Le Storie. Vol. I [libri I-IV] [1] 8802036683


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Le Storie. Vol. I [libri I-IV] [1]
 8802036683

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  • ocr: Tesseract; a cura di Guido Donini
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GRECI DIRETTA LANA

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B

STORIE

na

di

Tucidide A CURA

GUIDO Volume

UNIONE

ος

Re

DI

DONINI primo

TIPOGRAFICO-EDITRICE

TORINESE

ci

Prima

edizione:

1982

Stamperia Artistica Nazionale - Corso Siracusa 37, 10136 Torino

ISBN

88-02-03668-3

INTRODUZIONE

A

mia

moglie Isabella

I

Ετῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον Ἡ ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα ἀχού-

ειν ξύγκειται «[].ορετα αἱ Tucidide] è stata composta come un possesso per l'eternità piuttosto che come un pezzo per competizione da ascoltare sul momento » (I, 22, 4). Queste famose parole, che compaiono verso la fine della parte introduttiva delle Storie, possono servire come punto di partenza per un esame di quelle caratteristiche dell’opera tucididea che ci sembrano avere validità anche nel nostro tempo.

II Colpisce innanzitutto in Tucidide la passione per la ricerca della verità. Tale passione è evidente in primo luogo in I, 20-22: nei primi due di questi tre capitoli lo storico, ultimata la cosiddetta « Archeologia », la breve narrazione della storia greca dalle origini fino al tempo della guerra del Peloponneso, confronta il

proprio metodo di laboriosa ricerca sugli avvenimenti antichi con

i resoconti fatti dai poeti e dagli altri storici; in I, 22 egli descrive il metodo di ricerca di cui si è servito per la storia della grande guerra che sta per narrare. Con una sicurezza e un orgoglio che possono urtare, egli contrappone la difficoltà da lui incontrata nella scelta degli elementi su cui fare affidamento per la storia antica, alla facilità con cui invece la gente in generale (I, 20, 1), gli Ateniesi (I, 20, 2), e gli altri Greci (I, 20, 3) accettano le tradizioni, anche della propria città, senza esaminarle criticamente. E conclude (I, 20, 3): «Così poco si affatica la maggior parte degli

uomini

nella ricerca

della

verità ». In

I, 21,

1 afferma

la

superiorità della propria narrazione degli avvenimenti antichi su quelle dei poeti e dei logografi (cioè gli autori di prosa, compresi gli storici): ai primi imputa la tendenza ad esagerare e abbellire i fatti, ai secondi rivolge l'accusa di aspirare al gradimento da

10

INTRODUZIONE

parte dei propri ascoltatori più che alla verità. Anche in I, 22, passando ai criteri con cui ha presentato i discorsi pronunciati e i fatti accaduti durante la guerra del Peloponneso, Tucidide sottolinea le difficoltà incontrate (inizio dei $$ 1 e 3). In questo capitolo, più che di ricerca della verità si parla di sforzo per arrivare alla precisione (la parola dxplBewx si riscontra due volte: in I, 22,

1 e I, 22, 2, a proposito,

rispettivamente,

dei discorsi

e dei fatti). Ma è chiaro che si tratta di un altro aspetto della stessa realtà: e concludendo il capitolo (I, 22, 4) lo storico dice che si considererà soddisfatto se la sua opera sarà ritenuta utile da quanti vorranno vedere tò capéc, la chiarezza (cioè la verità) negli avvenimenti della guerra. A questo punto è opportuno chiedersi se sia giustificata o meno

la critica che, pur senza nominarlo, Tucidide muove

al suo

grande predecessore, Erodoto, nei tre capitoli ai quali si è accennato. Nato tra il 490 e il 480, e dunque una trentina d’anni prima

di Tucidide, e morto qualche anno prima del 420, Erodoto affrontò difficoltà che Tucidide non conobbe: non essendo, diversamente da lui, contemporaneo agli avvenimenti narrati, doveva, anche

per quelli più vicini al suo tempo, le guerre persiane, fare largo uso

di tradizioni

orali,

e aveva

minori

possibilità

di consultare

persone che avevano preso parte al conflitto che costituiva l’oggetto delle sue ricerche. Inoltre i suoi interessi si rivolgevano, oltre che al mondo greco, a un’area vastissima di quello non greco,

ed era inevitabile

che,

entrando

in contatto

nel corso

dei

suoi lunghi e numerosi viaggi con lingue e costumi diversi, non sempre egli comprendesse le informazioni che la sua grande curiosità lo spingeva ad ottenere. Tuttavia, anche se è lodevole il suo rispetto per i vari popoli da lui incontrati, rispetto che lo stimolava a registrare scrupolosamente i racconti che gli venivano fatti, e anche se non manca a Erodoto la capacità di distinguere tra versioni più o meno plausibili degli stessi avvenimenti, nonché quella di essere scettico o incredulo, spesso la mancanza di senso critico,

unita

al suo

senso

poetico,

al desiderio

irresistibile

di

presentare un racconto che sia interessante di per sé stesso, come letteratura e non come storia, lo allontanano dalla verità. I due errori per i quali Tucidide critica Erodoto (ma non solo lui, dato che si riferisce genericamente agli altri Greci) in I, 20, 3, cioè l'opinione che i re spartani avessero ciascuno due voti invece di uno,

e che

vi fosse

nell’esercito

dei Lacedemoni

un

inesistente

«reparto di Pitane », sono modesti. È invece di maggiore portata

INTRODUZIONE

la critica,

a cui si è già accennato,

II

espressa in I, 21,

I, dovei

prosatori in generale sono visti come persone che antepongono alla verità il gradimento dei loro ascoltatori, e riferiscono quindi racconti che per la loro antichità sono troppo favolosi per essere

credibili.

