testo del provvedimento richiamato, con la precisazione che, in realtà, esso conteneva qualche ulteriore previsione. Una prima osservazione è d’uopo. Il testo, infatti, nelle sue prime battute, lascia intravedere il giurista intento nell’opera di richiamare un principio generale che, al tempo stesso, poteva rappresentare una massimazione del provvedimento imperiale, che di seguito riportava. Parrebbe, quasi, che Marciano volesse sottolineare la grande attualità di una regola consolidata, ricordando che da poco era stata ribadita in un rescritto. Interessante, inoltre, appare soffermarsi sulla scelta del giurista di riportare testualmente il provvedimento. A me pare,

479

Analogamente Nardi 1984, 18 s. Di diverso avviso De Dominicis 1967, 594 ss., il quale parla di ammissibilità della querela per Marciano, laddove il filius non potesse sperare nell’eredità del pater adoptivus. 481 Schiavone 2017, 401 ss. 482 Russo Ruggeri 1995, 220. 483 Querzoli 2000, 215 ss. 484 In tal senso Nasti 2010, 181 ss. 480

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Commento come si vedrà appresso dalla disamina del rescritto, che la massima fissata, pur individuando il principio di diritto in esso espresso, non fosse in grado di renderne la complessità e sottolinearne la portata innovativa. Soffermiamoci sul testo del provvedimento. Vi leggiamo che un testamento confezionato dopo che se ne era predisposto un altro è perfettamente valido per il diritto civile. Inoltre – apprendiamo – anche laddove nel secondo testamento l’istituzione sia avvenuta soltanto per specifici beni e – mi pare debba intendersi – non vi sia contrasto con il precedente, quest’ultimo è comunque da considerarsi revocato. Tuttavia, ove non siano indicati specificamente i beni, l’erede individuato dal secondo testamento acquisiti i beni a lui assegnati o, acquistata la quota di eredità a lui spettante in forza della lex Falcidia485 (il 25% del patrimonio ereditario), consegna i restanti agli istituiti nel primo testamento, laddove vi sia una dichiarazione fedecommissaria in base alla quale si riconoscevano valide le disposizioni del primo testamento, sempre che – viene precisato – il nuovo testamento non contempli previsioni incompatibili con quelle del primo che si intendono salvare. Occorre rilevare che l’espressione propter inserta fideicommissaria verba è stata da taluno486 riferita al primo testamento e, pertanto, interpretata alla stregua di una clausola codicillare, per cui quello stesso testamento, se non potesse valere come tale dovesse almeno valere come codicillo. Di questi ultimi, per vero, nel brano non v’è menzione. Mi sia, tuttavia, consentito osservare che non vi sono argomenti testuali per riferire l’espressione in esame al primo testamento487. Il precedente atto mortis causa, pertanto, valeva come tale, in quanto salvato dal nuovo per le parti con esso compatibili. Del resto, ciò che aveva mosso alla stesura di un nuovo testamento, come emerge dal tema affrontato da Marciano, la revoca, non era stata la volontà di sostituire l’atto mortis causa invalido con uno valido, ma nuovi intendimenti circa la regolazione dell’assetto di interessi per il tempo successivo alla sua morte. Inoltre, nel momento stesso in cui avrebbe redatto un nuovo testamento, il testatore avrebbe potuto in esso ribadire le disposizioni del vecchio, a rischio di invalidità, che intendeva confermare. Ancora. A voler leggere il riferimento al fedecommesso come una clausola codicillare inserita nel primo testamento, si porrebbe la questione se il nuovo testamento avesse contemplato, integralmente, disposizioni contrarie a quelle del precedente. In questo caso, in base alla regola enunciata nell’apertura del passo, il primo testamento sarebbe risultato integralmente revocato, a nulla valendo la clausola codicillare, che incideva solo sulla recuperabilità degli effetti dell’atto. In altri termini, a me pare che intendere l’espressione propter inserta fideicommissaria verba come una clausola codicillare non solo determinerebbe una sovrapposizione tra il piano della validità del testamento e quello della volontà del de cuius, ma dovrebbe giungersi ad immaginare che al momento della predisposizione del primo testamento, non solo il de cuius aveva pensato all’eventuale invalidità dell’atto posto in essere, ma anche che, successivamente, avrebbe confezionato un nuovo testamento non incompatibile con il primo, al preciso scopo di salvaguardare le disposizioni di quest’ultimo. Ciò, invero, appare poco verosimile. Ma un dato di un certo rilievo a sostegno

485

Luchetti 1996, 257. Voci 1956, 106 s.; Voci 1963, 968. Nel senso che si tratti di una clausola codicillare, sia pure con qualche dubbio, Negri 1975, 54. 487 Anche per Nasti 2010, 182 i fideicommisaria verba si sarebbero trovati nel secondo testamento. 486

