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Italian Pages 464 [530] Year 2013
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CIAK SI SCRIVE / I PROTAGONISTI a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi
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Fabrizio Fogliato
ABEL FERRARA un filmaker a passeggio tra i generi
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Indice
Nicky’s Film The Hold-Up Could This Be Love 9 Lives of a Wet Pussy/ Nine Lives Not guilty: for Keith Richards The Driller Killer Ms 45 / Angel of vengeance The Beds Fear City / Border Miami Vice The Gladiator Crime Story China Girl The Loner Cat Chaser King of New York King of New York – videoclip FBI: The Untold Stories Bad Lieutenant Body Snatchers Snake Eyes/Dangerous Game I Know You Want to Kill Me
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The Addiction Nigger Enterteinement The Funeral California The Blackout Subway Stories: Tales From the Underground New Rose Hotel Iowa Don’t Change Your Plans ‘R-Xmas Flowerland Rain You Don’t Look So Good Move With Me Tiny Alice Mary Go Go Tales One Dream Rush – Dream Piece Chelsea on the Rocks Mulberry St. Napoli Napoli Napoli 4:44 – Last Day on Earth Storia di Abele/Mio nonno Nota Biografica Masterclass Locarno 65 Cast and Credits Bibliografia
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alla piccola Anna
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Nicky’s Film(1971) Una panoramica fuori fuoco su una donna (Nadia Von Loewenstein) che dorme nel letto. Un uomo (Nicodemo Oliverio) accovacciato nel letto di fianco a lei. L’uomo si alza e con cautela guarda fuori dalla finestra dove vede due uomini vestiti di nero in attesa vicino ad una macchina. Disturbato da quella presenza l’uomo fa una telefonata. Dopo una dissolvenza in nero si vede l’uomo di fronte ad un altro uomo (Abel Ferrara) seduto ad una scrivania posta in un paesaggio desolato. Dopo un’altra dissolvenza in nero, si vede l’uomo seduto al tavolo di una cucina. Dalla porta entrano un uomo grasso una donna e un altro uomo; tutti e tre si siedono al tavolo e l’uomo grasso discute con il protagonista. Quando i visitatori si allontanano, il terzo uomo, quello rimasto in disparte, si sporge dall’oscurità della porta e dice qualcosa all’uomo seduto al tavolo. Un insert mostra nuovamente i due uomini in attesa vicino alla macchina. L’uomo prende un coltello e se lo infila nella cintura, poi si alza, esce di casa e crolla al suolo improvvisamente (probabilmente colpito da un proiettile sparato da uno degli uomini in attesa). Contro-panoramica fuori fuoco sulla donna che dorme.
Nicky’s film (questo il probabile titolo secondo Abel Ferrara) è un cortometraggio del 1971 della durata di 6’ e 27’’. è muto ed è privo sia dei titoli di testa che di quelli di coda. L’interprete, Nicodemo Oliverio è l’amico e compagno di scuola della Lakeland High School di Peekskill, colui che in futuro scriverà gran parte delle sceneggiature del regista con lo pseudonimo di Nicholas St. John. La donna sdraiata nel letto, Nadia Von Loewenstein, in quel periodo è la fidanzata di Ferrara: si conoscono sin dalle superiori, da quando lei aveva quindici anni, ed è protagonista e collaboratrice (a vario titolo) sia dei cortometraggi che dei primi lungometraggi del regista. Le riprese di Nicky’s film in gran parte, sono state effettuate nella discarica di proprietà del padre di Ferrara. Nicky’s film è il primo lavoro del regista integralmente visibile, anche se da sue testimonianze, risultano altri super-8 girati tra amici per le strade di Peekskill. Questo primo lavoro, apparente9
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mente semplice, in realtà contiene tutta una serie di rimandi interessanti, ed è al contempo leggibile attraverso varie interpretazioni. Il povero bianco e nero e la mancanza del sonoro rendono tutto molto confuso al punto che è impossibile comprendere il vero significato, vista anche la totale afonia dei dialoghi. In Nicky’s film ci sono vaghi rimandi alla famiglia e a rapporti tra consanguinei che non sembrano troppo idilliaci. Nella cucina in cui è seduto Nicky entrano un uomo e una donna, i quali potrebbero essere i suoi genitori. Subito dopo l’uomo sembra quasi confessarsi e al termine del breve dialogo i due presunti coniugi si allontanano. Secondo i ricordi di Nadia Von Loewenstein1 dovrebbe trattarsi di un cortometraggio antimilitarista e anti-Vietnam. Nicky si alza dal letto mentre la sua fidanzata dorme profondamente. Guarda fuori dalla finestra e vede due uomini in attesa con aria minacciosa (la morte?); riceve una telefonata e si arreca a colloquio con un uomo seduto dietro a una scrivania (chiamata alle armi?). Torna a casa e comunica l’evento ai genitori, i quali dopo un breve scambio di battute in merito all’arruolamento, esprimono il loro disappunto ed escono dalla stanza con sguardo triste e rammaricato. Nicky si arma di coltello e si prepara ad uscire (partenza per la guerra?), ma come supera l’uscio viene freddato da due colpi di pistola provenienti dal fuori campo (la morte lo colpirà sul campo di battaglia?). A casa nel letto la sua compagna dorme tranquilla ignara dell’accaduto. La tesi del discorso contestatario e antimilitarista, risulta sì consona al periodo, ma è altrettanto fragile e inconsistente. Ad uno studio più approfondito, Nicky’s film appare come la trasposizione per immagini della vicenda di un uomo intrappolato in un incubo kafkiano e surrealista, in cui, nonostante la povertà dei mezzi, alcuni passaggi appaiono interessanti e suggestivi. Ad esempio, quello in cui l’uomo, prima di effettuare la telefonata, prende un pacchetto di sigarette che si rivela essere vuoto, e con disappunto si accende un mozzicone preso dal posacenere. La scena, va collegata con quella successiva, nella cucina, in cui la donna seduta al tavolo apre un pacchetto di sigarette nuovo e comincia a fumare di fronte all’uomo, e questi contrariato cerca di allontanare il fumo soffiato dalla donna, quasi a manifestare una sorta di frustrazione verso la stessa sigaretta. Quello della sigaretta, della sua assenza e presenza, è evidentemente un simbolo, collegabile all’intero tessuto narrativo del cortometraggio. Se i fatti 1
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narrati, sono in realtà un sogno della donna, come si evince dalla circolarità della vicenda aperta da una panoramica e chiusa da una contro-panoramica, la visione che ne segue riconduce alla rappresentazione di un uomo, quello sdraiato accanto a lei all’inizio del sogno (e quindi lo steso Ferrara visto che Nadia è la sua fidanzata), nevrotico e paranoico. L’allucinazione degli uomini in attesa, altro non è che la riproduzione di ansie e paure (presumibilmente riconducibili all’urgenza di raccontare e di raccontarsi da parte del regista), mentre il coltello che l’uomo si infila nella cintura è leggibile come simbolo fallico e quindi rimanda ad un’impotenza maschile o all’insoddisfazione della donna che dorme. A suffragare questa tesi di lettura surreale e simbolica, contribuisce la rappresentazione dell’ambiente desolato in cui si svolge la vicenda e da cui l’uomo protagonista sembra inevitabilmente condizionato. La panoramica di quasi trecentosessanta gradi, con cui viene ripresa la discarica, desolata e sporca, di proprietà del padre è un chiaro rimando alle difficoltà affettive e familiari vissute da Abel Ferrara nel periodo della post-adolescenza: il Nicky protagonista del film quindi, altri non è che lo stesso Abel Ferrara. Nonostante queste affascinanti interpretazioni, Nicky’s film, anche a causa dell’approssimazione tecnica e degli scarsi mezzi a disposizione, non risulta niente altro che il frutto di un apprendistato sperimentale in cui tutto è troppo immaturo e urgente per risultare coerente e compiuto.
The hold up (1972) Johnny (Ken Fowler) è un operaio, ed è sposato con una donna (Mary Kane), il cui padre è proprietario della fabbrica in cui lavora Johnny. Bob (Robert Denson) e Joe (Joe Guida) sono colleghi di Johnny. Un giorno come tanti, i due vengono licenziati, mentre Johnny, grazie al suocere, presumibilmente mantiene il suo lavoro. Bob e Joe si ritrovano in un bar per affogare nell’alcool il loro dispiacere e la loro rabbia e, disperati per la mancanza di denaro, decidono di fare una rapina alla stazione di servizio. Johnny si unisce a loro solo per amicizia. La rapina si risolve in un completo fallimento: dopo aver picchiato selvaggiamente il proprietario, i giovani fuggono con in mano solo 11
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un pugno di spiccioli. Poco tempo dopo i tre amici vengono arrestati. Passano tre mesi e Jonny ritorna a lavorare in fabbrica, mentre i due uomini (in voceoff) discutono di come il padre di Jonny abbia usato la sua influenza per farlo uscire di prigione. Mentre l’uomo varca i cancelli della fabbrica, Bob e Joe ascoltano il pronunciamento della sentenza a cui vengono condannati.
Girato a Peekskill nel 1972, questo ambizioso cortometraggio di 14’ e 12’’, scritto in collaborazione con Nicodemo Oliverio (che qui per la prima e unica volta, si firma con il suo vero nome), è costato millecinquecento dollari dati ad Abel Ferrara dal produttore John Howard. Nonostante il povero bianco e nero con cui è girato, risaltano i preziosi contrasti della fotografia di Hasi Vogel, che Ferrara definisce “a very elegant european cameraman”, e nonostante il regista newyorkese ritenga questo film niente di più che un esercizio di tecnica: “Volevamo provare a girare in esterni, e vedere come far muovere le persone dentro e fuori dalle stanze”2, The hold-up è un lavoro abbastanza maturo, chiaramente ispirato da motivazioni di forte passione politica, e in cui risultano delineate già alcune caratteristiche del suo cinema a venire. The hold-up, rifiuta di presentare la lotta di classe in modo manicheo, evitando di dividere la società in buoni e cattivi. L’episodio narrato nel cortometraggio, infatti, ruota intorno ad un’ingiustizia generica, ed è privo di situazioni di corruzione individuale, ma si regge sull’intricato equilibrio tra colpa e responsabilità. Secondo il regista, infatti, senza l’improvviso licenziamento da parte del proprietario della fabbrica, Bob e Joe non avrebbero bisogno di compiere la rapina, e nonostante Johnny veda il suo ruolo protetto dal legame di parentela con il suocero, decide di partecipare al crimine perché sente che la famiglia sta diventando per lui una sorta di prigione. Nel cortometraggio le “prigioni” da cui fuggire sono molteplici: la città, la fabbrica, e la famiglia, tutte e tre raccontate dal regista come mondi soffocanti, raffigurati da inquadrature strette e ossessive e da panoramiche su muri, pareti, inferriate e reti. L’ambizione del regista, questa volta, collima con il contenuto, visto che la sua non è una semplicistica rappresentazione di azioni unidirezionali e visto che i suoi personaggi appaiono complessi e non unidimensionali. Non a caso, anche il proprietario della fabbrica è seriamente preoccupato per il futuro dei suoi dipendenti, come si evince dalle parole riferite a Johnny durante l’incontro serale: “Queste decisioni vengono 2
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da chissà dove. Non dipendono da me. Io non conosco neanche chi lavora alla sede centrale”. Ferrara dunque, sostiene che se gli operai fossero trattati come esseri umani e in modo equo, questi, anche se disperati, non avrebbero bisogno di ricorrere alla violenza. Nonostante vivano in un mondo periferico, quello di Peekskill, fatto di mattoni e cemento, fabbriche e ciminiere, deprivato degli spazi naturali del verde e del cielo (come raccontano i ricorrenti carrelli laterali), questi uomini, seppur a contatto con una corruzione pervasiva, possiedono tutti gli anticorpi per sfuggire alla violenza e al peccato. Sin dalla prima sequenza, quella della colazione, Ferrara introduce il tema (reale e simbolico) della “prigione”. In questa scena, la rappresentazione del nucleo familiare è una parodia di quella proveniente dal mondo pubblicitario: la donna/moglie che serve il caffè a l’uomo/marito, i corn-flakes in bella evidenza sul tavolo, mentre sullo sfondo il bimbo che aspetta di essere imboccato. Il marito che dice: “Devo andare al lavoro, occupati tu del bambino” e poi la moglie che lo rincorre con il sacchetto con il pranzo e gli ricorda: “Johnny ascolta, abbiamo un appuntamento stasera. Ricordatene. Buona giornata”. Dopo aver ricevuto un bacio, la donna guarda la macchina dell’uomo allontanarsi. L’idillio di questo quadretto familiare, è tale solo nella finzione, visto che le espressioni dei volti dei personaggi denotano fastidio e insofferenza verso quella quotidianità sempre uguale a se stessa. Ecco quindi, che appena “liberatosi” della moglie Johnny si incontra con i suoi due amici per commentare le immagini di una rivista pornografica. La fabbrica è un’altra “prigione” che sin dalla prima inquadratura ne viene mostrato l’ingresso dall’alto e da dietro delle inferriate, al suo interno gli spazi sono riquadrati e ristretti dalla presenza di macchine, condutture e ostacoli di ogni tipo e le inquadrature, forzatamente, strette a mezza figura o su primi piani; il rumore sordo della timbratrice in cui gli operai inseriscono la cartolina, restituisce l’immagine di un luogo oppressivo e meccanizzato. Il dettaglio della timbratrice viene ripreso due volte e intervallato da una panoramica a trecentosessanta gradi sulle fabbriche di Peekskill, ad evidenziare la relazione tra lavoro e prigionia. La scena centrale, quella della rapina alla stazione di servizio, è volta ad una rappresentazione della violenza che non consente né giustificazione né spettacolarizzazione. Dopo una breve panoramica sull’esterno della stazione di servizio, gran parte delle riprese sono effettuate in campo medio senza nessuna concessione al voyeurismo della violenza. Il piano di Bob di rubare una grossa somma di denaro, si riduce invece in un tentativo patetico di furto di pochi spiccioli. Mentre Joe e Johnny picchia13
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no il gestore terrorizzato, Bob raccoglie da terra alcune monetine che l’uomo ha perso nei momenti concitati della colluttazione. In The hold-up è evidente l’influenza di John Cassavetes, sia nella descrizione delle dinamiche familiari, sia nel contrasto esistenziale tra la realtà (il lavoro in fabbrica) e il sogno (le modelle nude della rivista, con cui Bob dice di aver dormito assieme), animato dalla frustrazione per una condizione di vita non accettata. La descrizione del rapporto tra interni ed esterni della fabbrica, la scena notturna della rapina, e le riprese dei dettagli, sono debitrici del cinema di Robert Bresson (anche nei tempi dilatati con cui viene mostrata, ad esempio, la timbratura della cartolina), e le riprese della timbratrice, vista come una macchina famelica, sembrano anticipare quelle del bancomat di L’Argent (id, 1983) dello stesso regista francese. Come Bresson, Ferrara riduce tutto all’essenziale, e con tre sole immagini mostra l’alienazione e la ripetitività del lavoro in fabbrica e, attraverso il dettaglio del movimento meccanico della timbratrice, come questa condizioni anche la vita fuori dalla fabbrica. Per Ferrara, fabbrica e famiglia (intesa come routine domestica) sono due “prigioni”, incarnazione del capitalismo e ingranaggi di un sistema inestricabile in cui più deboli e sprovveduti sono condannati ad essere stritolati. La scena finale in cui il montaggio alternato mostra Johnny che si reca al lavoro mentre Bob e Joe ascoltano la sentenza di condanna, si chiude con una repentina e claustrofobica panoramica sui muri delle fabbriche di Peekskill, evidenziando, da parte del regista, anche in questo secondo lavoro, un chiaro rimando autobiografico, questa volta però, messo in scena con maturità e rigore.
Could this be love (1973) Greenwich Village. Jacky (Nadia Von Loewenstein) è un’artista che, assieme alla sua amica e modella Renée (Dee Dee Rescher), condivide un appartamento. Annoiate, le due donne, un giorno si recano in un bar, circuiscono una giovane prostituta di nome Cathy (Casandra Cortez [Cassie Holtzberg]), se la portano a casa e fanno l’amore con lei. Decidono di invitarla a cena nell’alta società per divertirsi alle sue spalle, e la portano alla festa in onore di Mr. Gatto (Carl Low), un acquirente interessato al magazzino di proprietà di David (David 14
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Pirell)il marito di Jacky. Mr. Gatto è un imprenditore nel settore delle calzature. Alla festa, cui partecipano anche Stephen (Lanny Taylor) il marito di Renee, e Dennis (Dennis Gray) un pianista amico di Stephen, Cathy viene presentata come un’archeologa cugina di Renee. Mentre scende la sera Cathy stringe amicizia con Mr. Gatto, e poi ascolta, nel silenzio della notte, Renee e Jacky mentre esprimono il loro disprezzo verso di lei...
Girato tra Nyack e New York nell’autunno del 1973, questo terzo cortometraggio della durata di 29’, denota cresciute capacità tecnico-stilistiche da parte di Abel Ferrara coadiuvate dall’utilizzo della pellicola a colori e delle musiche dei Rolling Stones. Could this be love è prodotto dalla Caution Films e vede la partecipazione di John Paul McIntyre come tecnico del suono, Francis Delia (fratello di Joe Delia) come direttore della fotografia, e Alphonso Ferrara, zio di Abel e finanziatore dell’impresa nella parte del barman del Greenwich Village. Sul set di questo cortometraggio quindi si incrociano per la prima volta, alcuni futuri membri della factory di Abel Ferrara. Francis Delia, racconta, come il suo apporto, sia subentrato a riprese già iniziate, a causa dell’insoddisfazione da parte di Abel Ferrara verso il lavoro di John Rosen: “La prima volta che ho incontrato Abel, a metà degli anni ‘70 è stato a Nyack nello stato di New York, lavoravo come fotografo commerciale e sono venuto a conoscenza del fatto che Abel stava girando un film in sedici millimetri chiamato Could This be love, e che era co-finanziato da suo zio Bobo e da suo padre Big Al. Ci siamo incontrati al coffee-shop di South Broadway, dopo quell’incontro ce ne sono stati altri e in uno gli ho presentato mio fratello Joe che voleva fare il musicista. In seguito, ho lavorato al corto come direttore della fotografia dove ho preso il posto di John Rosen. Sono stato responsabile del 75-80% delle riprese. Io non ho mai avuto niente contro Rosen, che ho incontrato una sola volta, e mi dispiace di avergli rubato il lavoro, ma secondo Abel Ferrara lui era il colpevole di quelle luci “refrigeranti” della prima parte del film.”3
Prima dell’inizio delle riprese di Could this be love, avviene un altro incontro fondamentale per gli esordi registici dell’autore newyorkese, quello con Douglas Anthony Gervasi (Dougie Gervasi aka Douglas Anthony 3
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Metrov), il quale diventa uno dei suoi più fidati collaboratori. I disegni e i quadri presenti nel cortometraggio sono opera dell’amico-pittore, il quale racconta così il suo incontro con Ferrara: “Ho incontrato Abel quando vivevo in un appartamento sull’89a Strada nell’Upper East Side di Manatthan. Me lo ha presentato Frankie Delia, perché Abel aveva bisogno di un posto dove girare un film. Io non sapevo cosa farmene di un appartamento così grosso. Avevo otto stanze, Abel voleva girare il film e io gli ho detto che per me non c’era alcun problema. Anche io ero stato a scuola di cinema alla UCLA ma mi sono trasferito a New York per diventare un pittore. Ho scelto questa professione, perché non sapevo come procurarmi i soldi per fare i film. Abel invece ha imparato a farlo ed è un genio a farlo. Mi ricordo che all’epoca ha sfinito suo zio di Bridgeport ed è riuscito a farsi dare cinquemila dollari per il film. Ha girato Could this be love in parte nel mio appartamento e in parte in una casa di suoi conoscenti a Nyack. La situazione era caotica, il mio appartamento distrutto”.4
Could this be love è un lucido spaccato dell’ipocrisia della classe medioalta americana, in cui compaiono per la prima volta sia il tema del voyeurismo che quello della promiscuità sessuale. Preponderante è il ruolo riservato all’arte e alla pittura (Jacky, pittrice è l’embrione di quello che sarà poi Reno Miller in The Driller killer). Could this be love appare come un completamento di The hold-up: due opere, attraverso cui, il regista sente l’urgenza di raccontare il suo punto di vista sulla società, e se i borghesi di Could this be love non hanno nulla a che spartire con gli operai del lavoro precedente, entrambi i film sono attraversati dalla necessità di raccontare gli avvenimenti attraverso le barriere di classe. Il mondo i Jacky, sin dalle prime inquadrature, viene presentato come attraente e desiderabile, mentre con il proseguire del film, risulta falso, cinico e ipocrita. La scena del buffet, fatta di pochi stacchi, camera a mano, veloci e nervosi, è volta a raccontare la foga nel mangiare di questi borghesi, probabilmente figli di ricchi, i quali si dedicano all’arte solo per noia e per glamour, ma al momento di nutrirsi sembrano più affamati degli homeless. Non a caso, Ferrara irride questo loro atteggiamento, mettendolo a confronto con l’imbarazzo e le difficoltà che Cathy e Mr. Gatto hanno nel compiere la stessa azione. Questi 4 Brad Stevens, Abel Ferrara: The moral vision, Fab Press, Londra, 2004, Pag.15 – traduzione nostra
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ultimi provengono da famiglie di umili origini, e appaiono molto più sinceri e coerenti dei loro “nobili” dirimpettai. La noia delle due amiche borghesi, non viene scacciata neanche attraverso l’amplesso orgiastico con la giovane prostituta, in seguito al quale, decidono di invitarla al party per ridere alle sue spalle. La scena dell’amplesso lesbico, più che mostrata è suggerita, con modalità delicate e malinconiche: una serie di inquadrature ravvicinate, molte delle quali fuori fuoco, raccontano piccoli gesti affettuosi senza mai mostrare le nudità delle donne, se non in apertura e in chiusura della scena stessa. Le stesse modalità, utilizzate poco dopo per mostrare, o meglio far sentire (vista l’assenza di illuminazione), David e Renee che sniffano cocaina alla luce di un solo fiammifero. Questa scelta rigorosa, e abbastanza inconsueta per il regista, nel mostrare sesso e droga appare connaturata, alla necessità di dover ancora acquisire una superiore maturità registica per affrontare ed esplicitare questi temi. L’impianto di Could this be love infatti è ancora fortemente incentrato sulla questione sociale, come dimostra una delle scene più interessanti del film, quella del dialogo tra Mr. Gatto e Dennis. In un solo campo medio, con i personaggi a mezza figura e senza stacchi, emerge la profondità e la maturità del giovane Abel Ferrara, che costruisce questo dialogo attorno alla necessità di studiare da parte di chi proviene dalle classi meno agiate in contrasto con la supponenza di chi invece vive nel benessere. Mr. Gatto racconta a Dennis: “Quando sono tornato dall’estero mi hanno fatto responsabile del settore calzaturiero. Non male come lavoro; molti uomini lo avrebbero voluto, ma io ho deciso anche di tornare all’università a studiare. Lavoravo tutto il giorno, poi prendevo il treno e mi recavo alla New York University. Facevo i compiti la notte e andavo avanti fino alle prime luci dle mattino. Tutte le persone che incontro mi chiedono se ne è valsa la pena. Se guardo indietro rifarei tutto. E lei è andato all’università?” Dennis, quasi indispettito, risponde con deferenza: “Occasionalmente”. Abel Ferrara dunque, condensa in questo breve scambio di battute tutta l’ipocrisia della middle-class, la quale esprime solo l’arroganza di uno stato sociale acquisito (e non conquistato) e sceglie, come forma di divertimento, di denigrare gli appartenenti alle classi sociali inferiori. Non è casuale quindi che Cathy e Mr. Gatto instaurino un rapporto di amicizia: il loro legame è finalizzato ad evidenziare una solidarietà di classe fatta di comprensione e sincerità, da contrapporre alla falsità e alla spocchia tanto di Dennis, quanto di Jacky e Renee. L’ultima immagine, quella 17
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che mostra Cathy vestita di bianco seduta nell’oscurità, mentre ascolta le battute sguaiate delle due donne nei suoi confronti, è particolarmente significativa, visto che Ferrara, sceglie un lento carrello all’indietro per mostrare questa prostituta divenuta “principessa” (in un’inquadratura fortemente influenzata dalla pittura di Caravaggio). Could this be love si chiude dunque con un’immagine iconica e simbolica, quasi “sacra” nella sua bellezza estatica, che sembra anticipare e aprire la strada alla realizzazione dei lungometraggi successivi, diventando il primo vero tassello di una maturità autoriale finalmente raggiunta anche se non ancora pienamente controllata.
9 Lives of a wet pussy (1976) Un’immagine notturna il cui contenuto è incomprensibile accompagnata da un suono di campane: una scena lesbo in cui delle due donne non si vede il volto. Un’immagine di un rapporto etero sessuale con il primo piano di una fellatio. Nella stalla un uomo e una donna si amano voluttuosamente:l’uomo è uno stalliere e la donna è Pauline (Pauline LaMonde) la sua padrona. Attraverso i pensieri della donna viene raccontata la gioia dell’amplesso. In un appartamento dall’arredamento orientaleggiante, Gipsy legge una lettera di Pauline (Dominique Santos) rivolgendosi direttamente in macchina. La donna che pare innamorata di Pauline ma non ricambiata, si sdraia sul letto fumando dell’oppio, prima di iniziare a masturbarsi. Pauline e il marito David (David Pirell), salgono su una Rolls Royce accompagnati dall’autista Rizo (Nicholas George [Nicodemo Oliverio]). Durante il viaggio i pensieri della donna raccontano il rapporto problematico con il proprio compagno, il quale, non è mai sazio di sesso. Giunti a una stazione di servizio Pauline fa l’amore nel bagno con il benzinaio. Il montaggio alternato che segue, mostra Gipsy intenta a masturbarsi e il corpo nudo di Pauline disteso su una superficie bianca. Gipsy si siede per terra e gira su un tavolo le carte dei tarocchi. Un flash-back mostra il nonno di Pauline (Jimmy Laine [Abel Ferrara]), un uomo di fede emigrato dalla Polonia intento a leggere alle due figlie un passaggio della Bibbia. Dopo essersi ubriacato le due figlie lo portano sul letto, lo spogliano e si accoppiano con lui. Il tutto mentre l’uomo continua a dormire. Dopo un breve insert in cui viene nuovamente mostrata Gipsy mentre studia i tarocchi, segue un amplesso lesbico tra 18
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Pauline e Nacala (Joy Silver), interrotto da un flash-back (o flash-forward?), in cui Nacala viene inseguita da due neri lungo la strada di una metropoli: si rifugia in un palazzo, ma viene raggiunta e stuprata. La scena si interrompe bruscamente per lasciare spazio, nuovamente al rapporto lesbico tra le due donne. Mentre Gipsy continua a leggere i tarocchi, un’allucinazione, mostra nuovamente l’uomo e la donna protagonisti dell’amplesso all’inizio del film, mentre in montaggio alternato Gipsy mezza nuda cammina lungo i sentieri di un bosco. Gipsy si alza dal tavolo e si dirige verso il letto su cui giace una donna nuda addormentata e la sveglia: è Pauline. I titoli di coda scorrono alternati alle immagini di Pauline nuda distesa sulla superficie bianca.
Negare distinzioni tra vita reale e set cinematografico vuol dire portare il proprio discorso filmico e autoriale alle estreme conseguenze. Il cinema di Ferrara però va ancora oltre, immergendosi anima e corpo nei territori più oscuri dove il limite tra lecito e illecito, tra regola e trasgressione si fa sempre più sottile. L’esigenza ferrariana è quella di mettere in scena la vita reale senza compromessi. Il primo lungometraggio nasce quindi dall’impulso di andare oltre ciò che è lecito mostrare, di trasgredire e superare il divieto, di scegliere il peccato e di portarsene dietro la colpa, di percorrere una strada incerta e discontinua verso la redenzione. Nine lives of a wet pussy, è proprio questo, un’insieme di contraddizioni e “misteri”, un film pornografico in cui il regista costruisce la parodia di se stesso e, forse, del suo cinema a venire: compare come attore, con parrucca grigia in testa nella parte di un pastore polacco, fervente religioso, che vive con le sue due figlie in uno scarno appartamento di Mulberry Street a Little Italy. Secondo l’amico-pittore Douglas Metrov, però Abel Ferrara, anche condizionato dal periodo storico, non poteva fare altro film con i soldi a disposizione, una somma proveniente dalle tasche di Arthur Weisberg un vecchio produttore di film hardcore della zona di Detroit. Negli anni ‘70, nel porno esordiscono oltre ad Abel Ferrara anche William Lustig che, con lo pseudonimo di Billy Bagg firma Hot Honey (id. 1976) e The violation of Claudia (id. 1977); Silvester Stallone in Party at kitty stud (Italian stallion, 1970/73) di Lewis Morton, Madonna e anche Wes Craven che nel periodo 1972-‘73 oltre al famigerato Last house on the left (L’ultima casa a sinistra) gira la commedia porno It happened in Hollywood (id. 1973) firmandosi Peter Locke. È un periodo, questo, dove, prima della ritirata generale, l’hard-core rappresenta per alcuni autori e attori il trampolino di lancio verso il cinema 19
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“normale”. È quindi naturale che Ferrara frequenti questo territorio, ed è ancor più naturale se pensiamo che prima della sua prematura nemesi il cinema pornografico affronta in un pugno di opere di grande valore, temi ferrariani come il peccato e la colpa. È il caso, ad esempio, di Trough the looking glass (L’inferno di una donna, 1976) di Jonas Middleton: la protagonista Catherine Burgess è morbosamente attratta da uno specchio nascosto in soffitta che visualizza i propri desideri repressi portandola lentamente alla follia. Il viaggio visionario oltre lo specchio apre il sipario sulle proprie tendenze incestuose precipitandola in un inferno terribile dove si muove delirante mentre intorno a lei mostruose figure si accoppiano selvaggiamente. Gli attori recitano, la messa in scena è curata in modo quasi maniacale, le scenografie dell’inferno derivano dai quadri di Bosch e di Bacon, e la prima scena di penetrazione compare dopo 33 minuti di film. Altro esempio è For the love of pleasures (L’infernale paradiso di Karol, 1979) di Edwin Durrel: Jamie Gillis dopo essere stato ucciso a causa di un furto maldestro si ritrova in un luogo asettico e immacolato, dove sotto la guida di un’abile “padrona” (una splendida Annette Haven), ogni piacere sessuale è concesso. Il tempo trascorre tra lauti banchetti, orge ed amplessi di ogni tipo, ma quello che lui ritiene un paradiso si trasformerà ben presto in un inferno. Verrà portato all’esaurimento, coito dopo coito, fino all’emblematica scena finale dove dopo essere stato solo più spettatore impotente dell’ennesima orgia, si rivolge alla “padrona” supplicandola in ginocchio di lasciarlo andare, e si accorge così di trovarsi all’inferno ai piedi di una bellissima diavolessa. Il film oltre a ribaltare l’immagine del paradiso cattolico come luogo di piacere, sancisce crudelmente la definitiva sconfitta del maschio conquistatore. Sono esempi di cinema irripetibile di cui la poetica di Ferrara è ampiamente debitrice, capaci di mettere in scena lucidamente, problematicamente, ansie, paure e ossessioni umane, e di radicalizzare e sviscerare il senso del peccato originale. Questo perché la pornografia non è altro che la rappresentazione stessa del peccato primordiale. Se c’è un film, però, che anticipa a teorizza la poetica di Abel Ferrara, questo film è The Devil in Miss Jones (id. 1972) di Gerard Damiano. Di Damiano come per Ferrara non ci sono molte notizie sulla sua vita. Nato nel 1929 fino alla fine degli anni ’70 fa il parrucchiere nel Queens, dove possiede con la moglie due saloni di bellezza. Nel 1968 poi, grazie ad un suo dipendente che frequenta il mondo del cinema, Damiano accetta di fare da truccatore ed estetista per alcuni film indipendenti. Poco alla volta si appassiona e impara il mestiere. Nel 1970 gira Sex USA, 20
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un filmino in 8 mm sul nascente mondo del porno americano, firmandolo con lo pseudonimo di Jerry Gerard. Quindi fonda una sua etichetta indipendente: la “Gerard Damiano Film Production Inc.” di cui ne possiede la maggioranza, ma due terzi sono in mano alla famiglia mafiosa dei Peranio. Proprio da qui arriveranno i soldi per finanziare Deep Troath (Gola Profonda, 1972), e dall’incredibile successo del film avrà inizio la sua carriera come “autore” di film pornografici. E quelli che gira fino al 1985 (anno di Cravings) sono veri e propri film narrativi, in alcuni dei quali vengono affrontate tematiche sociali, psicologiche e religiose, senza mai rinunciare alla recitazione e trasportando l’erotismo al di fuori delle scene di sesso: Damiano sa costruire con abilità una struttura pornografica superando di gran lunga il semplice film-pretesto di esibizioni hard-core. Tutto nei suoi film rimanda continuamente all’erotismo e nulla è pura parentesi, momento di stacco e di attesa tra un amplesso e l’altro: nulla cioè viene lasciato al caso, nulla viene subito come un momento inevitabile, una necessaria soluzione di continuità tra situazioni di pura esibizione genitale.5
Damiano dunque è autore a tutto tondo, in un genere di solito dove la critica non ne riconosce, e uno degli esempi più alti di questa sua autorialità è sicuramente The Devil in Miss Jones. Il film è pervaso costantemente da una vena triste e malinconica, contrappuntato dalla lirica colonna sonora di Alden Shuman. L’effetto è disturbante, e il suicidio iniziale messo in scena con dolcezza e naturalezza disarmanti, lascia sbalorditi. La storia è quella di Justine Jones (Georgina Spelvin), che ha ormai superato la trentina senza mai sperimentare grandi passioni. Sola e disillusa decide di suicidarsi. Giunge all’inferno dove il diavolo, dopo aver constatato la sua vita irreprensibile macchiata però da quell’ultimo “incidente”, le concede incuriosito, un permesso speciale per tornare sulla terra per un breve periodo e consumarsi nella lussuria (autoerotismo, lesbismo, orge e zoofilia). Scaduti i termini pattuiti però, Justine si ritroverà in un inferno a dimensione umana in una cella spoglia e desolata, in compagnia di un uomo delirante e per nulla interessato a lei (interpretato dallo stesso Damiano), costretta a masturbarsi per l’eternità senza mai poter raggiungere l’orgasmo. Questo inferno cattolico e dantesco, dove vive la tremenda 5
Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Roma, 1987,
p.328
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pena del contrappasso è il luogo ideale di incontro tra Gerard Damiano e Abel Ferrara. Il senso di colpa cattolico causato dal peccato originale è atrocemente esplicitato in questo apologo sulle debolezze umane. Il cedere alle tentazioni della carne (descritto splendidamente nella scena in cui Justine mima una fellatio con un serpente), porta agli uomini solo la miseria della pena e la volontà di espiare i propri peccati attraverso la punizione. Nel cinema di Damiano, al contrario di quello di Ferrara, non c’è, e non può esserci redenzione, perché le sue narrazioni vengono portate al pubblico attraverso un genere, quello pornografico, che è esso stesso peccato e che si porta dietro il peso della colpa primordiale. Così come l’eroina di The Devil in Miss Jones, sprofondata in un delirio cupo e lussurioso, anche Abel Ferrara sembra volersi confrontare con il “lato oscuro” del cinema e interpretare la frase che campeggia sui manifesti per lanciare il film di Gerard Damiano: “If you have to go to Hell…go for a reason!”, visto il risultato del suo primo film, a metà strada tra l’allucinazione e la parodia. Mettere in scena l’atto sessuale vuol dire dunque fare, oltre che una scelta politica, anche una scelta religiosa. Questo perché nella pornografia, il bisogno fondamentale giusto, e il modo falso del suo appagamento e la promessa di felicità si mescolano. Lo spettatore ha l’illusione di essere più libero, meno ossessionato dalla colpa, tramite il veicolo offerto dall’attore-corpo sullo schermo. Ecco quindi che l’esperienza politica dei primi cortometraggi e l’esperienza religiosa del cinema che deve ancora venire trovano il loro punto di incontro nel primo film. Film, pornografico ovviamente, che Ferrara tiene gelosamente dentro di sé, perché rappresenta il momento più intimo e introspettivo del proprio percorso cinematografico. Al di là del silenzio imbarazzato del suo realizzatore, viene tuttavia spontaneo considerare Nine lives of a wet pussy come una specie di inferno premessa necessaria del purgatorio rappresentato dall’opera successiva. È solo dopo essersi sporcati le mani, dopo aver assunto su di sé il peso della carne e dello sfruttamento, che si possono affrontare con conoscenza di causa certi temi.6
Nine Lives of a wet pussy è un porno surreale che mette insieme una serie di episodi legati da un esile cornice narrativa. Lo sviluppo narrativo alterna sogni e realtà, memorie e fantasie, il tutto in un’atmosfera onirica e psichedelica. E se 6
Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, Il Castoro, Milano, 1998, p.21
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da un lato compare la religione, con l’episodio in cui il nonno di Pauline (lo stesso Ferrara) legge alle due figlie la storia di Lot sulla Bibbia, nell’episodio dello stupro, si può ravvisare la prima immersione nella disperazione e nella notte della città. Prodotto dalla Navaron Film, che prende il nome dal “Navarone Cafè” un coffee shop all’angolo tra la 17^strada e Union Square, Nine Lives of a wet pussy, viene girato nell’autunno del 1975 e distribuito limitatamente l’anno successivo. Ferrara lo firma con lo pseudonimo di Jimmy Boy L. (un omaggio a Mean Streets di Scorsese?), e compare anche come attore con lo pseudonimo di Jimmy Laine (che utilizzerà anche in The Driller Killer e in Ms’45). Il film viene girato con un cast composto da strippers reclutate presso la Mambo High, società che riforniva tutti i clubs di New York, e un gruppo di disoccupati, tra cui due insegnanti, amici di Francis Delia. Nei credits ci sono nascosti, sotto pseudonimo, anche altri abituali collaboratori di Abel Ferrara: Nicholas George (Nicodemo Oliverio aka Nicholas St. John) come sceneggiatore e comparsa (nella parte di Rizo lo chaffeur); Francis X. Wolfe (Francis Delia) come direttore della fotografia; il fratello Joseph Delia appare con il suo vero nome come autore della colonna sonora, mentre John Paul McIntyre (accreditato come J. Paul Jacquette) è il tecnico del suono. L’idea di girare Nine Lives of a wet pussy, matura a Nyack, nell’appartamento in cui Abel Ferrara convive con Nadia von Loewenstein, nel 1975. Durante un party di compleanno, tenutosi nel mese di Luglio dello steso anno, Joseph Delia viene invitato da Ferrara a formare una band musicale per incidere il brano White Women, il quale servirà come tema musicale per il film porno che si sta apprestando a girare. Il brano viene registrato nello studio 914 in Blauvelt NY a cinque miglia da Nyack e il gruppo musicale (che si ispira ai Rolling Stones e a Bob Dylan) è formato da Abel Ferrara, Nicodemo Oliverio, Jackie Mac, Queenie Wolf, Dougie Gervasi e dallo stesso Joseph Delia. Il titolo della canzone è lo steso del film, basato come si legge nei titoli di testa sul racconto “Les Femmes blanches” di Francois Dulea. In realtà, non esiste nessun libro con questo titolo e nemmeno nessun autore con questo nome: si tratta (come dichiara Douglas Metrov in un intervista)7 di uno scherzo nei confronti di Francis Delia. Il titolo del film, nello script originale, è appunto White Women, poi cambiato dallo stesso Ferrara nel programmatico Nothing Sacred, prima della scelta exploitation di Nine Lives of a wet pussy, imposta dal distributore che porta il film nei cinema della 42^ Strada nel febbra7 Brad
Stevens, Abel Ferrara: the moral vision, Fab Press, Londra, 2004, pag 25
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io del 1976, all’interno di un double-bill con The X-Rated cheerleader (id, 1973) di Paul Glickler. Tutta la prima parte del film è costruita sul doppio registro allucinatorio che vede in campo corpi (e non volti) prima, pensieri visualizzati poi: il tutto immerso in una atmosfera ambigua in cui sogno e realtà si confondono e in cui l’aspetto narrativo rimane confuso e irrisolto. A partire dalla scena che vede in campo la coppia borghese formata da Pauline e David, Nine Lives of a wet pussy, assume una consistenza diversa, diventando una sorta di prova generale di temi e stili che innerveranno il cinema ferrariano da lì in poi. Sia la costruzione filmica che il susseguirsi degli episodi, ma anche il contenuto testuale dei dialoghi (seppur confusi e talvolta incomprensibili), servono ad Abel Ferrara per tracciare le coordinate del suo cinema e al contempo per chiudere i conti con l’apprendistato dei primi cortometraggi. Seguendo lo svolgimento degli episodi, quello della villa, con la sua costruzione articolata, i rimandi figurativi al succitato film di Jonas Middleton, la fotografia autunnale e la messa in scena malinconica prima e irriverente poi (nel bagno della stazione di servizio), appare come il vero punto di partenza della carriera di regista di Ferrara. La scena, girata alla Maidman Mansion di Nyack, si sviluppa lungo il viaggio tra la casa e la pompa di benzina, mentre la voce-off di Pauline racconta a Gipsy: “Cara Gipsy sta cominciando a piovere, oggi come quando sono andata via di casa. Come al solito io e David non ci parliamo ma non è questo un grande problema per me. Egli non ha voluto dire né a me né a Rizo dove siamo diretti e io silenziosa guardo fuori dal finestrino. Quando lui non si fa di cocaina assieme a Rizo, o non si abbandona ad amplessi con la sua padrona e il suo ragazzo, si occupa di me. È l’unico uomo che ho avuto che può scopare e scopare senza stancarsi, anche fino a cento volte. Lui mi considera solo nel letto, per il resto la mia vita con lui è insopportabile”. Questa parte della sequenza vagamente malinconica e seriosa stride fortemente con la seconda parte, quella dell’amplesso tra Pauline e il benzinaio, ironica e beffarda, sottolineata dal brano funky White Women, e conclusa con l’abbandono dell’uomo prima dell’orgasmo. Anche la scena in cui Gipsy “presenta” Nacala, risulta ambigua e fuorviante, sia per l’interruzione dell’amplesso lesbico con l’incubo-racconto della stessa donna nera, sia per le parole pronunciate da Gipsy che evocano purezza e virginalità ancestrali. Gipsy racconta: “Pauline ha un amante, una principessa nigeriana venuta dal suo paese per celebrare la sua bellezza. La sua è magia nera e le tenebre diventano vita, perché lei è un fiore di mezzanotte. Pauline ha amato subito la sua purezza e la sua verginità. Ma le forze del male per lei avevano altri piani, cose vio24
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lente per Pauline e il suo amore sofferente. Gelosa e magica allo stesso tempo, Nacala è diventata una povera puttana nera”. L’ambiguità del testo, in cui si mescolano magia tribale e orrore metropolitano, restituisce in sintesi il punto di vista di Abel Ferrara, secondo cui anche l’oggetto più puro può essere corrotto e brutalizzato quando si addentra nella notte metropolitana. E così puntualmente avviene, come mostrato nell’incubo raccontato da Nacala in cui la donna corre spaventata per una strada semibuia di New York inseguita da due uomini neri si rifugia in un condominio fatiscente. Mentre corre su per le scale viene raggiunta; lei cerca di difendersi sfregiando uno dei due uomini con un collo di bottiglia rotto, ma viene stuprata sotto la minaccia di un coltello puntato alla nuca. Questo breve frammento filmico, contiene in sintesi dunque quella che diventerà l’ambientazione prediletta del cinema ferrariano: la notte della città è qualcosa di affascinante e misterioso, percorso dall’inquietudine della minaccia e immerso nel silenzio dell’indifferenza delle masse (come dimostra lo stupro che avviene sul pianerottolo di un palazzo abitato, senza che nessuno intervenga). Il film si conclude con altre due sequenze significative: quella del montaggio alternato tra l’amplesso eterosessuale e la passeggiata bucolica di Gipsy, e quella in cui Gipsy si confessa, sguardo in camera, prima di svelare il mistero. Nella prima, ancora una volta, le parole della sceneggiatura di Nicholas George (Nicodemo Oliverio), si schiudono in un breve monologo basato sul rapporto tra sesso e misticismo, cioè tra peccato e redenzione, recitato da una voce-off: “Inginocchiati. Guida il tuo corpo dentro di me, ti voglio sentire e...voglio sentire il sangue scorrere nelle vene. Voglio darti tutta me stessa e tu mi devi prendere, prendere, prendere...”. L’ultima scena, stretta sul primo piano del volto di Gipsy, mostrato dopo che lei ha bruciato le lettere di Pauline, si chiude con queste parole criptiche e immanenti: “Ho tentato di combattere il desiderio. Ho tentato di riconoscere la sua natura sinistra, ma nonostante lo sforzo sono stata costretta a soccombere ad esso. L’universo pretende pazienza. L’unione falsa non è un’unione. Non c’è altra realtà se non quella umana”. Parole che sembrano un’auto-confessione da parte del regista, il quale ha “dovuto” confrontarsi con il porno per battezzare il suo cinema nel peccato, prima di iniziare un lungo e inesausto cammino di ricerca della Grazia. L’episodio è però destinato a non rimanere isolato, visto che spesso nei suoi film l’immagine sessuale verrà mostrata senza né infingimenti né ipocrisie (anche se mai più in maniera esplicita), sfidando tanto la censura quanto il compiacimento. Nonostante tutto, alcune pagine della carriera di Abel Ferrara, rimangono tutt’ora oscure, come quel25
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la all’inizio degli anni ottanta in cui alla presunta inattività corrispondono una lunga serie di misteri, tra cui progetti abortiti sul nascere, scene hard-core girate sul set di Fear City (Paura su Manhattan, 1984), oltre al “film-fantasma” Cafè Flesh. In un’intervista rilasciata dallo stesso Ferrara a Giona A. Nazzaro durante il Festival di Venezia del 19988, ci sono alcuni riferimenti a questo film, diretto dal misterioso Rinse Dream/Stephen Sayadian. Cafè Flesh è un hard-core d’essai del 1983 a cui collabora come produttore e direttore della fotografia Francis Delia con lo pseudonimo di F. X. Pope. Il film racconta che dopo un’ipotetica terza guerra mondiale gli uomini siano divisi in sessualmente attivi e non attivi. Il 99% dell’umanità non è più in grado di avere rapporti sessuali. Quando tentano l’approccio, provano disgusto o diventano estremamente violenti. Così molti si ritrovano al Cafè Flesh dove l’1% dell’umanità rimasto sessualmente attivo si esibisce su un palcoscenico in coreografiche performance sessuali. Questa esperienza suscita nei frequentatori del locale un forte senso di colpa per la loro impotenza e porterà la coppia protagonista a mettere definitivamente in crisi il loro rapporto. Le tematiche affrontate, lo stile della messa in scena e le risposte rilasciate da Ferrara sul nome del regista e se abbia o meno partecipato al film, lo portano ad essere un ulteriore scheletro appeso nell’armadio del regista newyorkese. Di sicuro non vi sono certezze e lo stesso cineasta sembra divertirsi a voler lasciare il discorso in sospeso. Il nome del regista Rinse Dream è sicuramente uno pseudonimo, ma come risponde lo stesso Ferrara: “È sempre un nome…”.
9 Lives of a wet pussy – Recenesione Il primo film di Abel Ferrara, all’interno di una forma prettamente hard-core, denuncia sin da subito la forte esigenza di una cornice narrativa capace, qui come altrove, di coagulare i vari amplessi (etero e lesbo). Allo stesso tempo però, presenta tutta una serie di anomalie (se consustanziato al genere) che ne fanno opera personale e asimmetrica. Già il contesto produttivo e realizzativo, fatto di pseudonimi e mascheramenti tradisce, in modo extra-filmico, il tessuto amatoriale in cui il progetto prende forma e l’aspetto onirico-lisergico attraver8 Giona A. Nazzaro (a cura di), Conversazione con Abel Ferrara, in “Sentieri Selvaggi”, Anno 1, n.6, 1998, pp. 24-26
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so cui si sviluppa la pellicola. La dimensione del “sogno” infatti, alimentata dall’uso di sostanze psicotrope, è pienamente manifesta e trasforma, quello che ad una visione superficiale può apparire come un mero collage di rapporti sessuali, in un condensato della poetica ferrariana degli esordi, tra le cui pieghe è già possibile cogliere il germe di un cinema “scisso” (come sarà nel proseguo della sua carriera) tra anarchia e cattolicesimo, peccato e redenzione. Ma Nine lives of a wet pussy è anche, e soprattutto, una parodia del genere hard-core e al contempo un tentativo “artistico”, solo in parte riuscito, di astrazione della messa in scena. Contravvenendo alle regole base del “genere”, il film di Abel Ferrara presenta tutta una serie di atti incompiuti e di orgasmi mancati. Eccetto due occasioni (in apertura e chiusura di film) l’eiaculazione non viene mai mostrata e l’orgasmo continuamente rimandato e/o negato. Le inquadrature delle fellatio, sono strette in soffocanti close-up che portano la visione verso un punto di nonritorno in cui tanto le dimensioni quanto le forme non sono più distinguibili e lasciano il posto ad indistinte macchie di colore. Le inquadrature ravvicinatissime con cui sono ripresi gli amplessi, spesso vanno, volutamente, fuori fuoco alla ricerca di dimensioni “altre” definite attraverso una fotografia tenebrosa e allucinata, che privilegia l’oscurità per lasciare alla luce (artificiale) solo le immagini di una realtà artefatta (perché sognata, come dimostra la scena nel bagno della stazione di servizio). La colonna sonora serve da contrappunto narrativo, e attraverso i suoi mutamenti (mai casuali) da collante per i vari “quadretti” che si susseguono sullo schermo attraverso vari registri narrativi, volti a definire in modo “alterato” il percorso autobiografico degli esordi ferrariani. Se l’amplesso tra Pauline e il benzinaio assume sin da subito le caratteristiche di una parodia di “genere” attraverso un montaggio vorticoso e frenetico, volto a destrutturare e a negare la visione dei dettagli sessuali, l’episodio del nonno di Pauline, immigrato polacco rigorosamente cattolico, ambientato in un ipotetico 1903, anche attraverso il coinvolgimento diretto (come attore) di Abel Ferrara, denuncia sin da subito l’intento autobiografico (Ferrara ha due sorelle) e blasfemo, attraverso la rivisitazione incestuosa del brano della genesi precedentemente letto dal nonno. La struttura dell’episodio è modellata su un’estetica da film muto (con tanto di didascalie) ed è accompagnata da una musichetta ironica che nelle tonalità richiama l’epoca dei pionieri americani. La scena di violenza metropolitana, poi espunta dalla pubblicazione in home-video, appare invece come una primigenia e imprescindibile immersione nei bassifondi per sondare e raccontare il lato oscuro e minaccioso della notte metropolitana. Non a caso, oltre agli arditi e 27
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improbabili tagli di inquadratura utilizzati per mostrare lo stupro subito da Nacala, questi si susseguono fino all’improvvisa interruzione dell’azione violenta, la cui continuità interrotta la trasforma in una scheggia impazzita, destabilizzante all’interno del contesto, il cui innesto appare puramente mirato ad esplicitare l’istinto dell’autore. La scena, posizionata tra il prima e il dopo dell’amplesso lesbico tra Pauline e Nacala, è curata minuziosamente in ogni dettaglio (molto di più che il resto del film) e pertanto appare come il nucleo originario e mai sviluppato di un film incompiuto. Nell’economia della visione integrale di Nine lives of a wet pussy, infatti, l’utilizzo insistito tanto dell’ellissi quanto dell’analessi e della prolessi risultano utili esclusivamente a legare le visioni, i desideri e/o premonizioni di Gipsy, la quale solo nel finale estatico assume un ruolo definito e preciso. Il contrappunto visionario di Pauline nuda, distesa su una lastra illuminata di un bianco abbacinante (richiamo al titolo originario del film “Whithe Woman”, e all’omonimo tema musicale funky-rock, dominante) trova coerenza onirica nel pre-finale del film in cui il montaggio parallelo dell’amplesso tra Pauline e un uomo misterioso con la camminata di Gipsy seminuda nel bosco di Pomona, servono al regista per rappresentare visivamente, il suo conflitto interiore, giocato tra la necessità di peccare e la voglia di essere redento. La scena in questione, infatti, accompagnata dalle note distorte di una musica ancestrale diventa rappresentazione, per immagini dell’inferno (l’amplesso sessuale/peccato) e del paradiso (la camminata purificatrice/redenzione). Non a caso, prima di chiudere il film con un’immagine criptica, Abel Ferrara fa pronunciare a Gipsy, con lo sguardo rivolto in camera le parole:“There is no reality except human reality”, come a dire che l’uomo e la sua fragilità sono sospesi all’interno di uno spazio indefinito ma consapevoli: quello della scelta e del libero arbitrio.
Not guilty: for Keith Richards (1977) Nel 1977, prima di iniziare la lavorazione di The Driller Killer, Ferrara, in collaborazione con Babet Mondini-Vanloo, dirige un cortometraggio in sedici millimetri intitolato Not Guilty: for Keith Richards (1977), per sostenere il diritto di Keith Richards di abusare del proprio corpo. L’episodio in 28
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questione è quello del 12 Febbraio 1967, quando durante un party alle Redlands, la polizia compie una retata in cui confisca eroina e anfetamina e in cui a Richards viene notificato l’arresto in quanto padrone di casa. Il processo si tiene tra il 27 e il 29 Giugno dello stesso anno ed assume ben presto i connotati di una battaglia sulla morale. Keith Richards viene condannato ad un anno di carcere, ma la sentenza viene revocata in appello grazie anche all’intervento di personalità del calibro di Allen Ginsberg. Quello di Ferrara è un film sperimentale supportato dalle musiche dei Rolling Stones in cui si sostiene che Richards non aveva certo bisogno di trafficare in droga per arricchirsi, e se non fosse stato una rock star non sarebbe di certo stato arrestato. Il lavoro, della durata di cinque minuti è interpretato dallo stesso regista nella parte di Keith Richards, mentre la co-protagonista è Susan Andrews (figlia dell’attrice Dana Andrews), conosciuta da Abel Ferrara nel 1974. la donna interpreta la parte del giudice che dichiara Richards: “Not guilty”. Il film è frutto di improvvisazione senza neanche una sceneggiatura con l’unico intento di essere, come dichiara Ferrara: “Un esperimento di film di denuncia con una grande colonna sonora”.9 Del film esistevano due copie entrambe andate perdute, così almeno ricorda Francis Delia.10
The driller killer (1979) Un giovane uomo, entra in una chiesa, si avvicina ad un uomo vecchio e barbuto intento a pregare. Quando questo gli prende la mano chiamandolo “figlio”, il giovane fugge disgustato. Reno Miller (Jimmy Laine [Abel Ferrara]), seduto in taxi, commenta l’episodio con la sua fidanzata, Carol (Carolyne Marz). Reno appare preoccupato, perché l’uomo aveva in tasca il suo indirizzo, ma è altrettanto disgustato dal peniero che quel vecchio possa essere suo padre. Reno, ferma il taxi davanti ad un locale, Carol scende dalla macchina, entra nel locale in cui stanno suonando i Roosters, un complesso punk-rock, per incontrare Pamela (Baybi Day). Reno è un pittore che condivide il suo appartamento con Carol e Pamela, le quali a loro volta hanno una relazione lesbica tra di loro. Le due donne, per l’uo9 Dal
pressbook del DVD The Driller killer, Cult Epics, U.S.A., 2004
10 Ibidem
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mo, rappresentano un problema, soprattutto economico visto che è a causa loro che arrivano spropositate bollette del telefono. Indispettito dal fatto, Reno scaraventa il telefono fuori dalla finestra. Non ci sono soldi, ma spera di guadagnarne tanti con il grande quadro del bisonte che sta ultimando. Si rivolge a Dalton Briggs (Harry Schultz), per avere un anticipo, ma questi dopo averlo canzonato per le richieste precedenti, non glielo concede. Dopo aver assistito dall’alto ad un omicidio in Union Square, Reno litiga con Carol a causa dei soldi e gli rimprovera la sua incompetenza in campo pittorico, prima di stracciare una banconota davanti ai suoi occhi. Mentre Reno è in strada a ritrarre i barboni, nell’appartamento sotto di lui si trasferiscono i Roosters di Tony Coca-Cola (Rhodney Montreal [Douglas Anthony Metrov]), i quali iniziano a provare giorno e notte disturbando pesantemente Reno e la sua concentrazione. Alla sera Reno guarda la televisione con Carol e Pamela ed è colpito dalla pubblicità di un alimentatore portatile. Scesa la notte, scende in strada e va a svegliare un barbone (Butch Morris), poi rientra in casa e si addormenta sulla scrivania mentre Carol e Pamela fanno la doccia assieme. Il mattino seguente dopo essersi lamentato con il proprietario per il rumore, questi prima di congedarlo gli regala un coniglio scuoiato, e Reno esce in strada e compra l’alimentatore portatile. Alla sera, disseziona il coniglio e ha visioni terrificanti; subito dopo scende in strada e uccide un barbone perforandone il cuore con un trapano. La sera successiva Reno, Carol e Pamela vanno ad un concerto dei Roosters, ma ad un certo punto Reno fugge disperato e comincia a fare strage di barboni a colpi di trapano. Tony Coca-Cola ha una relazione sessuale con Pamela, e chiede a Reno di fargli un ritratto. Mentre il pittore sta terminando il quadro, si interrompe, scende sotto casa e uccide un barbone simulando una crocifissione. Rientrato, sveglia Carol e gli confida di aver finito il quadro. Il mattino seguente, Dalton Briggs esamina il bisonte, ma ne è disgustato e aggredisce Reno dicendogli che è diventato solo più un tecnico. Carol inveisce contro il gallerista e abbandona Reno per tornare a casa sua. Reno la notte chiama Briggs per un appuntamento solleticando i suoi gusti sessuali, e quando il gallerista entra in casa sua lo uccide con un colpo di trapano. Carol, a casa del marito Stephen (Richard Howorth), dopo essersi fatta una doccia, si reca in camera da letto, spegne la luce e si corica, ignara che l’uomo di fianco a lei è Reno che precedentemente ha ucciso Stephen.
Abel Ferrara dedica il suo primo film “ufficiale” alla sua città, attraverso la scritta che chiude i titoli di coda, di The Driller Killer, Dedicated to the people of New York: “The city of Hope”, una dedica rivolta alla gente e non (ovviamente) alle istituzioni, inserita nel contesto sociale che attraversa la 30
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Grande Mela nel 1979, anno di uscita del film. Forse, però, quelli rappresentati nel secondo lungometraggio del regista, non sono luoghi reali, bensì percorsi delimitati che vivono nel cervello del protagonista. Se partiamo da questo presupposto, cioè quello di considerare The Driller Killer come un film-cervello, non possiamo non apparentarlo con Maniac (id. 1980) di William Lustig. I due film sono complementari e presentano più di un punto in comune. La loro analisi comparata ci regala un quadro sconcertante della cultura e della società newyorkese all’apice di una grave crisi economica e alle prese con una violenza urbana reiterata e recrudescente. I due registi appaiono dicotomi nell’approccio alla settima arte, e se Ferrara è ormai riconosciuto come autore, Lustig è certamente qualcosa di più di un ottimo artigiano, seppur ad ispirazione limitata. Entrambi scelgono di arrivare al pubblico attraverso un cinema di genere che maschera registri più ambiziosi, William Lustig, con il suo cinema “povero e sporco”, è il cantore di un americanismo sordido e degenerato, raccontato al meglio nel suo dittico di esordio nel cinema “ufficiale”, soprattutto con Maniac, ma a sprazzi, anche con il successivo Vigilante (id. 1982). Lo fa con uno stile personale e riconoscibile che non rinuncia a niente e che trasforma la cinepresa in un arma da combattimento, trasformando lo specifico filmico in un vero e proprio campo di battaglia. Il suo è un cinema cattivo, violento e sanguinario che porta con se uno sguardo inflessibile e cinico su una New York che si auto-distrugge sempre più preda dei suoi vizi, del suo degrado, e di una povertà dilagante, al punto da divenire una città impersonale e apatica, cuore morente delle illusioni del decennio appena trascorso. Percorso cinematografico questo, perseguito anche da Ferrara nei primi anni della sua carriera e che prende forma concreta nella simbiosi cinematografica delle due opere prese in esame: The Driller killer, girato da Abel Ferrara tra il giugno del 1977 e il maggio del 1978 e Maniac le cui riprese avventurose, senza regole e senza permessi (la sequenza sotto il Verrazzano Bridge viene girata girata in poco più di un’ora e la troupe scappa mentre giungono le volanti), vengono effettuate tra il 21 Ottobre 1979 e il 18 Gennaio 1980. Il film di Ferrara, costato poco più di $70.000 esce nelle sale il 15 giugno 1979, mentre quello di Lustig, con un budget meno consistente ($48.000), esce il 26 Dicembre 1980. Dalla visione consequenziale dei due film emerge l’istantanea della New York di fine anni’70, divisa tra il Queens e Manhattan di Maniac e il Lower East-side di Ferrara. William “Bill” Lustig, nasce nel Bronx a New York City il 1° febbraio 1955 e lì vive con la sua famiglia fino all’età di sette anni. Nel 1962 si trasferisce nella 31
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cittadina di Englewood Cliffs, nello stato del New Jersey. I suoi primi contatti con il cinema li ha verso i sedici anni quando divide il suo tempo tra i doublebill dei cinema della 42a strada, e la sala montaggio del produttore e amico di famiglia Peter Savage. A diciotto anni lascia senza terminarla, la High School e comincia a lavorare come assistente al montaggio di Lorenzo “Larry” Marinelli, curatore dell’editing dei film sexy a basso costo del produttore Peter Savage. Questa esperienza risulta fondamentale e gli apre le porte della New York Univeristy Film School: “Il professor Haig Manoogian della mitica N.Y.U. Film School, mi ammise nella sua classe, malgrado mi mancasse il diploma delle superiori quando gli dimostrai la mia abilità nel caricare i film alla moviola…tenendo gli occhi chiusi”.11
Nel 1972 dopo l’incredibile successo di Deep Throat, Peter Savage rivolge le sue attenzioni sul genere hard-core e Lustig lo segue come assistente di produzione e nel 1976, attraverso la N.Y.U., raccoglie $15.000 per produrre e dirigere il suo primo film. I suoi esordi dietro la macchina da presa avvengono quindi nell’affollato sottobosco delle “luci rosse”. Sceltosi lo pesudonimo di Billy Bagg, Lustig esordisce nella doppia veste di regista e produttore nel 1977 con Hot Honey, un classico hard dell’epoca. Sempre nel 1977 gira The Violation of Claudia: storia di una ricca moglie trascurata avviata alla prostituzione dal suo istruttore di tennis. Dopo una serie di bizzarri rapporti sessuali scopriamo, alla fine del film, che il tutto è stato organizzato dal marito che vive una relazione omosessuale con l’istruttore di tennis. Questo lungometraggio è il primo passo verso le implicazioni di disagio, di malessere e di critica alla società americana, che racconterà con esiti alterni nella sua breve ma significativa filmografia. L’esordio nel cinema “ufficiale” avviene nel 1980 con il film al quale legherà per sempre il suo nome: Maniac. Lustig descrive questo film come “lo squalo versione terraferma”. Nel 1982 gira un B-movie dal budget sottozero con un cast di vecchie glorie (Fred Williamson, Woody Strode e Robert Forster): dal titolo Vigilante (id. 1982) derivativo de Il giustiziere della notte e dei suoi epigoni. Nonostante gli esigui mezzi il regista del Bronx gira con cura e senso dell’inquadratura e ci regala uno spaccato metropolitano da 11 Da intervista di Jennifer M. Wood, Qualche minuto con William Lustig, in Moviemaker, cit. internet, traduzione nostra
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incubo di grande ritmo e senza pretese intellettualistiche. In mezzo ad altre opere dimenticabili, nella sua filmografia risaltano altri due film: Maniac Cop (id. 1988), che avrà anche due seguiti meno riusciti (sempre diretti da Lustig) e Uncle Sam (id. 1996). Questi due film portano il nostro ad essere uno dei pochi registi a potersi “vantare” di aver saputo stravolgere e trasfigurare due gloriose e intoccabili istituzioni americane: la polizia di New York e l’Esercito degli Stati Uniti. I suoi personaggi, eccentrici e bizzarri, annoverano artisti-psicopatici, poliziotti-maniaci e soldati-zombi, cioè la degenerazione di ruoli e istituzioni che dovrebbero proteggere e salvaguardare la vita dei cittadini, ma che invece a causa della corruzione e dell’amoralità dilagante, ne diventano i principali carnefici. Attualmente William Lustig è il proprietario dell’etichetta: Anchor Bay Enterteinement e si occupa del restauro e della distribuzione in DVD del cinema “dimenticato”. Molteplici sono gli elementi in comune tra Abel Ferrara e William Lustig. A partire dalle notazioni anagrafiche e biografiche, passando per quelle riguardanti gli esordi hard-core, per finire alle analogie tematiche. Accomunati da un’estetica cinematografica sporca, sono i due cantori dell’anima nera dell’America e della sua città simbolo: New York. L’anello di congiunzione è rappresentato per entrambi dal film d’esordio; films che sono la rappresentazione di quello che diceva D.H. Lawrence: “La vera anima americana è dura, isolata, stoica e assassina”.12 Entrambi raccontano le vicende di un serial-killer che si muove in una metropoli oscura, senza sole e senza speranza, percorsa dallo squallore e dalla violenza. I protagonisti (Reno Miller per il film di Ferrara e Frank Zito per quello di Lustig), si muovono confusamente come anime in pena tra disagi interiori e una società a cui non provano neanche ad appartenere. Sono entrambi intrappolati nel proprio delirio e tutto sembra il frutto di un destino segnato da un malessere che nasce da un passato reale e metaforico allo stesso tempo, quello di una nazione, cresciuta e vissuta con la violenza. L’America per Ferrara è quella delle assurde notizie che Carol legge sui quotidiani e che scandiscono il suo film, mentre per Lustig è quella della violenza ininterrotta raccontata dai telegiornali. Un male delle origini dunque, e mai conciliato, rappresentato in The Driller Killer dalla presenza di molti elementi in riferimento al vecchio West, e in Maniac dalla violenza 12 Gaime Alonge, Abel Ferrara, in Leonardo Gandini e Roy Menarini (a cura di), Hollywood 2000, Panorama del cinema americano contemporaneo: gli autori, Le Mani, Recco (GE), 2001, cit., p.145
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e dalla crudezza degli omicidi: veri e propri assalti colmi di rabbia repressa. Entrambe i film sono debitori del riflusso a distanza della violenza e dell’orrore della guerra del Vietnam. Oltre al quadro del bisonte su cui sta lavorando, Reno Miller ha nel nome stesso echi dell’epopea dei pionieri, veste l’alimentatore portatile come se fosse un cinturone, assume posizioni da cow-boy prima di trapanare i barboni e la sua prima vittima si dimena sotto di lui come un cavallo in un rodeo. Frank Zito invece, dopo aver ucciso le proprie vittime, prende loro lo scalpo, e quello che per gli indiani era il trofeo di guerra, per lui diventa lo strumento per far rivivere gli sconci manichini femminili che giacciono nel suo appartamento. Entrambi i killer sono ossessionati dai genitori: Reno da un “padre” da cui fugge terrorizzato: così lo vediamo nella prima scena in Chiesa; Frank da una madre prostituta che spesso lo chiudeva in casa da solo mentre lei si intratteneva coi suoi clienti. Entrambi gli assassini sono partoriti dalla città di New York, fatta di luoghi reali e di confini celebrali elaborati dalla mente dei protagonisti e non a caso infatti, vicino ad una delle ultime vittime di Reno campeggia in maniera ironica la scritta: “New York Wins”. Reno Miller si muove in luoghi claustrofobici (le stanze del loft che condivide con le due donne) e uccide i barboni in percorsi circoscritti, attorno a Union Square: oscuri e maleodoranti durante la notte; attraversati dalla violenza e del degrado durante il giorno. Frank Zito invece, è incarnazione della città. Lo si vede sbucare dagli interni oscuri dei palazzi o materializzarsi dalla nebbia sotto il ponte di Brooklyn, quasi come se fosse una creatura partorita dagli stessi edifici. Si muove in una metropoli senza sole, livida e fredda, prima di rintanarsi nella sua casa-prigione. Esemplari a questo proposito i fluidi carrelli di Lustig sulla rete che delimita l’acceso al suo appartamento. Se Reno uccide gli ultimi, i barboni, forse per paura di diventare come loro, Frank uccide le peccatrici: prostitute, adultere e modelle, per paura di cedere alla loro seduzione. Tra i due film, tra l’altro c’è un curioso legame: la fonte ispiratrice per Joe Spinell (vero ideatore del progetto Maniac), da cui nasce l’idea del film di Lustig è un oscuro porno-thriller del 1973, Hollywood 90028, conosciuto anche come The Hollywood hillside strangler diretto dalla regista Christine Hornisher, film che compare in una scena del film di Ferrara, per alcuni fotogrammi sul televisore che Carol e Pamela stanno guardando dopo il litigio con Reno. Se il movente degli omicidi di Reno Miller è la mancanza di denaro, o meglio la sua ossessiva necessità, come si evince dal monologo rabbioso rivolto a Carol in cui il pittore, dopo che la donna gli intima di vendere il quadro che è finito, afferma: “E 34
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dei soldi me ne frego!, Tu e tutte le donne sapete parlare solo di soldi! Quel finocchio di Briggs, parla solo di soldi. Non voglio più sentire quella parola, mi fa diventare matto”, il film di Lustig non è da meno. La prostituta, nella seconda scena di Maniac, si lamenta per la mancanza di soldi, Anna D’antoni spera di vendere tutte le fotografie per guadagnare soldi, e lo stesso Frank che prima chiede alla prostituta di trascorrere con lui tutta la notte perché: “Ho i soldi, ne ho tanti”, poi, lungo il delirante monologo durante l’omicidio di Rita dice, rivolto alla madre:“perché avevi bisogno di tutti quegli uomini?...per un po’ di denaro?.”. Allo stesso modo Lustig replica l’ossessione come forma di conduzione alla follia, e se in The Driller Killer, questa è rappresenta dal denaro, in Maniac è la donna ad essere al centro del tormento psicotico di Frank Zito, il quale così si rivolge ad uno dei manichini posti nel suo monolocale: “Tu hai ragione riguardo a loro, sono tutte uguali. Io lo so come sono, anche se non posso fare le cose che fanno, non vuol dire che non capisca...sono tutte uguali. Simpatiche illusioni, con i loro capelli, i loro sguardi...mi fanno diventare matto”.Allo stesso modo, nei due film è trattato il tema del possesso secondo coordinate psicanalitiche: in The Driller killer mediante un raffinato e criptico sviluppo del complesso di Edipo e una violenta e ambigua rappresentazione del desiderio sessuale del maschio; in Maniac attraverso un greve, ma intelligente, discorso sul possesso della carne come strumento per sfuggire alla follia ossessiva e patologica, come dimostra il dialogo tra Anna e Frank, in cui si mescolano i temi dell’arte, della psicanalisi, e della malattia (così come accade in quello tra Carol e Reno durante il litigio): Anna: “Questa è la mia quarta collezione e l’ho intitolata “Donna 4”, non un granchè, ma...” Frank: “Beh! forse il titolo non ha molta importanza. Di quelle foto, che ne fai? Le conservi?” Anna: “No!, spero di venderle tutte” Frank:“ Non lo farei, io le terrei per sempre” Anna: “E perché? La mia professione mi piace molto, ma non faccio tutto a beneficio dell’arte. Ho bisogni di guadagnare...mi sembra logico” Frank: “perché hai scattato tutte quelle foto nella stessa maniera?” Anna: “È il modo per farle apparire più belle” Frank: “Non credo che esistano dei modi particolari, quando la bellezza è già nel modello” 35
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Anna: “Ma questo cosa significa? (scocciata) E poi, sono io la fotografa..saprò quel che faccio...” Frank: “Hai ragione...Ma vedi, le cose cambiano, la gente muore...ma una foto...rimane tua per sempre” Anna: “Non si può conservare qualcuno per sempre, neanche con una fotografia...In nessun modo” Il dialogo, incentrato sul possesso patologico come forma di auto-determinazione, si conclude con l’affermazione falsa di Frank, che dichiara di essere un pittore di nature morte, paesaggi (non persone, ovviamente): il possesso per Frank, è una “forma d’arte”, espressa attraverso l’acquisto di manichini, la successiva vestizione e l’applicazione dello scalpo delle vittime, e ciclicamente passa mediante l’uccisione di uomini e donne, così come per Reno, è espresso attraverso la mercificazione dell’arte arte prima (nel dialogo con Pamela dichiara che dopo aver venduto il bisonte acquisteranno molti vestiti, barche e motociclette), e dopo il suo fallimento, mediante l’omicidio violento e brutale dei derelitti. Diverso è il modo di riprendere gli omicidi da parte dei due registi. Se Abel Ferrara dedica solo una parte del film alle scorribande assassine di Reno, William Lustig fa degli omicidi di Frank la spina dorsale del film stesso. In The Driller Killer le morti a volte sono riprese in campi lunghi tremolanti o in maniera fulminea e sfuggente, senza nessuna concessione né al gore, né all’estetica della violenza, ma in altri casi come quello del primo barbone, quello alla fermata dell’autobus e quello in cui il trapano perfora il cranio di un clochard, sono riprese in dettaglio o in primo piano, con grande spargimento di sangue (sembra quasi che Ferrara voglia filmare un atto di performance-art). In Maniac invece la morte è lenta, esasperata e sofferta. Le gole vengono tagliate, le teste esplodono a colpi di doppietta e i corpi vengono squarciati. Il sangue fuoriesce da ogni inquadratura e sporca l’inquadratura (come nella soggettiva dello scalpo di Rita); tutto è messo in scena, volutamente, con cinico autocompiacimento e con un’estetica da grand guignol, a sottolineare dettagliatamente e a lungo le modalità di ogni omicidio, per conferire all’apologo uno stile amatoriale e documentaristico al fine di shockare lo spettatore incuneandolo nella patologia del protagonista, come dimostrano il grande utilizzo della macchina a mano e della soggettiva (esemplare a questo proposito l’omicidio nei bagni della metropolitana: ottanta inquadrature di pura suspance e di perfezione registica). Entrambe i film costituiscono dunque una sorta di documen36
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tario metropolitano, in cui violenza, sesso e patologia si integrano alla perfezione per tradurre per immagini l’orrore “vero e reale” vissuto quotidianamente dai cittadini newyorkesi. Non è casuale infatti che entrambi i film rimandino alla figura di “Son of Sam”, il serial Killer che a colpi di 44 Magnum spaventa la popolazione newyorkese uccidendo le persone ferme in auto nella torrida estate del ‘77. David Berkowitz, terrorizza il Bronx uccidendo in due mesi sei persone e ferendone altre sette, e a lui rimanda l’omicidio della coppia sotto il ponte di Manhattan in Maniac, così come in The Driller killer, il suo soprannome è citato in un ritaglio di giornale che compare nell’incubo di Reno. I due film, parlano di degrado e malattia, affondano nel malessere della società e della metropoli, e non cercano di dare risposte, ma fotografano il pessimismo latente dell’epoca come dimostra in entrambe i casi la scelta di chiudere il film attraverso un allucinazione di morte: i manichini-zombie (cioè le sue vittime) che sventrano Frank Zito e l’omicidio, a sfondo sessuale, di Dalton Briggs da parte di Reno Miller. Ancora una volta, però, curiosamente e in contemporanea, sulla West Coast, esce un film del cult-director Ray Dennis Steckler (che si firma Wolfgang Schmidt) che (incredibilmente) unisce, in uno solo, il film di Ferrara e quello di Lustig. La trama di The hollywood stranglers meets the skidrow slasher (id., 1979), racconta infatti di un fotografo (Pierre Agostino) che strangola e uccide giovani modelle, mentre nel frattempo una libraia di Los Angeles (Carolyn Brandt), in preda alla follia, a causa dei pochi incassi, comincia ad uccidere barboni e derelitti a colpi di pugnale. Il finale bizzarro prevede l’incontro tra i due. Le locations del film di Abel Ferrara sono oltremodo significative e rappresentative del radicamento del suo film nella storia fondativa americana e di quella “violenta e sanguinaria” della città di New York (come detto in precedenza), e fotografano la new wave artistico-intellettuale dell’epoca. Alla fine degli anni’70, infatti, il Lower East Side, si popola di artisti, performers e letterati diventando in breve tempo la parte più vitale della Grande Mela. Il quartiere, storicamente, rappresenta il luogo di coagulo di varie etnie, ognuna capace di imprimere nel tessuto urbano il suo segno distintivo e di organizzarsi in micro-comunità. Così è anche per gli Italiani, i quali si stabiliscono nel quartiere raggruppandosi per provenienza: napoletani, siciliani, calabresi.... Inoltre, va ricordato che l’arteria di Mulberry Street, luogo di formazione di Abel Ferrara, nel XIX secolo conduceva ai “Five Points”, cioè al luogo di 37
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nascita e origine della città di New York. Luogo anche “simbolico”, sito nel Sesto Distretto, cioè in quella che era (e in parte è ancora) la zona più disastrata della città. Non a caso dopo il decennio di tagli alla spesa pubblica operato dal comune di New York, che mandano la città sull’orlo del fallimento al termine degli anni’70, i “ricchi” abitanti del Queens, allontanano il numero sempre più crescente di homeless, ghettizzandoli nel Lower East Side. Union Square, spazio attorno a cui si sviluppa, quasi interamente, l’azione di The Driller killer, e in cui avviene l’omicidio a sangue freddo e in pieno giorno, osservato dall’alto da Reno Miller, prende il nome dall’incrocio tra le due principali arterie dell’isola e vede posta al suo centro la grande statua equestre di George Washington. Tutti temi, quello della povertà, del disagio sociale e della vitalità artistica che emergono nel film di Ferrara, come nel caso del richiamo, rivolto a Carol da Al, il proprietario dell’appartamento, in merito al ritardo nel pagamento dell’affitto: “Chiameranno la polizia e vi faranno sgombrare. Butteranno tutta la vostra roba in strada...e dovrete fare attenzione che la gente non se la porti via”. Il film, in parte è girato nel 1977 e, quindi, risulta intriso degli eventi drammatici di quell’anno: durante l’estate, ricordata da tutti gli americani come: “the summer of Sam”, agisce David berkowitz, la violenza esplode tra i fan del “punk” e quelli della “disco-music”, e il blackout generale del 13 e 14 Luglio provoca razzie e violenze, con oltre 1.600 negozi saccheggiati, migliaia di incendi e 3.700 persone arrestate per atti di ladrocinio, vandalismo e teppismo di varia natura. In quell’estate, un gruppo di amici passa le sue giornate in un loft newyorkese vicino al fiume Hudson: Abel Ferrara, Francis Delia, Nicodemo Oliverio e Douglas Anthony Metrov. Quest’ultimo è un pittore underground, che smette di dipingere all’inizio della new wawe di Schnabel e Basquiat, per diventare sceneggiatore senza successo (l’unico script che riesce a vendere a Mel Brooks è quello del futuro Solarbabies (I guerrieri del sole, 1986) diretto da Alan Jonhson, e risoltosi in un disastro produttivo e in un flop universale). Nel 1977 Metrov vive nell’attico sull’Hudson assieme a due ragazze (come Reno nel film), e The Driller killer nasce come documentario sul pittore stesso. I quadri nel film sono i suoi, mentre Ferrara interpreta la parte del protagonista a causa delle riprese prolungate (a volte solo nei week-end), per cui, a detta del regista, non ci si poteva permettere di pagare un attore professionista. Douglas Anthony Metrov nel film è Tony Coca Cola ed è accreditato con lo psuedonimo di Rodney Montreal. Lo stesso Metro racconta: 38
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“Abel, Francis, Nicky Oliverio ed io abitavamo in un appartamento sulla 17a strada in Lower Manhattan. Il posto non era molto illuminato e d’estate faceva un caldo opprimente. Non avevamo l’aria condizionata così nelle serate estive ci appoggiavamo fuori dalle finestre del quarto piano a bere birra e a rinfrescarci con l’aria proveniente dall’Hudson”.