E ancora

in I, 22, 4, prima

di rivendicare

per la sua

opera la presentazione della verità, riconosce che la propria narrazione sarà meno gradevole all’ascolto per l'assenza del favoloso. L'accento posto in entrambi i passi sull’ascolto è una sicura indi-

cazione che Tucidide

pensi anche,

o soprattutto,

a Erodoto,

che

divenne subito popolarissimo grazie alle letture di parti delle Storie che egli tenne ad Atene e a Olimpia. Nonostante queste critiche, Tucidide doveva considerare adeil resoconto delle guerre persiane scritto da Erodoto, poiché guato in I, 97, 2 egli vedeva la necessità di riscrivere solo la storia degli anni che vanno dalla fine di quelle guerre alla guerra del Peloponneso, correggendo Ellanico, considerato troppo impreciso nella cronologia del periodo e succinto. Ellanico di Mitilene, nato circa

una generazione prima di lui, è l’unico storico nominato da Tucidide. Questo autore prolifico, di cui però rimangono solo frammenti, scrisse molte opere di carattere mitologico e geografico: ma la sua opera più importante fu probabilmente la Storia dell’Attica, dalle origini fino ai suoi tempi (cioè gli ultimi anni del V secolo), la prima del genere. Se Tucidide è così critico di questo storico contemporaneo (che, pur dando molta importanza alla mitologia

nelle

sue

opere,

ebbe

il merito

di cercare,

attraverso

la sua lista di re e arconti ateniesi, di collegare il periodo mitologico a quello storico con una cronologia abbastanza precisa), a maggior ragione dovevano sembrargli imprecisi gli altri logografi, di epoca più antica, anche quelli di una certa importanza, come Ecateo di Mileto (vissuto a cavallo tra il vi e il v secolo): grande viaggiatore, fu precursore di Erodoto (che se ne servì) per il carattere geografico ed etnografico della sua Pertegesis. Ma non poteva essere gradito a Tucidide il fatto che Ecateo scrisse un’opera in ben quattro libri di carattere mitologico (le Genealogie), anche se i miti erano modificati da interpretazioni razionalistiche. Nei riguardi dei poeti Tucidide respingeva le loro esagerazioni (come in I, 10, 3), ma non le grandi linee delle loro opere. Nell’Archeologia egli accetta la storicità della guerra di Troia, e in I, 10, 1 asserisce che Omero e gli altri poeti avevano ragione nel considerare grande la spedizione condotta contro Troia dai

12

INTRODUZIONE

Greci (e in I, 9, 4 cita Omero come fonte per la vastità del regno di Agamennone)! La grande differenza tra Tucidide e i suoi predecessori sta nell’interpretazione delle testimonianze fornite dai poeti ai fini della ricostruzione della storia antica: egli si serve

criticamente

sia

di esse,

sia

delle

tradizioni

tramandate

dai logografi, sia della sua conoscenza delle condizioni di vita nelle regioni più arretrate della Grecia, per costruire la sua teoria secondo cui nell’antichità le città erano poco potenti rispetto

alla Grecia contemporanea, perché non si erano ancora sufficien-

temente sviluppati il commercio e la navigazione, attività che potevano condurre a un’accumulazione di denaro e di risorse da utilizzare nelle guerre. La precisione e l’obiettività di Tucidide erano apprezzate nell’antichità, se si pensa che non ci è noto nessun altro resoconto della guerra del Peloponneso, se non quello molto scarno scritto da Diodoro Siculo (XII, 36 - XIII, 42). Ai nostri giorni sono pochi i punti in cui testimonianze archeologiche, epigrafiche o numismatiche hanno dimostrato l’imprecisione dell'autore. In altri casi ci si può lamentare delle sue omissioni, come il fatto che egli non parli del grande aumento, deciso nel 425, del tributo imposto da Atene agli alleati, oppure l'aver trascurato molti fatti salienti della storia persiana durante il periodo della guerra del Peloponneso;

o della sua oscurità, come nella descrizione dell’or-

ganizzazione dell'esercito spartano (V, 68). Ma in generale ci si fida della sua affermazione di aver cercato scrupolosamente la verità.

I modi in cui si manifesta la precisione di Tucidide nella sua

opera sono numerosi.

Parlando

del suo metodo

di ricerca egli

afferma (I, 22, 1): «Quanto ai fatti avvenuti durante la guerra, non ho ritenuto che fosse il caso di raccontarli secondo le informazioni avute dal primo che capitava, né come a me pareva, ma ho riferito quelli a cui io stesso ero presente, e per quelli che ho appreso da altri ho compiuto un esame su ciascuno di essi con la massima accuratezza possibile ». Tale accuratezza si nota, ad esempio, nelle scrupolose indicazioni dei nomi dei generali e dei numeri dei soldati e delle navi, non solo per le città greche 1. Altri esempi della sua fiducia in alcuni elementi della tradizione sui

personaggi mitici sono in I, 3, 2, dove è accettata l'esistenza di Elleno, figlio di Deucalione. Notevole è anche il passo (III, 104) dove lo storico si basa sull’Inno omerico ad Apollo come testimonianza per l'esistenza in tempi antichissimi a Delo di una grande festa panionica.

INTRODUZIONE

13

più importanti, ma anche per popoli poco conosciuti e situati alla periferia del mondo ellenico. Per regioni come la Tracia e la Macedonia lo storico ha gran cura di fissare anche particolari geografici: i nomi e le direzioni dei fiumi, i nomi delle montagne

e_quelli dei laghi. Nelle questioni più importanti,

cioè i modi

in cui si svolsero determinati avvenimenti della guerra, Tucidide in generale presenta una versione sola, quella che le sue indagini gli hanno permesso di accertare come la più sicura. La precisione diventa imparzialità dove egli non è in grado di scegliere tra due

versioni (come nel caso delle trattative che precedettero l'ucci-

sione dei prigionieri tebani a Platea in II, 5, 5-6): egli le presenta tutte e due senza pronunciarsi. Descrivendo la famose battaglia notturna combattuta a Siracusa egli ammette francamente che non era facile conoscerne i particolari (VII, 44) né dall'una né dall'altra parte. Ci sono poi parecchi casi dove la cautela lo spinge a registrare ciò che «si dice » senza che egli stesso si assuma la responsabilità di dare per veri i fatti narrati. Uno degli aspetti più caratteristici dell'accuratezza di Tucidide è la sua tendenza a citare documenti. Di essi i più lunghi

e i più importanti sono i trattati di pace o di alleanza. È curioso

come sotto questo punto di vista egli abbia molto di più in comune con gli storici moderni che non con quelli antichi: infatti la sua prassi di riportare i trattati non fu imitata nell’antichità perché sì pensava che il linguaggio diverso (a volte anche il dialetto diverso dall’attico) dei trattati turbasse l’unità di stile che si ricercava. È interessante notare che la precisione di Tucidide è stata dimostrata in modo lampante nel caso del trattato tra Atene, Argo, Mantinea ed Elide riportato in V, 47: ne è stata