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Domenico Dursi della lettura che propongo, ritengo possa desumersi dall’apertura del nostro brano. In essa, si ricorderà, si specificava che il testamento successivo revocava il precedente, anche se non ci fosse stata incompatibilità. Dal testo della costituzione imperiale apprendiamo che il testamento precedente compatibile con il successivo, poteva, però, essere salvato attraverso un’espressa dichiarazione del de cuius all’interno del nuovo testamento. Ed era probabilmente questo l’elemento ulteriore rispetto alla regola ricordata in materia di revoca che aveva indotto Marciano a riportare il testo del provvedimento imperiale che sul punto introduceva, pertanto, una qualche novità. Alla luce della previsione, dunque, come evidenzia Marciano nella sua chiosa, potevano anche sussistere due testamenti, redatti in momenti diversi, perfettamente validi e integrantisi tra loro, ma ciò solo in presenza di alcune condizioni: in primo luogo, che non fossero in contrasto; quindi, che la volontà di salvare il primo testamento fosse stata espressa a mezzo di un fedecommesso nel secondo; infine, che anche laddove non fossero stati specificati i beni assegnati in eredità al soggetto istituito successivamente, fosse rispettata la sua quota di legittima. A ben vedere, l’opera di massimizzazione del giurista coglieva il cuore della questione, la regola generale in materia che il provvedimento ribadiva, ma tralasciava i caveat in esso previsti dei quali, però, Marciano informava i suoi lettori attraverso una citazione diretta, giustificata dalle novità introdotte. F. 63 – D. 29.2.52pr.-1 Il testo affronta il caso della istituzione di erede di un filius familias assoggettato alla patria potestas di un pater furiosus, incapace, pertanto di accettare l’eredità. Nel brano viene in rilievo l’heres extraneus, cioè un istituito che non è un suus del de cuius. Quanto al contenuto, si pongono, per vero, diversi ordini di problemi. In primo luogo, benché, come noto, i filii familias possano essere istituiti eredi488, ogni loro acquisto diviene perciò stesso, un acquisto del pater. In ragione di tanto, il ruolo di quest’ultimo era di un certo rilievo per l’accettazione dell’eredità, ma pur sempre da contemperare con la necessità che a compiere l’accettazione fosse l’istituito, trattandosi di un atto personalissimo489. In effetti, da altri scriptores iuris, apprendiamo che nell’ipotesi di istituzione di un filius familias, ai fini dell’accettazione, occorresse uno iussum del pater490. Nell’ipotesi considerata da Marciano, come sempre dettagliatissima, tuttavia, il pater non era nella condizione di autorizzare il filius all’accettazione dell’eredità, in quanto furiosus, ma l’intervento di un rescritto dell’imperatore Antonino Pio aveva, in qualche misura, sostituito il manchevole atto paterno, prevedendo una sorta di dispensa491, di cui, con ogni probabilità, il nostro giurista, ricordava il momento genetico. Si tratterebbe di capire, però, la ragione della necessità di un intervento imperiale, perché poteva ricorrersi ad un’altra soluzione, cioè

488

Voci 1967, 408. Voci 1967, 638 ss. 490 Ulp. 6 ad Sab., D. 29.2.6pr.: Qui in aliena est potestate, non potest invitum hereditati obligare eum in cuius est potestate, ne aeri alieno pater obligaretur. (Chi si trova nell’altrui potestà non può obbligare in base all’eredità colui nella cui potestà egli si trova contro la di lui volontà, affinché il padre non venga obbligato per i debiti). 491 Matringe 1972, 359. 489

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Commento l’auctoritas di un curatore. Verosimilmente, quest’ultima non era possibile in quanto anche siffatta autorizzazione doveva essere rilasciata esclusivamente dal titolare della potestas, alla stregua dell’atto di accettazione, di cui doveva replicare la natura. Inoltre – apprendiamo – in tal modo si consentiva la manomissione di schiavi, che, forse, era il principale scopo perseguito dall’imperatore. Del resto, le manomissioni testamentarie sarebbero rimaste prive di effetto se il testamento non fosse stato accettato. Alla luce di tanto, non mi pare si possa escludere che Antonino Pio fosse guidato nella emanazione del rescritto anche da ragioni connesse al favor libertatis nei confronti degli schiavi che pure caratterizzò la politica degli Antonini492. Il giureconsulto, poi, presenta ai suoi lettori un’ulteriore ipotesi, quella di un soggetto istituito senza condizioni per una quota ereditaria e sotto condizione per l’altra. Il maestro spiega che ove l’istituito abbia accettato la prima, mentre per la seconda sia ancora pendente la condizione, e sempre che nel testamento non siano previsti sostituti, l’istituito deve considerarsi erede universale, cioè dell’intero asse ereditario. In sostanza, il verificarsi o meno della condizione, nella fattispecie descritta, diviene irrilevante, posto che, ove l’evento non si verificasse, una quota dell’asse resterebbe priva di un destinatario, né poteva aver luogo la successione intestata. Viene in rilievo, in altre parole, l’istituto dell’accrescimento, cioè l’aumento della quota originaria di istituzione che opera, peraltro, retroattivamente, a far data cioè, dalla delazione493. Ed era, appunto, l’efficacia ex tunc che, a ben vedere, induceva Marciano a ritenere l’istituito un erede universale, nel momento in cui avesse accettato la quota libera da condizioni. Un’ultima considerazione si impone: a ben vedere, l’argomento sembrerebbe assai diverso da quello discusso poche righe sopra, nel paragrafo precedente: ciò potrebbe lasciar pensare a un accorpamento compiuto dai Compilatori.

492 493

Su questi temi si rinvia a Marotta 1988, passim. Voci 1967, 689 ss.