All’epoca Ferrara e Nicodemo Oliverio avevano in mente, anche, di realizzare un documentario sugli alcolizzati di New York: “Smontammo il sedile posteriore di una vecchia auto. Sul fondo sistemammo il treppiede per la cinepresa e noi ci nascondemmo sotto delle coperte. Si vedeva solo l’autista (Francis Delia) che ci portava in giro mentre io e Abel filmavamo”13
Dal girato originale del documentario provengono gli inserti in hidden camera con le immagini dei barboni riprese tra Union Square e la 17ªstrada. Come sempre in Ferrara la realtà genera la finzione, e anche in questo caso la vita dei quattro amici si svolge in un contesto borderline, dove mescolando le azioni di un “vero” serial killer, l’attenta osservazione di ciò che li circonda e un racconto casuale buttato lì quasi per scherzo, può nascere l’idea per dare vita a un film. “C’era un negozio di liquori nella strada sottostante, dove patetici alcolizzati si rifornivano e bevevano seduti sul marciapiede e una volta completamente ubriachi strisciavano su e giù per la 17a strada. Poiché oltre a dipingere anche io ho un’immaginazione malata cominciai a raccontare delle storie ad Abel e agli altri…Se un vigilante, uscisse la notte e portasse questi poveracci fuori dalla miseria? Ecco l’idea di The Driller killer. In origine doveva compiere il suo lavoro con un martello e dieci chiodi, ma poi questo personaggio, nelle mie storie, subì un’evoluzione e divenne un killer armato di trapano elettrico. Dopo poche settimane che Abel aveva sentito queste storie assurde, cominciò a parlare dell’ipotesi di farne un film. Io non credevo volesse farlo veramente; mi sembrava una fesseria. Era uno scherzo gli dissi, uno scherzo malato! Lo supplicai di non fare il film, ma più insistevo, più lui era determinato a farlo. Un giorno sparì e trascorse i successivi quattro mesi a cercare i soldi necessari e alla fine fece il film”.14 13 James Lemmo, e-mail all’autore 10 maggio 2003 in Brad Stevens, Abel Ferrara: the moral vision, Fab press, Londra,2004,p.44. Traduzione nostra 14 Ibidem
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Il film viene girato in due tronconi. La prima parte, quella della fine del 1977, è ambientata nei locali della scena punk-rock di New York, tra cui il Max’s Kansas City che si vede nelle prime inquadrature del film durante la fuga dalla chiesa di Reno e Carol, è ha come direttore della fotografia James Lemmo (accreditato nel film come Jimmy Spears). Poi, una volta finiti i soldi, The Driller killer resta fermo sei mesi, fino a quando nella tarda primavera del 1978 il film viene acquistato dal produttore Arthur Weisberg, che finanzia la parte mancante: all’epoca Lemmo è impegnato sul set di The Wanderers (I nuovi guerrieri, 1979) di Philip Kaufman e a lui subentra Ken Kelsch. La sceneggiatura è di Nicodemo Oliverio (che qui si firma N.G. ST. John), mentre Abel Ferrara interpreta Reno Miller e partecipa all’editing assieme a Orlando Gallini, e Bonnie e Michael Constant. In entrambi i casi si firma con l’abituale pseudonimo di Jimmy Laine, una sorta di omaggio a Frankie Laine (il cui vero nome è Francesco Paolo LoVecchio), un grande cantante italoamericano (oltre venti dischi d’oro in carriera) che nel 1964 ha anche partecipato al Festival di San Remo cantando in coppia con Domenico Modugno e Bobby Solo. Pamela è interpretata da Baybi Day, una spogliarellista di locali notturni, morta di overdose alcuni anni dopo, mentre il barbone che Reno sveglia di notte per salvarlo, è interpretato dal jazzista Butch Morris, famoso negli anni ‘70 per il suo metodo di “improvvisazione strutturata” e sperimentatore musicale di prima grandezza. Le musiche sono curate da Joseph Delia con rivisitazioni elettroniche di musiche di Bach, mentre l’arrangiamento della versione dei Roosters di “Grand Street Stomp”, è curata da Douglas A. Metrov. Dopo circa due anni di attesa, il film, prodotto dalla Navaron Film, viene ultimato ed esce il 15 giugno del 1979 in una ventina di sale, anche fuori New York “Cercavamo solo di esprimere la frustrazione per la mancanza di soldi. È la bruttezza del posto dove vivo. Non è solo New York, è così dappertutto. Molte cose del film sono vere, ma sapevamo che due isolati più in là stava succedendo qualcosa di peggio. Quando lo abbiamo ultimato è stato inizialmente programmato in circa venti sale, in posti tipo Seattle e Portland. Voglio riportare ciò che vedo, ricorrendo alla mia immaginazione. Vivo nel centro di Manhattan e lì ogni giorno qualcuno viene ammazzato. Voglio quindi che nei miei film queste scene siano credibili. I conflitti interiori tra le persone emergono in questi episodi di 40
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violenza. Non so cosa spinga a reagire così, a fare del male al prossimo. Ma so che questo qualcosa esiste, è lì fuori e c’è anche in me”.15
Quando gira The Driller Killer, Ferrara ha ventotto anni e voglia di sperimentare, così costruisce questo film mischiando la paranoia cittadina di Taxi Driver (id. 1976) di Martin Scorsese, il malessere esistenziale di Repulsion (id. 1965) di Roman Polanski e il degrado fisico e urbano di Trash (id. 1970) di Paul Morrisey, caricandosi sulle spalle il peso del disagio di una generazione di artisti e non: Reno e il suo trapano sono il portavoce, paradossale e discutibile, di tutti gli emarginati americani. Gli omicidi a colpi di trapano, la cui messa in scena è strutturata come una performance hard, sono montati in una sequenza d’accumulo (come nei film porno) ed occupano solo una parte minoritaria dell’intera pellicola che si apre con la scritta: “ This film should be played loud”, e martella le immagini con il sound distorto e sguaiato dei Roosters. Ferrara con questo film incomincia ad esplorare i territori che lo accompagneranno in tutti i film successivi: il confronto con la violenza e i miti del cattolicesimo, la continuità tra sogno e realtà, il fascino e la paura dell’autodistruzione, le discese negli abissi dell’animo umano e il piacere di fare un cinema sgranato, distorto e ormonale che spesso risulta indigesto ai cosiddetti benpensanti. The Driller killer, infatti è una summa complessa e disordinata di temi e passioni, capace di mettere in sequenza cinema europeo e americano, pulsioni giovanili e avanguardia artistica. The Driller Killer incomincia dove finiva Who’s that knocking at my door (Chi sta bussando alla mia porta, 1969) di Martin Scorsese. In questo film infatti, il viaggio che compie JR è quello della ricerca di una dimensione di purezza che solo la religione riesce a trasmettergli. Quando JR si accorge di aver sbagliato e di aver umiliato la sua ragazza, si reca in Chiesa e si confessa. Dopo l’atto di contrizione bacia il crocifisso ma nel farlo si ferisce il labbro con uno dei chiodi, mentre una musica rock invade la Chiesa. Questo accadeva nel finale del film scorsesiano, mentre The Driller killer si apre con rumore di campane che presto diventano musica d’organo e vediamo Reno in una Chiesa poco illuminata con un grosso crocifisso sullo sfondo. Reno si avvicina lentamente ad un uomo inginocchiato 15 Abel Ferrara in Monthly Film Bullettin, n. 648, 1988 in Booklet allegato al DVD The Driller Killer, Raro Video
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nel primo banco. L’uomo è vecchio, con una lunga barba da patriarca; Reno gli si avvicina e sta per prendergli la mano, quando il vecchio improvvisamente prende la sua chiamandolo “Son” (figlio). Il pittore terrorizzato e schifato fugge via e si rifugia in macchina con la sua fidanzata dove esprime disprezzo e disgusto per quell’uomo che, come suggerisce Carol, potrebbe essere suo padre. Entrambi i film quindi, sono esempi di disagio di fronte al sacro e del desiderio di avvicinarsi alla religione e quindi a Dio, ma anche della paura di incontrarlo. Ferrara condensa in questa prima scena l’esperienza personale e l’inizio della sua poetica. Data l’intensità della performance attoriale dello stesso regista, è facile notare (come egli stesso ha ammesso) un grosso investimento personale in un film che assume i caratteri di una confessione per gran parte autobiografica. Esprime contemporaneamente fascino e timore per il vecchio in Chiesa. Vorrebbe avvicinarsi al sacro ma si trova a disagio ed è disorientato di fronte alle parole di quel possibile “Padre”. Egli lo apostrofa come “Figlio” interrompendo la sua continua litania “Lasciate che i peccatori vengano a me”. Un prologo dunque, incomprensibile e confuso inteso a raccontare un momento di crisi interiore del giovane. Il negare con forza quanto supposto da Carol, in merito alla figura del padre, può essere legato ad un complesso di Edipo irrisolto, in cui l’omicidio reiterato e compulsivo dei derelitti diventa rappresentazione dell’omicidio del padre perpetrato, potenzialmente e senza soluzione, all’infinito, perché il conflitto è legato all’identità sessuale di Reno. A suffragare questa lettura psicanalitica, contribuisce la dichiarazione del regista che nel commentare il film16 afferma di aver tratto ispirazione da Un chien andalou (id., 1929) di Luis Bunuel, lavoro nel quale il regista spagnolo e Salvador Dalì (così come la coppia regista-pittore è replicata da Abel Ferrara e Douglas Anthony Metrov), riflettono sul percorso di ricerca di identità sessuale da parte del maschio, lavorando su temi cari al regista newyorkese come i fantasmi psichici e la rivelazione del mondo del delirio legata all’inconscio. Come Bunuel e Dalì applicano nel loro film il metodo “paranoico-critico” nella rappresentazione dell’opera d’arte, attraverso il riordino concettuale dei materiali prodotti dall’inconscio, così la coppia Ferrara-Metrov ne replica lo schema concentrando l’attenzione sul percorso compiuto dal desiderio maschile, nel suo rapportarsi con l’universo femmi16
Audio commentary in The Driller Killer, limited edition, Cult Epics
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nile, per innescare il processo di formazione dell’identità sessuale di Reno, attraverso le contraddizioni e le ansie che lo tormentano. Un chien andalou si apre con la famosa scena in cui lo stesso Luis Bunuel è protagonista del taglio dell’occhio con un rasoio, mettendo in scena tanto il feticcio (il rasoio) quanto il cinema (l’occhio tagliato) inteso qui come un altro modo, diverso e non per forza piacevole, di osservare la realtà. Abel Ferrara, replica la scena, sia attraverso il coinvolgimento recitativo in prima persona, sia durante la prima allucinazione di Reno, con un campo e controcampo in dettaglio, orchestrati su un montaggio nevrotico in cui la punta del trapano si avvicina alla pupilla dell’occhio per penetrarlo. Dopo il prologo il protagonista di Un chien andalou gira per la città vestito sia con abiti maschili che femminili, così come, nel finale del film di Ferrara, Reno affronta Dalton Briggs truccato da donna e vestito da uomo. Il mercante rifiuta il quadro perché privo di estro e di passione. Passione e sentimenti che Reno fa suoi invece nella vita reale (quella delle notti teatro dei suoi omicidi) mentre per l’arte è rimasta solo la tecnica: fredda e insignificante. Il trapano serve per nascondere qualcosa che sta dentro di lui, qualcosa di talmente intimo da cercare di mascherarlo a tutti i costi: il proprio essere androgino, sospeso in una ricerca di identità di genere. Reno infatti si trucca e si veste per accogliere Briggs nel suo appartamento, ed esce dalla penombra con aria seducente imbracciando il trapano con una punta molto più grande di quella usata solitamente (un evidente simbolo fallico) apprestandosi così a penetrare il gallerista. The Driller killer è percorso da una serie ininterrotta di immagini surreali: dal quadro del bisonte, al lancio del telefono fuori dalla finestra perché la bolletta è troppo cara, alla pioggia di sangue sognata da Reno, fino alla rappresentazione delle performance dei Roosters. Ad avvalorare l’ispirazione bunueliana dall’opera, contribuisce il fatto che nel film è presente un forte legame tra l’occhio umano, il trapano e l’occhio del bisonte. Se l’occhio umano è il centro della visione e quindi lo strumento attraverso cui osservare la realtà, il trapano è la macchina da presa mediante la quale filtrare e ordinare le immagini e l’occhio del bisonte è la lente d’ingrandimento attraverso cui osservare la storia americana. Il modo per uccidere un uomo o una nazione è di togliergli i sogni, proprio come i bianchi stanno sistemando gli indiani: uccidendo i loro sogni, la loro magia, i 17
William S. Burroughs, Il Pasto nudo, SugarCo 1994 p.56
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loro spiriti familiari.17 Le mandrie di bisonti, infatti, erano per i nativi americani, gli indiani, l’elemento su cui si reggeva il loro fragile equilibrio societario. Poi arrivò l’uomo bianco che in poco tempo uccise tutti i bisonti e distrusse la società indiana emarginando i pochi sopravvissuti allo sterminio nelle riserve sulle montagne. È come se Ferrara filtrasse la realtà attuale di New York attraverso la lente della Storia. Reno è un cow-boy metropolitano immerso nella notte umida e promiscua della bowery di una New York abitata da una società in grado di generare solo povertà e disperazione. Altri elementi del film si legano questo discorso: l’indifferenza del padrone di casa verso il rumore continuo e assordante dei Roosters dopo che questi gli hanno pagato i cinquecento dollari mensili (prima del pagamento invece si raccomanda di non fare rumore). Reno gira per le strade per conoscere la realtà: osserva e ritrae i barboni nella 17a strada; assiste dall’alto all’omicidio di un pusher in Union Square e si trova quindi partecipe di una società che ha irrimediabilmente rifiutato il sacro per poter vivere nel peccato. Egli fa un estremo tentativo per non cedere alla tentazione: scende in strada di notte per salvare un suo amico che si è abbandonato alla disperazione: “Svegliati, alzati in piedi. In piedi...non morirai, non preoccuparti, non morirai, avanti...” ;questo proposito si rivela però vano e fallimentare, perché subito dopo irrompe la violenza di un inseguimento notturno che spaventa Reno e lo precipita nuovamente nel disagio. I problemi economici da un lato, l’ossessiva musica punk dei Roosters che provano al piano di sotto dall’altro, hanno minato definitivamente la sua psiche. Reno Miller è ossessionato da sogni dove si vede diventare un derelitto o un assassino sotto una pioggia di sangue. Terrorizzato dall’idea di diventare come loro comincia a trapanare barboni e alcolizzati; lo fa in maniera nevrotica e fulminea, come in preda a un raptus, talvolta inscenando macabri balletti. Uccide quindi gli ultimi, che però evangelicamente sono i primi destinatari della Grazia Divina: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti perché saranno consolati.18 Il suo è un percorso: ritrarre e uccidere. L’ultimo barbone viene crocifisso come a voler dare una sacra rappresentazione della realtà degradata dell’uomo moderno, e l’omicidio avviene poco dopo il momento in cui Tony Coca-Cola offre a Reno cinquecento dollari per eseguire il suo ritratto per dei manifesti. In The Driller kil18
Mt. 5, 3-5
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ler, quindi, si può notare come tutto, comprese le reazioni delle persone, sia legato alla presenza o assenza del denaro, o ad un discorso meramente commerciale. Così è anche per il rapporto che Reno ha con il cibo. Egli non mangia ordinatamente ma si abbuffa di tutto quello che trova. Ha un rapporto impulsivo con il mangiare. È spinto da un impulso consumistico che si accentua notevolmente al termine degli omicidi: come se dovesse rifocillarsi per riacquistare energie nervose. È come i drogati di Trash (Trash - I rifiuti di New York, 1970) di Paul Morrisey, che non possono vivere senza la dose quotidiana e che vivono la loro vita in funzione dell’eroina. Il degrado e la sporcizia del loft di Reno non sono dissimili da quelli del sudicio appartamento di Holly e Joe nel film di Paul Morrisey. La differenza sta nel fatto però che i due tossici accumulano nel loro locale i rifiuti della società, mentre Reno sceglie la soluzione impostagli dalla massificazione dei consumi: eliminare i rifiuti (animali o umani, non ha importanza). In The Driller killer infatti, compare un coniglio scuoiato, che il padrone di casa regala a Reno Miller quando questi va a lamentarsi con lui per i rumori dei Roosters. Il coniglio è un chiaro rimando al cinema di Polanski ed al film del 1965: Repulsion. In questo film il coniglio è metafora allo stesso tempo della seduzione del maschio e del sacrificio da compiere per difendere il proprio corpo da parte della donna (la fidanzata di Reno si chiama Carol, come la protagonista del film di Polanski). Quello di Repulsion è un coniglio putrescente abbandonato su un piatto con vicino un rasoio, che diffonde i suoi miasmi nell’appartamento della donna che sembra non accorgersene. Nel film di Ferrara invece, il coniglio diventa elemento sacrificale: surrogato primario del sacrificio umano che verrà da lì a poco (quello degli homeless). Secondo Ferrara, l’angoscia interiore di Reno può dunque essere superata solo attraverso il sacrificio: così il pittore dopo aver preso il coniglio, alla sera si prepara per cucinarlo. La scena è costruita dal regista come un vero e proprio rituale: si vede Reno al buio, distendere il coniglio sul tavolo, circondato da candele accese. Il pittore comincia a squartare il coniglio, ne è affascinato dalle sue interiora e lo analizza minuziosamente. Dentro di lui però durante questa operazione, nasce una forza scatenante, accresciuta dalla visione delle viscere dell’animale e in un raptus di violenza incontrollata, infierisce selvaggiamente con il coltello sulla testa del coniglio fino a renderla poltiglia. A questo punto il sacrificio è compiuto e le attenzioni di morte possono lasciare gli animali per rivolgersi agli umani: i barboni, vulnerabili per45
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ché perennemente alcolizzati e vicini perché vivono nelle strade sotto il loft di Reno. Dopo la morte per crocifissione del decimo barbone e prima dell’azione finale, il cui esito non è dato conoscere dopo che Carol spegne la luce della camera da letto e si corica ignara accanto a Reno, mentre il marito giace morto in cucina, il pittore, terminato il quadro del bisonte, si avvicina a Carol mentre questa sta dormendo e (come le aveva promesso) le dice: “È finito Carol, Finalmente è finito baby. Hai capito? Ho appena finito..ce l’ho fatta”, ma non si capisce se si riferisce realmente al quadro o alla soluzione del suo complesso di Edipo dopo l’uccisione di molti “padri”. Questo e tanti altri passaggi del film rimangono irrisolti, talvolta lasciati cadere istantaneamente (come il prologo) altre volte sospesi (come la presenza dei Roosters), in altri casi denotando buchi di sceneggiatura o inserzione di immagini inspiegabili e fine a se stesse (come quella in cui Reno usa una torcia elettrica come metronomo), forse, a causa dei lunghi tempi di lavorazione del film, della mancanza di denaro e di una inevitabile irruenza giovanile, nel mettere nel film troppi temi e troppi spunti per poterli sviluppare compiutamente. Nonostante ciò, quasi fuori tempo massimo, perché sui titoli di coda, il regista sembra interrogare lo spettatore e interrogarsi sulla rispettabilità di quegli uomini di strada su cui precedentemente ha selvaggiamente infierito. Una voce off, registrata in presa diretta dalla strada, recita: “Chi si crede di essere per dirmi che nono una persona rispettabile. Mi scusi, le sembro una persona rispettabile? Dico a lei, ce l’ha qualche spiccio?... che Dio la benedica!”.
The Driller killer – recensione The Driller killer è un film sporco, grezzo e vitale, in cui Abel Ferrara concentra la genesi del suo cinema irriverente e “cattolico”. Un film tutt’altro che perfetto, talvolta improvvisato e altre volte discontinuo, ma comunque sempre presente nel descrivere una vicenda, in parte autobiografica, e capace, come pochi altri film seguenti, di stratificare materiali eterogenei e variegati per descrivere una vicenda surreale e reale allo stesso tempo. L’abilità del giovane regista, in quest’opera spuria e crudele, è infatti, proprio quella di mescolare l’ “alto” con il “basso” (e questa 46
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sarà sempre la sua cifra stilistica) e di riuscire a non cadere mai nel ridicolo nel raccontare una vicenda che potrebbe essere così presentata: un pittore squattrinato, in fuga da suo padre, vive una relazione con due lesbiche, di giorno ritrae i barboni che uccide la notte a colpi di trapano elettrico, e una volta terminato il quadro su cui sta lavorando uccide il gallerista che l’ha rifiutato. Una storia simile nelle mani di chiunque altro sarebbe diventata materiale per una cinica commedia nera sgangherata e inutile, mentre nelle mani del suo autore The Driller killer si trasforma in un film complesso capace di far coesistere vari generi, dal documentario, allo slasher, al grottesco e alla commedia (non a caso lo stesso Ferrara definisce il suo film sia come una commedia che come un freakshow, una parata di mostri), e al contempo in un’opera profonda che riflette tanto sul personale conflitto religioso (in senso lato) quanto su quello sociale dell’epoca in cui è ambientato. Ma The Driller killer, nel suo essere tirato via, quasi privo di sceneggiatura e nel suo apparire come una sequenza di vignette incollate l’una all’altra (il pittore, i Roosters, gli omicidi...) è anche un film in cui Abel Ferrara racconta se stesso: una sorta di confessione autobiografica, perennemente in bilico sulla pornografia esistenziale (altra cifra del suo cinema), e incentrata sul tema della ricerca di identità sessuale, religiosa e artistica. Girato prevalentemente in interni nel loft di Reno e in esterni notturni, in cui il nero della notte è profondo è impenetrabile grazie alla fotografia oscura e minacciosa di Ken Kelsch, il film relega il giorno e la luce in pochi ma significativi spazi. Durante il giorno si vedono gli homeless abbandonati e alcolizzati, ripresi nella loro naturalità sporca e viziosa senza rinunciare a mostrarne gli aspetti più degradanti (uno è ripreso mentre sta vomitando nel sonno), così come alla luce del sole avviene l’omicidio di Union Square osservato da Reno con il binocolo, e ripreso da Ferrara con taglio e montaggio documentaristico. Il giorno, la luce e il sole dunque non raccontano né bellezza, né gioia, ma, anzi, appaiono peggiori della notte, perché rendono tutto visibile mentre avviene nell’indifferenza più totale della popolazione. I Roosters con il loro “rumore” punk ininterrotto, sono persino piacevoli se confrontati con il degrado urbano esistente e con la perenne e triste assenza di denaro dei protagonisti (“Non possiamo uscire, non abbiamo soldi” dice Carol davanti al televisore), ma forse, invece, sono solo il rumore ossessivo e distorto di una New York morente. 47
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The driller killer – Sondaggi critici Sarebbe arduo lamentare l’assenza di abbastanza violenza in The Driller Killer, ma gli omicidi sono filmati in modo tale da frustrare un pubblico che voglia assistere allo spettacolo di cristiani gettati in pasto ai leoni. Una volta che l’assunto è stato affermato attraverso qualche schizzo di sangue, tutta l’azione è girata freneticamente con la cinepresa a mano che indulge sul iperattivo omicida mentre le vittime sono lasciate fuori dal campo o compaiono in un tremolo campo lungo. La dissolvenza finale, quando l’ignara Carol entra nel letto con l’assassino, non è interrotta come previsto dla rumore del trapano. La riluttanza a far fuori o anche solo a mettere in pericolo i propri personaggi femminili tipica dle film è interessante, nel suo sottrarsi alle giustificate critiche femministe del genere splatter e nella sua caratterizzazione di Reno come forse l’unico psicopatico cinematografico che si è condotto alla follia da fattori economico-ambientali piuttosto che sessuali-psicologici. Reno uccide soltanto i derelitti cui paventa di congiungersi e al contempo Ferrara accenna i suoi struggenti desideri attraverso l’abbondanza di immagini che rimandano al selvaggio west, le quali fanno da contrappunto allo squallore urbano degli scenari, e i brani sedativi di un bach elettronico che forniscono un gradito sollievo agli effetti del trapanare e “rockare”. Scendendo in strada per il suo primo omicidio Reno chiosa: “Vado a procurarmi un po’ di pace dello spirito”. KIM NEWMAN, MONTHLY FILM BULLETTIN, GIUGNO, 1984 Il film è girato con furia ed è tecnicamente inadeguato sotto ogni profilo. Un artista che vive in un palazzo nei pressi di Union Square con due amiche che non disdegnano di trattenersi vicendevolmente quando le sue attenzioni sono rivolte altrove, trova sempre più difficoltoso sbarcare il lunario. Le cose peggiorano. Una punk-rock band si installa al piano inferiore e il rumore lo fa uscire di testa. La cosa più stupida del film è che quando il protagonista si trasforma in un assassino col trapano elettrico non scende sotto ad eliminare la band. No, sceglie come vittime gli alcolizzati nei portoni delle case, prima di volgersi ad altri obiettivi, le sue amiche. DEREK ELLEY IN VARIETY MOVIE GUIDE, 199719 Girato come un porno senza budget, astruso, sconnesso, minimalista, tagliato con l’accetta. Vien fatto di chiedersi se gli attori siano affetti da lesioni celebra19 Pietro
Baj (a cura di), Abel Ferrara, Dino Audino Editore, Roma, 1997
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li. La scena dell’abbuffata di pizza è più orribile di tutta la sanguinolenta truculenza, sostanzialmente comica. E il film è “dedicato alla popolazione di New York – la città della speranza”. GAVIN SMITH, FILM COMMENT, LUGLIO-AGOSTO, 199020 Informale, povero, inevitabilmente a target limitato, The Driller Killer non tocca letteralmente il gusto letterario, colto dell’omicidio “come una delle Belle Arti”. Ma il piano è insieme più alto e più abietto. Tra i film horror, qui troviamo il più esplicito contatto tra l’ossessione del corpo sublimato nell’opera d’arte e lo spettacolo del corpo smembrato nell’opera delittuosa. Ferrara riprende Jack lo squartatore, Gilles De Rais, il Barbablu nell’istinto “creativo” e il mondo della dissezione, istinto infame, che riguarda però anche la riproduzione artistica quando, appunto, il corpo è sottratto alla sua vita reale, “mortificato e immortalato” nel quadro, nella statua, comunque rapinato alla vita per una sorta di doppio eterno che anche oggi ci ostiniamo a venerare. Reno è un serial killer molto speciale: portatore di una forza pulsionale pura, mitica, in grado di solleticare anche la critica politica. La sua furia incontenibile, dionisiaca, carica di quei pochi fondanti simboli originari. Nell’ultima immagine Reno si incontra con Carol a letto. Non è detto che trapanarla sia il suo ultimo desiderio. SILVIO DANESE IN ABEL FERRARA, L’ANARCHICO E IL CATTOLICO, LE MANI, 1998, The Driller Killer è il primo lungometraggio indipendente di Ferrara. Lo stile è quello dei film sperimentali, con echi della cultura giovanile psichedelica, ma le incursioni del protagonista, un pittore che vaga per le strade uccidendo barboni, sono già sintomo metaforico di quel disagio culturale e sociale che i personaggi delle opere più mature di Ferrara esprimeranno compiutamente. FERNANDA MONETA E GISELLA BOCHICCHIO, FILMCRITICA 416, 1991 Il personaggio principale del film è interpretato dallo stesso Ferrara e la sua vita è fatta di pennellate di rifinitura ad un enorme, bellissimo e inquietante bisonte (dipinto dal pittore Douglas Anthony Metro, la cui vita ha ispirato il film), erramento metropolitano nel quartiere più popolare ed etnico di New York, futili battibecchi, disturbi sonori (…). L’omicidio non impone un senso a questa materia promiscua e inerte dominata da verde bile e rosso cellophan e la sceneggiatura, in verità, non fornisce un grande aiuto (il film inizia con un contatto e fuga del pittore con suo padre, ma tutto questo non ha alcun seguito). Il più 20 Ibidem
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interessante autore americano emerso dagli anni ottanta ad oggi, prende le mosse, con questo film, da un rituale cruento stilizzato ed anonimo in cui traccia alcuni punti che ritorneranno in continuazione nel suo cinema: il confronto con la violenza dei miti della cultura cattolica, il terrore e l’attrazione per le discese agli inferi e l’espiazione che esse provocano, il sapore di un cinema sgranato, tossico, ormonale capace di creare forti ibridi tra sguardo documentario e improvvise accensioni di violenza e montaggio. MARIO SESTI, BOOKLET DVD RARO VIDEO
MS. 45 (1981) Garment Center – Manhattan. Thana (Zoë Tamerlis Lund) è una ragazza muta, che lavora in un atelier di alta moda, gestito da Albert (Albert Synkis). Un giorno, di ritorno da fare la spesa al supermercato, viene aggredita da uno sconosciuto (Jimmy Laine [Abel Ferrara]), e violentata sui bidoni della spazzatura. Quando rientra nel suo appartamento, scopre un ladro e viene stuprata anche da questo secondo uomo (Peter Yellen). Thana, al momento dell’orgasmo, lo colpisce con un oggetto e subito dopo lo uccide a colpi di ferro da stiro, poi trascina il cadavere nella vasca da bagno. Il giorno successivo, torna al lavoro, e una volta tornata a casa comincia a fare a pezzi il corpo del ladro e a nasconderli nei sacchetti della spazzatura che successivamente deposita sia nel frigorifero che nel freezer. Mentre si prepara a farsi il bagno e a lavarsi, rivede nello specchio il primo stupratore. Quando esce di casa porta con sé uno dei sacchetti e lo deposita in un cestino della 5a Avenue. Un secondo sacchetto lo lascia cadere vicino alla palizzata di un cantiere, ma viene inseguita da un ragazzo, abbigliato come un rockabilly (Vincent Gruppi) che vuole restituirglielo per abbordarla. Thana fugge per le strade deserte, inseguita dal giovane, e quando si trova al fondo di una strada a fondo cieco, vedendosi l’uomo correre verso di lei impugna la pistola e lo uccide. La donna torna a casa sconvolta, si rigira nel letto perché non riesce a dormire e ha un incubo legato alla sua infanzia. La petulante signora Nasoni (Editta Sherman) proprietaria dell’appartamento di Thana, la redarguisce per l’assenza di spiegazioni riguardo i suoi andirivieni. Una volta tornata al lavoro, Thana, esce a pranzo con le sue colleghe, e viene importunata da un fotografo di moda (S. Edward Singer) precedentemente canzonato da Laurie (Darlene Stuto). Thana accetta di farsi condurre nello studio 50
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fotografico, ma una volta aperta la porta dell’ascensore fa fuoco contro il fotografo scaricando il caricatore della sua calibro 45. La sera stessa Thana si trucca pesantemente e si veste con abiti di pelle nera, esce di casa e viene nuovamente redarguita dalla signora Nasoni, questa volta a causa del suo abbigliamento inconsueto e sconveniente, poi si addentra nella notte newyorkese ed uccide in serie un pappone (Stanley Tims), cinque teppisti in Central Park, e infine uno sceicco e il suo autista. Una volta tornata al lavoro, il giorno successivo, viene rimproverata da Albert per la sua assenza e viene invitata ad una festa in maschera. Durante la notte successiva, Thana esce per nuove scorribande giustizialiste: tenta di uccidere un giovane cinese, la cui unica colpa è quella di baciare la sua fidanzata, ma questi riesce a salvarsi entrando nel condominio in cui abita, mentre successivamente, Thana si siede in un bar ad ascoltare il racconto di un commesso viaggiatore (Jack Thibeau), tradito dalla moglie; Thana e l’uomo ritrovano su una panchina di fronte al ponte di Brooklyn e al termine del racconto la donna cerca di ucciderlo ma la pistola si inceppa. Credendolo uno scherzo l’uomo prende la pistola, si spara alla testa e si uccide. Mentre Thana è fuori la signora Nasoni si introduce nel suo appartamento per curiosare, ma a causa di un danno provocato dal cane Philly (il cane Bogey), deve desistere dal suo intento. Scoperto il danno, Thana chiede alla signora Nasoni di poter portare Philly a fare una passeggiata, la vecchia accetta ma Thana abbandona il cane sulle rive dell’Hudson. Thana, vestita da suora, davanti allo specchio, bacia i proiettili prima di inserirli nella pistola, poi si reca alla festa in compagnia di Albert vestito da Dracula. La signora Nasoni, nel frattempo, entra nuovamente nell’appartamento di Thana e trova la testa del cadavere e chiama la polizia. Un detective (Alvin Moore) e il suo assistente (N. G. ST. John [Nicodemo Oliverio]), indagano sul ritrovamento, mentre Thana alla festa fa strage di uomini. La mattanza è interrotta da Laurie che accoltella Thana alle spalle: la donna si gira sorpresa, pronuncia la parola “sister” e muore. Philly ritorna scodinzolante davanti alla porta dell’appartamento della Signora Nasoni
Il film, più conosciuto con il titolo internazionale di Angel of vengeance (L’angelo della vendetta), esce nelle sale americane il 24 aprile 1981, in realtà con un titolo molto meno sensazionalistico e ben più incisivo. Il titolo originale infatti, è Ms. 45 ovvero “Sig. calibro 45” (Ms è la forma neutra che si usa quando non si vuole distinguere tra “Miss” e “Mrs”). È un film che solo apparentemente si inserisce nel filone rape and revenge, tanto in voga in quel periodo, poiché sotto la struttura di film di genere il regista 51
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newyorkese affronta temi ben più profondi e importanti. Girato tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, con un budget di centomila dollari affidatogli da un amico, è l’ultima produzione della Navaron Film, ed al termine dei titoli di coda è dedicato alla memoria del padre: Alfred J. Ferrara. La sceneggiatura porta la firma del fido Nicholas St. John (che come nel film precedente si firma N.G. ST. John), il quale compare nel film nelle vesti di uno dei due detective a casa della Sig. ra Nasoni, mentre Ferrara vi compare come interprete, nella parte del primo stupratore, sotto l’abituale pseudonimo di Jimmy Laine. Nicodemo Oliverio, scrive la sceneggiatura per episodi, in funzione del fatto che la protagonista principale è muta e che, soprattutto, gli altri personaggi servono solo da contorno, visto che sono (volutamente) poco più che macchiette che non hanno nulla da dire. Ferrara, utilizza, in parte, la stessa tecnica del film precedente, sia nel concentrare in una scena di accumulo gran parte degli omicidi di Thana, sia nel riprendere le scene tra la folla della 5a Avenue (in cui passeggiano Thana e il fotografo) attraverso l’utilizzo della hidden camera. Nonostante le continue negazioni da parte di Abel Ferrara, non si può prescindere dal notare come il film sia influenzato dalle teorie femministe, secondo cui lo stupro è solo l’espressione più diretta dell’aggressività del maschio all’interno di ogni relazione eterosessuale, e secondo cui, quindi, tutti gli uomini sono colpevoli e punibili con la morte: non a caso Thana rivolge le sue attenzioni omicide anche verso innocenti la cui unica colpa sembra essere quella di appartenere al genere maschile, così come il primo stupro si conclude con la frase, intimata all’orecchio dal violentatore: “Devo fare presto, ma tornerò perché ti piace, ti aspetterò io...e ti piacerà ancora, ti piacerà..”. Inoltre, dopo il primo omicidio, lo sguardo di Thana è continuamente catturato dalla visione di attività sessuali di vario genere: l’amplesso nell’ufficio di fronte alla sartoria, il bacio del cinese alla fidanzata, l’atteggiamento del fotografo al Brew Burger, notato da Laurie grazie allo sguardo fisso della stessa Thana...; così come la potenza fallica prende forma attraverso la pistola di Thana, che nelle sue mani, diventa lo strumento per dare voce alla sua frustrazione e attraverso cui comunicare, senza mezzi termini, il suo pensiero sull’universo maschile, ergendosi a portavoce ingenua (nel finale viene “tradita” da una “sorella”) del pensiero femminile. Non si può non notare come la parabola di Thana, corrisponda nei termini (ma non negli eventi) a quella di Susana nel film omonimo (Adolescenza torbida, 1950) 52
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di Luis Buñuel. Susana, come Thana è priva di cognome, è straniera, e giunge nella famiglia di Guadalupe come una creatura innocente e spaurita (Jesus, la trasporta in casa e Buñuel inquadra la scena come fosse la pietà di Michelangelo), durante una notte di temporale, in cui solo Feliza, la vecchia domestica legge la verità sul volto (un primo piano da dietro i vetri rigati d’acqua) di Susana : “È il diavolo!” (anche la Sig.ra Nasoni usa espressioni simili nei confronti di Thana). Susana, non ha bisogno di pistole, lei usa il corpo come arma di distruzione dei maschi, mettendoli, dapprima uno contro l’altro e in un secondo tempo contro le loro donne, prima della risoluzione finale in cui una “sorella” (Carmen, la moglie di Guadalupe) si ribella e la frusta a sangue (in una scena che per intensità non ha nulla da invidiare agli omicidi di Thana). Al suo arrivo nella fazenda, Susana viene importunata dai peones e dai rancheros, allo stesso modo in cui Thana viene fatta oggetto di sguaiate attenzioni sessuali dai “vitelloni” della 5a avenue, mentre la scena iniziale in carcere con pipistrelli, topi e ragni, di cui uno attraversa le ombre delle sbarre a forma di croce, mentre Susana prega in ginocchio, non può non rimandare al finale “psichedelico e gotico” di Ms. 45. Ferrara, non si limita solo a rivisitare Buñuel, uno dei suoi autori preferiti, ma, oltre a chiudere il film con un’animale simbolico, il cagnolino Philly che ritorna (in Ms.45) e la cavalla Lozana che si rialza (in Susana), per evidenziare la non completa malvagità delle protagoniste, utilizza lo stesso espediente linguistico del maestro spagnolo, in cui Susana vuol dire “castità”, mentre Thana rimanda a “Thanatos” (con l’aggiunta qui che la protagonista si chiama Zoë cioè vita). Luis Buñuel, mette in bocca a Feliza la frase che al meglio descrive Susana (e per rimando anche Thana): “Quella non è decente neppure con indosso una veste da suora”. Abel Ferrara, come Luis Buñuel, costruisce una parabola in bilico tra cattolicesimo e trasgressione: entrambi utilizzano il registro del “non detto” per far emergere la figura di donne conturbanti e “assassine” il cui corpo diventa surrogato della voce: Thana è muta, Susana parla, ma sostanzialmente non dice nulla, parlano molto di più le sue scollature e i vertiginosi dettagli del decolletè e delle cosce nude inquadrati da Buñuel; donne ideali per il maschio, in quanto potenzialmente (per motivi diversi) asservite al suo dominio e che invece si rivelano essere armi letali che solo un’ altra donna può annientare. Seppur Buñuel fosse scontento del film a causa del finale troppo semplicistico e rassicurante (a suo dire) Susana si presenta come 53
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una grande lezione morale, in cui convivono anche ironia e divertimento, così come in quello di Ferrara nel quale, il regista, non rinuncia ad un cinico quadretto comico nella scena del “suicidio” sulla panchina degli innamorati” (sbeffeggiando il Manhattan (id, 1980) di Woody Allen, uscito l’anno precedente) o a caricare pesantemente la figura impertinente e pettegola della Sig.ra Nasoni (ricordo di una donna che viveva nel suo palazzo durante la residenza in Mulberry St.). Così come per Buñuel il film ruota tutto attorno alla figura adolescenziale e minacciosa di Susana interpretata da Rosita Quintana, il centro vitale di Ms. 45, è tutto nelle mani della sua straordinaria protagonista: Zoë Tamerlis. Ecco come Zoë venne scoperta da Abel Ferrara: “All’epoca Zoë aveva diciassette anni. Io conoscevo dei ragazzi che stavano facendo il casting per un film chiamato Times Square. Un giorno questi mi dissero: “Abbiamo la ragazza per il tuo film, incute davvero timore”. I produttori di Times Square non volevano utilizzarla perché era troppo tosta per loro e così noi ci ritrovammo con un talento da un milione di dollari. La parte in Times Square andò invece a Trini Alvarado”.21
Zoë Tamerlis, nasce il 9 febbraio del 1962 a New York. A sedici anni abbandona gli studi divenendo poco più tardi segretaria particolare del regista e critico francese Yves De Laurot. Ragazza prodigio, mostra un eccezionale talento nella composizione musicale, ma vede nel cinema un mezzo migliore per esprimere le proprie idee: “I film lavorano ad un livello più viscerale, mi consentono di raggiungere meglio la gente”.22 Così anche se non è molto attratta dal recitare, compare per la prima volta in un cameo nel film Times Square (id. 1978) di Allan Moyle, e subito dopo accetta per 1.500 dollari la parte di Thana in Ms. 45 di Abel Ferrara. “Quando il film era in preparazione, l’unico materiale esistente erano vaghe descrizioni delle singole scene. Essendo la mia faccia inquadrata senza dialoghi per qualcosa tipo il 98% del tempo, fui molto coinvolta”.23
21 22 23
Da intervista di Scott Tobias in The onion, citaz. Internet, traduzione nostra Robert Lund, Memorial page of Zoë, In Fear City, citaz. Internet Ibidem
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In effetti la sua interpretazione risulta appassionata e verosimile, sicuramente anche a causa dello stupro subito da parte del suo professore di russo, al Mount Holyoke College qualche anno prima. Negli anni successivi a Ms 45, Zoë Tamerlis recita in alcuni film: Special Effects (id., 1984) di Larry Cohen, Exquisite Corps (id., 1989) di Temestocles Lopez e The Houseguest (id., 1987) di Franz Harland, oltre all’episodio di Miami Vice: Prodigal son. Nel 1985, partecipa con David Byrne, William Burroughs e Ann Magnusson al documentario Heavy Petting (id., 1985) di Olbie Benz, dove i membri del cast ricordano le loro prime esperienze sessuali. Nel 1986, Zoë sposa Robert Lund da cui si separerà nel 1997 e nel 1992 torna a lavorare in coppia con Abel Ferrara nel film Bad Lieutenant. Qui oltre ad apparire in una piccola parte come junkie, Zoë è co-autrice della sceneggiatura. In quel periodo, traduce sullo schermo il suo stile di vita, infatti, la Tamerlis è un’accanita consumatrice di droghe e considera il farsi di eroina come una “scelta di vita”. Nel 1997, dopo la separazione, si trasferisce a Parigi, dove all’eroina sostituisce l’uso della cocaina. Qui Zoë muore stroncata da un infarto il 16 Aprile 1999, mentre sta preparando un libro di racconti, sul Lower East Side di Manhattan, che si intreccia con immagini di preziosi “francobolli” usati dai dealers. Ms. 45, apparentemente, si inserisce nel filone dei rape and revenge movie. Il film, come sempre nelle scelte del regista newyorkese, si nutre tanto di cinema “alto” (Buñuel, ma anche Polanski e Scorsese), quanto di sconosciuti e dispersi B-movie. Difatti, Ms. 45, oltre ad essere la potenziale summa teorica di tutto il genere rape and revenge, ne è in qualche modo anche il terminale, perché porta a termine tutti i discorsi lasciati in sospeso da chi prima di lui ha affrontato i temi dello stupro e della vendetta, come confermano le parole dello stesso Ferrara. “Questo film lancia uno sguardo sulla potenza femminile. È uno dei pochi film che si siano visti, dove la donna decide e usa per questo il suo mistero, il suo fascino e la sua femminilità. Così sono le donne nella vita reale”.24
Se gli altri registi, per incompetenza e desiderio di macabro spettacolo, si fermano al dilemma se sia più o meno giusto vendicarsi di stupri e violenze, costruendo personaggi bidimensionali e manichei, spesso immersi in una 24
Da intervista di Scott Tobias in The onion, citaz. Internet, traduzione nostra
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discutibile fascinazione di fondo, il regista newyorkese, invece, confeziona con il suo film un teorema lucido e implacabile sul contagio del Male. Nel 1972 il professor universitario Wes Craven e il produttore Sean S. Cunningham portano sugli schermi americani un piccolo film dal titolo: Last House on the left (L’ultima casa a sinistra). I due sono quasi esordienti, hanno alle spalle solo un sexy-educational intitolato Together (id. 1970, interpretato dalla futura pornodiva Marilyn Chambers) ma grazie ai $ 50.000 offerti dalla Hallmark mettono insieme il film che sarà destinato a cambiare per sempre le regole della rappresentazione della violenza. Il film ispirato a La Fontana della Vergine di Bergman, racconta la storia di violenze, stupri, umiliazioni e infine l’uccisione subiti da due ragazze di provincia da parte di un gruppo di evasi feroci e sanguinari. Questi poi casualmente, durante la loro fuga, troveranno rifugio nella casa dei genitori di una delle due ragazze uccise. Qui, in maniera fortuita la madre scoprirà ciò che è successo e d’accordo col marito metterà in atto una selvaggia e rabbiosa vendetta. Se da un lato viene rappresentata la famiglia borghese e bigotta tipica della provincia americana, dall’altro, i due registi, costruiscono una “famiglia” sui generis (quella dei delinquenti) indicativa della rabbia e della disperazione che attraversano la gioventù americana in quel determinato periodo. Questa composta da Krug, (David A. Hess) e la sua banda rappresenta il fallimento del flower-power e il crollo delle illusioni di poter costruire una nuova società da parte di una generazione che muore, non solo fisicamente ma anche ideologicamente, nelle foreste del Vietnam. Il film, semplicistico, zoppicante e nella seconda parte davvero inverosimile, tale e tante sono le incredibili circostanze che ci guidano verso il sanguinoso epilogo, voleva essere nelle intenzioni di Craven e Cunningham una riflessione critica sul nucleo familiare, visto come coacervo di tensioni, violenze e rancori. Se questo obiettivo rimane solo sfiorato, il film ha importanza per come rappresenta in modo crudo ed efferato, e compiaciuto, la violenza, la rabbia e l’animalità dell’uomo, figlia, come ricorda lo steso Craven delle immagini di morte proventi dalla guerra nel sud-est asiatico. La morte in Last House on the left è lenta e comporta grandi spargimenti di sangue, a differenza di tutto il cinema precedente, e in particolar modo nel genere western dove invece appariva veloce ed edulcorata. Il film nonostante i tagli, le censure e le polemiche ebbe grande successo e diede vita ad un filone ricco di opere ciniche e talvolta rivoltanti per il modo in cui spettacolarizzano ed enfatizzano la violenza sessuale e la successiva vendetta. Tra questi ricordia56
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mo: Lipstick (Stupro, 1976) di Lamont Johnson, Axe (id. 1974) di Frederick R. Friedel, Exposè (La casa sulla collina di paglia, 1975) di James Kenelm Clarke e l’italiano La settima donna (1978) di Franco Prosperi. Questi ultimi due, anomali nella loro struttura rispetto agli stereotipi del genere, presentano due interessanti varianti che ritroviamo nel film di Ferrara. In Exposè, la donna ne esce sconfitta e nell’assolato finale viene uccisa da un uomo mentre lei sta per portare a termine la sua vendetta (in Ms.45 sarà una donna a fermare Thana); mentre curiosamente, nel finale de La settima donna, troviamo una suora che si vendica a colpi di pistola dei tre malviventi che hanno seviziato e tenuto sotto assedio per giorni lei e un gruppo di studentesse. In mezzo a tanti titoli, ce ne sono un paio che Ferrara, grande frequentatore onnivoro dei double-bill della 42a Strada, sembra avere visto e interiorizzato, visto che alcuni elementi di Ms. 45 rimandano a loro. Thriller-en grym film (id., 1973) di Bo Arne Vibenius e I spit on your grave (Non violentate Jennifer, 1978) di Meir Zarchi, rispetto al film di Ferrara sono opera di semi-dilettanti (nel film di Zarchi quasi non si capiscono i dialoghi a causa del pessimo sonoro) attraversati da troppo cinismo e faciloneria, e bruciano le buone intenzioni di fondo con una messa in scena troppo grezza ed effettistica. Thriller-en grym film di Bo Arne Vibenius (ma il film è firmato con lo pseudonimo di Alex Fridolinski) ha una storia alquanto bizzarra, tanto quanto quella del suo autore. Vibenius lavora nei primi anni ’60 presso la commissione censura, la Swedish Censorship Artists, ma affascinato dal mondo del cinema e desideroso di fare il regista, si iscrive nel 1975 alla Swedish Film School. Forte di grande determinazione e di un carattere non conciliante si ritrova in poco tempo a fare da assistente per l’icona del cinema svedese Ingmar Bergman, e con lui lavorerà sui set di Persona e L’ora del lupo. La sua carriera sembra ormai indirizzata, ma con un atto di presunzione, e insofferente verso il suo ruolo di subalterno, decide di mettersi in proprio, senza averne le capacità, e di produrre e dirigere un film. Costituisce la BAV Film Company e realizza nel 1969 per il mercato svedese il film Hür Marie Träffade Friederik. Girato con uno stile unico e bizzarro racconta la storia di alcuni bambini che vivono in un mondo di fantasia e viaggiando su un go-kart (!) si ritrovano prima inseguiti dalla polizia, poi impegnati in una sparatoria nel vecchio West. Il film, come era prevedibile, alla sua uscita viene ignorato e Vibenius senza più finanze va a lavorare presso un’agenzia pubblicitaria della Saab Company. Sempre deciso a continuare sulla strada della regia, fa tre mesi di straordina57
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rio e mette insieme i soldi per produrre Thriller-en grym film. Girato tra Stoccolma e un paesino sulle coste olandesi, con una troupe di dieci persone, vede la partecipazione di pochi attori, la maggior parte amici, che vengono di volta in volta sul set per girare le loro scene. Le riprese durano dal 7 al 23 Dicembre 1972. Bo Arne, utilizza le sue amicizie militari per assicurarsi la cinepresa con cui vengono effettuate le riprese in slow-motion del film, con una macchina utilizzata in ambito militare per riprendere i lanci missilistici, capace di catturare 500 frames al secondo rispetto allo standard di 24. La versione originale del film presenta anche alcuni inserti hard-core girati con performers svedesi. Vibenius è un regista grezzo e semi-amatoriale e nella seconda parte del film esagera con i rallenty, ma non si può non pensare a Frigga (la protagonista) come la degna progenitrice di Thana in Ms. 45. L’immagine di Christina Lindberg con pastrano, benda sull’occhio e fucile a canne mozze è un’icona fetish che non si dimentica come la sexy-suora assassina che bacia i proiettili nel finale del film di Ferrara. Inoltre Frigga è muta come Thana e come l’eroina ferrariana usa il fucile e la pistola per comunicare la propria frustrazione e la propria rabbia (ha subito uno stupro ed è stata costretta a prostituirsi). Thriller, viene prima bloccato dalla censura e poi viene presentato, suscitando grande scandalo, al Festival di Cannes senza però destare nelle persone l’interesse auspicato. Bo Arne Vibenius gira ancora un altro film nel 1975 dal titolo Breaking Point-Pornografisk Thriller firmandolo con lo pseudonimo di Ron Silberman Jr. Anche questo film viene bloccato dalla censura svedese e il regista, sconfortato e deluso, abbandona definitivamente le scene. Attualmente lavora come operatore e produttore per la televisione svedese. Il regista di I Spit on your grave è l’americano Meir Zarchi. Classe 1937, è autore solo di un altro film negli anni ’80: Don’t mess with my sister (id. 1987). A proposito del suo film dice: “È un film dell’orrore solo perché provoca orrore in chi lo guarda. È difficile anche per me rivederlo, perché presenta le cose come stanno: lo stupro non è affatto piacevole, è una cosa terribile con cui convivere anche dopo che è accaduta. Chi ha il diritto di decidere se la vendetta di Jennifer è lecita o non lo è?”25. Zarchi gira il film con pochi mezzi e con uno stile secco e asciutto, con pochi movimenti di macchina, tempi lunghi e senza colonna sonora, mettendo in scena il punto di non-ritorno della 25 Roberto Curti, Il giorno della donna, in Sesso e violenza, il cinema della vendetta, Nocturno Dossier, n.4, Ottobre 2002
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rappresentazione della violenza sessuale. La scena dello stupro, occupa tutta la parte centrale del film e dura quasi quaranta (insostenibili e compiaciuti) minuti. La vendetta successiva di Jennifer (Camille Keaton), relegata nel film a poco più dell’ultimo quarto d’ora, appare però come un atto di pura illusione, o quanto meno elaborato solo a livello mentale. Difatti la prima cosa che lei fa dopo essersi ripresa è mettere in ordine il romanzo che stava scrivendo e che “il branco” le ha buttato all’aria, e sedersi davanti alla macchina da scrivere con un foglio bianco. È comunque interessante notare come, cinicamente e spudoratamente, in entrambe i film, il break-point tra stupro e vendetta sia dato dal momento in cui le due protagoniste si recano in chiesa a pregare e a chiedere il perdono di Dio per il Male che stanno per mettere in atto. Scene che anticipano in maniera spuria e superficiale la radicalità di Ferrara quando fa vestire Thana da suora prima di farle compiere la strage finale. Ms. 45, infine, non è esente dall’influenza esercitata anche dal più famoso rape and revenge movie, quel Death Wish (Il Giustiziere della notte, 1974) di Michael Winner, prodotto da Dino De Laurentiis, grande successo commerciale, e in cui Paul Kersey (Charles Bronson) da placido, pacato e progressista architetto si trasforma in violento e fascista giustiziere dei crimini cittadini, “rinverdendo” i fasti del selvaggio west, visitato precedentemente durante il suo soggiorno a Tucson in Arizona. La molla scatenante del suo cambiamento è data dall’aggressione subita in casa da moglie e figlia, in cui la coniuge viene uccisa e la figlia ridotta, dopo lo stupro, ad un vegetale incapace di parlare e comunicare. In maniera, illusoria e pretenziosa, Winner, fa intravedere nel personaggio di Bronson, quel cambiamento esistenziale (il cui segno più visibile è la tinta gialla data nell’appartamento, oltre l’accoglienza del figlio con la musica ad alto volume), che invece Abel Ferrara struttura e argomenta attraverso la sceneggiatura intellettualmente profonda di Nicodemo Oliverio. Allo stesso modo, il film Ms. 45 è influenzato da Taxi driver (id., 1976) di Martin Scorsese, da cui trae alcuni spunti trascendentali, frutto della sceneggiatura di Paul Schrader. Quest’ultimo, nel film di Scorsese, immette tutta una serie di argomentazioni autobiografiche (la sceneggiatura del film risale al 1970) prese dal suo vissuto personale e dalle sue peregrinazioni notturne in seguito ad un periodo di forte depressione. La sceneggiatura di Taxi Driver è incentrata sul concetto di “disparità”, secondo cui nella vita, può verificarsi un incrinatura reale o potenziale tra l’uomo e l’ambiente, la quale può essere risolta solo attraverso un’azione decisiva. In Taxi Driver, quest’azione, passa attra59
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verso il tentato omicidio del candidato alla presidenza Palantine da parte di Travis Bickle, mentre in Ms. 45, il momento decisivo è quello in cui Thana compie l’omicidio volontario (simbolicamente coincidente con l’orgasmo maschile durante lo stupro subito) del secondo violentatore. Per i due personaggi, inizia un cammino irreversibile verso l’adesione ad un Male che credono risolutore, e al contempo il “momento decisivo” (precedentemente teorizzato da Robert Bresson per i suoi personaggi) coincide con un cambiamento di vita, estetico e psicologico. L’azione decisiva compiuta dai personaggi, ha anche una funzione di catarsi esistenziale, perché spezza la stilizzazione del quotidiano, cioè modifica la banalità della realtà di tutti i giorni, e li conduce ad una accettazione, necessariamente passiva, dei gesti che compiono e delle loro tragiche conseguenze. Sia in Ms. 45, che in Taxi Driver, i due sceneggiatori (entrambi calvinisti) hanno inserito una serie di rimandi al cinema di Robert Bresson, tra cui la visione in soggettiva del mondo e del microcosmo che li circonda da parte sia di Thana che di Travis; l’attenzione, quasi maniacale, all’utilizzo del dettaglio per descrivere le piccole variabili della quotidianità; l’aspetto scarno ed essenziale degli ambienti, necessario per accentuare la potenzialità e la forza del personaggio, infine l’impianto morale, rigoroso e autorevole di entrambi i film, all’interno dei quali tanto Thana che Travis, appaiono esseri “puri e icastici” inseriti in un mondo di dannati, in cui la mancanza di comunicazione, non conta tanto per il contenuto (che non c’è), bensì per la relazione (che non si instaura con gli altri), visto che ciò che non viene detto (per scelta o per necessità, non ha importanza), coincide con l’assenza di comunicazione presente nel microcosmo in cui sia Thana che Travis convivono. A tal proposito sono emblematiche due scene: quella della caffetteria in Taxi driver, in cui Travis, che non ha nulla da dire a “Mago”, “Dollaro” e “Charlie T.” (i suoi colleghi), si limita, con sguardo assente, ad osservare l’ Alka-seltzer che si scioglie nel bicchiere; quella in Ms. 45, in cui Thana, dopo il secondo stupro, osserva allibita e straniata (con conseguente bruciatura della camicetta che sta stirando) il disprezzo con cui Albert si rivolge alle sue dipendenti per un lavoro non compiuto a dovere. Anche nell’ironia i due film sono contigui, come dimostra il monologo (recitato in prima persona dallo stesso Scorsese) sotto l’abitazione della moglie fedifraga, che fa il paio con il racconto di “tradimento lesbico” subito dalla moglie, del commesso viaggiatore nel bar presso il ponte di Manhattan nel film di Ferrara. Ms 45 è un film senza amore. Un film dove i personaggi vivono esistenze squallide e dove il sesso, 60
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più parlato che praticato, è espresso: solo come pettegolezzo, o attraverso l’uso della violenza. La città, New York, è un bolgia infernale dove le persone o vanno di fretta o sono tagliate fuori. Le strade sono costellate di energumeni di tutte le razze, fannulloni senza né arte né parte, pronti solo a fare apprezzamenti volgari per abbordare le donne (adeguatamente mostrati attraverso la soggettiva di Thana). Ferrara, per aumentare il tasso di vacuità ed effimero della società contemporanea, ambienta il film nel mondo della moda. Nell’atélier, Albert, è un uomo spocchioso e arrogante, interessato esclusivamente a fare buona figura con i clienti, e le sue “sartine” (così le chiama lui) sono donne superficiali e pettegole illuse di poter fare grandi conquiste, ma in realtà frustrate da un’esistenza senza gioia. In mezzo a questa realtà disgregata, Thana, è l’essere “puro” chiuso in un universo tutto personale, generato probabilmente o da un trauma infantile (come suggerisce uno strano flashback sonoro) o da un’educazione fortemente repressiva. A questo proposito è lo stesso regista a non voler dare spiegazioni per poter mantenere un atteggiamento ambiguo e acritico nei confronti della sua protagonista. È interessante notare come Ferrara tenda a costruire attorno a Thana una pseudo-famiglia: dove la signora Nasoni ha la parte della madre e dove il secondo stupratore interpreta quella del padre. Con grande abilità il regista sintetizza questa situazione nelle tre inquadrature successive all’omicidio del ladro-violentatore: la signora Nasoni che cucina le uova, l’uomo sdraiato sul letto come se dormisse, e Thana rannicchiata in se stessa sul divano come una bambina che ha appena commesso una marachella. Dunque, è dalla famiglia che nascono la frustrazione e il malessere di Thana: e i due stupri nel giro di poco tempo diventano l’elemento scatenante delle tensioni represse. Tensioni legate, oltre che all’educazione alla sua stessa femminilità. Come ci ricorda l’antropologo René Girard, infatti, i “mestrui vanno considerati nel quadro più generale dello spargimento di sangue”: La sua fluidità concretizza il carattere contagioso della violenza. La sua presenza denuncia l’uccisione e fa appello a nuovi drammi. Il sangue imbratta tutto quello che tocca dei colori della violenza e della morte. Ecco perché esso “grida vendetta.26 Ruolo della famiglia e problematiche dell’universo intimo femminile, oltre ad una, imprevista, involuzione psicologica che rimandano all’altra fonte ispiratrice, quella più pregnante di Ms. 45, cioè Repulsion (id., 1965) di Roman Polanski. Il percorso di 26
Renè Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 2003, p.56
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Carol Ledoux (Catherine Deneuve) non è dissimile da quello di Thana, anche Carol è straniera (proviene dal Belgio), così come alcune scene e molti elementi filmici rimandano direttamente al film di Ferrara, anche la psicologia (e la patologia) della donna richiamano l’instabilità psicologico-emotiva di Thana. In entrambe i casi c’è un trauma d’origine, e la famiglia con i suoi presunti “orrori”, come detto, gioca un ruolo rilevante, mentre l’ambiente e lo spazio condiviso dalle due donne è soffocante, persuasivo e opprimente. Ma mentre Polanski attua un processo involutivo e retroattivo su Carol, chiudendola nel suo appartamento (modificato visivamente dall’uso del grandangolo) facendolo diventare uno spazio asfittico (l’oscurità, il soffitto incombente) e un guscio di protezione dall’ esterno, Ferrara, fa, letteralmente, esplodere il dolore di Thana e la spinge sempre più fuori dal suo appartamento (deputato ad essere solo più il luogo in cui custodire e proteggere i propri peccati) per farla muovere in una notte impenetrabile, in cui la sua figura “inesistente” agli occhi degli altri (perché muta e quindi diversa) si trasforma in un fantasma vendicativo, un angelo al contrario (per parafrasare il titolo internazionale del film) vestito di nero, sexy e seducente che agisce come una mantide religiosa e diffonde il Male al posto del Bene. In Repulsion, la discesa di Carol verso la dissociazione psichica è scandita secondo le regole dell’ escatologia cristiana ed è orchestrata attraverso l’influenza, sempre più invasiva con il progredire del film, del microcosmo aggressivo in cui la donna è “obbligata” a vivere. Le crepe che si aprono nei muri della sua abitazione, sono la visione della sua psicologia alterata, ma sono il simbolo del mondo in disgregazione che la contorna, e non sono dissimili dalle voragini delle strade londinesi nei cui cantieri operano uomini aggressivi e volgari che importunano Carol mentre cammina per la strada (allo stesso modo, e in soggettiva, come i vitelloni di Ms.45). La famiglia in Repulsion non è un luogo sicuro, sia per la presenza indesiderata di Michael (l’amante della sorella verso cui Carol prova attrazione e repulsione), sia per oscuri e irrisolti complessi (che rimandano agli stessi del flashback di Ms. 45), sedimentati nel passato dell’infanzia, come si evince tanto dalle visioni della donna quanto dallo zoom finale sul dagherrotipo di famiglia. Il rifiuto del mondo, sia per Carol che per Thana coincide con il rifiuto del sesso, perché esso proviene da traumi che al contempo esercitano sulla loro psiche orrore e attrazione. Il ragazzo invaghito di Carol e il padrone di casa penetrano nella sua casa (e quindi nella sua intimità) con la forza, entrambi sfondando la porta, e con il loro gesto violento scatenano la schizofrenia di 62
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Carol che li “allontana” e si difende uccidendoli. (da notare che la donna usa il candelabro come Thana il ferro da stiro e che Polanski e Ferrara adottano la stessa inquadratura dal basso per mostrare il reiterarsi dell’azione omicida). I due uomini di Repulsion collimano con i due di Ms. 45, tanto il primo stupratore che il ladro penetrano con la violenza l’intimità di Thana (non a caso la sequenza è costruita sul montaggio parallelo tra stupro e intrusione del ladro), ma qui è solo il secondo ad essere ucciso. È come se il primo stupro fosse frutto della fantasia e del desiderio della donna e non un atto reale, come dimostra la costruzione della scena, in cui il gesto, viene mostrato dopo che la donna uscita dal supermercato, (in cui ha comprato della carne) viene aggredita da un uomo, il cui volto è deformato e “mostruosizzato” da un cellofane, che sbuca dall’oscurità e dal fuori-campo, in sequenza ad un lungo carrello che insiste nel riprendere il banco della carne. Solo allora Thana, dopo aver subito la seconda violenza (quella reale), e cioè nel momento in cui il mondo esterno (il ladro) sfonda le barriere del recinto “sacro” (l’appartamento) per violare la sacralità della persona, la donna prende consapevolezza di dover passare dalla tesi alla prassi. Nonostante il primo delitto, quello del rockabilly, sia casuale (non è casuale invece il fatto che sia ambientato all’aperto e in pieno giorno), Thana è consapevole del fatto che la violenza è liberatrice solo se attuata attraverso un processo demistificatorio del maschio e mediante l’estrinsecazione della sua coscienza di fronte a Dio. Fatto dimostrato dall’inquadratura a plongèe nell’appartamento della giovane, dopo il sezionamento del cadavere, in cui è come se l’occhio di Dio osservasse il peccato di Thana (tesi sostenuta da molti critici), che coincide con la stessa inquadratura di Taxi driver, in cui Travis è mostrato sdraiato sul letto. Un entità superiore, tanto in Repulsion, quanto in Taxi driver che in Ms. 45, governa le vite dei protagonisti e giudica i loro peccati, in funzione appunto dell’escatologia cristiana e della vita “altra” che li attende dopo la morte. Così come l’inquadratura a plongèe che mostra Thana in posizione fetale dopo il primo stupro rimanda alle stesse posizioni di Carol nel letto della sua camera e ad un momento “simbolico” di rinascita. In Ms. 45, la Sig.ra Nasoni con il cane Philly, è duplicato della Sig.ra con cagnolino dirimpettaia di Carol che assiste, con interesse morboso, sul pianerottolo alla discussione tra la donna e il suo spasimante. Carol e Thana, sono simili anche nelle scelte e nelle azioni: entrambe nascondono i cadaveri nella vasca da bagno (Thana lo fa anche a pezzi), si rotolano nel letto in preda a spasimi e incubi a sfondo sessuale, si mettono il rossetto davanti 63
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allo specchio dopo aver ucciso (anche l’inquadratura, un primo piano laterale, è identica), rivedono nello specchio (Carol in quello della camera, Thana in quello del bagno) i loro “fantasmi” stupratori, lavorano in ambienti vacui e appariscenti (estetista per Carol, atelier di moda per Thana) e infine ricevono dai superiori gli stessi rimproveri per la loro prolungata e inspiegata assenza dal lavoro. La padrona del centro estetico in cui lavora Carol: “Qui siamo tutte per lavorare, non per riposarci...Non puoi sparire così per tre giorni ..è anche scorretto per le tue colleghe. Per caso...non sarai mica nei pasticci?...ma perlomeno potevi telefonare. Carol, io non ti posso aiutare se non mi dici di che si tratta”; Albert, riprende così Thana: “È da venerdì pomeriggio che non ti sei fatta pùi viva. Ti rendi conto di ciò che abbiamo potuto pensare? A parte la slealtà di aver obbligato le altre a finire il tuo lavoro, ci hai tenuto con il fiato sospeso per la paura che fosse successo qualcosa di male. Potevi almeno chiedere alla signora nasoni di telefonarci”. Anche se la reazione delle donne al rimprovero, è diversa, il risultato è pressochè lo stesso: Carol ferisce una cliente mentre Thana assume atteggiamenti maliziosi e sguardi conturbanti nei confronti di Albert, ma entrambe assumono comportamenti destabilizzanti e inconsueti. La violenza e l’omicidio sono esperienze sconvolgenti, al punto che in Thana si genera una reazione biunivoca: da un lato, facendo a pezzi il cadavere e sparpagliandolo per la città vuole coinvolgere e contagiare gli altri al suo disegno di morte, dall’altro assume su di sé l’orrore generato, e subisce una mutazione che la porterà inevitabilmente verso un destino segnato. Entrambe le scelte avvengono attraverso la messa in scena di un rituale ripetitivo ammantato di “sacro”. I pezzi del corpo, chiusi nei sacchi neri, vengono metodicamente e lentamente lasciati in ogni dove in un’operazione che si ripete giorno dopo giorno, e che nel proseguire del film diventa sempre più intima. Qui Ferrara gioca abilmente con l’auto-citazione, l’ironia, e lo sberleffo, prima facendo trovare un pezzo di corpo ad un barbone che cerca invece solo del pane (The Driller killer), poi mostrando Thana che deposita un “pacco” nel bagagliaio di una macchina in sosta e il cui proprietario è in partenza per la Georgia (come mostra il dettaglio della targa) e infine, con crudele cinismo, fa vedere Thana che trita un pezzo di carme umana per offrirla la cagnolino della Sig.ra Nasoni. In mezzo a tanto orrore, però, il regista newyorkese spiazza lo spettatore, mostrando Thana come un esser “puro” (talvolta persino vittima ingenua delle situazioni), mantenendo una problematica ambiguità di fondo in tutta la vicenda: non si spiega altrimenti la scelta di 64
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mostrare Thana, impacciata, nel traffico e incapace di portare a passeggio Philly, prima di abbandonarlo sulle rive dell’Hudson, puntargli contro la pistola (non mostrarne l’eventuale uccisione) per poi, successivamente mostrare la “bontà” di Thana, nell’ultima scena del film con il ritorno del cane scodinzolante davanti alla porta della Sig.ra Nasoni. La mutazione invece, inizialmente è rifiutata (l’uccisione della prima vittima, il rockabilly, avviene solo per paura), poi poco alla volta, Thana sembra prenderne coscienza e non è più disposta a reprimere la sua rabbia in parallelo alla sua femminilità. Si trasforma quindi prima in una dark-lady truccatissima e sensuale, poi, prima della strage finale al party, in una suora seducente e ammiccante. Il primo segno di cambiamento è mostrato, fuggevolmente, attraverso l’inquadratura degli stivali ai piedi di Thana una volta uscita dall’ufficio di Albert, mentre il primo omicidio “cercato” è quello del fotografo di moda, ripreso da Ferrara con una serie di stacchi velocissimi e brutali coincidenti con i colpi sparati dalla donna, pistola tesa davanti a lei, impugnata con due mani e sulla stessa direttrice della bocca, come a sancire la sovrapposizione tra proiettili e parole. La trasformazione di Thana, a differenza di quella di Carol, segue coordinate batailliane e unisce la trascendenza con la prassi, la blasfemia con la seduzione. Come sempre in Ferrara, il sacro attrae e ripugna allo stesso tempo, e Thana, come il Reno di The Driller killer è destinata a non trovare la redenzione, ma anzi, in un finale beffardo, andrà incontro alla sua nemesi sia come suora sacrilega, sia come donna. Ciò che nella tentazione ossessione il religioso, è quello di cui ha paura. È nel desiderio di morire a se stesso che si traduce la sua aspirazione alla vita divina; ha così inizio una trasformazione perpetua in cui ogni elemento si muta nel suo contrario.27 Thana dunque, da sartina muta e pudica, diventa una suora sensuale e omicida. Questo processo è innescato dal secondo stupro, momento in cui il Male è “penetrato” dentro di lei (attraverso lo sperma dell’uomo), e in cui la donna, a partire da quel momento non può evitare né di subirlo né di perpetrarlo. Nel finale del film, il Male prende forma “sacra e blasfema” attraverso la maschera di Thana vestita da suora sexy. Abel Ferrara mette in scena una sorta di comunione blasfema attraverso il rituale di Thana che bacia le pallottole prima di inserirle nel caricatore. Il primo piano della suora, è seguito da un’inquadratura mezza figura in cui Thana si porta la mano alla bocca come a sottolineare la sua afonia, e in sequenza prova davan27
George Bataille, L’Erotismo, SE Milano, 1997, p.215
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ti allo specchio le dinamiche della strage che sta per compiere (qui Ferrara replica la scena dello specchio di Taxi Driver). La sequenza si chiude con Thana che si alza in piedi, mostrando integralmente il suo sexi abbigliamento, tende la pistola davanti a lei impugnandola con due mani e sulla stessa direttrice della bocca, e la rivolge verso gli spettatori; poi uno stacco repentino introduce la festa in maschera dai caratteri gotici e orrorifici. Quella finale, è una sequenza, in cui Abel Ferrara mette in scena la parodia del Luna Park, attingendo a piene mani tanto dall’immaginario di Edgar Allan Poe, quanto dalla tradizione horror del cinema americano per rendere, una sorta di omaggio psichedelico a La règle du joux (La regola del gioco, 1939) di Jean Renoir, sostituendo, come simbolo di morte, la suora allo scheletro. La dance macabre di Ferrara, è costruita su un registro ammiccante e grottesco, in cui le maschere diventano caricature degli inconsistenti personaggi di contorno che popolano il film (e come nel film di Renoir una sfilata della società), e in cui è possibile intravedere tutta una serie di figure tipiche (nel bene e nel male) dell’immaginario americano: il cow-boy, la palla da baseball, il gangster, il giocatore di football, il finto gay e il clown. La festa, che fino ad un certo punto altro non è che un baccanale volgare e sguaiato, dopo il primo colpo sparato da Thana assume i crismi di una messa funebre con tanto di organo in sottofondo mescolato a grida e ululati. Così come in The Funhouse (Il tunnel dell’orrore, 1980) di Tobe Hooper, il luna-park da luogo di svago e divertimento diventa luogo di morte dove il “mostruoso” emerge di notte nel sottosuolo a minare la sicurezza della provincia americana, così in Ms.45 il “mostruoso” viene generato e alimentato da una festa ambigua e perversa annullando la sicurezza dei suoi partecipanti. Sicurezza che nel film di Ferrara, viene meno con l’inizio della mattanza da parte di Thana. Questo passaggio è sottolineato dal regista sia attraverso l’uso della musica, sia attraverso un differente stile di ripresa in cui da movimenti fluidi e circolari, si passa ad un ralenty esasperato e nervoso. La messa in scena dunque è ancora una volta quella del rituale: prima Thana viene portata di sopra da Albert che vuole possederla, ma una volta alzata la veste sacra, mentre una croce cade sul monte di menere, impugna la pistola che tiene nel reggicalze e uccide l’incredulo padrone dell’atélier. Lo sparo rimbomba nella sala, dove si diffonde il panico ed inizia un fuggi fuggi generale. Qui Thana, una volta scesa nella folla comincia a fare strage di maschi, in un macabro balletto che sa di cerimonia, fino a quando non viene inquadrata con la ragnatela dietro le spalle. Poiché il 66
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ragno nell’antica Grecia rappresentava la caricatura della divinità, mentre Thana è solo una donna, la sua rabbia si affievolisce ed è come se si sentisse esautorata dal proprio ruolo. A questo punto Laurie impugna un coltello e appoggiatoselo tra le gambe come un fallo (ma posizionato sul monte di venere), trafigge alle spalle il corpo di Thana. In seguito alla pugnalata Thana si gira di scatto e incredula pronuncia con disappunto la parola “sister”: non pensa che un’altra donna possa fermarla, a maggior ragione visto che lei si è erta a paradossale portavoce dell’intero universo femminile. In questo finale beffardo, la voce di Thana (quella cioè della sua calibro 45) è zittita da una “sorella” (così Laurie vine appellata precedentemente dal fotografo) che non accetta la violenza e il furore con cui la sartina arbitrariamente uccide i maschi. Thana rimane incredula perché non capisce come una donna come lei non possa unirsi alla sua voce. Se questo finale allontana il film dalle accuse di essere una pellicola femminista, è certo che la donna e la sua femminilità sono al centro delle tematiche che lo attraversano. Il continuo rimando alla circolarità (il cerchio come simbolo della donna) e l’introduzione di questa figura geometrica nel film sono un continuo rimando all’universo femminile possono essere spiegati solo attraverso le dinamiche delle società primitive: non a caso la scena del cerchio e dei quattro omicidi a Central Park è orchestrata come un chiaro omaggio a The Warrior (I guerrieri della notte, 1980) di Walter Hill, e alle letture psicanalitiche secondo cui la casa degli uomini è piantata come un fallo nel cerchio femminile.28 Nicodemo Oliverio, scrivendo il film, ribalta completamente questo teorema e mette la donna al centro del cerchio, mentre gli uomini ne occupano la circonferenza: grazie all’inquadratura dall’alto si può notare il cerchio composto dalla pavimentazione della piazza e la donna al centro che, semplicemente ruotando su se stessa comincia a sparare uccidendo i giovani uno dopo l’altro senza dargli la possibilità di penetrare all’interno della circonferenza. Il personaggio ambiguo e complesso di Thana, in definitiva può essere visto come l’alter-ego femminile del Reno di The Driller killer: entrambi uccidono a causa della pressione esercitata dall’esterno; entrambi sono diversi e inconcilianti con il mondo in cui vivono; entrambi sono vittime e colpevoli al contempo e traumatizzati da una violenza che non sanno spiegare; infine entrambi sono letture “allucinate” ma autobiografiche del primo periodo artistico ed esistenziale del regista di New York. 28
Renè Girard, op. cit., pp.198-199
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Ms. 45 – Recensione Nicodemo Oliverio scrive e Abel Ferrara dirige. Solo in The addiction e in The funeral, la simbiosi tra i due autori raggiungerà le stesse vette artistiche e morali di Ms. 45. Bastano settanta minuti di orologio, non uno di più, per costruire questa parabola intrisa di rigore bressoniano che, nella sua semplicità, dimostra tutta la capacità artistica del cineasta newyorkese. Essenziale, “povero” (e mai come in questo caso è un pregio), intriso di cultura cattolica e di anarchia intellettuale, Ms. 45, si rivela come il film della maturità cinematografica piena e profonda di Abel Ferrara. Persino le parole sono inutili in un film che vive attraverso immagini iconiche, scisso nel dualismo femminile tra “madonna e puttana” e costruito in maniera viscerale e passionale attorno ad un antieroina ambigua e affascinante. La scelta di rendere muto il personaggio di Zoë Tamerlis, va di pari passo con quella di costruire attorno a lei un teatrino, cinico e grottesco, in cui sui muovono personaggi monocordi che hanno lo spessore di burattini. Il surrealismo di certe scelte (l’architettura figurativa del film) e il pragmatismo di altre (le implicazioni psicanalitiche del personaggio) sono equamente da spartire tra due mentori del regista: Luis Buñuel e Roman Polanski. Il cinema europeo, con l’aggiunta di Renoir e Bresson agisce da archetipo nella costruzione di un film in cui, solo apparentemente, certi passaggi sono derivativi. In realtà Oliverio e Ferrara operano uno stravolgimento ed un’estremizzazione tale dei caratteri da rendere i personaggi dal film niente altro che una lunga serie di maschere che sfilano in ossequio di fronte ad una divinità discutibile: Thana. La scelta della rappresentazione della violenza attraverso immagini secche, veloci e sfuggenti, così come quella di concentrare in due scene di accumulo (più la lunga sequenza finale) gli omicidi di Thana, coincide con l’esigenza di concentrare l’ attenzione sul “diverso” e sulla sua frustrazione causata da tale “diversità”: per questo Thana non solo ha una psicologia complessa, ma esprime una pericolosa fascinazione, perché vuole essere la personificazione del “peccato originale”, quello comune a tutti gli uomini e le donne (non solo di fede cattolica), perché legato alla sessualità. L’immaginario notturno, con gli “animali metropolitani” peggiori che escono dalle loro tane per compiere il Male, si adatta perfettamente alle azioni di morte di Thana, la quale proprio perché “diversa” non viene considerata dalla società (neanche da quella diurna, se non per rimproveri e violenze), e pertanto può sorprendere e spiazzare, uccidere e scomparire come un fantasma. Non può dunque esserci redenzione per una 68
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come lei, almeno a livello pratico, mentre teoricamente (come dimostra il finale) la sua purezza non è scalfita dal suo agire, perché legata alla sua natura “angelica”. In quest’ottica le sue azioni appaiono come necessarie e purificatrici e questo è ancora più spaventevole e inquietante degli omicidi stessi. Laurie, infatti, pone fine alla vita di Thana, ma non al germe del contagio che lei ha diffuso lungo le arterie della città. Il Male è persistente ed è intrinseco alla natura umana, questo sembra in definitiva chiosare Oliverio con quell’urlo (l’unico del film) uscito dalla bocca “mostruosamente grande” di Thana al momento della sua morte (quasi una replica del quadro di Edward Munch).
Ms. 45 – Sondaggi critici In Ms. 45 (un film il cui stesso titolo si è rivelato eccessivo per molte platee), Ferrara aiutato dalla presenza della formidabile Zoë Tamerlis fornisce una lettura rigorosamente femminista del sempre problematico genere della “vendetta per lo stupro”. Il film palesa la serietà con cui affronterà il soggetto nel suo trattamento degli stupri iniziali. Quantunque tali episodi siano profondamente scioccanti essi impressionano a causa della loro repentinità e della mostruosità degli atti. Ferrara presenta i due distinti assalitori come esempi semplicemente meno controllati di atteggiamenti condivisi non soltanto dalla ciarliera gente di strada, ma dal fotografo dall’eloquio mellifluo, dal paternamente lascivo Albert, dal piazzista di scarpe che ammette orgogliosamente di aver reagito alla scoperto della bisessualità disua moglie strangolandone il gatto. Con tale implacabile parata di personaggi maschili sgradevoli, il film ha poco bisogno di esplicita violenza sessuale per sostenere i propri assunti. KIM NEWMAN, MONTHLY, FILM BULLETTIN, NOVEMBRE, 198429 Il film è costruito dalla descrizione delle esecuzioni, manca qualsiasi approfondimento psicologico. Thana è pazza, evidentemente impazzita a causa delle violenze subite, ma non si tenta neppure disfiorare il mistero di quella improvvisa totale alienazione. Il regista prende lo spunto-pretesto da essa per confezionare lo spettacolo da una serie di situazioni che si ripetono secondo un clichè unico con esito ripetitivamente prevedibile. Il pessimo gusto di ripugnanti particolari (vedi le scene dello squartamento e del tritacarne!) è insufficientemente motivato dalla volontà di allenarsi a certa moda corrente di soddisfare l’intorpidito palato di 29 In
Pietro Baj, op. cit.
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mentecatti cinefili. Nasce il sospetto che la pazzia di Thana, descritta senza il minimo distacco ironico non sia una malattia esclusiva della giovane protagonista. Unico sfuggito alla strage è Philly, il cagnolino della signora Nasoni. se può compensare la noia provocata dall’inutile ecatombe si sappia che questo è l’unico lieto imprevisto di un film violento, discutibile, non utilizzabile. ADELIO COLA, EDAV, N.95, 1982 Rozzo, con consapevolezza nella sua cifra stilistica (cui appartiene anche la concreta fotografia di James Momel) l’angelo della vendetta rivela le doti di una giovane bella attrice, Zoë Tamerlis, che aderisce con perfetta volgarità psicosomatica al folle personaggio che semina terrore senza dirci perché. Ci resterà nella memoria, come questo film “iper” e un po’ folle, affascinante e ignorante, veloce come la lama dei coltelli che affila nel buio. MAURIZIO PORRO, CORRIERE DELLA SERA, 31 AGOSTO 1981 Ms. 45 racchiude già tutti i migliori elementi del cinema di Ferrara e St. John. La protagonista è muta e l’andamento del film alterna quindi la violenza al silenzio o alla chiacchiera degli altri che affonda nel vuoto. Le scene di morte sono condotte senza batter ciglio fino alle conseguenze più macabre (cadaveri da smembrare e gettare nell’immondizia, da cui riemergono pezzo per pezzo a disturbare i vivi). Lo stile visivo è scarno eppure inventivo, con un’irresistibile predilezione per i notturni e un’intera scena finale in slow-motion. Il senso del delitto e della punizione che permea il film risente di un’educazione cattolica tanto pesante quanto radicalmente divaricata dalla realtà quotidiana: Ms. 45 si veste da sexy suora prima dell’ecatombe finale ed è come un’immagine fuori controllo schizzata fuori da questa distorsione culturale. ALESSANDRO CAMON, CATALOGO, MYSTFEST XII, 1991
The beds (1982) Nei quattro anni che intercorrono tra Ms. 45 e Fear City (Paura su Manhattan, 1984), Ferarra e Nicholas St. John rimangono praticamente inattivi. Lavorano ad alcune sceneggiature, tra cui Birds of Prey: storia di fantascienza ambientata in una New York del futuro dove avviene una violenta 70
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rivoluzione contro uno stato-azienda; tutto però resta sulla carta e questo script come tanti altri, non diventerà mai un film, almeno per ora. In questi quattro anni, Ferrara realizza solo un lungo video girato nel 1982 per un gruppo musicale chiamato “The Beds”. Il video è realizzato per MTV ed è prodotto da Mary Kane, la quale all’epoca vive assieme a Ferrara e Oliverio in una casa in Laurel Canyon. Il video “The Beds” contiene una serie di canzoni del gruppo della cantante Merle Miller e numerosi balletti. La sorella della cantante del gruppo è Leslie Miller, autrice all’epoca di alcune hit del momento, mentre Merle in quegli anni collabora con Barry Manilow e Bette Midler. Oltre a rappresentare l’inizio della collaborazione (poi abituale) tra Abel Ferrara e Mary kane, sul set, grazie a degli amici comuni, avviene anche l’incontro tra il regista e Randall (Randy) Subusawa, che lavora come assistente alla regia in Fear City e poi, nei successivi sedici anni, sarà uno dei collaboratori fissi (in vari ruoli) del regista newyorkese.