infatti rinvenuta una copia incisa su pietra con variazioni insignificanti rispetto al testo tucidideo. Se possono servire alle sue argomentazioni, anche brevi epigrafi in versi incise su monumenti sono

citate da Tucidide

(VI, 54, 7 e VI,

59, 3), e anche

(come in II, 54, 1). Si è già accennato sopra alle sue di poeti. La precisione di Tucidide si manifesta in modo anche nel sistema cronologico da lui adottato. Poiché città greche avevano ciascuna il proprio calendario, civile non cominciava

oracoli

citazioni notevole le varie e l’anno

alla stessa data, ma il suo inizio avveniva

in corrispondenza del mese in cui entrava in carica un magistrato annuale, Tucidide ideò un proprio sistema dividendo ogni anno in due parti, l'«estate» e l'«inverno ». All’interno di ciascuno

14

INTRODUZIONE

di questi due periodi vi sono date o periodi più precisi, come la « primavera », il «tempo in cui il grano forma le spighe », « poco prima della vendemmia », ecc. Solo in alcuni punti particolarmente significativi, come lo scoppio delle ostilità, o la pace che nel 421 segnò la fine della guerra decennale, lo storico fa riferimento ai calendari ateniese, spartano e argivo: ma solo nel primo di questi tre vi è un'indicazione di mese, mentre gli altri precisano

semplicemente

l'anno;

e in V, 20 egli asserisce chiaramente

che tali calendari locali non sono abbastanza precisi. È pur vero che con questo metodo annalistico di registrare gli avvenimenti la narrazione

di un

unico

fatto,

come

l'assedio

di Platea,

deve

essere spezzata in più parti, corrispondenti a diversi anni della guerra: ma la storia del conflitto nel suo insieme ne guadagna in precisione e panoramicità. Tucidide infatti può indicare la contemporaneità di vari avvenimenti con espressioni come « circa alla stessa epoca ». Un altro aspetto dell’appassionata ricerca di precisione che si nota nell’opera di Tucidide sono le sue digressioni, dovute sia al desiderio di correggere gli errori di altri storici o dell'opinione pubblica contemporanea, sia al bisogno di illuminare i lettori riguardo a fatti dei quali essi altrimenti non riconoscerebbero l'importanza. Si è già accennato all'excursus sulla « Pentekontaetia », i cinquant'anni tra le guerre persiane e quella del Peloponneso, excursus la cui motivazione principale (I, 97, 2) è il fatto che l’unico storico che aveva narrato gli avvenimenti di quegli anni, Ellanico, lo aveva fatto brevemente e con imprecisioni cronologiche. È vero che molti studiosi moderni muovono a Tucidide la stessa critica da lui mossa a Ellanico: occorre però tener presente che l’excursus trae valore anche dalla motivazione secondaria,

dichiarata,

sempre

in I, 97, 2, dallo storico:

il desi-

ἀεπο di indicare le tappe della creazione dell'impero ateniese. Come sì vedrà più avanti, il tema dell’imperialismo ateniese ha

una grande importanza in Tucidide,

e l’utilità dell’excursus si

inserisce in questa tematica. La digressione sulla natura della tirannide dei Pisistratidi e sul modo in cui essa ebbe fine (VI, 54-59) è motivata dal desiderio di correggere un errore diffuso tra gli Ateniesi. L'importante excursus sulla storia della Sicilia (VI, 1-5) sembra in parte dovuto al desiderio di correggere l’errore degli Ateniesi, che non si rendevano conto della grandezza dell’isola e del fatto che attaccandola essi intraprendevano una guerra pressappoco grande come quella che affrontavano contro

INTRODUZIONE

I5

i Peloponnesiaci: ma più notevole doveva essere lo scopo di Tucidide di diffondere tra i Greci continentali la storia dell’isola che lo storico Antioco di Siracusa aveva scritto e che forse era nota solo in Sicilia. Inoltre la digressione serve a sottolineare l'importanza della spedizione di Sicilia, cioè di una parte delle Storie che ha una certa autonomia all'interno dell’opera ed è maggiormente curata dal punto di vista letterario e artistico. Vi sono digressioni più brevi su popoli della periferia del mondo greco, come i Traci, i Macedoni e gli Anfilochi. Le pagine delle Storie in cui più nettamente appare la modernità e la scientificità di Tucidide sono quelle della descrizione dell'epidemia che si scatenò ad Atene nel 430 e negli anni successivi (II, 49-54). È veramente meravigliosa la precisione con

cui vengono indicati nei minimi particolari i sintomi della peste,

con una ricchezza di vocabolario tecnico che non può che essere fondata su un'ottima conoscenza degli scritti di medicina di Ippocrate di Cos (contemporaneo di Tucidide, essendo nato verso il 470) e della sua scuola. E del resto l’influsso degli scritti ippocratici sullo storico sembra dimostrato anche da altri aspetti della sua opera, per esempio dal fatto che, come essi escludevano il divino o il soprannaturale quali cause delle malattie, così Tucidide vedeva cause solo naturali dello scoppio della guerra. Le parole che Tucidide premette in II, 48, 3 alla descrizione della peste valgono per le Storie nel loro insieme: « Sulla peste sia un medico sia un profano potranno parlare ciascuno secondo le sue conoscenze,

dicendo da che cosa essa probabilmente

abbia avuto

origine e quali siano le cause di un tale sconvolgimento, cause che potrà considerare sufficienti ad effettuare il mutamento di salute: io invece dirò in che modo si è manifestata e mostrerò

i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta,

si sarebbe maggiormente in grado di risconoscerla, sapendone in precedenza qualche cosa ». La precisione dello storico, ottenuta a prezzo di tanta fatica, è dovuta proprio al desiderio che i futuri lettori della sua opera possano risconoscere e quindi comprendere i fenomeni di guerre che si verificheranno nel futuro. Certo la precisione e la ricchezza di particolari che si riscontrano nella descrizione della peste sono insuperati nelle Storie: ma è da tener presente che un alto livello di precisione si trova anche in alcuni passi della descrizione dell'assedio di Platea da parte dei Peloponnesiaci e di quello di Siracusa da parte degli Ateniesi, e nella descrizione delle tecniche di battaglie terrestri e navali. L'analisi

16

INTRODUZIONE

del fenomeno della stasîs, o guerra civile, che è per una città tranquilla ciò che la peste è per un organismo sano, è anch'essa impres-

sionante per la sua profondità e lucida minuziosità 5.