199

Domenico Dursi

LIBRO QUINTO

1. Profili palingenetici Il quinto libro delle Istituzioni è per noi sostanzialmente ignoto. Disponiamo, infatti, solamente di due frammenti che Lenel494 raggruppa sotto la rubrica De legitima hereditate, ritenendo che essi affrontassero la materia della successione ab intestato. È di tutta evidenza come i testi a nostra disposizione siano statisticamente irrilevanti ai fini di una compiuta valutazione del libro. Né, per vero, pare emergere con chiarezza, per quanto taluni indizi in questa direzione possano cogliersi, che Marciano ivi affrontasse la delazione senza il testamento, sempre che non si voglia immaginare che i due testi fossero degli excursus all’interno di ragionamenti più ampi. Ma, non si può non rilevare, saremmo sul piano delle congetture. Certo, appare ragionevole che dopo la discussione sulla successione testamentaria, si affrontasse la successione legittima. Se, poi, si considera l’ampiezza del tema, potremmo anche supporre che l’intero quinto libro fosse dedicato a questa materia. Accogliendo questa impostazione, poi, dovremmo rilevare495 come Marciano prima affrontasse la successione testamentaria, quindi quella legittima, per poi passare ai legati. Diversamente, Gaio496, sul presupposto che i legati sono pur sempre disposizioni del testamento, li discuteva all’interno della successione testamentaria, in ciò – come si osservava – discostandosi dalla sistematica dei libri tres iuris civilis di Sabino497, che, invece, sembrerebbero rappresentare, almeno sul punto, il precedente cui Marciano si ispirava. In quest’ultimo, pertanto, parrebbe emergere una diversa sistematica. Egli, cioè, sembrerebbe affrontare dapprima le diverse tipologie di successioni a titolo universale, per poi passare a quelle a titolo particolare. Potremmo, allora, con le cautele del caso, desumere che Marciano ordinasse l’esposizione della materia del diritto ereditario in maniera difforme da Gaio. Anche sotto questo profilo, purtroppo, risultano vani i tentativi di confronto con la manualistica severiana e con quella di poco precedente, a causa dell’esiguità delle testimonianze a nostra disposizione. In questo caso, i commissari giustinianei optarono per la sistematica gaiana498. Quanto alla collocazione

494

Lenel 1889.I, 659. Supra, Introduzione all’opera. 496 Gai. 2.192 ss. 497 Astolfi 2001, 199 ss. 498 Inst. 2.10 ss. affronta la materia della successione testamentaria; Inst. 3.1 ss., la successione ab intestato. 495

200

Commento dei singoli frammenti, Lenel499, analogamente a Hommel500, segue la disposizione digestina e, d’altro canto, risulta assai difficile immaginare, alla luce dei dati a disposizione, un diverso ordine. F. 64 – D. 37.14.4 Marciano, come di consueto, ricorda un intervento imperiale, nella forma di un rescritto, in forza del quale Settimio Severo e Antonino Caracalla benevolmente concessero ai figli dei condannati per alto tradimento o per altra causa, di conservare i diritti che i loro padri avrebbero vantato nei confronti dei liberti. In particolare, a me pare, l’ipotesi è quella di un patronus che venga condannato per alto tradimento o altri crimini, quando il liberto sia ancora in vita. Diversamente, laddove avesse già ereditato, i figli, eventualmente, avrebbero acquistato i beni direttamente dal pater, ove ciò fosse stato possibile, per cui la questione non si sarebbe posta in questi termini. Soffermiamoci, in primo luogo, sull’utilizzo dell’espressione iura libertorum: essa sembrerebbe far riferimento non soltanto all’acquisto dei beni del patrimonio dei liberti, nel qual caso, probabilmente, si sarebbe parlato di bona liberti, ma, altresì, ai diritti di patronato, quali obsequium e operae. In tal senso, peraltro, il testo era letto dai commissari di Giustiniano che lo includevano in un titolo rubricato de iure patronatus e dai bizantini, i quali rendono il testo corrispondente dei Basilici con l’espressione τὸ πατρωνικὸν δίκαιον501. Certo, la circostanza che Marciano discuta la questione nel pieno dell’illustrazione della materia ereditaria502, potrebbe lasciar credere che il giurista ricorresse a una sineddoche, utilizzando l’espressione onnicomprensiva per indicare una sola parte. Né si può escludere che il nostro giurista utilizzasse l’espressione iura libertorum per indicare tutte le situazioni giuridiche, attive e passive, che entravano in successione, in qualche modo, ricorrendo ad un processo di astrazione in forza del quale non si trasmettevano i beni, ma i diritti sui beni. Inoltre, un testo di Ermogeniano ricorda un intervento di Settimio Severo, che, come è stato rilevato503, esprimeva la medesima politica normativa, di quelli ricordati in Marciano. Si osservi. Herm. 5 iur. ep., D. 48.4.9: Eorum, qui maiestatis crimine damnati sunt, libertorum bona liberis damantorum conservari divus Severus decrevit et tunc demum fisco vindicari, si nemo damnati liberorum existat. Il divo Severo decretò che i beni dei liberti condannati per lesa maestà siano lasciati ai figli e invece la metà sia rivendicata dal fisco, se non vi sia nessun discendente dei liberti condannati.

L’autore delle iuris epitomae ci informa circa un decreto di Settimio Severo per il quale la condanna del pater per il crimen maiestatis non incideva sulle aspettative successorie dei figli verso i beni del liberto. Non siamo in grado di dire se il provvedimento riferito da Ermogeniano fosse tra quelli richiamati da Marciano, il quale, per vero, parla di rescritti di Severo e Cara-

499

Lenel 1889.I, 659. Hommel 1767, 405. 501 Bas. 49.1.4 (Scheltema, A, VI, 2270). Trad. Heimbach, V, 1: (…) ius patronatus habent. 502 Cosentini 1950, 116. 503 Masi Doria 1996, 431 nt. 489. 500