Fear city (1984) New York, di notte, vista dall’alto. In un locale di strip-tease, gestito da un certo Mike (Michael V. Gazzo), i titolari di un’agenzia di spogliarelliste, devono riscuotere la quota pattuita per la fornitura delle ragazze. Matteo Rossi (Tom Berenger), detto “Matt” e Nicholas Piacenza (Jack Scalia) sono i soci proprietari dell’agenzia Starlite, e il primo ha avuto una relazione, da poco interrotta con Loretta (Melanie Griffith) la star del locale di Mike. Nella notte una ragazza viene aggredita brutalmente da uno sconosciuto, mentre Matt, terminato lo spettacolo di Loretta, la raggiunge nel suo camerino, ma non entra perché la vede intenta a baciarsi con Leila (Rae Dawn Chong) una sua collega. Matt, dopo essere tornato a casa, non riesce a dormire, e mentre guarda fuori dalla finestra gli torna alla mente il suo passato di ex-pugile: si è ritirato dopo aver ucciso un avversario durante un combattimento. La morte di Kid Rio alimenta il senso di colpa dell’uomo, il quale avrebbe voluto sospendere l’incontro. Mentre Leila e Loretta trascorrono la notte assieme, Matt e Nicky si recano al Saint Vincent Hospital a trovare Honey (Ola Ray) la ragazza aggredita a cui il maniaco ha amputato alcune dita. Matt si reca in un locale a cui fornisce le ragazze per riscuotere un altro pagamento. Mentre è seduto al tavolo con il titolare Frank (Joe Santos) entra il detective Al Wheeler (Billy Dee 71
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Williams), il quale crede che l’aggressione sia una ritorsione nei confronti di Matt. La sera successiva, dopo l’esibizione in un locale, è Leila ad essere aggredita in una stazione della metropolitana: la donna viene ferita al capo, alle braccia e alla gambe e abbandonata in fin di vita. Il killer, Pazzo (John Foster), vive in un loft spoglio e fatiscente e pratica arti marziali. Mentre Loretta è sconvolta per la condizione di Leila, poco alla volta, le ragazze della Starlite decidono di non recarsi più al lavoro a causa delle incursioni di Pazzo. Nicky consiglia a Matt di impugnare le armi e di scovare il maniaco, ma questi, dopo un primo momento, rinuncia all’uso della forza e getta la pistola in mare. La sera dopo Matt e Loretta vanno a trovare Leila in ospedale, poi si recano sulle rive dell’Hudson; qui l’uomo regala un ciondolo alla donna, i due si baciano e poi si recano a casa assieme e fanno l’amore. Nel frattempo, un’altra spogliarellista, Silver (Maria Conchita Alonso) viene uccisa in casa sua. Il giorno dopo Matt riceve una telefonata da Don Carmine (Rossano Brazzi) un mafioso di Little Italy che agisce da tutore nei confronti del ragazzo. Un flash-back mostra l’origine di questo rapporto: il piccolo Mattfa lo shoe-shine, assiste all’omicidio selvaggio di due mafiosi, e rimane in silenzio. Loretta, assiste impotente alla morte di Leila, e sconvolta si reca da un pusher per comprare una dose e ricomincia a drogarsi. Pazzo continua a scrivere le sue gesta nel diario che porta il titolo di Fear City. Un’altra ragazza, questa volta appartenente alla scuderia di Goldstein (Jan Murray) viene uccisa in Central Park. Goldstein organizza un incontro con Matt e Nicky e insieme decidono di proteggere loro le ragazze stanziando una cifra settimanale di duecentocinquanta dollari a testa. Successivamente Nicky si reca nel locale semi deserto di Frank, e mentre è in bagno, vede che un uomo di fianco a lui ha un taglierino nella tasca interna della giacca. Pensando che sia l’assassino, organizza una trappola con una delle ragazze: lo porta in cucina e lo aggredisce. Nel frattempo giunge Matt a dargli una mano, ma Nicky si accorge che l’uomo che stanno quasi uccidendo è solo un semplice architetto di passaggio. Un’altra donna viene decapitata da un colpo di katana. Wheeler arresta Matt e lo colpisce a sangue freddo durante l’interrogatorio. Dopo l’ennesima aggressione ai danni di Ruby (Janet Julian), la compagna di Nicky, Matt prende la decisione di essere lui a dover affrontare apertamente Pazzo. Il suo amico Nicky è finito in ospedale in seguito ai colpi di karate ricevuti dal maniaco la sera precedente. Matt esce dal carcere su cauzione, si reca da Don Carmine per ricevere la sua benedizione e poi in Chiesa per chiedere perdono del male che sta per commettere. Loretta esce per comprarsi un’altra dose, ma trova il pusher impiccato fuori dalla finestra, viene aggredita da Pazzo ma riesce a fuggire. Pazzo e Matt si affrontano nell’ultimo duello nella strada del pusher, dove il maniaco viene ucciso dai pugni dell’ex-pugile. Matt e Loretta si baciano nell’abitacolo di una macchina della polizia. 72
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Fear City (Paura su Manhattan, 1984) si basa su una sceneggiatura scritta da St. John nel 1975, nel periodo tra Could this be love e Nine lives of a wet pussy. Il soggetto del film viene dalla cronaca: nel 1975 uno strano personaggio attratto dalle spogliarelliste le attirava in un motel spacciandosi per produttore hollywoodiano, le spogliava, le rubava i vestiti e scappava. Questo individuo diventa, nel film, un serial killer filosofo che aggredisce e sfregia le ballerine, e annota tutto quanto su un diario che porta il titolo appunto di “Fear City”. “Il personaggio è si un killer, ma è anche il fior fiore della filosofia. In Fear City egli dimostra che ormai Dio è morto. E il mondo amorale è ormai sorto.30 Oltre a ridimensionare il personaggio del folle e ad eliminare i dettagli delle sue letture (Così parlò Zarathustra di Nietzsche, Delitto e Castigo di Dostoevskij e L’origine della specie di Darwin), la produzione riduce le scene degli agguati tagliandone i particolari più crudi ma realistici e necessari per inquadrare la psicologia del killer, che attraverso la violenza vuole purificare il mondo. Il personaggio di Loretta interpretato da Melanie Griffith è ispirato alla Baybi Day (che avrebbe anche dovuto interpretarlo), attrice in The Driller Killer , una tossicodipendente che ballava veramente nei nights, morta per overdose, prima dell’inizio della produzione del film. Il personaggio di Matt, è un’attualizzazione dell’apostolo di Gesù; S. Matteo infatti prima di essere discepolo di Cristo era un pubblicano che si occupava dell’esazione delle tasse: Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte chiamato Matteo e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì.31 I conflitti tra Abel Ferrara e il produttore Bruce Cohn Curtis nipote del fondatore della Columbia Pictures Harry Cohn, hanno avuto luogo quasi quotidianamente. A quel tempo, Bruce Cohn Curtis, che ha fornito al regista un budget di cinque milioni di dollari e l’opportunità di presenziare al Marchè di Cannes, ama definirsi “produttore-autore”, ed è particolarmente attento alla vendita televisiva del prodotto, per cui impone al regista di limitare al minimo le scene di nudo e di decurtare il più possibile i “fuck” presenti nei dialoghi. Lo stesso Ferrara, ammette, che queste imposizioni hanno stravolto l’impianto del suo film, ma ammette anche che in certi casi vi hanno giovato. Egli ricorda di aver gira30 Nicholas St. John, Catalogo Mystfest XII, 1991, in Pietro Baj (a cura di) Abel Ferrara, Dino Audino editore, Roma, 1997, p.21 31 Mt. 9, 9-10
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to per Fear City, due scene di sesso esplicito: una di un rapporto lesbico tra Melanie Griffith e Rae Dawn Chong, l’altra tra la stessa Griffith e Tom Berenger, le quali però non vennero mai inserite in nessuna versione del film. La descrizione delle scene è nel ricordo del direttore della fotografia James Lemmo: “Erano entrambi molto calde per gli standard dell’epoca, e credo che questo sia il motivo per cui sono state tagliate, ma non ne sono certo. Vorrei sapere dove sono finite, sicuramente Bruce le ha ancora. Quando abbiamo iniziato le riprese della scena d’amore tra Berenger e la Griffith, era chiaro che l’atmosfera si stava surriscaldando: un luogo chiuso, due attori di talento e di grande ricerca, e Abel nel pieno della frenesia registica: si passava le mani tra i capelli, camminava velocemente intorno al letto, cercava l’angolatura giusta... Poi, sorprendentemente, chiede che una bottiglia di liquore venga portata sul set. Cerchiamo di capire cosa vuole ottenere, faceva già abbastanza “caldo”, ma Abel sa cosa sta facendo, e chiede una bottiglia di Black Label o Jack Daniels. Iniziano le riprese, Abel dice qualcosa come “Yeah, Yeah”, prende la bottiglia, rompe il sigillo e comincia a bere lunghe sorsate, tutto diventa frenetico e incredibile, lui urla, urla, mentre Griffith e Berenger non hanno mai bevuto una goccia “.32
Il finale del film è imposto da Bruce Cohn Curtis, mentre l’originale della sceneggiatura di St. John, prevede che Matt Rossi venga portato in prigione e una volta in cella, viene incalzato dal detective Al Wheeler: “Credi di essere un eroe?”, e Rossi risponde “No...e da molto tempo...”; il film si chiude con Rossi in manette scortato da due poliziotti. Il finale presente nel film, invece si svolge in strada, le battute sono simili tra il detective: “Chi ti credi di essere Rossi?... un eroe?..” e l’ex pugile: “No..un uomo...nient’altro”, ma l’ultima scena è un primo piano, ridicolo e ipocrita, del bacio tra Loretta e Matt, mentre il detective dice: “Portatelo a casa”. Con Fear City, dunque, ci si trova davanti ad un’opera monca, dove non mancano sequenze efficaci ed espressioni della poetica ferrariana, ma il tutto viene inevitabilmente fagocitato da una troppo rimarcata riconoscibilità di genere. Le imposizioni del produttore, compreso il finale posticcio e accomodante, hanno snaturato quest’opera che chiude la “trilogia metropolitana” del regista. Matt a differenza dei precedenti Reno e Thana, non è un solitario 32
Brad Stevens, Abel Ferrara: the moral vision, Fab Press, Londra, 2004, pag 78
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immerso nelle sue ossessioni, ma è una persona che vive il suo senso di colpa e la sua inadeguatezza inserito in un gruppo; l’agenzia “Starlite” infatti, è come una famiglia composta dalle danzatrici che lui mantiene, dal suo socio Nicky e dal fedele impiegato Harry. Fear City si apre su squarci di dolore, violenti e improvvisi, in cui il tormento interiore di Matt si intreccia con una visione profondamente morale della colpa. In Fear City le istanze compulsive, sia emotive che psicologiche, prevalgono sulla logica della narrazione che alterna confusamente passato e presente: in realtà l’apparente confusione serve a Ferrara per tracciare il ritratto di personaggi “al limite” completamente in balia di se stessi e incapaci di scacciare i fantasmi (colpa, droga) che li attanagliano e che gli impediscono di conoscere la felicità. Questo fa sì che il motore del film sia incentrato sul concetto astratto di dolore, e che il senso di colpa soggettivo travalichi in un senso di colpa collettivo che incombe sulla società mercificata. L’incipit del film e i titoli di testa si snodano sull’alternanza di immagini di strippers e insegne luminose (Minolta, TDK, Fuji, Panasonic...) legate tra loro dalle note e dalle parole di New York Doll, canzone di Joe Delia e David Johanson, mentre prima di scendere nel caos di Times Square e della 42? strada, la macchina da presa sorvola sospesa in panoramica aerea tra il grattacielo Pan-Am e l’Empire State Building, cioè tra i simboli del potere commerciale ed economico, quasi come a volersi sostituire allo sguardo di un Dio indagatore e minaccioso, incarnazione dell’assoluto come lo è Al Wheeler nel film. Un Dio che, nella notte e dall’alto, osserva i suoi figli autodistruggersi stretti in una spirale di violenza, sesso e denaro; quelli del film, infatti, sono uomini e donne piccoli e profondamente umani, con le loro debolezze e fragilità, messi a confronto con un senso della legge e della giustizia di chiara matrice “divina”, di cui Al Wheeler diventa perfetta incarnazione con il suo essere diretto e spietato, manicheo e giusto, esigente e dispotico. La New York di Fear City è uno spazio circoscritto, chiuso tra i confini di Times Square e le rive dell’Hudson, in cui la composizione geometrica dei volumi si accompagna ad una riduzione dei dettagli, mentre la luce tagliente dei neon determina spazi plastici e vividi, in cui il commercio del corpo trova la sua dimensione più glamour. Una città che sembra esistere solo nel perimetro dell’inquadratura, in cui la vita è concentrata sulla scena, mentre nel fuoricampo agisce solo il Male (l’assassino irrompe dall’esterno del quadro), e in cui i confini metropolitani coincidono con quelli dell’immagine: una sorta 75
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di mondo a parte in cui le storie di autodistruzione e mercimonio maturano in un “vuoto” creato deliberatamente, fatto di strade deserte e minacciose e di stanze caotiche e prive d’aria (i camerini, l’appartamento di Loretta, l’agenzia Starlite). New York, qui coincide con il concetto di rischio, animato da una frustrazione morale e da una solitudine esistenziale che determinano una pulsione di morte (l’assassino poterebbe essere solo una proiezione della psiche di Matt). In Fear City, non si avverte mai la sensazione della presenza di una comunità reale e coesa, ma Ferrara propone la rappresentazione di una metropoli “schiacciata” (le continue panoramiche aeree), i cui abitanti assomigliano a degli uccelli in gabbia: l’intento è chiaro, riprodurre la metafora dell’intrappolamento per raccontare la paranoia dell’uomo moderno. La notte in Fear City, acquisisce i caratteri di spazio ctonio, in cui si muovono i “fantasmi” della società. Qui la notte è parte ontologica dell’inquadratura, replicata all’infinito dai movimenti di macchina sul paesaggio urbano, che tendono ad espandere l’oscurità sugli eventi narrati. In uno scenario simile, la presenza della morte non può essere disattesa, perché essa stessa proviene dalle tenebre (e dall’esterno dell’inquadratura) ed è il risultato di un processo notturno di movimenti e spostamenti delle vittime; questo fatto, paradossalmente, determina che le aggressioni di Pazzo si tramutino, per le vittime, in una sorta di purificazione (come dichiara lo stesso maniaco sul suo diario) dal vizio e dal degrado cui si sono abbandonate. La morte, in Fear City, è contemporaneamente trappola e via d’uscita. Per Abel Ferrara, la notte è l’ambiente ideale per narrare le sue storie, e la città il teatro unico e possibile per muovere i suoi personaggi, come conferma egli stesso. “So bene quando una cosa funziona e rende sullo schermo. La ragione per la quale giro in città è semplice: sono cresciuto nella strada e amo l’atmosfera della città. È una scenografia che parla per conto proprio. Per quanto riguarda la notte, è il mio universo. Ma questo mi proviene anche dai miei personaggi. Si svegliano alle due o alle tre del pomeriggio e vanno a dormire dopo aver fatto colazione alle otto del mattino. Le ballerine dei locali notturni, i gangster di Chinatown o Little Italy, vivono quando la gente normale è andata a dormire”.33
33 In Giona A. Nazzaro (a cura di), Abel Ferrara: la tragedia oltre il noir, Stefano Sorbini Editore, Roma 1997, pag. 49
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Se Abel ferrara, racconta la vitalità della notte newyorkese, una notte metallica e piovosa, percorsa dalle luci al neon e dalla violenza, in Fear City, l’impronta di Nicholas St. John e del suo calvinismo intransigente, emerge nell’esigenza di mettere in scena il mercimonio della società attraverso la rappresentazione di una città-mercato di sesso e droga, filtrati dall’ottica del benessere e del rampantismo tipica degli anni ’80. Non a caso, un anno prima, il film a episodi New York Nights (id. 1983) di Simon Nuchtern e scritto dal produttore indie Romano Vanderbes, racconta una New York notturna e degradata che si nutre simultaneamente di sesso e miserie, ricchezza e violenza. Il soft-core di Nuchtern, ha l’andamento circolare del destino ed è presuntuosamente strutturato come il Girotondo di Arthur Schnitzler, in cui i personaggi protagonisti della “giostra” appartengono alle sfere più alte della borghesia della Grande Mela, ma sentono il bisogno di auto-distruggersi e degradarsi in giochi erotici favoriti dal contatto con prostitute, porno-star, gigolo e drogati. Quello di Nuchtern è un filmetto e nulla più, che viene ricordato più che altro per il debutto di Willem Dafoe (poco più che una comparsa nell’episodio finale), ma in un paio di episodi, quello tra marito e moglie e quello finale appunto, si respira un’atmosfera ferrariana e il discorso sulla città-mercato è ampiamente anticipato (rispetto a Fear City) lungo tutto lo svolgersi del film. Ma Ferrara e St. John, guardano sicuramente ad un’altra città, un altra New York, quella in bianco e nero del film Cry of the city (L’urlo della città, 1948) di Robert Siodmak. Se dal punto di vista narrativo, poche e casuali sono le analogie tra Fear City e il noir di Siodmak, è dal punto di vista dell’impianto morale che i due film appaiono sovrapponibili. Oltre ad essere girato “dal vivo”, in ambienti reali e nelle strade di New York, Cry of the city, scritto da Richard Murphy e tratto dal romanzo “The chair of Martin Rome” di Henry Helseth, presenta la contrapposizione tra due personaggi dicotomi: Martino Roma (Richard Conte), il gangster senza scrupoli e senza valori, che è sempre vestito di bianco, si fa chiamare Angelo e uccide per sopravvivere a se stesso; Vittorio Candella (Victor Mature), tenente di polizia, austero ed inflessibile, che veste sempre di nero ed è incarnazione della “legge divina”. Entrambi italoamericani, cresciuti fianco a fianco nello stesso quartiere tra povertà e degrado, e decisi, una volta cresciuti, a seguire strade diverse. Mentre continua la fuga di Martino Roma, poco alla volta l’opinione pubblica comincia crederlo un eroe (ha ucciso un poliziotto), ed è lo stesso Candella nel bar 77
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con Collins a ricordarlo: “Quanto più tempo resta là fuori, tanto più diventa un eroe”. New York è una metropoli caotica, illuminata a giorno dalle insegne luminose della pubblicità e dei locali notturni: la nebbia e i fumi avvolgono i personaggi, intenti in un estenuante inseguimento reciproco destinato a chiudersi dentro e fuori da una chiesa. La legge, non ammette intermediazioni, perché come dice Candella a Marty: “Ti ucciderò perché devo farlo”, e quando questi con sarcasmo gli chiede: “Qui, in chiesa?”, il tenente risponde: “Credo che questa volta verrei perdonato”. Vittorio Candella è dunque il progenitore di Al Wheeler, che nel finale di Fear City istruisce Matt sul senso della giustizia in due successivi passaggi: “Lezione numero uno. Ricordati che io rappresento il potere della legge e devo far intendere ai miserabili rifiuti umani come te le conseguenze e le punizioni che la gente onesta chiede per chi ha un comportamento anti-sociale”; e poi ancora: “Lezione numero due. Un funzionario di polizia non è altro che il simbolo vivente della legge. Ricordatelo!..e perciò deve essere assolutamente rispettato”. Il poliziotto di Ferrara è radicale e intransigente, scontroso e razzista (“Ecco cosa odio: gli italoamericani e le cadillac”), e usa la violenza come emanazione dell’azione di Dio. Martino Roma, è invece il “padre” (anche in senso biografico) di Matteo Rossi: entrambi di Little Italy, entrambi con un passato e un presente per nulla edificanti, ma mentre il Marty di Siodmak è un uomo allo sbando, privo di legami (anche quelli familiari), interessato solo al possesso e ammalato di avidità, il Matt di Ferrara, è un uomo disilluso e malinconico che vuole riscattare il suo passato, che non rinuncia alla sua attività illegale, e che rimane legato ad una famiglia (quella mafiosa) a cui sente di appartenere. I due antagonisti, sia nel film di Siodmak che in quello di Ferrara, sono le due facce della stessa medaglia. La differenza sostanziale è data però dal rapporto simbiotico che esiste tra Matt e Pazzo in Fear City. L’idea che l’ “eroe” e il “cattivo” possano essere rappresentati come i due lati opposti della stessa medaglia ha le sue radici nell’espressionismo cinematografico tedesco, e i registi che negli anni ‘30 sono profughi dalla Germania lo introducono nel cinema americano attraverso il noir, poiché in questo genere, è frequente il ricorso al tema del doppio, e Cry of the city, come visto, ne è perfetto esempio. In Fear City, Matt e Pazzo hanno una relazione simbiotica che oltre ad essere rappresentata visivamente attraverso l’uso insistito del montaggio alternato (ad opera di Jack Holmes e Anthony Redman) si manifesta attraverso tutta una serie di rimandi psicologici. Il più evidente è quello che lega lo stacco tra l’aggressio78
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ne in casa di Silver e il risveglio di soprassalto di Matt, a casa di Loretta, con il sangue che gli scende dal naso. Ma anche in precedenza, l’affermazione irritata, e rivolta a Nicky mentre i due sono in macchina, espressa nei confronti di Leila (“sapessi che voglia che ho di prenderla a calci nel culo”) dopo averla vista amoreggiare con Loretta, ha una sua conseguenza nell’aggressione di Pazzo alla donna nella stazione della metropolitana di Herald Square. È come se i desideri della psiche di Matt, trovassero compimento nella azioni del maniaco. A certificare questa lettura, bisogna aggiungere, che è ancora Matt ad insistere per accompagnare a casa Loretta (la quale invece dovrebbe andare a prendere Leila) e a favorire così l’azione di Pazzo e l’eliminazione della “rivale”. Infine, nel duello finale, preceduto dal confronto a distanza, in montaggio parallelo, tra i due che si preparano fisicamente alla caccia reciproca, la sconfitta e l’uccisione di Pazzo agiscono da catarsi nella mente di Matt: solo dopo aver eliminato i suoi impulsi più oscuri (retaggio del suo passato “omicida” sul ring), Matt riesce a superare le sue nevrosi (associate visivamente alle azioni di Pazzo) e ad instaurare una relazione matura con la donna amata. Come sempre in Ferrara il limite è la cifra stilistica, e anche Fear City non fa eccezione. Tutto si svolge sul limite tra cuore e cervello, notte e alba, Eros e Thanatos, sogno e realtà. È lo stesso Pazzo, mentre compila il suo diario ad affermare: “Chi legge queste pagine deve sapere che non si tratta di finzione, ..ma di realta!”. Eliminate le ascendenze filosofiche del personaggio del maniaco, quel poco di lui che resta nel film, non permette una lettura esaustiva delle sue intenzioni, oltre al fatto che alcuni frammenti di cui è protagonista (come l’omicidio in Central Park) sono talmente confusi e posticci che non si riesce a capire che cosa rappresentino. Alla fine, purtroppo, ne esce un personaggio monodimensionale privo di ogni credibilità, il cui movente è solo accennato (purificare il mondo con la purezza dell’acciaio), apparentabile a Ramroad il grottesco serial-killer “country” che sfregia e uccide le prostitute nel granitico poliziesco Vice Squad (Police station - turno di notte, 1982) di Gary A. Sherman. Qui, in una Los Angeles notturna e glamour (come la New York di Fear City), il killer dà sfogo alla sua frustrazione e alla sua volontà di possesso, massacrando giovani prostitute, incarnando la metafora violenta e brutale del cliente. Ma un’altra peculiarità del cinema di Ferrara, è quella di “giocare” con i generi e di confondere lo spettatore con improvvisi quanto inaspettati squarci parodici. Il più evidente in Fear City è rappresentato dalla figura di Mike, il titolare del locale in cui si esibisce Loretta, ma in cui, successivamente Ferrara fa esibire una 79
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donna brutta, seminuda e sovrappeso (parodia cinica della stessa stripper). Mike è un italo-americano, arruffone e opportunista, piagnone e caricaturale che sembra la parodia degradata del Cosmo Vitelli di The killing of a chinese bookie (L’assassinio di un allibratore cinese, 1978) di John Cassavetes. Che Ferrara guardi al collega e concittadino non è una novità, anche se l’aderenza alla via indipendente del cinema americano, si concretizzerà soprattutto nelle opere successive dei primi anni ‘90, ma è curioso notare che l’aspetto parodico Ferrara lo allarghi ad una visione (qui, si coincidente con quella di Cassavetes) anti-establishbent, nella rappresentazione dell’agenzia Starlite. L’ufficio di Matt e Nicky, in cui è sempre presente il sodale inserviente Harry (replica dell’Orvy di Cry of the city) è fedele copia dell’ufficio di Wheeler: nell’indifferenziazione tra ufficio di polizia e agenzia di spogliarelliste con il quadro dei turni delle ragazze al posto della cartina della città, con i telefoni che squillano e danno indicazione sui locali in cui sui devono recare le strippers al posto delle indicazione alle volanti, con le veneziane sempre giù e con la penombra come cifra dominante per entrambi i luoghi, nell’equiparazione tra papponi e poliziotti, Ferrara esprime con sarcasmo, tutta la sua coerenza e le sue contraddizioni. Solo quando arriva la telefonata che comunica a Nicky l’aggressione di Honey (e cioè nel momento in cui si stabilisce la relazione vocale tra Wheeler e Piacenza), con l’ingresso nella vicenda del perturbante, l’atmosfera si fa improvvisamente seria e perde tutta la leggerezza della parodia. Allo stesso modo, e con le stesse dinamiche, in sospeso tra parodia e perturbante, è descritto il passato da ex-pugile di Matt Rossi. Il modello è quello di Body and soul (Anima e corpo, 1947) di Robert Rossen, ma la declinazione è quella del primo episodio di Movie Movie (Il boxeur e la ballerina, 1978) di Stanley Donen, film-parodia (appunto) del double-feauture degli anni ‘30. Matteo Rossi, può essere considerato il “figlio” del Martino Roma del noir di Robert Siodmak: un personaggio semplice e persino didascalico, in cui convivono, simultaneamente, innocenza e colpa e un tormento interiore che proviene dal passato (sia quello dell’infanzia “omertosa” sia quello della morte sul ring). E proprio il passato da ex-pugile viene raccontato da Abel Ferrara attraverso insistiti rallenty visivi degli ultimi pugni sferrati da Matt a Kid Rio e in alcuni casi anche con l’ausilio del rallentamento del sonoro che rende la scena ridicola e grottesca. È evidente l’intento parodistico, così come, l’ammiccamento al cinema di boxe declinato secondo i suoi stereotipi. Il Charley Davies di Body and soul è un looser destinato a riscattarsi grazie ad una ferrea volon80
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tà e all’assunzione morale della colpa. La vicenda del film si svolge in una New York dei bassifondi, oscura a e fumosa, tetro scenario che fa da sfondo alla corruzione e al cinismo del mondo della boxe. Anche nel film di Robert Rossen c’è un pugile morto, Ben Chaplin, a causa dei pugni ricevuti sul ring in un incontro combinato per coprire un debito, e anche qui è il senso di colpa di Charley verso Ben a restituirgli la dignità quasi fuori tempo massimo. Ma se Ferrara instilla in Matt Rossi parte della biografia di Charley Davies, subito se ne distacca con un iperrealismo parodistico usato per raccontare gli ultimi istanti dell’incontro di boxe tra Matt e Kid Rio. Nel primo episodio intitolato Il boxeur del film di Stanley Donen, Joey Popchik decide di indossare i guantoni per guadagnare i venticinquemila dollari necessari per operare agli occhi la sorella. L’incontro con la boxe è dunque casuale e fortuito (così come per Matt Rossi rappresenta solo la possibilità di affrancarsi dal mondo criminale in cui sta crescendo), ma ben presto, il ragazzo si fa coinvolgere da quel mondo e dai suoi topoi al punto da rinunciare alla propria stessa vita e ai suoi affetti più cari. Vince Marlow è una sorta di boss mafioso (un Don Carmine senza né regole né onore) diviso tra locali notturni e incontri truccati, che però si presenta con la faccia pulita e il prestigio del vincente, per poi rivelarsi meschino e opportunista come intima a Joey nel finale: “Truccare è una brutta parola... Non te lo sto chiedendo, te lo sto ordinando. Ho scommesso centomila dollari che vai giù alla quinta ripresa” ; Troubles Morin è una bionda spogliarellista disinibita e vacua (controfigura caricaturale e amorale di Loretta), interessata solo al denaro e al lusso, che prima circuisce Joey, gli fa abbandonare la fidanzata e poi lo scarica facilmente per i soldi di Vince Marlowe. Ma nel finale al Madison Square Garden, dopo una lunga serie di vessazioni subite, Joey si riscatta, e quando dall’angolo Vince Marlowe gli intima: “È il quinto round Joey, sai cosa devi fare”, il ragazzo gli replica sicuro: “ ...Per la prima volta nella mia vita” , non cede al ricatto e vince l’incontro. Il riscatto di Joey, coincide con quello di Matt, che nel finale di Fear City prende coscienza del suo destino e decide di affrontare a viso aperto il suo nemico. All’inizio del film, nell’ufficio della Starlite, invece, quando Nicky gli offre la pistola per affrontare e uccidere Pazzo, Matt replica: “Tu te la senti di mirare e sparare a qualcuno?”, rinunciando ad impugnare le armi; e subito dopo al tavolo da gioco di Little Italy, è un uomo di Don Carmine a dirgli: “Non è che la vista del sangue ti fa paura Matteo...” . Dopo il ritorno alle origini, invece, (la sequenza della doppia confessione si apre con il cartello dell’incrocio di Mulberry Street) Matt prende 81
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coscienza del suo ruolo e decide di esorcizzare l’incubo che lo tormenta, convinto egli stesso che Pazzo sia la proiezione della sua coscienza. Seduto al tavolo con Don Carmine che lo invita a studiare e a conoscere bene il suo nemico prima di affrontarlo, viene interpellato dal vecchio boss come se fosse un confessore: “Quale è il tuo problema figliulo?”, mentre in Chiesa, Matt si rivolge al prete che gli ha chiesto: “perché tu confessi figliuolo?” dicendo: “Padre, vengo a chiedere perdono per qualcosa che sto per commettere”. La doppia confessione laica e cattolica è il preludio allo scontro finale che non a casa si concretizza dopo che Pazzo, al termine del montaggio alternato in cui i due si allenano, rompe lo specchio con un calcio. La separazione tra mondo reale e sogno, tra ragione e sentimento, tra vita e morte è ormai avvenuta.
Fear city – Recensione Fear City è un film irrisolto, a causa sia delle ingerenze del produttore, sia per l’incapacità del regista di gestire una situazione che richiede per forza di cose il dover scendere a compromessi. Nell’estetica slabbrata e disadorna, nella continuità narrativa talvolta spezzata e talvolta incoerente, nei personaggi abbozzati e privi di spessore nella rappresentazione di una città-mercato in cui il corpo è l’unica merce sia sul versante della violenza che su quello del mercimonio, il film di Ferrara mantiene e conserva una sua unicità e originalità corroborata da un che di indecifrabile che si annida tra i fotogrammi. Fear City è leggibile in trasparenza come la rappresentazione del conflitto del regista con il mondo hollywoodiano. Matt e Nicky (quest’ultimo anche nel nome) rimandano esteticamente a Abel Ferrara e Nicodemo Oliverio, il mercato della 42? Strada è quello del mondo del cinema, Al Wheeler è il despota “ingiusto” che nelle vesti del produttore impedisce di portare a termine l’impresa così come pensata, Pazzo è l’anima folle, alter ego del regista, che non ammette compromessi e Loretta è incarnazione del sogno impossibile e corrotto che proviene dalla “fabbrica dei sogni”. New York è lo scenario ideale per esprimere le proprie istanze “autoriali”, e il genere la maschera ideale per mimetizzarle. Visto così Fear city, non può che essere un film monco, un film in cui la manipolazione ester82
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na snatura l’essenza della poetica del regista. Ferrara comunque non è esente da colpe, perché si propone come cineasta maudit a cui tutto deve essere concesso. L’ultimo capitolo della “trilogia metropolitana”, pur non essendo un film riuscito, mette in evidenza, (forse più di molti altri) le istanze opposte e complementari di Ferrara e St. John, il primo interessato alla rappresentazione estrema della notte glamour ed erotica di New York, alla riproduzione della colpa e delle radici italiane; il secondo concentrato sulle ascendenze psicologiche del killer e sul giusto “giustizialismo” del poliziotto, quasi una riproduzione assoluta della dualità di Satana e Dio. È comunque interessante vedere come nel film l’uso sia dei flash-back che del montaggio alternato, non segua la codificazione tradizionale, ma sia finalizzato ad aprire improvvise ferite visive da cui scaturisce un dolore indefinibile. Lo testimoniano sia i ricordi di Matt, che, soprattutto, le immagini della prima aggressione alternate con velocissimi stacchi sullo spogliarello di Loretta. Anche la coreografia degli strip-tease della donna è continuamente interrotta da stacchi e panoramiche sul pubblico maschile ululante seduto sulle poltrone disposte come quelle di una sala cinematografica. Insomma in Fear City, tra tanti difetti, tagli e imperfezioni, emerge il ritratto di una società dedita alla scopofilia onanistica (se si escludono quella tra Matt e Loretta e tra Loretta e Leila non ci sono altre relazione sessuali nel film), condannata all’estinzione. Non a caso man mano che il film prosegue le strippers rinunciano ad esibirsi per paura e quando lo fanno, come nel locale di Frank, verso la fine del film, non mostrano più il seno, ma sono vestite, non ballano selvaggiamente ma sono quasi statiche, non sorridono ammiccanti ma hanno lo sguardo triste e spaventato: come a dire il mondo amorale è imploso dentro se stesso.
Fear city – Sondaggi critici Abel Ferrara, un cineasta da tenere d’occhio. Naturalmente i francesi esagerano quando lo paragonano a Coppola o a Scorsese, ma bisogna riconoscere che questo trentaduenne regista italo-americano specializzato in thriller a forti tinte conosce davvero il proprio mestiere. Vedere per credere Fear city, terzo film di Ferrara, ambientato come di consueto in una New York 83
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notturna e viziosa, popolata di barboni, donne-bersaglio, poliziotti impotenti e assassini paranoici. Si potrebbe persino dire che Ferrara fa sempre lo stesso film, eppure la sua capacità di maneggiare e dominare la violenza sullo schermo lo colloca di parecchie spanne al di sopra di certi colleghi “di genere”. MICHELE ANSELMI, L’UNITÀ 11 SETTEMBRE 1984 Sebbene il quadro più ampio e le esigenze di un prodotto più convenzionale, abbiano chiaramente dissipato parte dell’energia maniacale dei film precedenti, Fear City è tuttavia un contributo personale e rimarchevole all’affollato ciclo della paranoia urbana. Ancora una volta Ferrara e St. John hanno ammannito un film noir anni ‘80 con la metafora centrale della città come inferno: dal bagliore rosso degli strips-club attraverso il duro e metallico scintillio delle strade notturne lavate dalla pioggia, l’atmosfera è puramente infernale. Il cielo arancione dell’alba contro cui si staglia la figura di Matt che getta la sua pistola nelle acque del porto è pittorescamente apocalittico, mentre la strada in cui vive il pusher di Loretta e dove ha luogo lo scontro cruciale sembra uscire da Eraserhead con i suoi edifici diroccati e le sue nuvole di vapore. Anche se Fear City è un lavoro riconoscibilmente personale in un campo sovraffollato, bisogna non di meno ammettere che difetta della potenza onirica e viscerale dei film precedenti. JULIAN PETLEY, MONTHLY FILM BULLETIN, AGOSTO 1986 The Driller killer e Ms. 45 sono due film fortemente legati a Taxi driver. I protagonisti sono personaggi esasperati, incapaci di comunicare, che trovano nella violenza l’unica illusione liberatoria. Fear City presenta un maniaco omicida più convenzionale, di scarso spessore, e si concentra sull’eroe che gli dà la caccia. Il primo ammazza una serie di ballerine di topless-bar, e tiene un diario dell’impresa intitolato “Fear City” a cui non ci è mai dato accesso: le sue motivazioni restano pressochè indefinite. Il secondo, titolare dell’agenzia che dava lavoro alle vittime, vuole risolvere il caso senza l’aiuto della polizia; ma per farlo deve affrontare lo spettro di un avversario ucciso durante un combattimento di boxe e recuperare la sua capacità di violenza. Struttura narrativa e fisionomia dei personaggi sono dunque più ordinari, e forse è questo il motivo per cui Fear City non è al livello della migliore produzione di Ferrara. ALESSANDRO CAMON, CATALOGO MYSTFEST XII, 1991
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Miami Viace (1984-19985) Episodio 20 :The home invaders (15 Marzo 1985). Un gruppo di rapinatori fa irruzione in una villa. Al comando di polizia Sonny Crockett (Don Johnson) fa ritorno esausto dopo una notte insonne. Il suo collega Ricardo Tubbs (Philip Michael Thomas) è in vacanza e il caso delle rapine coinvolge anche la squadra antidroga di Miami che si mette integralmente al servizio del detective John Malone (Jack Kehoe) dell’antirapina. Sonny Crockett ritrova il suo maestro di inizio carriera. John Malone è un vecchio ed esperto detective che non riesce a venire a capo del caso comprendente alcune rapine in villa compiute con rara efferatezza. Il tenente Martin Castillo (Edward James Olmos) dell’antidroga fa notare a Sonny, come nei rapporti stilati dalla squadra di Malone ci siano molte lacune e come le indagini appaiono inadatte e superficiali. In un primo momento Sonny respinge l’accusa del tenente, ma successivamente si rivolge schiettamente a Malone e gli manifesta il suo disappunto per il modo in cui sta gestendo i caso. Nel frattempo i rapinatori fotografano una lussuosa villa di Lake Avenue, ma desistono dall’assalto a causa della molteplicità dei sistemi di allarme. Notte tempo Sonny indaga per le strade di Miami contattando i vari informatori, mentre il tenente Castillo legge scrupolosamente i rapporti relativi alle rapine e si fa inviare dalla Polizia di Chicago quelli inerenti ad altre rapine riconducibili alla stessa banda. Durante una scrupolosa e attenta ricostruzione degli eventi e mediante la perspicacia del tenente Castillo, attraverso l’intrecciarsi di una serie di informazioni ordinarie, i detective giungono alla conclusione che gli assalti vengono decisi e pianificati all’interno di un centro estetico interrogando due prostitute, una delle quali picchiata dai rapinatori, scoprono l’identità di uno dei criminali: il ragazzo incaricato di posteggiare le macchine di fronte all’Emporium. La squadra, dopo un breve appostamento, riesce ad intercettare una possibile vittima: l’eccentrica signora Goldman (Sylvia Miles), la quale prima non crede a quanto detto dai poliziotti, ma successivamente decide di lasciarli lavorare. Crockett e Castillo, seduti nella casa della signora Goldman attendono i rapinatori, ma tramite una telefonata fortuita, vengono a sapere che la Corvette su cui viaggia la donna è in realtà di proprietà della figlia, e capiscono che i rapinatori sono diretti all’abitazione di essa. Raggiunta la casa della signora Goldman, e visti i rapinatori intenti nell’aggressione, i due poliziotti sfondano le vetrate, fanno irruzione e uccidono tutti i criminali. In un ristorante, il giorno dopo, mentre la signora Goldman è al 85
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tavolo con la squadra dei poliziotti Crockett viene raggiunto da John Malone che prima gli conferma di aver sbagliato nel condurre l’indagine e poi gli comunica di essersi conto di essere invecchiato e di aver quindi rassegnato le dimissioni. Episodio 27: The dutch oven (25 Ottobre 1985). Trudy Joplin (Olivia Brown) è una poliziotta dell’antidroga di Miami. Una sera si trucca e veste da prostituta per coprire un’operazione dei colleghi Sonny Crockett (Don Johnson) e Ricardo Tubbs (Philip Michael Thomas). L’operazione si rivela essere una trappola, e al termine di un lungo inseguimento Sonny e Trudy vengono minacciati con l pistola da uno dei criminali. Prima che il corriere possa sparare, Trudy gli scarica addosso quattro colpi e lo uccide. Nei giorni successivi, negli uffici della disciplinare si apre un’inchiesta, ma le tensioni dovute a passati rancori tra Crockett e Gallo (David Proval), infastidiscono la stessa Trudy la quale pensa che questo conflitto possa andare a discapito dell’indagine su di lei. Alla sera si rifugia nelle braccia di un vecchio amico e amante: David (Cleavant Derricks) è un cantante soul con cui la donna ha recentemente avuto una lunga relazione, ma è anche un uomo dalle frequentazioni ambigue e poco trasparenti. Uno di questi amici, un certo Adone (Giancarlo Esposito) è deciso a fare il salto di qualità e a passare da spacciatore di piccolo calibro alla dipendenze di grossi importatori colombiani. Durante una festa su uno yacht, in cui Trudy assiste disgustata al consumo e allo spaccio di cocaina, incontra nuovamente Adone intento a contrattare grosse dosi con alcuni clienti. Moralmente disgustata e dubbiosa su quale che sia il limite del suo ruolo durante le ore in cui è fuori servizio, Trudy convince David ad abbandonare la festa. La sera successiva si reca sull’imbarcazione di Sonny Crockett e gli confida i suoi dubbi, ma anche la volontà di non rimanere indifferente di fronte ai crimini di cui è testimone. Durante un’indagine alla stazione di polizia, Ricardo Tubbs scopre che adone è alle dipendenza di uno dei più grandi trafficanti di droga colombiani, e invita Trudy ad utilizzare il suo rapporto sentimentale con David per organizzare una trappola ai danni di Adone. Perplessa e combattuta per la scelta da compiere, Trudy trascorre un’intera giornata per le strade di Miami, poi, di fronte al mare prende la sofferta decisione. Decide di incastrare Adone con l’aiuto di Sonny, speranzosa di riuscire a spiegare a David il motivo della sua scelta. Dopo l’arresto di Adone, l’uomo, sentendosi usato, rifiuta le spiegazioni della donna rinfacciandole la sua mancanza di onore.
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Miami Vice è una serie televisiva di centoundici episodi, andata in onda sulla NBC per cinque anni dal settembre 1984 al dicembre 198934. Inizialmente la serie non ha successo: la NBC trasmette gli episodi alle 22.00 del venerdì e li manda a scontrarsi con una “corazzata” come Dallas della CBS; grazie alle repliche estive, però, la serie balza in vetta agli ascolti e da quel momento in poi, non solo manterrà inalterato il suo successo, ma si trasformerà in un vero e proprio “modello” televisivo, capace di travalicare i confini del piccolo schermo e di penetrare all’interno dello stile di vita degli americani (e non solo). Il nome della serie, letteralmente “il vizio di Miami”, in realtà fa riferimento alla locuzione MTV Cops, cioè “poliziotti in stile MTV”, con chiaro riferimento all’importanza della musica e del glamour presenti nella serie. Ideata da Anthony Yerkovich e prodotta da John Nicolella e Michael Mann racconta nei vari episodi, della durata di cinquanta minuti, le vicende di due poliziotti sullo sfondo delle palme e delle spiagge dorate di Miami. La serie è figlia in tutto e per tutto degli anni ’80: esalta lo stile da video-clip con un montaggio frammentato e dinamico modulato sul ritmo di un funky-rock martellante; immerge le proprie vicende in scenari glamour e in ambienti curati con un design post-moderno; crea paesaggi con cieli bianchi, superfici riflettenti e colori irrealistici e fosforescenti. Tutti elementi che grazie alla perizia e all’intuito di Mann vengono riversati dal cinema, da dove provengono, in un prodotto televisivo e di largo consumo. Il primo episodio di Miami Vice viene messo in onda nel 1984. La serie è la più cara mai prodotto fino a quel momento con un budget di 1,3 milioni di dollari per episodio. I personaggi sono atipici e innovativi; Sonny Crockett (Don Jonhson) vive su un battello e il suo “allarme” è un alligatore di nome Elvis, viaggia su di una Ferrari Daytona Spider e non rinuncia ad intrattenersi e a flirtare con ragazze seducenti e talvolta equivoche. Anche il cubano Ricardo Tubbs (Philip Michael Thomas) non rinuncia alle dolci compagnie, si muove su una Ferrari Testarossa e sfoggia camicie hawaiane coloratissime, improbabili per un poliziotto convenzionale. I due attori, all’epoca, sono pressochè sconosciuti: Don Johnson è stato protagonista della serie A boy and his dog (1974) di L.Q. Jones, mentre Philip Michael Thomas, si è fatto conoscere grazie al film Coonskin di Ralph Bakshi (1974). Miami Vice è la prima serie TV utilizzare tecniche, fino a quel momento, esclusivamente cinematografiche, grazie, 34
Miami Vice in Italia viene trasmesso da RaiDue per sette anni dal 1986 al 1993
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soprattutto al contributo produttivo e organizzativo di Michel Mann. Se l’ideatore della serie è Anthony Yerkovich che si ispira ad alcuni articoli di giornale sui traffici illegali che si svolgono sotto il sole della Florida, è Mann a determinarne stile e concept. Grazie al contibuto del regista, la televisione, che è stata una delle cause della crisi della “vecchia” Hollywood, nelle mani di Mann si trasforma in un nuovo strumento con cui veicolare contenuti cinematografici. Non è un caso, infatti, se nello stesso periodo i grandi “autori” americani degli anni’70 approdano su piccolo schermo: Francis Ford Coppola con Rip Van Winkle, George Lucas con Young Indiana Jones, e Steven Spielberg passa dalla direzione degli episodi del Tenente Colombo dei suoi esordi alla produzione di Twilight Zone e Amazing Stories, portando a dirigere alcuni episodi nomi del calibro di Martin Scorsese, Clint eastwood e William Friedkin. Miami Vice, appare oggi (come allora) una sorta di “fiction-reportage”, capace con coerenza e puntualità di sviscerare le contraddizioni degli anni’80 e di utilizzare Miami come uno spazio “neutro” in cui si mescolano criminalità e moda, post-moderno e old-style, ma anche come il luogo attraverso cui portare una denuncia al periodo storico, sia attraverso l’ambiguità della messa in scena, sia, giocando con i limiti e la forza della forma televisiva, indagando il vuoto “plastificato” della metropoli della Florida. Si sa che il comune di Miami all’inizio era contrario a concedere i permessi per girare la serie TV, anche in virtù del fatto che la città è impeganata ad allontanare da sé l’immagine conclamata di “metropoli criminale”. Lo stesso Anthony Yerkovich ricorda che l’intento (poi mantenuto) era quello di fare della città della Florida una moderna Casblanca con i rifugiati provenienti da Cuba e dall’america Centrale, il reiterato traffico di droga e le attività ad esso contigue, come il riciclo di denaro sporco, gli omicidi a sfondo economico e la prostituzione dilagante come strumento adatto allo spaccio. Molti episodi della serie sono stati girati a South Beach, un settore della città che a metà degli anni’80 è territorio di povertà e criminalità: la produzione per ovviare alla rappresentazione del degrado del quartiere si è spinta fino a ridipingere e sistemare interi edifici prima di effettuare le riprese. Allo stesso modo, temi di pressante attualità e intrinsechi alla città di Miami sono stati affrontati in vari episodi della serie, come lo scandalo della dilagante corruzione all’interno della “vera” polizia di Miami, quello degli abusi sui minori (ispirato a fatti di cronaca dell’epoca) e alla presenza preoccupante dell’AIDS. Miami, e dunque lo sfondo su cui si alterna un collage eterogeneo di vicende diversissime e grazie alla messa in 88
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scena glamour e “plastificarta” assurge allo status di spaccato antroplogico dell’edonismo degli anni’80. Anche l’architettura della città divisa tra grattacieli e porto, banlieu e vetrate, serve ad amplificare le contraddizione della città della Florida e a tracciare le linee di un paesaggio post-moderno che riflette un sistema di valori amorali: droga, sesso, potere, denaro a fiumi, percorrono le arterie di questa moderna Babilonia, in cui l’effimero diventa norma (come testimonia la scrupolosa attenzione alla moda e la design). Miami Vice, oltre agli aspetti contenutistici, presenta tutta una serie di innovazioni in ambito tecnico-realizzativo. La musica non è più un codice secondario, ma diventa di primaria importanza nell’economia della costruzione del montaggio e del ritmo narrativo. La colonna sonora strumentale, opera di Jan Hammer, si intreccia ad una sere ininterrotta di hit del momento portando anche alcuni cantanti a partecipare attivamente nella veste di attori e/o guest stars ad alcuni episodi. In ogni episodio, diecimila dollari di budget sono stanziati per acquistare i diritti delle registrazioni originali, e le case discografiche, visto il clamoroso successo, spingono i loro artisti a partecipare a Miami Vice. Se la televisione è lo strumento capace di annullare il confine tra contenuti “alti” e contenuti “bassi”, di veicolare una cultura di massa e di “cancellare” istantaneamente quanto proposto (condizione ontoligica delle immagini televisive), Michael Mann sfrutta al meglio queste peculiarità innestando in esse la creatività proveniente dal mondo dei videoclip e della pubblicità. Tecnicamente, la serie, semplificando, è costruita su un sistema binario in cui si alternano immagine e musica, entrambe piegate ad una ben precisa (e riconoscibile) idea estetica. L’attenzione maniacale agli abiti indossati dalla squadra di poliziotti (tra i costumisti c’è anche Milena Canonero), le vetture sportive, il culto dell’apparenza e quello della velocità, la vita “sporting” e il walkman, le feste sulle barche e le spiagge arroventate dal sole, i bikini coloratissimi e l’edonismo del corpo...tutto richiama ad un’estetica da fumetto innovativa e vincente, in cui la musica diventa il veicolo necessario per riordinare l’immaginario visivo e narrativo, mentre la tecnica si avvale di alcune sperimentazioni che in breve tempo diventano patrimonio “scolastico” delle serie televisive. Michael Mann, innesta in Miami Vice, fermi immagine, rallenty sospesi, montaggi alternati e sequenze a episodi, riprese en plen air e illuminazioni distoniche e scintillanti, trasformando la serei televisiva in un vero e proprio brand in cui i clichè ne garantiscono la riconoscibilità. Miami è la Casblanca degli anni’80 e in essa si muovono poliziotti segnati da traumi, 89
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oppressi da un senso di colpa immanente, e alla perenne ricerca di una loro identità che non sia coincidente con quella di ruolo. Sonny e Rico sono una coppia interraziale (in cui entrambi hanno alle spalle la perdita di un compagno e di un fratello), precursore e alter ego televisivo di quella costituita da Martin Riggs (Mel Gibson) e Roger Murtaugh (Danny Glover) in Lethal Weapon (Arma Letale, 1987) di Richard Donner. Michel Mann, a dirigere gli episodi chiama alcuni dei registi più interessanti e non-convenzionali comparsi sulla scena tra la fine degli anni’70 e l’inizio degli anni’80. L’obiettivo è quello di trattare l’imponente materia narrativa con criteri cinematografici, costruendo la serie televisiva sulla spina dorsale dei rapporti interpersonali e dell’approfondimento psicologico dei caratteri. La forma seriale “di lunga durata”, permette al regista-produttore di sviluppare al meglio il rapporto dei personaggi con la realtà dinamica che li accompagna, insistendo argutamente sulle peculiarità del noir ma instaurando una “pericolosa” ambiguità tra crimine e legge e rinunciando in partenza al manicheismo del Law and Order. Sono questi elementi “estremi” e anticonformistici, e la struttura complessa dei personaggi, che sommati ad un modo nuovo e realistico di affrontare la violenza, portano al coinvolgimento di Abel Ferrara per dirigere due episodi della serie. A tal proposito, in riferimento al suo primo periodo televisivo, Abel Ferrara formula la seguente teoria “filosofica”: “Nella sua forma pura, il cinema serve a comunicare (non importa che cosa, dei sentimenti, delle idee...) in modo globale ad altri esseri umani. È la sola ragion d’essere di tutto questo merdaio in cui affondiamo per trovare i soldi e mettere in piedi un film. Ma anche il budget minimo per un film, mettiamo ottantamila dollari, io non ce l’ho. Voi neanche. Bisogna trovare qualcuno che lo finanzi. E così, anche solo per un film da ottantamila dollari, lo spettatore dovrà sborsare sei o sette dollari per pagare il suo posto. Mi trovo a pensare a tutta quella gente che non ha questi soldi in tasca, per cui il cinema è al di sopra delle loro possibilità, mentre quasi tutto il mondo può comprarsi un posto davanti alla televisione per quasi niente.Da qusto punto di vista, la televisione è la via per raggiungere una massa di pubblico molto importante. Un altro punto fondfamentale è la velocità di produzione in rapporto al cinema”.35
35 “Revue du cinema”, pag 50, in Silvio Danese, Abel Ferrara, L’anarchico e il cattolico, Le Mani, Recco (GE), 1998, pagg. 119-120
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Miami vice per Abel Ferrara, oltre ad una lauta fonte di finanziamento per i lavori futuri, è esperienza di amicizia oltre che di perfezionamento tecnico. Dal 1984, per quattro anni il regista interrompe il sodalizio artistico con Nicholas St. John. Le sceneggiature da tradurre in film non mancano (oltre al già citato Birds of Prey, è pronto anche il trattamento di Sarah, storia di una donna docile e romantica aggredita e sequestrata in casa ma che poco per volta si innamora del suo aggressore), ma soldi non ce ne sono e non se ne trovano: così non resta che mettere la propria arte al servizio del piccolo schermo senza però mai dimenticare il pensiero morale che la sorregge. In The home invaders ritroviamo una serie di situazioni e di personaggi cari al regista newyorkese. Se da un lato la violenza delle aggressioni non viene mai esplicitata, dall’altro i racconti delle vittime sono così crudi e coinvolgenti da non lasciare spazio all’immaginazione. Inoltre continua la descrizione del mondo mercificato, iniziata in The Driller killer , nella lunga sequenza descrittiva del salone di bellezza dove la luminosità, il lusso e i gioielli fanno da contraltare alle vite annoiate e disperate delle avventrici. Queste, sintetizzate nella figura di Mrs. Goldman vengono qui descritte con feroce ironia, che nella struttura della messa in scena si trasforma in pietismo e distacco da parte del regista. Infine nella figura del tenente Malone non si può non vedere un’anticipazione del Bishop di King of New York, un poliziotto stanco e rassegnato capace però di capire quando è il momento di fermarsi per non compromettere la vita di colleghi e collaboratori. Il personaggio di John Malone, è quello di un vecchio poliziotto, che per Sonny è anche un “padre”. Il confronto tra l’austero e cinico Castillo e il disilluso Malone, mette in evidenza il concetto di fallimento legato all’avanzare dell’età: troppo convinti delle sue capacità e della sua esperienza John Malone non si accorge che con il suo comportamento rischia di mettere a repentaglio la vita dei colleghi. Sonny, dunque, agisce con senso etico e di responsabilità quando gli dichiara il suo disappunto per i metodi di indagine. Il lavoro, infatti, è inteso da Ferrara come una scelta di responsabilità di cui deve beneficiare (nella finzione e nella realtà) tutta la collettività. Non è casuale, che seguendo il percorso intrapreso da Michael Mann, in The home invaders vengono messi a confronto due “lavori”: quello del poliziotto e quello del rapinatore. Se il primo è raccontato attraverso la scansione dei tempi dell’indagine, il secondo viene mostrato attraverso un ricorso sistematico all’uso della violenza per accentuare i caratteri di un tema, caro a 91
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Ferrara, come quello dell’aggressione improvvisa. Non è casuale infatti, che durante il briefing iniziale, il tenente Castillo dichiari: “Da quanto capisco il metodo è importante per loro”. L’obiettivo di Castillo è quello di equiparare metodi polizieschi e metodi criminali, con il fine di creare una scala di priorità degli eventi necessaria (come accade) a risolvere l’indagine. Abel Ferrara ricorre all’utilizzo reiterato della “sequenza a episodi” per raccontare l’intensità delle indagini, costituite dalla lettura dei rapporti, dai contatti con gli informatori e dall’intrecciarsi delle risposte dei questionari provenienti dalle vittime dell’aggressione. È proprio attraverso questi passaggi che l’indagine giunge a soluzione, e che viene identificato il centro estetico Hair Emporium come luogo di origine, come chiosa lo stesso Castillo: “Salone di bellezza... comincia tutto lì”. Nell’ultima parte dell’episodio, Ferrara ricorre ad uno dei suoi topoi cinematografici: la parodia. La scelta è determinata dalla volontà di descrivere con toni grotteschi e “feroci”, il circolo vizioso che lega estetica, desiderio e denaro, come si evince dalla descrizione ridondante e volutamente sguaiata, delle clienti dell’Hair Emporium. Il regista sembra quasi ammettere, che le vittime si meritino ciò che gli capita, concentrando tra lusso e volgarità il desiderio utopico dell’eterna giovinezza da parte di donne ricche e annoiate. Proprio la signora Ms. Goldman, con il suo modo di presentarsi eccessivo e ridicolo, diventa paradigma di questo mondo in cui l’acconciatura non è scissa dalle banalità, il lusso delle macchine non è disgiunto dal culto dell’apparenza. La soluzione rapida e chirurgica con cui Sonny e Castillo mettono fine alle azioni dei rapinatori, è testimonianza tanto dell’importanza del metodo, quanto della responsabilità di ruolo, la chiosa dell’episodio è in tutto e per tutto ferrariana, nel mettere in scena l’ineccepibile senso etico e morale della scelta. John Malone, ammette i suoi errori, riconosce il suo “peccato”, e regala a Sonny un’autentica perla di saggezza: “Una volta ti insegnai quando era tempo do tirar fuori la pistola. Ora lascia che ti insegni quando è tempo di riporla”. Anche in The dutch oven troviamo elementi ferrariani, il senso di colpa, il peso morale della scelta, la problematicità dei rapporti umani, e il finale sospeso e interrogativo nei confronti dello spettatore. L’incipit dell’episodio è rappresentazione della colpa: Trudy ha ucciso un uomo che le puntava un arma addosso; è un compito intrinseco al suo ruolo, ma è la prima volta che lei copmpie quel gesto e deve affrontarne le conseguenze, sia quelle prevedibili (l’indagine della disciplinare), sia quelle imprevedibi92
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li (la repentina possibilità di riscatto tramite l’arresto di Adone). Ma anche dal punto di vista della costruzione, The dutch oven è pienamente ferrariano, sia nei contenuti diegetici che in quelli extra-diegetici; a questi ultimi appartengono le comparsate non accreditate di Nicodemo Oliverio, nel ruolo di uno spacciatore sullo yacht e di Joe Delia nella parte di se stesso come musicista del complesso che accompagna la canzone “Love is for sale” cantata da David. Un altra canzone, invece, quella interpretata da David Johansen, e che fa da sfondo alla festa sullo yacht, assume i caratteri di metafora situazionale sin dal titolo: “King of Babylon”. La festa con il suo intrecciarsi di vestiti glamour, lusso pacchiano, i fiumi di cocaina, diventa il racconto dell’intera Miami vista come una moderna babilonia. È lo stesso Sonny, parlando con Trudy a dire: “Quello che hai visto succede in tutte le feste che si fanno qui a Miami”. Ferrara costruisce una sequenza che è come un videoclip in cui viene raccontato lo stile di vita dei Miami. Uno delle strofe della canzone di David Johansen recita: “Sono il re di babilonia e sono qui per darti tutto quello che vuoi...” le immagini che seguono mostrano il consumo di droga e lo spaccio di dosi che avviene al bancone del bar. Ma è nei contenuti più profondamente morali dell’episodio, quelli riferiti alla vicenda di Trudy, che si avverte tutto il peso della poetica ferrariana. L’interrogarsi sul limite del proprio ruolo da parte della donne, trova risposta nelle parole di Sonny il quale le confessa: “L’unico momento in cui vedo il confine... è quando l’ho passato”. È impossibile essere poliziotti a corrente alternata, staccare la spina quando non si è in servizio, perché il senso di responsabilità del compito morale e di giustizia a cui si è chiamati, lo esclude quasi ontologicamente. Non a caso, l’alterco iniziale tra Sonny e Gallo, si conclude con il rimprovero che il primo fa al collega: “Io faccio il poliziotto Gallo, non sto sbracato in una poltrona come voi della Disciplinare”, come a sancire una divisione morale dei ruoli anche all’interno del corpo di polizia. Il senso di colpa, e la responsabilità dell’azione compiuta da Trudy nel momento in cui ha premuto il grilletto per quattro volte, è sintetizzato nelle parole a lei rivolte da Martin Castillo: “Devi prendere una vacanza non perché sei colpevole, ma perché devi accettare il fatto che hai ucciso un essere umano”. La colpa e la responsabilità, vengono sublimate da Trudy attraverso la scelta sofferta di utilizzare il rapporto con David per giungere all’arresto di Adone. Che la situazione rappresenti un’occasione di riscatto e la possibilità di sgravarsi dal peso della colpa è confermato dalle parole 93
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della donna rivolte a Castillo quando questi cerca di farla desistere dal partecipare all’arresto: “Sono sicura, lo voglio chiudere io questo caso. Con questo gesto, Trudy riafferma il proprio ruolo e prende consapevolezza della complessità della responsabilità cui è chiamata quotidianamente dal momento che ha scelto di far parte della polizia. Nella chiosa dell’episodio vengono messi a confronto quest’aspetto e quello del codice d’onore maschile. Trudy rivolta a David afferma: “Sono un poliziotto, … non è quello che faccio, è quello che sono”, ma David, convinto di essere stato usato replica con disprezzo: “Mi hai ingannato, mi hai tradito, mi hai usato... non sei niente...non hai onore”.
The gladiator (1986) Una donna esce dal locale in cui lavora. Uscendo dal parcheggio urta inavvertitamente una macchina nera. Lungo la strada l’auto della donna viene raggiunta dalla vettura urtata, che comincia a tamponarla fino a quando in una curva la spinge fuori di strada. Rick Benton (Ken Whale) e Jeff (Brian Robbins), sono due fratelli orfani. Rick è il maggiore e protegge scrupolosamente la vita di Jeff: lo accompagna a giocare a calcio, ne arbitra le partite e si preoccupa dell’andamento scolastico. Rick è un meccanico e lavora presso il rivenditore di auto di lusso Garth Masters (Rick Dees). Joe Barker (Stan Shaw), gestisce uno safsciacarrozze ed è un amico di Rick che si comporta con Jeff come uno zio. Dopo aver riportato al concessionario un vettura appena riparata appartenente a Susan Neville (Nancy Allen) conduttrice di una rubrica radiofonica, Rick torna a casa e accompagna il fratello a guidare per esercitarsi. Durante il viaggio, anche il pick-up di Rick vine raggiunto dall’auto nera che lo spinge fino a provocare un incidente con un auto-articolato. Al risveglio in ospedale, dopo il coma, Rick apprende della morte del fratello, mentre per lui comincia una lunga riabilitazione in compagnia dell’amico Joe. Una volta uscito dall’ospedale Rick partecipa a degli incontri di terapia di gruppo con altre vittime di incidenti causati da guidatori ubriachi. La notte esce con il suo furgoncino e osserva incidenti e prepotenze causate da autisti in stato di ebbrezza. Accecato dal desiderio di vendetta e disilluso dalle parole del tenente Frank Mason (Robert Culp), Rick trasforma il suo mezzo in una macchina da guerra con tanto di 94
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arpione retrattile e comincia a farsi giustizia da solo minacciando gli automobilisti ubriachi, catturandoli con l’arpione e segnalandoli alla polizia. Questa lo invita a desistere dalle sue imprese fuorilegge, ma lui, imperterrito continua la sua missione: si fa chiamare “Il Gladiatore” dal nome della squadra di calcio di Jeff. Intanto la macchina nera continua a provocare incidenti mortali, così come Rick continua a speronare vetture e a farsi giustizia privata. La trasmissione Hot spot di Susan Neville si occupa del caso del gladiatore e dalle parole dei cittadini che telefonano in diretta si avverte che sta diventando una sorta di eroe metropolitano. Una notte in una delle sue azioni Rick sperona una macchina che si muove ad alta velocità, ma quando si avvicina si accorge che la donna nell’abitacolo è incinta. Sconvolto dall’accaduto e minacciato da un ragazzino, Rick decide di costituirsi. Mentre si reca alla polizia sulla sua strada incontra nuovamente la macchina nera e ingaggia con lei un lungo duello, prima sulla strada poi in un cimitero di automobili. Dallo scontro finale esce vivo solo Rick Benton. Il tenente Mason è pronto ad arrestarlo.