Sebbene nel passo sopraccitato Tucidide professi un interesse più per la descrizione precisa dei fatti che per la riflessione sulle cause, è evidente nella sua opera la distinzione tra cause immediate o doglianze che portarono alla grande guerra (gli episodi di Epidamno e di Potidea), e la causa più vera o più profonda, che era il timore di Sparta di fronte all'espansionismo ateniese (I, 23, 5-6). È anche per illustrare questa causa fondamentale della guerra del Peloponneso che Tucidide stende la digressione sui cinquant'anni che seguirono le guerre persiane, anni in cui si formò l'impero di Atene e la potenza della città si estese sulla maggior parte della Grecia. Anche questa precisa distinzione tra cause diverse (con l'esclusione di fatti di carattere frivolo) rappresenta un passo avanti rispetto a Erodoto ?. L’imparzialità di Tucidide — che pure ha i suoi limiti, come si vedrà più avanti —- non è che un aspetto del suo amore della verità. Lo storico stesso dice in V, 26, 5 che l'esilio gli permise di conoscere i fatti avvenuti nell'àmbito dei Peloponnesiaci senza esser disturbato; e i suoi notevoli mezzi finanziari gli consentivano certamente di viaggiare. Ma anche il carattere aristocratico dell'uomo doveva contribuire a fargli osservare le cose con un certo distacco. Ecco dunque, insieme alla sconfinata ammirazione per alcuni grandi Ateniesi, come Pericle e Temistocle, anche un note-

vole riconoscimento dell'abilità strategica di Brasida, il grande generale spartano che ebbe la meglio su di lui impossessandosi di Anfipoli, e su Cleone nella battaglia per la conservazione della città; e vi è anche ammirazione per la saggezza dell’anziano re di Sparta Archidamo. La sua grande stima per l'intelligenza e l'efficienza fa sì che egli lodi anche tiranni come Pisistrato e i suoi figli, oligarchi come Frinico e Antifonte, e non solo gli artefici democratici della potenza ateniese. Il fatto stesso che studiosi diversi abbiano visto in Tucidide chi un democratico chi un oligarca, è segno della sua obiettività. Era pienamente consapevole dei difetti degli Ateniesi, visti come

avevano alla loro guida un uomo 2. Essa

didea

verrà

della natura

esaminata

umana.

più

avanti,

masse,

come

specialmente

se non

Pericle, ma non esitava

nell'àmbito

della concezione

tuci-

3. Questi aveva parlato all’inizio delle sue Storie, delle narrazioni fatte

dai Persiani di rapimenti di donne come causa della discordia con i Greci.

INTRODUZIONE

17

a mettere in luce la crudeltà spartana nei confronti degli iloti o di nemici che potessero compromettere la loro potenza. Oltre all'intelligenza Tucidide ammirava anche lo sforzo di essere onesti,

anche quando, come nel caso di era ben diversa dalle aspirazioni, tudine che intelligenza in alcune tanza per l'esito della guerra. È

Nicia, egli vedeva che la realtà e che inoltre vi era più inettisue decisioni di grande imporquesto un aspetto dell'umanità

di Tucidide forse più che della sua imparzialità. III

L'importanza di Tucidide risiede anche nel fatto che la sua opera è la prima narrazione di storia contemporanea che ci sia giunta dall’antichità 4. Mentre lo scopo di Erodoto era stato quello di impedire che fossero dimenticate e rimanessero prive di gloria gesta grandi e meravigliose avvenute parecchio tempo prima della sua maturità, Tucidide, maturo già allo scoppio della guerra del Peloponneso

(V,

26,

5),

si rese

subito

conto

che

essa

sarebbe

stata più importante di tutte quelle avvenute fino allora e incominciò quindi subito a scriverne la storia (I, 1, 1). Proprio perché i fatti narrati erano contemporanei, Tucidide poteva prefiggersi l'ambizione di esporli con precisione. Questa stessa contemporaneità delle Storie tucididee consente loro di avere un secondo vantaggio, oltre alla maggiore corrispondenza alla verità, su quelle

di Erodoto. Questi non aveva indicato nessuna utilità per i lettori

che non fosse quella di conservare la memoria del glorioso passato, ma Tucidide va ben oltre: «Se quanti vorranno vedere la verità degli avvenimenti passati e di quelli che nel futuro si saranno rivelati, in conformità con la natura umana, tali o simili a questi, giudicheranno utile la mia narrazione, sarà sufficiente » (I, 22, 4). Dunque i lettori di Tucidide delle generazioni future non solo avranno le idee chiare sulla guerra del Peloponneso, che per loro non sarà più contemporanea, ma potranno, grazie alla narrazione di Tucidide, studiare e comprendere chiaramente i fatti che saranno loro contemporanei. Non si tratta ovviamente di un’asserzione da parte dello storico che i fatti della guerra del Peloponneso si ripeteranno: egli, per mezzo del suo fonda4.

menti

Anche

Ellanico

contemporanei,

minuscoli

frammenti.

2. TUCIDIDE.

nella sua

ma,

come

Storia si

è

dell’Attica

accennato,

aveva

non

ne

trattato

avveni-

rimangono

che

IS

INTRODUZIONE

mentale principio — sul quale ci si soffermerà più avanti - dell'importanza della natura umana, vista come un fattore immutabile che

costantemente

influenza

la storia,

vuole

indicare

che

anche nel futuro gli uomini in determinate situazioni si comporteranno in un certo modo, e che il loro comportamento sarà più chiaro alla luce della narrazione e dell'analisi tucididea. La lucidità e la profondità che contraddistinguono le Storie sono manifestazioni del grande entusiasmo del loro autore, entusiasmo

che

sarebbe

stato

molto

minore

se egli,

non si fosse sentito parte degli avvenimenti.