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Domenico Dursi calla. Ma, è di tutta evidenza, il passo evoca una regola per molti versi sovrapponibile a quella del brano marcianeo e contribuisce a meglio definire il riferimento agli iura libertorum. D’altro canto, è bene precisare, l’aspetto più rilevante, quanto meno per i figli del patronus era quello di accaparrarsi il patrimonio dei liberti, o, almeno, una parte di esso. Alla luce di tanto, potremmo anche supporre che i rescritti di cui è menzione, dovevano essere stati emanati in casi di successione ab intestato del liberto. Infatti, era questa l’ipotesi in cui il patronus era considerato erede dell’ex schiavo, sempre che questi non avesse sui heredes504. Per altro verso, in caso di testamento del libertus, il patronus conservava qualche diritto nei suoi confronti, eventualmente trasferibile ai figli, solo nelle ipotesi, in vero non frequentissime, che il liberto non avesse sui naturales, o, pur avendo uno o due figli, fosse centenarius, avesse, cioè, un patrimonio pari o superiore a centomila sesterzi505. Ma nel testo in esame, non vi è alcun riferimento al liberto centenarius, dunque, pare più corretto ritenere che Marciano affrontasse il caso comune. Alla luce di ciò, il subentro dei figli al padre, sembrerebbe quasi configurare un’ipotesi di rappresentazione. Interessante, poi, osservare come non si parli di filii del patronus, ma, piuttosto, di liberi, con il che, probabilmente, si voleva far riferimento alla nozione di filiazione presa in considerazione dall’editto nell’individuazione della prima categoria di bonorum possessores sine testamento, gli unde liberi. In sostanza, benché la condanna alla pena capitale per la perduellio, determinasse la devoluzione dei beni del condannato al popolo506, la benevolenza, rectius, la “benevola considerazione della condizione di soggetti che non dovevano ricevere danno dall’altrui comportamento”507 da parte degli imperatori impose di garantire ai figli dei condannati per alto tradimento i diritti verso i liberti. Questi ultimi venivano assegnati secondo i criteri della successione intestata. Mi pare, poi, si possa rilevare come il riferimento alla alia causa punitorum potrebbe riferirsi a quelle condanne che comportavano la confisca dei beni. Un’ultima considerazione. Volendo inquadrare il rescritto, sotto il profilo di una limitazione delle conseguenze per la condanna, potremmo scorgere, almeno in parte, alcuni cedimenti rispetto alla confisca dei beni, che avrebbe, poi, portato alle costituzioni di Costanzo508 nel 356 e Valentiniano e Valente509 del 364, per le quali i figli di un condannato per perduellio avrebbero ricevuto i suoi beni in quanto eredi. F. 65 – D. 38.16.9 Il testo, molto denso, si sofferma sulla fattispecie dell’accrescimento delle quote ereditarie. In particolare, Marciano illustrava l’ipotesi in cui nell’ambito di una successione intestata ove vi fossero più chiamati, un erede legittimo non volesse o non potesse accettare l’eredità. In questo caso, la quota di eredità non accettata era riconosciuta, in proporzione, agli altri eredi. Laddove, poi, uno dei coeredi fosse deceduto prima che si fosse realizzato l’accrescimento, tale ultimo operava nei confronti dei suoi eredi, che, dunque, subentravano nella quota del

504

Gai. 3.40 ss. Masi Doria 1996, 229; su questi temi si veda anche Astolfi 1996, 213 ss. 506 Brasiello 1937, 120. 507 Palma 1997, 148. 508 C.Th. 9.42.2. 509 C.Th. 9.42.6. 505

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Commento loro dante causa. Anche in questo caso, operava una sorta di rappresentazione nella quota di accrescimento. D’altro canto, è appena il caso di ricordare come i figli subentravano nella quota ereditaria del padre premorto al de cuius, dividendone tra loro la quota. Il nostro giurista, poi, richiamava l’attenzione dei suoi lettori sulle differenze esistenti rispetto a una fattispecie per certi versi analoga. È il caso di una successione testamentaria, in cui siano istituiti due coeredi e sia altresì prevista una sostituzione in virtù della quale un istituito è anche sostituto del coerede. L’ipotesi, a ben vedere, determinava i medesimi effetti pratici dell’accrescimento, in quanto il coerede sostituito acquistava la quota di eredità dell’altro che non aveva accettato510. Marciano, consapevole della confusione che poteva sorgere, spiega che in siffatta ipotesi l’erede del sostituto, in caso di morte di costui, non subentrava, poiché scopo della sostituzione è quello di assegnare i beni ad un soggetto vivo. Da questa puntualizzazione emerge tutta la differenza tra successione legittima e quella testamentaria. La prima, infatti, aveva quale precipuo obiettivo quello di garantire che il patrimonio restasse nell’ambito della famiglia; diversamente, la seconda valorizzava la volontà del testatore e, pertanto, nel caso in cui una disposizione non poteva trovare attuazione, non si poteva desumere una ulteriore volontà. Ad ogni modo, è da credere, nell’ipotesi in cui il coerede sostituto fosse morto, doveva aprirsi la successione legittima.

510

Voci 1956, 130.

203

APPARATI E INDICI

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– 2012b – 2017 Donatuti 1934 Dovere 2001 Ducos 2011 Duff 1958 Dursi 2017a – 2017b Evangelisti 2018 Falcon 2016 Falcone 1998 – 2012

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Gandolfi 1960 Genovese 2007 Giangrieco Pessi 1988 Giannini 1958 Gigante 1956 Giodice Sabatelli 2006 Gioffredi 1947 Giomaro 2011 – 2016 Giovannini 1983 Giuffrè 1976 Gnoli 1984 Gokel 2014 Gothofredus 1744 Gramsci 1975 Grelle 2006 Groag 1943 Grosso 1958

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Domenico Dursi Lamberti 2016

Lambertini 1995 Lambrini 1998 – 2016 – 2017 Lantella 1979 Lanza 1990 Lauria 1930 Lemosse 1998 Lenel 1927 – 1889 Lepore 2012 Licandro 2004

– 2008 Liebs 1964 – 2011 – 2017

Liva 2012 Lo Cascio 2000 Longchamps De Bérier 2013 Longo 1934

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Domenico Dursi Mantovani 2018 Marino 1988 Marotta 1988 – 1991 – 2000 – 2004 – 2007 – 2012

– 2016 – 2017 – 2018 Marrone 1955 – 1962 Marrou 1950 Maschi 1976 Masi Doria 1996 – 2014