Nel 1986 Ferrara viene reclutato dalla New World Television per girare un tv-movie ispirato al film di Elliot Silverstein: The Car (La macchina nera, 1977). Il soggetto è scritto da due professionisti della televisione, Tom Schulman e Jeffrey Walker e dalla produzione il regista newyorkese porta a casa una bella cifra che gli servirà per realizzare King of New York. Ferrara dirige The Gladiator nell’inverno tra il 1985 e il 1986, lavorando con una troupe affiatata, composta da tecnici e professionisti non appartenenti al suo entourage, se si esclude il solo James Lemmo come direttore della fotografia. Fatto salvo l’intento educativo e pedagogico del film, chiaramente veicolabile attraverso un prodotto televisivo, e finalizzato a sensibilizzare il pubblico sul problema della guida in stato di ebbrezza con tanto di numeri e cifre impressionanti sul numero delle vittime e degli incidenti gravi, presenti all’interno dei dialoghi, The Gladiator si pone come opera “alimentare”, in cui però sono altresì evidenti richiami a temi e ossessioni care al regista. Nel film di Silverstein, un grosso veicolo nero apparentemente senza autista, si muove nella campagna californiana mietendo vittime tra i passanti. Ma se The Car è un autentico (e mediocre) horror metaforico in cui la macchina diventa rappresentazione demoniaca (non entra nel cimitero, perché territorio benedetto), The Gladiator è un TV-movie complesso che dietro l’apparente ordinarietà nasconde un intreccio di sottotesti e di richiami cari alla poe95
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tica del regista di New York. Il film di Ferrara, entra nei territori dell’astrazione attraverso la rappresentazione di automobili che ripercorrono, ciclicamente, uno spazio buio: la notte diventa il luogo in cui su strade semi-deserte si muovono “pirati” in preda all’ebbrezza, “gladiatori” vendicativi, e rednecks annoiati: le reiterate riprese in camera-car delle auto immerse nella notte invernale, umida e piovosa di una Los Angeles periferica e irriconoscibile richiamano la presenza di “fantasmi” reali e metaforici. I primi espressi attraverso le silhouettes del guidatore assassino chiuso dentro una macchina nera e corazzata, il cui controcampo (dall’interno dell’abitacolo) è sempre negato, i secondi attraverso le immagini sfuggenti di personaggi minacciosi che si muovono come ombre nella notte, attraversando l’inquadratura e continuando a vivere nel fuori campo (cosa abbastanza inconsueta in un film televisivo), dando vita alla rappresentazione di corpi sdoppiati pronti a rientrare in scena per uccidere o per provocare violenza. I luoghi in cui si muovono le automobili durante la notte sembrano essere sempre la replica di un “luogo primario” (in quest’ottica è fondamentale il contributo dell’amico James Lemmo), una sorta di spirale chiusa da cui il protagonista è impossibilitato ad uscire, ma è condannato a replicare gesti, movimenti e percorsi fino all’infinito: la trappola si aprirà solo al momento della “redenzione” finale. Gli inseguimenti del film non sono tali, sono fatti di movimenti lenti, di lunghe peregrinazioni in auto alla ricerca del “nemico”, di improvvisi squarci di violenza iconoclasta e di scontri in auto a volte repentini e a volte assurdi. Il richiama più diretto, anche se con significati opposti e incomparabili, è quello a Two-lane blacktop (Strada a doppia corsia, 1971) di Monte Hellman, in cui personaggi archetipi, senza nome e senza meta, apparentemente interessati a primeggiare in gare automobilistiche clandestine, si ritrovano on the road impegnati in una ipotetica sfida (in palio c’è una Pontiac 455 GTO) di cui poco per volta essi stessi perdono interesse, per ritrovarsi a vagabondare a bordo di due automobili-simbolo (una del passato e una del presente) lungo strade deserte dell’America rurale. Se il film di Hellman è una chiara metafora dello spaesamento e del disorientamento di una generazione alla ricerca di una identità e di una meta dopo la “rivoluzione” del 1968, quello di Ferrara è una riflessione sottotraccia sui temi dell’identità di genere e del doppio, incentrata sulla presenza di un “feticcio distruttore” simbolo della modernizzazione 96
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della trasformazione del Male (da fisico a meccanico). In entrambe i film, il tema dominante è comunque quello dell’attraversamento dell’ignoto, al termine del quale c’è una sfida misteriosa da affrontare (in Hellman quella di scegliere da parte della donna i compagni di viaggio, in Ferrara quella del Gladiatore di affrontare contemporaneamente paura, psicosi e colpa, che lo riguardano). Sia Two-lane blacktop che The Gladiator, hanno un’anima western e in questo riconducono all’essenza della natura americana e del conflitto sempiterno, legato alle proprie radici, tra Bene e Male, all’interno di una nazione incapace di proteggere i propri figli: nel 1971 dalla guerra del Vietnam, nel 1986 dalla “guerra” delle strade. Nel gioco di interscambi metaforici, emerge prepotente, ancora una volta in Ferrara, la necessità di concentrare nell’urbe la presenza latente del Male, e attraverso di essa richiamare le sue opere precedenti per tratteggiare un nuovo ritratto di vittima metropolitana. “Il Gladiatore si collega sorprendentemente ai temi sviluppati nei film più personali di Ferrara. Rick Benton è un’altra delle vittime urbane del regista […]. Le convenzioni televisive richiedono che Rick e il pilota dell’auto mortale siano persone distinte, nonostante un paio di sequenze provochino una certa confusione sul tenente di polizia Mason, come quando minacciando un paio di teste calde della strada, il guidatore si rivela essere non Rick ma il killer psicopatico”.36
Ferrara si diverte a disseminare nella figura di Rick Benton elementi dei suoi primi tre lungometraggi. Rick è la versione edulcorata del protagonista di The Driller Killer: utilizza la sua auto per punire i guidatori ubriachi come Reno utilizzava il trapano per punire i barboni. Anche qui la furia del vendicatore è indirizzata contro i drunkers, versione ripulita e corretta dei clochards del primo film. Rick, come la Thana di Ms. 45, decide di diventare giustiziere dopo uno scontro casuale con la macchina di due punk ubriachi e arroganti; tornato a casa, turbato per l’accaduto, trasforma il suo pick-up (mezzo di trasporto tradizionale e “campagnolo” in California), in un’autentica macchina da guerra blindata e aggressiva, così come Thana da tranquilla sartina diventava omicida implacabile. Infine la relazione che intercorre tra Rick e il killer sconosciuto (curiosa36 “Film Comment” luglio-agosto 1990, pag. 46, n Silvio Danese, Abel Ferrara, L’anarchico e il cattolico, Le Mani, Recco (GE), 1998, pag. 123
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mente nel trailer veniva chiamato “Il Teschio”) è riconducibile al rapporto tra Matt e Pazzo in Fear City; Rick, così come Matt, si mette sulle tracce del killer per sanare il senso di colpa che lo affligge, provocato dal non essere riuscito a proteggere suo fratello. Non si può dunque escludere una lettura psicologica del film, anche alla luce delle dichiarazioni, sul gladiatore, del tenente Mason: “Potrebbe essere Jekyill e Hyde...” avallate dalla messa in scena di Ferrara. Il regista, oltre a negare, come detto, il controcampo interno alla macchina e mostrare quindi il volto dell’autista, lo mostra in silhouette nera mentre esce da un negozio di liquori, dietro i vetri sporchi e affumicati della vettura, da cui si intuisce solo il contorno del viso, e per dettagli nella scena iniziale in cui si vede la mano che chiude una bottiglia di liquore e l’altra che gira la chiave nel motorino di avviamento. L’autista misterioso ha dunque una doppia valenza simbolica, da un lato quella dell’archetipo del guidatore in stato di ebbrezza, ma dall’altra quella di doppio negativo del protagonista. Abel Ferrara non scioglie l’enigma, ma anzi verso la fine complica ulteriormente le cose mettendo a confronto i due mezzi blindati e modificati, il pick-up e la Camaro, in cui il furgone appare come la replica “psicologica” (è più grande, più potente e più pericoloso) dell’automobile, quasi come a volere sancire la prevalenza dell’uno sull’altra come unica soluzione possibile per mettere fine alla lunga serie di violenze. Anche l’aspetto sessuale di Rick è particolarmente ambiguo: un matrimonio fallito alle spalle di cui non vuole parlare, una relazione platonica con Susan Neville, e le scorribande notturne in perfetta solitudine. Non è chiaro se Ferrara, ammicchi ad un sottotesto indirizzato all’identità di genere, certo è che Rick, dopo la morte di Jeff, inizia un lento ma inesorabile percorso di trasformazione sia personale che del mezzo meccanico. Egli è sconvolto dal senso di colpa per ciò che è accaduto al fratello, e fugge sistematicamente ogni possibile relazione personale per paura di creare legami e terrorizzato dall’idea di subire nuovi traumi, rifugiandosi nella solitudine della simbiosi con la macchina. L’elemento omosessuale nel film è costantemente latente, e se dato il tipo di prodotto non può essere esplicitato, viene costantemente suggerito dalla dinamica degli scontri. Le auto dei due contendenti muniti di rostri, argani e altre bizzarrie si scontrano e si “penetrano” in continuazione reiterando pulsioni libidiche represse. L’intensità erotica aumenta parallelamente al progressivo immedesimarsi 98
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di Rick nel ruolo del giustiziere; si fermerà solo davanti al ferimento di una donna in gravidanza, riconducendo alla vita il suo quadro sessuale destabilizzato dalla morte. Il conflitto è dunque tutto interno a Rick Benton, egli lotta con il proprio doppio sia psicologico che di genere (e in questo è la copia edulcorata di Matt Rossi). L’identità di genere coincide dunque in The Gladiator con l’abbandono alla solitudine e con il delirio di onnipotenza di agire come un “giustiziere” per sanare le proprie ferite e per allontanare il dolore. A tal proposito appaiono come sibilline le parole pronunciate dall’amico Joe all’inizio del film: “Ci sarà sempre qualcuno che farà finta di essere Dio...non credi che sia giusto che ci provino tutti?”. Ma anche in ospedale, di fronte all’amico infermo, Joe richiama profeticamente l’imminente “trasformazione” dell’amico, inscrivendola nel contesto di un presunto disegno divino: “A volte bisogna guardare le cose in profondità...e non come ti sembrano superficialmente. Ogni morte è parte di un grande progetto... è come se..arrivasse qualcosa di buono sulla tua strada...qualcosa che devi imparare a fare...” Rick agisce, “impara a fare”, non uccide, ma ci va molto vicino, ed è proprio sull’orlo del precipizio che l’uomo prende coscienza di ciò che è diventato, quando in attesa ad un semaforo, dimesso e accigliato, viene apostrofato da un ragazzo come un ubriacone che dovrebbe essere fatto fuori dal Gladiatore; solo allora Rick capisce di essersi spinto troppo in là, come subito dopo confessa a Susan durante l’incontro al Pink Bar: “Ho superato il limite Susan...ormai l’ho superato”. Deciso a costituirsi, durante il viaggio verso il comando di polizia, accanto a lui compare la macchina nera che uccide gli automobilisti e comincia con essa un lungo duello destinato a chiudersi al tramonto dentro un cimitero di automobili. Nel finale quando Rick decide di consegnarsi, Ferrara non rinuncia nel sollevare la problematica della scelta facendo pronunciare al suo protagonista la frase:“Ho ascoltato il mio rancore e la mia rabbia e questo ha fatto nascere l’inferno intorno a me”. Le ultime scene girate in un gigantesco cimitero delle auto (evidente metafora del degrado urbano) riguardano il duello tra i due contendenti, che come in un western metropolitano si sfidano a sportellate prima di ritrovarsi in uno spiazzo polveroso per la resa dei conti finale. “Il gladiatore è morto” dichiara Rick al tenente Mason, mentre ai suoi piedi giace il cadavere di un uomo che gli assomiglia in modo impressionante. 99
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Crime story (1986)) Chicago, bienni 1963-’64. alcuni banditi assaltano un ristorante, prendono alcuni ostaggi e fuggono in macchina inseguiti dalla polizia. I piani dei criminali sono stati sconvolti dall’arrivo di Mike Torello (Dennis Farina) e della sua squadra. Il tenente insegue i banditi lungo l’autostrada, su cui si scatena una feroce sparatoria che si conclude con l’uscita di strada dell’auto dei gangsters speronata da quella dei poliziotti. Dopo una breve fuga tra le abitazioni il bandito superstite, un indiano, viene ucciso da Torello di fronte alla porta di una villetta. Titoli di testa. Mike Torello è sposato con Julie (Darlanne Flugel), con cui il giorno seguente si reca a far visita ai proprietari di una drogheria. Qui i coniugi incontrano Johnny O’Donnel (David Caruso), apparentemente un ragazzo esemplare, in realtà interessato ad un’ascesa sociale facile e priva di scrupoli. Johnny, da un po’ di tempo, è in affari con il gangster Ray Luca (Anthony Denison), e i due, al momento, hanno in mente di realizzare un furto di gioielli al museo. Dopo il colpo, i due si recano dal ricettatore Bartoli (Jon Polito), e qui Johnny dà in escandescenza a causa del prezzo tropo basso a loro offerto per la refurtiva. Bartoli infastidito dalla reazione del ragazzo, promette a Luca di aiutarlo nella sua carriera se lui eliminerà il giovane Johnny. Nel frattempo Torello è imputato in tribunale in un caso di intercettazioni illegali, da cui esce “pulito” grazie alle menzogne da lui stesso dichiarate all’accusa al termine del processo. Ray Luca scopre che Wes Connelly ( William Russ), un poliziotto della squadra di torello, da un po’ di tempo lo sta pedinando: il gangester gli tende una trappola e lo uccide a sangue freddo dentro una cabina telefonica. Johnny per rivalsa neo confronti di Bartoli rapina una sua gioielleria e successivamente la vendetta del ricettatore si compie su due giovani complici di Johnny. Dopo un’intensa trattativa tra Ray e Bartoli, il primo recupera i preziosi rubati al museo e uccide Johnny nell’abitacolo della sua macchina. Miracolosamente il ragazzo riesce a sopravvivere giusto il tempo di confessare a Torello, in ospedale, il nome del suo assassino. Deciso a spodestare Bartoli, Luca organizza un ambizioso colpo in un centro commerciale, ma gli uomini di Torello, che intercettano i criminali, li attendono sul posto dove scatenano una furibonda sparatoria tra i clienti del negozio. I gangsters muoiono quasi tutti, ma Luca riesce a sfuggire all’agguato. Torello, senza prove in mano, raggiunge Luca nel suo covo dove gli promette di fargliela pagare e lo minaccia sparandogli un colpo di pistola che ne sfiora la tempia. [In una versione ridotta trasmessa dalla televisione inglese, l’episodio si conclude con Torello che uccide Luca a sangue freddo]. 100
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Crime Story è una serie televisiva prodotta dalla NBC e realizzata da Gustave Reininger e Chuck Adamson, da un’ idea di Michael Mann che ne è anche il produttore esecutivo. Il debutto, con l’episodio pilota di 90 min. diretto da Abel Ferrara è del 18 settembre 1986, poi la programmazione viene spostata dal venerdì sera dopo Miami Vice, alle ore 22.00 del martedì per contrastare il crescente successo di Monnlighting sulla ABC. Ambientata in un periodo ipotetico che va dl 1963/64 ai primi anni ‘80, la serie vede la contrapposizione tra il tenente Mike Torello (Dennis Farina) e il gangster in ascesa Ray Luca (Anthony Denison) mentre tutta la dialettica narrativa e figurativa della serie è giocata sulla contrapposizione tra polizia e gangsters senza mai cedere ad un facile manicheismo, ma anzi, improntando le svolte narrative su un’ ambiguità di fondo che mira alla rappresentazione del doppelanger tra Mike e Ray. In breve lo sviluppo della prima serie segue le azioni del tenente Mike Torello a capo della Major Crimes Unit (MCU) di Chicago a partire dal 1963 dove il poliziotto guida una squadra di poliziotti di “vecchio stampo” che comprende il Sergente Danny Krychek (Bill Smitrovich), il Detective Clemmons Walter (Paul Butler), il Det. Nate Grossmann (steve Ryan) e il Det. Joe Indelli (Bill Campbell). In contrapposizione alla polizia, si pone il rapinatore solitario Ray Luca, un gangster pluriomicida che agisce da solo o con compagni occasionali, mentre in un secondo tempo, la sua ascesa ai piani alti del crimine organizzato lo porta in contatto prima con il ricettatore e consigliori Filippo Bartoli (Jon Polito) e infine con Manny Weisbord (Joseph Wiseman), un boss mafioso ispirato alla figura del gangster Meyer Lansky. Dopo essere entrato nella “famiglia” Luca trasferisce la sua attività a Las Vegas, luogo in cui dopo una serie di vicessitudini incontra nuovamente Mike Torello: tra i due inizia una nuova partita. Il prodotto della NBC all’inizio doveva esser finanziato dalla branca televisiva della Universal, la quale, però, giudicando la serie troppo costosa rinuncia al progetto; subentra un piccolo studio la New World Pictures Ltd. che accetta di finanziare la realizzazione di Crime Story in cambio della possibilità di vendere il prodotto sul mercato estero. L’intento ambizioso di Michael Mann, forte del successo di Miami Vice, è quello di mostrare, attraverso venti ore di televisione, il cambiamento di storie e personaggi lungo un arco di circa venti anni: dal 1963 al 1980. Il lavoro è ispirato alla serie televisiva Police Story, di cui sin dal titolo si presenta come contraltare, ed è sceneggiato attraverso le esperienze dei due creatori: Chuck 101
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Adamson è un ex-detective che ha lavorato nella polizia di Chicago per oltre diciassette anni e Gustave Reininger un ex-banchiere di investimento di Wall Street. Il realismo e la credibilità delle vicende sono due delle carte migliori giocate dalla serie tv dal punto di vista figurativo, mentre sul lato tematico emergono due peculiarità tipicamente ferrariane come la dimensione etica e morale dell’uomo di legge e la rappresentazione del doppio come archetipo del dualismo Bene/Male. Nella serie completa di quarantatre episodi, troviamo anche alcuni attori che in seguito lavoreranno anche nei film di Ferrara, tra cui, un giovanissimo Vincent Gallo, David Caruso e James Russo (ma come guest star vi partecipano anche, tra gli altri, Julia Roberts, Pam Grier, Michael Madsen...). Ferrara oltre al pilota, nel 1987 dirige anche cinque episodi brevi della seconda stagione. Questa volta nessuno dei suoi abituali collaboratori lavora con lui, ma è da notare che l’amico Francis Delia dirige due episodi della serie (il n.12 e il n.13, Hide and go thief e Strange bedfellows). L’ idea di partenza è rivoluzionaria per i tempi: inserire in un prodotto televisivo tempi ed estetica delle opere cinematografiche, trattare la violenza in modo secco e brutale e inserire dialoghi cinici e spietati, il tutto nel contesto della Chicago degli anni sessanta. Il protagonista Mike Torello, interpretato realisticamente da Dennis Farina (un ex-marine che ha fatto la guerra del Vietnam ed è stato rispedito a casa perché troppo violento), è ispirato a Fred Hampton, il poliziotto di Chicago che sul finire degli anni cinquanta uccideva invece di arrestare (con a carico circa diciassette omicidi), in un clima cittadino nevrastenico e intollerante. Come per Miami Vice, anche in Crime story la musica ha un ruolo determinante, sin dalla hit dei titoli di testa, “Runaway” cantata da Del Shannon, e il suo utilizzo extra-diegetico è finalizzato a riproporre le migliori hit del periodo in cui la serie è ambientata, con l’intento di modulare la narrazione su registri musicali. Crime Story, dal punto di vista realizzativo appare come un prodotto televisivo in anticipo di venti anni rispetto ai codici che utilizza, supportato da un’autenticità che sembra uscita dalla penna di Elmore Leonard, e da una ambientazione notturna e onirica che richiama direttamente il cinema classico e il noir di Hawks, Lang, Siodmak, e Ray. La definizione dell’ambiguità dei ruoli, il richiamo continuativo al “doppio”, la dimensione scenografica volta a restituire l’impressione di un’epoca (e non la realtà), definiscono un prodotto in cui i caratteri dei personaggi così come il loro destini, sono polarizzati attraverso un magnetismo reciproco, con la diffe102
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renza che Mike Torello ha come missione di vita quella di eliminare Ray Luca (cioè il suo lato criminale), ed è guidato in questo da un odio che lo consuma progressivamente. Nell’episodio n.20, Top of the world (diretto da Michael Mann), Mike Torello dichiara: “Quando mi alzo alla mattina, indosso la mia ossessione per Ray Luca come mi metto il mio vestito, la mia cravatta e la mia ‘45”. L’odio spinge questo poliziotto; rude e violento, nella sua azione quotidiana, ma il suo non è un odio fatto di rabbia e disperazione bensì è coltivato attraverso l’intelligenza e una insospettabile cultura che emerge, ad esempio nell’episodio pilota di fronte alla vista di due cadaveri uccisi a fucilate in un bar: “Sembra un Jackson Pollock”, un poliziotto al suo fianco: “Pollock...?”, nuovamente Torello: “Un artista, uno che dipinge cose come queste”, nuovamente il poliziotto: “Ah Si,...beh! Questo ha un a mente malata”. Non un episodio casuale ma testimonianza diretta per una nascosta passione per l’arte: in casa sua c’è una riproduzione di Piet Mondrian e persino una delle camice da lui indossate nel finale dell’episodio pilota richiama i riquadri dell’artista olandase. Passione per l’astratto che si manifesta anche nella sua gestualità onirica, nella sua ironia tagliente, nel suo modo limite di interpretare il mestiere di poliziotto. Questa impostazione del profilo di Mike Torello, rende ancor più credibile e pregnante il suo doppelanger, Ray Luca, mostrato come un killer degenerato, elegante e impeccabile, che fa uso di droga e si prodiga in violenze di ogni tipo, senza mai diventare stereotipo o macchietta, ma innervato di un discutibile senso morale e persino di un’ etica criminale. Il fine di Michael Mann è dunque quello di umanizzare il più possibile i personaggi di Crime Story, per costruire un prodotto televisivo “rivoluzionario” che nonostante all’epoca non sia stato (ovviamente) supportato dal successo che avrebbe meritato, con il tempo è diventato opera imprescindibile per il modo di rappresentare l’estetica della violenza su piccolo schermo (basta pensare a The Sopranos) e per tutte le serie poliziesche che sono seguite. L’alchimia creata da Michael Mann è costituita dalla comunione tra materiali di riciclaggio e anticipazioni di sviluppi futuri, finalizzata alla creazione di un “mondo immaginario” in cui l’impressione degli anni ‘60 è intaccata dalla presenza di qualcosa di indefinibile e inconoscibile. Ci sono le Cadillac, le Buick e le Studebacher, i rockabilly e i fast food, i juke-box e le gonne svolazzanti, ma tutto è immerso in una atmosfera onirica in cui emergono contraddizioni e sfumature, in cui la volumetria degli spazi denuncia una modernità non 103
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ancora esplosa “pubblicamente” ma solo patrimonio di pochi eletti: gangster e criminali appunto. L’impostazione di Crime Story, dunque, rientra perfettamente nelle corde autoriali di Abel Ferrara, che qui non si limita al ruolo di mero esecutore ma stringe un sodalizio artistico con Michael Mann, il quale gli affida implicitamente il timone della serie: non a caso nell’episodio pilota si tracciano le coordinate estetiche, morali, e ambientali degli episodi a venire. Il regista di New York dunque si mette al servizio di quello di Chicago e porta nella storia personale di Michael Mann (di cui Crime Story è ampiamente debitore attraverso i ricordi di infanzia e l’ambientazione nella sua città natale), elementi tipici della vita nella Grande Mela. Abel Ferrara distilla minuziosamente nel pilot di Crime Story tutto il suo stile e i suoi temi: una violenza anti-televisiva accentuata dall’uso inconsueto del fuori campo in cui avvengono le esecuzioni, la fascinazione per la morte e per la notte in senso lato, una stilizzazione da cinema classico con l’insistito uso di dissolvenze incrociate, un’illuminazione fatta di estremi in cui anche i colori definiscono un bianco e nero latente, una miscela di melodramma e romanticismo, il senso della perdizione e della redenzione, il valore morale della scelta e infine un compendio di materiali cinematografici equamente suddiviso tra “alto” (Pechinpah, Hathaway, Penn, Hawks, Fuller...) e “basso” (Parks, D’Antoni, J. Hill, Cohen...). In quest’ottica la presenza di Dennis Farina diventa fondamentale nella visione del personaggio di Mike Torello da parte di Abel Ferrara, il quale parla così dell’attore: “Ha ammazzato più gente lui della metà dei gangster di Chicago; era in Vietnam e avevano dovuto rispedirlo a casa perché era troppo violento... Una specie di maniaco omicida: perfetto per la polizia di Chicago. In fondo quale era la differenza tra sbirri e gangster? Entrambi erano violenti e spietati, interpretavano le leggi a modo loro, e molti, come Farina, erano di origine italiana”.37
Visione questa che emerge lungo tutta la realizzazione del pilot, e che viene coadiuvata dagli aspetti intimi e personali della vita del poliziotto, il quale, con la moglie Julie ha un rapporto fatto di smisurato (e talvolta lezioso) romanticismo alternato a improvvise esplosioni di violenza, così come più volte la “risposta” allo “stimolo” che riceve risulta essere inopinamente 37 Abel Ferrara in “Le Revue du cinéma”, 1988, in Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, Il Castoro, Milano 1998, pag. 42
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più aggressiva e sproporzionata. È evidente che Mike Torello fatichi a tenere sotto controllo tanto le sue emozione che il suo istinto, e se con la moglie, dopo un breve alterco cerca subito una immediata riconciliazione confessandole: “Torno a casa a volte e sento che non mi è rimasto niente, intendo dire dentro”, fuori, per le strade, non è possibile alcuna riconciliazione, perché per l’uomo di legge è una necessità impellente ed inconscia, quella di porsi paritariamente al cospetto dei criminali cui si dà la caccia. Il livello dello scontro è altissimo in quella che Ferrara disegna come una partita a scacchi a cui alle mosse di Torello rispondono le mosse di Luca e viceversa. La dialettica tra “stimolo” e “risposta” è incentrata quindi sulla rappresentazione degli opposti del “doppio” in cui l’ombra e la sua raffigurazione diventano determinanti. Non è casuale che il pilot di Crime Story sia continuamente percorso da “fantasmi”, come quelli che rapinano il ristorante all’inizio e che vediamo in silhouette, come sagome dietro vetri smerigliati o con il volto coperto e deformato dalle calze; o come quando Mike Torello aggredisce Pauli nel vicolo, o quando si reca sul luogo dell’omicidio del collega, casi in cui appare prima l’ombra e poi la figura umana, e in cui la notte nera e piovosa funge da nascondiglio perfetto per mimetizzarsi e rinunciare ad agire nel rispetto della legge. La figura “dannata” di Torello (e del suo corrispettivo Ray Luca), nel suo “voler salvare tutta la città”, esercitando un violenza e una repressione talvolta superiore a quella dei criminali, non può che essere il parto di una città che ha sostituito la propria architettura con un omologazione al Male. Gli spazi di Crime Story, delimitati dalle luci al neon, sono non-spazi dove si muovono figure/ombre di uomini alla deriva e dove non è più possibile far penetrare un raggio di sole. L’azione impulsiva degli eventi, che vivono nella dinamica duale crimine/legge, si dipana lungo il binomio stimolo/risposta, che si alimenta nel disagio esistenziale, accentuando i tratti “animaleschi” dei personaggi che popolano la serie. La violenza endemica di una città in conflitto tra Bene e Male, dove le due metà più volte si sovrappongono o si annullano, diventa nella messa in scena ferrariana, teatro espressionista dei fantasmi della coscienza e del rimosso storico di una nazione. Questo è evidenziato dal razzismo strisciante che accomuna gangsters e poliziotti e che si manifesta compiutamente nella descrizione dei rapporti tra minoranze etniche. Emblematica a tal proposito la scena in cui i due poliziotti entrano nel locale frequentato da nativi americani (e in cui ironicamente il bersaglio delle freccette è costituito dal ritratto 105
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del generale Custer), aggrediscono gli avventori per richiedere informazioni e vengono contraccambiati dal lancio di un tomahawk che, opportunamente scansato da Torello, “spacca” la testa del generale Cluster: scena che diventa perfetta sintesi simbolica (e parodistica) tra i rapporti ordinari e quotidiani e quelli storici all’interno di una nazione agglomerato di diversità. La parodia, inoltre, è un’altra peculiarità del cinema di Abel Ferrara e nel pilot di Crime Story, vine richiamata più volte con chiaro intento provocatorio (e anti-televisivo). Nell’incipit, prima dei titoli di testa, la rapina al ristorante è virata al grottesco anche attraverso la contrapposizione dei colori degli abiti, le fasi del crimine e l’incredibile epilogo; non solo, ma il bandito indiano viene freddato da Torello, al termine di un furibondo inseguimento, grazie all’insperato contributo di una donna anziana, intenta a fare le pulizie che interviene con l’aspirapolvere per creare un’ ironico diversivo e permettere al poliziotto di uccidere il criminale, il tutto sotto lo sguardo di due ignari bambini che vedono piombare la violenza sotto la finestra della loro cameretta (chiaro rimando a Peckinpah e alla prima sequenza di The wild bunch (Il mucchio selvaggio, 1969)). Successivamente la parodia riappare nella scena in cui Torello, prima balla e poi spinge un suo collega tra le braccia di una prostituta sovrappeso all’interno di un bar: scena che è posta subito dopo a quella in cui il Tenente vede la moglie ballare tra le braccia di un giovane, e che nella duplicazione parodistica e caricaturale, richiama l’idea del tradimento sedimentata nella mente di Torello (in realtà il ballo di Julie è innocente e il giovane è persino un parente della donna). Infine durante la rapina al centro commerciale il montaggio della sequenza mostra le pallottole colpire indistintamente uomini e manichini e in dettaglio viene sottolineata l’ esplosione della testa di un manichino di donna. La parodia ha comunque una finalità ben precisa: quella di rendere esplicita, attraverso un linguaggio non convenzionale, la perdita di controllo di Mike Torello, che non a caso chiude la scena della rapina iniziale rivolgendosi così ad un bandito pronto alla fuga: “Se capiterà qualcosa agli ostaggi, troverò la cosa che ami di più al mondo e la ucciderò. Tua moglie, tuo padre, tua figlia, il tuo cane...qualunque cosa sia, è morta”. La dicotomia tra poliziotti e gangster è costruita su un doppio registro: quello dell’isteria, al punto che la follia e i suoi derivati vengono più volte richiamati all’interno dei dialoghi, e quello dell’immobilità con i negoziati con Bartoli, o le confidenze con le mogli. Nella “lotta” tra le due parti è comunque l’isteria a prevalere, così non solo 106
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vengono duplicati gli scatti d’ira di Mike e Ray con le rispettive mogli (entrambe chiedono ai loro uomini se sono “pazzi”), ma anche i rapporti tra pari sono costruiti sulla reiterata evocazione della pazzia: quando Torello viene informato della rapina al ristorante la voce alla radio gli dice che c’è un “manicomio”, quando il gangster fa sporgere la donna durante l’inseguimento il poliziotto che guid dice che “quello è pazzo”, quando Torello si rivolge a Johnny O’ Donnell per la strada lo apostrofa come un “pazzo idiota”, e persino il furto al museo viene definito da Bartoli come una “mossa da pazzi”. Rapporti dialettici sulla psicopatia che emerge chiaramente in alcune scelte narrative e lungo il dipanarsi delle varie sequenze, come nelle due sparatorie che aprono e chiudono il film in cui le pallottole sibilano in mezzo alla folla e in cui non ci si pone il problema delle vittime innocenti e/o casuali. L’inseguimento iniziale mostra i gangsters al volante di una macchina della polizia e i poliziotti al volante di una comune Cadillac, le immagini sono scandite da un montaggio frenetico che alterna vertiginosi camera-car laterali a reiterati camera-car sugli scontri frontali, mentre i gangsters per allontanare i poliziotti utilizzano una donna come scudo umano facendola sporgere dal finestrino posteriore e sdraiare sul cofano con la macchina lanciata a tutta velocità. L’aggressione notturna di Torello a Pauli, richiama le aggressioni dei precedenti film di Ferrara (ma anche quella di inizio film nella tavola calda) e mostra tutta la follia rabbiosa del poliziotto che infierisce ripetutamente sul malcapitato per estorcergli delle informazioni. Mike Torello, è dunque in tutto e per tutto il “doppio” di Ray Luca: entrambi si comportano da psicopatici privi di ogni controllo, e per estensione prolungano questo loro profilo ai rispettivi gruppi di cui sono a capo. Entrambi i gruppi giocano la loro partita, ed è appunto per questo che un altro degli elementi più presenti nel film è quello del gioco: Torello, in commissariato dice esplicitamente che “il gioco che stanno facendo non gli piace”; quando il tenente aggredisce Johnny questi sta giocando per strada con alcuni amici; Bartoli guarda in televisione una gara di cavalli ed esulta come un bambino al momento della vittoria e infine anche l’aggressione dei poliziotti mascherati ai danni di Bartoli si tramuta in un semplice (quanto spaventoso) scherzo. L’ambiguità ossessiva del pilot di Crime Story, costruita sulla dicotomia tra Bene e Male, sul rimando continuo tra realtà e parodia richiama (epurata dell’aspetto parodistico) quella del noir Kiss of death (Il bacio della morte, 1947) di Henry Hathaway, di cui è debitore anche per 107
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alcune scene e scelte registiche. Questa la storia narrata nel film di Hathaway: dopo la rapina ad una gioielleria, in un centro commerciale, il gangster Nick Bianco (Victor Mature), viene arrestato. Il procuratore distrettuale Luigi D’ Angelo (Brian Donley) cerca di spingerlo a rivelare i nomi degli altri componenti della banda, facendo leva sull’amore che il gangster prova per sua moglie e le sue due figlie. Nick però non cede perché spera che il suo capo mantenga la promessa e si prenda cura della sua famiglia nel periodo in cui sarà in prigione. Dopo alcuni anni, mentre Nick sta ancora scontando la pena che gli è stata inflitta, viene a sapere che sua moglie, abbandonata da tutti si è uccisa e le sue figlie sono state mandate in un orfanotrofio. Allora si decide a confessare e a fare i nomi degli altri componenti della banda, mantenendo l’anonimato per non subire rappresaglie. Al termine di un turbinio di vicende giunge alla resa dei conti finale con il killer psicopatico Tommy Udo (Richard Widmark). La rapina iniziale di Kiss of Death richiama direttamente quella finale del pilot di Crime Story: entrambe si svolgono in un centro commerciale ed e entrambe si concludono tragicamente con una violenta sparatoria. Anche nel film di Hathaway non c’è distinzione di comportamento tra gangsters e poliziotti, anzi è lo stesso Nick Bianco ad affermare, rivolto a D’ Angelo, dopo l’arresto: “Il suo lavoro è sporco quasi quanto il mio”. Il procuratore dal cognome (volutamente) salvifico, non nega il parallelismo, ma replica stizzito: “Con una differenza però... noi colpiamo i teppisti, non gli onesti”. In una scena viene uccisa la madre di uno dei gangster che si presume abbia fatto la spia, così come in Crime Storty, sono i genitori di Johnny ad essere malmenati per lo stesso motivo. Se D’Angelo è il “progenitore” di Torello, Bianco quello di O’Donnell, Tommy Udo, psicopatico che ride sguaiatamente mentre precipita dalle scale la madre di Rizzo invalida e su una sedia a rotelle, è il degno “padre” di Ray Luca. Anche in Kiss of death c’è la tendenza a rappresentare le figure di D’Angelo e Bianco come le due facce della stessa medaglia: un unico personaggio ambiguo e sfuggente, diviso tra la vocazione a fare del Bene e la tendenza a perpetrare il Male, espressione della metropoli criminale che l’ha partorito (non a caso il film si apre e si chiude sulle immagini dello skyline di New York). Ma il tema della perdita del controllo messo in relazione al caos dominante nella società in cui l’ “eroe” agisce è emanazione diretta del cinema di Arthur Penn. Un suo film del 1975, Night Moves (Bersaglio di notte) serve a Abel Ferrara per tracciare il profilo intimista, 108
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relativo alla dimensione privata di Mike Torello. Nel film di Penn, Harry Moseby (Gene Hackman), è un detective privato, incaricato di ricercare la sedicenne Delly (Melanie Griffith), figlia di un’ex-attrice cinematografica, scomparsa ormai da una ventina di giorni. La ritrova in Florida, in casa del patrigno, ma la ragazza non vuole riunirsi alla madre, che odia. Acconsente a farlo solo quando, durante un’immersione in mare, scopre nel relitto di un aereo, e ne è sconvolta, il cadavere dell’amico Marv Eckmann. Sullo sfondo dell’indagine si intrecciano le vicende personali e la crisi matrimoniale del detective con la moglie Ellen (Susan Clark). Moseby è un uomo in balia della situazione ed è vittima del caos che domina la società. Egli è un uomo incapace di guardare dentro se stesso così come è incapace nel suo lavoro. Un perdente che non riesce a riallacciare i fili della sua vita matrimoniale e al contempo si perde nell’illusione di aver risolto l’indagine che sta conducendo: in realtà sbaglia la soluzione e si ritrova (simbolicamente) alla deriva in balia delle onde in mezzo all’oceano. Il film di Penn è un’opra complessa dai molteplici richiami psicanalitici, che dietro la superficie del “poliziesco” nasconde un dramma esistenziale profondamente morale mostrato attraverso un conflitto matrimoniale ormai consolidato e insanabile, nonostante gli sforzi e l’apparente ottimismo del pre-finale. Tema questo che Ferrara traduce pienamente nella relazione tra Mike Torello e la moglie Julie. Relazione che ancora una volta viene introdotta dall’evocazione della parodia, quando all’inizio del film il poliziotto entra nel locale e gioca a fare il “duro”, mentre Julie si atteggia da prostituta: lo spettatore ignaro crede alla scena, ma subito dopo la realtà viene mostrata attraverso l’inquadratura di una fotografia, posta nella loro camera da letto, del giorno del loro matrimonio. Il film di Penn è richiamato direttamente durante la scena del ballo di Julie con il giovane, in cui Ferrara replica, anche le inquadrature, della scena di Night Moves in cui Harry, recatosi per prenderla all’uscita di un cinema, vede da lontano il tradimento di Ellen. La reazione che segue, con il marito che non confessa l’accaduto alla moglie ma che mantiene a stento il controllo sui nervi e che mostra, successivamente, cinismo e violenza nel relazionarsi con la donna è le stessa di Mike Torello una volta che Julie torna a casa dopo il ballo. Il richiamo alla dimensione relazionale di Night Moves è una scelta narrativa non casuale ma che tende a rappresentare le donne di Crime Story (discorso che vale anche per quella di Ray) come amanti che, facendosi carico delle frustrazioni e della sofferenza dei rispettivi mariti, ne 109
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garantiscono il precario equilibrio mentale e fungono da valvola di sfogo affinchè essi non degenerino nella pazzia conclamata. Crime Story, sin dal suo pilot (e qui più che altrove) è dunque, opera stratificata, più cinematografica che televisiva, talmente in anticipo sui tempi da non essere né compresa dalla critica né apprezzata dal pubblico, ma che ha rappresentato la possibilità di collaborazione tra due personalità opposte e antitetiche come quelle di Michael Mann e Abel Ferrara, il cui modo di lavorare e intendere il cinema è pienamente riversato all’interno della serie. E se Ferrara non termina del tutto le riprese del pilot, perché impegnato per il suo (temporaneo) ritorno su grande schermo nella produzione di China Girl (id., 1987), il suo coinvolgimento nel progetto va oltre la semplice esecuzione, visto che nel 1986 co-dirige (con Mario di Leo, Leon Ichaso e Bobby Roth, in realtà si tratta di una puntata collage delle precedenti), l’episodio n.11 Crime pays, e l’anno successivo torna da Mann per dirigere altri cinque episodi della seconda stagione del serial.
Crime story – Gli altri episodi Crime pays (ep. 11 – prima stagione): l’episodio è, come evocato sin dal titolo, finalizzato a dimostrare che il crimine paga. Attraverso una “sintesi delle puntate precedenti”, costruita sui momenti più violenti e più action, provocatoriamente viene descritta l’ascesa criminale di Ray Luca e la corrispettiva degenerazione della figura di “uomo di legge” Mike Torello. Le immagini del pilot di Ferrara, ritornano attraverso una rivisitazione (diverso è il montaggio e diversa è la musica) della rapina al ristorante e del successivo inseguimento, mentre una voce-off lega attraverso il racconto le parti salienti delle vicende antecedenti. Il montaggio alternato “a blocchi” evidenzia il doppelanger che lega Mike e Ray, mentre quest’ultimo, prima sfugge ad una serie di agguati e tentati omicidi, poi inizia la sua ascesa verso le vette dell’organizzazione criminale di Manny Weisbord. Crime pays accentua ulteriormente, attraverso il montaggio ravvicinato di episodi violenti, la pazzia di Luca e la sua vocazione al crimine: a tal proposito è emblematica la scena del cecchino che si chiude dopo una serie di ammazzamenti, con l’esplosione della cabina dell’ascensore provocata da Luca, e quindi con 110
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ulteriore strage. L’episodio si chiude con l’ingresso di Ray Luca nella famiglia di Manny: la famiglia “criminale”, si sostituisce a quella domestica, come dimostra la scena precedente della lite violenta tra Luca e la moglie con quest’ultima che lo invita a sparare a lei e ai bambini. Anche in quest’episodio “riassuntivo”, emergono i temi ferrariani, a testimonianza che il contributo del regista di New York, in Crime Story, attraversa come un basso continuo tutti gli episodi anche quelli non diretti da lui. Nelle stagioni successive Abel Ferrara dirige altri cinque episodi, i cui titoli, appartengono al 1987, e sono i seguenti: The Mafia War (La guerra di mafia), Blood Feud (La faida), The Vegas Connction, Luca’s Fall (La caduta di Luca) e The Final Chapter (Il capitolo finale); puntate singole, in cui sono evidenti i temi di sempre e in cui, si evince, rispetto all’insieme di tutte le puntate, una certa continuità narrativa e della messa in scena che fa di Ferrara, a tutti gli effetti, uno dei “padri” dell’intera serie televisiva.
China girl (1986) West Side di New York. Linea di confine tra Chinatown e Litlle Italy. Canal Street. Tony Monte (Richard Panebianco) incontra Tyan-Hwa (Sari Chang) in una discoteca del quartiere cinese. I due vengono avvicinati dalla gang di TsuShin (Joey Chin), la ragazza allontanata e il ragazzo costretto alla fuga e inseguito fino ad oltrepassare Canal Street. I cinesi oltrepassano il confine e si trovano a confrontarsi con gli italiani capeggiati da Alberto “Alby” Monte (James Russo) e da Johnny Mercury (David Caruso). L’arrivo della polizia interrompe lo scontro,che riprende successivamente ad un semaforo rosso, dove i cinesi, in macchina vengono aggrediti dagli italiani a colpi di spranga e catene. Alby intima al fratello Tony di non oltrepassare più il confine, e la stessa cosa fa YungGan (Russel Wong) con la sorella Tyan-Hwa. Nel frattempo, Tsu-Shin e la sua gang, aggrediscono i proprietari del Canton Garden e gli intimano di pagare loro la protezione, anche se il loro locale adesso è situato nel quartiere italiano. In un ristorante il capo della triade locale, convoca Yung e lo minaccia di ritorsioni qualora il cugino Tsu dovesse nuovamente usare violenza nel quartiere italiano. Il boss della triade spiega Yung che niente può alterare l’equilibrio affaristico che sussiste tra China Town e Little Italy, e che niente deve incrina111
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re il suo rapporto con il mafioso italiano Enrico Perito (Robert Miano). Nonostante i rimproveri e le minacce, Tony e Tyan-Hwa continuano a frequentarsi e Tsu-Shin fa esplodere per ritorsione il Canton Garden. A quest’azione segue la rappresaglia degli italiani capeggiati da Alvin, mentre la mafia e la triade agiscono nell’ombra eliminando alcuni membri della gang di Tsu-Shin. Dopo l’ennesimo scontro violento tra italiani e cinesi, Enrico aspetta il ritorno di Alvin e i suoi compagni nella sua pizzeria, e quando il ragazzo entra lo pesta a sangue sotto gli occhi impassibili del boss della Triade. Durante i preparativi per la processione della festa dell’Immacolata, Tony si scontra con Mercury accusandolo di razzismo. Nel frattempo Yung, dopo uno scontro verbale con Tsu-Shin, si rende conto che la triade lo sta usando e decide di ritornare a Hong Kong e di riportare con sé la sorella. Durante la processione Tsu-Shin irrompe sul pianerottolo dell’appartamento di Alby e lo uccide pugnalandolo, poi fugge tra la folla inseguito dagli italiani. Ai funerali di Alby, Tony si ribella ad Enrico e all’educazione mafiosa, e lo accusa davanti alla comunità italo-americana di essere la causa della morte del fratello. In seguito Tony riattraversa Canal Street per andare a trovare Tyan-Hwa, e mentre i due si baciano sul marciapiede vengono notati da Tsu-Shin che li uccide entrambi con un colpo di pistola.
Dopo la parentesi televisiva e la collaborazione con Michael Mann, Ferrara medita il ritorno su grande schermo. In questo periodo sta pensando di realizzare il remake di 3:10 at Yuma (Quel treno per Yuma, 1957) di Delmer Davies. La discreta somma accantonata con i progetti televisivi gli permette di avere un potere minimo di contratto con i produttori, e di potersi permettere l’ingaggio per i due ruoli principali di Tom Berenger e Mickey Rourke. Come tanti altri progetti del regista, questa idea è destinata ad arenarsi (non per sua volontà) ancora in fase di pre-produzuine. Mickey Rourke, due anni prima, è stato protagonista del film di Michael Cimino Year of the dragon (L’anno del dragone, 1985), il cui finale è ampiamente debitore del cinema western. Abel Ferrara, con China Girl (id, 1987) coniuga temi e ambientazioni del kolossal di Cimino, riprende le atmosfere western e ricorre ad un classico del passato come “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, per costruire un film sfuggente e sinuoso, dall’immagine espressionista e dal ritmo e dal montaggio incalzante, debitore di West Side Story (id., 1961) di Robert Wise e Jerome Robbins (di cui è un quasiremake). Prodotto per la Vestron Pictures da Michael Nozik, il film di Ferrara, viene presentato in anteprima al Festival di Cannes nel maggio del 112
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1987 ed esce nelle sale americane il 25 settembre. Anche in questo caso il film va incontro ad alcune traversie produttive di cui la più clamorosa è senza dubbio il finale imposto dalla Vestron per l’edizione americana del film, che vede Tony e Tyan-Hwa partire insieme. China Girl è chiaramente ispirato alla tragedia di Shakespeare, come dimostrano: il confronto tra le due “famiglie”, i nomi di alcuni personaggi (Mercury al posto di Mercutio, Rosetta al posto di Rosaline), la scena del balcone, e persino alcuni dialoghi come quello in cui Mercury apostrofa così Tony: “Ehy Romeo!”. Dopo l’esilio televisivo a Miami, Los Angeles e Chicago, Abel Ferrara torna a girare per il cinema, e lo fa tornando nella sua amata New York. La sua gioia è riassumibile nella dedica finale, posta al termine dei titoli di coda “Dedicated to the people of Chinatown and Little Italy”, segno evidente della felicità assaporata per un ritorno alle proprie origini, e per la possibilità di raccontare ciò che meglio conosce. A conferma di ciò intervengono le sue parole raramente così entusiaste: “È il mio film favorito. Mi piacciono i personaggi, mi piacciono le location, mi piace come ha lavorato il direttore della fotografia Bojan Bazelli. E mi piace l’idea, questo mondo feudale, due comunità vicine di casa divise da un solo isolato. Questo mondo esiste davvero, e tanto quanto è una favola, è anche prossimo a essere un documentario. Sembra un po’ assurdo, ma avevamo intenzione di restare fedeli al materiale originale senonchè questo aspetto documentario era già presente in quel materiale originale. Romeo e Giulietta hanno una storia d’amore, ma nello stesso frangente Verona è messa in ginocchio dai teppisti locali. È bizzarro: ti metti a fare un gang-movie e improvvisamente ti devi occupare di due ragazzini di quindici anni che si innamorano pazzamente”.38
Altrove, è lo stesso regista a spiegare le intenzioni del film e a prendere le distanze dalle possibili associazioni sia con Shakespeare che con il musical di Wise e Robbins: “La situazione tra cinesi e italiani è molto diversa da quella di Verona o da quella tra Jets e Shark. China Girl è Little Italy nel 1987. È una storia tutta nuova. La struttura di potere è unita e quando i ragazzi lo scoprono, per loro è come un grande risveglio politico. I cinesi e gli italiani sono stati educati ad odiarsi recipro38 “Sight
and Sound”, febbraio 1993, pag.22
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camente. Non si sono mai accorti che il razzismo che gli adulti gli hanno instillato è solo uno strumento per opprimerli. Sono gli anziani che opprimono i giovani per continuare i loro affari. Il mio film racconta il risveglio politico dei giovani”.39
La lotta tra gangs, e il predominio etnico di Chinatown su Little Italy, sono al centro della prima mezz’ora di Year of the dragon, in cui si può scorgere il germe di quelle situazioni complesse, in cui si intrecciano odio e affari, che ritornano in maniera più compiuta e approfondita in China Girl (mentre nel film di Cimino, queste, appartengono alla superficie e ai prodromi della vicenda narrata). È curioso notare, comunque, che le parole utilizzate e il ruolo interpretato da Ronnie Yung in Year of the dragon abbia il suo corrispettivo dicotomo in China Girl nella figura di Tsu-Shin. Entrando in un negozio di Little Italy per estorcere denaro, Ronnie si esprime in questo modo: “Voi italiani siete duri d’orecchio, oppure fate finta di non sentire. Questa strada è nostra adesso, se vuoi restare devi pagare...come fanno tutti gli altri”; il titolare del negozio replica stizzito: “Senti ragazzo, tu attraversi Canal Street e vieni qui a fare lo spaccone...”, ma non riesce a terminare la frase che viene freddato da Ronnie con un colpo di pistola in fronte. In China Girl, quando Tsu-Shin e la sua gang irrompono al Canton Garden così si rivolgono al titolare minacciato con un coltello alla gola: “Il locale è cinese, tu sei cinese, e devi pagare per la protezione. I cinesi fanno affari con i cinesi. Ti conviene rispettare le regole...se non vuoi avere problemi”. La striscia d’asfalto di Canal Street che divide Chinatown da Little Italy diventa determinante, seppur con ruoli diversi, nell’economia dei due film: marginale nel film di Cimino, centrale nell’opera di Ferrara. In Year of the dragon, il poliziotto Stanley White, durante un alterco con un suo superiore, anticipa ciò che nel film di Ferrara è già una realtà: “Quei cinesi diventeranno padroni di Canal Street; sbatteranno fuori la mafia...sto parlando di banche, immobili, esercizi commerciali...”, mentre dopo la strage allo Shangai Palace, la Triade egemone di Harry Wong che si ritrova seduta attorno ad un tavolo, disapprova l’azione dei giovani gangster e afferma per voce del suo capo: “Gli affari non possono prosperare se non c’è armonia”. Entrambi questi temi si ritrovano, compiuti e acquisiti, in China Girl, nel lungo monologo che il boss della Triade impone come lezione di vita, durante l’incon39 Abel
Ferrara, Film directors on directing, pag.51,traduz. nostra
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tro al ristorante, al giovane e scalpitante Yung: “Venti anni fa il territorio degli italiani comprendeva quaranta isolati a nord di Chinatown. Oggi ne hanno tre. Tra cinque anni dovrai andare a Brooklyn per mangiare una pizza. Yung, noi abbiamo grandi progetti per te, ma tu devi imparare cosa significa essere un vero Chuntsu. Un vero uomo di comando. I rapporti con gli italiani si basano sul reciproco scambio di favori vantaggioso per tutti. Un vero Chuntsu fa solo ciò che è giusto per la sua gente. La pace è una cosa giusta per la sua gente, l’obbedienza è giusta. Spargere sangue invece è male per la sua gente”. Sono le parole dello sceneggiatore Nicholas St. John a spiegare al meglio il tessuto narrativo e morale di China Girl: È una storia d’amore in una società razzista. Il quartiere sta cambiando, via via gli italiani se ne vanno e arrivano i cinesi, quindi la situazione è assai instabile. La tradizione è una bellissima cosa, ma ha anche qualcosa di tremendo. Abel ha un occhio eccezionale, tratta le scene d’azione meglio di chiunque altro...e il cinema è azione, conflitto. I nostri film contengono alcuni elementi di violenza ma mostrano tutti che la violenza è sbagliata. La violenza non è mai la risposta.40
In China Girl per mantenere lo status-quo, i “vecchi” condizionano la vita dei “giovani” inculcando nelle loro menti il “valore” dell’odio, non in senso provocatorio, ma come strumento razionale per concretizzare quella “barriera invisibile” necessaria per continuare ad intrattenere rapporti, economicamente convenienti, tra le due comunità. La barriera, il confine, sono l’elemento simbolico attorno a cui è costruito China Girl, sin dal titolo del film che scorre su sfondo nero con le due parole, blu elettrico a caratteri cubitali, che scorrono l’una accanto all’altra ma in direzioni opposte. Canal Street è dunque una barriera, troppo esile e fragile per continuare a contenere le rivalità etniche tra italiani e cinesi. Abel Ferrara costruisce la rappresentazione del conflitto attraverso la dinamica degli spazi, in cui si muovono i due gruppi sempre più intolleranti e in cui il dissidio non è manifesto e esteriore, ma è profondamente interiore, animato sin dall’infanzia dal culto dell’odio e dalla separazione tra le coscienze, dove aree, perimetri e reti costituiscono micro-spazi in cui produrre violenza. Le due gang si muovono su un declivio pericoloso (la m.d.p. scende spesso a picco sulla scena) sul quale si concretizzano fughe, inseguimenti, aggressioni e irruzioni, che sono 40 Nicholas
St. John in Alessandro Camon, Catalogo del Mystfest XII, 1991
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il frutto visibile del rancore reciproco e, tanto più simbolico, come dimostra la scena in cui Mercury urla tutta la sua rabbia sfogandosi con raffiche di mitragliatrice sparate a caso nella notte dal tetto di un grattacielo e che l’inquadratura di Ferrara restituisce sotto forma di immagine di guerra mostrando il ragazzo come se fosse Rambo. La violenza coreografica non ammorbidisce l’impatto delle aggressioni costruite sul continuo rimando tra ombre, silhouettes e riflessi sul selciato bagnato dalla pioggia, ma anzi acuisce l’immanenza dell’azione attraverso una rappresentazione grafica e stilizzata delle risse. L’intento, mostrato anche attraverso le continue oscillazioni della m.d.p. da destra a sinistra (e viceversa), lungo tutti i dieci minuti iniziali nella lunga sequenza dell’inseguimento e del conflitto è quello di rendere visibile la barriera che divide le due comunità (qui volutamente sottolineata attraverso le reti divisorie sparse nel quartiere), restituendogli una forte valenza politica. Abel Ferrara dunque, declina nel conflitto etnico la rappresentazione del più bieco odio razziale e traduce con linguaggio moderno e immediato quello che in passato è stato al centro di molti film sotto la denominazione di antisemitismo, sostituendo ad ebrei e tedeschi, i cinesi e gli italiani e concentrando in luoghi delimitati come i quartieri temi e dinamiche di intere società. Canal Street, è una strada, un non-luogo di transito, una striscia d’asfalto perennemente umida, e come mostra l’inquadratura al rallentatore sull’immagine di una pozzanghera, un luogo in cui tutto può annegare e/o precipitare da un momento all’altro a causa della sua fluidità e dei suoi movimenti: basta che un corpo penetri l’acqua perche questa si muova e le sue onde si allarghino e travolgano tutto ciò che sta attorno. Abel Ferrara quindi fa di Canal Street un simbolo, come può esserlo un giorno (persino un istante) o un idea. Nel film The mortal storm (Bufera mortale, 1940) di Frank Borzage, tratto dal romanzo di Phillys Bottome del 1937, è un giorno, il 31 gennaio 1933 (quando Adolf Hitler diventa cancelliere), a cambiare per sempre la vita di una tranquilla cittadina della Baviera e della sua famiglia più rappresentativa. Già a tavola quando dalla radio proviene la notizia dell’accaduto, i membri (soprattutto giovani) della, famiglia del Prof. Viktor Roth (Frank Morgan), si dividono (anche visivamente) tra entusiasti e preoccupati, mentre è nella scena in birreria che si concretizza, in un istante, il cambiamento di prospettive e l’odio si manifesta in tutta la sua forza. All’ingresso di Fritz Marberg (Robert Young) ex-fidanzato di Freya Roth (Margaret Sullavan) la figlia del professore e attualmente aderente al nazi116
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smo tutti si alzano in piedi, tendono il braccio destro e cantano l’inno del partito; tutti tranne Freya e Martin Breitner (James Stewart), oltre ad un vecchio professore che viene prima preso a male parole dai giovani nazisti e poi brutalmente aggredito all’esterno del locale. Borzage, riprende tutto attraverso alcune long-take, evitando quasi del tutto dialoghi e commenti: non ce n’è bisogno, è già tutto li davanti agli occhi dello spettatore. Nel film di Borzage, come in quello di Ferrara, è bastato un piccolo cambiamento a modificare irreversibilmente storie e vite di persone che fino ad un secondo prima vivevano nella più pacifica serenità, come dimostra la comparazione tra le due scene che mostrano l’aula universitaria, in cui il 30 gennaio si festeggia il compleanno del Professor Viktor e a fargli gli auguri sono l’ebreo Martin e il prossimo nazista Fritz l’uno accanto all’altro, mentre il 31 entrambi si ritrovano in un’aula divisa a metà tra giovani in un uniforme hitleriana e altri in borghese e con i primi che lasciano l’aula in disaccordo con le teorie del professore. Emblematico, inoltre, appare il fatto che in The mortal storm, anche la famiglia stessa si divida: due fratelli aderiscono al nazismo, mentre la sorella ne prende le distanze e assiste impotente alle violenze ai danni del suo nuovo compagno, l’ebreo e dissidente Martin; anche in China Girl, per gli stessi motivi le famiglie si dividono, e se il conflitto tra Yung e suo cugino Tsu-Shin appare dettato da logiche di potere, quello tra Alby e Tony è il frutto di una diversa visione del mondo, talmente opposta da snaturare la consanguineità, come mostra lo stesso Ferrara che chiude la scena del litigio tra fratelli con una fotografia che li ritrae, durante l’infanzia, l’uno sulle spalle dell’altro. Inoltre in entrambe i film sono i “vecchi” ad alimentare l’odio tra giovani per perseguire i loro interessi di potere ed economici, e la tragedia si consuma sempre ai danni di due innamorati senza né colpe né responsabilità; Freya muore tra le braccia di Martin e sussurra: “Finalmente...siamo liberi”. Ma la barriera può anche solo essere rappresentata dalla finzione, da un’idea scellerata che restituisce orgoglio e dignità. È il caso di Gentlemen’s agreement (Barriera invisibile, 1948) di Elia Kazan, in cui un giornalista Skyler Green (Gregory Peck) si fa passare per ebreo per poter scrivere un reportage sull’antisemitismo, mettendo così a repentaglio la propria incolumità, quella dei suoi familiari e rischia di far naufragare la sua relazione sentimentale con Kathy (Dorothy McGuire). Seppur tra alcune ingenuità, una mancanza di durezza nel trattare l’argomento e derive sentimentalistiche, il film di Kazan restituisce appieno il 117
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senso dell’indifferenza che diventa connivenza. In un dialogo a tavola tra padre e figlio, si evince tutta la natura, semplice e complessa della, “banalità del Male”, quando il genitore spiegando l’antisemitismo afferma: “C’è gente che odia altra gente”. Stessa teoria applicata da Ferrara nel suo China Girl, esplicitata attraverso i commenti irridenti che si scambiano italiani e cinesi in merito alle rispettive caratteristiche somatiche, e concretizzata nella rivolta di Tony nei confronti di Mercury quando questi scimmiotta gli ex proprietari del Canton Garden; Tony irritato dall’atteggiamento del compaesano, suscitando le ire di suo fratello e dei suoi amici afferma: “Loro non sono musi gialli: sono persone”. Situazione che Kazan mostra simbolicamente attraverso la comparazione del cognome reale del protagonista (Green) e quello fittizio (Greenberg), scritti l’uno accanto all’altro sulla buca delle lettere, che suscitano il commento indispettito e le rimostranze del portiere il quale non vede di buon occhio la presenza di ebrei nel palazzo. Nel film di Kazan come in quello di Ferrara, ad emergere su tutto è però il concetto di connivenza: quel silenzio assenso che permette all’odio di espandersi e di fare proseliti; quel continuo sminuire eventi marginali come le barzellette che, lentamente attraverso la loro liceità consentita, trasformano le persone in categorie, trasfigurano la religione in simulacro, e alimentano l’ipocrisia della “gente per bene”. Per dare forma a queste urgenze Abel Ferrara, ricorre al romanticismo e al dramma di Romeo e Giulietta, relegando volutamente i due amanti sullo sfondo della vicenda: marginalità che è quasi un atto dovuto necessario per focalizzare lo sguardo sul tema della “scissione” che attraversa il film come un basso continuo ed ha il suo elemento cardine nella striscia di asfalto di Canal Street. Se questa divide i due quartieri etnici, Tyan-Hwa e Tony sono divisi dall’odio razziale che appartiene ai giovani, che paradossalmente appaiono più bigotti e tradizionalisti dei loro vecchi: la banda di Tsu-Shin infatti non accetta le regole della Triade, e Alby e i suoi amici non vogliono più sottostare agli ordini imposti dalla mafia. Non si tratta della semplice ricerca di un posto al sole fin qui negato, ma come dicono le parole che Tsu-Shin rivolte al cugino Yung che lo invita a fermare le violenze della sua gang, è in ballo qualcosa di più profondo e di più vitale: “Lui ha scelto te. Per noi rimarranno solo le briciole. Me ne frego del vecchio, io mangio sempre riso e lui tutto ciò che vuole”. Divisione quindi, scissione dei caratteri, delle tradizioni e delle etnie, come elemento disturbante e prevaricatore dei sentimenti e delle relazioni umane 118
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in una società dove la religione, seppur presente, è ridotta all’iconografia degli oggetti o sterile simulacro, ma è lontanissima dal guidare l’agire dei personaggi. Divisione esplicitata anche nelle immagini con il continuo rincorrersi espressionista di corpi e ombre, reso magnificamente dalla visionarietà della fotografia di Bojan Bazelli. La violenza e la scissione, sono inoltre sintetizzati nella scena dell’omicidio dell’energumeno cinese, che viene prima pugnalato nel suo letto da un uomo della Triade, e poi dopo essersi alzato, estratto lo stiletto cinese, e pronto a colpire il suo assalitore, viene accoltellato alle spalle da un uomo della mafia con grande spargimento di sangue.41 Tra delitti e vendette, la storia d’amore tra Tony e Tyan-Hwa sembra rimanere sullo sfondo per tutta la durata del film, per poi appropriarsi prepotentemente della scena nel lirico finale, dove i due giovani morti, mano nella mano, vengono accarezzati da un dolly fluido e avvolgente che con il suo movimento circolare sembra alzare i corpi dal cemento bagnato e dolcemente sospingerli in cielo. China Girl, formalmente è perfetto: la cinepresa sembra dettare in anticipo i movimenti e le azioni dei personaggi. In questa pellicola i movimenti di macchina sono l’espressione stessa dello svolgersi della vicenda, dettano i tempi dell’azione e delimitano gli spazi, aprono squarci di luce nella notte e sottolineano i passaggi cruciali del film anticipando gli eventi: come nel finale prima del duplice omicidio, dove la cinepresa letteralmente precipita su Tsu-Shin che sta per sparare, o nella lenta carrellata dal basso ad inquadrare un corpo penzolante da un semaforo, nel silenzio della notte, o ancora nell’inseguire la vertiginosa discesa verso il basso condotta dai protagonisti durante l’inseguimento iniziale. La m.d.p. È aderente ai personaggi, schiacciata sui loro primi piani, o corre radente al suolo nel seguire i piedi che corrono sull’asfalto durante gli scontri tra le giovani gang; ma è anche posta ad altezza uomo, perfettamente inserita nella vita tanto di Chinatown quando di Little Itlay, pronta a riprendere, con taglio documentario, volti ed espressioni della gente comune (come si vede nelle immagini su cui scorrono i titoli di testa). Nonostante la mobilità della m.d.p., la regia di Ferrara è anti-spettacolare, priva di ogni manierismo e intenta ad allontanare una visione manichea degli eventi. A quest’operazione, contribuisce la colonna sonora, la quale alterna momenti melodrammatici ed incalzanti, e vede la partecipazione in prima persona 41
L’ultima parte di questa scena non è presenta nell’edizione italiana del film
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dello stesso regista. Il soundtrack di China Girl è costituito dal connubio tra musiche originali di Joe Delia, utilizzate per scandire gli incalzanti momenti degli inseguimenti e delle risse, con una variegata presenza musicale che vede la partecipazione, tra gli altri, di Meat Loaf, Aerosmith e Run D. M. C., oltre alle composizioni degli “amici”, Douglas Metrov, Paul Hipp (Sentimental reasons e Midnight to you), Marc Anthony (Blue with me), David Johansen (Chinatown tonight, scritta dallo stesso Ferrara). Per riprendere la storia d’amore tra Tony e Tyan-Hwa, Ferrara ricorre all’astrazione, per riprendere, non il realismo dei sentimenti, ma la loro impressione, mostrando l’energia e la vitalità che si sprigiona da due corpi adolescenti improvvisamente travolti dall’amore più puro e radicale. Il vortice che questa unione impossibile tra i due ragazzi sprigiona, improvvisamente fa deflagrare tutto il mondo circostante precipitando le due comunità giù verso un baratro di cui non si conosce la fine. Discesa che contrasta violentemente con la gioia della passione priva tanto di ragioni, quanto di razionalità che coinvolge Tony e Tyan-Hwa , i quali, alternano la rozzezza comunicativa comune a tutti i ragazzi di periferia (durante i balli scatenati), con la dolcezza disarmante dei loro momenti di intimità (come nell’amplesso appena suggerito che viene consumato nello squallido scantinato). In questa visione espressionista, che attraversa tutto il film, sia nel racconto della storia d’amore che in quello del conflitto tra le due gang, emerge la profonda e “irregolare” cultura cinematografica di Ferrara, che in questo film chiama in causa il cinema contaminato di realismo ed espressionismo di Lupu Pick. A tal proposito è emblematica la scena shakesperiana del balcone, in cui in una notte piovosa, tra mattoni lucidi, grate e inferriate, maleodoranti bidoni della spazzatura, Tony dichiara il suo amore a Tyan-Hwa , la quale appare sospesa tra minacciose voci parentali e fatiscenti balconi ricoperti di panni stesi. La traduzione, è di stampo epico, secondo l’ottica in cui l’amore genera la guerra. Provocatoriamente, Abel Ferrara, sostituisce alle motivazioni sentimentali che richiamano la pace, quelle più prosaiche e realistiche degli aspetti economici. Il sentimento proibito tra Tony e Tye-Ann, non può intaccare il patto generazionale che unisce italiani e cinesi nella giusta ed equa spartizione degli affari. I capi delle due mafie, non esitano ad annientare i giovani, che loro stessi hanno scientemente cresciuto nell’odio, nel momento in cui questi cercano un loro riscatto ed una loro affermazione personale. In China Girl il confronto tra le due famiglie è vissuto direttamente attra120
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verso la complicità della vecchia generazione, e di riflesso nell’irrequietezza della giovane generazione. Abel Ferrara e Nicholas St. John, abilmente ricostruiscono il tessuto narrativo di West Side Story, ma rispetto all’anonimo e impersonale musical di Robert Wise e Jerome Robbins, inseriscono nel loro film il dominio coreografico del movimento negli spazi territoriali unito ad una passione ed emotività viscerale nei personaggi. West Side Story e China Girl, sono quasi sovrapponibili: ci sono le due gang, le grate e le reti divisorie, e la rissa collettiva che apre i due film si consuma in uno spazio delimitato da reti e cancelli e si chiude con l’arrivo della polizia, mentre la m.d.p. radente al suolo ripropone lo stesso campo medio. Anche in West Side Story c’è una strada, e un ragazzo della gang dei Jets dichiara: “Una banda che non è padrona della strada, non conta niente”. Tony e Maria sono i “progenitori” di Tony e Tyan-Hwa ; Maria ha un fratello, Bernardo, che, rivolgendosi al cugino, dice le stesse parole del fratello di Tyan-Hwa: “È mia sorella, decido io cosa è giusto per lei”. Che si tratti di portoricani e polacchi come in West Side Story, o di cinesi e italiani come in China Girl, quando i due giovani si incontrano, durante un ballo, e vengono travolti dalla passione, intorno a loro l’atmosfera cambia, il silenzio prende forma e i rispettivi gruppi etnici si schierano alle loro spalle. Al delicato amplesso di China Girl corrisponde la simulazione del matrimonio nel negozio di West Side Story; Bernardo, prima di iniziare la rissa tra Jets e Sharks afferma: “Ognuno di voi odia ognuno di noi...e noi vi contraccambiamo”, mentre dopo l’omicidio del fratello di Maria, Tony raggiunge la ragazza nella sua stanza e chiosa: “Il problema non siamo noi, ma è tutto ciò che ci circonda”. Evidentemente quello che in West Side Story è espresso a parole, in China Girl è tradotto per immagini, la cui forza impattante non necessita né di dialoghi né di spiegazioni. Infine, prima del finale in cui Chino spara a Tony che muore tra le braccia di Maria, Doc, il proprietario del negozio in cui si ritrovano i Jets, mentre si sta per consumare lo stupro di Anita irrompe furioso e sbotta: “Ma si può sapere cosa avete in mente voi ragazzini? … è già abbastanza sudicio il mondo”. Ecco che la differenza sostanziale tra i due film è quindi, a livello contenutistico e morale. In West Side Story ai “vecchi” è affidato il ruolo di “vigilanza” sulla giovane generazione, mentre in China Girl rivestono quello di causa responsabile dei tragici eventi. Sin dai titoli di testa del film di Ferrara infatti appare evidente come le divisioni etniche abbraccino ogni aspetto della vita quotidiana, e se l’insegna 121
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riportante il cognome del regista associato a quello di un bar in cui si offrono cappuccino e caffè espresso, appare come un ironico auto-omaggio, l’episodio che vede i cinesi prendere possesso di un negozio italiano nella strada “degli italiani” appare particolarmente significativo già nella sua dinamica: vengono mostrati i nuovi titolari mentre spostano le vecchie insegne e raschiano via dalla vetrina il nome D’Onofrio, il tutto sotto lo sguardo stupito ed incredulo degli italiani, e la sequenza si chiude sul primo piano sbigottito e diffidente di Alby, titolare della pizzeria Monte prospiciente il futuro Canton Garden. Che i “vecchi” solidarizzino tra di loro e si spartiscano la gestione del potere è chiaro sin dal momento in cui Alby torna al suo locale, con un compagno ferito, dopo l’ennesima rissa con i cinesi. In una atmosfera ondivaga, che la fotografia espressionista di Bojan Bazelli carica di attesa e minaccia attraverso brevissimi e mobili squarci di luce nell’oscurità causati dall’accensione di un fiammifero dal respiro di una sigaretta o dei fari di un auto che passa per la strada, Enrico Perito, reggente della famiglia mafiosa che opera a Little Italy, impartisce ad Alby una lezione sul rispetto dei ruoli. Sotto gli occhi attenti e compiaciuti del Chuntsu della Triade, il boss mafioso picchia selvaggiamente il giovane italo-americano, mentre con il corpo di Alby esanime a terra, il capo della triade, rivolto ad Enrico, dichiara: “Non dobbiamo permettere che la guerra ci divida per nessun motivo. Né rischiare che la polizia interferisca nei nostri affari, solo perché alcuni ragazzi inquieti non rispettano la tradizione della nostra antica società. Dobbiamo tenere a freno i nostri ragazzi”. L’insofferenza dei giovani verso lo status quo imposto è espressa tanto dai cinesi con la figura di Tsu-Shin, quanto dagli italiani attraverso il personaggio odioso di Mercury, il quale si ribella alle regole di Enrico con queste parole: “È un figlio di puttana, Alby. Fa presto a parlare lui. Me ne strafotto dei suoi affari, presto finiremo a vendere toast con gamberetti invece di pizze e calzoni. Non gliene importa un cazzo di noi!. Che gliene frega del quartiere? Lui se ne sta comodo a Staten Island ad aspettare i pagamenti”.Da questo vortice di violenza ricatti e ipocrisie, solo i due amanti, con la purezza del loro sentimento, riescono ad affrancarsi; lo stesso Ferrara sottolinea questa prerogativa dell’ Amore attraverso un lunga inquadratura fissa sui loro primi piani durante l’incontro clandestino nel vicolo, in cui teneramente si scambiano un dolce “ti amo” nelle rispettive lingue: Tyan-Hwa ripete “Ti Amo” dopo Tony e il ragazzo ripete “No oi ne” dopo Tyan-Hwa . È l’ultimo gesto 122
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d’amore prima della tragedia: Alby viene ucciso durante la processione per la festa dell’Immacolata e nell’inseguimento successivo è simbolicamente la statua della madonna ad andare in frantumi sul selciato di Canal Street; durante il funerale di Alby, Enrico Perito si avvicina a Tony e dice: “Sistemerò tutto io figliuolo. Sappiamo chi è stato”, ma la reazione del giovane è imprevista e veemente e scatena l’ira dello stesso Enrico quando Tony gli rinfaccia: “Cosa vorresti fare? Ammazzare altra gente? Alby non c’è più perché voi ammazzate la gente come se fosse carne da macello. Come mi ridarai mio fratello? Tagliando la gola a qualcun altro?...”; TyanHwa si rifiuta di tornare ad Hong Kong con Yung, e questi le intima: “Non sei più una cinese ormai”, poi subito dopo mentre Tony e Tyan-Hwa si baciano sul marciapiede, Tsu-Shin, li vede, si avvicina ed esplode un colpo di pistola che li trafigge tutti e due, mentre lui viene linciato dagli abitanti di Chinatown. Nel finale, ancora una volta Ferrara sorprende e trasforma il sacrificio in liberazione, la morte in un dono di Dio. Il film si chiude, infatti, sulla long-take morbida e circolare che avvolge i corpi dei due amanti riversi sull’asfalto, e il dolly, descrivendo una spiarle attorno a loro li solleva verso il cielo. Il loro sacrificio, forse, non è stato vano: il loro sentimento puro ha squarciato l’ipocrisia sulla connivenza economico-affaristica, ha mostrato il volto violento e irrazionale dell’odio etnico e, mentre i loro corpi rimangono sul selciato, le loro anime candide salgono verso il Paradiso.
China girl – Recensione China Girl per Abel Ferrara rappresenta il film del ritorno: a lavorare per il cinema, a dirigere una sceneggiatura dell’amico Nicholas St. John, a ritrovare gli amici-collaboratori della sua factory, ma soprattutto è il film in cui ritrova New York, la sua città e in cui può parlare di ciò che meglio conosce e più lo appassiona. L’euforia è palese sia nel lavoro fatto con i pochi dollari a disposizione sia nella dedica finale alle popolazioni dei due quartieri in cui si svolge la vicenda. Romeo e Giulietta è un puro pretesto narrativo, perché sin da subito la storia di Tony e Tyan-Hwa, rimane sullo sfondo, sospinta dal “risveglio politico” delle nuove generazioni. Ed è questo che interessa al regista, mostrare la ribellione disordinata, discutibile e razzista di giovani immigrati di secon123
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da, terza generazione, rispetto allo status quo imposto dagli anziani. Il “risveglio politico” strappa via il velo di ipocrisia dietro a cui si intrecciano affari tra cinesi e italiani, e mostra come l’apparente unità di queste comunità etniche sia soltanto una necessità (imposta) dall’interesse di pochi. Mafia e Triade sono uguali nel rapportarsi con i loro subalterni, che si tratti di giovani, commercianti, familiari non ha importanza, perché ciò che conta per le due organizzazioni è proseguire indisturbati nei loro traffici illegali. Per tracciare le coordinate di questa frattura, Abel Ferrara ricorre ad una insolita mobilità della macchina da presa che attraverso brevi, talvolta improvvisi ma sempre eleganti e misurati spostamenti, disegna i percorsi di questi giovani allo sbando in una metropoli divisa dai simboli (Canal Street), nera e piovosa, e in cui la polizia appare solo come “comparsa” (le due macchine all’inizio), mentre le leggi vengono decise a Little Italy dalla Mafia e a Chinatown dalla Triade. L’illuminazione espressionista di Bojan Bazelli, capitato quasi per caso sul set e portato dalla Vestron, con i suoi cromatismi declinati sui tre colori base, con i suoi squarci di luce ad infrangere l’oscurità, con il suo disegnare le ombre per moltiplicare i personaggi (e risparmiare sulle comparse), definisce una serie di luoghi sospesi e onirici in cui il Male si muove indisturbato o attende, tranquillamente nascosto, le sue vittime. China Girl è un film violento, ma il sangue è concentrato tutto nell’uccisione dell’energumeno cinese pugnalato al petto e alla schiena; per il resto la forza della violenza passa per immagini di forte impatto sottraente: la canottierra bianca di Tony sporca di sangue all’inizio del film, le mani della madre (interpretata da Judith Malina del Living Theatre) imbrattate del plasma del figlio Alby, e infine quello versato in modo sacrificale dai due giovani amanti. Non tutto è coerente nel film di Ferrara, e alcuni passaggi come quello relativo al rapporto tra Yung e Tsu-Shin sono appena abbozzati, il richiamo ad un “musical senza canzoni” è fin troppo evidente e l’epilogo della storia è naturalmente prevedibile, ma certo è che queste imprecisioni sono ampiamente compensate da momenti di straziante lirismo come la scena dell’amplesso tra Tony e Tyan-Hwa, il lento movimento di macchina dal basso a scoprire il corpo appeso al semaforo (come nei western) e il complesso movimento di macchina a spirale che chiude il film. Inoltre il regista riesce nella non facile impresa di trattare i sentimenti con sincerità senza cedere né al sentimentalismo né ad un banale quanto prevedibile romanticismo, centellinando argutamente la presenza in scena dei due amanti, che quando sembrano essere ormai dimenticati a causa delle altre vicende, improvvisamente ricompaiono e si riappropriano 124
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del film. China Girl è un film quindi impregnato di amore per il cinema che manifesta la gioia del suo autore per essere tornato a fare ciò che più egli ama, nel posto dove è nato e nella città che ama. New York con i suoi angoli bui, i suoi spazi geometrici e i suoi perimetri di cemento è il cuore pulsante dell’ispirazione cinematografica di Abel Ferrara.
China girl – sondaggi crititici Il film affronta con lucidità il senso e le ragioni della tensione razziale tra le due comunità, mostrando come cultura dell’orgoglio e condizioni economiche convergano ad alimentare le minoranze più odio reciproco di quanto ne subiscano dalla maggioranza ma l’aspetto più notevole del film è ancora una volta il contrasto tra la violenza coreografata ma vera – capace di fare del male – e la quiete della storia d’amore, fatta di sguardi più che di parole. È soprattutto lì che Ferrara e St. John e dimostrano di poter affrontare il materiale più nobile senza tradire il loro stile, e dandoci un grande film. ALESSANDRO CAMON, CATALOGO DEL MYSTFEST XII, 1991 Il film procede per astrazioni successive, condotte lungo direttrici tenute rigorosamente separate fino al termine: ci sono due persone che non possono incontrarsi, e che rischiano la vita per farlo; ci sono due opposte fazioni che cercano lo scontro a dispetto della volontà dei rispettivi capi di trovare un onorevole compromesso. Questa dualità potrebbe essere il detonatore di una reazione a catena (classica di un certo film d’azione “metropolitano”: il protagonista sfida le regole di convivenza fra bande opposte nel nome dei propri sentimenti), è invece non è che lo sfondo di un musical senza canzoni dove l’alternanza di luoghi e di atmosfere serve a cadenzarne i ritmi. Il finale tragico è previsto dall’inizio: gli amanti moriranno, tra Chinatown e Little Italy tornerà la pace per il bene delle due comunità e dei traffici di droga. L’interesse dell’esercizio consiste - se vogliamo proseguire nel parallelo – nell’eseguire i passi di danza più veloci con la massima scioltezza, interpretando quelli più lenti in modo nervoso, estenuato. Così, i rari momenti di serenità tra Tony e Tyan-Hwa sono brevi scatti della macchina da presa intorno al luogo dell’incontro, dopo la fuga convulsa dell’uno o il timore dell’altra di arrivare in ritardo all’appuntamento. Al contrario, le esplosioni di violenza sono mostrate per lo più tramite i loro effetti. PAOLO CHERCHI USAI, SEGNOCINEMA N. 33, 1988 125
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Newyorkesissima rivisitazione di Giulietta e Romeo, diretta con ritmo metropolitano, concitato, videocinematografico da Abel Ferrara, prima d’ora ancorato a produzioni giallo-horror o ad un paio di episodi di Miami Vice. Cinema energico, moderno B-movie d’assalto che trasuda sudore da discoteca, sangue e giubbotti di pelle nera, duelli a colpi di sbarre e catene, insegne al neon, luci accecanti, rock finto duro, superfici post-modern, rivela la propensione di Ferrara verso quella poetica giovanilista eccessivamente patinata cara a molto cinema americano delle nuove leve. L’aspetto sociologico del fil si frammenta dunque nella visione “forte”, estemporanea, consumabile rapidamente, colma di cromatismi, sebbene la storia, evitando la scorciatoia dell’happy-end precipiti nel dramma rispettando pienamente l’originale plot shakespeariano. FABIO BO, IL MESSAGGERO, 30 MAGGIO 1988 Lo schema, a parte i due innamorati condannati a non potersi amare a causa dei pregiudizi razziali, è sempre quello del film di gangster, con le bande, le guerre, i ricatti, le minacce, ma l’occhio con cui si guarda poi a tutto questo ha una certa fertilità di invenzioni visive, in alcuni momenti vicina persino allo stile. (…) E così per quello che riguarda i ritmi: tesi, nervosi, pronti ad accettare qualche pausa quando c’è da raccogliersi sull’amore o sulla morte, ma, quando l’azione si impone, rapidi, scattanti, fino a catturare l’attenzione senza troppa fatica. Sarebbero bastati due colpi di pistola in meno nel finale, per consentirmi di valutare il film senza troppe riserve. Abel Ferrara, comunque, ha doti indiscusse di regista. Se d’ora in poi sarà più esigente con io suoi sceneggiatori penso che farà della strada. Come dimostra, del resto, il modo in cui sa dirigere gli attori. Oltre ai due protagonisti Richard Panebianco e Sari Chang, non c’è faccia che non sia giusta e non c’è personaggio cui l’interpretazione non dia il rilievo e il colore necessari. L’indice tipico per rivelare un regista. GIAN LUIGI RONDI, IL TEMPO, 29 MAGGIO 1988
The loner (1988) Los Angeles. Un poliziotto e la sua collega si introducono nottetempo nel covo di un gruppo di criminali intenti a contare i soldi. Ne nasce un conflitto a fuoco e uno dei ragazzi viene ferito. Terminata l’operazione l’uomo si dirige con la donna verso la sua Porche, apre il cofano e ne estrae uno smoking che indossa, 126
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spogliandosi e rivestendosi, davanti a lei. Titoli di testa. Michael Shane (John Terry), è un uomo che appartiene ad uno stato sociale privilegiato. Nonostante il suo essere un membro della classe superiore egli sceglie di lavorare come poliziotto. Insieme al suo socio Jane Carver (Vanessa Bell), cerca di arrestare Cole Newton (Claude Brooks), un giovane ladro che tenta di vendere diamanti rubati. Manny Sanchez (Rick Logan), uno dei compagni di Cole, viene arrestato ma poi rilasciato, mentre la fidanzata di Cole Sherry Spicer (Kristy Swanson) riesce a fuggire. Durante l’inaugurazione di una mostra, Kate (Constance Towers), la madre di Shane, lo presenta a Jessica Grenville (Clare Kirkconnell), una donna che rappresenta diversi artisti, tra cui l’autore dei quadri della mostra Jake Willis (William Russ). Rientrato nel suo loft, Shane incomincia a suonare il pianoforte, ma durante l’esecuzione del Notturno di Chopin si accorge che un tasto è scordato. Decide così di scendere al piano di sotto per raccontare il fatto al suo vicino e amico Abner Gibson (Larry Hankin), un poeta disoccupato. Dopo aver parlato con Abner, Shane, con la collega Carver, prima recupera Manny e lo riconduce da sua madre, poi si reca nel covo di Kyle Hudley (Michael Medeiros), un gangster per il quale i tre ladri stavano lavorando. Hadley sostiene di aver perdonato Cole, Manny e Sherry che cercavano di strappargli altro denaro (chiedendogli di più rispetto al prezzo concordato per i diamanti), ma ha poi il gangster fa uccidere Manny e la madre, e fa sequestrare Sherry. Nel frattempo Shane si reca nell’appartamento di Jessica per proteggerla da un presunto maniaco che la perseguita e che in realtà si rivela essere Jake. Turbato per l’accaduto, Shane va a fare visita alla madre in piena notte e gli confida i suoi problemi. Il mattino dopo Shane ottiene il set di diamanti e fissa un incontro con Hadley, il quale è in possesso di Sherry e la tiene come ostaggio. Lo scambio deve essere alla pari, e il poliziotto deve recarsi sotto un ponte, disarmato e con i preziosi. Con l’aiuto di Carver, Shane riesce a uccidere Hadley. Ritornato a casa trova Abner che si è preoccupato di chiamare un tecnico per riparare il suo pianoforte.
Il progetto di The Loner è ambizioso ma destinato a rimanere sulla carta. Abel Ferrara riesce a girare solo il pilot della serie la quale poi viene bloccata da incredibili traversie che coinvolgono i produttori, con tanto di coda in tribunale. Nelle intenzioni del regista di New York, The Loner dovrebbe essere una serie televisiva “personale”, in cui temi, ossessioni e psicologie del suo cinema si intrecciano nella descrizione di un personaggio molto complesso e stratificato (e chiaramente auto-biografico) come è Michael Shane. Che il progetto sia molto sentito dal regista è certificato dalla presen127
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za dei suoi principali collaboratori dell’epoca che, per la prima e unica volta, riesce a coinvolgere nella realizzazione di un prodotto televisivo. Il produttore associato è Randall Sabusawa, le musiche sono di Joe Delia, il montaggio è di Anthony Redman e infine nelle vesti di consulente artistico troviamo l’amico di gioventù Douglas Metrov. Il progetto stesso di The Loner nasce da un’idea, poi divenuta racconto (mai pubblicato), dello stesso Metrov. Le radici del soggetto di The Loner si possono trovare nel romanzo dell’ex-pittore “Anatomy of a werewolf”, in cui Metrov è “Il Mago” e Ferrara “L’uomo di Piltdown”. Partendo da questo spunto, incentrato sulla figura di un uomo dalla psicologia complessa con una forte indole artistica, ma votato alla ricerca di un apparente conformismo per essere accettato, nel 1988 Abel Ferrara gira il pilota della serie televisiva intitolata The Loner, creata, scritta e prodotta da Larry Gross. Incomprensioni, rivalità e impossibilità di cedere a compromessi, oltre a problemi economico-finanziari, interrompono subito dopo il pilota la lavorazione della serie, come racconta lo stesso Randall Sabusawa: “È stato un po’ insolito per noi lavorare con il gruppo di Spelling, ma è stato come un “concerto”. Abbiamo avuto un paio di membri del nostro team a bordo Anthony Redman, Joe Delia, Douglas Metrov - ma era una lotta continua per riuscire a mantenere il tipo di libertà artistica a cui eravamo stati abituati. Questo perché si trattava di lavorare per delle reti televisive. Sarebbe stato bello realizzare una serie TV, tutta nostra, fatta alla nostra maniera. Il progetto è stato ideato da Larry Gross, ed è costruito come la storia di un ragazzo che vorrebbe suonare il pianoforte classico, stare tranquillo in smoking a parlare di arte moderna, mentre nel suo frigorifero ha solo champagne e caviale, ma..., oh sì, lui è, anche, un poliziotto. John Terry ci è stato imposto, mentre la partner femminile doveva essere approvata dal gruppo di Spelling e di ABC TV. Penso che il fatto che una donna di colore abbia avuto la parte, sia merito di Abel. Anche se Larry Gross era il produttore, un sacco di responsabilità sono ricadute sulle mie spalle, il che ha reso molto più semplici le cose, avendo sempre la produzione di Spelling dietro di noi. Per me, questo è stato positivo. Blair, il direttore di produzione, era sempre con me e ha seguito ogni mia idea, ma poi abbiamo avuto un po’ di contrasti... Quelle della produzione erano persone che avevano una lunghe striscia di grandi successi televisivi alle loro spalle. Sono stato il produttore associato, ma Aaron Spelling non mi voleva vedere in giro. Mi ricordo di Abel al telefono con il suo agente, che gli stava dando la notizia e Abel e senza esitare ha dichiarato: “Sono sul set, che significa, 128
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che non vuole lavorare lui? Se non c’è lui non ci sono neanche io... Ok, mollo tutto e me ne vado”. Io ero un po’ scioccato. Ma è tipico di Abel e della sua mentalità di squadra. Abbiamo finito quello, ma non abbiamo girato altro”42
Dietro alla produzione e il finanziamento di The Loner dunque, c’è Aaron Spelling, uno dei più grandi e controversi imprenditori della televisione americana. Aaron Spelling nasce a Dallas, in Texas, il 22 Aprile 1923 (muore a Los Angeles, il 23 Giugno del 2006). Vende il suo primo script Jane Wyman Presents nel 1954, anno in cui partecipa come guest-star, nella veste di un accalappiacani, nel primo episodio di Willy, una situation-comedy della CBS. Negli anni a venire Spelling continua a scrivere per Dick Powell, con programmi come, tra gli altri, Playhouse 90, e Last Man. Dopo la morte di Powell, Spelling acquista la Four Star Television e nel 1966 da vita alla Thomas-Spelling Productions con Danny Thomas, il cui primo successo è rappresentato dalla serie Gli infiltrati. In totale Spelling scrive per quattordici produzioni televisive tra il 1957 e il 1974, tra cui varie serie con più episodi a suo credito. Comincia anche una collaborazione con il produttore associato Shelley Hull, che, a parte Mod Squad, lavora con Spelling alla serie-cult Charlie’s Angels. Nel 1969, crea la Spelling Television (che allora si chiamava Aaron Spelling Productions ) e tre anni dopo, forma un’altra società di co-produzione con Leonard Goldberg. Aaron Spelling acquista la compagnia pubblica di Goldberg nel 1986, e fa nascere la Spelling Entertainment dall’unione del Taft Entertainment Company da Taft Broadcasting (tranne che per gli studios di animazione), e la George A. Romero ‘s Laurel Entertainment. Aaron Spelling continua la sua espansione aziendale fino al 1994 quando la sua azienda diventa una filiale interamente di proprietà della Viacom che è attualmente detentrice del copyright per tutti i film del catalogo Spelling, proprietaria della società di produzione TV Spelling Television e della Big Ticket Entertainment (quest’ultima istituita nel 1994 principalmente per ampliare la produzione drammatica di Spelling), oltre che della società di produzione Spelling Films. Aaron Spelling, tycoon della televisione, tra il 1986 e il 1990 attraversa un periodo di difficoltà economiche. Conosciuto Abel Ferrara, si interessa al suo 42 Randall Sabusawa, E-mail to the author, Maggio 2003, in Brad Stevens, op.cit. Pag 116. traduzione nostra
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progetto e decide di finanziare, in compartecipazione con la ABC, un episodio pilota per la serie The Loner, stanziando la cifra di cinque milioni di dollari. Ileen Chaiken della ABC spinge affinchè Abel ferrara sia il regista: quest’ultimo accetta a condizione di poter avere al suo fianco i suoi amici-collaboratori. Douglas Metrov, nelle vesti di scenografo e consulente artistico, vuole girare una scena del pilot all’interno di una galleria d’arte. Per riempire le parerti di dipinti, viene contattato un pittore di Los Angeles di nome Philip Slagter. Questi, accetta, e una volta fornite le opere chiede un compenso stratosferico, al punto che Spelling si rifiuta di pagarlo, lo minaccia tramite le sue conoscenze mafiose (si vanta di avere uno stretto legame con Carlo Gambino) e infine lo trascina in tribunale. Ma Slagter li accusa di avergli rubato i quadri, anche perché al momento della firma del contratto i produttori si sono dimenticati di fargli firmare la liberatoria per l’utilizzo a fini commerciali delle sue opere. Slagter afferma che qualora non gli fosse stato dato quanto richiesto (si parla di quindici milioni di dollari) egli avrebbe bloccato la messa in onda della serie. A quel punto Spelling accusa Metrov di essersi messo d’accordo con Slagter per fregargli i soldi e dividerseli. La produzione salta e la serie The Loner rimane incagliata nelle secche dei procedimenti giudiziari. Viene realizzato solo il pilot, mai trasmesso dalla televisione. Nonostante tutto, quello che ne viene fuori è un prodotto televisivo stilisticamente ferrariano in tutto e per tutto: dall’uso della luce fortemente contrastata e delle ombre, dalla rappresentazione opposta del giorno e della notte, dalle locations sparse in una Los Angeles periferica e irriconoscibile, dal connubio tra arte e psicopatologia, dal confronto tra classi elevate e classi povere, dall’utilizzo del cibo in chiave simbolica, fino alla rappresentazione di un personaggio-protagonista complesso e sfuggente, difficile da decifrare, distorto e autobiografico, affetto da un senso di colpa immanente e prigioniero della sua solitudine. Con queste premesse, il pilot che ne viene fuori, non si discosta dai toni cupi della sceneggiatura, ma anzi nella sua concezione “arty” relega l’immagine da cartolina della “città degli angeli”, in pochi fotogrammi sparsi qua e la. In The Loner infatti, non ci sono, nelle immagini metropolitane, né grattacieli, né viali circondati da palme, né locali alla moda; al loro posto, dissestate strade di periferia, sopraelevate di confine, ciminiere dell’industria chimica, serbatoi dell’acqua intrecciati a tralicci telefonici e dell’alta tensione. La Los Angeles del film, è una città vista sempre in lontananza (spesso inquadrata con campi 130
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lunghi e lunghissimi) estraniata dalla sua natura edonistica degli anni ‘80 e straniante nell’integrazione di una società, il cui unico obiettivo sembra essere quello di accumulare denaro. Ferrara adotta la stessa estetica di Willim Friedkin, che in To live and die in L.A. (Vivere e morire a Los Angeles, 1985) isola l’immagine da cartolina della “città degli angeli”, nel primo fotogramma in dissolvenza che apre il film, e nell’estetica glamour dei titoli di testa, realizzati con colori accesi (verde e rosso), caratteri cubitali, e una piccola ma significativa animazione: di fianco al titolo, si compone una piccola palma, segno tangibile di una Los Angeles, conosciuta, che c’è solo in quel momento (e che non ci sarà più, infatti già nel titolo non c’è il nome della città ma solo la sigla). Friedkin, infatti propone una fuga dalla città come ben esemplificata dalle immagini in movimento (carrelli laterali, camera-car) che scorrono sotto i titoli di coda, e che scandiscono nei tempi e nei colori le dinamiche del tramonto, prima dell’inquietante e ambiguo ultimo fotogramma: il primo piano di Richard Chance (William Petersen) , scolpito dall’ombra della veneziana, e con lo sguardo rivolto minaccioso verso lo spettatore. To live and die in L.A., cioè nessuna possibilità di scelta. A Los Angeles si puo’ solo fare le due cose contemporaneamente, l’alternativa è negata ontologicamente, perché entrambe le azioni non sono scelte dell’individuo, ma situazioni deterministiche, in cui conta solo ed esclusivamente una cosa: trovarsi al posto giusto nel momento giusto (per vivere) e trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato (per morire), come dice lo stesso Eric Masters (Willem Dafoe) di fronte al cadavere di Jimmy Hart. Tutto il film, è percorso da corrispondenze parallele, in cui le immagini in movimento, passano, senza soluzione di continuità da sopra a sotto la sopraelevata in cui è in atto l’inseguimento, da dentro a fuori il laboratorio in cui si fabbrica il denaro, e allo stesso modo, vengono gestiti i rapporti personali, deprivati di ogni sentimento e gratuità e animati solo dalla necessità e dalla convenienza. Anche il regista newyorkese imposta il suo The Loner sulla divisione tra “alto” e “basso”, esplicitata sia nella condizione sociale di Shane in contrasto con gli ambienti in cui indaga, sia nel suo rapporto con l’inquilino sottostante il suo loft, mentre, nel finale del pilot, Ferrara riprende le stesse locations sotto il ponte della 63ª strada utilizzate da Friedkin per il famigerato inseguimento contromano di To live and die in L.A. Michael Shane, come i protagonisti dell’action di William Friedkin, è un solitario (come riafferma il titolo della serie); in To live and die in L.A., Friedkin 131
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mette a fuoco l’individualismo degli anni ‘80, attraverso la contrapposizione tra due uomini, Chance (che nel cognome sembra avere l’opzione di scelta) e Masters (che nel cognome ha lo stigma del “maestro”): due uomini “soli”, in cui il primo viene subito deprivato del suo “gemello”, mentre il secondo sembra vivere in un mondo completamente avulso dalla realtà ed immerso in una dimensione artistica. In The Loner, Ferrara, richiamandosi ai caratteri del film di Friedkin, costruisce un personaggio derivativo del Reno Miller di The Driller Killer, psicologicamente instabile, confuso e spaesato, ambiguo sessualmente e ossessionato dal pianoforte (così come Miller lo è dal quadro). In qualche modo Michael Shane, che come Reno Miller ha un rapporto compulsivo con il cibo e complesso con le donne, vive, di riflesso, lo stesso spaesamento esistenziale di Harry Moseby, il detective privato di Night Moves (Bersaglio di notte, 1975) di Arthur Penn. Come il personaggio interpretato da Gene Hackman, Shane, lavora come poliziotto, ma non ha alcun interesse né nella professione, né nel risolvere positivamente i casi assegnatigli: entrambe le cose servono solo ad accrescere la sua autostima e ad affermare la sua labile personalità. Come Moseby ha un rapporto irrisolto con il padre (come confessa alla moglie dopo aver fatto l’amore con lei), così Shane vive un rapporto simbiotico con la madre Kate. A tal proposito è emblematica la scena a casa della madre, dopo che il poliziotto ha avuto uno scontro con il gangster Kyle Hadley. Quasi a voler trovare conferma alle sue scelte e alle azioni intraprese, Michael Shane si reca in piena notte dal genitore: quando la madre lo vede e gli chiede cosa sia venuto a fare, l’uomo replica dicendo: “Ti ricordi quel pezzo di Chopin? Sono riuscito a suonarlo”, e quando la madre gli rimprovera il fatto che dirglielo alle due del mattino è quantomeno fuori luogo, Shane si difende affermando che gli avrebbe fatto piacere regalarglielo per il suo compleanno, ma la madre esterrefatta chiosa: “Ma... il mio compleanno è tra tre mesi”. La scena, che segue, in cucina è mostrata dal regista come una seduta dallo psicologo. Un carrello laterale passa dal nero del fuori campo all’inquadratura frontale e perfettamente simmetrica della stanza, con l’uomo e la donna seduti al tavolo uno di fronte all’altro, mentre le linee verticali attraversano lo spazio dividendolo perfettamente a metà, e al suo centro orizzontale è posta una lampada accesa; il pavimento a scacchi bianchi e neri restituisce alla scena una dimensione onirica, accentuata dalla fotografia di Anthony Richmond che illumina i volti dei personaggi mettendo in evidenza solo il 132
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taglio degli occhi (come nei noir). Attraverso la messa in scena dunque, Abel Ferrara ricostruisce la simbiosi patologica che lega madre e figlio, così come testimonia un breve scambio di battute tra i due. Michael Shane: “Non è così semplice come immagini. Tu puoi capire che una persona può perdere il controllo sulle cose che gli stanno attorno?..su ogni cosa. Sto parlando di me...”, a queste parole la madre-chioccia replica: “È tempo che mi racconti cosa ti sta succedendo. E forse è ora che io ti trovi una moglie..”.Proprio il rapporto con le donne di Shane è descritto da Ferrara in maniera contrastata e ambigua: egli accorre subito in loro aiuto quando lo chiamano (come nel caso di Jessica vittima delle persecuzioni di un maniaco) ma contemporaneamente le sfugge e le allontana, limitandosi a simulare flirt solo per necessità lavorative (come nella scena iniziale con Carver). Il personaggio di Michael Shane è dunque sessualmente ambiguo (così come lo è Reno Miller), poco interessato ad avere relazioni con le donne, patologicamente legato alla madre, e inconsciamente (forse) attratto da Abner, il poeta che vive sotto il suo loft, da cui si reca continuamente accampando come motivazioni le scuse più banali. La sua condizione di bambino non cresciuto, di uomo alla ricerca di una identità sessuale, insicuro delle proprie azioni, teso continuamente alla ricerca di conferme sul suo operato, perennemente nervoso e ansioso è rappresentata dal regista attraverso tutta una serie di dettagli più o meno evidenti: dal disagio al vernissage dove continua a bere bicchieri di vino, all’impazienza nel suo loft, davanti al televisore, mentre si tira su le maniche della camicia, al “dramma” rappresentato dal frigorifero vuoto (ma ci sono caviale e champagne), fino al problema insormontabile del pianoforte scordato. Non è casuale che quando Shane, dopo aver riscontrato il problema ad un tasto, scenda a fare visita ad Abner, e mentre questi è occupato a trovare la rima migliore per una sua poesia, gli dica (riferito al pianoforte): “Ho un problema serio”, e il poeta gli risponda: “Shane, tu sei un maniaco”. L’inadeguatezza di Michael Shane è mostrata da Abel Ferrara con una continua alternanza di reazioni, alcune dei quali realmente sorprendenti: come quando all’inaugurazione della mostra offende volutamente il pittore dicendogli che i suoi quadri sono copiati, o come quando, colto da raptus improvviso, aggredisce uno degli uomini di Hadley. Evidentemente c’è qualcosa nel suo passato di non ancora spiegato (e che avrebbe dovuto svilupparsi negli episodi a seguire) che gli impedisce di essere “normale”, una colpa pregressa che , presumibilmente, ha a che fare con la sua passio133
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ne per il pianoforte e che come nel caso di Reno Miller in The Driller Killer, forse, coincide con la perdita dell’ispirazione o con la mancanza di talento: solo più tecnica e niente pathos. Ad avvalorare questa tesi contribuisce il fatto che dopo appena dieci minuti di film, Ferrara, indirettamente, evochi il passato dell’uomo attraverso un quadro: un dipinto che mostra due volti stilizzati (e che richiama l’Urlo di Edward Munch), accanto al quale è appoggiato Michael Shane, con lo sguardo rivolto al quadro, mentre agita nervosamente un bicchiere di vino: un immagine che da sola rappresenta il ritratto di un uomo lacerato da conflitti interiori come testimonia il quadro con i volti distorti a cui egli è contrapposto. Subito dopo la madre gli si avvicina e gli chiede: “Quale è la tua missione nella vita?”, il figlio la guarda interdetto e replica nervoso: “Non..., non lo so”.La domanda al centro di The Loner è dunque: chi è Michael Shane? Abel Ferrara non suggerisce risposte, si limita ad illustrare il carattere e lea psicologia dell’uomo centellinando scrupolosamente indizi e suggestioni, al punto che qualunque sua scelta può essere letta o come l’adeguamento al conformismo che lo circonda o, viceversa come respingimento di quel mondo in cui è nato e a cui non vuole appartenere. In questo, Shane è un protagonista tipicamente ferrariano: un uomo che cerca continuamente l’isolamento e l’intimità, ma che quando questa gli viene offerta da una donna (come nel caso di Jessica) egli subito la rifiuta spaventato; allo stesso modo cerca di sfuggire al mondo altolocato a cui appartiene e nonostante l’apparenza di una vita da benestante (gira in Porche e nel loft ha un pianoforte molto antico che Carver descrive come “più grande di tutta la mia cucina”) egli cerca continuamente una normalità che pensa di poter raggiungere grazie al suo lavoro in polizia e al conseguente contatto con i bassifondi dell’esistenza umana. Micheal Shane, come Reno Miller, cerca il confronto con la degradazione, e se il pittore psicopatico uccide gli ultimi perché terrorizzato dall’idea di poter diventare come loro, il poliziotto glamour li cerca per poter assorbire la loro vitalità e al contempo per eliminarli e sentirsi in pace con la propria coscienza. Quando al termine del vernissage, Jessica e Jake vengono aggrediti da uno sconosciuto, Shane interviene, lo insegue e gli spara intimandogli di fermarsi in nome della legge; la donna, interdetta gli chiede se sia un poliziotto e lui risponde di sì ma con un tono quasi dimesso e colpevole. Evidentemente prova disagio nel sentirsi chiamare poliziotto, a testimonianza del fatto che l’uomo non è in grado di conciliare le molteplici facce della sua personalità e di decide134
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re quale di esse rappresenti il suo vero Io. Altre volte il comportamento di Shane è quello di un pazzo fuori controllo come quando minacciando Hadley gli dice: “Fai attenzione, sono pericoloso, ho bisogno di far esaminare il mio cervello”. La sua psicopatologia, non è scollegata dall’universo in cui si muove: un mondo folle fatto di figure “anormali”, che funziona come riflesso distorto dei suoi conflitti interiori. Ferrara sottolinea questo aspetto con le tematiche dei quadri presenti nella mostra e con le immagini riprodotte nei murales e nei graffiti di fianco al Mouline Rouge, il locale in cui si nasconde Hadley. In contrapposizione a Shane, c’è la figura di Abner Gibson, il poeta che abita nell’appartamento sotto il suo e che appare come un personaggio deciso e intransigente, privo di contraddizioni e forte di una spiccata personalità. Nonostante il suo essere disoccupato, egli vive in un luogo pieno, caotico e disordinato, ma è fortemente convinto delle sue scelte come dell’impostazione data alla sua vita; Shane invece, apparentemente realizzato in ambito lavorativo, senza alcun problema economico dato il suo lignaggio, vive in un ambiente perfettamente ordinato, ma allo stesso tempo vuoto asettico e impersonale. Proprio la contrapposizione degli spazi di vita determina il rapporto tra questi due uomini: la loro personalità opposta contrasta fortemente con gli ambienti in cui vivono che sono spazi fortemente rappresentativi della loro condizione, così come viene mostrato anche attraverso la consumazione del cibo. Nel frigorifero di Shane c’è solo caviale e champagne, mentre in quello di Abner cibo cinese take-away, ma il poliziotto, una volta sceso dal poeta decide di mangiare la sua porzione di cinese e mentre insiste affinchè Abner si unisca a lui, questi gli risponde stizzito con una frase che è significativa dell’incapacità di Shane tanto di ascoltare il prossimo quanto di rispettare le sue scelte: “No, non ho fame. Sei tu che hai fame. Vedi, tu stai mangiando. Solo perché tu hai fame non significa che anche io ho fame”. Come con Abner, Michael Shane, entra in contrasto anche con Kyle Hadley, del quale rappresenta un ipotetico doppio. L’eccessività delle modalità con cui il poliziotto aggredisce il gangster, suggerisce un desiderio di rivalsa verso quell’uomo di cui vorrebbe occupare il posto, avere lo stesso potere sulle donne e la stessa capacità di gestire il denaro e le altre persone. Che Abner e Hadley rappresentino l’ideale di mascolinità di Shane e che tra lui e loro si instauri una latente tensione omosessuale è certificato dal fatto che il regista inserisca un elemento in grado di legare due personaggi così distinti e lontani: il contenitore con il cibo 135
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cinese take-away è lo steso sia nel frigorifero di Abner che sul tavolo di Hadley. Alla luce di tutti questi elementi, The Loner si presenta dunque come opera “autoriale” a tutto tondo, che nonostante i limiti imposti dal mezzo televisivo, traduce l’immaginario cinematografico del suo creatore, e che, nei cinquanta minuti di durata dell’episodio pilota fa trasparire tutto il rimpianto per un progetto affascinante ma rimasto incompiuto.