fin

da

giovane,

E proprio perché

Tucidide, come cittadino influente, aveva partecipato attivamente

alla vita della sua città, egli poté svolgere nella sua opera una analisi politica acutissima e profondissima, quale forse non è stata mai superata in tutta la storiografia successiva, antica e moderna. Dell’aspetto politico delle Storie si parlerà più avanti: qui importa vedere la fonte dell'entusiasmo di Tucidide, ovvero i motivi per cui egli fu uno scrittore così efficace di storia contemporanea. Essi non risiedono solo nel suo patriottismo di influente cittadino ateniese, nato e cresciuto ad Atene ed eletto stratego nel 424, anno del suo fallimento ad Anfipoli e del suo esilio: più importante era la sua adesione a Pericle. La sua ammirazione per il grande statista è dimostrata abbondantemente

nelle

Storie,

sia

in

modo

diretto,

nella

valutazione

molto positiva che egli ne dà in II, 65, sia, indirettamente,

nello

spazio considerevole

assegnato ai quattro discorsi di Pericle, di

cui

II,

tre

(I,

140-144,

35-46,

II,

60-64),

compresa

la famosa

orazione funebre, in orazio recta, e il quarto (II, 13) in oratio obliqua. Che Tucidide ammirasse tanto Pericle è abbastanza sorprendente se si pensa alla famiglia in cui lo storico era nato e alle idee politiche conservatrici dell'ambiente in cui visse negli anni della sua formazione. È infatti molto probabile che il nonno paterno di Tucidide avesse sposato una sorella di Cimone: questi, aristocratico oppositore di Pericle e fautore, nella politica interna di Atene,

di una

democrazia

di Pericle

ed Efialte,

controllata

dai

proprietari

terrieri,

e per quanto riguardava i rapporti con gli altri stati, ardente propugnatore della pace con Sparta e del proseguimento della guerra contro i Persiani, era stato ostracizzato nel 461 per opera assertori

della democrazia

radicale,

in cui

le classi mercantili e marinare predominassero, vi fossero maggiori diritti e benefici economici per i cittadini più poveri e l'impero si espandesse maggiormente, anche a costo di entrare in conflitto

INTRODUZIONE

19

con gli Spartani. È poi probabile che anche la madre di Tucidide fosse imparentata con la famiglia di Cimone e che fosse figlia di Tucidide

di

Melesia,

erede

della

politica

di

Cimone,

di

cui

aveva sposato una sorella. Tucidide di Melesia, che dunque fu forse nonno dello storico (ed era diffusa l'usanza di dare a un figlio il nome di un suo nonno), era a sua volta stato un accanito oppositore di Pericle, di cui criticava soprattutto il grandioso

programma edilizio. Lo storico Tucidide era nato e cresciuto tra l'ostracismo di Cimone e quello di Tucidide di Melesia, avvenuto forse nel 443. Ciononostante,

presumibilmente

all'inizio dei quin-

dici anni di pace tra il 445 e la guerra del Peloponneso, egli aveva abbandonato le tradizioni conservatrici della famiglia per aderire a Pericle, che ormai non aveva più rivali e il cui prestigio era altissimo. Sui motivi che spinsero il giovane Tucidide a un cambiamento così brusco non si può che azzardare delle ipotesi, ma è certo che la carica di entusiasmo che lo storico portò in questa conversione era tale da resistere per anni e anni e da essere solo modestamente scalfita dai fallimenti di cui si rese colpevole la democrazia ateniese postpericlea nel corso della guerra. La conversione doveva essere stata facilitata dal fatto che Pericle aveva

ormai abbandonato

la sua politica espansionistica dopo il falli-

mento del tentativo di estendere l'impero sulla terra, cioè nella Grecia continentale. Dopo la perdita della Beozia e di Megara, e il disastro della spedizione ateniese in Egitto, Pericle era convinto che l'essenziale fosse il conservare l'impero sul mare. Si può ipotizzare che Tucidide fosse conquistato dall’oratoria persuasiva dell’« olimpico » Pericle e, oltre che dal Partenone e dalle altre costruzioni, anche dagli intellettuali, da sofisti e razionalisti come

Protagora e Anassagora, che fiorivano al tempo della massima influenza del grande statista. È presumibile che Tucidide vedesse nella prosperità e nella pace degli anni tra il trattato del 445 e il 431 la prova della giustezza della politica seguita da Pericle e dell'infondatezza delle idee di Tucidide di Melesia e di Cimone. E doveva pur rendersi conto che senza i tributi provenienti dagli alleati non sarebbe stato possibile costruire il Partenone. Insomma l'impero doveva essere per Tucidide un dato di fatto ormai acquisito: non si poteva più tornare al passato. Si era ormai stabilito un equilibrio in Grecia tra Sparta, di cui gli Ateniesi, sconfitti nel tentativo di espansione nella Grecia continentale, riconoscevano la superiorità sulla terra, e Atene, la grande potenza marittima.

20

INTRODUZIONE

Si può dunque pensare che nel 431 Tucidide, che allora aveva una trentina d'anni e faceva parte di quella che oggi chiameremmo la «classe dirigente» ateniese, aristocratico per le sue origini, ricco per lo sfruttamento, di cui godeva, delle miniere d'argento di Skapte Hyle, in Tracia, intelligente, illuminato dagli influssi culturali dell'’Atene periclea che aveva assorbito, e nello stesso tempo ancora abbastanza giovane perché il suo entusiasmo per la potenza e la gloria della sua città fosse vigoroso, si può pensare che egli fosse più gravemente preoccupato di altri dal tentativo, che Sparta stava facendo, di rompere l'equilibrio tra i due grandi contendenti, ambedue all'apice della forza. Infatti per scongiurare la guerra Sparta chiedeva ad Atene di lasciare indipendenti le città alleate, in altre parole di rinunciare all'impero. Tucidide doveva essere tra i più convinti sostenitori della proposta di Pericle (enunciata nel suo primo discorso, I, 140-144) di respingere la richiesta spartana e quindi accettare la guerra. Rendendosi conto che lo sconvolgimento che la guerra avrebbe provocato sarebbe stato enorme e che la guerra stessa sarebbe durata a lungo proprio perché i due contendenti erano così forti e non vi era praticamente nessuna città neutrale, ebbe subito il materiale su cui esercitare la sua profonda capacità di analisi storico-politica e cominciò subito a scrivere la storia del conflitto. Pur nel

suo distacco e nella sua obiettività, che furono accentuate a partire dal 424, anno dell'esilio, Tucidide non poteva non esporre i fatti e le idee che stavano alla base della strategia di Atene,