Masiello 2003 Matringe 1972 Mattioli 2017

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Domenico Dursi Orestano 1968b – 1978 – 1980 Ortu 2016 Palazzolo 1998 Palma 1992 – 1997 Paoli 1956 Parma 2007 Pasquino 2016 Pellecchi 2013 Pérez Simeón 2001 Pernice 1900 Pescani 1974 Piazza 1991 Pietrini 2012 Pietrini, Martini 2016 Pontoriero 2018 Provera 1960 Pugliese 1939 – 1954 Puliatti 1992

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Domenico Dursi Rizzelli 1997 – 2008 – 2016

– 2018 Robbe 1963 Robleda 1976 – 1979 Rotondi 1912 – 1922 Ruggiero 2017 Russo Ruggeri 1995 Sánchez-Moreno Ellart 2000-2001 – 2015

Sanna 2001 – 2010-2011 – 2012 – 2015

– 2016 Santalucia 1965 – 1998

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– 2000 – 2003

– 2007 – 2017 Schipani 2005 – 2007 Schulz 1946 – 1953 Sciuto 2007 Serrao 1973 Sicari 1991 – 1996 Siracusa 2016 Sitzia 1973 – 1979 – 1988

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Bibliografia Stolfi 2017

Talamanca 1976

– 1977a – 1977b – 1988 – 1990 – 1996 – 1999 – 2000-2001 Tellegen 1986 Thomas 2002 – 2011 Tondo 1962 Trisciuoglio 2016

Trisoglio 1996 Tuzov 2014 Van den Bergh 1974 Varvaro 2006 Vassalli 1908 Venturini 1993 Ville 2014 Voci 1963

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226

ABBREVAZIONI

«AARC» «AG» «AHDE» «ANA» «ANRW» «AUPA» «BIDR» «ED» «IAH» «LR» «MEP» «NNDI» «RAL» «RDR» «RE» «RHDFE» «RIDA» «RIL» «RISG» «SDHI» «T» «TSDP» «ZgRW» «ZSS»

Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana Archivio Giuridico Filippo Serafini Anuario de Historia del Derecho Español Rendiconti. Accademia di Archeologia, Lettere e Arti, Napoli Aufstieg und Niedergang der römischen Welt Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja” Enciclopedia del Diritto Iuris Antiqui Historia. An International Journal on Ancient Law Legal Roots. The International Journal of Roman Law, Legal History and Comparative Law Minima Epigraphica et Papyrologica Novissimo Digesto Italiano Rendiconti dell’Accademia dei Lincei Rivista di Diritto Romano Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft Revue Historique de Droit Français et Etranger Revue Internationale des Droits de l’Antiquité Rendiconti dell’Istituto lombardo Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche Studia et Documenta Historiae et Iuris Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis Teoria e Storia del Diritto Privato Zeitschrift für geschichtliche Rechtswissenschaft Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte – Romanistische Abteilung

227

GIURISTI CITATI*

Africano, Sesto Cecilio 169

Gaio Giuvenzio 6.23

Aquilio Gallo 6.23; 37

Giuliano, Salvio 9; 38; 60; 69; 91; 120; 121; 121.139; 169; 173; 174; 191; 194.473

Aristone, Tizio 38 Labeone, Marco Antistio 39; 130; 130.177 Arrio Menandro 132 Licinnio Rufino, M. Cn. 112 Atilicino 186 Lucilio Balbo 6.23 Callistrato 7; 21.11; 23; 30; 36.92; 37; 40; 41; 56; 117; 134; 163

Marcello, Ulpio 5; 38; 39; 40; 54; 67; 113; 113.90; 113.91; 123; 123.144; 130.179

Capitone, Ateio 110; 110.69 Modestino, Erennio 114; 140; 141; 142; 143; 170 Celso, Publio Giuvenzio T. Aufidio Enio Severiano filius 37; 38; 112; 154 Cervidio Scevola, Quinto 5; 7; 9; 10; 36.91; 38; 39; 77; 139; 143; 143.241 Ermogeniano 124; 170; 176; 177; 201

Mucio Scevola, Quinto (cos. 95 a.C.) 6.23; 60 Paolo, Giulio 7; 8; 10; 15; 19; 20; 23; 32; 36.91; 36.92; 37; 41; 42; 43; 50; 51; 51.149; 51.153; 51.156; 52; 52.160; 93; 102; 112; 118; 125.154; 132; 133; 140; 141; 143; 143.241; 167.356; 179; 186; 194; 195; 195.476; 196

Fiorentino 23; 32; 36; 37; 57; 152 Gaio 20.10; 26; 27.50; 28; 29; 34; 35; 37; 39; 60; 61; 104; 110; 128; 151; 160; 162; 163; 166; 174; 181; 185; 186; 190; 200

Papiniano, Emilio 7; 8; 8.28; 9; 10; 15; 38; 39; 46; 47; 47.142; 48; 49; 50; 51; 51.149; 51.152; 51.153; 75; 83; 93; 104; 108; 125.154; 132; 136; 138; 141; 157; 158; 162; 179; 190; 194; 195; 196

* I nomi dei giuristi sono stati ordinati talvolta secondo il nomen, in altri casi secondo il cognomen, seguendo l’uso più consueto. Per evidenti ragioni abbiamo escluso le citazioni di Elio Marciano.