Cat chaser (1988) Immagini sgranate di un reportage di guerra in bianco e nero. Alcuni insert raccontano della missione americana nella Repubblica Dominicana voluta dal presidente Lindon Johnson. Quello che vediamo è il sogno ricorrente di un uomo George Moran (Peter Weller), reduce di quella missione e che oggi, a Miami, gestisce un piccolo motel con vista sull’oceano. Un giorno arriva un uomo Nolen Tyner (Frederic Forrest) che presto si rivela essere un ex collega di George che ora svolge varie mansioni al soldo di chi paga meglio. Sta lavorando per un certo Andres De Boya (Tomas Milian), un ex-generale torturatore alle dipendenze di Trujllio, con il compito di sorvegliare Moran sospettato dal marito geloso di avere una relazione cos sua moglie Mary Delaney (Kelly McGillis). Dietro a Tyner si muove Jiggs Scully (Charles Durning), un ex-poliziotto in pensione che agisce sotto la copertura di consulente finanziario, spalleggiato dal fedele e ignorante Corky (Tony Bolano). De Boya, un giorno raggiunge Moran, i due si ritrovano a parlare sulla spiaggia e George gli confessa che tra lui è la moglie non c’è mai stato nulla. Pochi giorni dopo Moran ritorna a Santo Domingo per mettersi sulle tracce di Luci Palma, la ragazza che lo perseguita durante i suoi incubi. Incontra Mary e con lei si abbandona ad una serie di focosi amplessi, al termine dei quali la donna gli confida che la sua eventuale separazione da Andres comporterebbe per lei la perdita di una cifra consistente frutto di un accordo prematrimoniale. Mentre gli incontri tra Mary e George continuano anche a Miami, Andres, che ha intuito tutto, si adopera per intervenire e Jiggs Scully cerca di sfruttare la situazione per sottrarre a De Boya i milioni di dollari che nasconde sotto il letto. Intanto Tyner e un aprrofittatore di Santo Domingo di nome Rafael (Juan Fernandez) detto “Rafi” su invito di Scully fanno saltare in aria il pontile di casa De Boya per spaventare il militare e costringerlo alla fuga con i soldi da sottrargli successivamente. De Boya, 136
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per nulla spaventato, prima uccide Tyner e Rafi in quanto autori dell’attentato al pontile, poi vuole risolvere il problema con Mary: la fa spogliare, la stupra con la pistola, la trascina nuda per la casa e la obbliga a firmare un nuovo contratto in cui, in caso di separazione, è lui e solo lui che può decidere dei suoi soldi. Jiggs telefona alla polizia dicendo che nella villa di de Boya c’è una bomba; intervengono gli artificieri e allontanano gli abitanti. In uno chalet di campagna Scully, convinto che nelle due grosse valigie ci siano i soldi da lui anelati, con uno stratagemma uccide sia Andres De Boya che Corky. Le valigie sono piene di riviste femminili: Mary le ha scambiate durante la concitazione della fuga. Jiggs raggiunge i due innamorati George e Mary al motel di Miami, minaccia l’uomo e gli intima di consegnargli il denaro, ma questi uccide Scully a sangue freddo e si intasca il denaro: dimostrerà la sua innocenza grazie alla legittima difesa e vivrà felicemente con la donna amata e con due milioni di dollari.
Dopo l’esperienza televisiva Ferrara accetta un lavoro su commissione dalla Vestron Pictures: la riduzione cinematografica di un romanzo di Elmore Leonard datato 1982 e intitolato “Cat Chaser”. Il film, in un primo momento, è affidato dalla produzione a John Mackenzie come sceneggiatore e a Joseph Ruben come regista, ma ben presto i due perdono interesse per il progetto e lo abbandonano. Girato tra la Florida, Puerto Rico e i Laguna Studios, una volta affidato ad Abel Ferrara, che vorrebbe come sceneggiatore l’amico St. John, il film viene prima scritto dallo stesso Leonard, poi intervengono due sceneggiatori della Vestron, Alan Sharp e William Panzer (quest’ultimo già collaboratore di Sam Peckinpah per Osterman weekend (id., 1983)), infine lo script viene ripreso e modificato da James Borelli con il contributo dello stesso Ferrara e dell’attore Peter Weller (questi ultimi due non accreditati). I dialoghi in voce-off in terza persona sono opera di Wiilam Panzer e di Reni Santoni (non accreditato). Al termine delle riprese Ferrara e il suo montatore di fiducia, Anthony Redman, preparano una prima versione del film di 157 min. che prevede vari flashback sulla missione americana a Santo Domingo e le relative violenze dei generali autoctoni tra cui Andres De Boya. Questa versione venne rifiutata dalla produzione e i due riducono il montaggio a 110 min. inserendo le musiche curate dal pianista jazz Chick Corea. Anche questa versione non venne accettata dalla Vestron, che riduce ulteriormente la durata a 90 min. e aggiunge la voce-off in terza persona. Cat Chaser, nella durata attuale, viene montato dalla stessa produ137
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zione che distribuisce il film nell’estate del 1989 in una versione mai riconosciuta da Ferrara. Deluso di non poter avere il final-cut sul suo film Ferrara abbandona la pellicola al suo destino, e viene in Italia alla corte di Augusto Caminito e Reteitalia per girare King of New York . “Lasciare un film è un peccato capitale per un regista. Per me è un film che non abbiamo mai finito. Se avessi tempo e ci fosse una ragione lo potrei rieditare. Ci sono cose che si dovrebbero sistemare. Quella stupida voce narrante è un incubo. Dutch (Leonard) è uno che apprezzo veramente come scrittore e quel libro ha un sacco di cose vicine a ciò che noi consideriamo “morale”.43 “Ecco un ragazzo, un ragazzo normale. Che cosa ha fatto? Lui non ha fatto niente. Questo è quello che sta cercando di dire: “Hey io sono innamorato di una donna. Il suo matrimonio con il marito è finito. Cosa faccio di sbagliato? Ora che cosa? Qualcuno vuole uccidere me? Sono solo un ragazzo normale in circostanze normali. Che ne so io di Uzi sotto il letto, o di generali centro-americani, con le loro squadre della morte prima e con i loro Jiggs Scully e altri tipi di ragazzi poi?”. E lui è. E ‘sbagliato. Tranne, ovviamente, la questione dell’ adulterio. Quella riga nel libro in cui Jiggs dice a lui: “Se si pensa che ottenere un pompino da una donna sposata è la stessa cosa come commettere adulterio ...”. Il punto è, esattamente dove è Moran?. Si tratta di una relazione adulterina, non importa come lo si guardi...”44
La Vestron fallisce poco dopo la fine delle riprese. La Vestron Video è la maggiore sussidiaria della Vestron Inc., una società di produzione con sede a Stamford nel Connecticut che opera prevalentemente nel decennio 19801990. La società è pioniera nel campo del riversamento di pellicole in VHS, ed è titolare dei prodotti Cannon Film (di Yoran e Globus) per la distribuzione in Home-video. Nel 1985 la Vestron si quota alla New York Stock Exchange, e accumula utili per diversi anni grazie alla produzione e distribuzione di grandi successi commerciali (realizzati con budget contenuti) come Dirty dancing, Blue Steel, Le ragazze della terra sono facili..., approfittando del momento di difficoltà delle grandi majors. Sul finire degli anni ‘80, i budgets della Vestron non riescono più a competere con quelli stanziati dai grandi studios nuovamente attivi e la produzione si piega su scadenti 43 44
Moon in the Gutter in “Film Comment” n° 4 , luglio-agosto 1990 pag 44 Abel Ferrara, Samhain 19, Febbraio-Marzo 1990, pag.13
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b-movie, il cui insuccesso ben presto ne decreta la crisi finanziaria e il successivo fallimento. Attualmente il catalogo Vestron passato nel frattempo per i marchi LIVE prima e Artisan Enterteinment poi, è di proprietà della Lionsgate. Nel fallimento della Vestron è coinvolto anche Cat Chaser, che nella versione montata dai produttori viene epurato di molte scene e dialoghi fondamentali, tra cui, oltre i citati flashback sulla guerra centro-americana, tutte le scene riguardanti la problematica e clandestina relazione amorosa tra George e Mary, comprese due scene di sesso molto infuocate; vengono anche tagliate la scena dello stupro con la pistola subita da Mary da parte del marito e un’intera sequenza di dialogo tra George e Jiggs relativa al discorso sulla moralità e sulla coscienza raccontato dallo stesso Ferrara. Dialogo che risulta fondamentale nell’economia dell’impianto morale del noir del regista newyorkese e che Ferrara ha tratto dal libro di Leonard con assoluta fedeltà. Jiggs: Lo so cosa pensi George, ma fatti un’esame di coscienza. Sei Cattolico? George: Una specie Jiggs: Ti ricordi quando uno va a confessarsi e fa l’esame di coscienza? Fattelo George e dimmi se stai facendo o no qualcosa di sbagliato. Il peccato è già nell’intenzione. La tua intenzione è darmi informazioni. Quel che succede dopo è affare della mia coscienza, non della tua, e allora lascia che ci pensi io. George: Sarai anche di New York ma non li hai imparati alla Fordham questi ragionamenti... Jiggs: E chi ci è mai arrivato all’università? Il punto è: vuoi filosofeggiare, discutere se il pompino di una donna sposata equivale all’adulterio, o vuoi semplificarti la vita?45 Cat Chaser, (letteralmente “accalappiagatti”), nella traduzione ferrariana diventa “cacciafiche”, soprannome delle truppe aviotrasportate di stanza nella Repubblica Doninicana durante la rivoluzione. Come nel libro, anche nel film, George Moran è realmente un “cacciatore”, un ex-marine arcigno e beffardo che agisce sottotraccia, con arguzia e intelligenza, senza mai 45 Brad
Stevens, Op. Cit. pag 125-126. trad. nostra
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esporsi e senza mai allinearsi al facile decisionismo di tirapiedi come Corky o alla fredda, ma cieca, ferocia di ex-potenti come De Boya. In questo il protagonista del film di Ferrara rispecchia a pieno le caratteristiche dell’eroe leonardiano, che da Mr. Majestick (A muso duro, 1974) di Richard Fleisher, fino ai più recenti 52 pick-up (52, gioca o muori, 1986) di John Frankenheimer e a Cat Chaser, conserva il ruolo di idealista solitario, desideroso di rimanere “invisibile” e al contempo di non sottomettersi ai soprusi del potente (o del prepotente) di turno. La sintonia tra Abel Ferrara e Elmore Leonard è determinata da come entrambi muovono le leve della violenza: la passione erotica determina uno strappo (quello tra Mary e Andres) cui seguono comportamenti impulsivi e primordiali del marito geloso, mentre il ricorso alla vendetta, da parte dello stesso, altro non è che un facile espediente per mascherare la propria impotenza. George Moran è un eroe che agisce per sottrazione, leonardiano a tutto tondo, intelligente e cinico, scaltro e calcolatore, mosso da un romanticismo esasperato e da una pulsione erotica incontrollabile e deciso a qualunque azione pur di ottenere la donna amata. In questi aspetti, il suo personaggio è parente diretto di Harry Mitchell (Roy Scheider), il protagonista di 52 pick-up, prodotto nel 1986 dalla Cannon di Menaham Golan e Yoram Globus e tratto da un romanzo di Elmore Leonard. George Moran capisce presto che per ottenere ciò che vuole deve lasciare che il tempo faccia il suo corso, non avere fretta e attendere che la trappola da lui, implicitamente, preparata si stringa attorno alle sue vittime le quali inizieranno ad eliminarsi a vicenda. Stessa formula adottata dall’ingegnere di 52 pick-up, impegnato nell’azione per “riappropriarsi” della moglie tradita e intenzionato a non soccombere ai suoi ricattatori, al punto di mettersi sulle loro tracce, sovvertire la tendenza drammatica del racconto e di chiuderli in una trappola mortale eliminandoli uno per volta senza mai (apparentemente) sporcarsi le mani. George Moran non ha calcolato, nel suo piano, l’avidità femminile e (forse) egli stesso non ha mai pensato ai due milioni di dollari nascosti sotto il letto di Andres De Boya; Mary Delaney è la variabile impazzita, quella che con il suo gesto razionale e potentemente femminile (vendicarsi del marito che l’ha appena stuprata con la pistola) fa precipitare la situazione, rischia di mettere a repentaglio il piano di Moran e scatena l’ira “pacata e suadente” di Jiggs Scully. Il denaro in Cat Chaser, se non fosse per le mire di Scully e per la vendetta di Mary ha nel film di Ferrara un ruolo marginale rispetto ai sentimenti che muovo140
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no l’azione, ma al contempo esso diventa la merce di scambio necessaria per instaurare relazioni e migliorare il propri status sociale come dimostra la pantomima di Rafi e Loret o come quando in un dialogo iniziale George rimprovera a Tyner: “Faresti qualunque cosa per i soldi vero?”. Anche in 52 pick-up il denaro ha un ruolo circoscritto (alle dinamiche del ricatto e dell’estorsione), addirittura “dimezzato”, perché gran parte della somma richiesta dai tre criminali non può essere elargita loro da Harry, perché destinata a finire nelle casse dello stato. Mitchell come Moran, dopo un iniziale momento di sbandamento, agisce con arguzia, tessendo una tela-trappola attorno ai tre criminali che quasi non si accorgono di ciò che sta succedendo. È interessante notare, come entrambi ritengano di essere troppo scaltri e intelligenti per soccombere di fronte alla meschinità dei loro contendenti; seppur animati e spinti dal senso di colpa i due uomini agiscono incuranti delle possibili conseguenze dei loro gesti, come quello di dover uccidere un uomo: entrambi sanno che dovranno farlo per salvarsi, e operano in funzione di portarsi dalla parte della “legittima difesa”. In gioco non ci sono solo i loro sentimenti, ma anche i loro averi: per Moran il Coconut Palms Resort Apartments è una ipotetica pedina di scambio con De Boya, come si evince dal dialogo sulla spiaggia in cui l’ex-generale gli offre una cifra ragguardevole per vendere il motel e per andarsene evitando di insidiare ulteriormente la moglie; per Mitchell la sua Jaguar (che già nella prima inquadratura viene mostrata come un feticcio) è l’oggetto da sacrificare per eliminare definitivamente Alan Raymi e riconquistare la moglie tradita. Entrambe i film infine, si concludono con la stessa immagine, quella con la coppia stretta in un abbraccio “purificatore” pronta a ricominciare una nuova vita insieme. Gli eroi di Leonard sono uomini che come Moran e Mitchell, ma anche come il Majestick del film di Fleisher, non accettano né l’ingiustizia né il destino avverso; uomini che non si piegano alle prepotenze spinti da un ideale libertario e assolutista, in cui la sconfitta non è contemplata. Non è casuale, infatti, che Moran, Mitchell e Majestick, prima di agire, si prodighino nel conoscere il meglio possibile i loro antagonisti, a volte addirittura sfidandoli e coinvolgendoli nella loro vita (Mitchell quando fa leggere i libri contabili a Raymi, Majestick quando fa evadere Frank Renda e Moran intrattenendosi con De Boya sulla spiaggia), con l’obiettivo di avvicinarli il più possibile per individuarne i punti deboli. L’impianto di Cat Chaser dunque, anche per le succitate prerogative appartiene pienamente alla categoria 141
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del noir, di cui non solo rispetta le regole essenziali, ma dalla quale attinge a piene mani rivisitando persino alcune scene di classici del passato, come il semi-sconosciuto I wake up screaming (Situazione pericolosa, 1940) di Bruce Humberstone. Il film, uno dei primi noir della storia del cinema, è citato direttamente da Ferrara con l’episodio che vede Jiggs Scully “comparire” ai piedi del letto nella stanza di Moran mentre questi sta dormendo e la voce-off racconta: “Il solito sogno ora era diverso, c’era Mary che voleva essere Luci Palma e altra gente che gli sparava e quando si svegliò, una di quelle persone era la. La realtà divenne un incubo” In I wake up screaming,l’ispettore di polizia Ed Cornell (Laird Cregar) “compare” ai piedi del letto nella stanza di Frank Christopher (Victor Mature) e quando questi si sveglia esclama: “Mio Dio. È la prima volta che mi capita di avere un incubo ad occhi aperti”. Con Cat Chaser, l’aspetto onirico del noir, è pertanto pienamente rispettato da Ferrara che sparge lungo l’arco di tutte il film altre tracce che richiamano il genere e che ne rafforzano le istanze. L’episodio della “comparsa” di Scully è evocativo della dimensione ambigua in cui si muove il film, all’interno del quale onirismo e turbamenti psichici si intrecciano indissolubilmente. Scully, come Cornell, oltre a rappresentare la minaccia che incombe su Moran, ne è in qualche modo anche la personificazione del senso di colpa (così come l’ispettore di polizia lo è per Christopher), e pertanto la sua comparsa come “in sogno” rappresenta il malessere interiore che tormenta il protagonista. Cornell, infatti replica a Frank dicendo: “Volevo solo sapere se parli nel sonno, perché se lo fai ci tengo ad essere presente”, mentre Scully, invita George a seguirlo, lo conduce a casa di De Boya e lo fa assistere alle esecuzioni di Tyner e Rafi. La rappresentazione stessa di Mary Delaney richiama le tante donne manipolatrice del noir, con una differenza sostanziale però: Ferrara mostra la donna come colei che agisce nel silenzio, che subisce, apparentemente, le angherie del marito che è determinata a vendicarsi di lui ma che non vuole la sua morte come dichiara allo stesso Moran che gli prospetta l’ipotesi che Rafi possa eliminare Andres. Quella di Cat Chaser è un “eroina” asimmetrica in cui il sentimento e la passione prevalgono sull’odio e sul rancore, ma non annebbiano il raziocinio e la logica, come ben dimostra il furto delle valigie piene di soldi. La dimensione onirica in cui è perennemente immersa l’immagine di Mary (su tutte la scena del primo amplesso a Santo Domingo) è quella stessa che avvolge tutti i personaggi della vicenda, tracciando la rap142
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presentazione di un mondo bizzarro e “sospeso” in cui, come nella migliore tradizione noir i personaggi sono spesso ritratti mentre dormono, mentre si svegliano mentre chiudono o aprono gli occhi (da notare come George Moran durante la sua trasferta nei caraibi indossi (quasi) sempre gli occhiali da sole). Il mondo noir e per traslato quello di Cat Chaser è dunque un mondo immerso in una realtà deformata in cui l’atmosfera determina gli scarti dell’intelletto dei personaggi, e in cui anche il cielo limpido e terso di Miami può improvvisamente diventare grigio e opprimente (come mostrato, all’inverso, nella panoramica che chiude i titoli di testa). Cat Chaser, se da un lato cerca di illustrare i rapporti di interesse che legano le missioni degli Stati Uniti nei Paesi del Terzo mondo, dall’altro mette in scena una galleria di personaggi torbidi e ambigui che nulla hanno da invidiare a quelli dei classici del passato e che sono testimonianza della capacità del regista di comporre dei casting perfetti. Immergendo il film in un bianco abbagliante, Abel ferrara solo apparentemente rinuncia alla notte prediletta: qui infatti l’azzurro cielo di Miami è colorato di un nero opprimente che schiaccia i personaggi in ogni inquadratura: basta vedere il dolly a scendere con cui viene svelata la presenza sulla spiaggia di Andres De Boya. In Cat Chaser la macchina da presa disegna ampie panoramiche negli spazi aperti e luminosi di Miami e si incunea nervosamente nei perimetri degli interni semioscuri, evidenziando la fotografia fortemente contrastata (come nel noir). Appartamenti, chalet isolati e camere d’albergo sono i luoghi dove si consuma la tragedia, dove i caratteri cambiano e dove esplode la violenza. La solarità degli esterni è in netto contrasto con l’oscurità degli interni, quasi come se Ferrara volesse comprimere i suoi protagonisti all’interno di una trappola mortale: non a caso, infatti, la fotografia di Anthony Richmond spesso disegna sui muri negli interni di casa De Boya delle ragnatele stilizzate. Il centro del film vive nell’attrazione amorosa, che diventa subito sessuale, tra George e Mary e sulle reazioni che questa scatena. Se tutto l’assunto appare troppo discontinuo e verboso a causa delle manipolazioni della Vestron, l’interesse di Ferrara lo ritroviamo nel finale, nella scena di umiliazione con relativa pena del contrappasso, ambientata nello chalet di campagna. Qui, sospettando l’aggressione, Scully si salva simulando con una lattina di birra che gocciola nel water, il suo bisogno di urinare. Quando De Boya e Corky, sparano sulla porta per uccidere Jiggs, questi si nasconde nella doccia e sorprende i due alle spalle: li costringe a spogliarsi completa143
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mente e ad entrare nella vasca e poi fa fuoco contro di loro imbrattando di sangue dappertutto. Scully, da buon “allievo” mette in atto quanto appreso poco prima dallo stesso De Boya che interrogato su come far parlare le persone risponde così: “Se vuoi delle informazioni, quando interroghi qualcuno, il trucco è non fargli domande. Bisogna spogliare completamente il soggetto, è tassativo. Quando il soggetto è nudo questo basta. Ma se questo non dovesse bastare, sottoponi la persona ad uno spiacevole trattamento”. Lo stesso Andres, prima di stuprare Mary con la pistola la fa spogliare nuda intimandogli: “Voglio che ti spogli completamente, coraggio spogliato ho detto!”, e quindi Jiggs facendo spogliare i due uomini nella doccia applica pienamente le regole dell’ex-generale. Ma come sempre in Ferrara le cose non sono così lineari come può sembrare perché sia Mary con il suo corpo nudo “profanato” dalla canna della pistola sia l’impianto generale della sequenza nello chalet richiamano la presenza di una omosessualità latente (altro cardine della poetica ferrariana), come bene ha spiegato Silvio Danese: Indirettamente, la storia porta ad una vendetta retributiva sul generale che strappava i capezzoli alle donne e tagliava i testicoli agli uomini, uccidendoli dopo averli fatti denudare. È la sequenza del bagno, piena di simbolismi fallici e omoerotici, a suggello della corrente sessuale che attraversa tutto il film. Sospettando l’aggressione, Scully si salva simulando, con una lattina di birra scrosciante nel water, la posizione dietro la porta che De Boya e il suo compare riempiono di piombo. Sorpresi i due dalla vasca da bagno, Scully li fa spoglire, e come in un balletto ridicolo, li fa entrare nella vasca. Li fa girare di fronte e spara sui corpi a genitali esposti. Scully aggiunge un silenziatore alla sua pistola, ma non c’è giustificazione (sono già stati esplosi molti colpi d’arma da fuoco e siamo in uno chalet isolato), se non il potenziamento della metafora fallica omoerotica.46
L’impotenza sessuale di De Boya nella banale tradizione del potente che sublima con la crudeltà l’assenza di sessualità, la sfrontatezza di Scully evocata attraverso la minaccia inutile del silenziatore (che ricompare nel finale con Moran), la pulsione erotica che spinge George tra le braccia di Mary, tutto l’aspetto sessuale del film (e probabilmente anche quello più corposo 46 Silvio Danese, Abel Ferrara – L’anarchico e il cattolico, Le Mani, Recco (GE), 1998, pag.141
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ma espunto in post-produzione) è tradotto da Abel Ferrara in una dimensione onirica e surreale (come richiama la presenza delle cesoie) che sin dai titoli di testa viene evocata dalla voce narrante che introduce lo spettatore all’interno del film attraverso il racconto di un sogno mentre sullo schermo scorrono immagini di reportage della rivolta nella repubblica caraibica: “Ogni tanto George Moran sogna di quando era nei marines. I suoi sogni cominciano in maniera diversa ma la fine è sempre la stessa; c’è sempre lui in quelle strade... sta cercando di uccidere uno sconosciuto che cerca di uccidere lui. Certe volte gli capitava di fare questo sogno anche per tre notti di fila. Sicuramente il sogno era collegato alla ferita che si era procurato nella Repubblica Dominicana andando a salvare la democrazia per conto di qualche compagnia petrolifera. Probabilmente nessuno si ricorderà di quella piccola guerra”. Il passato si manifesta subito agli occhi di Moran e passa dal sogno alla realtà attraverso la presenza di Nolen Tyner: un ex-marine in forze alle truppe aviotasportate di cui ha fatto parte anche George come testimoniato dalla presenza del tatuaggio (ma la voce-off: “..anche se uno può farsi tatuare ciò che vuole..”). Non è subito chiaro quale sia il ruolo di Nolen ma la sua presenza cambia improvvisamente l’atmosfera: il movimento di macchina che segue George mentre si reca alla reception, durante la partita di football tra Detroit Lions e Miami Dolphins, è accompagnato da ombre minacciose, dal soffiare impetuoso del vento e dalla presenza ingombrante (e inattesa) di Jiggs Scully e Corky. Pochi giorni dopo un’altra visita inattesa turba la tranquillità di Moran, che comincia a capire il significato della presenza di Nolen al Coconut Palms. Sulla spiaggia l’ex-marine è atteso da Andres De Boya, il quale prima prova a compare il motel di Moran e poi lo interroga sui rapporti tra lui e la moglie. George gli conferma che tra lui e la donna non è mai intercorsa alcuna relazione, ma la voce-off che chiude l’episodio anticipa gli eventi successivi e pone il problema morale della scelta: “È strano dire la verità e sentirsi colpevoli. Ma esistono peccati che anche se si commettono solo con la mente, non sono meno sconvolgenti di quelli reali” . L’intenzione è già peccato dunque, il pensiero è già corruzione, ciò che segue è solo la realizzazione di quanto “sognato”. Il sogno si fa incubo, il desiderio diventa minaccia e la tranquillità si annulla nel tormento. Se De Boya tenta, inutilmente di imprigionare la moglie nella casa (come si vede attraverso il cancello che la domestica chiude davanti ai due coniugi seduti 145
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a cena), Scully si manifesta a George ogni volta in maniera incongrua, quasi come un fantasma (come mostrato nella scena che lo vede sbucare all’improvviso ai lati della macchina di Moran nel parcheggio dell’Hilton), e Nolen pur essendo stato nei paracadutisti non sa nuotare; Moran viene svegliato in piena notte dalla telefonata di Mary che gli dice: “Sa tutto..”, mentre lo stesso Andres è sorpreso nel sonno prima dalla presenza di Mary sulla veranda e poi dall’esplosione del pontile. Tutto è incongruo in questo noir anti-convenzionale in cui non vi sono certezze (anche il Coconut Palms, nonostante il nome, è privo di palme, come fa notare a George lo stesso Tyner) e in cui l’erotismo assume il carattere di un allarmante tragedia: Ferrara sembra tratteggiare i contorni di una fiaba nera in cui come mostrato nel finale il confine tra mistero e realtà sui fa improvvisamente labile. Una parodia del “genere” in cui la voce-off si assume il compito di chiudere il film con l’happy ending ma anche di aprire nuove porte e nuove possibili interpretazioni. Non è casuale, infatti, che una delle scene più brutali del film, quella in cui Andres, prende Mary nuda, e trascinandola per i capelli, la conduce in camera a firmare il nuovo contratto di divorzio, venga ripresa da Lady Killer (id., 1933) di Roy Del Ruth, una commedia sul mondo del cinema in cui James Cagney, prende Mae Clarke per i capelli, la trascina per le stanze dell’appartamento e la sbatte fuori dalla porta con un calcio nel sedere. Mentre Mary e George siedono a bordo piscina la voce in terza persona racconta: “Mary Delaney De Boya, uno dei misteri della vita. Sedevano a bordo della piscina, quasi come se fossero fuori dalla realtà...”, e dopo l’uccisione di Scully da parte di George, la stessa voce chiosa sull’abbraccio finale: “Certo che sta bene. Il suo sogno è diventato realtà. Ha ucciso uno sconosciuto che voleva farlo fuori, legittima difesa, e sicuramente non sarà incriminato...avrà Mary e due milioni di dollari. Cosa altro può chiedere di più alla vita?”
Cat chaser – Recensione Cat Chaser è solo apparentemente un film sbagliato. Certo la poetica di Ferrara e le sue istanze più urgenti ed estreme sono annacquate e disperse in un montaggio improprio realizzato dalla produzione. La voce narrante risul146
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ta fastidiosa e pedante (anche se in certi momenti puntuale nel sottolineare le svolte narrative) e non tutti i passaggi sono chiari e risolutivi, ma quelli che normalmente appaiono difetti grossolani, in questo film scomposto, rabberciato e “spersonalizzato” in realtà diventano punti di forza. Per Ferrara George Moran è un pesce chiuso in un acquario (le insistenti carrellate attraverso i vetri delle stanze del Coconut Palms), mentre Mary Delaney è una pantera chiusa in gabbia. L’animalità della loro relazione amorosa e sentimentale è dunque conclamata dalla messa in scena del regista. Il passato è una presenza costante, un “fantasma” imprevedibile pronto a manifestarsi improvvisamente e inaspettatamente, come nella migliore tradizione noir. E proprio guardando al genere e allontanandosi dalla pretesa di leggere il film secondo i tradizionali canoni “autoriali”, che Cat Chaser assume le caratteristiche di un opera (certo non personale), ma neanche così sbagliata come si è soliti sottolineare. Lungi dal pensiero di una rivalutazione a tutti i costi e acritica, il film di Ferrara funziona perfettamente se letto nell’ottica della parodia “di genere”. Tutte le incongruenze presenti, il rispettare scrupolosamente le caratteristiche del noir come l’illuminazione contrastata, il rapporto claustrofobico tra spazi e personaggi, la presenza di soggetti vulnerabili incapaci di controllare la situazione, il confine invisibile tra crimine e legalità e l’ambiguità della messa in scena, unite ad un impianto di matrice morale come è quello del romanzo di Elmore Leonard, contribuiscono alla definizione di un film sfuggente in cui l’errore diventa pregio. Non si può non considerare questi aspetti alla luce di una ambientazione “noir” a cielo aperto, di personaggi grotteschi , affascinanti e ridicoli come Tyner (perennemente incollato a lattine o bottiglie di Budweiser), Jiggs Scully (che si pulisce le orecchie e poi ne guarda il contenuto con aria sorniona), di Corky (che anche fisicamente richiama l’estetica di una scimmia), e dello stesso De Boya, che non a caso di fronte alle spiegazioni di Scully prima della sua esecuzione esclama indispettito: “Ma c’è davvero bisogno di tutta questa messa in scena?”. Frase che più di ogni altra esplica le intenzioni del regista, interessato alla rappresentazione di due mondi in contrasto, quello degli Stati Uniti e quello Caraibico, che entrano in contatto per puro interesse economico (non a caso la maggior parte dei tagli operati dalla Vestron riguardano le implicazioni politiche di Cat Chaser). L’intenzione di Ferrara è infatti quella di deridere l’azione degli Stati Uniti tanto a Santo Domingo quanto quella negli stati centro-americani di tutti gli anni ‘80 (il film esce 147
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alla fine del decennio), e al contempo il regista non risparmia di descrivere con sarcasmo i presunti generali, feroci e ignoranti, parodia di se stessi (come mostrato nelle foto dello studio di De Boya), che operano dall’altra parte. In definitiva Cat Chaser è sicuramente un film ingiudicabile (nell’ottica del regista) ma conserva, anche nella versione corrente, spunti e stralci della poetica ferrariana e mostra, come pochi altri, l’anarchia del suo pensiero politico.
Cat chaser – Sondaggi critici Un film sbagliato, una storia macchinosa, poco chiara e scarsamente convincente, una serie di sequenze pretenziose, un finale che, pur serbando qualche sorpresa, non può certo elevare il tono della pellicola. Demerito senza dubbio del regista Abel Ferrara che in quest’opera non conferma le doti messe in evidenza nel precedente China Girl e non sa soprattutto approfittare del testo da cui parte la vicenda filmica. Resta ma in modo assai superficiale (e per molti versi frettoloso) il ritratto d’ambiente di due mondi, quello statunitense, della Florida (il paradiso, secondo l’ottica caraibica) e quello di Santo Domingo (l’isola dello svago, dove tutto è lecito), secondo l’ottica americana. Un incontro-scontro tra due culture, due diverse concezioni di vita, due modi differenti di pensare, di giudicare, di amare. LUIGI SAITTA, RIVISTA DEL CINEMATOGRAFO, N°6, 1990 Oltre ogni rischio ha per modello la narrativa di Raymond Chandler, ma senza Philip Marlowe di cui, però, il protagonista è parente nell’idealismo romantico che pulsa sotto la scorza di pragmatico cinismo. Secondo gli specialisti il “nero” è un genere (o un transgenere?) che può essere definito in bvase a cinque caratteristiche, compreso l’uso di un ‘illuminazione contrastata di derivazione espressionista. Tutti e cinque gli elementi sono rintracciabili nel film di Ferrara compreso quello espressionista, al quale si inclina nei ricordi angosciosi della guerra a Santo Domingo, uno dei tanti interventi armati degli Stati Uniti all’estero... MORANDO MORANDINI, IL GIORNO, 15 APRILE 1990 Abel Ferrara si lascia affascinare dai dettagli cromatici, dall’indolenza caraibica, dai buchi dell’intreccio per tentare la carta psicologica. Solo che Peter 148
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Weller non è proprio un campione di espressività, mentre gli altri interpreti si adeguano un pio’ pigramente ai ruoli canonici. Ne esce un thriller sfuggente e violento, tutto ammicchi e sospensioni, panorami e tramonti. Chi ama il genere si accomodi, ma il gioco del destino ha bisogno di spalle più robuste, al cinema, perché ci si appassioni alle sue variazioni. Suggestivi i titoli di testa, girati come un vecchio documentario bellico in bianco e nero. MICHELE ANSELMI, L’UNITÀ 14 APRILE 1990 Valutazione Pastorale: film farcito di “ex” (marine, dittatori, scherani), di cadaveri e di molte cose improbabili e ingombranti. Inutile cercarvi una passionalità che non c’è e che, d’altra parte, non interessa poi molto. La storia di per sè è torbida e sordida, sempre all’insegna di quei milioni di dollari, cui tutti tengono, eccettuato (pare, almeno fino all’ultimo) il rude George, il quale in conclusione ne godrà con la donna rimasta vedova (conosciuta, fra parentesi, nessuno saprà mai nè dove, nè quando). Una voce fuori campo si affanna a chiarire i precedenti bellici, nonchè la storia di Lucia la guerrigliera, faccenda anche questa di ben scarso interesse, in un film già abbastanza complicato per bombe al plastico, sparatorie e cattiverie varie dei vari protagonisti COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
King of Ne York (1989) Mentre scende il tramonto, Frank White (Christopher Walken) esce di prigione. Fuori dal carcere lo attende la sua limousine con due guardie del corpo, la nera Melanie (Carrie Nygren) e la bianca Raye (Theresa Randle). Ad aspettarlo in albergo, al Plaza Hotel di New York, ci sono Jimmy Jump (Laurence Fishburne) e la sua banda di afro-americani che gli sono sempre rimasti fedeli, e che mentre lui usciva dalla prigione hanno eliminato un informatore e alcuni trafficanti di droga. Frank si riappropria del suo ruolo spalleggiato da una schiera di consulenti e avvocati, tra cui Jennifer (Janet Julian) la sua fidanzata e Abraham Cott (Jay Julien) detto “Abe” che subito gli rinsalda i contatti con il mercato del commercio e spaccio della droga. Frank diventa egemone eliminando uno dopo l’altro i boss più potenti, tra cui Artie Clay (Frank Gio) e appropriandosi da Larry Wong (Joey Chin) di cento chili di cocaina per un valore di quindici milioni di dollari. Con quei soldi vorrebbe finanziare la 149
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ristrutturazione e impedire la chiusura di un ospedale di Haarlem. Un gruppo di poliziotti però è sulle sue tracce: Roy Bishop (Victor Argo), Dennis Gilley (David Caruso) e Thomas Flanigan (Wesley Snipes), cercano di incastrarlo e di impedirne l’ascesa. Prima agiscono secondo le leggi, poi quando vedono che anziché andare in crisi sta diventando un eroe cittadino, Gilley e Flanigan organizzano una trappola e spacciandosi per una banda rivale ingaggiano un violento scontro a fuoco con la gang di Frank, rimanendone alla fine uccisi. Frank scopre che a tradirlo è stato il fedele Joey Dalesio (Paul Calderon) e dopo averlo interrogato e aver scoperto che l’uomo l’ha fatto per i soldi dice ai suoi uomini di ucciderlo e di seppellirlo con i soldi. Frank fa visita a Bishop per spiegargli che lui non è il nemico pubblico numero uno, ma uccide solo chi se lo merita. Il criminale e il poliziotto si ritrovano per un ultimo duello in un vagone della metropolitana: qui Bishpo salva la vita ad un ostaggio di Frank sacrificando la sua. Frank White silenzioso e austero, in realtà ferito dall’ultimo colpo sparato dal detective prima di morire, va chiudersi in un taxi nel caos di Times Square, prima di esalare l’ultimo respiro.
King of New York rappresenta per Abel Ferrara un momento cruciale della sua carriera: è il film, a partire dal quale, la sua opera viene riconosciuta a livello internazionale ed è la pellicola con cui il regista riesce a trovare quell’equilibrio produttivo finora sempre venuto a mancare a causa di dissidi e incomprensioni con i produttori, e di cui Cat chaser ha, in qualche modo, rappresentato il punto di non ritorno. King of New York è realizzato con capitali italiani da Augusto Caminito per Reteitalia (è uno dei primi film con cui Silvio Berlusconi si affaccia sul mercato americano) e viene distribuito da Cecchi Gori. Costato cinque milioni di dollari (anche se visivamente sembra molto più ricco), viene girato in 7/8 settimane tra Haarlem e Brooklyn e montato interamente in America e diventa trampolino di lancio per un gruppo di attori allora quasi sconosciuti: Laurence Fishburne, Wesley Snipes e Steve Buscemi. Il film viene realizzato dal regista in una atmosfera ideale (“È stata un’esperienza unica, mi hanno messo a disposizione un budget onorevole, non hanno mai interferito nelle riprese e mi hanno dato dei suggerimenti utili” )47,e vede al lavoro tutti gli “amici” di Ferrara: St. John sceneggia partendo da un soggetto di John Paul McIntyre e Christopher Andrews, Mary Kane si occupa nuovamente dell’organizzazio47
In “L’Unità”, 6 luglio 1991
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ne generale; la fotografia è ancora nella mani di Bojan Bazelli e il montaggio è sempre dell’inseparabile Anthony Redman. Joe Delia cura la colonna sonora, mescolando echi mahleriani con l’adagio dell’ Autunno di Antonio Vivaldi, musica soul con il pezzo “Dream On” (scritto dallo stesso Delia) e cantato da Freddy Jackson con brani composti da Abel Ferrara come “Rockabilly Willy” (Ferrara) e “Piece of the rock” (Delia-St. John-Ferrara), e aggiungendo un paio di brani, tra cui “Am I black enough for you?” del rapper di Philadelphia Schoolly D. che a partire da questo film, inizia una lunga collaborazione con il regista newyorkese. “Sono arrivato a produrre questo film quasi per caso. Io avevo dei contatti con Jay Julien, un avvocato di New York manager di parecchi attori, tra cui Ben Gazzara. Con Jay avevo già fatto due film, e un giorno lui mi ha parlato di questo King of New York. La sceneggiatura mi è subito piaciuta, ma non conoscevo né Abel Ferrara né Nicholas St. John. Jay Julien, mi organizza un incontro a Roma e quando ho conosciuto Abel l’ho trovato formidabile e subito siamo diventati amici. Lui ha un carattere straordinario così gli ho detto: “OK facciamo questo film”. Non abbiamo preso soldi dagli americani, ma ricordo che Abel aveva messo come condizione per fare il film che la parte principale, cioè quella di Frank, fosse affidata a Christopher Walken. Così organizzai con Jay Julien un incontro con Abel e Chris, ma quando vidi Walken lo trovai molto diverso da come me lo ricordavo: appesantito, con gli occhi scavati e per nulla felice. Vedendolo così ero perplesso ma il primo giorno di riprese quando lo ritrovai in smoking sulla terrazza dell’Hotel Plaza, rimasi sbalordito: era dimagrito di venti chili, tutto in tiro e perfettamente nella parte…era entrato fisicamente nel personaggio!.“Io e Abel andavamo sempre d’accordo. Quando c’erano dei problemi tra noi c’era la mediazione di Jay Julien, con il quale si era formato un bel gruppo con me, Abel e Vittorio Squillante. Alla fine del film, Abel mi ha molto ringraziato. Io in lui avevo piena fiducia, poteva fare quello che voleva, anche cambiare la sceneggiatura, e io non avrei mai interferito”.48
Il film, che vede al centro la battaglia individuale di Frank White contro bande multietniche (portoricani, colombiani, mafiosi italiani e afro-americani) si snoda a ritmo di rap alternando movimenti di macchina fluidi e regolari (quando è in scena Frank, unico yankee), a ritmi nervosi e sporchi 48 Intervista con Augusto Caminito, The King of New York, Edition prestige (2 DVD), D. Vision, Paris, 2004, traduzione nostra
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(quando sono in scena le gangs criminali e i poliziotti). Il montaggio sincopato è modulato sulle musiche di Scholly D.: un gangsta’ rap violento e tribale che conferisce alle scene d’azione un’estetica e un impatto da break dance, ma che nei suoi testi racchiude, anche, lo spirito del film come racconta lo stesso Ferrara: “ I’m rough and tough and I’m doing my stuff, but what I really want to know y’all is I’m black enough? [Sono duro e brutale, mi faccio i cazzi miei, ma quello che voglio sapere da voi è: sono nero abbastanza?], quando questa gente balla, pensi: okay, “sono nero abbastanza per te?” è un messaggio ovvio. Ma poi parte la sparatoria: “nero” ora ha un’altra connotazione per me, significa l’oscurità dell’anima, sebbene “nero” connoti anche cattivo, un altro nesso linguistico razzista. “Sono nero abbastanza per te?”, ecco il sesso, ecco le droghe, ecco la violenza, questo è cattivo abbastanza per te?. Insomma, c’è una scena dove i poliziotti uccidono otto o nove persone, e si arriva al punto della rappresentazione della violenza: okay, che cosa puoi fare precisamente sullo schermo? Quanto ti puoi spingere lontano con questo genere di film? La gente dice: bene, questa è violenza, ma è davvero questa la violenza? Che cosa è veramente violento? Che cosa è veramente duro? “Sono nero abbastanza per te?” significa anche questo”49.
La parabola di King of New York, è soprattutto quindi una parabola morale in cui la notte perenne diventa “luogo” del crimine e in cui il giorno è ontologicamente negato. La fascinazione emanata dal personaggio di Christopher Walken, diventa dunque rappresentazione del “fascino del Male”, esplicitata nella sua raffigurazione “vampiresca” e dall’interpretazione che l’attore dà di Frank White, come una figura ambigua e fantasmatica, perennemente in bilico tra ragione e follia, partorita dalla città stessa, moderna Babilonia, in cui Frank, unico bianco (e che di cognome fa White) è a capo di una banda di afro-americani. Frank è il respiro e l’anima della città, anzi è lui stesso una creatura partorita dalla notte piovosa e senza fine che aleggia su New York. È un vampiro, un nosferatu post- moderno che succhia la vita delle persone e che trova pace solo davanti allo sky-line della metropoli. Spesso vediamo il suo volto bianco ed esangue illuminato dai neon delle strade, vediamo che la sua immagine non si riflette sui vetri e sugli specchi, e in una scena emblematica, lo vediamo a testa in giù come 49 In
“Film Comment” n°26, luglio-agosto 1990, pag. 42
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un pipistrello, mentre l’incontro con Larry Wong si svolge in un cinema in cui si proietta il Nosferatu di Murnau. Frank White è l’epicentro di una vicenda dove tutto converge: dall’identificazione tra criminali e poliziotti violenti, passando per il sogno utopistico di fare il Bene compiendo il Male, fino ad arrivare all’epilogo dove il gangster muore dolcemente nel caos frastornante di Times Square. La città l’ha partorito e la città se lo riprende: non a caso la morte avviene in un taxi giallo, uno dei simboli con cui si identifica la “grande mela”. A vegliare sulla città del crimine, c’è una figura cristologica che già nel cognome porta le insegne della Chiesa, Roy Bishop, un poliziotto-“padre” schiacciato dal peso degli anni, malato e afflitto dal senso del dovere. Nel film Bishop è il vero “re di New York”, un sovrano dell’anima che con la sua esistenza fatta di parole semplici, dedizione al lavoro, sofferenza per i “peccati degli altri” e solitudine, appare come l’unica rappresentazione del Bene, al punto da sacrificare la propria vita per proteggere un ostaggio. Il poliziotto è la voce della coscienza che bussa al cuore delle persone che sono solo apparentemente dalla parte della legalità: la fidanzata avvocato di Frank, il consigliere comunale e altri, ma che in realtà sono vittime della sete di potere, della ricchezza e dell’interesse personale che la “corte” di Frank White garantisce loro. La moralità di Bishop è raccontata anche attraverso la rappresentazione di una fisicità dolente e impacciata, che si muove in netto contrasto con la magrezza e la pazzia di Frank, per cui Bishop appare realmente come “il custode di suo fratello”. Con la sua figura sfiancata e il volto perennemente avvilito, appare come un eroe disilluso caparbio verso il proprio dovere, ma determinato a tenere i colleghi più giovani, irruenti e violenti (come Gilley e Flanigan), lontano dai guai, e da un modo di esercitare la giustizia lontano dalle regole e dall’etica del mestiere. White e Bishop, entrambi muoiono nel “ventre molle” e cuore pulsante della città (la metropolitana e il taxi bloccato a Times Square), come se Ferrara e St. John volessero raccontare un’altra storia rispetto a quella appena mostrata. Il problema vero, secondo i due, quindi, non è il gangster, il problema è il mondo senza Dio, un mondo ormai al tramonto (come suggerisce il nome del ristorante italiano ritrovo dei mafiosi), dove la violenza è ormai padrona e per vivere felicemente non resta altro che sballarsi con la droga. La metropolitana, che più volte attraversa il film, qui non è il luogo caotico e affollato della vita quotidiana, qui è un luogo deserto e silenzioso dove quando non si compiono atti criminali, ci si può scambiare 153
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tenerezze con la propria compagna. Un non-luogo che apre e chiude il film, come a voler sottolineare la ciclicità della vicenda: uccidere Frank White non risolverà il problema, perché dietro di lui c’è subito un altro gangster pronto a prenderne il posto e a distribuire felicità sotto forma di polvere bianca. La polizia in King of New York non assolve più al suo ruolo, non per ignavia o corruzione, ma per manifesta impotenza. È interessante notare come tra Gilley e Flanigan intercorra un rapporto ambiguo che oltrepassa quello di semplici colleghi di lavoro. La rabbia che anima Gilley è dovuta ad una sessualità repressa che provoca malessere e lo spinge a violare ogni regola pur di uccidere Frank White e il suo braccio destro Jimmy Jump. Nella versione originale del film, un paio di inquadrature che precedono l’esecuzione di Jump da parte di Gilley ci fanno intuire che il poliziotto irlandese è innamorato di Flanigan (“I love you, I love you Tom” pronuncia Gilley dopo averlo baciato dopo la sua morte). Questa scena mischia ulteriormente le carte e intreccia a rancori dovuti a frustrazione (il discorso del bar sui pochi soldi che guadagnano i poliziotti in confronto alle ricchezze dei criminali) l’elemento passionale che, in questo caso, porta il poliziotto a comportarsi peggio dei criminali a cui dà la caccia. Ferrara quindi sembra non voler salvare nessuno dei suoi personaggi dipingendoli come peccatori mai redenti e asserviti all’esercizio della violenza come valvola di sfogo per i propri fallimenti. Per esprimere questo punto di vista, Ferrara mette poco dopo l’inizio del film una scena molto significativa: vediamo Frank sotto la doccia, e per un attimo veloce e furtivo, il suo sguardo si ferma in macchina e “guarda” lo spettatore. È la scena attraverso cui il regista abbatte ogni barriera tra finzione e realtà. Frank guardando lo spettatore gli dice che questo non è solo il suo mondo, ma è “il mondo” e lui fa parte di quella società dedita al vizio e alla violenza ben rappresentata dalle bande di gangster: sud americani, afro-americani, italiani e cinesi, cioè quattro dei cinque continenti. Quindi, secondo Ferrara, il mondo di Frank è quello che tutti i giorni tutti gli uomini contribuiscono a costruire con le loro azioni, o forse a distruggere come si evince dalla sceneggiatura di Nicholas St. John. Un mondo che secondo Ferrara è fatto di esseri anti-umani, che “regnano” grazie al male compiuto ma che vivono in ambienti chiusi, sotterranei, squallidi retrobottega, costretti a nascondersi perché inadeguati e impresentabili. Il monologo finale di White di fronte a Bishop è esaustivo di una visione del mondo in cui il Male è intrecciato con il Bene, in cui non c’è distinzione tra 154
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“sopra” e “sotto” e in cui la legge ha abdicato alle sue priorità in favore di una illegalità conclamata e (cosa ancor peggiore per il regista) accettata. Frank white spiega a Bishop che Artie Clay alla sua morte ha lasciato in eredità proprietà legali per un valore di tredici milioni, Larry Wong possedeva mezza Chinatown e affittava i locali ai suoi connazionali profughi a oltre ottocento dollari al mese, King Tito foraggiava un giro di prostitute tredicenni, e coclude il suo intervento dicendo: “Questi uomini sono morti perché non voglio avere a che fare con gente come loro. Emil Zapa, i fratelli Mata sono morti perché stavano riducendo questa città in polvere. Ho passato metà della mia vita in prigione, ho sempre pagato tutto e non ho mai ucciso una persona che... non se lo meritasse”. Bishop replica con sdegno: “Ti sei nominato legge e giudice da solo?”, e Frank beffardo replica: “Beh è un lavoro duro..., ma qualcuno deve pur farlo”. L’ultima replica sembra sostenere l’impotenza della legge e come solo il crimine possa rappresentare una risposta efficace e risolutiva, e pertanto come solo la notte possa prevalere sul giorno, in un mondo che è privo di luce e che al tramonto libera i suoi fantasmi. A suffragare queste tesi concorrono due elementi distinti e lontanissimi: da un lato la recitazione isterica e al contempo misurata di Christopher Walken e dall’altro il nero della notte che avvolge ogni cosa. Frank White è un personaggio irregolare e asimmetrico, pieno di contraddizioni che si presenta come un eroe romantico (le cene in società, la malinconia dello sguardo rivolto su New York...) per mascherare una ferocia primordiale (l’omicidio di Artie Clay) mai sopita. La sua personalità è evidentemente disturbata come mostrano i sui numerosi tic e i sui scatti d’ira, il suo ghigno beffardo e i suoi sproloqui, ma è anche il frutto di una fragilità mai accettata e dirompente. La recitazione di Walken è perfetta nel tratteggiare i contorni di Frank White; una recitazione fatta di scatti nervosi, improvvisi balletti, repentini cambi d’umore e slanci di malinconia, frutto della pratica dell’improvvisazione come confermano le parole dello stesso Walken e del regista: “Mi è piaciuto molto fare questo film, per il modo insolito con cui è stato realizzato, in quanto un sacco di scene uscirono da una principale, frutto di continue improvvisazioni. Durante le prove dicevo al regista: “Bene che ne dici se dico questo? Che cosa succede se la scena la facciamo così”. La maggior parte dei dialoghi sono venuti abbastanza spontanei. Penso che ad Abel Ferrara piace lavorare 155
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in questo modo. Altri registi mi avrebbero scoraggiato, ma lui mi ha incoraggiato; lui è un regista molto entusiasta, che non arretra, ti incita e ti dirige così: “Sì, sì, fallo!” oppure: “Oh, amo quello che hai detto e come l’hai detto”, è aperto al cambiamento, “yeah yeah! “. Non c’è niente per un attore come ottenere una risposta positiva come questa”50. “L’improvvisazione è un concetto strano, perché alla base di ogni improvvisazione c’è un grande materiale, una grande sceneggiatura, per cominciare. E poi è molto difficile dire dove inizia e si ferma. Ogni scena del film è in un certo senso una improvvisazione”.51
L’altro elemento è rappresentato dall’ambientazione notturna come luogo della strage e della distruzione. Frank White al ristorante con Jennifer dopo la scarcerazione, alla domanda di Pete che gli chiede come sta, risponde: “Di ritorno dal mondo dei morti”, materializzando nella parola quella che lungo tutta la durata del film è una condizione esistenziale. La New York del film di Ferrara è una sorta di Inferno Terrestre (in antitesi al Paradiso Terrestre), fatta di luoghi chiusi, luci al neon e una impenetrabile oscurità, in cui i contorni delle persone sono poco definiti e da cui emerge prepotentemente solo la loro proiezione sotto forma di ombra, nella rappresentazione (voluta e accentuata dalla fotografia di Bojan Bazelli) di una atmosfera mortifera oscillante tra “morti viventi” (le silhouettes che si muovono la notte lungo le strade) e “vivi morenti” ( tutti i personaggi del film). L’unico colore che emerge è un blu elettrico che rimanda tanto alle sirene della polizia quanto al luminol per scoprire le tracce dei criminali e che permette di far emergere il destino tragico (e cercato) di Frank White e al contempo tratteggiare scenografie opponenti in cui il barocco si antepone al decadente e in cui il lusso si antepone al degrado (come dimostra la scelta degli ambienti in cui si svolge l’intera vicenda). Nell’ottica di Ferrara dunque, in un film come King of New York, il diavolo non è solo una presenza immanente e costante (di cui Frank è una delle possibili incarnazioni), ma è anche l’elemento divisore che costituisce l’impianto narrativo e scenografico del film. Il diavolo come il contrario dell’ordine: la separazione “pagana” di dio dalla sua identità che da vita ad un mondo riflesso che non è reale ma che è solo pro50 51
Christopher Walken, “Film Comment” , Luglio-Agosto 1992, pag 62 – trad. nostra Abel Ferrara, “Sight and Sound”, Febbraio 1993, p.21 – trad. nostra
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iezione dello stesso, sua immagine. Se si mettono in relazione le parabole esistenziali di Bishop e White in cui uno rappresenta Dio e l’altro il Diavolo, ci si accorge che il punto terminale per entrambi è rappresentato dal confronto/duello (inevitabile) del finale del film e come per ognuno di loro la morte rappresenti una liberazione e una separazione dall’altro, traducendo per immagini la paradossale vicinanza tra il diabolico e il divino. Visione accentuata dalla deformazione manieristica e dalla luminosità barocca impresse alla pellicola, che sembrano tratteggiare i contorni di una camera oscura in cui si muove, nevrotico, un teatro delle ombre elettrico e schizoide, che rimanda ad un’illusione del reale sotto forma di percezione psicologica, certificato dallo sguardo in macchina di White che permette alla realtà filmica di confondersi con quella materiale e fa sì che lo spettatore avverta come immagine filmica un prolungamento del suo sguardo e si trovi davanti ad un inaspettato (quanto subliminale) coinvolgimento personale spiazzante e provocatorio. Teatro delle ombre ben rappresentato in King of New York dalla breve ma significativa citazione de “L’imperatore Jones” di O’Neill, il cui scenario è immerso in una luce blu elettrico e che si conclude con la dichiarazione del protagonista: “Uomo o fantasma ti ucciderò di nuovo”, di fronte ad un annoiato Frank White, che subito dopo rimprovera il consigliere comunale per non essere riuscito a trovare i soldi per salvare l’ospedale di Haarlem. Abel Ferrara, nella costruzione del personaggio di Frank White compie una doppia e difficile operazione, sia ricalcando gli stereotipi di genere sia allontanadosene il più possibile (perfino in modo astratto). Se il gangster-movie, come da copione, ripete sempre la stessa storia, descrivendo la parabola rise and fall di un uomo qualunque, rimandando all’infinito la storia di Al Capone e della Chicago degli anni ‘20, è evidente che la forma con cui sono presentati “il gangster e la città” diventa, per ogni regista, l’elemento per rimarcare il distacco dal prototipo. Certo, la “regalità” di Frank White stride fortemente con la rozzezza dell’emigrato italiano, ma non è dissimile la simbiosi che si instaura tra ognuno di loro e la rispettiva città di riferimento, con al differenza che mentre Al Capone diventa il padrone della città grazie alla corruzione dilagante, anche e soprattutto nelle forze dell’ordine, Frank White è addirittura un parto della stessa città di cui si manifesta come incarnazione romantica e terribile allo stesso tempo. Nel film biografico Capone ( Quella sporca ultima notte, 1977) di Steve Carver (prodotto da Roger Corman), la parabola di Alfonso Capone è nei tratti essenziali pressa157
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poco quella di Frank White. La parabola ascensionale lo porta ad essere il “re” della città come egli stesso afferma, dopo l’incontro con Frank Loesh (il capo della commissione anticrimine che si rivolge al gangster per avere elezioni regolari in città), rivolto a Frank Nitti (Sylvester Stallone): “Ora sai chi è che possiede questa cazzo di città”, mentre Frank viene “eletto” re da parte dei poliziotti chiusi nel bar che di fronte alla serata di beneficenza da lui organizzata per raccogliere i fondi per l’ospedale di Haarlem, tramite Gilley, brindano al “Re di New York”. Come Frank, anche Capone confida sempre a Nitti che “ho ucciso solo chi se lo merita” e come Frank poco alla volta anche l’italo-americano rimane solo e chiuso nel suo palazzo. Johnny Torrio rimprovera a Capone di usare modi meno brutali dicendogli: “Quando te lo metterai in testa che noi siamo uomini d’affari...”, mentre White, nel dialogo finale con Bishop chiosa: “Questo paese spende più di cento miliardi di dollari all’anno per andare fuori di testa. Non è colpa mia. E quando ero in prigione le cose sono peggiorate. Il problema non sono io. Io sono solo un uomo d’affari”.Al posto dell’alcool del proibizionismo di Chicago, c’è la cocaina della New York post-edonismo, e le città sono in entrambi i casi un calderone di razze e di etnie poco amalgamate e in conflitto tra loro: italiani, ispanici, irlandesi e afro-americani, e persino la resa dei conti tra gangster e poliziotti del film di Ferrara non può non richiamare nelle modalità il “massacro di San Valentino” (14 febbraio 1929), in cui la banda rivale di Bugs Moran è sterminata dagli uomini di Caopne travestiti da poliziotti. Ma Ferrara con King of New York guarda anche al romanticismo dei criminali della saga di The Godfather (Il Padrino, 1972) di Francis Ford Coppola, e non si può non vedere come Frank White abbia più di un tratto in comune con Michael Corleone: dalla freddezza e dalla ferocia con cui compie l’esecuzione di Artie Clay che rimanda all’omicidio di Sollozzo e McKlusky del film di Coppola; alla location stessa dello spargimento di sangue: un ristorante italiano (“Da Louis” per Michael, a “Il Tramonto” per White), alla dicotomia tra Bene e Male che convive nei due gangster, fino alla loro affermazione che per Frank avviene dopo l’uscita dal carcere mentre per Mike Corleone dopo il ritorno dalla Sicilia (una forma solo diversa di prigionia). Se i Corleone rinunciano al mercato della droga dando inizio alla carneficina, Michael afferma che: “La droga va controllata per mantenerla rispettabile”, e il suo sembra un sogno tanto quanto quello di Frank White di fare il Bene compiendo il Male, e cioè salvare l’ospedale di Haarlem tramite i soldi 158
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ricavati dallo spaccio della droga (ma dell’ospedale non rimane che una fotografia mostrata alla festa di beneficenza), il carattere spietato e crudele è comune ad entrambi come dimostrano tanto l’esecuzione di Dalesio da parte di Frank (“Seppellitelo con i soldi”), quanto quella di Carlo, il marito di Connie, da parte di Mike: da notare come in entrambi i casi i due criminali non assistano agli omicidi in prima persona ma osservino ala scena da lontano (White non la vede neanche, ma sente solo lo sparo). Maggiori legami e rimandi tra Frank White e Michael Corleone sono presenti in The Godfather-part II (Il Padrino, parte II, 1974), in cui L’isolamento nella suite del Plaza Hotel coincide con quello nella villa a Lake Tahoe, luoghi in cui i tratti eremitici e malinconici dei due gangster quasi si sovrappongono: entrambi spesso guardano fuori dai vetri a “osservare” il silenzio che non trovano dentro se stessi, come chiusi dentro un acquario da cui è impossibile uscire se non per uccidere o fare del male, e in cui la poltrona su cui spesso Mike è seduto assorto e lontano dal mondo che lo circonda, coincide con lo sky-line di New York più volte ricercato dallo sguardo assente di Frank. La New York di inizio secolo in cui capita un giovne vito Corleone (Robert De Niro) non è diversa da quella di fine anni’80: ieri polvere, caos, bancarelle, fuochi, disordine e sporcizia; esseri umani arrangiati alla belle e meglio che cercano di sopravvivere, eleganti e prepotenti boss di quartiere come Fanucci (Gastone Moschin) che impongono la loro legge, una moltitudine di etnie che si confondono con gli animali lasciati liberi e con il caos e il traffico delle prime macchine; oggi una città “infernale” le cui strade sono “pattugliate” da papponi e prostitute, in cui la droga scorre a fiumi e in cui il degrado emerge in ogni angolo, dove gangs di varia provenienza cercano con forza di ricavarsi un posto al sole, mentre il sole non riesce più a sorgere e dove il traffico è congestionato, la metropolitana deserta e i politici corrotti e opportunisti. Ma oltre alla saga di Francis Ford Coppola e alla sua tradizione di eroi e anti-eroi (apparentemente) romantici, Ferrara e St. John si rifanno a modelli “classici” e se da Little Caesar (Piccolo Cesare, 1944) di Mervin Le Roy, prendono spunto per la descrizione del personaggio di Bishop, il vero modello di riferimento è rappresentato da Public Enemy (Nemico pubblico, 1931) di William A. Wellman, visto che, come nel caso del capolavoro degli anni’30, i due tendono con King of New York tendono alla rappresentazione e alla re-invenzione di un possibile archetipo, e che il personaggio di Frank White appare come una compiuta rivisitazione del 159
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Tom Powers di James Cagney. Roy Bishop è nei tratti (ma non nel carattere) assimilabile al Tom Flaherty (Thomas Jackson) il poliziotto che “persegue” le azioni di Cesare “Rico” Bandello nel film di Le Roy: un poliziotto tenace, astuto e convinto (non disilluso come Bishop), sicuro che prima o poi il gangster cadrà nella sua rete, e che poco prima che il bandito muoia afferma: “Rico, a quanto pare stiamo per fare quella famosa passeggiata insieme..”, richiamandogli alla memoria come il suo destino fosse segnato sin dall’inizio. Prima della sparatoria nel vagone della metropolitana, uno stanco Bishop dichiara a Frank che tiene in ostaggio la donna: “È tra me e te Frank, lasciala andare...è tra me e te...”. E se White muore chiuso in un taxi giallo nel centro di Manhattan, Rico Bandello muore dietro un cartellone che annuncia lo spettacolo di ballo dell’amico ed ex-socio Joe Massara (Douglas Fairbanks), in cui la raffica di mitragliatrice che stronca la vita del gangster, ironicamente, sottolinea le parole “singing, laughing, dancing...”. In Public Enemy invece, gli autori, come certificato dai cartelli che aprono e chiudono il film mirano alla descrizione non tanto di una figura reale, quanto a quella di un “carattere”, quello del “nemico pubblico” che è determinato tanto dalle condizioni sociali quanto dalle dinamiche di vita della città. La Chicago degli anni ‘20 fa da sfondo alle vicende criminali di Tom Powers (James Cagney) e Matt Doyle (Edward Woods), anche se il loro rapporto risulta molto diverso da quello che lega Frank White e Jimmy Jump: i primi sono amici e sodali, i secondi sono colleghi legata da dinamiche di potere. Tom Powers vive al Washington Arms Hotel di Chicago mentre Frank al Plaza Hotel di New York, ma per entrambi l’albergo risulta essere una sorta di rifugio, un luogo protetto in cui isolarsi e provare ad essere “normali”. La mimica facciale, le smorfie e l’improvvisazione di Cagney sono patitetici della gestualità e della recitazione nevrotica di Walken, al punto che il balletto che Frank White improvvisa durante l’incontro con Jimmy Jump è lo stesso, persino nelle movenze, di quello che che Tom Powers improvvisa al termine dell’incontro con Gwen (Jean Harlow). Sia Powers che White, nel finale, una volta abbandonata la loro “tana” lussuosa sono animali braccati sperduti in una notte di pioggia fitta, profonda e mortale, e se Tom Powers firma la sua condanna con la strage alla Western Chemical Company, White capisce che il suo destino è segnato dopo l’inseguimento e la sparatoria sul ponte di Brooklyn. Il cartello finale che chiude Public Enemy, sembra essere valido anche per l’opera di Ferrara, che grazie al monologo di Frank davanti a 160
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Bishop svela la sua valenza “politica e simbolica”: La fine di Tom Powers è la fine di ogni teppista: il “nemico pubblico” non è né un uomo né un personaggio...è un problema che presto o tardi, noi, il pubblico dobbiamo risolvere”.Tutta la costruzione di King of New York è finalizzata alla rappresentazione di un “carattere della metropoli” e Ferrara e St. John per descrivere la parabola rise and fall di Frank White ricorrono ad una forte stilizzazione che distacca violentemente il film sia dai prototipi succitati sia dagli stessi riferimenti biografici del personaggio, facendolo diventare una sorta di “fantsama” e di “ritornante”, un vampiro che come il Nosferatu di Murnau emerge (prima) e sprofonda (poi) nelle stesse viscere della città, ma anche una figura condannata al suo destino sin dalla prima sequenza. Una sequenza lunga, complessa e stratificata, in cui vengono definite tanto le dinamiche del potere che determinano la “regalità” di Frank White, tanto la sua rappresentazione iconoclasta di essere diabolico incapace di compiere il Bene. La sequenza si apre con un carrello laterale che dal nero del fuori campo introduce lo spettatore all’esterno della cella carceraria di Frank White: l’immagine da dietro le sbarre, il corpo chino e mostrato di spalle, la scenografia spoglia e minimale da cui emerge il verdino delle mura del carcere, sono già rappresentazione del destino segnato dell’uomo. Ad accentuare questo carattere, Ferrara aggiunge la panoramica esterna che mostra la limousine che al tramonto si allontana dal carcere e, una volta varcato il cancello, il portone si chiude alle sue spalle. Abilmente, il regista, non mostra subito il prosieguo del cammino della limousine, ma si sofferma con una breve panoramica dal basso verso l’alto (angolata a destra) sul movimento lento con cui la cancellata si chiude alle spalle di Frank evidenziandone il clangore provocato dal movimento stesso: segno evidente di una prigione che non abbandona il gangster al momento dell’uscita dal carcere, ma che anzi diventerà ancor più stringente una volta conquistata la tanto agognata libertà (come mostrano le ossessive inquadrature che lo mostrano all’interno di spazi chiusi e gli stringenti asfittici primi piani). La sequenza prosegue con la limousine che percorre le strade della periferia di New York, alternando il primo piano di Frank illuminato alternatamente dalle luci al neon dei lampioni, con carrelli laterali che mostrano la “fauna notturna” che popola le strade della “grande mela”: uomini e donne rappresentati non nella loro fisicità ma come ombre e/o silohuettes, privi di carne ed evanescenti allo sguardo. Creature uguali a Frank White, il quale, volutamente e per paura, all’invito di una delle due 161
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guardie del corpo che gli chiede: “Vuoi fermarti?”, replica seccato: “No”. A questo punto, il montaggio alternato, mostra l’esecuzione di Emilio Zapa da parte di alcuni uomini di Frank White, i quali dopo averlo trucidato all’interno di una cabina telefonica, gli mostrano un articolo del giornale in cui si annuncia la scarcerazione di Frank. Successivamente la scena si trasferisce in un lussuoso albergo periferico, in cui Jimmy Jump e i suoi uomini stanno testando la qualità della droga offerta da King Tito. Quella che sembra essere una normale trattativa d’affari, si trasforma ben presto nella parodia di una vendetta: al posto dei soldi per lo scambio con la droga una valigetta piena di tampax, al posto degli alcolici l’assurda richiesta di una coca-cola per prendere un’aspirina da parte di Jimmy Jump, e infine i gangsters vengono sorpresi dalla sparatoria mentre stanno guardando i cartoni animati in televisione. Dopo questa breve parentesi volutamente parodistica, Ferrara chiude la sequenza tornando a fare sul serio e mostrando in montaggio alternato Frank White sotto la doccia con le immagini dei suoi vestiti adagiati sul letto dell’elegante suite del Plaza e degli accessori dell’albergo mescolati assieme a dei meravigliosi gigli bianchi recanti il biglietto: “Welcome back Frank”. L’ultima parte della sequenza rappresenta nuovamente un ricorso alla parodia e mostra il confronto tra Frank White e Jimmy Jump. Lo spettatore, ignaro della loro amicizia, si trova di fronte ad una scena particolarmente tesa in cui Frank, con aria minacciosa si rivolge così a Jump: “Cosa c’è in quel bicchiere?”, l’afro-americano replica: “Birra di radice” e accartoccia il bicchiere che tene in mano prima di aggiungere sferzante: “Ne volevi un po’?”; Frank impassibile replica nuovamente: “No, mi fa schifo”. A questo punto, inaspettatamente si lancia in un vorticoso passo di danza, che sorprende e scioglie la tensione, prima di abbandonarsi agli abbracci e alle pacche sulle spalle dei suoi uomini. In questa lunga sequenza, il regista condensa quindi, tutti i suoi temi più cari, dalla definizione del libero arbitrio, alla raffigurazione della notte metropolitana, passando per il ricorso alla parodia non come elemento rilassante ma al contrario come amplificatore della violenza, e pone le basi contenutistiche del prosieguo del film. Un film in cui il sole, fa capolino con i suoi riflessi solo nel tramonto iniziale, in cui il ristorante degli italo-americani si chiama appunto “Il Tramonto” e la cui insegna campeggia sopra l’immagine di una Madonna (unico richiamo iconico alla religione rispetto ai film precedenti); un film in cui la notte è habitat naturale per il protagonista-vampiro, che nell’unica scena diurna, quella dell’omicidio di 162
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Gilley al cimitero, si avvicina alla vittima con la sua limousine, tira giù il finestrino annerito, e spara senza sporgersi dall’oscurità dell’abitacolo, e in cui, persino un gangster come Larry Wong si accorge della follia di Frank White. Durante il dialogo all’interno dell’ospedale di Haarlem, Frank White, si rivolge al cinese per offrirgli la possibilità di smerciare i suoi cento chili di cocaina: “Avremo un guadagno di dodici milioni di dollari su qualcosa a cui tu non prendi parte. Io lo so che non disponi di uomini da sguinzagliare per le strade, ma io si. Io metto i ragazzi che vendono la roba e tu metti il carico, e io mi prendo anche tutti i rischi. A quel punto dividiamo la differenza e mettiamo da parte qualcosa per posti come questo”. Larry Wong, dopo aver ascoltato le parole di Frank replica interdetto: “Sai una cosa Frank! Questa conversazione mi ha fatto capire che sei pazzo... completamente pazzo”. Se in King of New York, il mondo criminale è descritto come un coacervo di contraddizioni, a metà strada tra lo stereotipo di genere e la parodia dissacrante, il mondo della polizia non è poi tanto diverso è, se si esclude la figura di Bishop, gli altri poliziotti appaiono violenti, frustrati e irragionevoli. Nelle loro parole c’è sempre la condanna di una società che, a loro dire, non solo impedisce il loro lavoro, ma anzi gratifica i prepotenti e malfattori. A tal proposito è emblematico il monologo di Gilley di fronte al televisore che rimanda le immagini della serata di beneficenza per l’ospedale di Haarlem: “Brindiamo al re di New York...credevo che fossimo noi i giusti, credevo che le leggi avessero valore, ma l’intero nostro sistema favorisce quel pezzo di merda”. Questa convergenza di intenti legali e illegali che animano i due mondi contrapposti, si materializza anche attraverso i luoghi del confronto. Non è casuale, infatti, che la villa sotto il ponte in cui avviene l’imboscata ad opera dei poliziotti rappresenti una versione degradata e fatiscente della suite del Plaza Hotel, con le stesse luci, gli stessi vasi, lo stesso arredamento barocco, e che la scena sia introdotta da quella della festa all’Hotel Plaza tra spinelli, balli e piatti pieni di cocaina, la stessa immagine che apre la sequenza della villa sotto il ponte, in cui al posto delle luci soffuse e romantiche del Plaza ci sono le luci delle candele e un’illuminazione diffusa blu elettrico che richiama le luci di una discoteca di quarta categoria. Gli interni, in King of New York, sono mostrati come antri infernali, in cui è possibile solo agire illegalmente o abbandonarsi al degrado e alla depravazione, e in cui quando a un uomo proveniente dalla west-coast viene chiesto: “Come si sta a Los Angeles?”, la risposta banale e ridicola può essere solo 163
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quella: “Fa caldo”. Nel pessimismo di King of New York, Ferrara e St. John lasciano solo spazio al sogno come forma irrisolta di speranza: un desiderio, un auspicio destinato a non realizzarsi come dimostrano sia la fotografia dell’ospedale (destinato a rimanere impressionato solo sulla carta, e la confessione di Frank a Jennifer sulla terrazza del Plaza: “Ho perso molto tempo...mi è sfuggito, però d’ora in avanti non ne sprecherò più. Mi restano ancora un paio d’anni, li impiegherò per fare qualcosa di buono...qualcosa di buono”. Il finale è ciclico rispetto al film e ritrova gli stessi parametri della sequenza iniziale: Frank esce dalla metropolitana, la macchina a mano lo segue mostrandolo da dietro le inferriate mentre sale le scale che lo portano in superficie (una nuova libertà), si confonde tra la folla annientando la sua “regalità” e banalizzando il suo ruolo (momento questo in cui Ferrara cancella in un solo colpo l’alone mitico e romantico del suo personaggio), attraversa anonimamente Manhattan per andarsi a rifugiare in un taxi fermo nel traffico di Times Square, e mentre un numero spropositato di poliziotti si riversa nella zona (altro richiamo parodistico e dissacrante) e circonda l’auto con le armi spiegate, egli guarda il proprio volto riflesso nello specchietto retrovisore al cui lato pende un crocifisso, e lentamente scopre la ferita all’addome, adagia la testa sul sedile e muore mentre il frastuono dei clascon riempie l’atmosfera. L’ultima immagine del film è il dettaglio della pistola impugnata da Frank che cade riversa sulle sue ginocchia: lo scettro ormai inutile e silenzioso di un re senza corona morto nell’ indifferenza di una cittàcrocifisso che riproduce all’infinito i suoi fantasmi nell’attesa di ritrovare un nuovo “sovrano”. Abel Ferrara in questi anni ha più volte parlato di un sequel del film: King of New York – The Last Crew. La sceneggiatura è pronta ed è firmata dallo stesso Ferrara con Scott Pardo e Barry Amato, e racconta le vicende che portarono all’incarcerazione di Frank White e la sua ascesa da quando lui e la sua gang facevano parte della mafia, intrecciando il tutto con vicende internazionali, tra cui il negoziato per la liberazione di alcuni ostaggi americani in Iran. Un film quindi con una forte componente politica e del cui cast dovrebbero far parte, oltre a Christopher Walken anche Drea De Matteo e il rapper nero Paff Daddy incaricato anche di comporre le musiche. Ferrara è, come sempre, in cerca di un produttore interessato a finanziare il film. 164
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King of New York – Recensione Lo scenario notturno è squarciato dallo sferragliare della metroplitana, un serpente luminoso ed elettrico che attraversa la città e delimita lo spazio di conquista di due gangs irregolari (una di criminali e una di poliziotti) che si contendono il territorio. Luogo della memoria e del ricordo, la metropolitana di New York nel film di Ferrara diventa luogo delle opportunità (quella offerta da Frank ai rapinatori), dell’amore (il petting tra Frank White e Jennifer) e della morte (il pre-finale del film). Gli eventi cruciali, in King of New York, si svolgono dunque lungo il perimetro della città mentre al centro, come in una moderna arena uomini rabbiosi, frustrati, e assetati di potere e di denaro, si scannano a vicenda in una lotta senza esclusione di colpi che cancella ogni principio di legalità. Su questa città ripiena di una umanità brutale e selvaggia “regnano” due sovrani: uno eletto dal nemico (Frank White così nominato dai poliziotti), l’altro eletto da Dio in quanto uomo dall’evidente natura cristologica (muore nella posizione che ricorda il Cristo del Mantegna). Entrambi desiderano cambiare la città: Bishop vuole eliminare il crimine e saldare i conti anche con la propria coscienza, Frank vuole fare affari con la droga, smerciarne una quantità spropositata, e guadagnare i soldi necessari per salvare un ospedale per bambini di Haarlem. L’esito non è scontato: sia Frank che Bishop verranno riassorbiti dalla città e rimarranno come sospesi in un limbo metropolitano rappresentazione dell’impossibilità di cambiare le cose in un mondo corrotto e svilito, privo di valori e di amore (nel film non ci sono “veri” sentimenti) come quello di King of New York. Per dipingere questo affresco “medioevale” Abel Ferara stilizza la sua regia modulando i fluidi movimenti di macchina su ritmi nervosi e sincopati, utilizzando copiosamente lunghi e “freddi” carrelli laterali e montando ogni sequenza come se fosse la scarica di una mitragliatrice. Colorizza il film con un effetto che richiama il viraggio del muto, eliminando ogni colore tranne il nero e il blu elettrico, e attorno a Christopher Walken e Victor Argo compone un cast di quasi tutti esordienti (all’epoca) di rara efficacia e perfezione. Utilizza la sceneggiatura minimale dell’amico Nicholas St. John come pretesto per imbastire un’architettura di trame e di coreografie urbane che richiamano l’espressionismo tedesco e impone una struttura narrativa dalla forte valenza “politica”, dimostrando una capacità autoriale che travalica il banale “terrorismo del genere” per ambire all’apologo morale. King 165
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of New York, è pertanto opera seminale di una filmografia in divenire capace, spiazzando, irritando e sorprendendo, di rinnovarsi e di trasformarsi continuamente togliendo, sia allo spettatore che all’addetto ai lavori, ogni possibile punto di riferimento,.