da un spiega crazia pagine

punto di vista ateniese e pericleo: l'entusiasmo per Pericle perché nessuno dei personaggi che guidarono la demoateniese dopo la sua morte appaia in buona luce nelle dello storico, e perché, dopo la descrizione della disastrosa

situazione in cui l’'oligarchia dei Quattrocento l'impero nel 411, sia tanto lodato, in VIII,

portò la città e

97, 2, il governo

dei

Cinquemila: questa democrazia ristretta diede alla politica ateniese quella moderazione che nessun singolo statista era stato capace di darle dopo Pericle, il grande capo di una democrazia che non

aveva

limitazioni

costituzionali,

ma

«stava

diventando

di fatto il governo del primo cittadino » (II, 65, 9). L'entusiasmo che mosse Tucidide a cominciare a scrivere la storia della guerra appena vi furono le prime indicazioni che essa sarebbe scoppiata ci porta a porre la domanda sul modo in cui egli procedette alla redazione dell’opera, e cioè alla famosa « questione tucididea », che per quasi un secolo e mezzo ha in vario

INTRODUZIONE

modo

coinvolto gli studiosi dell'autore.

ZI

Il fatto che solo in V,

26, nella cosiddetta «seconda introduzione », lo storico esprima vigorosamente la propria convinzione (sulla quale pochi erano d’accordo ai suoi tempi) che le varie guerre costituissero un unico grande conflitto di ventisette anni fece scrivere a F. W. Ullrich, nel 1846, il libro Beitràge zur Erklirung des Thukydides, la cui tesi principale è che nel 421, dopo la fine della guerra dei dieci anni terminata dalla pace di Nicia, Tucidide,

non prevedendo

la

ripresa del conflitto pochi anni dopo, iniziò a rielaborare i suoi

appunti

e a stendere, sostanzialmente

nella forma in cui ci è

pervenuta, la parte delle Storie compresa in quelli che gli studiosi alessandrini (nella loro suddivisione dell’opera adottata fino ai nostri giorni) definirono come i libri I-III, e in circa metà del libro IV. Poi, prima ancora di arrivare alla fine della stesura

della storia della prima guerra e dei trattati che la conclusero

(parte che termina appunto in V, 25, subito prima della seconda introduzione), Tucidide avrebbe interrotto la rielaborazione e ricominciato a prendere appunti, visto che erano ricominciate le ostilità, che dalle guerre locali nel Peloponneso sfociarono nella grande spedizione di Sicilia e infine nella guerra deceleica, che si concluse nel 404 con la resa di Atene e la distruzione delle sue mura. Nel 404 Tucidide avrebbe ripreso la stesura al punto della guerra archidamica in cui egli l'aveva interrotta, e sarebbe morto prima di completare la narrazione, che infatti termina bruscamente in VIII, 109. Ammettendo che almeno due passi (II, 65 e II, 100) non poterono essere stati scritti prima del 404, l’Ullrich considerò queste le sole parti tarde incorporate nella stesura più antica. La tesì « dell’Ullrich, nelle sue varie modificazioni, sulle quali non è il caso di soffermarsi, ebbe molto successo nel secolo scorso,

e solo in questo secolo un certo numero di studiosi ha proposto autorevolmente la tesi opposta, cioè che soltanto a partire dal 404 Tucidide attese all'elaborazione degli appunti raccolti in precedenza. Negli ultimi anni si è anche fatta strada un'importante

posizione intermedia, che riscontra una notevole unità di pensiero

nell’opera tucididea, di

questa

scuola,

anche tra parti che, secondo

furono

composte

in epoca

gli esponenti

diversa.

Così,

tra i

sostenitori, da una parte, di due Tucididi (quello indotto dalla pace del 421 a stendere la narrazione della guerra archidamica, e quello influenzato dalla fine della guerra nel 404), e, dall'altra, di un solo Tucidide, quello del 404, si è preferito vedere, sì, un unico Tucidide, il cui pensiero è sostanzialmente lo stesso nel corso

22

INTRODUZIONE

dei ventisette anni della guerra, ma che, vuoi per maggiore o minore abbondanza di dati per certi periodi, vuoi per abbondanza o insufficienza di tempo disponibile, vuoi per interesse o entusiasmo personale, elaborò alcune parti delle Storte con maggior cura di altre e in epoche diverse da altre parti. Nel pensiero unitario dello storico sono distinguibili strati di composizione più antichi da strati più recenti, anche se ovviamente la certezza assoluta si può avere solo per passi del tipo di II, 65, scritto, come si diceva sopra, dopo la fine della guerra (dato che il passo contiene un esplicito riferimento a questo fatto) o II, 23, 3, scritto quando Oropo era ancora in mani ateniesi (dunque prima della sua conquista da parte dei Beoti nel 412). Questa tesi di una composizione più o meno continua delle Storie, con maggiore o minore elaborazione dei dati a seconda delle circostanze, con una forma letteraria più o meno curata e con diversi stadi di revisione delle parti già abbozzate o stese, ci sembra più accettabile di una stesura unica a partire dal 404.

Appare infatti inverosimile che in così poco tempo prima della sua morte (difficilmente avvenuta dopo il 399) Tucidide potesse vagliare, scegliere e rielaborare appunti per una narrazione talmente lunga. Sarebbe stata un'impresa ardua anche se l’opera si fosse limitata a resoconti scarni: a maggior ragione doveva essere difficile se si considerano i passi contenenti analisi profonde, e, soprattutto,

se si considerano

i discorsi,

che formano

una por-

zione considerevole dell'intera opera. Se Tucidide, nei discorsi ma anche altrove, è un autore difficile, se non è facile per noi leggerlo oggi,

come

non

lo era per i critici antichi,

sia greci sia romani,

doveva pur comportare una certa difficoltà allo storico stesso esprimere i suoi pensieri, talvolta oscuri, in una prosa attica che era solo agli albori. Se Erodoto, scrivendo nel dialetto ionico, con una prosa molto più semplice e scorrevole di quella di Tucidide, riversò nella sua opera, non molto più lunga di quella tucididea, una vita di ricerche, impiegando

una sore, stile soli

per la stesura definitiva

quantità di tempo impossibile a determinarsi, il suo succespiù preciso e costretto ad affrontare problemi di lingua e di molto più gravi, non poteva compiere un lavoro analogo in quattro o cinque anni. Per fare un esempio di disparità di trattamento, è lampante la differenza che si nota in tre successive parti delle Storie, da V, 26 a VIII,