229

Domenico Dursi Papirio Frontone 38; 39

Servio Sulpicio Rufo 6.23

Papirio, Sesto 6.23

Sesto Elio 34.82

Plauzio 186

Trebazio Testa 37; 39

Pomponio, Sesto 6.23; 23; 34.82; 38; 39; 60; 105; 112; 123

Trifonino, Claudio 9; 57; 111.80; 125.154; 141

Proculo 176; 177 Sabino, Masurio 23; 35; 52; 60; 102; 112; 125.154; 168; 168.362; 169; 175; 179; 182; 183; 184; 186; 200

Ulpiano, Domizio 3.3; 4; 5; 5.17; 7; 15; 19; 20; 23; 25; 36; 36.91; 37; 43; 44; 45; 46; 50; 51; 51.149; 51.153; 51.156; 52; 52.160; 54; 55; 57; 112; 116.104; 119; 123; 140; 143; 143.241; 145; 146; 154; 159; 163; 163.342; 168; 176; 177; 179; 180; 182; 183; 184; 190

230

FONTI ANTICHE

TRADIZIONE MANOSCRITTA

Ammianus Marcellinus Res gestae 30.4.17

11.38

Aristoteles Politica 1.1253a 1.1254a 1.1254b 3.1287a

109.59 57.195 57.195 108.56

Aurelius Victor Liber de Caesaribus 24.6

51.156

Basilicorum Libri LX (Scheltema) 19.1.42 47.1.14 48.7.9 49.1.4

115 171 124; 124.151 201.501

Basilicorum scholia (Scheltema) Sch. 1 ad Bas. 46.3.2 Sch.11 ad Bas. 46.3.5 Sch. 1 ad Bas. 47.1.14

156.303 164 171 231

Domenico Dursi Cassius Dio Historiae Romanae 53.13.4 77.15.2 78.1 ss.

119.121 172.377 172.378

Codex Theodosianus 1.4.1 9.42.2 9.42.6

50.149 202.508 202.509

Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum 1.6.1 1.6.2 3.3.3.1 8.7.1

46 46 4 43

Corpus iuris civilis Codex Iustinianus Const. Cordi §3 6.26.1 6.27.5 7.7.1.1 8.37 (38) 8.47.10pr. 8.47.1a 8.47.1b 9.32.6

52.160 188 186.437 15 51.156 10; 19; 92; 93; 194 195.476 195 174.382

[T. 1] [F. 61]

Digesta Const. Deo Auctore §6

[T. 2]

15

Const. Tanta §6 1.1.1 1.1.4

61; 61.220 37; 103 57.197 232

Fonti antiche 1.1.7.1 1.1.8 1.1.11 1.1.12 1.2.2.10 1.2.2.12 1.2.2.38 1.2.2.42 1.3.1 1.3.2 1.3.31 1.5.4.1 1.5.5pr.-3 1.5.13 1.6.1.2 1.8.2pr. 1.8.2.1 1.8.4pr.-1 1.8.6pr. 1.8.6.1 1.8.6.2-5 1.8.6.3 1.8.6.4 1.8.6.5 1.8.7 1.12.1pr. 1.12.1.7 1.16.2 1.16.3 1.16.4.6 1.16.6.3 1.16.7.2 1.17.1 1.18.10 1.18.11 1.18.12 1.22.5pr. 2.4.23 4.4.18.1 4.8.41pr. 5.1.37 5.2.2 5.2.15pr. 5.2.30pr.-1 5.2.31.1

104.22 64; 65; 101;104 102; 102.7 66; 67; 101; 102; 103; 110 105.24 105.24 34.82 6.23 50; 108; 108.50 50; 53; 64; 65; 103; 107 54 57.198 57; 66; 67; 111 124 4.11 21.12; 59; 151 80; 81; 151; 154 21.12; 80; 81; 156 80; 81; 151; 154 21.12; 56; 56.188; 80; 81; 152; 155; 158; 159 82; 83; 162 21.12 21.12 55; 55.178 55.179; 163.342 45.132 44; 134.205 68; 69; 118 120.128 119.120 43.125 176.398 119 176.399 86; 87; 176 176.397 6 80; 81; 82; 83; 152; 158 6 7 40 21.12; 92; 93; 192 192.460 92; 93; 193 192.460

[F. 1] [F. 3]

[F. 2] [F. 4]

[F. 30] [F. 31] [F. 27] [F. 33] [F. 35] [F. 35] [F. 35] [F. 35]

[F. 9]

[F. 48] [F. 30]

[F. 59] [F. 60]

233

Domenico Dursi 7.1.38 7.1.40 7.4.4 7.9.8 8.1.1 9.4.40 11.7.6.1 11.7.39 11.7.41 11.7.42 12.1.40pr. 12.6.64 18.1.4 18.1.6pr. 18.1.42 18.1.45 18.1.73 20.4.3pr. 20.4.12.5 22.3.21 23.2.20 23.2.57 23.2.60 23.2.64.1 23.3.78.4 25.7.3pr. 25.7.3.1 26.1.9 26.2.4 26.2.14 26.2.26.2 26.3.8 26.6.2.2 26.10.9 27.1.6.19 27.1.7 27.1.13.2 27.1.15.14 27.1.21pr.-4 27.1.21pr. 27.1.21.1 27.1.29pr.-1 27.1.40.1 28.1.5 28.1.11

[F. 46] [F. 46] [F. 47]

86; 87; 153; 174 86; 87; 153; 174 86; 87; 175 52.159 174.388 173 55.179; 163 84; 85; 165 163.339 163.341 7; 8.28 57.199; 111.80 112.84 112.84 66; 67; 114 39.113 162.334 49 49 21.12 133.200 72; 73; 128 133.200 134.203 7 130; 130.179 38.102 44; 74; 75; 127; 127.163; 134 141.237 74; 75; 135 150 141.236 138.225 103.14 140 140.231 143.241 142.238 74; 75; 138 21.12; 136 21.12; 145 76; 77; 143 140.230 52.158; 88; 89; 179; 182 184.430

[F. 36]

[F. 5]

[F. 13]

[F. 17] [F. 18]

[F. 20] [F. 20] [F. 20] [F. 22] [F. 50]