King of New York – Sondaggi critici King of New York è un film violento e notturno di alta definizione stilistica ai limiti del manierismo, in gran parte giocato su una liquida tavolozza di blu e nero cui si contrappongono toni più accesamente sanguigni nella parte della polizia e su un brio espressivo di ostentato quasi oltraggioso virtuosismo tecnico. Doppiato da Piero Tiberi, Walken interpreta White come James Dean avrebbe fatto Piccolo Cesare, secondo un felice paragone di un critico americano, ma tra gli altri bisogna citare almeno Victor Argo nella parte del poliziotto anziano e malato MORANDO MORANDINI, IL GIORNO, 2 SETTEMBRE 1991 King of New York ha diviso le opinioni: alcuni non vi hanno visto altro che un banale e pretenzioso esercizio di stile, altri un film audace. La scommessa di King of New York, è che osa giocare la regia contro la sceneggiatura; senza cadere nella trappola del manierismo. Il movimento e la dinamica del film non risultano da una narrazione, da una “storia” ma dall’interazione di tutti i protagonisti, poliziotto e gangsters, rappresentanti le differenti comunità che si danna a una guerra senza pietà per conservare o guadagnare il territorio: New York. Ma al contrario di Sidney Lumet che ha scelto il realismo e lo stile semidocumentaristico dei film Fox del dopo-guerra, Abel Ferrara ha preferito l’astrazione, la geometrizzazione al reportage, Ferrara sostituisce una sorta di “Bild der Zeit”: un’immagine del tempo. Scommessa difficile rispetto alla sceneggiatura di King of New York, minimale per non dire inesistente. Con un tale presupposto il film non avrebbe potuto essere che un oggetto vuoto King of New York è molto più ricco, più denso rispetto al cinema d’azione medio-americano. Ferrara non dimostra soltanto di saperci fare: il suo stile, quasi impressionista, dà al film tutta la sua forza, immergendo lo spettatore nella disturbante sensazione “d’esserci”. NICOLAS SAADA, CAHIERS DU CINÉMA, N. 435, 1990.
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Dev’essermi sfuggito qualcosa a proposito di Abel Ferrara, di cui ho visto solo Cat Chaser un film confusionario e asfittico, nonostante gli spazi aperti e la luce piena. So che c’ è gente che lo considera più che una promessa, ma a giudicarlo dal punto di vista di King of New York sembra uno dei tanti Rank Xerox in circolazione. Non racconto la storia perché ovvia. Cito solo gli scarti dalla norma. Ci sono due signorine avvenenti nel ruolo di guardie del corpo. C’è una sparatoria tutta a luce blu (non virata in blu) scandita da un rep pesante. C’è pure un inseguimento di macchine tutto blu che non è disprezzabile. E poi c’è Christopher Walken. L’impassibilità con cui esce di galera per riprendere in mano il traffico della droga è ormai uno standard. Anche il finto scontro con quella che è la sua banda (ma noi non lo sappiamo ancora) non è un colpo di genio a funziona. È a quel punto che Walken batte le mani, per la prima volta sorride, scioglie la tensione, dice: “Sono il re di New York” (sic!) e accenna un passo di danza. Tutto il film vale per questi dieci secondi... GUALTIERO DE MARINIS, CINEFORUM N. 308, 1991 Tornato, dopo il flop senza attenuanti di Oltre ogni rischio, a collaborare con l’amico sceneggiatore Nicholas St. John, il regista sforna la sua opera (finora) più convincente costruendo un personaggio di un gangster ambiguo, un ottimo Christopher Walken, il cui “teschio” di un pallore cadaverico, vampiresco alla Nosferatu, riempie frequentemente lo schermo) che abbracciando con lo sguardo, dall’alto di una terrazza, l’immensità di New York, immersa nelle sue mille luci notturne, sogna di realizzare “qualcosa di buono”, coprendo le proprie malefatte con due tipi di giustificazioni, una alla Robin Hood (Si ruba per ragioni sociali, per fornire aiuti economici ragguardevoli a opere di pubblica utilità), l’altra alla vendicatore solitario, alla Giudice Inappellabile, alla Angelo Sterminatore (si uccidono sempre e solo quanti lo meritano, il che permette di non avere rimorsi. I sentimenti del gangster, d’altronde, sono morti in galera). MARIO MOLINARI, SEGNOCINEMA, N.52, 1991 E poi c’è la forma vicina qui alla perfezione. Attraverso magnifici panorami su un universo di neon e di asfalto lucente, Ferrara ci trascina in una vertiginosa immersione notturna nei bassifondi della grande mea, con un’abilità diabolica, egli esalta una scenografia sordida per trasformarla in un’arena simbolica bagnata di pioggia e di luci bluastre dove primeggia la legge dello sparo, e dove, per la prima volta, i colpi fanno male, molto male, come quella scena quasi da antologia in cui due neri, l’uno poliziotto l’altro bandito, si sparano bruciapelo in mezzo alla strada sotto un diluvio d’acqua e di fuoco. Tutta la 167
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forza del film di Ferrara sta in quest’aspetto convulso, in quest’alternanza di momenti di estrema tensione dove i personaggi ci sono restituiti nella loro criminalità di routine financo quotidiana, universo nel quale i valori sono messi sotto-sopra, dove i poliziotti, superati dagli eventi si trasformano in giustizieri per autodifesa e dove i banditi sono assimilati a dei semplici businessmen; rari momenti di calma ai quelli seguono brusche accelerazioni alternate da sparatorie che sembrano arabeschi caotici e mortali. L’abbiamo capito, con King of New York, Ferrara ci offre un classico del film noir contemporaneo e, se la parola non fosse abusata, un vero capolavoro del genere. PHILIPPE ROSS, LA REVUE DU CINÉMA, N.462, 1990 Valutazione Pastorale: film modesto, truce e fracassone, italiano per origine e regìa (Abel Ferrara), con l’apporto di alcuni attori anche d’Oltre Oceano. Non solo truce, ma anche sconnesso, vano sarebbe trovarvi una sola situazione in positivo. Nel mucchio degli sparatori e dei cadaveri, vi sono in uguale misura banditi e poliziotti, dato che al solito le pallottole non risparmiano nessuno. Tra i malvagi di turno primeggia Christopher Walken, molto noto per il suo sguardo gelido e la cinica calma con cui maneggia la rivoltella. L’atteggiarsi a benefattore costruendo ospedali con i proventi del narcotraffico non lo salva da un giudizio negativo COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
King of New York – Videoclip Schoolly D è uno degli artisti più rappresentativi e influenti della musica rap degli anni Ottanta. Considerato uno dei pionieri del gangsta rap, egli ha introdotto, per primo, nei suoi pezzi liriche crude e violente e rime senza compromessi utilizzando il linguaggio della strada per raccontare la sua città natale Philadelphia e l’impatto delle droghe e delle gangs nell’esperienza di un giovane afro-americano che vive in una delle tante inner cities statunitensi. I suoi testi riflettono realismo urbano, violenza, e sono ricchi di contenuti sessualmente espliciti, fattori che hanno complicato di molto i suoi esordi ma che è allo stesso tempo sono stati determinanti per definire il suo “personaggio” e per coinvolgere nella sua musica un pubblico eterogeneo che va da intellettuali e artisti fino ai teen-agers borderline delle grandi metropoli americane. 168
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“Royal Rhyme, benché fosse più giovane di me, era considerato il miglior MC della crew, mi prese da parte e mi consigliò di esercitarmi quotidianamente e, soprattutto, trovarmi uno stile personale poiché sapevo raccontare storie, esser divertente e, allo stesso tempo, politico. Tutto ciò avvenne nel 1982. Poco dopo scrissi la mia prima canzone, Gangster Boogie. Tutti gli amici che l’ascoltavano mi criticavano per la lunghezza del pezzo e mi dicevano che nessuna etichetta avrebbe mai pubblicato un disco con un testo simile. Così decisi di operare da indipendente e creare la mia etichetta, dando vita alla Schoolly-D Records. Avendo un passato da DJ conoscevo la maggior parte dei negozi di dischi della città, che furono i primi a comprare e vendere i miei dischi. All’epoca era abitudine delle band in tour acquistare e rivendere dischi nei negozi delle diverse città dove transitavano, così i miei dischi iniziarono a diffondersi anche in altre città. Grazie a quei canali alternativi, la mia carriera esplose. Tutti volevano ascoltare Schoolly D”.52
Canzoni come “Gucci Time”, “Saturday Night” e “PSK. What does it Mean?” sono diventate dei classici, sinonimo del rap hardcore duro e spigoloso degli anni Ottanta. Il suo album, “Funk ‘N Pussy”, che contiene anche un remix del classico di Schoolly D “Mr. Big Dick” ha come “ospiti” nomi del calibro di Chuck D dei Public Enemy, Chuck Chillout, Lady B. Il suo stile unico e riconoscibile supera i confini del genere, tanto da venir campionato da alcuni tra gli artisti più prolifici della scena hip hop contemporanea, come Lil ‘Wayne, The Chemical Brothers e The Roots. Proprie le peculiarità del “personaggio” Schoolly D, ma anche le sue origini e i suoi esordi (similarmente comuni, per difficoltà, a quelli del regista) hanno affascinato Abel Ferrara, con il quale il rapper ha collaborato alle colonne sonore di King of New York, Bad Lieutenant, The Blackout e R’-Xmas. Nel giugno 2010 Schoolly D ha pubblicato “International Supersport”, suo decimo album. Schoolly D, pseudonimo di Jesse B. Weaver Jr. (Filadelfia, 22 giugno 1966), e il suo DJ, Code Money, hanno iniziato la loro carriera componendo basi elettroniche hardcore, prima di abbracciare uno stile afrocentrico, lavorando assieme a KRS-One. Nella sua carriera Schoolly D ha anche prodotto musica e occasionalmente doppiato personaggi per il cartone animato Aqua Teen Hunger Force trasmesso dal canale Adult Swim. Alla fine degli anni ottanta, colpito dei testi del52
In Alias – Il Manifesto, 31 Gennaio 2010
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l’artista di Phildelphia e interessato ad inserire un paio di brani di Schoolly D nella colonna sonora di King of New York, prima della fine del film, Abel Ferrara non riesce a contattare il rapper: “E ‘diventato una barzelletta. nessuno sapeva dove era, nessuno sembrava averlo visto ... non ho potuto ottenere il suo numero di telefono. Poi riesco a mettermi in contatto, e dopo due giorni si presenta da me con il suo avvocato e l’intero catalogo”.53 Schoolly D conferma le parole del regista e spiega: “Ero ancora come sulla cresta dell’ onda; ero giovane, avevo automobili, l’oro, la droga, le donne; non mi fregava un cazzo di restituire favori o di rispondere a quel maledetto telefono. Ma lui insisteva, chiamava...chiamava, e così alla fine ho detto “vaffanculo” e sono andato da lui con tutta la casa discografica”54 Dopo le prime incomprensioni, nasce una profonda amicizia e Schoolly D riesce finalmente a vedere King of New York e scrive una canzone dallo stesso titolo55, di cui Abel Ferrara dirige il videoclip nel 1990. Il video inizia con Larry Fishburne seminascosto dietro il ciak che riporta la data del 14 settembre 1990 e su cui si intravedono le ultime due lettere del cognome di Ferrara. Il videoclip della durata di 3min., prodotto da Randall Sabusawa è costituito da una serie di inserti (la maggior parte a colori) del film originale intercalati a riprese in bianco e nero di Scoolly D, Larry Fishburne, Theresa Randle, e il DJ Code Money (il quale canta il ritornello e fa lo scratch con il singolo di Schoolly D “Saturday Night”). In montaggio parallelo sono inserite le immagini di alcuni ballerini: scene sia a colori, che riprendono i cromatismi del film (la fotografia del videoclip è di Ken Kelsh), sia in bianco e nero, sia riportanti solo le ombre dei ballerini. È interessante notare come il montaggio operi alcune scelte che riproducono stilemi dell’opera di Ferrara come l’associazione tra l’esecuzione nella cabina telefonica di Rafael Mata e le riprese di un ballerino che si muove allo stesso modo simulando di essere colpito da una raffica di pallottole; o come la sensualità del film, rappresentata dalla giarrettiera che si allaccia Theresa Randle venga riprodotta dai movimenti sensuali delle ballerine in 53
In Brad Stevens op. cit. pag 323 In PhilllyHipHop.com, 1999 55 Schoolly D realizzerà una versione rivisitata del brano intitolata King of New York II per la colonna sonora di The Blackout. 54
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tubino blu elettrico; o ancora, come alcuni momenti cruciali e sospesi del brano siano sottolineati da immagini particolarmente significative del film come la pistola che cade sulle ginocchia di Frank White nel finale o l’arresto di Blood fuori dal fast food.
FBI: the untold storier (1991) Nel giugno 1991, Abel Ferrara dirige parzialmente l’episodio breve (durata 25min.) della serie FBI: The untold stories, intitolato: The judge Wood case. Questa serie viene trasmessa dalla ABC dal settembre 1991 al giugno 1993 ed è prodotta dalla Arthur Company di Donna Carter e Joe Morheim. La serie non è ideata da Craig Kellem, ma nasce dall’ idea di un gruppo di autori televisivi. Viene stilata, al momento della realizzazione, una lista con i registi di maggior interesse da coinvolgere nel progetto, e Abel Ferrara è uno della lista. FBI: The untold stories racconta in forma semi-documentaristica fatti reali provenienti dall’archivio dell’ FBI. Nell’episodio co-diretto da Abel Ferrara, la storia è quella di John Wood, un giudice ucciso nella città di San Antonio in Texas nel 1979. L’episodio è incentrato sulla morte di questo giudice federale, un caso già trattato nel libro “Dirty Dealing” e di cui, pochi mesi prima dell’inizio delle riprese, il canale Bravo Channel realizza un breve documentario sulla vicenda. Nel caso in questione sono coinvolti i fratelli Chagra, Jimmy Chagra e Joe Chagra, spacciatori di droga di El Paso, Texas. I due fratelli sono spaventati dal giudizio imminente che sta per essere emesso su un certo Jimmy un loro uomo che sta per essere condannato da questo giudice, soprannominato “Maximum John Wood”, e assumono come killer un hooker che fino a quel momento è incensurato: si tratta di Chalie Harrelson, che è il padre dell’attore Woody Harrelson. Charlie Harrelson detiene il poco onorevole primato di essere stato il primo uomo ad uccidere un giudice federale, e quando è stato fermato aveva con sé sei once di coca: si racconta che prima di essere arrestato si è tenuto in ostaggio da solo dopo aver sparato accidentalmente ad un pneumatico della sua auto mentre era in preda ad uno stato di paranoia da cocaina. L’episodio, che mescola elementi bizzarri, ricerca della 171
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verità e realismo semi-documentario, è perfettamente nelle corde del regista di New York, il quale viene coinvolto così nella realizzazione come racconta lo stesso produttore Craig Kellem: “Ho pensato che era un’idea del tutto bizzarra, visto che non riuscivo a immaginare che lui potesse essere interessato a fare qualcosa di simile. Abbiamo avuto un incontro e, con nostra grande sorpresa, siamo riusciti a convincerlo. È stato divertente, perché quando stai facendo una serie su l’FBI, è necessario evitare di fare qualcosa che sia semplicemente uno spot per l’FBI stesso, ma allo stesso tempo, per avere a che fare con gli uomini del Bearou bisogna anche trattarli con una certa deferenza, altrimenti non si ottiene la loro collaborazione. Fondamentalmente Abel è un dolce, innocente ragazzo, non un cinico regista di Hollywood, ma conosce poco della realtà di trattare con limitazioni creative e finanziarie delle reti Tv. Egli aveva una visione ambiziosa per dirigere l’episodio e ha portato grande entusiasmo. Purtroppo voleva fare un lavoro “duro”, grintoso e senza compromessi. E per un po’ ha funzionato, ma il suo approccio era sbagliato e il lavoro non veniva mai come lui lo immaginava. Ad un certo punto, la verità è venuta a galla, e Abel ha lasciato la regia e io ho contattato un regista di nome Chuck Braverman per completarlo”.56
La sceneggiatura dell’episodio è firmata da Donna Canter e Zoë Lund (non accreditata), la quale è autrice dello script anche del pilot della serie intitolato Crackdown. Chuck Braverman ha girato la maggior parte delle ricostruzioni, e la parte ambientata a Washington DC (realizzata con una piccola troupe per girare alcune interviste). Le altre interviste invece sono state girate da Abel Ferrara. Coincidenza strana, anni prima, Ferrara nel suo TV movie The Galdiator ha avuto come attore Bart Braverman fratello del regista che l’ha sostituito alla regia di questo episodio. Non è difficile capire perché un artista come Abel Ferrara così dedito alla scoperta della verità nella realtà sia stato attratto dalla forma documentaria proposta in una nuova forma sperimentale (sorta di progenitore dell’attuale Real CSI). Nonostante la partecipazione parziale, all’interno dell’episodio sono ben presenti le ossessioni del regista sviluppate nella fusione di realtà e finzione, tema, questo, destinato ad essere elaborato e perfezionato (oltre che a divenire centrale) nei film degli anni’90. L’interporre interviste reali con scene ricostruite 56
Brad Stevens, op. cit., pag. 150
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in cui sono ritratte le persone intervistate è finalizzata ad annullare quelle divisioni che solitamente esistono tra fiction e documentario come nel caso in cui Teresa Starr (nella parte di se stessa stessa) e Barry Cullison (nella parte Charlie Harrelson) rivivono sullo schermo la vera relazione sentimentale tra la Starr e l’Harrelson realmente esistiti. Nonostante le buone intenzioni l’esperimento rimane incompiuto. Ferrara, che nella parte di Charlie Harrelson avrebbe voluto David Caruso, non è soddisfatto del risultato che sta ottenendo e non lo firma con il suo nome e come lui fanno i suoi amicicollaboratori: Ken Kelsch alla fotografia e Randall Sabusawa alla produzione che non sono accreditati, il primo sostituito nei credits da Donald McCuaig, mentre il nome del secondo non compare vicino a quello di Mary Kane. Prima della fine delle riprese Ferrara e i suoi amici abbandonano il set per ritrovarsi pochi mesi dopo per la lavorazione di Bad Lieutenant.
Bad Lieutenant (1992) Il tenente Lt (Harvey Keitel) accompagna i due figli a scuola, li insulta e dopo averli salutati, appena solo sniffa cocaina. Si reca sulla scena di un crimine, dove ci sono due ragazze morte in macchina. Egli però è più interessato a raccogliere le scommesse dei colleghi sulla partita di baseball dei L.A. Dodgers, su cui ha appena puntato quindicimila dollari. Incontra uno spacciatore, salgono su per le scale di un palazzo fatiscente e qui il tenente vende al pusher un sacchetto di droga. Prima di andarsene fuma del crack. Due prostitute recitano un bondage lesbico. Il tenente si ubriaca, balla con loro e poi nudo e piangente mima una crocifissione. In un negozio cinese ferma due ladri, non li arresta, ma anzi si fa consegnare il bottino. Si reca a casa di un’amica drogata (Zoë Lund) dove si buca con lei e fuma ancora del crack. Dorme a casa sul divano, si sveglia, insulta la suocera, cambia il canale della televisione mentre la figlia sta guardando i cartoni animati, e guarda la partita dove i Dodgers stanno ancora perdendo. Si reca sulla scena di un altro delitto e cerca di intascarsi la droga che c’è nella macchina, che però gli cade in maniera ridicola sotto gli occhi dei colleghi. Questi gli parlano dello stupro di una suora ad Haarlem e della taglia sui colpevoli messa dalla mafia. Il tenente va all’ospedale, spia la suora nuda e viene a sapere che è stata stuprata con un crocifisso. Il tenente ferma due ragaz173
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ze per un fanale rotto. È notte e piove. Le costringe una a mostrare il sedere, l’altra a mimare una fellatio, mentre lui si masturba davanti a loro. Va nella Chiesa dove hanno violentato la suora, si sdraia e abbraccia una Madonna caduta. Più tardi ascolta il perdono che la suora concede ai colpevoli senza denunciarli. Sale in auto, sniffa cocaina e quando sente che i Dodgers hanno di nuovo perso spara sulla radio. Alla prima comunione della figlia, impreca in Chiesa mentre un bookmaker gli ricorda i suoi debiti. A casa sniffa cocaina sulle foto della comunione. Va in discoteca, si droga e scommette altri soldi sui Dodgers. Va da un suo amico spacciatore a ritirare una scatola piena di soldi ($ 30.000). Quando esce fuma crack per le scale. In auto assiste nervoso all’ennesima sconfitta dei Dodgers. Va dalla suora per convincerla a denunciare i suoi stupratori, ma questa gli consiglia di parlare solo con Cristo. Solo, in Chiesa, bestemmia piangente e digrignando i denti rabbioso si rivolge ad un Cristo dolce e silenzioso; gli si avvicina a quattro zampe chiedendo perdono per i suoi peccati e gli bacia i piedi invocando il suo aiuto. Alza lo sguardo e vede una donna nera che è venuta a riportare il calice rubato dai violentatori che lei conosce. Il tenente raggiunge i due ragazzi Paolo e Julio, li ammanetta, fuma crack con loro e li accompagna in macchina al terminal dei bus, dove piangendo li libera e consegna loro la scatola con i trentamila dollari. Li invita a salire sull’autobus e a lasciare la città. Sale in macchina e poco dopo gli si avvicina un’auto. Gli sparano nell’indifferenza più totale, poi qualcuno si accorge di lui.
Il cinema del regista newyorkese che si affaccia sugli anni ‘90 è, se possibile, ancor più viscerale e pregnante rispetto a quello espresso nei decenni precedenti. Forte sia dell’apprendistato tecnico sviluppato attraverso la regia televisiva, sia delle complessità economiche che stanno alla base della produzione dei film, ampiamente sperimentato sulla sua pelle, Abel Ferrara, negli anni’90 esprime un cinema complesso e personalissimo (ancor più di quello precedente) e affida la sua ispirazione a maestri del rigore e dell’indipendenza come Robert Bresson, John Cassavetes, Pier Paolo Pasolini e Luis Buñuel. Un cinema che diventa presto un’esperienza totalizzante, quindi, al limite della dipendenza, che fa della radicalità e dell’essenzialità le caratteristiche più evidenti a uno sguardo superficiale. Se si vuole superare la soglia però, si scopre un cinema irregolare, discontinuo e imperfetto. Queste caratteristiche che generalmente hanno connotazione negativa applicate al regista newyorkese assumono invece una valenza positiva. Questo perché il suo cinema si nutre di vita, anzi è vita, cioè realtà: e la realtà non 174
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è sempre lineare e pulita, ma è anche sporca, disordinata, confusa. Per Ferrara non esiste il confine tra finzione e vita vissuta, e basta sentire alcune sue dichiarazioni per rendersene conto:“Sul set davanti alla macchina da presa non sarebbe più vita reale? Cos’è, si passa in un’altra dimensione quando si gira un film?”57 E ancora:“Ogni film è potenzialmente uno snuff, nel senso che il pericolo è sempre presente sul set, durante le riprese.”58 Dunque ogni film diventa potenzialmente una “guerra” da combattere in prima persona contro un nemico invisibile nascosto nella propria anima. Già perché il cinema di Ferrara si nutre di dubbi e paure, interroga e destabilizza continuamente lo spettatore, distrugge gli schemi, penetra i corpi degli attori fino a sviscerarne l’essenza. Cinema che parte dal cervello per raggiungere lo spirito. Ed è uno spirito inquieto, combattuto, alla continua ricerca di se stesso; da un lato schiacciato dalla tentazione del Male ma dall’altro risollevato dalla presenza di Dio. È un cinema “doppio” che fa del “libero arbitrio” cattolico la sua linfa vitale. Bad Lieutenant (Il cattivo tenente, 1992) è un film ibrido, che nasce da una canzone, si sviluppa tra reminiscenze cinematografiche alte e basse, e si conclude con una messa in discussione psicologica e spirituale del vivere umano contemporaneo. La canzone omonima viene scritta dallo stesso Ferrara, quando sulla prima pagina del Daily News, appare la notizia dello stupro di una monaca a Spanish Haarlem: “Non si è svolto in una Chiesa e i violentatori non sapevano nemmeno loro che essi avevano violentato una monaca. Ma era così orribile, così orribile che è difficile anche pensarci”.59 Il caso diviene celebre perché le indagini vengono affidate a Bo Dietl, il poliziotto più decorato di New York, che appare anche nel film di Ferrara nel ruolo di un detective. Bo Dietl, pubblica la sua autobiografia nel 1998: “One Tought Cop”, che avrebbe dovuto essere portata sullo schermo dallo steso Ferrara con Mark Whalberg come protagonista.60 Se il referente occasionale di Bad Lieutenant resta Bo Dietl, il suo modello è invece incarnato dalla figura di Paolo di Tarso, abbattuto e vinto dalla grazia Divina sulla via di Damasco. 57 “Cahiers du cinema”, n. 473, 1993 in Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, Il Castoro, Milano, 1998, p.11 58 Ibidem, p.12 59 Nicole Brenez, Bad Lieutenant (DVD + libro), Wild Side Video, Parigi, 2004, p.8, traduzione nostra 60 Il film venne girato da Bruno Barreto nel 1998 con il titolo One Tought Cop (Poliziotto speciale)
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L’intreccio è quindi da ricondursi sia ad elementi polizieschi sia ad una forte componente evangelica. Al film non partecipa Nicholas St. John, il quale da cattolico integralista quale è, non può accettare che la figura di Cristo venga rappresentata fisicamente nella pellicola e che reputa le domande sulla Grazia e sul Perdono poste nel film, troppo grandi per trovare risposte. L’assenza di Nicholas St. John nel ruolo di sceneggiatore è dettata da motivi molto profondi come spiega egli stesso nel corso di una conferenza stampa al Festival di Cannes del 1992: “Credo che Harvey e Abel si pongano domande molto molto difficili. Il mio problema non è la domanda, ma la risposta. E io non sono pronto per dare questo tipo di risposta, e se non ci credo in un progetto al cento per cento, non posso parteciparvi. Qui la risposta corrisponde ad un Verità, ma quale è la verità?, quella che do secondo la mia interpretazione? Per Abel e Harvey la risposta è chiara , ma per me no. Ed è per questo che ho deciso di non lavorare in Bad Lieutenant, fondamentalmente per motivi religiosi e cristologici”.61
Accantonata momentaneamente la collaborazione con Nicodemo Oliverio, Abel Ferrara racconta l’episodio a Zoë Lund, che subito si dimostra molto interessata e la cui presenza nel ruolo doppio di sceneggiatrice e attrice, influenza pesantemente lo script finale (anche a causa dello stupro da lei subito in gioventù). Ferrara per le luci richiama Ken Kelsch, con cui non lavorava dai tempi di The Driller Killer, e che da ora in poi sarà collaboratore fisso per quasi tutti i film a venire. Kelsch predispone una luce gassosa e sporca, che modula l’impatto delle immagini e che permea tutto il film di un aurea spirituale. Joe Delia compone le musiche ma i brani fondamentali che caratterizzano la pellicola sono due, e non sono suoi: “Pledging di My Love” di Johnny Ace e “Signifying rapper” di Schoolly D.. Scelte , come sempre, non casuali, visto che la canzone di Johnny Ace è già presente nella soundrack di Mean Streats (Mean Streats - Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, 1972) di Martin Scorsese e che Ace, poco dopo la registrazione di “Pledging My Love” nel 1954, si suicida giocando alla roulette russa; mentre il gangsta-rap duro e violento di Schooly D., rimanda ad un concetto di guerriglia che passa dalle parole per giungere nelle strade, e in 61 In
Gene Gregorits, Abel Ferrara: The sex & guts interview, 2003
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cui il turpiloquio si fa cifra stilistica e distintiva. La dolce melodia anni ’50 di Ace sottolinea, contrastandoli, i momenti di degrado del tenente e la sua morte, mentre il rap violento e volgare di Schoolly D. dà l’avvio alla sequenza dello stupro. Anche attraverso la colonna sonora dunque, il reale penetra nella finzione, secondo le prerogative postulate dal N.A.C. (New American Cinema) alla fine degli anni’50, di cui il cinema degli anni ‘90 di Ferrara è profondamente debitore. Il film di Abel Ferrara è profondamente “scandaloso”, perché mette in scena l’autodistruzione per raggiungere la Grazia e trasforma il “cattivo” poliziotto nell’imitazione di Cristo. Il produttore di un’opera così estrema è l’indipendente Edward R. Pressman che con Mary Kane stanzia la cifra di ottocentomila dollari. Ma tutto parte da un primo incontro tra produttore e regista, e da un primo assegno. “Ho conosciuto Abel grazie ad uno scrittore. Sin da subito, con lui, abbiamo parlato della possibilità di fare un film. Si trattava di New Rose Hotel, tratto da un racconto William Gibson. Chiesi ad Abel quanto era veramente interessato a questo film, e lui improvvisamente cominciò a parlarmi di un altro progetto che gli stava molto più a cuore. Allora gli dissi, ok, fammi vedere il soggetto e lui mi diede la sceneggiatura di Bad Lieutenant. La lessi e non ruiscii a togliermela dalla mente. Allora gli dissi: “perché non lo facciamo questo film?”. Harvey Keitel insisteva per farlo e arrivò persino a minacciarmi dicendomi che se non lo avessi prodotto avrebbe perso i miei figli in ostaggio. Pazzesco. All’epoca la mia società aveva dei fondi, circa $40.000, provenienti da un contratto giapponese, così non dovetti cercarli altrove. Abel era perfettamente a suo agio, raccolse una piccola troupe di amici e cominciò a girare nel cuore di Manhattan. Ha girato interamente delle scene in mezzo alla gente nascondendo la cinepresa, senza dover pagare delle comparse e delle autorizzazioni. Il suo modo è veramente unico. La comunità del film supera i limiti del set. La festa si prolunga fino a tarda notte anche se si ricomincia a lavorare di buon mattino. Egli si spinge fino all’esaurimento. Alla fine il film è costato in tutto $ 800.000. La macchina da presa, spesso, era nascosta dentro una macchina o un furgone, in modo da poter filmare ciò che accadeva fuori senza che nessuno se ne accorgesse. Il suo metodo è unico ed egli crea attorno a se un ambiente sociale a sua immagine: la follia dei suoi comportamenti non ha un reale effetto sulla realizzazione del film, dove mantiene un controllo incredibile dimostrando sia di essere un uomo intelligente che un vero maestro. Con lui c’è Harvey, affascinante e partecipe. Molte cose del film provengono da suoi suggerimenti, mentre altre erano troppo eccessive per poter essere prese in considerazione. Keitel era totalmente calato nel suo personaggio già molto prima dell’inizio 177
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delle riprese, senza neanche sapere se il film si sarebbe fatto o no, ed era perfettamente in sintonia con Ferrara che quasi non ha dovuto dirigerlo sul set. Bad Lieutenant è stato scritto con Zoë Lund, la quale già era una tossicomane e che ha profondamente influenzato il film. Esisteva, una prima stesura scritta da Abel e Nicholas St. John, ma non venne mai presa in considerazione. Il film venne distribuito da un a piccola società chiamata Aris Film e nonostante il divieto andò benissimo quasi ovunque, accolto molto bene sua dalla critica che dal pubblico”.62
Bad Lieutenant può apparire come un’orgia di realtà negative, con la sua descrizione della città come inferno e del corpo come catalizzatore del Male, ma tra le sue pieghe è forte e tangibile il bisogno spirituale di un riscatto e la necessità di urlare il dolore e la sofferenza che affliggono la metropoli. Il film racconta appunto il vuoto e la solitudine dell’uomo contemporaneo che vive dentro città sempre più grandi e impersonali, dove l’unica fuga è rappresentata dalla dipendenza e dalla ricerca di un Male che affascina, inseguito con lucidità e consapevolezza. La New York descritta nel film non ha nulla di affascinante ma sembra lo scenario di un film horror, dove il Male si materializza nelle forme più strane: nelle due prostitute intente nel rapporto bondage, non più persone, ma recita di se stesse; nei dialoghi impregnati di violenza razzismo e sparati a raffica come mitragliate; nella religione ridotta a feticcio scenografico, come la catena del rosario appesa al retrovisore della macchina di Lt o come l’immagine di Cristo impressa sul copri divano a casa del pusher. Il sesso è ormai ridotto a simulazione, non c’è neanche più la forza e la volontà di praticarlo: il tenente si masturba guardando la ragazza che mima una fellatio. In questa New York il caos è padrone: i rumori del traffico, i suoni incessanti dei clacson, le radio e le televisioni perennemente accese, in certi casi rendono incomprensibili i dialoghi dandoci l’impressione di una rappresentazione astratta e straniante dell’inferno. New York è come posseduta dal Male. È una città che non sembra più appartenere agli uomini, ma è preda costante del contagio di odio e violenza a cui le persone non vogliono più opporsi. Un elemento che attraversa costantemente tutto il film infatti è la serie di partite dei play-off del finale del campionato di baseball tra New York Mets e Los Angeles Dodgers. La serie è di sette partite e quando il film inizia (i titoli di testa scorrono proprio sulla radiocronaca di una partita) i Dodgers conducono 3-0 sui Mets. Il 62 Bad
Lieutenant, Wild side video, Paris, 2004, traduzione nostra
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tenente continua a scommettere su Los Angeles (ma ai suoi colleghi dice che scommette sui Mets), ma questi continuano a perdere facendosi rimontare fino a un incredibile 4-3 per New York. Il baseball è lo sport americano per antonomasia, quello che Walt Whitman definì il “nostro sport”. Non per niente è il Presidente degli Stati Uniti in persona a lanciare la prima palla all’inizio della stagione.63 Il tenente e i suoi colleghi però, sono interessati al baseball solo perché ci scommettono sopra, non hanno nessun interesse particolare, non sono tifosi ma si ritrovano a parteggiare per l’una o per l’altra squadra a seconda di dove hanno puntato i soldi. Anche lo sport nazionale quindi non ha più niente di epico. Niente eroi per questa America sprofondata nel vizio e nella corruzione, neanche quelli sportivi, infatti il campione Strawberry si fa eliminare nella partita decisiva condannando i Dodgers alla sconfitta e il tenente ad ingigantire il suo debito con la mafia alla cifra di $ 120.000. New York è come un crogiolo infernale dove il Male penetra e si diffonde, si allunga lungo i marciapiedi bagnati, si arrampica su per scale fatiscenti, fino a penetrare in chiesa, ma qui trova un ostacolo insormontabile: l’Amore di Dio incarnato dal corpo di una suora violentata. New York come Sodoma, una nuova capitale del vizio dove tutto può succedere e tutto succede: “It hall happens here” recita la scritta sulla pubblicità affissa sulla facciata del Madison Square Garden, posta sopra l’auto del tenente morto nel finale del finale. Così nella New York di Bad Lieutenant, le stanze, gli edifici e le auto diventano vere e proprie prigioni: i personaggi sono come ingabbiati nel posto che occupano, non hanno possibilità di muoversi indipendentemente e la composizione geometrica degli spazi, oltre la riduzione estrema dei dettagli, pone le figure umane come immerse nel vuoto. Non è casuale che tutti gli omicidi (quello delle ragazzine a inizio film, quello del pusher e quello dello stesso Lt) avvengano nello stretto dell’abitacolo di una macchina: la vettura, luogo in cui l’uomo moderno trascorre gran parte della sua giornata spesso inutilmente, perché immobile e intrappolato nel traffico, diventa simbolo di una società materialista e meccanizzata in cui non c’è più posto per la spiritualità e la preghiera. Una città così astratta e infernale, evidentemente, può anche non essere reale, ma può essere considerata come partorita dalla mente del tenente che mano a mano 63 Gaime Alonge, Abel Ferrara, in Leonardo Gandini e Roy Menarini (a cura di), Hollywood 2000, Panorama del cinema contemporaneo: autori, Le Mani, Recco (GE), 2001, p.145
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che sprofonda nel suo degrado, modella gli spazi intorno a sé per trovarsi a proprio agio. Il racconto di New York, così come quello del corpo e della spiritualità ad esso opposta/annessa passa attraverso modelli cinematografici ben precisi che Abel Ferrara riesce a suddividere e a catalizzare a seconda dell’argomento trattato, creando una sorta di soluzione di continuità tra passato e presente, tra rigore e improvvisazione, tra modelli “alti” e “bassi”: tutte peculiarità strette attorno ad un “poliziesco sui generis” che si serve del racconto investigativo non solo come pretesto narrativo ma anche come modello archetipo di una società corrotta in cui il confine tra lecito e illecito è lo stesso che divide il peccato dalla redenzione. Lt, dunque è un poliziotto, immerso, o meglio, un uomo che resta immerso nel peccato, se ne ritrova asfissiato, intossicato e non può che assorbirne ancora, sempre e di più, come se volesse integrarlo nella sua carne. L’elemento cardine del film quindi, non è quello di risolvere il caso criminale, ma lo stupro osceno, violento e blasfemo della religiosa serve da elemento scatenante per lasciare attraversare dalla Grazia il tenente, all’apice di una follia sublime che equivale a un suicidio. Questi non ha nome, è semplicemente “il tenente” (Lt), ma ha un grado, cioè un ruolo sociale. Lt invece vive la passione (quella delle scommesse), l’ubriachezza (droghe e alcool), l’orgasmo (masturbazione), ma il tutto è letteralmente consumato in solitudine attraverso pratiche auto distruttive e voyeuristiche. Nel 1974 il regista indipendente Lee Frost (autore di alcuni roughies negli anni ’60), produce e dirige un film intitolato: A climax of a blue power, firmandolo con lo pseudonimo di F.C. Perl.64 Il film è poco più di un hardcore e non ha particolari meriti cinematografici, ma può essere considerato come il progenitore grezzo e spurio di Bad Lieutenant. Come sappiamo Ferrara era un assiduo frequentatore dei double-bill della 42a strada e quindi non è da escludere che abbia visto questo film. La storia vede il protagonista Harry interpretato da Jason Carns, impegnato in un percorso, di violenza e sopraffazione nei confronti delle donne, che lo condurrà fino alla morte. Egli di giorno è una guardia di sicurezza, ma di notte si traveste da tenente della polizia di Los Angeles e va in giro a violentare ed a umiliare giovani donne, abusando del suo potere fittizio (di impatto la prima sequenza, dove dopo aver stuprato una donna la costringe 64 Il film è inedito in Italia, ma è uscito in America in DVD per l’etichetta Alpha Blue Archives.
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ad uscire sotto la pioggia e a masturbarsi davanti a lui rotolandosi nel fango, sotto la minaccia della sua pistola, mentre lui si masturba guardando la scena da dietro il parabrezza, chiuso nella sua automobile). Tornato a casa si toglie il travestimento e si ritira nella sua stanza a masturbarsi davanti alle immagini in super-8 di violenti loops pornografici. Dopo l’ennesimo tentativo di violenza troverà la morte lungo una strada di campagna dopo essere stato ferito da un proiettile sparato dalla donna che aveva sequestrato in casa. Come Lt è ossessionato dallo stupro della suora, Harry è ossessionato dal delitto compiuto da una donna, e il ricorso costante alla masturbazione davanti a realtà pornografiche non può che rimandare alla scena onanistica che vede Lt minacciare le due ragazze in macchina. La parabola autodistruttiva del protagonista di A climax of a blue power sembra anticipare di vent’anni, anche nell’uso e abuso di droga per sé e le sue vittime, quella di Bad Lieutenant. Certo il film di Frost è costruito per soddisfare i pruriti sessuali dei frequentatori delle sale a tripla X, ma pone prima di Bad Lieutenant, e anche due anni prima di Taxi driver (id, 1976), il problema della solitudine dell’uomo nella metropoli. Il protagonista di A climax of a blue power infatti, come Lt, passa gran parte della sua vita chiuso in macchina e anzi la sua vettura “truccata” diventa scenografia delle sue violente fantasie sessuali; non ha amici, non parla con nessuno e gli unici rapporti umani sono quelli di violenza che ha con le sue vittime o che vive nelle sue fantasie davanti ai filmini pornografici che vede ogni sera come fosse un’abitudine consolidata, o addirittura la normalità. Anche Harry, nel finale muore all’interno della sua vettura. Ma se A climax of a blue power, nonostante le assonanze, appare più che altro come uno spunto pretestuoso, casuale e frutto di coincidenze, Bad Lieutenant trova nell’opera di registi importanti e seminali come Nicholas Ray e Robert Aldrich il suo germe poliziesco. Il protagonista di On dangerous ground (Neve rossa, 1951) di Nicholas Ray, si chiama Jim Wilson (Robert Ryan) e ha molto in comune con Lt, e la vicenda narrata nel film appare come un possibile spunto di partenza per il film di Abel Ferrara: reminiscenze di gioventù fortemente ancorate ad una idea di cinema intransigente e morale come è quello di Ray. La storia di On dangerous ground ruota attorno all’ allontanamento dalla città del poliziotto Jim Wilson a causa dei suoi modi violenti e illegali con cui conduce le indagini e interroga i sospettati. Trasferito in campagna si trova a dover risolvere un caso di omicidio ma si innamora della sorella cieca dell’assassino. Una delle frasi più 181
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preganti e significative del film è quella rivolta al poliziotto da un suo superiore: “Pensa a fare il poliziotto e non il gangster con il distintivo”, che definisce anche la nevrosi del poliziotto e il suo carattere irrequieto e violento connaturato alle dinamiche del suo mestiere. In Nicholas Ray come in Abel Ferrara, lo sguardo compassionevole e partecipe del regista è sempre dalla parte di coloro che si rovinano a causa dell’impulsività delle loro scelte o che collassano sotto la pressione di un ambiente sociale “nemico” e ostile. Ma On dangerous ground, oltre a quelle caratteriali del personaggio di Wilson, contiene ulteriori assonanze, anche di carattere estetico con Bad Lieutenant, soprattutto nella prima parte ambientata in città: i neon riflessi sulle vetrine di New York, la notte impenetrabile e minacciosa, l’asfalto umido e riflettente e la luce radente che accarezza i profili dei personaggi, per non parlare degli interni sordidi e degradati e di coloro che popolano locali ambigui e maleodoranti al cui bancone si trovano prostitute, spacciatori e criminali di ogni sorta. Proprio in uno di questi locali, in una delle prima scene del film Jim Wilson mette in mostra il suo profondo senso morale allontanando una ragazzina minorenne con il duplice obiettivo di non farla bere e di non permettergli di adescare clienti. Poco dopo è Pop Daly (Charles Kemper), uno dei colleghi di Jim a spiegare il suo comportamento violento rispondendo ad una domanda di un collega: “Vedi a forza di bazzicare solo ladri, assassini, ubriachi, ruffiani, puttane e roba del genere, ti convinci che tutto il mondo sia così. E poi col tempo ti accorgi che non è vero... ma è tardi. È squallido fare il poliziotto”.In quest’ottica l’esilio forzato ha per Jim Wilson ha un valore salvifico e la ragazza cieca serve da catalizzatore di devianze e orrori metropolitani. Maria (nome non casuale) per Jim è l’equivalente della suora per Lt, entrambe agiscono in funzione del perdono e come la suora perdona i suoi stupratori, così Maria replica al poliziotto che gli chiede perché abbia fatto entrare in casa gli uomini che volevano farle del male: “perché hanno bussato alla mia porta”; una protegge i suoi violentatori, l’altra il fratello psicolabile, così come la preghiera “estrema” espressa dalla suora durante la confessione, si allinea a quella di Maria nei confronti del fratello assassino (da notare che in entrambe i casi i due registi optano per un primissimo piano “folgorante”): “Signore, ascolta la mia preghiera: perdonalo così come hai perdonato tutti i tuoi figli che hanno peccato. Non distogliere il tuo sguardo da lui”. Ma Lt è un cinico e a differenza di Jim Wilson, che è un romantico, si avvicina alla Grazia 182
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Divina mugugnante e a denti stretti, mostrandosi sì come un peccatoreredento come uomo, ma senza mai allontanarsi nel suo mestiere di poliziotto da un concetto ambiguo di legalità. In questo è perfettamente accomunabile ai poliziotti del distretto di Los Angeles protagonisti nel significativo The choirboys (I ragazzi del coro, 1977) di Robert Aldrich, in cui il regista compie una vera e propria autopsia dell’istituzione mettendo in scena i lati più oscuri e degenerativi della professione senza lesinare su razzismo, devianze, abusi di potere e uso un discriminato della violenza. Ciò che accomuna Bad Lieutenant e The choirboys è soprattutto la cifra stilistica della rappresentazione del corpo di polizia che, in entrambe i casi, è giocata sul crinale che divide ferocia e parodi, in cui la degenerazione della legalità conduce, inevitabilmente, alla follia come dimostrano il tremendo suicidio della ragazza nera o la rissa con il messicano sul pianerottolo di un palazzo fatiscente come quello in cui Lt incontra il pusher all’inizio del film. Anche l’impianto morale che accomuna i due film è costruito sui parametri assoluti di Bene e Male, come dimostra il dialogo tra Baxter Slate (Perry King) e Spermwhale Whalen (Charles Durning) nell’abitacolo della macchina di ritorno dall’incontro con la prostituta in cui il secondo rimprovera al primo: “L’alcool e la droga non vanno d’accordo e io te li ho visti prendere insieme”, mentre Baxter replica: “Vedi, in quel collegio di gesuiti dove quella brava donna di mia madre mi ha lasciato per gran parte della mia infanzia, mi hanno insegnato questo: esiste il Bene assoluto oppure il Male assoluto, nient’altro”. L’aspetto sessuale declinato sulle dinamiche del sado-masochismo, è altresì fondamentale in The choirboys (nello stesso modo in cui lo è in Bad Lieutenant), perché la sessualità deviata, per Baxter come per Lt, rappresenta una sorta di fuga dalla da una realtà fatta di dolore e sofferenza quotidiani, un orrore insostenibile da scacciare con il dolore/piacere fittizio della performance sessuale S&M; ma mentre Baxter, quando viene sorpreso dai colleghi non regge al peso della vergogna e si suicida, Lt trova nel degrado fisico la forza nervosa e dolorosa per salire il suo calvario fino al raggiungimento sofferto della Grazia. La metropoli, New York o Los Angeles non ha importanza, partorisce dei figli degeneri che nell’esercizio delle funzioni del potere di legalità soccombono miseramente alle debolezze degli abusi (resi possibili anche dal ruolo ricoperto) e trovano nella città il loro “inferno” quotidiano come ben dimostra l’utilizzo della luce rossa in Bad Lieutenant che scandisce i momenti degradanti e involutivi di Lt o l’uti183
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lizzo delle feste al parco in The choirboys che se all’inizio del film sono virate su una goliardia sguaiata e volgare, nel finale non hanno più nulla di festoso ma si colorano dei foschi colori della tragedia e del tradimento. Il poliziotto è nudo pertanto (e Ferrara opportunamente mostra un full-frontal mantegnano di Harvey Keitel in una delle prime scene del film), stretto in una città in cui la violenza dilaga e contagia ogni essere umano come una vera e propria epidemia o malattia. Non è casuale infatti, che Bad Lieutenant sia oltremodo accomunabile con uno dei film più controversi degli anni ‘80, Cruising (id., 1980) di Williamn Friedkin e che la parabola di Lt ricalchi sul versante spirituale quella materiale di Steve Burns (Al Pacino). In Cruising, il poliziotto Steve Burns (Al Pacino) si addentra come infiltrato nella New York omosessuale alla ricerca di un serial killer che uccide e mutila i gay; la sua indagine però lo porterà a mettere in discussione la sua identità sessuale e a confrontarsi con il lato oscuro della sua anima. Anche qui, come in Bad Lieutenant troviamo un’indagine poliziesca a fare da sfondo ad un tema ben più ampio e profondo: la conoscenza di se stessi fino alle estreme conseguenze. Come in Bad Lieutenant anche nel film di Friedkin, è fondamentale il contributo del sonoro: nel film di Ferrara i rumori nascondo i dialoghi, in Cruising il rumore del cuoio e della pelle e il battere dei tacchi e degli stivali delimitano luoghi e spazi e sono rivelatori di una minaccia costante. Steve Burns come Lt è spettatore passivo dei rapporti sessuali: se in Bad Lieutenant erano performance recitate, in Cruising sono gli accoppiamenti e le orge dei locali sado-maso del Greenwich Village a sconvolgere ed affascinare la mente del protagonista, progressivamente compresso in spazi sempre più asfittici: azzeramento dello spazio quindi, cioè il vuoto. Più i registi compiono opera di astrazione isolando i loro personaggi più la città diventa incarnazione di una condizione umana generale: in Bad Lieutenant quella di un mondo che ha perso Dio; in Cruising, dove Dio non esiste, la minaccia è quella dell’AIDS, la malattia che viene dall’uomo per uccidere l’uomo. Così la città descritta, New York in entrambe le pellicole, sembra reale, ma in effetti ha la densità di una proiezione partorita dalla mente dei protagonisti e possiede una particolare atmosfera onirica. È una città espressionistica, notturna e minacciosa illuminata e frammentata dai flussi dei neon e dei fari delle auto, in cui l’individuo è separato dai suoi simili e disperatamente scisso nei confronti di se stesso. Entrambe le discese nell’animo umano sono guidate dalla violenza: quella oscena sulla suora in Bad 184
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Lieutenant; quella, altrettanto oscena, delle pratiche omosessuali estreme come il fist-fucking in Cruising, che. poco per volta. introducono una mutazione sia psicologica che fisica nei due protagonisti. La storia di Steve Burns (che già nel cognome ha le fiamme dell’inferno), è la storia di un uomo che rinuncia alla sua identità per svolgere al meglio la sua professione, un uomo che mantiene tutta la sua ingenuità (la stessa presentata all’interno dell’ufficio del capitano Edelson all’inizio del film), ed è impreparato a confrontarsi con l’universo orgiastico e ancestrale in cui sta per entrare, inconsapevole (o forse no?) di dover (ri)mettere in discussione tutto se stesso. Lentamente Steve Burns viene “infettato” da un Male che non conosce e che non riesce a decifrare (in contrapposizione a Lt che viene invece sfiorato dalla Grazia): la sua è una discesa in un girone infernale in cui scompare ogni certezza e in cui l’ambiguità diventa la chiave di lettura di ogni situazione. William Friedkin, costruisce una pellicola affascinante e oltraggiosa, in cui tutto è filtrato da una lente opaca che modifica la percezione degli eventi e in cui non c’è distinzione tra attività sessuale e violenza (così come in Bad Lieutenant in cui il sesso determina la violenza e viceversa), al punto che il regista non esita ad introdurre immagini hard subliminali che mostrano la penetrazione anale in parallelo alla “penetrazione” del coltello dell’assassino nella carne della vittima. William Friedkin è agnostico, pertanto, il suo film non è intriso di quella componente trascendente cara a registi come Abel Ferrara, ma entrambi perseguono la rappresentazione dell’ “estremo” per spingersi in territori al di là del Bene e del Male, in cui emerge il surrealismo di una rappresentazione provocatoriamente sincretistica in cui tanto la sessualità deviata e onanistica, quanto la nevrosi patologica costituiscono lo svelamento della “Verità” in contrapposizione alle false apparenze dettata dal grado che sia Lt che Steve Burns ricoprono nel loro lavoro. La stessa linea adottata da Luis Buñuel nella costruzione del suo film più profondamente personale e autobiografico: Él (Lui, 1953). Il protagonista Francisco Galvan de Montemayor (Arturo de Cordoba) è un borghese, apparentemente normale, tenuto in grande considerazione dal milieu di cui fa parte e onorato e rispettato dal clero (così lo definisce padre Velasco: “Francisco è un uomo normale sensato, e non è mai cambiato”) e protetto (come Lt) dal ruolo sociale che ricopre; in realtà egli è uno psicolabile affetto da gravi patologie, dedito al feticismo e schiavo di manie di persecuzione e di una gelosia sfrenata nei confronti di Gloria Milalta (Delia Garcés) la 185
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donna che ha sposato. Francisco è protagonista di una parabola degenerativa assimilabile a quella di Lt e la scena in cui disperato, piangente e sofferente, sdraiato sulle scale, si abbandona ad un lungo mugugno accompagnato da gesti sconnessi e ripetitivi non ha nulla da invidiare a quella della disperazione di Lt in chiesa di fronte all’immagine di Cristo. Le continue e grottesche aggressioni fisiche e verbali nei confronti di Gloria, la disperazione che si accompagna ad una progressiva auto-distruzione e il finale allucinatorio in chiesa ripercorrono una scansione degli eventi che è la stessa di Bad Lieutenant. Il finale di entrambe i film presenta due diverse forme di redenzione: mentre quella di Lt è piena perché coincidente con il sacrificio del martirio, quella di Francisco è solo apparentemente raggiunta, come dimostra l’ultima sequenza, ambigua e provocatoria, in cui Francisco chiuso in convento prima afferma: “Quì ho trovato la vera pace dell’anima”, e poi di spalle si allontana lungo un viale del giardino dirigendosi verso un passaggio oscuro e comincia a camminare a zig zag replicando l’atteggiamento e le nevrosi della vita coniugale. Se ci si allontana sia dal genere poliziesco, sia dai modelli cinematografici reali o presunti (va ricordato che Ferrara è spettatore onnivoro e diseguale), che hanno portato alla definizione di Bad Lietenant, per capire la profondità del film di Ferrara è importante prendere in considerazione alcuni aspetti fondamentali e “autoriali”: il corpo, la trascendenza, e l’ambiguità dell’ impianto spirituale. Il primo è indissolubilmente legato, da un lato a quello reale del suo protagonista Harvey Keitel, e dall’altro a quello celebrato in ogni forma da un cineasta irregolare e volutamente indipendente come John Cassavetes. Per capire l’importanza del corpo in questo film di Ferrara sono rivelatrici le parole dello stesso Keitel: “L’attore non deve risparmiarsi, ma bruciare; non deve interpretare, ma incarnarsi. L’attore non conosce limiti e pudori”.65 Harvey Keitel nell’interpretare Lt, non solo dimostra una ineccepibile coerenza con le sue parole ma in fondo altro non fa che replicare una performance di quattordici anni prima, quando, allora trentenne è protagonista di Fingers (Rapsodia per un killer, 1978) di James Toback. L’esordio registico di Toback, non solo presenta una prestazione attoriale di rara efficacia e trasfigurazione, ma può a tutti gli effetti, sia per temi, per sviluppo, e persino per la costruzione di certe scene può essere considerato quasi come la “prova 65 Piera
Detassis, L’importanza di essere Harvey, Ciak n. 4, Aprile 1998, pag.111
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generale” di Bad Lieutenant. A New York, Jimmy Angelelli (Harvey Keitel), aspirante concertista è incaricato dal padre (Michael V. Gazzo), un piccolo bookmaker, di riscuotere i crediti da due scommettitori renitenti ed entra in una spiarle di forsennata violenza. James Toback, in Fingers, ritrae un nevrotico che usa le dita delle mani (da qui il titolo) per suonare come per uccidere: man mano che la violenza si impadronisce di lui, Jimmy perde confidenza con i tasti del pianoforte come dimostra il fallimento dell’audizione alla Carnagie Hall. La nevrosi lo tormenta, non riesce a tenere ferme le mani (come Lt che spesso se le passa nei capelli o si pettina), i tic si moltiplicano e il suo corpo, lentamente, si “trasforma”, si animalizza. In una New York livida e autunnale (la fotografia del film è di Michael Chapman che due anni prima ha illuminato Taxi Driver), Jimmy da sfogo alla sua frustrazione di artista incompiuto e si abbandona, inesorabilmente, alla violenza per compensare il suo fallimento come artista, come testimonia la scena in cui l’ascensore si blocca mentre Jimmy si sta dirigendo all’audizione, e in cui si fa male alle dita a causa di uno scatto d’ira: quelle stesse che da lì a poco lo tradiranno alla tastiera del pianoforte. Jimmy come Lt, intraprende un declino morale e fisico che lentamente lo porta ad annullare se stesso e a diventare spettatore della sua vita e di quella degli altri. La scena del rapporto a tre tra Dreems (Jim Brown), Carol (tisa Farrow) e Christine con il balletto “orgiastico” anticipa quella di Bad Lieutenant tra Lt e le due lesbiche: ma in Fingers, Jimmy è solo spettatore-voyeur prima, e sbigottito poi, a causa dell’imprevisto e violento epilogo del “quadretto”. La regia di James Toback, così come quella di Abel Ferrara, alterna lunghi piani fissi a pianisequenza dalla dinamica complessa, esalta la fisicità (quasi insostenibile) delle scene di violenza come quella del pestaggio finale in cui la m. d. p. rimane impassibile di fronte all’escalation mortale. Sia quella di Toback che quella di Ferrara è una regia asciutta, quasi asettica, volta ad osservare chirurgicamente il crollo nervoso e psicologico del protagonista del film. L’inquadratura finale di Fingers, con Jimmy nudo e “crocifisso” tra il pianoforte e la finestra, quindi diviso tra il sogno di ciò che non diventerà mai e la realtà che l’ha schiacciato, è già anticipazione tanto del nudo full-frontal che del cammino Cristologico di Lt in Bad Lieutenant. Così come Ferrara, anche Toback ricorre all’utilizzo simbolico della colonna sonora. La musica diegetica, con le hit del momento, che proviene dal registratorefeticcio di Jimmy Agelelli acuisce la crudezza e la fisicità degli scontri, così 187
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come in Bad Lieutenant determina il carattere degli eventi e ne sottolinea la brutalità o l’inconsueta (quanto improbabile) dolcezza. Il rapporto compulsivo con il sesso è lo stesso sia per Jimmy che per Lt, e se quest’ultimo si abbandona spesso e volentieri alla masturbazione, Jimmy ha rapporti fugaci e istintivi, brevi e fulminanti (come quello con Julie nel bagno del club), evidenziando, in entrambe i casi, un senso profondo di frustrazione e fallimento. Infine, va sottolineato, che la performance attoriale di Harvey Keitel è pressochè la stessa sia a trent’anni (Fingers) che a quarantaquattro (Bad Lieutenant), al punto che il film di Toback può anche essere letto come uno pseudo-documentario sulla recitazione dell’attore. L’altro aspetto della riflessione sul corpo proviene dalle dinamiche del cinema di John Cassavetes, regista che, non solo per la città d’elezione cinematografica, New York, ma anche per una comune idea di cinema, non può essere separato dalla poetica di Abel Ferrara. Il cinema di John Cassavetes emerge dall’anima più profonda di New York e affonda le sue radici in un modello cinematografico totalmente indipendente, lontano da condizionamenti industriali e da codificazioni espressive. La macchina da presa è immersa nella realtà, come dimostra il capostipite di questo modo di realizzare film nato sul finire degli anni ‘40. The Quiet one (id., 1948) di Sidney Meyers è un lungometraggio in 16mm. che racconta “dal vivo” la segregazione razziale nel ghetto di Harlem. Meyers assieme ad un pugno di altri cineasti dà origine ad un modo di fare cinema che prevede prerogative care tanto a Cassavetes quanto a Ferrara: idee “rubate” dalla realtà, improvvisazione e repentini cambiamenti della sceneggiatura (quasi inesistente), budget ridottissimi, troupe fatte di “amici” intente in un lavoro collettivo, e totale noncuranza per l’aspetto estetico (ma non per quello tecnico). Nel 1953, The little fugitive (id., 1953) di Morris Engel, racconta una vicenda di autentica inquietudine attraverso il pedinamento (zavattiniano) del piccolo protagonista e il racconto trasmesso attraverso il suo stesso occhio. Sei anni dopo, nuovamente Meyers realizza con Ben Maddow e Joseph Strick, il seminale The Savage eye (id., 1959), archetipo del cinema diretto, che traduce un’ipotetica giornata di vita di una divorziante attraverso il racconto di una quotidianità sociale mostruosa (la stessa delle immagini di Diane Arbus), che si conclude con il suicidio della donna. Sono esempi irripetibili, che stanno alla base del movimento che nasce stretto attorno all’intellettuale, di origini lituane, Jonas Mekas e che si consolida nel 1960 con il nome di N. A.C. 188
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John Cassavetes che tra il 1957 e il 1959 realizza la prima versione di Shadows (Ombre, 1961) prima di quella definitiva del 1961, non aderisce al movimento, non sottoscrive il manifesto di Mekas e si mantiene a tutti gli effetti lontano da ogni possibile incasellamento (tenendo lo stesso comportamento che a distanza di anni verrà mantenuto da Ferrara nei confronti della grande produzione). Sia per Ferrara che per Cassavetes, ciò che conta all’interno della macchina cinema è la tendenza a individuare una pulsione interna delle cose e degli esseri, cioè a mettere in scena percorsi esistenziali complessi e stratificati. In quest’ottica, per entrambi, sono egualmente importanti tanto i movimenti della macchina da presa volti a individuare i movimenti interiori, quanto il montaggio inteso come percezione globale e specifica dello spazio-tempo. La macchina da presa di John Cassavetes dà costantemente l’impressione di un inesausto movimento febbrile alla ricerca di volti e corpi: essa stessa è un personaggio che scruta e partecipa alla vita degli altri personaggi protagonisti del film. Allo stesso modo il montaggio si sviluppa attraverso una continua collisione di immagini, ellissi dilatate oltre misura e in una quasi totale assenza di raccordo tra i piani. Abel Ferrara ripercorre con il suo cinema degli anni ‘90 le modalità di ripresa dell’actionfilming del regista di origine greca, attraverso bruschi cambiamenti di asse, una ricerca esasperata del primo piano e la ripresa di corpi in movimento, spesso sgraziati e raramente composti. Per entrambi, il corpo è qualcosa che sfugge ad ogni determinazione formale, non è né bello, né brutto, ma è solo un groviglio di nervi teso verso la vertigine. Il carattere di riconoscimento del corpo, per entrambi i registi, è dato dall’isteria, valvola di sfogo di potenza sessuale e di amore integrale. Corpo che deve essere visto, spiato, braccato, per trovare nella sua carnalità le ragioni del crollo irreversibile a cui esso è sottoposto in ogni film. Lt in Bad Lieutenant, deve fare esperienza della caduta per ritrovare la spiritualità perduta: l’abbandono e l’affaticamento con cui incede, claudicante e sfatto, nel finale del film sono la manifestazione di un cedimento psichico dovuto a motivazioni trascendenti che lo portano a raggiungere una sorta di grado zero della carne. Ferrara come Cassavetes filma la rugosità della pelle attraverso i piani ravvicinati dei volti e dei corpi. Egli mette in scena un’ “oscenità” che è dettata dalla (im)moralità dello sguardo che, provocatoriamente lo spinge a filmare oltre il filmabile, cercando attraverso la rappresentazione del corpo di giungere alla rappresentazione dell’anima. Lo sguardo è un elemento molto importante in 189
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Bad Lieutenant, ma più che guardare quello di Lt è un vedere annebbiato dai fumi delle droghe e dall’alcool. La scena principale centrata sullo sguardo sia del tenente che degli spettatori è quella della masturbazione di Lt davanti alle due ragazze, girata in tempo reale con solo sette stacchi di montaggio. Una scena hardcore, non in quanto esplicita l’atto, bensì nel disagio che genera nello spettatore, che si sente privato davanti a tanto degrado e disgusto, del poter volgere lo sguardo altrove. Lo sguardo è desiderio; l’uomo desidera una cosa quando la vede, e l’oggetto del desiderio in questo caso è l’orgia. Lt vede l’atto sessuale lesbico tra le due donne all’inizio del film e vuole partecipare. Quando vede il corpo nudo della suora all’ospedale, tornando indietro ferma le due ragazze in macchina e le costringe ad inscenare un’orgia dove lui è spettatore e protagonista allo stesso tempo. Ferrara utilizza quindi il linguaggio pornografico. Si tratta però di una pornografia dell’anima e non dei corpi. Difatti glii spettatori rifuggono lo sguardo davanti alle aberrazioni perpetrate dal tenente. Il suo corpo è una massa di carne su cui sperimentare ogni bassezza fino alla disgregazione: solo allora, una volta uccisa la carne, potrà emergere l’anima. Quindi la pornografia esistenziale di Ferrara disturba, spaventa e non affascina; quella di Ferrara è realtà che non concede nessuno scarto alla finzione e che non stimola nessun desiderio di ri-vedere. Il corpo e la sua “trasformazione” sono legati all’uso e abuso di sostanze, e se In Cassavetes è l’alcool a determinare comportamenti e stati d’animo, in Ferrara è la droga nelle sue varie forme e declinazioni. Alcool e droga sono complementari al corpo, perché entrambe le sostanze non vengono espulse ma rimangono radicate nel corpo. In Husbands (Mariti, 1970), John Cassavetes costruisce la lunga sequenza del pub in cui per dimenticare la morte del loro amico Harry (Ben Gazzara), Archie (Peter Falk) e Gus (John Cassavetes) ingurgitano un fiume di birra fino a cadere in uno stato di totale ebbrezza; allo stesso modo, in Bad Lieutenant, Ferrara, pur non concentrando in un’unica scena l’abuso di droghe, diluisce lungo tutta la durata del film un’esperienza addittiva autodistruttiva e raramente ripetibile che, anche in questo caso è motivata dal voler dimenticare qualcosa di incomprensibile (come la morte): lo stupro subito da una suora. Ma mentre l’abuso di alcool è qualcosa di pienamente terreno che comporta, anche la degradazione del corpo attraverso il vomito, la consumazione di droghe è legata ad uno stato mentale: sviluppa l’immaginazione, produce visioni e cala l’individuo in uno stato momentaneo di sogno ad 190
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occhi aperti, ponendolo come in una dimensione separata dal reale, sospesa e fluttuante, molto più vicina alla trascendenza che alla vita vissuta: una dimensione che può essere definita come immanente e spirituale. In Bad Lieutenant, questo stato è duplice: da un lato tende ad esaltare il percorso di scelta, peccato, redenzione e dall’altro agisce invece con una continua profanazione del sacro finalizzata a raggiungere la contrizione finale e culminante nella bestemmia/preghiera rivolta dal Lt ad un Cristo muto che gli tende la mano. Si coniugano, dunque, da un lato l’ “imitazione di Cristo” secondo i dettami evangelici in cui si dice che chi vuole comprendere pienamente e vivere le parole di Cristo deve fare in modo che tutta la sua vita sia modellata su quella di Cristo, e dall’altro la profanazione messa in scena in Bad Lieutenant, con particolare riferimento allo stupro blasfemo della suora e alla deturpazione della Chiesa, rimanda alla “Storia dell’occhio” di George Bataille, in cui l’episodio dello stupro e della profanazione del corpo di Don Aminado nel finale, assumono sia i crismi di una messa nera quanto quelli di un estasi mistica legata alla sessualità. Come questi due punti di partenza opposti possano trovare coesione e coerenza, attraverso la messa in scena dell’erotismo, nel film di Abel Ferrara, è spiegato dalle parole di Alberto Moravia poste a prefazione dell’edizione italiana del racconto di Bataille: L’erotismo sembra essere una forma di conoscenza che nel momento stesso che scopre la realtà, la distrugge. In altri termini si può conoscere il reale per mezzo dell’erotismo; ma al prezzo della distruzione completa e irreparabile del reale medesimo. In questo senso l’esperienza erotica si apparenta a quella mistica: ambedue sono senza ritorni, i ponti sono bruciati, il mondo reale è perduto per sempre. Altro carattere comune all’esperienza mistica e a quella erotica è che esse hanno bisogno dell’eccesso; la misura, che è propria al conoscere scientifico, è sconosciuta tanto all’una che all’altra. Quest’eccesso, naturalmente, porta alla morte. Ma nell’esperienza mistica sarà la morte del soggetto; in quella erotica la morte dell’altro. Questo forse spiega il carattere, apparentemente, suicida dell’esperienza mistica e omicida di quella erotica. (…) Ma attenzione: sia pure in senso negativo e diabolico anche nel cristianesimo, l’erotismo è un elemento indispensabile, di qualsiasi operazione conoscitiva.66 66 Alberto
Moravia, Prefazione a La storia dell’occhio, Gremese editore, Roma, 2000, pagg.
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Il percorso esistenziale di Lt in Bad Lieutenant appare dunque imprescindibilmente legato alla forza opprimente del peccato e elevato dalla forza salvifica della Grazia, ricalcando l’esistenza fragile, difficile e sofferente del giovane curato di Ambricourt (anche lui senza nome) protagonista di Journal d’un curé de campagne (Il diario di un curato di campagna, 1951) di Robert Bresson. Lo sviluppo della sceneggiatura del film di Ferrara e di quello di Bresson è praticamente identico. L’accumulo di tensione è continuo e crescente fino allo “scioglimento” finale, i tempi dilatati della prima parte diventano brevi e ravvicinati nell’epilogo, il cammino dei personaggi è un percorso a tappe sempre più dolorose e lancinanti, un calvario oscuro e misconosciuto declinato su una progressiva discesa verso le tenebre del peccato, fino all’ultima immagine: la morte per entrambi, con Lt “abbandonato” nel caos cittadino e l’immagine del curato sostituita con quella della croce nera, “perché cosa importa? Tutto è Grazia”. Alla luce di queste riflessioni si può dedurre che la “fenomenologia della Grazia” centrale sia in Bad Lieutenant che in Journal d’un curé de campagne riconduca i film non alla messa in scena di una tragedia bensì a quella di una Via Crucis. La sceneggiatura di Bad Lieutenant infatti, sembra scritta proprio con questa intenzione, data la suddivisione in momenti precisi e scollegati tra loro, che solo nel finale salvifico trovano la loro ricomposizione. Ad ognuna delle quattordici stazioni corrisponde un passo del tenente verso la redenzione ed il proprio sacrificio. 1. 2.
3. 4. 5.
Il tenente Lt (Harvey Keitel) accompagna i due figli a scuola, li insulta e dopo averli salutati, appena solo sniffa cocaina. Si reca sulla scena di un crimine, dove ci sono due ragazze morte in macchina. Egli però è più interessato a raccogliere le scommesse dei colleghi sulla partita di baseball dei L.A. Dodgers, su cui ha appena puntato quindicimila dollari. Incontra uno spacciatore, salgono su per le scale di un palazzo fatiscente e qui il tenente vende al pusher un sacchetto di droga. Prima di andarsene fuma del crack. Due prostitute recitano un bondage lesbico. Il tenente si ubriaca, balla con loro e poi nudo e piangente mima una crocifissione. In un negozio cinese ferma due ladri, non li arresta, ma anzi si fa consegnare il bottino.
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14.