109. Partendo

dalla seconda introduzione

(V, 26),

abbiamo prima il resoconto del periodo di pace puramente for-

INTRODUZIONE

23

male tra Atene e Sparta, caratterizzato da guerre locali nel Pelo-

ponneso, con interventi ateniesi. In queste poche pagine (la narrazione termina in V, 83) sono narrati ben cinque anni di avvenimenti,

in

modo

sommario,

dunque,

e

con

alcuni

punti

oscuri. La politica, sia estera sia interna, di Atene non è delineata chiaramente, e, cosa più significativa, non ci sono discorsi diretti: questi invece erano stati abbondanti nella storia della guerra archidamica. Segue la spedizione ateniese contro Melo, con la conquista dell’isola in precedenza neutrale. Qui si nota subito un cambiamento: queste pagine (V, 84-116) sono quasi interamente dedicate al famoso dialogo tra i rappresentanti ateniesi e quelli di Melo. L'ampiezza del dialogo e la cura con cui è stato redatto sono sproporzionate rispetto alla scarsa importanza militare e strategica della spedizione ateniese di per sé. Evidentemente a Tucidide interessava a questo punto approfondire il suo studio del problema dell’imperialismo ateniese, problema che per lui era fondamentale. Vengono poi i libri VI-VII, con il resoconto della spedizione di Sicilia, capolavoro del Tucidide letterario e artista. Anche se questa parte delle Storze costituisce

un

episodio

a sé,

una

guerra

all’interno

di un

conflitto

più grande, con una sua introduzione (e con una digressione subito dopo il preambolo, proprio come, all’inizio del libro I, vi è l’Archeologia, excursus che serve a dimostrare la tesi principale enunciata al principio dell’opera), tuttavia la narrazione dei due anni di guerra in ben due libri della suddivisione attuale, con un

gran numero di discorsi, si può considerare altrettanto compiuta e definitiva della parte precedente, in cui era stato trattato l'attacco ateniese a Melo 5. Dove invece appare una grande differenza è nel libro VIII, che non contiene nessun discorso diretto e solo pochi discorsi indiretti, e che presenta punti oscuri *, anche

se non si può negare che le vicende che portarono all'insediamento dell’oligarchia dei Quattrocento e alla sua caduta sono spesso descritte con toni drammatici e vivaci e con una certa ricchezza di particolari. Che Tucidide abbia abbandonato del tutto l’idea di inserire discorsi nelle Storie verso la fine della sua vita sembra improbabile, perché l’ultimo discorso di Pericle (II, 60-64) è in

V,

5. È per questo

26

e VIII,

109.

che

sopra

si è parlato

di tre parti,

non

quattro,

tra

6. Per esempio ben tre trattati tra i Peloponnesiaci e i Persiani, trat-

tati che però sono male inseriti nel contesto e non sufficientemente spiegati dallo storico.

INTRODUZIONE

24

generale ritenuto tardo, e scritto in collegamento con il seguente capitolo 65, che, come si è detto, fu scritto dopo il 404. La dram-

matica situazione interna di Atene negli anni 412-410, che sono quelli compresi nell'attuale libro VIII, si sarebbe prestata molto bene all’inserzione di alcuni discorsi diretti. Ma anche nell'ipotesi che lo storico non avesse voluto inserirne, è impensabile che non avrebbe riveduto la narrazione di quegli anni, per renderla più chiara, se ne avesse V, 26-83.

È

dunque

avuto

probabile

che

il tempo;

e lo stesso

la narrazione

della

si può

dire di

spedizione

di

Sicilia, a causa del grande interesse che essa destava nello storico

sia stata redatta contemporaneamente ai fatti stessi, o poco dopo, quando essi erano in grado d’impressionarlo maggiormente e spingerlo alle finezze letterarie che egli seppe raggiungere al massimo grado in questa parte dell’opera. Non solo gli appunti, ma anche la forma attuale potrebbero quasi interamente risalire agli anni che vanno dal 415 al 412 o al 411. La drammaticità e il fascino degli avvenimenti della Sicilia possono averlo indotto a prestare una particolare attenzione a questa spedizione ateniese, e di conseguenza a non completare e a non rifinire il racconto degli anni 421-416. È verosimile anche che nel periodo tra la guerra dei dieci anni e la spedizione di Sicilia egli fosse impegnato a rivedere e stendere alcune parti della storia degli anni che vanno dal 431 al 421, e ciò a scapito di una maggiore completezza dei dati relativi al periodo compreso tra il 421 e il 416. Occorre poi tener presente che durante i primi sette anni della guerra archidamica, dal 431 al 424, Tucidide era ad Atene, presumibilmente impegnato nella vita politica della città, e non avulso dalla società (altrimenti non sarebbe stato scelto come uno degli strateghi dell’anno 424): quindi non avrà avuto molto tempo per la sistemazione degli appunti e la stesura del testo che ci è giunto: solo con l'esilio Tucidide avrebbe avuto a disposizione una grande quantità di tempo libero. Inoltre egli fu contagiato dall’epidemia che si sviluppò ad Atene tra il 430 e il 427. Anche se ovviamente non sappiamo quanto durò la sua malattia, è probabile che anche questa fosse un fattore che contribuì alla necessità di utilizzare il periodo di pace relativa degli anni 421416 per la revisione della storia degli anni 431-421. E non è nemmeno detto che il dialogo dei Meli sia stato composto subito dopo l'attacco ateniese a Melo nel 416: potrebbe benissimo essere tardo, composto deliberatamente dopo il fallimento ateniese in Sicilia