234

Fonti antiche 28.1.13pr.-2 28.3.6.9 28.4.3pr. 28.5.49pr.-3 28.5.49.2 28.5.52.1 28.6.36 pr.-1 28.7.14 28.7.15 28.7.16 28.7.18pr.-1 28.7.18.1 29.1.22 29.2.6pr. 29.2.52pr.-1 29.7.6pr.-1 30.88 30.111 30.112.1 30.113pr. 30.113.5 30.114.3 30.114.4 30.114.7 30.114.15 30.114.16 30.117 30.128 32.1.1.2 32.65.3 32.65.4 33.7.12pr. 33.7.17.1 34.5.14 34.8.3 34.9.2.1 35.1.34 35.1.77 35.1.77.3 35.2.54 36.1.23(22)pr. 36.1.30(29) 36.1.31.1 36.2.20 36.3.12

[F. 51]

88; 89; 182 183.426 123 90; 91; 185 21.12 38.101 21.12; 90; 91; 187; 188 90; 91; 189 190 38.103; 90; 91; 191 47 38.104 21.12; 88; 89; 183 198.490 94; 95; 198 21.12 38.106 76; 77; 144 21.12 38.102 38.104 38.102 38.102 38.105 39 38.102 31 72; 73; 127; 133 116.104 38.101 39.110 6.23 38.106 38.107; 39.111 116.101 129; 129.171 103.14 48 48 39 7 21.12; 92; 93; 196 42 38.103 48

[F. 54] [F. 54] [F. 55] [F. 57] [F. 58] [F. 52] [F. 63] [F. 23]

[F. 16]

[F. 62]

235

Domenico Dursi 37.14.3 37.14.4 37.14.5.1 38.2.22 38.16.9 39.5.15 39.6.1 40.1.4pr. 40.1.5pr.-1 40.1.9 40.4.11.2 40.4.23pr.-1 40.5.50 40.5.51pr. 40.7.2pr. 40.9.9pr.-2 40.9.9.2 40.9.11.1 40.10.3 40.10.5 40.11.2 40.13.1pr. 40.13.3 40.13.4 40.15.1.4 41.1.7 41.1.8pr.-1 41.1.11 41.1.31.1 41.1.50 41.2.3pr. 41.2.29 41.3.4.26 41.3.39 41.3.45pr. 42.1.54.1 44.1.19 44.3.7 46.3.40 47.12.7 47.19.1 47.22.1pr.-2 47.22.3 48.1.2 48.2.13pr.

[F. 24] [F. 64]

76; 77; 144 96; 97; 201 24 38.103; 68; 69; 120 21.12; 96; 97; 202 86; 87; 170 21.12 149; 149.264 78; 79; 148 41; 125.154 123.146 68; 69; 122 38.105 55.182 123.146; 123.147 68; 69; 124 41 55.183 68; 69; 118 118.115 58; 66; 67; 117; 155.297 112.83 112.84 112.82; 112.88 5 166.355 84; 85; 166 84; 85; 128.166; 167 167.356 156.301 166.353 168 166.353 84; 85; 153; 166 47; 157 6 31 47; 80; 81; 157 27; 84; 85; 168 84; 85; 165 86; 87; 173 82; 83; 152; 160 152 132.195 32.73

[F. 10] [F. 65] [F. 43] [F. 28] [F. 11]

[F. 12] [F. 12] [F. 8] [F. 7]

[F. 39] [F. 40]

[F. 38]

[F. 32] [F. 41] [F. 37] [F. 45] [F. 34]

236

Fonti antiche 48.4.9 48.5.6.1 48.5.7 48.5.8 48.5.40.7 48.6.5.1 48.8.1.3 48.8.1.5 48.8.11.2 48.10.1pr. 48.10.1.4 48.10.7 48.10.9.3 48.10.16.2 48.12.1 48.12.2pr. 48.16.1.4 48.17.1pr. 48.18.5 48.19.4 48.19.17 48.19.28.6 48.19.28.13 48.21.3pr. 48.22.4 48.22.5 49.4.1.1 49.14.8 49.14.30 49.14.31 49.14.32 49.14.39pr. 49.14.46.7 49.15.12 49.16.4.3 49.16.9pr.-1 49.16.13pr. 50.1.15pr. 50.7.5 50.12.1.1 50.12.4 50.16.15 50.16.91 50.16.101pr. 50.16.242.3

201 130.176 133.201 51.152 51.152 40 45 132; 132.189 114 43 42 76; 77; 105.26; 147 43; 44 42 78; 79; 148 148.258 49 33.74 72; 73; 127; 129 29; 132; 132.189 66; 67; 103.15; 115 117.106 30 183.424 21.12; 72; 73; 127; 131 132; 132.193 137.219 170.371 84; 85; 169 55.181; 88; 89; 180; 184 184.432 132.190 170.372 125.154 132.192 27; 86; 87; 171 172.372 49 55.183 177.412 27; 86; 87; 152; 177 159.317 42 130.176 130.177

[F. 26] [F. 27]

[F. 14] [F. 6]

[F. 15]

[F. 42] [F. 53]

[F. 44]

[F. 49]

237

Domenico Dursi 50.17.32 50.17.54

57.197 169

Institutiones Const. Imperatoriam §6

20; 20.10; 146.247

Const. Omnem §1 §2 §4 §5 1.2.7 1.2.10 1.4.1 1.8.2 1.11.3 1.12.2 1.12.3 1.12.4 1.13.5 1.14pr. 1.14.1 1.14.2 1.14.3 1.14.4 1.16.4 1.16.5 1.20.3 1.20.4 1.23.2 1.23.3 1.24.1 1.24.2 1.24.3 1.24.4 1.25pr. 1.25.1-3 1.25.4 1.25.5 1.25.6; 8; 9; 10; 16 1.25.7 1.25.11 1.25.12