Si reca a casa di un’amica drogata (Zoë Lund) dove si buca con lei e fuma ancora del crack. Dorme a casa sul divano, si sveglia, insulta la suocera, cambia il canale della televisione mentre la figlia sta guardando i cartoni animati, e guarda la partita dove i Dodgers stanno ancora perdendo. Si reca sulla scena di un altro delitto e cerca di intascarsi la droga che c’è nella macchina, che però gli cade in maniera ridicola sotto gli occhi dei colleghi. Questi gli parlano dello stupro di una suora ad Haarlem e della taglia sui colpevoli messa dalla mafia. Il tenente va all’ospedale, spia la suora nuda e viene a sapere che è stata stuprata con un crocifisso. Il tenente ferma due ragazze per un fanale rotto. È notte e piove. Le costringe una a mostrare il sedere, l’altra a mimare una fellatio, mentre lui si masturba davanti a loro. Va nella Chiesa dove hanno violentato la suora, si sdraia e abbraccia una Madonna caduta. Più tardi ascolta il perdono che la suora concede ai colpevoli senza denunciarli. Sale in auto, sniffa cocaina e quando sente che i Dodgers hanno di nuovo perso spara sulla radio. Alla prima comunione della figlia, impreca in Chiesa mentre un bookmaker gli ricorda i suoi debiti. A casa sniffa cocaina sulle foto della comunione. Va in discoteca, si droga e scommette altri soldi sui Dodgers. Va da un suo amico spacciatore a ritirare una scatola piena di soldi ($ 30.000). Quando esce fuma crack per le scale. In auto assiste nervoso all’ennesima sconfitta dei Dodgers. Va dalla suora per convincerla a denunciare i suoi stupratori, ma questa gli consiglia di parlare solo con Cristo. Solo, in Chiesa, bestemmia piangente e digrignando i denti rabbioso si rivolge ad un Cristo dolce e silenzioso; gli si avvicina a quattro zampe chiedendo perdono per i suoi peccati e gli bacia i piedi invocando il suo aiuto. Alza lo sguardo e vede una donna nera che è venuta a riportare il calice rubato dai violentatori che lei conosce. Il tenente raggiunge i due ragazzi Paolo e Julio, li ammanetta, fuma crack con loro e li accompagna in macchina al terminal dei bus, dove piangendo li libera e consegna loro la scatola con i trentamila dollari. Li invita a salire sull’autobus e a lasciare la città. Sale in macchina e poco dopo gli si avvicina un’auto. Gli sparano nell’indifferenza più totale…poi qualcuno si accorge di lui. 193
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Non un racconto lineare quindi, ma una messa in scena sui generis della vita di Cristo. Un Salvatore incarnato da quello che può essere considerato l’ultimo degli uomini: un tenente di polizia corrotto, drogato, onanista, che disprezza la propria famiglia ma che si definisce cattolico, o meglio come dice lui in discoteca: “Sono benedetto. Sono un fottuto cattolico. Non può uccidermi nessuno.” Difatti solo lui può decidere di morire, e così farà dopo aver perdonato e dopo essere stato attraversato dalla Grazia Divina. Ecco perché viene sconvolto dalla comunicazione d’Amore della suora, che perdona e anzi vuole amare i suoi violentatori: “Gesù ha trasformato l’acqua in vino. Avrei voluto trasformare il loro seme in fertile sperma, il loro odio in amore, avrei voluto salvare la loro anima.” Egli non vive più in comunità, è rinchiuso nella gabbia dei suoi peccati e le parole della suora lo sconvolgono, così come prima lo stesso effetto aveva avuto lo spiare il corpo nudo della religiosa sul lettino d’ospedale. Non sono immagini, sono domande che lacerano il sensibile umano nella disperata ricerca di una risposta. Gesù è morto per salvare l’umanità dai suoi peccati e dunque è più che naturale che il tenente ormai devastato fisicamente e psicologicamente entri in chiesa e chieda perdono. Una chiesa dove sull’altare è stato versato lo sperma degli stupratori e il sangue virginale della suora, due sostanze dove si mescolano il sacro del divino e il profano dell’uomo. Una chiesa quindi centro del mondo dove si intrecciano, a causa della violenza, le due componenti dell’umano e del divino e dentro la quale Cristo è presente pronto a ricevere gli insulti della disperazione umana e ad essere accusato di indifferenza dal tenente. Nell’abisso della disperazione Lt ritrova Dio, un Dio silenzioso che con il suo sguardo misericordioso e la sua sola presenza, in un istante ne riscatta l’intera vita, lo solleva nell’empireo della Grazia e lo conduce al perdono. Perdono che ricorre più volte nel film e che è il centro del discorso pronunciato da Zoë dopo lo shoot: “I vampiri sono fortunati, si nutrono degli esseri che trovano... noi invece divoriamo noi stessi. Dobbiamo mangiare le nostre gambe per trovare la forza di camminare. Dobbiamo arrivare per poter andar via. Dobbiamo succhirci fino in fondo, dobbiamo divorarci da soli... finchè non ci resta niente altro che la fame. Noi diamo, diamo e diamo come pazzi. Non credo che tutto questo abbia senso. Non significa niente. Gesù ha detto: “Settanta volte sette”. Nessuno riuscirà mai a capire perché l’hai fatto. Ti abbiamo già dimenticato la mattina dopo. Peccato”. Solo lo “scandalo” di poter assistere al perdono può 194
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ricondurre sulla retta via. In una scena inedita, girata e mai montata, di Bad Lieutenant, intitolata “La Confessione della monaca” il perdono viene equiparato alla più limpida preghiera. “Perché questi ragazzi hanno posato le mani sul mio seno, ma essi non hanno afferrato che un po’ di pelle umana nella loro stretta. Essi avrebbero dovuto incontrare attraverso me il seno del loro Redentore. Quando loro si sono abbassati su di me e mi hanno guardata negli occhi, essi hanno visto la paura; essi avrebbero invece, dovuto trovare lo sguardo di un amante e sentire la presenza del Principe della Pace. La mia vagina io non l’userò mai più. E mai più io rincontrerò due ragazzi dalla preghiera così limpida, così straziante e così angosciante.”67
Quando l’uomo non concede il perdono soffre, così come soffre visibilmente il tenente al Port Authority Bus Terminal nell’accompagnare i due ragazzi sul pullman. Egli piagnucola, digrigna i denti e li schiaffeggia perché è Padre e con quel gesto educa anziché punire. Padre quindi e non più poliziotto, infatti i due ragazzi Paolo e Julio sono seduti in macchina nella stessa posizione dei figli del tenente all’inizio del film. Lt sa che morirà, anzi sceglie di morire, sa che è l’unico modo per trovare la redenzione che cerca disperatamente da sempre: nell’alcool cercava Dio, nelle droghe cercava Dio, nel sesso cercava Dio, ma la felicità intesa come Grazia Divina, la troverà solo nella morte dopo aver incontrato Cristo sanguinante in una Chiesa profanata. La suora che ha perdonato è incarnazione della Mano di Dio, mentre la bestemmia rivolta ad un Dio muto da parte di Lt altro non è che una preghiera (è Sant’Agostino a dire che in un momento di disperazione la bestemmia equivale ad una preghiera), al termine della quale egli troverà una donna con un calice d’oro in mano che lo condurrà (attraverso l’oggetto sacro) ad individuare i colpevoli. Lt dunque, potrebbe qui avere accesso ai $50.000 di taglia sullo stupro più i $30.000 recuperati dal pusher e quindi poter estinguere gran parte del suo debito e continuare la sua vita dissoluta e mortificante. Scegli invece il martirio perché sconvolto dalla forza del perdono e toccato dalla Grazia di Dio. Non è casuale che nel finale la suora si rivolga a Lt, seduto di fianco a lei ai piedi dell’altare, con queste parole: “Si rivolga a Gesù. Preghi. Lei crede in Dio vero? Crede che Gesù è morto per i nostri peccati?”. 67
Zoë Lund, La Confession de la nonne, in Nicole Brenez, p.75, traduzione nostra
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Bad lieutenant – Recensione I titoli di testa scorrono a caratteri neri su sfondo bianco secondo il modello adottato da Pier Paolo Pasolini. La radio trasmette i commenti sulla serie di partite di baseball di finale di campionato tra Los Angeles Dodgers e New York Mets, raccontando l’impossibilità di una rimonta per New York che si trova attualmente sullo 0-3. La finale terminerà con l’imprevista vittoria dei Mets, trasformando quanto detto alla radio in apertura del film dal cronista in metafora di quanto accadrà al tenente lungo l’avvicendarsi degli eventi nel film: come la sua città, anche gli, pur morendo esce vittorioso. Abel Ferrara sin dai titoli di testa costruisce un film a strati in cui sotto ogni fatto se ne nasconde un’altro, sotto ogni richiamo materiale si concentra un richiamo spirituale. Attraverso una costruzione sincopata, basandosi su una sceneggiatura esile e contemporaneamente densa, lavorando sui contrasti impossibili come quelli della fotografia di Ken Kelsch, quelli della comparazione tra sacro e profano (come nella scena in cui il pusher rimprovera al tenente di farsi del male fumando la droga a quel modo e si sente rispondere da Lt: “Chi cazzo sei? Un predicatore o un trafficante”), Abel Ferrara costruisce un film evangelicamente scandaloso. Lo scandalo non sta però nella messa in scena additiva della dissoluzione dell’uomo ma nell’incomprensibile rappresentazione del perdono. Il pensiero del regista in materia è espresso dalle parole che Lt pronuncia di fronte ai colleghi nel garage: “Ogni giorno ne violentano una. C’è una ricompensa perché questa era vestita da pinguino... la chiesa è un racket”. Abel Ferrara, in Bad Lieutenant sovrappone il suo protagonista con altri “eroi” del film come Bo Dietl, il vero poliziotto pluridecorato presente come comparsa, ma soprattutto Strawberry, l’eroe sportivo della stagione dei Los Angeles Dodgers che, arrivato alla serie decisiva non solo fallisce ogni prestazione ma addirittura si fa eliminare nella partita decisiva condannando, contemporaneamente, alla sconfitta la sua squadra e a morte il tenente. Che Lt e Strawberry siano legati tra loro viene confermato dal modo in cui la moglie di Lt si rivolge a lui mentre è intento a guardare la partita: “Ehy Strawberry vuoi una tazza di caffe?” La continua profanazione del sacro (le scommesse durante la comunione della figlia, lo sniffare cocaina sulle foto della comunione, la masturbazione con il pensiero rivolto al corpo nudo della suora...) va di pari passo con la rappresentazione della Grazia intesa dal regista più come una visione 196
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che come un fatto reale. Non si spiega altrimenti il fatto che nella chiesa ci sia sempre lo stesso tipo di luce (emblematico il brusco passaggio dall’esterno notte all’interno giorno al momento del primo sopralluogo), che con ampi fasci luminosi irrora la navata di un’aura spirituale. Sembra che Abel Ferrara voglia, provocatoriamente, mostrare come la Grazia divina sia talmente ricercata dal tenente che essa si manifesta come visione in seguito all’abuso di droghe (egli si ritrova in chiesa dopo ogni esperienza additiva) e diventa manifestazione reale grazie al parto della mente di Lt. La scena stessa dello stupro, con la musica rap in sottofondo, le luci “acide” (che richiamano l’inizio di The Driller Killer) ha in sé qualcosa di intangibile che conferisce al film una indecifrabilità ontologica (la scena è uno stacco improvviso dal primo piano di Lt in preda ai fumi del crack, e appare più come una sua visione che come un fatto reale). Bad Lieutenant quindi, oltre ad essere un vero e proprio film seminale per il decennio che si apre, rimane tutt’oggi qualcosa di non completamente comprensibile perché in modo unico riesce a far coesistere sacro e profano, violenza e spiritualità, erotismo e Grazia divina, dissoluzione ed elevazione, incarnando nei suoi fotogrammi tanto la Verità divina quanto quella umana.
Bad Lieutenant – Sondaggi critici Bad Lieutenant fa il punto sull’attualità di una parola un po’ vecchia e pressochè fuorilegge, usata impropriamente oggigiorno e piuttosto mal vista in ogni caso: il trip (…) Per Abel Ferrara, il viaggio è ancora possibile, vale adire rappresentabile, senza nostalgia, senza raffinazione, e senza raffinatezza. È la forza di Bad Lieutenant, film potentemente tossico e allucinato, unico nel suo genere come lo è ogni trip, avventura interiore molto privata. Sull’orlo di una overdose di alcool, di eroina, di crack, il bad lieutenant di Ferrara fa un bad trip, paranoico, aggressivo, regressivo,distruttore, un incubo sotto stretta sorveglianza, con alle calcagna la morte ma soprattutto Dio, il Bene, il Male e tutta la morale giudaico-cristiana. Da una parte dunque la convinzione del regista, la sua credenza nella capacità del cinema di restituire un’esperienza limite, furiosamente organica, smisuratamente fisica, sensoriale e indicibile. Dall’altra, misticismo e spiritualità, la fede come possibile discorso(addirittura come sermone). È una delle scommesse del film, non la meglio riuscita. Il bad lieutenant, interpretato da Harvey Keitel ne è contemporaneamente la posta e l’incarnazione metaforica. Il 197
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suo corpo incassa la violenza – della droga, della vita, della strada – passivamente, massa di carne in stao pietoso ma incrollabile che svela con una energia brutale e manifesta un sentimento di sofferenza e bestialità mischiati insieme. FRÉDÉRIC STRAUSS, CAHIERS DU CINÉMA 465, 1993 La deriva individuale, lo smarrimento, la perdita di senso e di sé resta un’idea fondamentale del cinema di Ferrara, rintracciabile in modo evidente e centrale ne Il cattivo tenente, in cui l’assoluta perdizione di un personaggio animato da una smania insaziabile d’essere viene rappresentata come una caduta vorticosa. Più che una speculazione su temi religiosi troviamo in Ferrara una presenza costante dell’iconografia cattolica nella sua versione canonico-devozionale: le statue della Madonna, un Cristo da santino nei confronti del quale Harvey Keitel, tenente tossico e disperato, scatena prima la sua rabbia ed esprime quindi una angoscia tormentosa, gli abbigliamenti monacali della suora. La religione cattolica viene avvertita come folgorante, maniacale ossessione. Nei riferimenti religiosi di Ferrara prevalgono cioè aspetti allucinati, morbosi, ossessivi, come quelli espressi nella rivolta-invocazione da Keitel-Lt nei confronti di un Dio che appare indifferente, troppo distante dall’inferno nel quale il protagonista (una figura tragica di dannato con tutte le sue umane, forsennate bassezze) si agita senza alcuna speranza. PIERPAOLO LOFFREDA, CINEFORUM 358, OTTOBRE 1996 I momenti migliori del film sono tutti nelle sequenze sospese, estrapolate dalla trama poliziesca, nelle quali Ferrara, da cineasta behaviorista si sofferma solo sulla rappresentazione del decadimento del personaggio a cui Harvey Keitel dà una autenticità folgorante. Tutto quello che concerne lo stupro della suora e la sete di redenzione del poliziotto è in compenso del tutto mal riuscito perché ripreso eccessivamente da Scorsese o da Toback. Così le allucinazioni di Keitel che vede Cristo nella chiesa cadono addirittura in un kitsch assoluto, vicine in questo al Verhoeven del periodo olandese. Poco portato alla psicologia Ferrara farebbe meglio a limitarsi a quello che più gli riesce, cioè la descrizione stilizzata di una azione spogliata dagli artifici della sceneggiatura. LAURENT VACHARD, POSITIF 386, 1993 Bad Lieutenant, che forse rimane, a rivederlo oggi, il film più compiuto di Ferrara, o almeno quello più spiazzante ad ogni ri-visione, benchè non mostri ancora come momento stilistico caratterizzante i vuoti-pieni in nero, è comunque l’esempio migliore di un cinema sempre in bilico su una membrana opaca, che qui fluisce nei colori lividi del giorno e cupi della notte, sussulta negli oscu198
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ri angoli dei sottoscala dove Harvey Keitel compra e fa uso di droga, o nella luce gassosa e inconsistente che inonda la chiesa dove è avvenuto lo stupro della suora. Un cinema che rinuncia alle sanguinolente carneficine dei primi film, a favore di una violenza dai tratti meno seriali ma più improvvisi e visionari, frutto di sequenze basate su inquadrature fisse e ipnotiche, montate in una forma che persegue la dilatazione temporale e una consequenzialità quasi mentale, fino a funzionare quale vera e propria allucinazione. LORENZO ESPOSITO, FILMCRITICA 478, SETTEMBRE 1997 Valutazione Pastorale: gonfio e ibrido pastrocchio dovuto al regista Abel Ferrara, che firma anche la sconquassata sceneggiatura. Anche per la rozzezza delle immagini, troppo facile affermare (ma sempre più amaro constatare) che il vilipendio dei sentimenti religiosi continua impunemente sugli schermi. Nel monologo ab irato del tenente imbottito di droghe, allucinato a carponi davanti all’Uomo disceso dalla Croce, c’è spazio anche per le invettive. Il regista sembra voler sostenere che anche il corrotto e violento che annaspa nella melma metropolitana – e non manca Ferrara di insistere che costui è un cattolico, il quale fornica, beve e si droga – deve avere il diritto al riscatto, manifestando la sua personale clemenza. Insomma, il gesto della suora (l’agnello sacrificale, l’oggetto sacro violato) ha sconvolto il tenente, che perdona lui pure i criminali. Ferrara, tuttavia, non riesce a padroneggiare l’eccessivo materiale messo all’ammasso, soprattutto l’aspetto pratico e procedurale della faccenda dell’ufficiale di polizia, che prima arresta, poi rilascia ed aiuta economicamente i due criminali. Un farneticante guazzabuglio con un linguaggio volgare e turpitudini varie (esemplare paragrafo del manuale delle sconcezze la scena fra il cattivo tenente e le due ragazze da lui trovate in automobile prive di patente). Ci si chiede se, di fronte a film simili, sia lecito sforzarsi ad attribuire valenza di messaggi a convulsioni e deliri di tal scorta COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
Body snatchers (1993) Steve Malone (Terry Kinney) ha l’incarico di fare ricerche su dei prodotti tossici altamente inquinanti depositati in una base militare dell’Alabama. Per il periodo che deve trascorrere nella base, si porta dietro anche tutta la famiglia composta dalla seconda moglie Carol (Meg Tilly), e dai due figli : la diciasset199
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tenne Marty (Gabrielle Anwar) e il piccolo Andy (Reilly Murphy). Durante la sosta ad una stazione di servizio Marty viene aggredita da un militare terrorizzato, che minacciandola con un coltello, le intima di andarsene. Entrando poi alla base vedono i militari che come automi controllano ogni spazio. Qui Marty conosce Jenn Platt (Christine Elise) figlia del generale Platt (Robert Lee Ermey) che comanda la base e Tim Young (Billy Wirth) un pilota di elicotteri. Durante le sue ispezioni Steve incontra il maggiore Collins (Forest Whitaker) dottore del campo e seriamente preoccupato per l’ondata di “paranoia collettiva” che si sta diffondendo tra i militari. Ben presto queste paure e preoccupazioni prendono forma e l’orrore si manifesta nel sonno, trasformando le persone in alieni. La prima è Carol poi è la volta di Steve e di Andy, mentre il contagio si diffonde rapidamente e grossi camion carichi di bacelli alieni si incolonnano con destinazione le basi militari degli altri Stati. Il maggiore Collins, chiaramente disturbato e accerchiato dai militari-alieni si spara un colpo di pistola alla testa. Restano Marty e Tim a combattere contro il sonno e contro i mostri. Riusciranno a fuggire in elicottero, e dopo aver fatto esplodere i camion in viaggio e la base militare, atterreranno in un aeroporto alle porte della città ma... il contagio non ha fine.
“The Body Snatchers”, è prima di tutto un romanzo di Jack Finney, che viene per la prima volta pubblicato a puntate sul Collier’s Magazine nel 1954. Due anni dopo esce la prima riduzione cinematografica, Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, 1956) per la regia di Don Siegel; il primo remake esce nell’autunno del 1978 firmato da Philip Kaufman (in Italia è conosciuto come: Terrore dallo spazio profondo), mentre nel 1993 Ferrara ne dirige il secondo rifacimento. La storia, con il passare del tempo resta sempre attuale, sia per il suo valore metaforico, sia per la varie possibili letture che se ne possono trarre, a seconda del momento storico. L’idea di rigirare Body Snathcers, viene per la prima volta offerta a Ferrara nel 1987 dal produttore Robert H. Solo (già autore del remake del 1978), quando Larry Cohen ha già completato due sceneggiature diverse sull’argomento, senza mai riuscire a tradurle in film. La seconda di queste, alcuni anni dopo, viene riscritta da Raymond Cistheri (pseudonimo dietro al quale si nasconde il regista e sceneggiatore Brian Yuzna), prima di essere ridefinita nel 1990 da Stuart Gordon e Dennis Paoli. Il film avrebbe dovuto essere diretto dallo stesso Gordon, ma quando questi incomincia a girare Fortress (2013, la fortezza, 1992), gli subentra Ferrara che chiede a St. John 200
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di rimettere mano alla sceneggiatura, e inserisce nella troupe i suoi abituali collaboratori. Il film viene girato nella base militare abbandonata di Fort Daly, poco fuori Selma in Alabama, con il budget, (stratosferico per gli standard di Ferrara) di venti milioni di dollari. Le locations delle riprese e il décor del film sono resi magnificamente dalla fotografia di Bojan Bazelli. Questa è tutta giocata sui controluce e su una gamma di colori che va dal giallo spento al rosso, per le poche scene diurne; dal grigio acciaio al blu elettrico per tutte le riprese notturne che compongono 3/4 del film. Notte che diventa spazio: spazio nero che nei lunghi carrelli che attraversano il film è l’origine dell’inquadratura. Nero e morte, che da storia narrata si fanno elemento visuale e anticipatore degli eventi, e che dal nulla e dal vuoto oscuro, invadono l’animo umano. Il nero come visualizzazione di un’atmosfera mortuaria deborda in continuazione sullo schermo, spesso letteralmente accecando lo spettatore sfidandolo nel cercare di disperdere le tenebre.68 Gran parte delle riprese del film sono realizzate con movimenti di macchina laterali: panoramiche e carrelli che senza soluzione di continuità partono da uno spazio nero, vengono attraversati da ombre e/o barriere che impediscono o limitano la visione, e ritornano nel nero di partenza. Il fuori campo, è dunque il luogo della “sostituzione”, uno spazio altro in cui avviene l’indicibile e in cui (come nel caso dell’osceno nel teatro greco) non viene mostrato (se non in un caso) il momento di passaggio tra la vita e la morte reale e quello della nascita di una “nuova vita”. Un pudore, quello messo in atto da Ferrara, che ha un significato ben preciso: quello di mostrare gli effetti di una società omologata (e in questo la scelta della basa militare appare perfettamente coerente) e spinta all’obbedienza nel rispetto delle dinamiche di import/export che caratterizzano i movimenti delle merci. La confezione di Body Snatchers è indubbiamente quella di un prodotto commerciale, così come la suspance e gli effetti speciali possono funzionare per un medio prodotto di genere, ma l’impianto sottostante, dunque, è fermamente nelle mani del suo autore. Sin dai titoli di testa sono chiare le intenzioni del regista, che vuol raccontare una storia con al centro due temi principali: il contagio e la perdita d’identità. L’immersione avviene in uno spazio carpenteriano a sottolineare la provenienza di un male cosmico che sta 68
Lorenzo Esposito, Abel Ferrara: il luogo della notte in Filmcritica n. 478, Settembre 1997,
p.391
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per abbattersi e contagiare il nostro pianeta attraverso l’acqua, cioè l’elemento che ne costituisce i 2/3 e che è indispensabile per la sopravvivenza dell’uomo. Nel lento sostituirsi delle lettere componenti il titolo, mentre questo precipita verso la Terra, si passa da un rosso vivo ad un grigio scuro che si confonde con il nero spaziale a sottolineare la perdita di definizione dei contorni e lo smarrimento dei propri confini. L’elemento della sostituzione, basilare sia nel romanzo di Finney che nelle altre versioni cinematografiche, nell’opera di Ferrara è si presente, ma ha un valore puramente simbolico. Per il regista newyorkese, la sostituzione è già in atto, sotterranea e insinuante tra le pieghe di una società amorale senza più né punti di riferimento, né anima. La differenza sostanziale, del film di Ferrara, con i suoi predecessori, sta proprio nel fatto che l’invasione è già avvenuta (dal titolo scompare il prefisso “Invasion of”) e che quindi la speranza di un ritorno alle origini è definitivamente tramontata. La scelta di ambientare integralmente il film tra il crepuscolo e la notte, negando a priori la presenza del giorno (e quindi della luce) va proprio in questa direzione; si tratta di una scelta politica che se da un lato offre il fianco a prevedibili interpretazioni come quella di una critica riferita alle amministrazioni repubblicane consequenziali di Ronald Regan e George Bush Sr., dall’altra nasconde il vero fattore di interesse per Ferrara e cioè quello del corpo ridotto a merce. Andando a ritroso, e tornando al 1956, e al prototipo girato da Don Siegel in diciannove giorni e con un budget di poco più di $ 300.000, si nota come in esso siano già presenti alcuni temi successivamente ripresi e ampliati da Ferrara. Tralasciando le varie interpretazioni “politiche” date al film nel corso del tempo ( e sempre smentite dallo stesso regista), non si può non notare come la cittadina californiana di Santa Mira sia l’archetipo di ogni micro-comunità in movimento (opportunamente replicata da Ferrara con l’enclave di Fort Daly), in cui progressivamente l’individuo si confonde e si mette in contrapposizione con la società che lo circonda. Nel film di Siegel, l’omologazione è vista come una risorsa, una sorta di totale annullamento delle differenze in grado di calmierare ogni conflitto e ogni discordia, e pertanto perfettamente ascrivibile al desiderio di pace e tranquillità insito in ogni cittadina di provincia. Inoltre, l’impossibilità di poter scegliere, lega l’individuo ad una improvvisa riscoperta dell’istinto di sopravvivenza. La scena centrale del film di Don Siegel, racchiude entrambe gli elementi succitati, e rappresenta una sorta di basso continuo che attraversa le tre versioni della storia di 202
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Finney fin qui realizzate.69 Il dottor Miles Benell (Kevin McCarthy) e la sua fidanzata Becky Driscoll (Dana Wynter), sono rifugiti nello studio medico in attesa dell’arrivo del loro amico Jack Belicec (King Donovan). Mentre osservano la polizia orchestrare lo smistamento dei baccelli degli ultracorpi sui camion pronti a partire per varie destinazioni, giunge nello studio lo psichiatra Danny Kaufman (Larry Gates), già “trasformato” che si rivolge ai due fidanzati con un lungo monologo: “Pensa, appena un mese fa Santa Mira era come qualunque altra città: piena di gente con mille problemi. Quand’ecco avverarsi un fatto incredibile: semi che avevano vagato per anni nello spazio finiscono in un campo qui vicino; questi semi danno baccelli che hanno il potere di riprodurre con assoluta fedeltà qualsiasi forma di vita. (…) Mentre sarete immersi nel sonno, essi assorbiranno la vostra mente e i vostri ricordi per farvi rinascere in un mondo senza problemi”. Miles: “Noi non siamo gli ultimi rimasti, gli altri vi distruggeranno!”, ma Kaufman replica perentorio: “Domani non lo vorrai più, domani sarai uno di noi. (…) Dimentichi una cosa Miles... non hai altra scelta!”.Non si tratta dunque della semplice spiegazione dell’accaduto, bensì della proposta (impossibile da rifiutare e eludere) di un modello di vita, in cui non esistono più né sentimenti né emozioni, ma solo un corpo/merce che attraverso la sua diffusione modifica e altera la società: cioè la rappresentazione del consumismo. Questo è senza dubbio l’asse portante (quanto involontario?) tanto del racconto di Finney che dei film a venire, ed è per questo, forse, che persino Jean-Luc Godard ricorre alla citazione degli ultracorpi nella scena del film Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, 1965), quando mostra i due protagonisti restare impassibili davanti ad un cadavere. Tema universale quindi, che interessa anche a grandi autori e che, non a caso nel secondo remake, quello del 1978 diretto da Philip Kaufman trova la sua consacrazione nella rappresentazione dell’epidemia e del contagio all’interno della grande metropoli californiana di San Francisco. Città simbolo evidentemente, sia per la nascita del “flower power” e degli esiti fallimentari evidenziati dal riflusso degli anni’70, sia per la tragica vicenda della setta del Peoples Temple, episodi a cui il film si rifà nella modalità di rappresentazione del tema dell’alie69
Una quarta è uscita nel 2007 firmata da Oliver Hirschbiegel con il titolo The Invasion (Invasion), ma completata da James McTeigue, dopo che, su invito del produttore Joel Silver, Andy e Larry Wachowski ne hanno riscritto gran parte della sceneggiatura.
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nazione urbana. In una città come San Francisco, nessuno si accorge delle differenze, poiché ciascun individuo è (virtualmente) estraneo al suo prossimo, al punto che la sceneggiatura di W. D. Richter ha il grande merito di riuscire a rendere verosimile una vicenda di pura fantasia. In quest’ottica rientra a pieno titolo il tema del plagio, sia come elemento coercitivo delle menti e delle coscienze, sia come strumento di mobilitazione collettiva al consumo tramite la pubblicità. La vicenda della setta del reverendo James Warren “Jim” Jones appare oltremodo emblematica sia per la lettura del film di Kaufman, sia per la scelta “politica” operata da Ferrara per il suo remake. Nell’estate del 1977 Jim Jones è costretto ad abbandonare San Francisco in seguito ad un indagine per evasione fiscale. La sua setta, Peoples Temple, conta più di trentamila adepti, e nell’estate di quell’anno un migliaio di essi lo segue fino in Guyana per fondare l’eponimo villaggio di Jonestown. La religione professata dalla setta è basata su un cristianesimo arcaico e su un misticismo esasperato legato al ritorno agli stati primordiali della vita nel paradiso terrestre, e non è esente da violenze, prevaricazioni, vessazioni e torture finalizzate alla purificazione e al perdono. Un membro del congresso americano, Leo Ryan indaga sulle attività di Peoples Temple e scopre tutta una serie di reati legati alla setta. Jim Jones cerca di farlo uccidere, ma Ryan riesce a salvarsi e denuncia pubblicamente l’accaduto. Per sfuggire alla cattura il reverendo ordina ai sui fedeli di ingerire pillole di cianuro e il 18 novembre del 1978, novecentonove membri della setta compiono un suicidio di massa che non risparmia né donne né bambini e che sconvolge l’opinione pubblica mondiale. Un mese dopo, il 20 dicembre 1978 esce nelle sale americane Invasion of the Body Snatchers, e il pubblico ritrova, nella finzione cinematografica, i germi del massacro della Guyana.70 Che il tema del plagio sia centrale nel film di Kaufman è messo in evidenza dal dialogo in macchina tra Matthew Bennell (Donald Sutherland) e Elizabeth Driscoll (Brook Adams); dialogo che sottolinea tanto la paranoia legata a cospirazioni e sette , tanto l’anonimato dell’individuo all’interno di una comunità come quella della metropoli. Elizabeth, che il giorno prima ha seguito il marito per tutto il giorno racconta: “Continua ad incontrarsi con persone, sembra che tutti si conoscano tra loro, che ci sia qualcosa che li 70 Sulla strage, nel 1979, il regista messicano Renè Cardona Jr., realizza un discutibile instantmovie dal titolo Guyana – Crime of the century
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legagli uni agli altri... qualche segreto che dà la sensazione di una grande congiura. Era veramente strano, Geoffrey aveva incontri con diversi individui, ...si passavano cose tra di loro. Tutta gente sconosciuta..Non lo so, Matthew... ma ho vissuto per tutta la vita in questa città ma in qualche modo, oggi, sentivo che era cambiata. La gente era diversa, non solo Geoffrey, ma tutti. Ieri sembrava tutto normale, oggi … tutto lo sembra ugualmente ma non lo è. È un incubo, una cosa spaventosa... come se la città fosse cambiata in una notte”. La domanda dunque è duplice, ed è la stessa che nel 1993 si pone Abel Ferrara: Chi sono gli altri?... ma chi sono io?. Inoltre il regista newyorkese, trae dal film di Kaufman altri due elementi significativi per farli diventare preminenti nella sua versione, mentre nel film del 1978 risultano invece marginali: l’urlo con cui gli “ultracorpi” indicano gli umani e la presenza ossessiva dei camion della spazzatura che passano a ritirare la cenere dei corpi umani dopo la sostituzione (chiaro richiamo all’involucro della merce, inutile dopo il consumo). A questi, Ferrara aggiunge un elemento nuovo e non presente, se non in maniera suggerita, nei film precedenti, quello dell’erotismo, della seduzione del corpo perfetto (emblematica la scena di Marty e Tim nell’infermeria), privo di quel naturale decadimento fisico e muscolare che caratterizza gli esseri umani e la cui presenza inibisce la volontà dell’umano nell’annientare il suo “doppio” ultracorporeo. Elemento già presente nel fracassone (produce la Cannon di Yoram Globus e Menahan Golan) Lifeforce (Space Vampires, 1985) di Tobe Hooper, in cui i “vampiri” provengono dallo spazio come gli ultracorpi, succhiano la vita agli esseri umani che si sgonfino come palloncini (stessa modalità presente nel film di Ferrara) e si sostituiscono a loro “abitando” di volta in volta in corpi diversi. L’arma utilizzata per ipnotizzare gli umani e il corpo nudo, che nel caso della “space girl” (Mathilda May) assume i connotati di una bellezza statuaria che rasenta la perfezione e che viene utilizzata dall’entità senza alcun fine emotivo-sentimentale, ma solo come merce/contenitore necessario a catturare l’essenza vitale degli umani per garantirsi la sopravvivenza. Body Snatchers di Abel Ferrara dunque, oltre a rispettare, modificare e ampliare i parametri narrativi dei film che l’hanno preceduto, si muove sulle coordinate “politiche” della “cosificazione” dei corpi, riprendendo, ad anni di distanza, il discorso intrapreso da Michelangelo Antonioni con Zabriskie point (id., 1970), film che con quello di Ferrara ha più di un punto in comune. In entrambe i film al centro c’è 205
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una coppia di giovani, che si muovono in una società alienata e che cercano i sentimenti e l’amore i un mondo “altro”: zabriskie point e la città sullo sfondo dell’ultimo fotogramma di Body Snatchers, sono luoghi utopici in cui personaggi e ambiente diventano una cosa sola. In entrambe i film il paesaggio altro non è che una suggestione, qualcosa che tende al sogno, alla dilatazione spaziale e che fa esplodere la tensione della solitudine dell’individuo. La natura rigogliosa che circonda la base militare nel film di Ferrara, serve ormai solo più da cornice ad una comunità cannibalizzata dall’egoismo e dal contagio: Tim e Marty, un uomo e una donna, fuggono su di un elicottero (come nel finale di Dawn of the dead (Zombi, 1978) di George A. Romero), pronti ad amarsi e a procreare nuove vite, ma per fare questo dovranno vincere la battaglia contro un mondo contagiato e senza speranza. Daria (Daria Halprin) e Mark (Mark Frechette) in Zabriskie point e Tim e Marty in Body Snatchers, si incontrano nel mezzo di una “guerra” (le violenze della contestazione in Antonioni, la sostituzione degli ultracorpi in Ferrara) e si ritrovano a dover fuggire dai loro affetti, dalla città e in fiondo, anche da se stessi, nell’impossibilità di ritornare “alla natura” e proiettati verso un futuro enigmatico e ignoto. L’aereo di Zabriskie point e l’elicottero di Body Snatchers, sono due “cose”, due oggetti e mezzi, che permettono di vedere le cose dall’alto. Per entrambe i registi, la possibilità di modificare il punto di vista, sembra essere l’unico modo per vedere la realtà delle cose e per prendere coscienza della solitudine dell’essere umano in un mondo fatto più di merci/cose che persone. Se Antonioni riassume questo concetto in un unica sequenza, quella del montaggio alternato con i manichini della pubblicità, Ferrara si dimostra più radicale e diffonde lungo tutta la durata del film elementi simbolici che ampliano il discorso. Dalla cenere che come spazzatura, viene portata via dai camion, dai baccelli (chiusi dentro scatole di cartone) introdotti, dai militari, in casa di Steve, e spacciate per casse con materiale per le ricerche dello scienziato, fino ai corpi stessi, veicoli del contagio. Il finale di Zabriskie point e quello di Body Snatchers sono infine, accomunati, da due esplosioni iconoclaste: se quelle di Daria sono solo immaginate, quelle di Marty sono terribilmente reali. La lunga sequenza che chiude il film di Antonioni, con le esplosioni multiple (dei simboli del consumismo), riprese da vari punti di vista e rallentate (stesse modalità utilizzate da Ferrara) è la sintesi di un ipotetico urlo di aiuto della donna: quello di mostrare la proiezione psicologica di un desiderio di distruzione che 206
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rimane soffocato nella mente e quindi, mai, realmente liberatorio. La sequenza equivalente del film di Ferrara invece, è la materializzazione reale di un desiderio di vendetta che si concretizza nella distruzione indistinta (assimilabile a quella della guerra) di esseri umani e ultracorpi (emblematiche le strazianti sovraimpressioni dei corpi in disfacimento). I contenuti del film sono dunque molteplici e si riallacciano da un lato alla necessità di un’offensiva contro l’omologazione delle merci e dall’altro all’aspetto persuasivo (quello delle dinamiche pubblicitarie) con cui avviene la sostituzione, come dimostrano, due dichiarazioni rilasciate in merito dallo stesso regista: “I giovani protagonisti di questo film sono impegnati a cercare un senso di identità, quella individualità che manca nella loro esistenza. Ci vuole una causa per la quale unirsi e ideali in cui credere, per raggiungere la consapevolezza della propria umanità e battersi per difenderla”.71 “La cosa più importante del film è il concetto che esprime: gli antagonisti sono persuasivi. Non ti mangiano, non ti sparano. Ti dicono soltanto: va a dormire e quando ti sveglierai il mondo sarà migliore”.72
Le parole di Abel Ferrara si ricollegano ad una visione fortemente critica del consumismo, e trovano conferma attraverso le ascendenze carpenteriane di Body Snatchers che, sul piano tematico, è una sorta di ideale proseguimento di They live (Essi vivono, 1988) di John Carpenter. Questo film, tratto da “Eight O’Clock in the Morning”, un racconto di Ray Nelson in cui il protagonista, dopo essersi risvegliato da una seduta di ipnosi si ritrova in un mondo controllato dagli alieni sotto le mentite spoglie di esseri umani, dietro la scorza di robusto B-movie che ammicca alla fantascienza anni ‘50, contiene gli stessi elementi relativi alla persuasione subliminale della pubblicità e al controllo delle menti da parte di una razza superiore, presenti nel film di Ferrara. Un individuo, John Nada (il wrestler Roddy “rowdy” Piper, una sorta di cavaliere solitario ritratto di un’ America estinta) scopre l’identità degli alieni attraverso degli occhiali da sole prodotti dalla Resistenza e comincia a vedere che dietro ai cartelloni pubblicitari, dietro agli schermi 71 Abel 72 Abel
Ferrara in pressbook di Ultracorpi – l’invasione continua, 1993 Ferrara in Sight & Sound n°2, febbraio 1993
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televisivi, dietro all’apparente eleganza degli yuppies e dietro al benessere tout-court, si nasconde una realtà (in bianco e nero) fatta di silente induzione all’obbedienza e alla sottomissione: le strade sono popolate di individui “mostruosi” che controllano il commercio e l’economia; di cartelli pubblicitari che invitano a metter su famiglia, a consumare di più, ad obbedire a guardare la televisione e a spendere e comprare; ai semafori, dietro il cicalio del cambio di colore, un voce subliminale, diffusa da altoparlanti “invisibili” (ma visibili con gli occhiali) inculca gli stessi indottrinamenti, mentre misteriose micro-navicelle, dall’alto, verificano che ognuno consumi e obbedisca. They Live, più che una metafora è una impietosa fotografia dell’America repubblicana a cavallo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, non a caso la stessa a cui si rifà anche Ferrara. L’antieroe del film di Carpenter non ha nulla di eccezionale, è un uomo qualunque come lo sono Marty e Tim, e che, come loro, si ribella ad un sistema sbagliato, perché riesce a leggere la gravità del momento e decide di assumersi la responsabilità di combattere fino in fondo la sua battaglia. La domanda al centro di They Live è dunque la stessa al centro di Body Snatchers: Chi sono gli altri? ...Chi sono io?. Per provare a dare risposta al quesito, Abel Ferrara affonda la sua macchina da presa nelle complesse dinamiche familiari che non sono solo quelle della famiglia Malone, bensì appartengono a tutte le famiglie contemporanee, le quali, forse, non sonio più in grado di sostenere il gravoso ruolo di nucleo fondante di ogni società. Body Snatchers è un film che si muove su due livelli distinti: quello visivo, finalizzato a mostrare (solo) gli effetti della sostituzione, e quello narrativo dentro il quale si nascondono le criticità della vicenda familiare al centro della sceneggiatura. Si potrebbe, quasi dire che la sceneggiatura stessa è un “ultracorpo” visto che in molti casi le parole utilizzate contengono un doppio significato riferito alla sostituzione dei corpi. La base militare, è uno spazio limitato, circondato e chiuso da boschi, reticolati, barriere, caselli di passaggio, una enclave, quindi, dalla quale non è possibile uscire. L’unica ad accorgersene è Marty, che, non a caso, durante l’incontro con Jenn, la figlia del generale Platt, alla domanda sul perché si trovi nella base risponde seccata: “Mi porta qui un mese d’inferno con mio padre e sua moglie”. Quel “sua” riflette tutta l’insofferenza che la ragazza ha nei confronti della matrigna. Già nella prima sequenza, la sua voce-off dice: “Vi assicuro che non è facile trovarsi in macchina con un ragazzino di sei anni e la donna 208
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che ha preso il posto di tua madre”; nella visione di Marty dunque, anche la matrigna è un ultracorpo perché, ha preso il posto della madre naturale. Secondo Ferrara dunque la minaccia è già presente all’interno di un nucleo familiare disgregato, che nel film è rappresentato tanto dalla famiglia Malone, quanto dalla famiglia Platt, dove la moglie del generale è un’alcolizzata che vive da sola in una grande casa barocca. Quando nella sosta alla stazione di servizio, Marty viene aggredita nel bagno da un militare nero che sbuca dall’oscurità e, puntandogli un coltello alla gola e obbligandola a tacere gli dice: “Hai paura?... brava. Sono la fuori, dappertutto. Ti assalgono mentre stai dormendo...”, in realtà la minaccia si è già concretizzata. Uno dei tanti carrelli laterali presenti nel film, mostra senza soluzione di continuità, il piccolo Andy che si sveglia di notte nella sua stanza, il passaggio su uno spazio nero, e la camera da letto dei genitori in cui Carol scherza con il marito dicendole: “E ora...il vampiro della notte colpirà...”. Tra l’incubo di Andy e la finzione di Carol c’è la sensazione tattile di quanto sta realmente avvenendo e, infatti Ferrara lo mostra subito dopo attraverso la scena (osservata da Steve da dietro le imposte) di un sequestro ad opera dei militari nella casa prospiciente. Nella famiglia Malone, pertanto i sintomi della sostituzione, sono già tutti evidenti, e tre momenti successivi e distinti ne esplicitano i contenuti. Steve incontra, durante le sue analisi ambientali, il maggiore Collins, che con sguardo assente e aria visibilmente disturbata si produce in questo monologo: “Quello che lei sta prelevando sono sostanze pericolose? Possono alterare il senso della realtà? Stanno arrivando dei pazienti in infermeria affetti da gravi fissazioni allucinatorie, persone che hanno paura di dormire... persone che hanno paura di avere a che fare con i loro familiari, mostrano paranoie verso gli altri, verso l’identità degli altri, persone che hanno paura di se stesse. Io sono letteralmente circondato da persone mentalmente disturbate”. Ancora non è chiaro a chi si riferisce il maggiore Collins ma certo è che queste sue parole producono in Steve una certa inquietudine. Il secondo passaggio riguarda il piccolo Andy. La scena dell’asilo, si apre con l’immagine notturna della base militare riflessa nei vetri della finestra della stanza in cui bambini stanno disegnando sotto il controllo di una maestra dall’aria impassibile e autoritaria. Una lunga panoramica laterale, mostra i bambini che ad uno ad uno alzano il loro disegno, mentre la maestra (fuori campo) si complimenta con loro. Quando è il turno del piccolo Andy, si vede che il suo disegno è molto colorato e diverso dagli altri, 209
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che, invece, sono tutti uguali e uniformi. La “morte” della creatività e della fantasia è per Ferrara un richiamo urgente alla necessità di non ridurre anche l’arte a merce, e non è casuale, che allo sbalordimento iniziale del piccolo Andy, segua il suo tentativo di fuga dalla base. Quando viene fermato, e gli viene chiesto da Tim il perché stia fuggendo, Andy risponde: “Sto scappando via... dalle persone cattive”. È bastato un disegno dunque, una rappresentazione artistica (equivalente al cinema) al piccolo Andy per avere subito chiara la situazione: in fondo, Ferrara sembra voler tutelare il bambino che si nasconde in ogni essere umano, perché secondo il regista i bambini capiscono tutto, molto prima degli adulti (anche se poi, nel finale anche Andy non sarà esente dal contagio). Il terzo e ultimo passaggio che esplicita il contagio familiare e che certifica l’irreversibilità del processo in atto è quello della “trasformazione di Carol; Andy entrando nella stanza dei genitori vede il vecchio corpo della madre dissolversi, e quello nuovo uscire nudo da dentro l’armadio, e la sua affermazione è perentoria: “La mamma è morta. Quella non è la mia mamma, la mamma è morta”. A questo punto è Carol a spiegare a Steve ciò che egli non ha ancora capito: “Andare dove... è importante Steve, andare dove... cerca di capire, quello che è successo in camera non è stato un caso, è una cosa che sta succedendo dappertutto, e a tutti. Dove vorresti andare, dove vorresti scappare, dove vorresto nasconderti... in nessun posto, di quelli come te non ne è rimasto nessuno... hai capito?”. Da questo momento in poi inizia la seconda parte del film, quella della “caccia al diverso”. L’urlo disumano che gli ultracorpi utilizzano per indicare gli umani, (già presente nel film di Kaufman), è la rappresentazione di una caccia inesausta volta all’annientamento, e che pare perfettamente coerente con le teorie darwiniane e il concetto di superuomo enunciati poco dopo dal generale Platt al maggiore Collins prima che questi si suicidi. Il generale Platt: “Mi delude dottore, lei è un uomo di medicina, dovrebbe difenderla la vita, non toglierla. Vede come l’hanno ridotta le sue paure? Non lo capisce, quando sarà tutto omologato non ci saranno più discussioni, i problemi saranno finiti. Ci sono migliaia di noi qua intorno... è la razza che è importante, non è l’individuo. Solo l’unità garantisce la sopravvivenza...”, e la replica del maggiore Collins è altrettanto significativa: “Non avrete mai la mia anima”, poi rivolge la pistola verso di sé e si spara alla tempia. Nelle parole del generale, c’è la visione “politica” di Ferrara in merito al consumismo e al darwinismo sociale ampiamente presenti nel sot210
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totesto di ogni versione del film e già contenuti nel racconto originario di Jack Finney. Gli ultracorpi, per Ferrara, in questo perfettamente allineato a John Carpenter, sono una razza superiore volta a persuadere una razza inferiore a compiere il suo volere: gli ultracorpi, sono coloro, che in ogni senso e con ogni modalità, governano il mondo e decidono ciò che è meglio per la massa in base al loro personale tornaconto. Ecco quindi, che le parole del generale Platt sono la perfetta sintesi del contenuto politico del film ed ecco perché, il maggiore Collins, una volta uditele decide di suicidarsi. Abel Ferrara, mostra una certa ambiguità nel rappresentare gli ultracorpi, perché se da un lato sono la rappresentazione dello scambio di merci, dall’altro sono comunque delle vite che nascono, crescono e si sviluppano all’interno di baccelli-feto che hanno molto più di umano di quanto possa sembrare. Non solo, ma il fatto stesso, che i baccelli provengano dall’acqua, e quindi dalla fonte vitale per eccellenza, amplifica questa dimensione di ambiguità, e trova dolorosa rappresentazione nelle immagini sofferenti mostrate in sovraimpressione durante le esplosioni nel finale del film. Esplosioni, che sono il frutto umano del desiderio di vendetta sintetizzato nelle parole pronunciate da Marty prima che l’attacco incominci: “Avevano distrutto tutto ciò che amavo. La nostra reazione fu pià che giusta”. Frase tra l’altro, che, involontariamente, anticipa la politica americana di un decennio successiva di George W. Bush portatrice del concetto di “esportazione della democrazia”, e che trova nel finale desolato e pessimista l’incredibile preambolo di finzione a quanto accadrà, nella realtà, dopo l’11 Settembre 2001. Marty chiosa il suo racconto con queste parole inquietanti (se legate agli eventi di inizio millennio): “Ti assalgono mentre dormi... ma non puoi stare sveglio in eterno”, e quando l’elicottero atterra ad attenderlo c’è un uomo-radar dallo sguardo indecifrabile, mentre una voce-off e distorta, che nulla ha di umano, dice: Where you Gonna Go? Where you Gonna run? Where you Gonna hide? Nowhere, cause there’s no one like you left.
Body snatchers – Recensione Terza versione del cinematografica del racconto di Jack Finney, che la Warner Bros affida nelle mani di Abel Ferrara reduce dal successo di Bad 211
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Lieutenant. La produzione si aspetta il classico prodotto medio di genere e si ritrova per le mani un film sfuggente, sotterraneamente d’autore e profondamente notturno. Body Snatchers è praticamente un film in soggettiva, in cui tutta la vicenda è vista con gli occhi del piccolo Andy (che sono anche quelli di Ferrara), e in cui il racconto, in voce-off, di Marty appare come un puro pretesto narrativo. La purezza di Andy, il suo capire prima e meglio come stanno le cose, il suo modo semplice e immediato (come è per tutti i bambini) di dividere il mondo in “buoni” e “cattivi” sono il metronomo che regola la struttura narrativa del film e che detta i tempi all’istanza narrante. I lunghi carrelli laterali che partono da un fuori campo “nero” e si chiudono in un altro fuori campo “nero” (così come le panoramiche e gli altri vertiginosi movimenti di macchina), hanno il compito di sottrarre alla vista dello spettatore la sostituzione con il risultato di vedere sullo schermo solo gli effetti di quanto avvenuto. Solo nel caso di Marty addormentata nella vasca da bagno viene mostrata la nascita di una “nuova vita”, e Ferrara si serve di questa scena per imbastire la struttura ambigua della parte intellettuale e “filosofica” del film: una vita che nasce è sempre (e comunque una vita) e quindi il suo annientamento non è né indolore né esente da pietas cristiana. Ma il regista newyorkese va ancora oltre, e ambientando la vicenda in una comunità di militari, annulla in partenza le differenze, visto che questi ultimi sono spinti all’omologazione in maniera naturale, obbediscono ciecamente agli ordini e sono indottrinati a isolare i loro sentimenti: pertanto tra militari e ultracorpi le differenze sono al grado zero. La scelta di posizionare le scene del film nel passaggio tra il crepuscolo e la notte, di utilizzare colori accecanti la cui gamma va dall’arancione dei tramonti al blu elettrico della notte squarciata dalle fotoelettriche della base di Fort Daly, di inclinare la macchina da presa nei momenti di inquietudine e di tradurre nelle immagini un paesaggio cromatico irreale, va nella direzione dell’astrazione con il fine di costruire un apologo sul Male che in questo caso, non è né violento, né aggressivo, ma perversamente e silenziosamente persuasivo. Nonostante questi presupposti, nel finale Ferrara smentisce se stesso e rende ancora più ambigua la vicenda, perché seguendo la struttura del film, non è spiegabile come, sull’elicottero, Andy aggredisca la sorellastra e Tim se non attraverso uno slittamento di significato: l’ultracorpo Andy si vendica della sua famiglia precedente, sfogando (umanamente) la rabbia repressa e l’insofferenza mostrata nei rapporti familiari nella prima parte del film (già nel 212
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primo fotogramma dopo i titoli di testa viene bruscamente allontanato dalla sorella intenta a leggere). Dall’inizio alla fine di questo film magmatico, anarcoide (non rispetta, se non in parte, i codici del genere di appartenenza), passionale e irrisolto, gli occhi di Andy (e per traslato quelli del regista) sono quelli di un bambino che vuole continuare ad essere tale: non vuole “crescere” perché farlo significa omologarsi ad un mondo in cui la creatività è negata (la scena dell’asilo), in cui il corpo è una merce che si muove in ogni direzione portando con se i germi del Male, e in cui la famiglia è un insieme di individui “sconosciuti” e slegati tra loro; perché crescere, in fondo, per Andy come per Ferrara implica il dolore di dovere rispondere alla domanda: Chi sono gli altri? Chi sono io?.
Body snatchers – Sondaggi critici Nonostante l’astuta scelta di una giovane protagonista femminile come “voce narrante”, del film e a dispetto di un robusto cast comprendente Meg Tilly, Forest Whitaker e Robert L. Ermey, Ferrara non ha concesso quasi nulla alla logica della produzione mainstream: il nuovo Body Snatchers è come l’invasore che dà il titolo al film, un opera “indipendente”, risolutamente “d’autore”, insinuatasi sotto le spoglie del prodotto industriale. PAOLO CHERCHI USAI, SEGNOCINEMA, N° 63, 1993 Il film di Ferrara diviene così una delle prime fiction del dopo guerra-fredda addirittura del dopo-guerra del Golfo (l’allusione che viene fatta nel corso del racconto non ha sicuramente niente di casuale). Ci possiamo ben vedere, senza dubbio, una radicale rimessa in discussione della sola immagine positiva (almeno così la ritengono gli U.S.A.) che l’America cerca di vendere al mondo: quella delle sue operazioni militari, dei suoi generali soddisfatti, che fanno della pubblicità per un nuovo “ordine mondiale” di cui gli effetti sono accuratamente nascosti. Ma il vero spettro che, senza averne l’aria, ossessiona il film è quello della fine della Storia. Come se L’America privata di tutti i suoi nemici, si vedesse minacciata dall’implosione. La sparizione di un ordine dialettico è accompagnata dalla nascita di una forma estatica fondata sulla moltiplicazione disordinata dell’identico. Il principio adottato dal film conduce alla cancellatura delle differenze tra gli umani e il oro doppio extra terrestre. Tutti vestiti con l’uniforme, essi sfoggiano la stessa inespressività minacciosa. Fin dalla prima 213
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apparizione, l’eroe del film non può d’altronde che essere preso per un alieno dallo spettatore. È così che il film si fa testimone di una paura che appare be n reale: l’angoscia di autodivorarsi dell’America. JEAN- FRANÇOIS RAUGER, CAHIERS DU CINÉMA, N. 469, 1993 perché raccontare per l terza volta la storia degli invasori spaziali che si impadroniscono dei corpi degli uomini per trasformarli in esseri senza volontà e senza emozioni, pronti a ubbidire non si sa a chi?. Adesso Ferrara scopre, con un’originalità degna di miglior causa, che il nuovo pericolo viene dall’omologazione della morale (i presunti trasgressori in questa terza versione sono i giovani che vogliono ballare e farsi una birra con una ragazza) e che il covo di questa nuova crociata è l’esercito. Diciamolo francamente: da regista di L’Angelo della vendetta e Il Cattivo Tenente ci si aspettava di più qualche discreta atmosfera notturna (anche s ecerti controluce sanno di pubblicità) e un messaggio di un così facile moralismo antireganiano. Decisamente, il film a tesi, filosofica o metaforica, non si addice al sanguigno regista del Bronx. Semplicistico. PAOLO MEREGHETTI, SETTE, 2 SETTEMBRE 1993
Snake eyes/Dangerous game (1993) Il regista Eddie Israel (Harvey Keitel), marito di Madlyn (Nancy Ferrara) e buon padre di famiglia, sta per iniziare a girare un film intitolato Mother of mirrors, un dramma a tinte forti sulla crisi matrimoniale. Dramma che ha inizio con l’improvvisa conversione mistica della moglie, mentre il marito che non accetta la nuova situazione, visto anche il passato trasgressivo della donna, cercherà in ogni modo di riportarla a lui. I due protagonisti sono Frank/Russell Burns (James Russo) e Sarah/Claire (Madonna); il primo è amico di lunga data del regista, ma inviso alla produzione, mentre la seconda è una famosa star televisiva pronta a fare il grande salto nel mondo della celluloide. Il regista guida i due protagonisti all’interno di un percorso di recitazione che si intreccia pericolosamente con le vite reali degli attori. Egli stesso intrattiene una relazione sessuale con Sarah Jennings e più volte si scontra verbalmente con Frank. Mano a mano che la lavorazione prosegue le vite reali degli attori si intrecciano con le vite fittizie del set e portano alla luce conflitti e lati oscuri delle persone. Le vite degli attori vengono condizionate dall’uso di droghe e da uno stile 214
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di vita dissoluto. Spingendo oltre le situazioni complicate dalle loro esistenze, i protagonisti arriveranno ad una simbiosi totale tra realtà e finzione fino ad arrivare al punto di rottura: da quel momento in poi ognuno cercherà una via personale per uscire dal “tunnel” e si troverà a mettere in discussione le proprie scelte di vita, provocando traumi e generando dolore e incomprensione. Madlyn, una sera, riceve una telefonata che le comunica la morte del padre. La donna parte per New York per essere presente alle esequie e giorni dopo viene raggiunta dal marito, il quale, poco dopo il suo arrivo , le confessa di averla sempre tradita. Madlyn gli rimprovera l’inopportunità del momento e lo manda via affermando che il suo gesto toglie ogni credibilità al loro matrimonio. Dopo essersi abbandonato, al suo ritorno a Los Angeles, all’abuso di alcool e droghe, il regista Eddie Israel, ha delle visioni in cui emerge il senso di colpa, assiste ad un intervista televisiva a Werner Herzog che parla della assurdità di fare il regista, e ritorna sul set.
Il 1993 vede l’uscita nello stesso anno di due lavori di Abel Ferrara. Il successo di critica e di pubblico avuto con Bad Lieutenant, gli garantiscono l’interessamento dei grandi studios, e in particolare quello della Warner Bros che gli offre l’opportunità di girare il terzo adattamento del romanzo di Jack Finney: Body snatchers. Pochi mesi dopo la fine delle riprese di questo film, Ferrara si ritrova nuovamente su un set per girare Snake Eyes, questa volta con una produzione italo-americana garantita dalla Cecchi Gori Group insieme alla Maverick di Madonna. Harvey Keitel (secondo la versione data da Ferrara) sceglie gli attori intrecciando vita privata e set, amici e cinema: Madonna nella parte dell’attrice protagonista e Nancy Ferrara (vera moglie di Abel) nella parte della moglie del regista Eddie Israel; James Russo perché se ben diretto e addomesticato risulta esplosivo; e poi gli amici di sempre in comparsate più o meno veloci: Victor Argo (direttore della fotografia), Randy Sabusawa (produttore), Ken Kelsch, Anthony Redman e Mary Kane nella parte di se stessi. Alex Tavoularis cura la scenografia ricostruendo l’appartamento agli Hollywood Center Studios di Los Angeles e sparge le locations tra celebri locali della città degli angeli: l’hotel Chateau Marmont e il night Monkey Bar. Il set è stato costruito con un interno e parte di un esterno di una casa e arredato in modo asettico e impersonale con l’ottica di marchi come Neutra o Schindler, senza calore e cercando di stilizzare lo spazio il più possibile. Nicholas St. John, che firma la sceneggiatura, ha nel cassetto una storia di coppia molto violenta, un confronto estremo tra 215
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dissoluzione e fede ispirata alla vicenda reale di Christopher Lambert e Diane Lane. Ferrara ha invece alcune pagine su un regista e sulle difficoltà che intervengono per portare a termine un film. I due in pochi mesi, via telefono e fax, intrecciando le due idee di partenza, approntano la sceneggiatura di Snake Eyes. L’approccio con Madonna fu reciproco. All’inizio, si trattava soltanto del fatto che fosse produttrice del film, senza recitarvi. In seguito mi è sembrato che lei e James Russo facessero una coppia credibile. Per me è innanzitutto un essere umano, me ne infischio della sua immagine. Lei aveva già lavorato con Harvey Keitel, e c’era qualche cosa tra di loro. Dopo tutto è lui il regista del film dentro il film. Voleva Madonna, e allora io ho voluto Madonna... Ciò che le persone fanno nei film degli altri non mi interessa... Non si conoscono le condizioni nelle quali un lavoro viene fatto. Cerco semplicemente di vedere ciò che posso ottenere da un attore, il quale può essere pessimo in più film, ma eccellente in altri... in ogni modo non significa che egli sarà necessariamente bravo nel film che si vuole girare. Se un regista fa un film sulla creazione cinematografica, egli ci mette certamente molto di se stesso, ma spero che ci entri anche una parte degli attori, dell’operatore... Io non ho fatto la fotografia del film, né composto la musica. Ci sono molte differenti personalità implicate in questa storia. Certo ci sono cose evidenti: Nancy è mia moglie, ma la ritrovo in altri film piuttosto che qui dove lei è tenuta a interpretare il suo ruolo...73
Il film sofferto, vissuto, improvvisato, non-recitato (ma questo è il valore aggiunto del film), viene montato una prima volta, ancora durante la lavorazione e ne esce un prodotto di 230 min. improponibile alla distribuzione. Viene quindi ridotto alle circa due ore della versione distribuita nelle sale, ma attraverso litigi, discussioni e risse tra Ferrara, St. John e Redman. In questa versione viene presentato alla LIV Mostra del Cinema di Venezia, dove entusiasma la critica ma non entra nelle premiazioni. Anche a causa di questo “fallimento” la produzione lo rinnega. Infastidisce il titolo Snake eyes che indica il “craps”, il punteggio minimo ai dadi, e che lo fa considerare a priori perdente al botteghino: in USA, Francia e Gran Bretagna esce come Dangerous Game, mentre in Italia esce con il titolo originale tradotto in “Occhi di serpente” e con un incomprensibile divieto ai minori di diciotto anni. A proposito del titolo, però Abel Ferrara racconta un’altra storia: 73 Camille
Nevers e Fredéric Strauss, Intervista ad Abel Ferrara in Caiers du Cinema, n° 473,
1993
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“La gente chiede sempre come faccio un film, così ho pensato di metterlo su pellicola. Questo va anche oltre: tendiamo a lavorare con persone che sono disposti a mettere tutto sulla linea. Il personaggio di Keitel, Israel, è un regista molto stilizzato, come Adrian Lyne. Ogni cosa, ogni inquadratura per lui deve essere immersa nel fumo e le tonalità devono confondersi. E ‘importante questo, perché Israel non è un regista di culto come me. Snake Eyes è una mano perdente. Se si tirano i dadi e si fa uno più uno, questo è un tiro perdente. Quando non sono in vena di entrare in una conversazione, e la gente mi chiede che film hai intenzione di fare dopo?, dico Snake Eyes. E loro mi rispondono “wow, suona bene”, perché c’è qualcosa che suona ufficiale, ma nel frattempo non c’è mai stato un film che è uscito con questo titolo. Ma, invece, c’è un film porno chiamato Snake Eyes ed è il motivo per cui non abbiamo potuto più usare questo titolo. La MGM aveva paura di essere citata in giudizio. Il ragazzo che ha fatto quel film mi conosce dagli anni ‘70, e conosce Oliver Stone; all’epoca era pieno di risentimento perché io stavo facendo il genere di film che volevo fare, Stone stava facendo questi grandi film, ma questo ragazzo invece no, non ce l’aveva fatta e stava ancora facendo le stesse cose che aveva fatto negli ultimi venti anni. Ha cercato di contrattare con la MGM per liberare il titolo del suo film in cambio della possibilità di fare un film con loro. La MGM ha rifiutato e mi ha dato questo elenco generico di titoli, da cui ho scelto Dangerous Game, perché mi sembrava avere almeno qualche relazione con il contenuto del film.74
Il film porno di cui parla Ferrara, dal titolo Snake Eyes, è diretto da Cecil Howard nel 1985, mentre il casting di quello di Ferrara mette assieme due attori estremamente diversi e controversi, accomunandoli in un’opera che sembra essere il crocevia di due carriere asimmetriche. Madonna proviene da una serie di prove fallimentari in prodotti mainstream e soprattutto è reduce dalle feroci (e giustificate) critiche alla sua performance in Body of evidence (id., 1992) e dalle ridicole scene di sesso fetish presenti nel film prodotto da Dino De Laurentiis. Sarah Jennings che si presenta come il contraltare di Rebecca Carlson, la dark-lady assassina del film di Edel, ha nel regista Eddie Israel, l’equivalente dell’avvocato Frank Dulaney (Willem Dafoe). Da notare, che seppur lontanissimi, i due film sono costruiti attorno ad un “viaggio” (quello della creazione del film in Ferrara e quello del processo in Body of Evidence), al termine del quale la famiglia del traghettatore è destinata a sfaldarsi sotto la spinta dell’erotismo di due donne antiteti74
Liza Bear, Intervista ad Abel Ferrara, The Guardian 2 giugno 1994. Trad. nostra
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che ma che trovano nelle interpretazioni di Miss Ciccone i due estremi su cui si regge il precario equilibrio di Snake Eyes: il pacchiano e il sublime (come ha bene individuato Roberto Escobar). La struttura del film di Ferrara, con le interviste di backstage, le dichiarazioni in camera di attori e regista, le immagini del work in progress del set, rimanda a quella del controverso documentario Madonna: Truth or Dare (A letto con Madonna, 1990) di Alek Keshishian che racconta i retroscena del Blond Ambition Tour mescolando performance sul palco, vita reale, backstage dei concerti e confessioni in presa diretta sui desideri e le aspirazioni della star, evidenziando le contraddizioni del personaggio Madonna in relazione a quello della Signora Ciccone e mostrando i due opposti su cui si regge la sua maschera: da un lato quella della donna spregiudicata e disinibita e dall’altro quella della professionista meticolosa e pignola, desiderosa di essere “normale” molto legata al padre e agli affetti familiari, rispettosa e complice dei suoi compagni di lavoro e innamorata di suo marito Sean Penn. James Russo, invece, è attore ruvido e discontinuo ma che sotto la direzione di registi di forte personalità riesce a restituire una recitazione nervosa e coinvolgente. Egli necessita di ruoli cuciti addosso per poter esprimere la sua potenzialità, e il personaggio di Russel Burns è diretto discendente del Joe di Extremeties (Oltre ogni limite, 1986) di Robert M. Young. Questo film, tratto da una piece teatrale off-Broadway di William Mastrosimone, che scrive anche la sceneggiatura del film, rappresentata per la prima volta nel 1980 al Festival of New American Plays racconta di una donna (interpretata in modo memorabile dalla quarantenne Farrah Fawcett), divenuta oggetto di reiterate violenze da parte di un certo Joe, padre di famiglia e stupratore seriale, che dopo essere stata aggredita in casa, percossa e seviziata, si ribella al suo aggressore, lo riduce all’impotenza e opera il ribaltamento dei ruoli passando da vittima a carnefice. Nel film diretto dall’onesto mestierante Young, Russo riesce a costruire un personaggio credibile e convincente: né un mostro, né uno psicopatico, ma un uomo persino banale nella sua natura, tanto nel momento della violenza perpetrata ai danni della donna, sistematicamente calibrata su crescendo esponenziale, tanto nel suo passaggio a vittima vessata e umiliata, incapace di reagire e intrappolato in una pena del contrappasso molto superiore alla colpa commessa che lo indurrà alla miserevole confessione finale. Sarah Jennings e Frank/Russel Burns, per la coppia di attori sono dunque l’evoluzione di personaggi precedenti, il compi218
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mento maturo di un percorso attoriale ostico e mediocre che ha forgiato, nel tempo, una recitazione nervosa e istintuale che trova nel film di Ferrara la consacrazione di interessanti spunti espressi in precedenza. La tecnica frammentaria con cui è costruito il film non solo permette a Madonna e James Russo di esprimere il loro meglio, ma veicola anche una serie di moltiplicazione dei livelli di finzione che giustificano sia il finale visionario e ambiguo sia l’utilizzo di diversi supporti e formati (m.d.p., handycam, monitor in bassa definizione...). Anche l’illuminotecnica utilizzata in Snake Eyes è volta a rappresentare un universo concentrazionario in cui domina l’oscurità che talvolta impedisce persino la vista completa dei personaggi. L’utilizzo reiterato di una unica fonte di luce proveniente dal basso, che distorce i lineamenti e scolpisce i volti, serve al registra per costruire delle maschere “mostruose e infernali”. Non è raro vedere, durante il film, tecnici intenti a svitare lampadine a togliere tubi luminosi a smorzare fonti di luce (Ferrara inquadra questi momenti in dettaglio per sottolinearne l’importanza), per uniformare la scena su un colore neutro: un grigio anonimo e opprimente che mimetizza i corpi degli attori (sul set sempre vestiti di nero, bianco o grigio) e che si confonde con le tonalità dell’arredamento. Un anonimato della messa in scena che il regista utilizza per parodiare il cinema degli altri (come quello glamour di Adrian Lyne, figura a cui rimanda Eddie Israel nel suo modo di intendere il cinema) e che nelle poche scene diurne trova compimento equanime nell’utilizzo degli occhiali da sole sempre indossati dai personaggi. Non è casuale, infatti, che nella scena sul bordo della piscina, Sarah inviti Eddie a togliersi gli occhiali scuri e dopo averlo fatto il regista replichi infastidito: “perché me li hai fatti togliere, non vedo più niente... È troppo presto”. La notte, l’oscurità e le tenebre, infatti avvolgono l’esistenza di questi “viaggiatori” accampati su una barca alla deriva e in balia delle onde provocate dalla tormentata realizzazione del film, il cui titolo stesso Mother of mirrors, rimanda ad una superficie riflettente solo i bagliori della realtà e richiama alla specularità della recitazione e alla dicotomia tra attore e persona. L’utilizzo di piani sequenza, inquadrature fisse, interminabili campi medi in cui gli attori si muovono in continuazione urlano e sbraitano in preda all’isteria, le nervose inquadrature sfuggenti e interrotte con cui è ripreso il backstage, i rigorosi e simmetrici piani e campi con cui è mostrata la vita della famiglia Israel, grandangoli e focali corte e i primi piani sgranati e in bassa definizione utilizzati per le confessioni/impressioni di attori 219
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e regista in merito al film, sono legate tra di loro da un montaggio discontinuo, talvolta ellittico, talvolta alternato, coerentemente anarchico nel suo divenire irrisolto. Abel Ferrara, come il suo mentore John Cassavetes, destruttura la narrazione e dietro all’apparente confusione dei livelli narrativi, struttura un film complesso e articolato in cui emergono tangibili i tratti distintivi di una messa in scena a metà strada tra l’improvvisazione e la scrittura: un’esperienza che per Ferrara è cinematografica mentre per Cassavetes è teatrale. Nel 1977 il regista di origini greche dirige Opening Night (La sera della prima) che oltre ad essere un vero e proprio monumento alla moglie/attrice Gena Rowlands è anche la rappresentazione stilizzata di una messa in scena teatrale in cui recitazione e vita vissuta si confondono alla maniera di Snake Eyes. Oltre alla struttura narrativa, all’intreccio tra realtà e finzione, alla costruzione della messa in scena filmica, il film di Abel Ferrara ha in comune con quello di Cassavetes, soprattutto la riflessione crudele sulla vertigine dell’interpretazione attoriale. Lo stesso Ferrara, riprende, anche testualmente, alcuni passaggi di Opening Night per rivisitarli alla luce dei suoi eccessi verbali e filmici. Nel grande loft in cui abita la protagonista del film di Cassavetes, il compagno e attore Maurice le dice: “Tu non sei più una donna per me. Sei la prima attrice. Non te ne frega più niente dei rapporti umani, dell’amore, del sesso, dell’affetto. Io faccio solo una piccola parte, una parte che il pubblico ignora. Come posso permettermi di amarti?”. Ferrara, attraverso l’interpretazione e la dialettica greve di Russel Burns, riprende lo stesso concetto nel momento in cui l’attore Frank interrompe la scena facendo infuriare il regista e dichiara tutto il suo disprezzo verso Sarah Jennings, la star proveniente dalla televisione, incapace, a suo dire, di reggere il peso del ruolo di Claire. Sempre nella stessa scena, Ferrara, modifica e ribalta di senso, il breve monologo con cui sulla scena, Maurice si rivolge a Virginia in Opening Night: “Non mi smuovi cara, tu vorresti ma non mi smuovi di un dito. Non riesci a smuovermi. Vuoi uscire e ubriacarti? Vuoi drogarti? Vuoi rimediare qualche bel tipo alle quattro del pomeriggio? Fa pure, sono fatti tuoi...Vuoi tornare a essere giovane?”. In un monologo analogo, appesantito dal turpiloquio di Russel Burns, lo stesso, si rivolge alla moglie Claire per dichiarare la necessità di continuare a condurre la propria vita: “Se voglio restare fuori tutta la notte ci resto, se voglio sbronzarmi e strafarmi lo faccio, se voglio incularmi la prima puttana che incontro lo faccio. Ho bisogno di queste cose perché tu sei di una 220
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noia mortale, le tue tette mi annoiano, la tua faccia mi annoia...”. Se questi spunti, appaiono come una sorta di omaggio a uno dei maestri di riferimento, Abel Ferrara, modula l’impianto narrativo e la rappresentazione dei personaggi di Snakes Eyes sulle stesse coordinate utilizzate da John Cassavetes in Opening Night. Il film del regista di origine greca mette in scena la fusione tra cinema e teatro. La storia di Myrtle Gordon (Gena Rowlands) si muove lungo la falsa riga di un momento cruciale della sua carriera di attrice, ruotando intorno alla crisi di identità di una donna sull’orlo della vecchiaia che faticosamente sta cercando di allinearsi alla sua condizione esistenziale. Abel Ferrara con Claire, mette in scena, invece, una crisi spirituale, cioè la necessità per la protagonista di affrancarsi dalla sua precedente vita dissoluta per abbracciare la fede cattolica. Il film di Cassavetes inizia con una lunga inquadratura fissa che mostra la rappresentazione della commedia The Second Woman, interpretata da Myrtle e dalla sua compagnia, che, con un campo medio, mostra frontalmente sia la scena che il pubblico seduto nel teatro. Lungo la durata del film, non si vedranno altro che frammenti della stessa commedia, alternati alle prove che precedono la sera della prima. Come Cassavetes, anche Ferrara, con il suo film nel film, Mother of Mirrors, mostra solo frammenti della realizzazione dello stesso alternandoli a ciak sbagliati, a ripetizioni e a prove di recitazione. Entrambi i registi dunque inseguono la continua trasformazione della creazione artistica mostrando la metamorfosi e la ripetizione di un “gioco” sempre nuovo e sempre diverso. In Opening Night Cassavetes moltiplica i piani di ripresa, mostra il dietro le quinte, entra nei camerini, indaga i volti e gli sguardi degli spettatori seduti nella sala, scruta nei lineamenti dei corpi degli attori, mostra il dentro e il fuori dalla scena, il palco e il retro palco, e infine moltiplica i punti di vista attraverso, di volta in volta, gli occhi dello spettatore, del regista, dell’attore, del tecnico di sala. Il risultato è un movimento centrifugo di piani di rappresentazione, che nel loro continuo turbinare annullano le differenze tra realtà e finzione e mettono in evidenza la pericolosità e il rischio della recitazione. Sotto questo aspetto, sia Cassavetes che Ferrara, guardano a Samuel Fuller e al suo Shock Corridor (Il corridoio della paura, 1963) in cui l’azzardo del giornalista John Barret (Peter Breck) che si finge pazzo per farsi internare in un manicomio e scoprire l’autore di un omicidio, si tramuta nella drammatica realtà della follia indotta dall’esperienza traumatica vissuta: John Barret scopre si il colpevole, ma a 221
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distanza di tempo rimane vittima della sua scelta scellerata e sprofonda nella schizofrenia. Il film di Fuller, tralasciando l’aspetto psicanalitico, è perfettamente leggibile come la rappresentazione del rischio scelto da ogni attore e attrice, che decidendo di recitare un ruolo prendono coscienza di dover rinunciare a parte della propria identità, talvolta sottovalutando i pericoli che questo parziale autoannullamento dell’identità comporta. Ecco dunque, che il palcoscenico in Opening Night e il set in Snake Eyes non sono più lo spazio privilegiato in cui si recita la parte, ma sono un luogo imprevedibile in cui da un lato l’attore rinuncia a un po’ di se stesso e dall’altro si affida (talvolta ciecamente) nelle mani di un regista demiurgo, capace di condurlo sia verso l’assoluto che verso la follia. Eddie Israel in Snakes Eyes e Manny Victor (Ben Gazzara) in Opening Night sono due registi antitetici, che in comune hanno solo la vocazione non di guidare i loro attori, ma di gestire gli individui nel loro cammino personale. Manny Victor più volte parla da solo con Myrtle, la rassicura al telefono (anche di fronte alla moglie), la ascolta e la sprona, ma è cosciente che durante tutto il periodo della rappresentazione teatrale la separazione tra vita professionale e vita privata viene cancellata. Manny è un regista che cerca di infondere fiducia nei suoi attori, lo fa anche, estemporaneamente, negli incontri fuori dal teatro, consapevole della necessità di creare attorno ad essi un clima confortevole e amicale. Al contrario, Eddie Israel è una sorta di Caronte (è egli stesso ad ammetterlo con il racconto al figlio del brano di Ermes psicopompo), un traghettatore infernale che scientemente spinge i suoi attori a dare il peggio di sé. Lungo tutta la durata di Snake Eyes egli non infonde né fiducia né tranquillità, ma estremizza ogni comportamento, violenta le esistenze dei suoi protagonisti (di cui conosce anche le debolezze private), destruttura progressivamente la loro personalità e spinge per creare intorno ad essi un ambiente insicuro e pericoloso: egli si pone come un demone desideroso di trascinare con sé all’inferno chiunque lo circonda. Il suo unico scopo è quello di creare personaggi a sua immagine somiglianza e trovare in essi la giustificazione dei suoi comportamenti aberranti. Per questo non è assimilabile alla figura di Abel Ferrara, ma solo a quella parodistica ed irrisoria di un generico mestierante del cinema tanto avvezzo tanto all’over-acting quanto alla necessità di costruire scenari falsamente minacciosi e puerilmente maledetti. Se Israel, ricorre all’utilizzo dell’alcool, alla dissoluzione morale, e alla menzogna reiterata per allontanare da sé le paure dei suoi fallimenti, è altret222
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tanto vero, che nell’allucinazione che anticipa il finale del film egli acquista una sincerità diabolica, al punto da trasformare il suo rancore verso la moglie che lo ha appena lasciato, in una sorta di vendetta, priva di catarsi, verso l’attrice che lo ha amato (anche solo per una notte). Come Ferrara, anche Cassavetes, in Opening Night non esita a ricorrere all’allucinazione, al fine di restituire l’immagine visionaria della recitazione. Myrtle Gordon, è ossessionata dalla morte di Nancy, la giovane fan investita all’uscita del teatro all’inizio del film. È evidente che l’apparizione di Nancy sia una sua proiezione mentale che da un lato raffigura il desiderio di tornare ad essere giovane e dall’altro semplicemente il sintomo del suo precario equilibrio psichico. Cassavetes e Ferrara, riescono entrambi, nei rispettivi film, a restituire dell’allucinazione un’immagine reale e tangibile, vero momento di svolta narrativo che, in quanto imprevedibile e mai annunciato, diventa sinonimo di sincerità e verità. I finali dei due film sono, inoltre, rivelatori dell’anarchia dei loro autori rispetto al periodo in cui i film sono stati realizzati: se Opening Night si chiude con il cambio di registro, da drammatico a comico, per veicolare il tema serio della vecchiaia, muovendosi in modo antitetico rispetto al decennio in cui è stato realizzato che utilizza il registro drammatico per riflettere su contenuti seri e critici e veicolarli verso il pubblico di massa, Snake Eyes passa dalla parodia e dal grottesco alla tragedia con un cambio di registro tanto repentino quanto ambiguo, in perfetta controtendenza con gli anni ‘90 che sono quelli del successo dei film parodia da Hot Shots! (id., 1992) di Jim Abrahams alla serie di The Naked Gun (Una pallottola spuntata) realizzata tra il 1988 e il 1994. Parodia, che Abel Ferrara, con Mother of Mirrors, abilmente dissimula lungo tutta la durata di Snake Eyes, attraverso alcuni registri ben precisi: l’isteria della recitazione di Frank, le situazioni al limite del ridicolo di cui sono protagonisti Russel e Claire, l’inverosimile redenzione della stessa Claire, le parole della sceneggiatura del film che attraverso dialoghi assurdi e prevedibili, fanno il verso ad un cinema forzatamente “maledetto”, e l’esasperato utilizzo del controluce che rimanda ad estetiche pubblicitarie e che certifica l’appartenenza di Eddie Israel agli epigoni di Adrian Lyne. Sembra quasi, che per costruire il film nel film Ferrara abbia tratto ispirazione da un inedito e sconclusionato film di Larry Cohen. Special Effects è diretto dal regista newyorchese nel 1984 e vede nel ruolo da protagonista Zoë Lund, che interpreta una parte molto simile a quella di Madonna in Snake Eyes. Special Effects è 223
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una satira contorta e bizzarra sul sottobosco del cinema e ha per protagonista un’attricetta ambiziosa ma incapace, attiva nel cercare di ottenere la parte principale in un film di Chris Neville (Eric Bogosian), il quale una volta tentato un approccio sessuale con lei e sentitosi respinto, la uccide strangolandola nel suo letto mentre una macchina da presa opportunamente occultata dietro la parte riprende il tutto. Quando il marito di Mary Jane, scopre che la donna è morta e il suo corpo è stato trovato in un’auto abbandonata a Coney Island, si mette sulle tracce della donna ma viene accusato di omicidio da parte della polizia. Neville, a corto di ispirazione, ha un’idea folgorante, pagare la cauzione, liberare l’uomo dal carcere e farlo diventare protagonista di un film sulla vita della moglie deceduta. Il film di Cohen, che nella seconda parte mette in scena “una donna che visse due volte” presenta il regista Chris Neville come un uomo dalle ambizioni smisurate pari soltanto alla sua inettitudine, mentre Mary Jane, è una sorta di vittima sacrificale immolata sull’altare del successo a tutti i costi. Cohen, con cinismo e arguzia, mescola abilmente realtà e finzione, costruendo un caleidoscopio colorato ed eccentrico, in cui non c’è distinzione tra recitazione e vita vissuta. L’impianto con cui il film è messo in scena, è dichiaratamente parodistico, volto a mostrare in maniera sardonica il sottobosco del cinema mainstream e come in questo ambiente sia estremamente sottile il confine che divide il lecito dall’illecito, l’implicito dall’esplicito, l’ambizione dall’opportunismo. In Special Effects i registri dialettici con cui sono calibrati i dialoghi del film nel film (che qui si intitola Andrea), rispecchiano le stesse prerogative di ridicolo e di isteria che caratterizzano le sequenze di Mother of Mirrors. Ancora una volta, dunque, Ferrara si dimostra interessato tanto al cinema alto (Cassavetes) come a quello basso (Cohen) e dal connubio tra i due livelli nasce appunto un film come Snake Eyes, capace di tenere assieme l’asoluto del primo con il pacchiano del secondo. Esemplare dell’intento parodistico del film di Ferrara, è la scena in cui Claire e Russel vengono inquadrati in primo piano di fronte ad uno specchio diviso a metà. Abel Ferrara qui, costruisce una sequenza che nelle intenzioni si muove sulle dinamiche horror ma che nella realtà dei fatti viene ridicolizzata e depotenziata dal monologo di Russel in essa contenuto. Dopo aver spaccato la plafoniera, acceso una torcia, e illuminato il viso spaventato di Claire l’uomo si lancia in questo sproloquio: “ Vuoi sapere perché sono così? perché tu ho visto succhiare il cazzo al marito della tua migliore amica senza batter 224
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ciglio. Ti ho visto sniffare coca insieme a dirigenti di industria, tranquilla come se fossi a scuola dalle suore. Ti ho visto rubare i soldi dal portafoglio di tua madre. Ti ho visto impegnare la fede di tua nonna solo per farti una risata. E ho sempre saputo... che se avevi potuto fare queste cose, avresti potuto fare qualsiasi cosa”. L’incongruenza, che certifica l’intento parodistico del regista, è evidente attraverso l’impossibilità che l’uomo possa essere sempre stato presente agli eventi appena raccontati, a meno che, come sembra suggerire il prosieguo della scena, Russel non rappresenti una sorta di coscienza della donna, che sa essere al contempo benigna e maligna. Subito dopo infatti, attraverso le indicazioni di Israel, regista demiurgo, Russel rinfaccia alla donna la sua ipocrisia dicendole: “Vuoi portare la pace nel mondo? Dovevi essere Madre Cabrini…”. Riprendendo i dettami registici antecedenti in cui Israel, per spiegare a Frank il contenuto di questa sequenza gli dice: “È un battaglia tra lui ed io. Lei ti seguirà. Lui o Dio? Vuoi servire Dio oppure me?”, a sottolineare la volontà parodistica di Ferrara, intercorre anche l’utilizzo ambivalente di mezzi scenici come il ciak su cui di volta in volta compare il nome di Ferrara alternato a quello di Israel, così come la rappresentazione della realizzazione di un film sia l’equivalente di un viaggio infernale è certificato da un veloce e scomposto movimento di macchina che, durante le scene in questione, va a inquadrare il volto mefistofelico di Eddie, illuminato da una luce rossa e isolato in uno spazio nero. Nel film di Ferrara, oltre allo scontro sessuale, la ricerca spirituale vive parallelamente alla violenza carnale, che porta al non-recitare sul set (quando Frank sodomizza Sarah) e diventa elemento scatenante dei conflitti che da sempre sottendono la relazione uomo-donna. Il conflitto violento e parossistico che vivono i personaggi di Mother of mirrors, dal set “penetra” nella vita dei due attori portando il loro rapporto alle estreme conseguenze. Il matrimonio è una guerra di corpi e di anime, così come lo è qualunque rapporto uomo-donna: corpi che si devastano con la droga e l’alcool, corpi bagnati dallo sperma e macchiati dal sangue (in una scena Eddie racconta a Sarah che durante un amplesso con sua moglie il naso ha cominciato a sanguinargli e le gocce bagnavano il volto di lei e lui l’ha riempita con il suo sperma); corpi esposti e mostrati come unico legame possibile per non perdere la propria identità. Lo spirito invece, alimenta le tensioni mistiche della donna che, negando il proprio corpo all’uomo, da un lato spinge questi alla disperazione destabilizzando il suo equilibrio istintuale, e dall’al225
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tro invece, trova la consapevolezza di essere stata toccata dalla Grazia Divina. Secondo Abel Ferrara un compromesso tra Dio e il possesso e quindi tra spirito e carne è in definitiva impossibile. Bisogna scegliere e avere la consapevolezza delle conseguenze che comporta qualsiasi decisione. Ferrara questo lo sa, e con Snake Eyes prima di tutto interroga se stesso, e per fare ciò non esita a mettere, coraggiosamente, in scena la sua vita coniugale (all’epoca stava per separarsi dalla moglie Nancy). Il prologo del film, a tal proposito, appare programmatico: in cinque stacchi, viene mostrato un quadretto familiare in cui emergono crepe e distinguo e in cui, nonostante l’atmosfera idilliaca e malinconica (dettata dalle note della Sonata Minore OP.2 di Handel) si avverte sin da subito come la tragedia e la separazione siano dietro l’angolo. Il tempo, è quello necessario a Eddie per compiere il viaggio a Los Angeles, poi a New York, dietro di lui, resteranno solo le macerie di una tranquilla vita familiare. La distruzione degli affetti e l’impossibilità di condurre in fondo una relazione stabile e monogama, espressa nel finale dalle parole di Eddie ripreso in primo piano con la handycam, hanno i segni premonitori nel prologo del film. Snake Eyes si apre con l’inquadratura frontale in campo medio con marito, moglie e figlio a tavola immersi nel silenzio: la scena ha i colori caldi e densi della sera, mentre le note di Handel restituiscono del nucleo familiare un’immagine rassicurante e ordinaria. Segue una breve panoramica da Madly a Eddie (e viceversa), ripresi in primo piano mentre l’uomo scherza sulle qualità culinarie della moglie. Uno stacco netto mostra un piano fisso, a mezza figura, dell’amplesso tra marito e moglie nella loro stanza. Un altro stacco con panoramica mostra Eddie nella camera del figlio, si avvicina al letto dove dorme il bambino e gli sussurra: “Non mi dimenticare bambino mio, sono il tuo papà”. L’ultimo stacco è costituito da una breve panoramica che mostra Eddie uscire di casa a New York, che diventa un totale a piano fisso, in cui si vede il regista aggiustarsi il cappotto e nella notte innevata avanzare verso la macchina da presa fino ad oscurare l’inquadratura. Dal nero “totale” ai titoli di testa sulle note “profetiche” di Blue Moon: “Tu sai che baci mi sapeva dare, e anche tu non puoi dimenticare, forse tu senti la malinconia... forse tu sai che non ritorna più...” e il viaggio verso l’inferno può cominciare. Il bambino è stato avvertito, il nero è emerso per riempire lo schermo, e New York è rimasta sullo sfondo in modo che il prologo assuma i toni autobiografici della separazione in atto tra Abel e Nancy Ferrara. Il regista di Mother of 226
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mirrors, è quindi, necessariamente una sorta di “doppio” antitetico di Abel Ferrara. La natura parodistica e grottesca di Eddie Israel è necessaria allo stesso Ferrara, per mettersi in un’ottica esterna ad osservare il problema (che lo riguarda in prima persona), ed è raccontata anche attraverso l’auto-ironia, come dimostra il lungo piano-sequenza all’interno del camper di Frank, in cui il regista (veramente difficile da prendere sul serio) spiega così, all’attore, le sue esigenze: “Fin dall’inizio del film ti ho chiesto di darmi il massimo. Mi stai dando molto ma io ti chiedo qualcosa di più. Voglio la disperazione. Sappi che i produttori non ti volevano nel film. Io ti ho sostenuto e adesso tu non mi devi mollare. Devi scavare fino in fondo, fino all’inferno. Prendi più coca, più alcol se necessario, o prendine meno... ma dammi quello che mi serve!”. Il cervello di Eddie, lungo tutto il film, partorisce idee malsane e finalizzate ad evidenziare i lati peggiori del comportamento umano muovendosi attraverso i peggiori luoghi comuni: dall’accenno alla critica del consumismo (Eddie a Frank: “Le battute devono sanzionare lo stile di vita americano”) passando per la recitazione infantile di Frank istigata dal regista, fino alla rappresentazione del suo pensiero che diventa realtà. La scena dello stupro di Frank ai danni di Sarah sul set di Mother of Mirrors è preceduta da un’inquadratura fissa in campo lungo, ripresa con un grandangolo, che mostra l’esterno degli studi cinematografici: Israel la attraversa in diagonale, mentre una voce-off esprime i suoi pensieri tra cui: “Voglio vederti cercare di ottenere godimento sessuale da lei”, parole rivolte a Frank che subito dopo non esita a concretizzarle nella violenza carnale ai danni della donna. Un’inquadratura-cervello, ripresa con il grandangolo secondo i dettami kubrickiani di Shining (id, 1980), volta a dimostrare come il mestiere del regista sia un esperienza folle e allucinatoria, una scelta di esseri umani “anormali” che si confrontano giorno dopo giorno con il Male e costretti a istigare altri esseri umani a trasformarsi in ciò che non sono; situazione che trova conferma nelle parole pronunciate da Werner Herzog nel documentario75 che Israel vede in televisione nel pre-finale del film, in cui il regista tedesco sul set di Fitzcarraldo (id., 1981) dichiara: “Fare il regista non è quello che un uomo dovrebbe fare nella vita”.Momento, questo, in cui Eddie Israel, che è a letto con la hostess, ha definitivamente perso il controllo tanto della sua vita quanto del film che sta dirigendo e che funge 75 Burden
of Dreams di Les Blanke Maureen Gosling
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da preambolo obbligato al finale ambiguo in cui il colpo di pistola sparato da Burns in faccia a Claire viene solo udito e non mostrato e in cui lo spettatore si interroga se non sia stato Frank a sparare a Sarah. Il film si chiude sulle note di Blue Moon, così come si era aperto, le cui parole dicono: “Tu sai che baci mi sapeva dare, e anche tu non puoi dimenticare, forse tu senti la malinconia... forse tu sai che non ritorna più...”