INTRODUZIONE

25

e inserito al punto in cui si trova, appunto come preludio all'atto che segnò la crisi irreversibile dell'imperialismo di Atene. Naturalmente lo storico raccolse materiale e scrisse appunti durante tutto

il periodo in cui rivedeva e redigeva in forma più o meno defi-

nitiva le parti che sono giunte a noi: così nei sette o otto anni tra la fine della redazione della storia della spedizione di Sicilia e la fine della guerra, una parte considerevole di tempo sarà stata impiegata anche a raccogliere informazioni che sono andate

perdute, irrimediabilmente, dato che la redazione a noi pervenuta

termina nel 411, nel corso del ventunesimo anno di guerra. Ma in

quegli storia

anni

della

Tucidide guerra

avrà

lavorato

archidamica,

anche

poiché,

non vi era per questo scopo molto tempo

alla revisione

come

della

si è accennato,

tra il 404 e la morte

dello storico. La fine della guerra lo stimolò a fissare, per così dire, il quadro di Pericle, a redigere l’ultimo discorso dello statista,

seguito dalla valutazione piena di elogi. Si può accettare l’opinione che la visione ideale dell’Atene democratica che si ha nell’Epitafio sia stata formulata quando Pericle era ancora vivo, o morto da poco. E anche il suo primo discorso potrebbe appartenere a una prima redazione. Tenendo conto di eventuali altri discorsi scritti dopo il 404, tra cui probabilmente il dialogo dei Meli, e di altre aggiunte nelle parti narrative (compreso un indubbio

ritocco,

in VI,

15, 3, alla narrazione

della spedizione

di

Sicilia), si può capire come Tucidide avesse poco tempo a dispodizione prima della sua morte per rivedere quello che è ora l'VIII libro: è molto probabile che questi ultimi due anni di guerra (412 e 411) siano le ultime cose redatte dall'autore prima di morire. Alcuni passi (come quello di VIII, 97, 2 estremamente favorevole al governo dei Cinquemila) dovettero presumibilmente esser copiati tali e quali (o quasi) dagli appunti presi una decina d'anni prima. A quest’ipotesi di composizione graduale e continua delle Storie aggiungiamo due considerazioni. La prima è la seguente: l'ipotesi, sia per vari altri aspetti dell’opera tucididea, sia per la sua presentazione di Pericle, consente, non meno di altre spiegazioni, di giustificare l’unità di pensiero dell'autore,

pur con le

inevitabili sfumature: si può pensare che la strategia di Pericle fosse spiegata da Tucidide, per mezzo dei due primi discorsi (uno diretto e l’altro indiretto, rispettivamente I, 140-144 e II, 13) da lui attribuiti allo statista, quando questi era vivo, o morto

da poco, e che più o meno

alla stessa epoca l’eco dell’Orazione

INTRODUZIONE

20

funebre, pronunciata in un periodo di ottimismo e saldezza di princìpi morali — prima della peste - abbia indotto lo storico a registrarla con tanta ampiezza e implicita simpatia; che per tutta la durata della guerra Tucidide conservasse l'entusiastica convinzione della grandezza, della preveggenza e dell'onestà dello statista;

e che

alla

fine

del

conflitto,

in un

periodo

nero,

egli

volesse ribadire la sua ammirazione per Pericle e la giustezza della

politica da lui seguita, redigendo l’ultimo discorso, che ha qualche ombra oltre a mirabili bagliori, e in cui in ogni caso prevale l’ottimismo. Ci sembra che se vi fosse un distacco di una trentina d’anni tra l'entusiasmo giovanile di Tucidide e l’intera delineazione della figura di Pericle attraverso i discorsi e la narrazione,

l'immagine sarebbe pessimistica.

diversa:

meno

vivida,

meno

luminosa,

più

La seconda considerazione è questa: l'ipotesi, molto valida,

presentata da L. Canfora nel suo libro del 1970, Tucidide continuato, secondo cui Tucidide nello stadio successivo agli appunti scrivesse

su rotoli, ciascuno

corrispondente

a un

anno

di guerra,

e ciascuno « firmato » col nome dello storico, nella formula conclusiva contenente il numero ordinale dell’anno di guerra, si

accorda con quanto si è suggerito sopra. Lo scrivere in rotoli relativamente brevi consentiva la revisione di singole parti in modo autonomo, e non necessariamente nell'ordine degli anni della guerra; e il fatto che i resoconti dei cinque anni che vanno dalla fine del 421 al 416 non contengono nella formula conclusiva la firma di Tucidide, può indicare che egli li considerasse particolarmente bisognosi di revisione. IV È parti

caratteristica narrative

di Tucidide

delle Storie,

la tendenza

e ad indicare

anche

a osservare nei discorsi,

nelle ciò

che è tipico ed universalmente valido. È vero che ciò che rende il nostro autore più vicino al pensiero moderno è la sua capacità d'indicare con precisione i dettagli; ma la tensione tra lo specifico e il generico è talmente continua e marcata nelle sue pagine, che non si può prescindere, in questo esame degli aspetti più interessanti dell’opera tucididea, dal considerare la sua propensione ad isolare i principi generali del comportamento umano. E del resto questa capacità di astrazione, di ricerca del tipico,

INTRODUZIONE

27

oltre ad essere caratteristica dei Greci, è un elemento importante

del pensiero

ed è presente

tucidideo,

nelle sue Storie con

una

tale intensità da fare di esse un’opera completamente diversa dalle Storie di Erodoto, nelle quali i particolari, profusi in abbon-

danza e spesso sé stessi.

con

poco

senso

critico,

sembrano

quasi

fine a

Data l'intenzione di Tucidide di rendere comprensibile la storia — non solo quella contemporanea, ma anche quella antica,

come si vede dall’Archeologia, e quella futura — era inevitabile il suo interesse nel sottolineare ciò che è tipico e ricorrente nelle situazioni storiche, o meglio nel comportamento umano. La sicurezza con la quale affermava nell’importante passo già citato (I, 22, 4) l'utilità della narrazione da lui redatta per comprendere

i fatti futuri

che,

a causa

della natura

dell’uomo,

avranno

ele-

menti di somiglianza con la guerra del Peloponneso, indica che Tucidide vedeva la verità non solo nello specifico, nell'accuratezza

del suo resoconto,

ma

anche

nel generale, in ciò che nelle forme

essenziali ricorrerà nel futuro. E la capacità di prevedere il futuro

nei suoi aspetti tipici, che qui egli afferma, sarebbe infondata se la natura umana non avesse per lui degli elementi costanti. Si è qui tradotto tò dv9p@rwvov con «natura umana»: in

realtà ”, l’espressione si riferisce sia alla natura

dell’uomo,

la sua

82-83,

sia al

suo comportamento, sia a tutto ciò che riguarda l’uomo in quanto influisce su di lui e lo spinge a comportarsi in un certo modo. Il passo di gran lunga più significativo in cui Tucidide esprime concezione

della