60; 60.215 21 6.23 61; 61.219 105 63 63 4.11; 63 63 21.12 63 63 63 63 20.7; 63 63 63 63; 74; 75; 135 63 63 63 63 63 63 63 63 63 63 63 63; 74; 75; 136 21.12 63 63; 74; 75; 139 63 63 63

[F.18]

[F. 19] [F. 21]

238

Fonti antiche 1.25.13 1.25.14 1.25.15 1.25.17 1.25.18-19 1.25.20 1.26.4 1.26.5 1.26.6 1.26.7 1.26.8 1.26.9 2.1pr. 2.1.1 2.1.2 2.1.3 2.1.6 2.1.7 2.1.8 2.1.9 2.6.9 2.6.10 2.6.11 2.6.12 2.6.13 2.7.1 2.9.5 2.10 ss. 2.10.5 2.10.6 2.10.7 2.11.3 2.11.4 2.11.5 2.12pr. 2.13.6 2.13.7 2.14pr. 2.15pr. 2.15.1 2.15.2-3 2.17.3 2.17.7 2.17.8 2.18pr.

63 63 63 63 63; 76; 77; 128; 145 63 63 63 63 63 63 63 21.12; 64.1; 80; 81; 153 21.12; 151.271 21.12 63 21.12; 158 63 21.12 21.12; 163.337 63 63 63 63 63 21.12 63 35.88; 200.498 63 63 63 63 63 21.12; 183.427 63 63 63 21.12; 63; 185.436; 186.439 21.12; 187.442 21.12; 188 63; 90; 91; 179; 188 21.12; 196 63 63 21.12; 192.459

[F. 25]

[F. 29]

[F. 56]

239

Domenico Dursi 2.18.1 2.18.2 2.20.4 2.20.5 2.20.6 2.20.9 2.20.10 2.20.11 2.20.12 2.20.13 2.20.14 2.20.15 2.20.16 2.20.17 2.20.18 2.20.19 2.20.20 2.20.21 2.20.36 2.25pr. 2.25.1 2.25.2 2.25.3 3.1 ss. 3.1.3 3.1.4 3.1.5 3.3.3 3.3.7 3.4pr. 3.4.2 3.4.3 3.4.4 3.11pr. 3.11.1 3.11.2 3.11.3 4.3.1 4.6.6 4.18.3

63 63 21.12 63 63 63 63 63 63 63 38.104; 63 63 21.12 63 38.103; 63 63 38.103; 63 63 63 63 38.104; 63 21.12 21.12 35.88; 200.498 63 63 63 63 63 63 63 63 21.12 63 63 63 63 21.12 63 33.76

Fragmenta Vaticana 200 201 244

145 145 140.232 240

Fonti antiche Gaius Institutiones 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 1.8 1.9 ss. 1.27 1.198 ss. 2.1 ss. 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6 2.7 2.8 2.9 2.73 2.114 2.117 2.151 ss. 2.185 2.186 2.187 2.188 2.189 2.190 2.192 ss. 3.24 3.40

103; 106.35 103 103; 110.70 103 103 103; 105.23 103 103 104.16 30 128.167 151.269 162.333 162.333 162.333 162.333 162.333 162.333 162.333 162.333 166.351 181.420 185.435 181.421 186.438 186.438 186.438 186.438 186.438 186.438 200.496 103.14 117.112

Gellius, Aulus Noctes Atticae 10.20.2 13.13.1 14.2.1

110.69 10 107.43

241

Domenico Dursi Herodotus Historiae 3.38.20

109.63

Historia Augusta, vedi Scriptores Historiae Augustae Lactantius Divinae institutiones 5.11

3.3

Pauli Sententiae 3.4b.2 5.29 ss.

191.456 33.77

Philo Alexandrinus De specialibus legibus 2.94 3.159 ss.

165.349 165.349

Pindarus Carmina 152 B = 169a Schr.

54.175; 109.60

Plato Protagoras 337

109.64

Plinius minor Epistulae 2.3.9 10.71

107.42 162

242

Fonti antiche Quintilianus Institutio oratoria 2.2.8 10.1.36

106.41 6.21

Scriptores Historiae Augustae Vita Hadriani 18.7

114

Vita Marci 10.10 10.11

174.384 137.218

Vita Pescenni Nigri 7.4

51.156

Vita Macrini 5.9 6.4

25.42 25.42

Vita Alexandri Severi 26.4

51.156

Seneca philosophus Epistulae morales ad Lucilium 1.6.5 4.33.9

106.40 106.40

Servius Grammaticus In Vergilii Aeneida 1.237

177; 177.409

Svetonius De vita Caesarum Tiberius 11.3

6.22 243

Domenico Dursi Tertullianus De spectaculis 19

114.92

Tituli ex corpore Ulpiani 2.3

123.147

Valerius Maximus Facta et dicta memorabilia 7.7.2

195.477

Vergilius Aeneis 3.304 3.305

164 164

EPIGRAFI

CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum VI 2088 VI 2162 VI 4416 XIV 2112, l. 10-13

122.140 122.140 161.330 160

ILS = Inscriptiones Latinae Selectae (Dessau) 2098 2162

122.140 122.140

Lex de piratis (= De provinciis praetoriis) (M.H. Crawford, Roman Statutes, I, London 1996, 231 ss., nr. 12) ll. 32-40 119; 119.119

244

Fonti antiche PAPIRI

CPR = Corpus Papyrorum Raineri 1.18

11.30

P. Berol. inv. 1024

165.348

P. Vindob. L. 59 + 92 (Fressura, Mantovani 2018) [F. 21]

245

19; 22; 26; 38; 46; 53; 70; 70.2; 74; 75; 76.3; 76.4; 78; 101; 125; 126; 139; 141; 142; 149.

Finito di stampare nel mese di luglio 2019 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28 00012 - Guidonia - Roma