Snake eyes/Dangerous game – Recensione Vite e cinema, immerse e indistinte, in un inferno quotidiano in cui il set non è più spazio scenico ma ring esistenziale. Abel Ferrara con Snake Eyes/Dangerous Game confeziona un film provocatorio, manieristicamente a tesi, impreciso e slabbrato, ma anche sanguigno, pulsionale e vitale. Perennemente in bilico tra l’assoluto e il ridicolo (involontario) il film di Ferrara ha il respiro corto per quanto riguarda il “maledettismo” di facciata ma è profondamente sincero nel raccontare la vicenda personale e umana del regista Eddie Israel, vero punto focale di una narrazione che relega le sequenze di finzione di Mother of mirrors nell’ambito della parodia. Il dolore reale e l’incomprensione coniugale vissute da Madlyn e Eddie sono il vero punto di analisi critica di un film che si interroga sull’impossibilità di amare totalmente a causa degli irrisolvibili e ineliminabili egoismi personali. La realizzazione di un film è un’impresa impossibile, un viaggio infernale compiuto da uomini e donne sull’orlo di una perenne crisi di nervi, ma non è nulla, anzi è attività ridicola, se messa a confronto con le difficoltà della vita reale, con l’impossibilità di essere sinceri sino in fondo, anche e soprattutto, con chi si ama e con la tentazione perenne del materialismo che annulla la spiritualità e mangia l’anima. In Snake Eyes la macchina da presa si muove nervosa e descrive linee spezzate e contraddittorie, fa emergere volumi bidimensionali e schiaccia i personaggi su uno sfondo grigio e asettico quando riprende i vari ciak e le varie scene ambientate nel film nel film; riacquista una sua compostezza, un rigore di matrice bressoniana, invece, quando racconta il dramma, tutto sottotraccia e agito per sottrazione, della famiglia Israel. A Ferrara interessano gli esseri umani, con le loro debolezze e fragilità, con la loro 228
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voglia di combattere sempre e comunque, con la loro incline vocazione all’autodistruzione. A prescindere da chi sia chiamato ad interpretare i personaggi vergati da St. John e plasmati da Ferrara, ogni film del regista newyorkese sorprende (nel bene e nel male) per la sua capacità di essere “vero” e per l’intensità (anche se talvolta eccessiva e sopra le righe) con cui affonda il bisturi nei gangli esistenziali di uomini e donne profondamente “normali” (indipendentemente dalla loro professione o dal ruolo sociale che ricoprono). Snake Eyes, non solo non fa eccezione, ma anzi, se possibile, si spinge ancora più in la nel tentativo, irrisolto ma coraggioso, di annullare il confine tra recitazione e vita vissuta, reinventando le pagine migliori scritte sull’argomento da John Cassvetes con Faces e Opening night. Madonna e James Russo nella loro grezza interpretazione di personaggi ruvidi e scostanti, danno al film una passionalità e una vitalità fuori dal comune e rendono l’impianto narrativo dell’opera di Ferrara profondamente coerente nella sua imperfezione.
Snake eyes/Dangerous game – Sondaggi critici È un apologo aspro e stoico sull’ineluttabilità della disperazione in una sconvolgente confusione tra vita e arte. Un bellissimo film, assai poco americano nel senso di un legame con le ricette di Hollywood, con Madonna suggestivamente chiusa nel suo mistero, James Russo isterico e graffiante e soprattutto un Keitel di grande annata. Lui di registi ne ha conosciuti tanti nella sua lunga e formidabile carriera di attore e qui, con un colpo solo, si vendica di tutti. TULLIO KEZICH, CORRIERE DELLA SERA, 28 NOVEMBRE 1993 Tra Dio e Belzebù chi sceglie alla fine Abel Ferrara? In Il cattivo tenente (1992) aveva costretto Harvey Keitel a stare in bilico sulla linea che separa il Bene dal Male, il sublime dal pacchiano. Risultato? Aveva finito per fare inciampare il film: invece di fargli spiccare il volo, l’aveva precipitato nel ridicolo. Il sesso, la droga, il peccato, la bestemmia: agitandoli ben bene, Ferrara mischiava tutti questi ingredienti demoniaci e notturni, per poi contaminarli con il divino, il pentimento, l’estasi. Così capita anche per Occhi di serpente, affetto da maledettismo come Il cattivo tenente, e ugualmente in bilico tra il sublime e il pacchiano. Di nuovo Keitel viene in soccorso di Ferrara. Anche Madonna, persino 229
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Madonna sostiene il proprio ruolo meglio di quanto quel ruolo si meriterebbe. E il film? E la poetica di Ferrara? Al di là dei meriti di Keitel e di Madonna, al di là dei demeriti di Russo, Occhi di serpente ha i limiti de Il cattivo tenente, ma senza averne per intero né la generosità (per quanto banale) né la disperazione (per quanto compiaciuta). ROBERTO ESCOBAR, IL SOLE 24 ORE, 5 DICEMBRE 1993 Mescolando per l’incertezza dello spettatore, le scenografie del film agli ambienti reali, Abel Ferrara percorre arditamente la passerella d’un racconto che, rinunciando allo sdoppiamento dei personaggi, simili nella vita e nella finzione,fida sul ritmo implacabile che toglie libertà d’espressione agli attori. Mancandogli l’ironia sensibile che fa di Scorsese un vero cineasta, Ferrara deve limitarsi al grand-guignol, al racconto a tinte fosche di una mancarta redenzione con Madonna (brava nella parte drammatica) intenta a recitare l’atto di dolore. ALFIO CANTELLI, IL GIORNALE, 28 NOVEMBRE 1993 Attenzione: film nel film. Accanto alle categorie e alle stellette con cui si infiocchettano le recensioni, bisognerebbe trovare il simbolo per il più spericolato sottogenere mai escogitato dal cinema d’autore: il film allo specchio, il cinema che si fa doppio iperbolico e magari diabolico della realtà. Il genere non è nuovo ma bisogna vedere l’impressionante Occhi di serpente per capire fino a che punto ogni autore lo reinventa a propria immagine e somiglianza. Che per Ferrara significa spingersi al di là di ogni eccesso, nel più totale ( evincente) disprezzo del ridicolo. Umanamente ci sarà poco da stare allegri ma consola sapere che in un mondo del genere nasce ed emerge il talento di Ferrara , regista in costante ascesa nonché capace di offrire a Madonna, quasi sempre gonfia, pesta, gli occhi lucidi e imploranti, due dita di capelli neri sotto quelli tinti, il primo ruolo importante di una carriera fin qui da dimenticare. FABIO FERZETTI, IL MESSAGGERO, 13 NOVEMBRE 1993 Un Abel Ferrara inedito, in ogni caso lontanissimo dalle sue ultime esperienze, il più vicino che mai al suo immediato referente Nicholas Ray tra frazioni di teoria e concretezza (morale e pratica), che risolve in un’aspra dimensione drammaturgica un altro dilemma impossibile sui legami tra la recitazione e la vita. La storia è quella del rapporto, malato ma non troppo, di un regista con gli attori sul set del suo film, nel quale descrive il feroce disfacimen230
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to di un matrimonio borghese tra vizi, ossessioni e redenzioni. Naturalmente si avvia, in dimensione globale, un traumatico processo di identificazione, disseminato sul set di tradimenti, gelosie e varie estensioni dell’aggressività mentre le riprese procedono in climi di “realismo” crescente e quasi di psicodramma, dove i ruoli si perdono sul confine sempre più sottile tra la vita e la finzione. CLAUDIO TRIONFERA, IL TEMPO, 12 NOVEMBRE 1993 Bene, siamo arrivati al punto di non ritorno. Con Occhi di Serpente le posizioni si definiranno: gli estimatori di Abel Ferrara si convinceranno del suo genio da qui all’ eternità; coloro che da un po’ di tempo nutrono sospetti decideranno di non vedere mai più un suo film. Noi apparteniamo alla seconda setta: pensiamo che Ferrara sia un regista curioso ma estremamente sopravvalutato, e che Occhi di serpente sveli una volta per tutte la natura superficiale, manierista e fondamentalmente balorda del suo cinema. ALBERTO CRESPI, L’UNITÀ, 16 NOVEMBRE 1993 Valutazione Pastorale: il gioco al massacro che il regista fa con i suoi personaggi e che si ritorce alla fine anche contro di lui potrebbe far pensare ad una ambiziosa quanto sottile contaminazione del principio mefistofelico del celebre Dorian Gray di Wilde. Ma qui, anzichè avere un ritratto che assorbe la malvagità del protagonista che rimane giovane, abbiamo un regista che pretende di trasferire le sue pulsioni più ignobili sull’attore appositamente scelto; così come usa l’attrice non solo come oggetto di piacere, ma come complice nell’esasperare la disperazione, sia sulla scena che nella vita dell’attore. Il meccanismo perverso, una volta innescato, trascina invece fatalmente “il regista” al di là del ritratto di coppia che vuole creare per lo schermo, ed egli si trova con la vita familiare (che gli serve in definitiva come comodo alibi perbenista e borghese) in frantumi. Il film, e qui risiede certamente uno dei suoi aspetti interessanti, lancia delle pesanti accuse sia al consumismo che all’edonismo privo di valori che ha portato la società americana ad annientare l’istituzione familiare. Importanti le figure femminili: quella di Claire, nel rimaner ferma nella sua decisione, dolente vittima di un bruto che è però disperatamente solo nel suo vuoto di valori e di affetti, e che affronta una sorta di martirio (la sodomizzazione), piuttosto che ridiscendere nel girone infernale dove il compagno l’aveva trascinata, e quella di Madlyne che affronta il regista radiografando impietosamente la sua sostanziale doppiezza e vigliaccheria di padre, ma soprattutto di educatore. Ottima recitazione, montaggio un pò laborioso in 231
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avvio, ma molte scene sono girate con grande efficacia; valga per tutte la drammatica sequenza della confessione del tradimento che Eddie fa alla moglie. L’estremo realismo della vicenda, la crudezza del linguaggio e il clima di disperazione e di sofferenza che aleggia su tutta la pellicola, non consentono di accettare questo lavoro. COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
I know you want to kill me (1994) La canzone I know you want to kill me è contenuta in Welcome to America, il sesto album del rapper di Philadelphia Schoolly D. Disco in cui il musicista offre la sua versione personale di salvezza per un paese che ha un disperato bisogno di riabilitazione. Abel Ferrara viene chiamato dall’amico Schoolly D. per dirigere il videoclip di I know you want to kill me, canzone dal testo molto duro e apertamente schierata contro L’NCAAP National Association for the Advancement of Colored People (Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore), una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili fondata negli Stati Uniti il 12 febbraio 1909, la cui sede principale è a Baltimora nel Maryland. Il video, prodotto dalla Sony, viene prima realizzato e poi successivamente censurato a causa del fatto che nel testo della canzone il Presidente in carica Bill Clinton viene definito come una “puttana” e un “punk”. Il video è tutt’ora inedito.
The addicction (1994) Una voce fuori campo commenta lo scorrere di diapositive relative al massacro di My Lay. L’aula in cui si proiettano le istantanee appartiene alla New York University. Kathleen Conklin (Lily Taylor), studentessa di filosofia, scambia il proprio parere con l’amica Jean (Edie Falco), sulla lezione appena seguita e sui rapporti tra responsabilità individuale e colpa collettiva. Mentre si dirige verso 232
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casa, dopo aver salutato l’amica, Kathleen viene “agganciata” da Casanova (Annabella Sciorra), una donna in abito da sera che la trascina a forza giù per una scala buia e qui, dopo averle intimato di mandarla via, aggredisce la studentessa attonita mordendola sul collo. Kathleen terrorizzata si reca in ospedale per farsi medicare, poi si ritira nel suo appartamento e si abbandona agonizzante sul letto. Il giorno dopo, durante una lezione, viene colta da malore, nuovamente ricoverata in ospedale le viene diagnosticata una forma di anemia e prescritto un ricovero di qualche giorno per accertamenti. Durante la notte Kathleen fugge dall’ospedale e si abbandona lungo le strade alla ricerca di sangue. La sua prima vittima è un derelitto che giace catatonico sul marciapiede: Kathleen gli preleva con una siringa del sangue dal braccio, per poi, una volta tornata a casa iniettarselo nel suo. Tornata all’università, con atteggiamento seducente invita il proprio relatore (Paul Calderon) per una serata fuori in cui parlare della tesi imminente. Dopo una serata silenziosa trascorsa in un locale vecchio stile, Kathleen invita l’uomo a casa sua, lo seduce, lo bacia, e infine gli offre una dose di eroina prima di succhiargli il sangue. Nei giorni successivi, Kathleen alterna lezioni all’università, in cui, agli occhi dell’amica Jean, appare sempre più smagrita e cagionevole di salute, con una serie di aggressioni notturne in cui fa vittima del suo contagio una studentessa di antropologia (Kathryn Erbe) incontrata in biblioteca, un ragazzo appartenente ad una gang (Fredro Starr) e infine la stessa amica Jean. Una sera Kathleen incontra per la strada un uomo che recita Proust in soliloquio: una figura affascinante e inquietante, di nome Peina (Christopher Walken), un vampiro, che nel corso del tempo ha imparato a controllare il suo istinto e che, dopo aver invitato Kathleen nel suo loft, la istruisce con nozioni teoriche e consigli pratici sulla deontologia vampiresca. Subito dopo la morde sul collo e succhia una grossa quantità del suo sangue. Kathleen, traumatizzata dall’esperienza appena vissuta vive un momento di dolore e desolazione unito ad una forte crisi d’astinenza. Progressivamente la sua visione esistenziale diventa sempre più torva ed inquieta, così che decide di annegare il suo malessere nel completamento della tesi. Una volta discussa la tesi, invita il Rettore dell’università (Jay Julien), professori e amici alla festa di laurea per festeggiare il titolo appena conseguito. La serata, ben presto si trasforma in un’orgia vampiresca, i cui eccessi, spingono Kathleen sulla soglia di un overdose di liquido ematico. Ricoverata in ospedale, la donna, distrutta dal dolore e dalla disperazione cerca di suicidarsi attraverso la luce, ma il suo tentativo interrotto dalla comparsa di Casanova, che la richiama suo malgrado, al rispetto delle regole. Kathleen chiede l’ausilio di un sacerdote: vuole confessarsi, fare la Comunione e invocare la morte. Padre Robert Castle (se stesso) la assolve dai suoi peccati e le somministra la particola. L’ultima scena, mostra la donna che sotto un cielo pallido e lattiginoso depone un tulipano sulla propria tomba. 233
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Nonostante non siano mai nominati come tali, in The Addiction, i vampiri fanno i vampiri: bevono sangue, hanno paura del sole e del crocifisso, non si riflettono negli specchi. Il rispetto dei codici di genere è totale, ma si tratta solo di mantenere l’involucro, la confezione del “film di vampiri” per nascondere una riflessione bruciante e oscura sul contagio del Male. Una riflessione che non è statica ma ha il dinamismo suadente e scorrevole di un piccolo film indipendente che dura appena 82 min. The Addiction è una riflessione terribile e angosciante sulla natura umana. È lo specchio incrinato dove l’umanità riflette i suoi peccati. È la notte lunga e indefinibile di una società che davanti a sé ha il nulla e dietro di sé ha il precipizio della dipendenza. Un film che nasce dalla morte ma che termina con la resurrezione. Un film di vampiri, dove le creature stokeriane sono solo lo strumento per affrontare il Male che è nell’uomo, e dove il genere serve per calcare la mano sugli aspetti salvifici della fede e per concretare ansie e paure dell’uomo contemporaneo. E renderli accessibili a tutti. È un film privato, intimo, tanto che dopo la partecipazione al festival di Berlino nel 1995, sparisce dalla circolazione. Ferrara e St. John ne sono i proprietari dei diritti e i distributori e con queste premesse fanno di tutto per cercare di tenerlo nascosto e di custodirlo come una reliquia. Prodotto dalla October Films è un film fatto e vissuto tra amici che non sono stati pagati se non con la promessa di un lavoro successivo. Il budget non esiste, nel senso che lo stesso Ferrara ha più volte ammesso di non sapere e di non curarsi di quanti soldi sono stati spesi per girarlo. Nel Settembre del 1994 tutto il cast si ritrova a New York per un mese di prove. Tra la fine del mese e l’inizio di Ottobre il film è girato in diciotto giorni, a volte improvvisato, ma sempre tenendo fede alla sceneggiatura di St. John.; scritta dodici anni prima, poco dopo la morte del figlio ne è in qualche modo la trasposizione su carta della sua sofferenza e contemporaneamente l’interrogarsi sulla rabbia e l’oscurità che vivono nell’uomo. Nicodemo Oliverio ricorda che The Addiction è iniziato con un concetto, e cioè che il vampirismo è una metafora per il Male che si annida in tutti noi e deve solo essere risvegliato. “Questo è quello che ci ha permesso di sederci e scrivere: tutto mi sembrava così chiaro per me, così ovvio e così perfetto. E ‘stata molto veloce la scrittura, meno di un mese. L’ho dato ad Abel, e ogni tanto si provava a produrre il film senza riuscirci mai. Poi un giorno mi ha detto che stava accadendo. Un giorno, Abel si alzò e disse: “Sai una cosa? Penso che stiamo andando a fare quel 234
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film”. La lavorazione è partita molto velocemente, circa due settimane dopo la chiusura della sceneggiatura. Il vampirismo è solo un simbolo. Sotto di esso, questo film parla del Male che si incarna in ogni individuo. Ci deve essere un motivo per cui siamo in grado di fare cose che pensiamo non saremmo mai in grado di fare. Voglio dire, si può parlare della Seconda Guerra Mondiale in Germania. Possiamo parlare della Turchia e del massacro degli Armeni. Possiamo parlare del Vietnam. Possiamo parlare della Jugoslavia oggi e quello che sta succedendo lì. Ci deve essere qualcosa nelle persone che permette loro di fare quelle cose. L’immagine del vampiro sembra perfetta, perché è qualcosa che non si cancella, che è nella memoria di tutti. Abbiamo questo personaggio che è molto educato, che dovrebbe essere molto saggio - certamente lei sa molto e ed è colta - che cade preda degli istinti, dello stesso Male che accomuna tutti gli altri. Sembra che noi, esseri umani, non impariamo mai; ho scritto un pezzo della sceneggiatura in tal senso raccontata dal “nostro” vampiro: giriamo intorno e intorno, ripetiamo gli stessi errori e non impariamo mai”.76
Ferrara, questa volta rispetta (quasi) alla lettera la sceneggiatura di St. John e si limita ad apporre alcune varianti nella caratterizzazione di alcuni personaggi. Nello script originale dell’amico, Casanova era un giovane uomo e Peina era una donna.77 Ferrara mantiene i caratteri, i nomi e i ruoli ma costruisce il personaggio di Casanova come un essere androgino e quindi asessuato, e quello di Peina come un uomo effeminato (basta vedere come gioca con i suoi lunghi capelli). Il film è illuminato, ma sarebbe meglio dire “oscurato”, dal bianco e nero di Ken Kelsch, che possiede una profondità di campo penetrante. La densità dei neri lascia poco spazio al bianco che viene sostituito da un’ampia gamma di grigi. La luce espressionista scelta da Kelsch e Ferrara taglia simmetricamente i volti dei personaggi evidenziando il dualismo che li abita. Evidente e funzionale, a questo proposito, la scelta di illuminare il volto di Kathleen dopo la vampirizzazione dividendolo nettamente a metà con un lato sempre in luce e l’altro sempre in ombra. Il bianco e nero del film è asimmetrico, spesso mostra volti coperti di linee nere (i quadretti della grata sul colto di casanova), immagini tagliuzzate nella loro continuità, sprazzi di luce obliqua a illuminare anfratti oscuri o volti estremamente pallidi. I vampiri succhiano il san76
Maitland McDonaugh, The Addiction of Evil, Fangoria 147, Ottobre 1995, pp.15-16 in Brad Stevens, Abel Ferrara the moral vision, Fab Press, Londra, 2004, p.207, traduzione nostra 77 Brad Stevens, op. cit., p.215, traduzione nostra
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gue ma non lo nominano mai, il gesto è veloce, istintivo, animale così come il gorgoglio che ne scaturisce è un rumore crescente e ovattato, mentre il liquido ematico è nero, sporco, oscurato dalla presenza costante della luce morta della luna. I vampiri si muovono lungo strade i cui opposti marciapiedi sono percorsi tanto dalla gente comune quanto da gang minacciose e invadenti che si muovono al ritmo di un rap violento e tribale (come dimostra la scelta degli Onyx e dei Cypress Hill); il loro intento è quello di confondersi, mimetizzarsi, perché solo così possono essere garantiti tanto l’anonimato quanto la sopravvivenza. È lo stesso Peina nel dialogo con Kathleen a confermarlo: “Bisogna sapersi mescolare, non ostentare la propria diversità”, perché ciò che conta è solo sopravvivere (prima di tutto a se stessi) e anestetizzare il dolore. Le domande alte poste dal film, convivono perfettamente con l’estetica bassa della pellicola. La necessità di risolvere l’angoscia che lo attanaglia, porta il regista a fare astrazione e a mettere in luce i concetti che vuole evidenziare attraverso un linguaggio che è teoria pura (in cui la filosofia è il suo uso hanno un chiaro intento parodistico) e che attraverso il genere diventa accessibile a tutti e si “abbassa” a spiegazione di se stesso. L’uomo è un “collaborazionista” (così Casanova appella Kathleen dopo il morso), perché non rigetta il male. Casanova si rivolge così alla giovane studentessa: “Ordinami di andare via, fallo con decisione”, ma la giovane si limita a pregare la donna di non farle del male, perché ella è preoccupata per l’incolumità del proprio corpo e non per quella dell’anima: l’abiezione, la dipendenza sono dunque responsabilità individuali nonostante la mancanza di consapevolezza. Lo stesso discorso vale per la Storia, fattore di cui tutti gli uomini sono inconsapevoli protagonisti main cui è sempre è solo il singolo a pagare (spesso inopinatamente) per le colpe della collettività. L’orgia dei vampiri è dunque l’orgia della scrittura (filmica e non) e della Storia. Una Storia dove il Male “si propaga in cerchi sempre più ampi”. Una Storia che nel film vive solo attraverso fotografie e servizi televisivi e il cui orrore vero, ne rende impossibile la rappresentazione finzionale. Una Storia che è “specchio coperto” della coscienza umana, che tende a dimenticare il Male in favore di desideri e bisogni: Kathleen all’inizio vede il massacro di My Lay e non capisce come l’uomo possa commettere certi crimini; dopo vampirizzata, il contagio del Male le apre gli occhi su come tutto ciò sia stato possibile. Per farci conoscere il Male, Ferrara e St. John fanno passare lo spettatore attraverso 236
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lo schermo della Storia, dove le immagini si riflettono sul volto di chi guarda distorcendolo (come è per Kathleen quando guarda le diapositive), ma dove per essere narrate in tutto il loro orrore, serve la voce di un vero uomo di fede come Padre Robert Castle, per renderle reali e compartecipate. L’orrore filosofeggiato da Kurtz (Marlon Brando) a Wilard (Martin Sheen) in Apocalypse Now (id., 1979) di Francis Ford Coppola è un lungo filo elettrico che si dipana dalla giungla vietnamita ed è direttamente collegato con il cuore dell’uomo di The Addiction, un uomo che fa del libero arbitrio non una capacità di scelta, bensì la giustificazione della sua propensione al Male: “Io ho visto degli orrori, degli orrori che ha visto anche lei, ma non ha il diritto di chiamarmi assassino: Ha il diritto di uccidermi... ha il diritto di fare questo, ma non ha il diritto di giudicarmi. È impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa ...l’orrore ha un volto e bisogna farsi amico l’orrore. Orrore, terrore e morale sono i tuoi amici, ma se non lo sono... sono dei veri nemici da temere. Ricordo quando ero nelle forze speciali, sembra migliaia di secoli fa, andammo in un campo per vaccinare dei bambini. Lasciammo il campo dopo aver vaccinato i bambini contro la polio. Più trdi venne un vecchio, correndo, a richiamarci... piangeva, era cieco. Tornammo al campo, erano venuti i Viet-cong e avevano tagliato ogni braccio vaccinato... erano là in un mucchio... mucchio di piccole braccia, e mi ricordo, mi ricordo che ho pianto come una... madre. Volevo strapparmi i denti di bocca, non sapevo cosa volevo fare; e voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo. Poi mi sono reso conto, come se fossi stato colpito da un diamante, una pallottola di diamante in piena fronte, e ho pensato: mio dio che genio c’è in questo, che genio, che volontà per fare questo... perfetto, genuino, completo, cristallino, puro. E così mi resi conto che loro erano più forti di noi, perché loro o sopportavano... questi non erano mostri, erano uomini, quadri addestrati, uomini che combattevano col cuore, che hanno famiglia, che fanno figli, che sono pieni d’amore, ma che... avevano la forza … la forza di fare questo. Bisogna avere uomini con un senso morale e che allo stesso tempo siano capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere, senza emozione, senza passioni, senza discernimento. perché è il voler giudicare che ci sconfigge...”. The Addiction, riflette sul Male attraverso la filosofia, questa nel film ha una doppia valenza: è “il balsamo di ogni avversità” come dice Kathleen, ma è anche lo strumento 237
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per negare e affermare, allo stesso tempo, il libero arbitrio. Come ricorda Casanova, nel finale del film citando Spraul: “Non siamo peccatori perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo peccatori. In termini più accessibili, non siamo malvagi per via del male che facciamo, ma facciamo del male perché siamo malvagi”. Quella dell’uomo quindi è una dipendenza conclamata dal Male e per metonimia dal peccato; la sua droga è il Male e la dipendenza da esso il suo oblio. È un bisogno dell’uomo, costante e opprimente, quello di sprofondare nel peccato, che diventa qui natura umana incarnata dal vampiro che prima del sangue succhia la linfa vitale. Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, e si sente dipendente, non è però altro, originariamente che la natura.78 Secondo Feuerbach e il modernismo quindi, la dipendenza dell’uomo è legata alla natura. L’uomo vive per mezzo della natura, ma non la rispetta più e quindi distruggendola distrugge se stesso: questo si evince anche dal film di Ferrara. In The Addiction gli spazi sono cementificati, la natura è ridotta a poche fronde ondeggianti inquadrate dal basso o che stagliano la loro ombra su muri fatiscenti. L’uomo quindi è posseduto dal demone della dipendenza. Il contagio è nell’aria ed è necessario per soddisfare il proprio bisogno e per “ottundere la percezione”. Quello di St. John è un discorso “assoluto” che non ammette replica: i desideri sono le catene che tengono l’uomo inchiodato alla materialità. La necessità di soddisfare la propria “fame” si manifesta sempre e comunque. Il pasto totemico e orgiastico del sottofinale viene messo in scena da una Kathleen sull’orlo del suicidio: il dolore legato all’obbligo di succhiare il sangue per sopravvivere (nella morte) è insostenibile, per cui tanto vale abbandonarsi ad un’illusoria ordalia sanguinaria che ha come fine l’overdose “liberatoria”, apparentemente senza rimorso e ostentando, in maniera plateale, la propria laidezza, e quindi la propria natura vampirica (e mortifera). I vampiri sono impossibilitati a guardarsi allo specchio non perché non vogliono vedere il Male che è in loro, ma perché non esistono se non attraverso l’immaginazione e la fantasia degli altri. Attraverso gli occhi gli uomini percepiscono le immagini e allenano la memoria: memoria del Male, quella dell’Olocausto, della guerra in Serbia, del massacro di My Lay. Un Male gratuito e insensato, giusti78
Ludwig Feuerbach, Essenza della religione, Laterza, Roma, 2003, p.39
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ficato dagli uomini con lo stato di guerra. Un Male per le cui responsabilità pagano i singoli e mai la collettività. Da qui nasce il dilemma morale che suscita in Kathleen disprezzo per il genere umano: “Come può pagare un solo uomo per i crimini di guerra?”. Non è casuale che il film si apra con il commento di un vero sacerdote alle immagini del massacro di My Lay, perché è il momento in cui la generazione di Ferrara e tutte quelle successive hanno perso la loro innocenza e in cui il sogno di “Peace and Love” si è definitivamente infranto. All’alba del 16 Marzo 1968 gli uomini, affamati e frustrati dell’XIa brigata entrano nel villaggio di My Lay dove violentano, uccidono e massacrano donne e bambini. Il comandante William Calley ordina, dopo il massacro di più di cinquecento persone, di fare a pezzi i loro cadaveri e di bruciare l’intero villaggio. Le immagini di My Lay fanno il giro del mondo e la guerra del Vietnam svela il suo vero volto crudele e allucinato: che poi è il volto di tutte le guerre, che sono l’espressione massima dell’animalità dell’uomo, dove gli istinti primari si fondono con l’universalità del Male. In un documentario, vincitore del premio Oscar di categoria nel 1971, il regista indipendente Joseph Strick cerca le ragioni di quanto accaduto a My Lay attraverso le testimonianze dirette di cinque reduci dell’eccidio. Interviews with My Lay Veterans (id., 1970) è un documentario di appena 22 min. in cui emergono tra reticenze, tentativi di giustificazione e depistaggi, motivazioni allucinanti ma coerenti, sull’accaduto. In apertura uno dei cinque reduci, Gary Garofalo afferma: “Quando ti trovi durante le esercitazioni ti insegnano ad urlare, a sbraitare e tu non capisci il perché. Poi quando ti trovi lì, in guerra, per la prima volta e realizzi che devi sparare e devi privare qualcuno della sua vita ti rendi conto che quell’urlo serve ad allontanare da te la pressione. Quella è la sola soluzione, sei in tempo di guerra ed è così: o tu o loro”. Il “tempo di guerra” le tre parole dietro a cui nascondere le proprie responsabilità, uno stato eccezionale in cui sono sospese tutte le regole e convenzioni, e in cui la rappresaglia diventa l’unica regola di vita. Un ‘altro reduce , Vernardo Simpson racconta l’episodio di un certo Rocker di New York, il quale un giorno camminava davanti a lui e saltò in aria mettendo il piede su una mina; di lui non rimase più niente e Vernardo rimase quasi sordo per l’esplosione ravvicinata che lo sprofondò in uno stato di stordimento e allucinazione, e poi chiude il suo discorso con queste parole: “Le mine le mettono i civili. Psicologicamente è devastante camminare nella giungla e i 239
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soldati camminano da mattina a sera...”. Con queste premesse Strick guida lo spettatore fino alle domande centrli sui fatti di My Lay, in cui i testimoni si trincerano in un fastidioso silenzio o affermano semplicemente: “C’era un ordine, sparare su tutto ciò che si muovesse, uomini, donne, bambini, animali... e questo abbiamo fatto. La nostra missione era “Search and Destroy”. Ci hanno detto di distruggere tutto e questo abbiamo fatto”. Non si tratta però, come potrebbe apparire di una semplice deresponsabilizzazione ma il tutto ha a che fare con qualcosa di ben più profondo, provocatoriamente con quella “genialità” diabolica teorizzata e raccontata da Kurtz, perché alla domanda se fosse necessario bruciare il villaggio con le persone stipate nelle capanne, mutilare donne e bambini, i soldati replicano in modo agghiacciante: “Distruggere tutto, in termini militari, significa non solo bruciare il villaggio, distruggere le cose... ma anche distruggere fisicamente le persone...”. Ecco perché il dilemma morale che si pone Kathleen all’inizio di The Addiction su responsabilità individuale e collettiva risulta fallimentare: perché nello “stato di guerra” le cose non possono essere lette con i canoni ordinari e il punto di vista è ontologicamente alterato come dimostrano le testimonianze fredde e impersonali dei veterani. La guerra è solo uno degli “strumenti” per propagare il Male. Il contagio avviene dovunque, nelle strade malfamate delle notti di New York, come nelle aule dell’università, nel chiuso di una stanza come in mezzo alla folla che si reca al lavoro. Le immagini rallentate che mostrano la quotidianità di New York danno l’idea di un mondo “controllato” dal Male. Il controllo, esercitato attraverso il potere spinge l’uomo nel baratro della dipendenza. Progresso e automatismo sono un cancro le cui metastasi hanno intaccato tutto il sistema. Non si può fuggire, non ci si può fermare neanche per attraversare la strada, perché il Male è in agguato e pronto a espandere la sua epidemia (così avviene l’aggressione di Kathleen). Ma lo strumento attraverso cui si gioca la battaglia tra il Bene e il Male è quanto di più umano e terreno possediamo: il corpo. Questo è contemporaneamente oggetto di desiderio e viatico salvifico. Sul corpo si esercitano i morsi del contagio del Male, ma se il nutrimento non è il sangue ma il Corpo di Cristo, ecco che il corpo sopravvive e il Male (il vampiro che è nell’uomo) muore. È per questo che il vampiro inquieta e affascina St. John: perché 79
Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, Il Castoro, Milano, 1998, p.77
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una specie di Cristo rovesciato che ruba il sangue anziché donarlo, perché usa gli stessi strumenti della redenzione ma li perverte.79 Ecco quindi che il corpo diventa strumento per uscire dalle tenebre e (ri)trovare la luce. Quella luce evangelica che l’uomo sembra aver dimenticato rinchiuso nel suo dolore, e nelle crisi di astinenza che lo inducono a peccare e ad autodivorarsi. È un rito antropofago che si ripete ciclicamente e senza soluzione di continuità. Il circolo peccato-bisogno-peccato è un cappio che stringe la gola dell’uomo, perché rappresenta la rincorsa eterna alla felicità. Trovare la luce e quindi redimersi è l’unico modo per poter andare a deporre una rosa sulla propria tomba: “Se sia un peccatore non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”.80 Il “pasto umano” è un rituale di nutrimento che serve per soddisfare un bisogno e una necessità. È una dipendenza quindi che limita la libertà d’azione e che può indurre, in caso di astinenza prolungata, anche alla morte. I vampiri di The Addiction di nutrono di sangue, soddisfano un bisogno e una necessità e soffrono l’astinenza tra atroci dolori e contorcimenti. La città del film è una rappresentazione infernale, notturna, livida e inquietante, teatro naturale ed essenziale del contagio. La scelta di fare il Male è una scelta pienamente responsabile, ma a cui ci si può opporre mimetizzandosi, è solo una questione di volontà come spiega Peina. Strana questa figura di “angelo caduto” che attraverso la conoscenza filosofica (Sartre, Beckett, Burroughs…) riesce a vivere “al di la del Bene e del Male” e a trovare il controllo sulla sua volontà. Peina vive in un mondo che sta al di sopra rispetto agli individui come Kathleen, che nonostante i suoi grandi sforzi rimane vittima degli impulsi umani. L’appartamento di Peina sta in alto e per raggiungerlo si sale con un ascensore. Possiamo così associare quella di Peina, che ha imparato a controllare il vizio e la dipendenza, con un’esistenza paradisiaca e “regale”. Non a caso l’appartamento contiene un arredamento solido, un trono come sedia, un enorme ed antico letto e dipinti di arte moderna (opera di Julian Schnabel): egli stesso è vampiro e “re”; è un accumulo di contraddizioni, un vampiro che ha imparato a controllarsi, legge Sartre e Beckett, cita Baudelaire a memoria, ma per mettere alla prova Kathleen, si sazia di quel sangue che non assaggiava da quarant’anni. Kathleen è una donna. Una donna che si interroga sul relativismo etico e sul determinismo. Una donna 80
Gv. 9-25
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in bilico davanti al precipizio del peccato, una donna che porta dentro di se lo spargimento di sangue (le mestruazioni) e la capacità generativa della maternità (la gravidanza). Un donna che cerca nella filosofia risposte che non può trovare e che, forse, non esistono. Uno degli aspetti più originali e meno sottolineati di The Addiction è l’uso delle citazioni filosofiche che ad una analisi attenta non solo, spesso, sono fuori luogo, ma dirittura risultano incomprnensibili e inutili nel contesto in cui vengono utilizzate. Questo perché l’intento di Abel Ferrara è quello parodistico: la filosofia cioè serve come perfetto contraltare “ironico” alla serietà del discorso sul contagio del Male e sul propagarsi del peccato. La scena della lezione all’università è rivelatrice, perché come si può prendere sul serio un discorso come quello del docente e soprattutto quale docente affronterebbe con i propri studenti le dinamiche di filosofia morale con questa spiegazione; inoltre l’intenzione di Ferrara sembra quella di evidenziare la supponenza accademica del docente (che non a caso, breve diventerà vittima delle sue stesse parole) sottolineandola con la reazione estrema di Kathleen che in preda ad un conato di vomito si allontana velocemente dall’aula (reazione che è ambigua: vero stato di malessere o rigetto per quanto detto dal professore?). Il professore si rivolge ai propri allievi in questi termini improbabili: “Un aspetto del determinismo si manifesta nel fatto che i non salvati non riconoscono il peccato nella loro vita. Non ne sono consapevoli. Non soffrono del rimorso della coscienza perché sono tutti predestinati all’Inferno e perciò non raggiungono mai la luce della metanoia o conversione. Questa è un’opera della Grazia che tocca solo ai credenti. Considerato l’aspetto salvifico che sta nell’affrontare la colpa, la sofferenza è un bene. Dovremmo tutti sentire la colpa e la sofferenza, in modo da cercare il perdono e con esso la libertà. Il senso di colpa ci dice che solo Dio disegna il nostro destino ed è da stupidi rifiutarsi di riconoscerlo”. Anche durante l’incontro con Peina, si avverte la natura parodistica dell’assunto. Il vampiro saccente, apparentemente colto, durante il monologo educativo rivolto alla giovane allieva (non a caso stessa dinamica docente/studente che all’Università), snocciola una serie di banalità che lasciano sconcertati: “La dipendenza ha una duplice natura: da un lato soddisfa lo stimolo che scaturisce dal Male, ma dall’altro ottunde la percezione, cosicchè viene meno la coscienza del nostro stato. Si beve per ottundere la coscienza di alcolista. L’esistenza diventa ricerca di soddisfazione del vizio, e il vizio è l’uni242
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co sollievo che possiamo trovare”.Con questo bigino Peina pretende di insegnare a Kathleen l’arte della sopravvivenza, ma il primo a ciontrddire le sue futili parole è proprio lui, che dopo un ‘astinenza (a suo dire) di quarant’anni riaffonda i propri canini nel collo della giovane vittima per saziarsi voluttuosamente del suo sangue. In antitesi alla parodia della saccenza universitaria, Ferrara pone la serietà del discorso filmico e teologico, rifacendosi a modelli estetici di riferimento quali George A. Romero con Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) e Robert Bresson con Le diable probablement (Il diavolo probabilmente... 1977). Posto che il vampiro è per sua natura la figura più vicina al “morto vivente”, perché entrambi non esistono se non attraverso un punto di vista esterno, per entrambi lo scopo è un’improbabile sopravvivenza da morti, l’alimentazione ha come obiettivo quello di distruggere un altro corpo, e il loro risveglio è notturno (di giorno i vampiri muoiono, i morti viventi vengono uccisi), altro elemento che li accomuna è la solidarietà tra pari. Il pasto antropofagico del sottofinale di Night of the Livind Dead, in cui i “redivivi” si cibano delle membra dei corpi straziati di Judy (Judith Ridley) e Tom (Keith Wayne), è fonte ispiratrice, anche nelle movenze nervose della camera a mano il cui utilizzo in entrambe le pellicole è finalizzato a “mostrare” l’azione, per il banchetto vampiresco della festa di laurea di Kathleen. L’atmosfera cordiale e partecipe in cui inizia la festa è interrotta dall’arrivo perturbante della giovane neo-dottoressa che scarmigliata e vestita come una bambina (vestito che ha appena tolto dal corpo di una vittima) con aria dispettosa e irriverente si rivolge così agli astanti (conclamando con una sola frase la natura parodistica della descrizione del mondo universitario): “Vorrei ringraziarvi per essere venuti qui stasera per festeggiare con me il conferimento del mio diploma di laurea. Vorrei esprimere la mia sincera gratitudine verso la Facoltà e la scuola. E vorrei condividere con voi un po’ di quello che ho imparato in questi lunghi e duri anni di studio”. Dopo un breve attimo di interdizione, Kathy addenta la giugulare del rettore immobile di fianco a lei e sputa sull’obiettivo della m.d.p parte del sangue appena assunto. Nuovamente dunque un gesto di rigetto: ma se nel primo caso era rivolto verso i ridicoli contenuti filosofici espressi dal docente, questa volta è diretto vero lo spettatore, verso colui che guarda desideroso di “ammorbarsi” con lo stesso Male (questo è l’aspetto più subliminale e inquietante del gesto di Kathleen) e che infatti la stessa giovane vampira 243
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disprezza (la sua espressione è eloquente). Il gesto inoltre dà il via al sabba orgiastico e sanguinario che si sviluppa in una atmosfera sospesa tra il pacchiano e il sublime, che richiama il film di Romero anche attraverso gli svolazzi della m.d.p. Mentre tra versi ancestrali, immagini lorde e disgustose, musica gotica e sotterranea, si sviluppa l’orgia vampiresca, le inquadrature si susseguono in modo sincopato, la camera a mano va sondare, passando da un ospite all’altro, i dettagli più sconvenienti, le immagini più grottesche, simulando nelle sue movenze l’ebbrezza della vertigine data dal pasto ematico e intrecciandosi da un lato con la voluttà del Male e dall’altro con il sarcasmo della risata sguaiata di Casanova, prima di chiudersi (in senso letterale) sulla montagna di corpi intenti a suggere sangue da una giovane vittima tra urla distorte, ovattati gorgoglii e immagini animalesche. Romero che è l’unico regista di horror cattolico, fa del suo esordio il mezzo per raccontare la degenerazione dell’umanità: l’antropofagia necrofila dei suoi living-dead è la stessa che incarnano i vampiri di The Addiction nel sottofinale orgiastico. Sono entrambi i film il ritratto di una società che si autodivora, che si nutre della sua stessa carne e si disseta con il proprio sangue. La città di The Addiction e la campagna di Night of the living dead non sono mai state così vicine: un obitorio dove ammassare corpi mutilati ed esangui senza più nessuno scopo nella vita se non quello di propagare il Male. Il contagio avviene in entrambi i film attraverso il morso del nutrimento: come a dire che il consumismo e la soddisfazione dei bisogni sono destinati a ritorcersi contro l’uomo stesso; discorso questo che George A. Romero renderà ancora più radicale ed esplicito dieci anni dopo con Dawn of the dead (Zombi, 1978), mentre Ferrara e St. John scelgono per raccontarlo la banalità del Male quotidiano, cosi come ha fatto due decenni prima Robert Bresson. Il regista francese pone il centro del suo film (lo stesso che ne dà il titolo) in una sequenza apparentemente di raccordo, mettendo in bocca ad un anonimo passeggero di un bus la battuta “il diavolo probabilmente” come risposta ad una dialettica su chi manovra l’individuo, chi tira le fila dei comportamenti consumistici dell’uomo moderno, ma la reazione dell’autista è sconvolgente: abbandona il veicolo in mezzo alla strada mentre tutt’attorno si diffonde il suono indistinto e frastornante di innumerevoli clacson. E sono appunto i rumori, quello del bateau-mouche all’inizio del film, quello dell’organo in riparazione e dell’aspirapolvere in azione nella chiesa di San Suplice e quello dello sparo omicida nel finale al Pére244
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Lachaise, a dettare i tempi dell’ “orrore” quotidiano, sono i rumori il sintomo e l’effetto, nella loro indistinguibilità e assurdità, del contagio del Male. Male che si diffonde prima nella natura (il documentario ecologista) e poi nell’uomo attraverso una dialettica tra esterno e di interno, volta a sottrarre dalla narrazione grandi eventi per concentrasi sull’ordinarietà del quotidiano in cui il pericolo è sempre in agguato (la boccetta di cianuro nello zaino di Charles). Per questo Bresson inquadra continuamente luoghi di passaggio (soglie, porte, passaggi...) e i loro simboli di riconoscimento (le maniglie) senza alcun intento di progressione narrativa, ma solo per certificare l’impotenza dell’individuo. L’assunto di fondo di Le diable probablement è agghiacciante e senza speranza perché teorizza l’impossibilità di ogni forma di rapporto vero scevro da ogni convenienza personale (l’episodio con il drogato è emblematico del “do ut des” imperante), anche tra uomo e donna, e che in fonda la vita è immersa di uno stato permanente di invivibilità, per cui l’unica risposta possibile è “vera” è il suicidio. Allontanandosi dal pessimismo “cosmico” di Bresson e concedendo spazio alla speranza, Ferrara e St. John, non rinunciano però a costruire il loro film sulla dialettica bressoniana di “interno ed esterno” come non-luogo della contaminazione maligna. Questo perché il potere del Male è scisso sulla stessa dialettica: l’esterno, cioè la visione manichea, convive con l’interno cioè con la visione morale. Gli stimoli provenienti dall’esterno anestetizzano la coscienza dell’uomo e nell’incoscienza di questo stato, permettono al Male di acquisire ulteriore vigore e forza. In The Addiction la polarità interno-esterno è resa esplicita ed esemplificata proprio nel momento in cui il professore diventa vittima di Kathleen: dopo aver iniettato eroina nel suo braccio, lo stesso è inquadrato dall’alto e sulla cute compaiono le scritte polari “in” e “out”: il Male penetrato dall’esterno tramite la sostanza stupefacente è uscito sotto forma di “trasformazione” vampirica e viceversa. Nonostante ciò, l’aspetto teologico innestato da St. John, alla fine prevale attraverso la dialettica luce/tenebre, in cui la salvezza di Kathleen prende forma attraverso il manifestarsi della luce (divina) che dall’esterno penetra nell’interno della sua anima (attraverso una soluzione volontaristica) e squarcia la disperazione per fare spazio alla Grazia. In The Addiction, infatti, il compiacimento per la carne e per il sangue richiama la sublimazione del peccato: quindi l’iconografia della redenzione entra in scena con la massima naturalezza per atomizzare ed esorcizzare la figura del vampiro. 245
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La lotta inesausta tra Bene e Male assume e metabolizza i crismi di un conflitto tra luce e tenebra. La notte “accecante” diventa quindi momento iniziatico prima, e stilistico poi del cinema di Ferrara. Nel suo cinema il corpo è evanescente nella sua carnalità, annegato nell’oscurità, perché il Male annebbia la vista, annulla la personalità e omologa gli individui. In The Addiction, Ferrara chiede allo spettatore uno sforzo visivo maggiore per distinguere le figure nel buio. C’è come la volontà, da parte del regista, di portare lo spettatore dall’altra parte dello schermo, così come fa con Kathleen e lo specchio, per renderlo partecipe di una vicenda intima ma che riguarda tutti. Anche per questo motivo, The Addiction ricama la sua storia sul nero e illumina la sua estetica rimestando nel torbido dimenticato di un cinema più o meno occulto. Negli strati della pellicola, oltre ai riferimenti di sempre, si compone un puzzle iper-realistico di film perduti e di nonautori consegnati alle ultime pagine della storia del cinema, integrati con autori scomodi e contrapposti all’estetica ferrariana. Ferrara addiziona, pesca nelle frattaglie del cinema, nei documenti da cineteca storica come nei documenti dell’invenzione, accumula i rifiuti dell’ immaginario: quell’ archivio dell’immondo che nessun altro film vorrebbe ospitare,tanto esso è repulsivo. Ferrara disseppellisce il trash, elegge lo scarto al rango di materiale estetico.81 Ecco dunque che negli 82 min. del film convivono a stretto contatto materiali eterogenei, fonti di ispirazione, reminiscenze di gioventù; brandelli di cinema obliato che riaffiorano in The Addiction, come i germogli di un estetica del malessere e del degrado costruita e intessuta nel nero. L’appartamento di Kathleen è nel suo arredamento e nella sua povertà, è degno di quello di Glen, il travestito dello pseudo-documentario Glen or Glenda/I led two lives (Due vite in una, 1953) di Edward D. Wood jr.. Il richiamo al “peggior regista della storia del cinema”, è necessario a Ferrara per costruire uno spazio, micro-mondo, che diventa rifugio oscuro per la Kathleen vampirizzata. Negli spazi angusti e spogli del suo appartamento, la vampira si richiude in se stessa, circondata da elementi da natura morta (candele, libri, frutti...), fiori appassiti, specchi coperti con pesanti drappi, e qui respira gli unici attimi di pace (una pace mortifera) che le concede la sua vita dannata. La dipendenza tema portante di The Addiction, caratterizza una pellicola di Gerarad Damiano di fine 81
Sergio Arecco, Ferrara e l’ordalia del cinema, Filmcritica 475, Maggio 1997, p.243
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anni ‘80 (stranamente girato in pellicola): Night hunger (id., 1983) che già nel titolo ha qualcosa in comune con il film di Ferrara e St. John. Nel film di Damiano si raccontano le vicissitudini della famiglia Blair attraverso tre momenti cruciali della Storia, il decadentismo, il proibizionismo e l’edonismo: la dipendenza (ovviamente) è quella dal sesso e assume la forma della malattia, la satiriasi. Anche qui, in una atmosfera morbosa e triste resa perfettamente dal bianco e nero sgranato con cui sono “anneriti” i flashbacks, la dipendenza erotica diventa una più universale dipendenza dal Male: il sesso serve per soddisfare un bisogno irrefrenabile e l’astinenza provoca dolori strazianti e porta alla depressione. In questo porno triste, disturbante e malsano, Damiano mette in scena la dipendenza sessuale come la malattia che ammorba la borghesia. L’episodio del proibizionismo, girato in un bianco e nero sporco e in una atmosfera squallida e decadente, dove Lilith Blair (Sharon Mitchell) non raggiunge mai l’orgasmo, né da sola, nè con un partner, si contorce dal dolore e scoppia in lacrime è l’equivalente della crisi di astinenza di Kathleen lungo le strade di New York. Night hunger è sporco, nero e sgradevole così come lo è la parabola ferrariana. In The Addiction, il regista ricorre alla memoria del suo stesso cinema, da The Driller Killer quando Kathleen scende in strada a prelevare il sangue ad un derelitto che è la sua prima vittima (a cui non ha ancora il coraggio di succhiare il sangue) come lo era stato per Reno Miller nel film del 1979 (che importuna il barbone senza, ancora, ucciderlo), a Ms. 45, che in più un occasione presenta punti di contatto con The Addiction e la cui protagonista appare una degna “madre” di Kathleen. In entrambe i film una giovane donna che vive da sola a New York è trascinata in un vicolo e aggredita: un evento traumatico, che la incoraggia a vagare per le strade e ad attaccare a sua volta. A quest’assunto di base corrispondono anche alcune differenze: mentre Thana è violentata di ritorno dal supermercato dove ha acquistato della carne, Kathleen è aggredita nel corso di una notte di vagabondaggio; Thana viene assalita da un uomo, Kathleen da una donna; Thana trova la sua nemesi, mentre Kathleen trova la Grazia. Ma è a partire dal conseguimento della laurea che i due film appaiono perfettamente sovrapponibili. Kathleen mentre è in viaggio in taxi, si trucca pesantemente, assume i connotati di una donna adulta così come Thana assume quelli prima della vamp e poi della suora-killer; entrambe si “vestono per uccidere” ed entrambi danno sfogo alla loro furia durante la festa finale. Come nel momento del247
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l’uccisione Thana ritrova la sua espressione ingenua e “pura” così Kathleen si veste e si atteggia da bambina prima di dare il via al massacro. L’infanzia, più volte richiamata in maniera criptica in The Addiction (dalla stampa infantile inquadrata all’ospedale, alle immagini della bambina in in super-8 durante l’iniezione di sangue, alla scarpina in mano a Kathleen dopo un agguato ...)82 forse è un richiamo quell’innocenza che appartiene solo ai bambini: una volta cresciuti la purezza non appartiene più all’uomo e il bisogno conduce alla dipendenza e alla necessità di farsi contagiare dal Male. Assunto questo che Ferrara e St. John traggono da un film dimenticato ( e quasi perduto) della blaxploitation anni ‘70. Film che è ascrivibile alla moda del cinema-afro solo nominalmente e periodicamente, perché in realtà Ganja & Hess (id., 1973) di Bill Gunn è un film d’autore a tutti gli effetti. Come in The Addiction in Ganja & Hess i vampiri sono solo una metafora e anche qui non vengono mai nominati come tali, il sangue raramente è succhiato dal corpo ma bevuto in bicchieri o dalle sacche di trasfusione, all’atto dell’uccisione delle vittime segue sempre un momento di disgusto e disperazione da parte del carnefice per quanto appena commesso e gli elementi religiosi risultano determinanti tanto nella scatenamento del contagio quanto nella soluzione salvifica. Bill Gunn, personalità poliedrica della cultura afro-americana diviso tra cinema, teatro e televisione, realizza il film su commissione dei produttori indipendenti Jack Jordan e Quentin Kelly, i quali si aspettano un prodotto in stile Blacula (id., 1972) di William Crain (e così appare nella “finta” sceneggiatura presentata loro da Gunn), mentre il risultato è decisamente opposto: non un film blaxploitation che ricalca l’horror “bianco” e che vira i “suoi” mostri in una lettura di stampo afro-centrico, bensì un film complesso e sofisticato, dal ritmo lento e altalenante, costruito sul concetto di polifonia, aperto a parentesi oniriche e percorso da un simbolismo di forte matrice religiosa che si manifesta sin dal prologo in cui la scritta che precede i titoli di testa recita: Dottore Hess Green, dottore di antropologia, medico della geologia mentre studiava la antica civiltà nera Myrthia è stato accoltellato da uno sconosciuto per tre volte una per Dio Padre, uno per il Figlio e uno per lo Spirito Santo. È stato pugnalato con un pugnale contagiato del82 La sceneggiatura originale prevedeva l’aggressione ad una madre con una bambina, che nell’edizione finale non viene mostrata. In Brad Stevens op. cit. pag 215
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l’antica cultura dopo di che è diventato dipendente e non poteva morire, né poteva essere ucciso. Il titolo stesso è intessuto di simboli religiosi e non: dalla croce fratturata innestata nella gamba sinistra (non a caso) della “H” ai termini utilizzati come nomi dei due personaggi Ganja e Hess (che in slang nero significano rispettivamente marijuana ed eroina83), mentre il film dalla trama lineare, ma visivamente discontinua e complicata dalla presenza di vari livelli narrativi e fonici, racconta la storia del dottor Hess (Duane Jones, lo stesso protagonista di Night of the Living Dead), un antropologo nero che gode di uno stile di vita opulento che dopo essere stato pugnalato, con il coltello sacro dei Myrthia, dal suo assistente (poi suicida, interpretato dal regista Bill Gunn), prima diventa vampiro e poi si congiunge carnalmente e con matrimonio a Ganja (Marlene Clark), moglie dell’assistente defunto, la affascina con il suo stile di vita e la contagia con il morbo del vampirismo. Lui cerca e trova la redenzione lei mantiene la sua condizione. Una volta reso Ganja come lui, Hess le rivolge queste parole: “La filosofia è una prigione. Ignora le cose insolite su di te. Il risultato del pensiero individuale è applicabile solo a se stesso”, anticipando lo stesso discorso sulle responsabilità (individuali e collettive) presente in The Addiction. Quando dopo aver sposato Ganja, l’antropologo afferma deciso: “Continuerò a vivere senza Dio e le sanzioni della società, non sarò punito, non sarò colpevole”, afferma le stesse cose di Kathleen nel momento in cui ritiene di poter vivere da vampiro in mezzo agli altri senza recare loro danno, ed entrambi, disillusi e devastati dal dolore e dalla colpa cercano, nel finale, la loro morte. Come Kathleen dicendo alla infermiera (la stessa attrice che interpreta l’infermiera di Bad Lieutenant) di aprire le veneziane per fare entrare la luce, vivere la sua agonia e lasciarsi uccidere dal sole che scende sul suo corpo, così Hess, dopo l’incontro salvifico nella Chiesa Pentecostale, si ritrova seduto in casa agonizzante di fronte all’ombra di una croce che una volta raggiunto il suo cuore lo uccide e attraverso la morte viene liberato dal peccato. A prescindere dalle implicazioni sociali tra cultura bianca e nera (ampiamente presenti nel film di Gunn), e dalla volontà di rappresentare il vampiro come la metafora dell’ “uomo bianco” che succhia il sangue della cultura africana attraverso i suoi simili “bian83 Roberto Curti, Demoni e dei, Lindau, Torino, 2009 pag 353 – Nel libro di Curti è presente una completa e documentata analisi del film in questione
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chizzati” ( Hess è appunto un nero che vive e si comporta come un bianco), quello che è interessante di Ganja & Hess in relazione a The Addiction è soprattutto il contenuto religioso. Gunn presenta il reverendo della Chiesa Pentecostale come una figura contraddittoria che se da un lato invoca la presenza salvifica di Cristo, dall’altro allontana dai fedeli il manifestarsi di una religione pre-cristiana legata i culti animistici e fondata sul canto e sulla danza, per affermare, attraverso il suo ministero, un Cristianesimo imposto (dai bianchi). Viceversa il regista, richiama l’importanza degli elementi ancestrali e dionisiaci della religione Myrthia, ne descrive i misteri e i pericoli (legati alla decontestualizzazione originaria, perché agiti nella società occidentale) e mette in guardia dalla contaminazione vigente tanto del tribalismo metropolitano quanto della depauperazione della cultura africana. Solo di fronte all’uomo di fede (da contrapporre alla scienza dei Hess), il vampiro desiste dal continuare ad essere tale e dal propagare il Male; in fondo, quindi, quello di Gunn è lo stesso discorso portato avanti da Ferrara, che in The Addiction mette in relazione il cannibalismo con la comunione cristiana, ultimo baluardo da opporre all’antropofagia in una collettività fortemente tribalizzata (come mostrato con le gang ai bordi delle strade e sui marciapiedi). Fino a quando non trova ostacoli sulla sua strada Kathleen continua a propagare il Male: si ferma solo quando tra lei e il contagio si frappone una forza superiore, quella della Fede incarnata dal missionario. A quel punto, davanti al “no” un po’ imbarazzato ma deciso del giovane prete che le porge un santino con la scritta Pray the way of the Cross, Kathleen viene destabilizzata e le sue certezze cadono in frantumi. La sua reazione è violentissima e disperata e trova la sua nemesi nell’orgia lorda e disgustosa della festa di laurea.“Il fatto che si imbatta nel missionario e non sia in grado di adescarlo costituisce il punto di svolta - non tanto che entri in contatto con qualcuno e sia convertita. Il fatto stesso è che entri in contatto con qualcuno, una vittima potenziale, che la sovrasta, dimostrandole che esiste un qualche tipo di forza che può resistere al Male”84 La purezza e la semplicità del rifiuto del giovane prete incrinano l’impianto distruttivo di cui lei è strumento e aprono il varco ad un’altra possibilità in alternativa alla dipendenza: quella di farsi-dono al servizio 84 Gavin Smith, Intervista a Nicholas St. John, in Pietro Baj (a cura di) Abel Ferrara, Dino Audino Editore, Roma, 1997, p.48
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del Bene. È come se nascesse in lei la necessità di disintossicarsi, che possiede la stessa forza induttiva, ma inversamente proporzionale, di quella della dipendenza. La redenzione porta inciso nella carne il marchio della sofferenza, ma attraverso la comunione in Cristo; annulla il dolore e dona la pace. Una pace luminosa e sicura, che dà la forza per recarsi sulla propria tomba a depositare un fiore. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il Male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.85
Una sicurezza che dà la consapevolezza di sapere che oltre al Male c’è un Bene più forte e più grande in grado di vincere il peccato e di scacciare le tenebre. È una scelta, ed è una cosa seria. Non può essere simulata ed è per questo che a dare l’estrema unzione assolvendola dai suoi peccati, e la comunione a Kathleen è un vero sacerdote: Padre Robert Castle, amico di Ferrara, che possiede, anche nella sua corporatura, la bonarietà e la grazia dei “giusti”.
The addiction – Recensione Taglio espressionista, metafora vampiresca, morte della morale, notte perenne, un’ordalia di immagini deprimenti e “annerite” per raccontare la lunga notte dell’umanità. Una notte al termine della quale c’è un’alba timida e paonazza, in cui la luce stenta a mostrasi ma che trova la sua forza dirompente nelle braccia divaricate del Cristo in Croce pronte ad accogliere anche il più miserabile peccatore. The Addiction potrebbe essere riassunto così, con poche parole tale è la forza immanente della sua semplicità teorica: semplicità che contiene la lucidità evangelica di Nicholas St. John e che vede Ferrara nel ruolo “secondario” (ma non minore) di esecutore materiale. Non sembri riduttivo, ma The Addiction è 85 Gv
3, 17-21
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forse il film in cui, più di ogni altro, trovano la giusta amalgama le istanze opposte di sceneggiatore e regista, quello in cui la dialettica luce/tenebra assume i crismi di una dialettica autobiografica, quello in cui religione e ateismo trovano la loro spiegazione più elementare ed immediata. La filosofia (non a caso relegata al rango di strumento parodistico), come il vampirismo, è puro pretesto narrativo da contrapporre come opponente alla profondità evangelica che si manifesta attraverso la presenza fisica del giovane missionario che si oppone alla richiesta di Kathleen e in quella salvifica del vero prete Padre Robert Castle. Sono questi due i veri “eroi” del film, coloro che attraverso il professare il Bene salvano l’anima perduta della giovane studentessa vampirizzata dall’ateismo filosofico prima che dal morso contagioso del Male. Se Ferrara si interroga (da sempre) sulle dinamiche di scelta, peccato e redenzione, St. John indaga la presenza del Male e l’inclinazione naturale dell’uomo verso le tenebre. L’epitaffio sulla tomba di Kathleen “Io sono la resurrezione”, tratto dal vangelo di Giovanni è la risposta definitiva, l’unica possibile, a quanto si è sviluppato nei precedenti ottantuno minuti di film. Così come Cristo si è immolato sulla croce per salvare il mondo dai suoi peccati, così una giovane studentessa, quando incontra un vero prete, si rende protagonista di un atto divino: la conversione, la remissione di peccati e la resurrezione della carne. In The Addiction, tutto è molto semplice, le complicazioni intervengono a causa del nostro voler giudicare e schierarsi, è il nostro manicheismo a stabilire ciò che è bene e ciò che è male. Per Ferrara e St. John così come è scritto nel vangelo tutto è lineare: l’uomo sceglie le tenebre, quando incontra Dio trova la luce, si affranca dalla sua condizione mortuaria (il vampiro è un vivo che non può essere ucciso), rinuncia al sangue e al nutrimento materiale e, finalmente, comincia a vivere. Non c’è altro.
The addoction – Sondaggi critici Fim di vampiri, l’opera scoraggerà sicuramente gli amanti del genere. perché Ferrara si serve del fantastico come di un mezzo. Non lo rinnega, né cerca di distruggerlo, lo autorizza piuttosto come un filo conduttore, di cui egli non conserva che i codici e il nucleo drammaturgo un vampiro che è sempre la metafo252
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ra di un’entità malefica. Rende manifesta in maniera simbolica la presenza angosciante di una forza demoniaca che nega l’esistenza umana. Come il titolo steso lascia supporre, l’entità malefica incarnata dal vampiro non è altro che la droga, trattata qui come l’ombra del capitalismo essa è questo mostro freddo, questa forza occulta che si nasconde nel cuore delle società urbane, che essa minaccia di morte. La droga prende possesso del corpo di Kathleene per propagare il suo potere nefasto per allargare la sua contaminazione e l’assuefazione. La circolazione della droga si sostituisce a quella del sangue. La sua dipendenza contagiosa si sviluppa non appena scende la notte e vampirizza gli esseri non contaminati, così come la luna, astro morto, in un’inquadratura ricorrente, assorbe la luce. Il film mettein scena due forse: il bene e il male, il giorno e la notte, il bianco e il nero. Lo si sarà capito, l’immaginario di The Addiction è essenzialmente espressionista. La morte è là, fin dalle prime inquadrature, nelle immagini dei cadaveri ammucchiati delle vittime di My Lay, immagini nelle quali Kathleen si perde e che non comprende. E nell’ombra di Kathleen vampira quando il suo doppio malefico si impossessa di tutto il suo essere. Si trova anche nelle numerose carrellate laterali che partono da zone d’ombra e che coprono, incatenano il personaggio per poi sprofondarlo ancor più in un’altra zona oscura che lo vampirizzerà. CÉDRIC ANGER, CAHIERS DU CINEMA, N.501, 1996 Ferrara non riesce a nascondere che il valore liberatorio della sua mediocre filosofia iconoclastica è puramente soggettivo e deriva da un’educazione cattolica vissuta in termini repressivi. Inevitabilmente la patina elegante che contraddistingue i suoi due ultimi film (nonché i migliori, se proprio bisogna scegliere) dimostra la perfetta assuefazione al sistema, già sperimentata in Ultracorpi, ma non altrettanto controbilanciata di un effettivo talento visivio: la componente sgradevole, appena epidermica e tutt’altro che polemica, anche di The Addiction si manifesta in inquadrature inerti e prolungate, piuttosto accademiche e “pulite” sebbene concentrate su ambienti sporchi, all’interno delle quali imperversa senza tregua una sfrenata violenza fisica ed una recitazione sopra le righe. Essendo Abel Ferrara un autore finora sopravvalutato, probabilmente The Addiction, il suo film-manifesto, verrà scambiato per un piccolo capolavoro. ANTON GIULIO MANCINO, CINEFORUM, N.347, 1995 The Addiction conferma che bisogna dire basta ai cattivi maestri e non bisogna più prenderli sul serio. Rivestendo di un bianco e nero espressionista una 253
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storia urbana di vampiri contemporanei, Ferrara ci dà uno dei film più presuntuosi, falsi e pericolosi di questi ultimi anni. La metafora non propriamente originale di questo ennesimo horror vampiristico della stagione (ma stavolta il vampirismo rappresenterebbe la dipendenza dalla droga) si snoda tra filosofemi, orge di sangue nero, metafore e qualunquismi noir. Non ci si diverte e non si prova nulla che non sia irritazione per tutto il film. Fortuna che dura solo ottantasei minuti. IRENE BIGNARDI, LA REPUBBLICA, 24 GENNAIO 1995 Non c’è tanto da stupirsi che The Addiction non sia stato acquistato per le nostre sale: tra i meno spettacolari dei film di Ferrara, è certamente anche uno dei più lucidi e sofferti, evidentemente un0antiicamnera del rigore narrativo e senza scampo di fratelli. Ferrara e il suo sceneggiatore St. John non erano mai stai così drastici e, al tempo stesso, pietosi. Seguono Lili Taylor trasudando tutto il suo strazio che è intellettuale, fisico e morale. Non si abbandonano ai clichè vampirici, neppure quando compare il “principe della notte”, naturalmente il loro attore-feticcio Christopher Walken, in cinque minuti di distaccato, dettagliato cinismo. Un film che non fa paura ma fa pensare e fa star male, e che ci racconta, semplicemente, che sangue chiama sangue, per sempre, e che tutti siamo colpevoli. EMANUELA MARTINI, TV FILM, 16 MARZO, 1997
Nigger entertainment (1995) Abel Ferrara dirige per l’amico Schoolly D. il videoclip della canzone Nigger Entertainment contenuta nell’album Reservoir Dogs. Prodotto da Randall Sabusawa e fotografato da Ken Kelsch, il video che viene girato a Philadelphia, dove il rapper vive, mostra “ironicamente” il commercio di stupefacenti e satireggia sulla banalità della violenza urbana ricalcando i contenuti del testo della canzone. Randall Sabusawa interpreta uno degli avventori che pagano in contanti Schoolly D.
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California Una coppia ricca si sta preparando per uscire. L’uomo (Gian Carlo Esposito) fa cambiare il vestito alla donna (Mylene Farmer). La stessa scena avviene tra le pareti di un motel fra una prostituta e il suo pappone. In macchina sull’Hollywood Boulevard la donna ricca guarda fuori dal finestrino annoiata. Ad un certo punto incontra lo sguardo della prostituta al lavoro con le sue colleghe. Le due donne sono uguali; la ricca fa per scendere dall’auto ma l’uomo la trattiene con violenza. La coppia ricca si reca ad una festa. Lei si annoia ancora, va alla toilette, si cambia e ne esce discinta e sensuale. Prende il posto della prostituta il cui corpo senza vita viene portato via dall’ambulanza. Nel motel la donna ricca amoreggia col pappone e poi l’uccide.
Ferrara incontra la cantautrice francese Mylene Farmer quando lei rimane bloccata a New York a causa della grande bufera di neve del 1996. i due si incontrano, si piacciono e decidono di lavorare assieme. Mylene Farmer è una cantante pop-cult, celebre per i suoi videoclip, più che per le sue canzoni. A dirigere i video musicali non chiama specialisti del settore, ma si affida a navigati e particolari registi cinematografici: Luc Besson (Que mon cœur lache), Chihg Siu Tung (L’ame-stram-gram) e altri. L’incontro con Abel Ferrara porta alla realizzazione del videoclip di California, brano tratto dall’album Anamorphose. Sebbene l’industria musicale dei video richieda di lavorare in tempi brevissimi e a volte con l’uso di effetti pirotecnici, Ferrara utilizza qui un linguaggio molto libero per ricreare e pianificare il punto di vista femminista della clip. Il video viene girato tra il 9 e il 12 Febbraio 1996 a Los Angeles/Hollywood sul Sunset Boulevard. Ferrara si prende cura di ogni minimo dettaglio, lavorando con il fedele Ken Kelsch alla fotografia. Crea una narrazione circolare mettendo in parallelo, e allo stesso tempo in contrasto, il glamour della coppia ricca con il degrado della coppia di strada. Le due donne sono interpretate da Mylene Farmer mentre i due uomini da Gian Carlo Esposito, già attore per Ferrara in King of New York. Se l’operazione sa di assemblaggio di materiali e temi cari al regista newyorkese, il crinale onirico su cui si muove tutta la mini-narrazione sembra anticipare la messa in scena del successivo The Blackout. Il sovrapporsi indeterminato di realtà e finzione in California restituisce l’idea di un paral255
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lelismo manierista tra ricchezza e degrado, ma la forma glamour dell’assunto eleva il videoclip dall’essere un semplice esercizio di stile, come dimostrano sia il richiamo al tema del consumismo (caro al regista) mostrato attraverso i cartelloni pubblicitari che la donna ricca vede dall’abitacolo della macchina, sia quello al tema del “doppio”, costante di tutta la clip che viene esplicitato nell’inquadratura in cui le due donne riflettono il loro volto (che si sovrappone) nel finestrino della macchina. L’omicidio finale disegna una figura femminile emancipata e vendicativa che non può che ricordare la Thana di Ms. 45. Qui la donna ricca fugge dalla noia e dalla ricchezza per trovare emozioni in una vita degradata, non rendendosi conto però di fare una scelta senza ritorno. Ferrara situa il break-point della vicenda nello sguardo tra le due donne-gemelle: una sta in alto e vuole scendere in basso, mentre l’altra sta in basso ma vorrebbe essere in alto. Nella scena però è la prostituta che sta in piedi (alto), mentre la donna ricca è seduta in macchina (basso). Ancora una volta quindi Ferrara cortocircuita il manifestarsi del desiderio ribaltando l’immagine di peccato con quella di redenzione: e anche se questa per la prostituta arriva solo attraverso la morte è la donna ricca a subire il peso della condanna ad un’esistenza nel peccato (nell’inquadratura del sottofinale la vediamo come prostituta in fondo a un corridoio di sue colleghe).
The funeral (1996) Johnny Tempio (Vincent Gallo) è al cinema che sta guardando La foresta pietrificata. A casa Tempio, viene portata la bara con dentro il cadavere di Johnny. La famiglia si prepara per la veglia funebre. Ray Tempio (Christopher Walken) e sua moglie Jeanette (Annabella Sciorra), discutono mentre i loro figli giocano sulle scale. Ray inveisce contro i fiorai che portano in casa una corona funebre inviata da Gaspare Spoglia (Benicio Del Toro). Più tardi giungono Chez (Chris Penn) e la moglie Clara (Isabella Rossellini) per unirsi alla veglia funebre. All’arrivo del prete (Father Robert Castle) Ray si allontana e si chiude in macchina dove ripensa al momento in cui tredicenne, uccise il primo uomo su invito del padre. Jeanette si avvicina la marito e tenta di farlo desistere dai suoi proposito di vendetta, mentre in casa le donne recitano il rosario. Uno stacco mostra Johnny e l’amico 256
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Ghouly (Paul Hipp) che assistono ad una riunione di comunisti. Successivamente i due assalgono un camion, gambizzano gli autisti, e incendiano il carico. Il proprietario del mezzo e dalla fabbrica da cui questo proviene, si rivolge a Gaspare per mettere fine a questi attentati. Il mediatore, conduce Enrico Borghese (Robert Miano) dai fratelli Tempio, i quali sono disposti, in cambio di mille dollari al mese, a scendere a patti con l’industriale e a fornirgli la protezione richiesta. Johnny in un primo momento si oppone ma poi è obbligato, dai fratelli, ad accettare la proposta. Johnny e Ghouly si spartiscono le grazie di Bridget (Amber Smith) moglie di Gaspare Spoglia. Successivamente i due si ritrovano nel locale di Chez e qui Ghouly provoca e deride Gaspare, il quale lo uccide una volta fuori dal locale. Nel presente, Jeanette, parla con Helen (Gretchen Mol) di fronte alla statua di Santa Agnese. Mentre le due donne vanno a dormire, Ray si abbandona ad un lungo monologo sulla morte di fronte al cadavere del fratello. Nel passato, i tre fratelli sono seduti in un bordello mentre sullo schermo passano le immagini di un porno clandestino. Chez si apparta con una minorenne, la invita a desistere dal vendere il proprio corpo, ma quando questa rifiuta la sodomizza. Una volta tornato a casa, Chez viene invitato da Clara a farsi ricoverare da una clinica in Belgio; l’uomo rifiuta e si chiude in bagno con un rasoio. Nel passato, Chez ascolta il racconto del suicidio del padre. Ray è convinto che Gaspare abbia ucciso Johnny, litiga con Jeanette in merito al libero arbitrio, e si prepara a consumare la sua vendetta. Una volta tradotto al club, Gaspare nega di essere il colpevole. Ray lo porta di fronte alla bara del fratello per vedere se, secondo tradizione, le sue ferite sanguinano di fronte alla presenza dell’assassino. Questo non avviene, e uno dei suoi uomini gli comunica che hanno trovato il vero assassino, ma Ray ordina lo stesso l’omicidio di Gaspare. Ray si trova di fronte ad un giovane meccanico, che prima dice di avere ucciso Johnny perché ha stuprato la sua fidanzata, e poi, di fronte alla minaccia di morte, ritratta tutto e dice che si è trattato di un semplice battibecco. Ray non lo lascia neanche finire di parlare e lo uccide. Nel passato Johnny esce dal cinema e viene freddato mentre si avvicina ad una macchina, ma il volto del suo assassino non è chiaramente visibile. Ancora più indietro nel tempo, il padre di Ray dà al figlio il bossolo che lo consacra a ruolo di assassino. Chez si reca a seppellire il corpo del ragazzo, poi torna a casa, uccide due uomini che stanno facendo colazione, allontana le donne, uccide Ray e si suicida. La bara di Johnny viene chiusa.
New York 1936, una casa-camera ardente, la famiglia. The Funeral ha una doppia origine dolorosa: Ferrara lo dirige mentre si sta separando dalla moglie Nancy, e Nicholas St. John lo scrive poco dopo l’improvvisa morte del figlio. The Funeral è un film dove si sente fortemente la compattezza 257
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della factory di Ferrara ed è come se i suoi amici si fossero stretti intorno a lui in questo periodo così difficile. La MDP Worldwide stanzia cinque milioni di dollari per il film prodotto da Mary Kane, Randy Sabusawa e Annabella Sciorra. Il lavoro più complesso risulta quello del montaggio ad incastro tra il presente e i sei flashback, e viene affidato ad un team di quattro persone: Mayin Lo, Bill Pankow, Tissy Bower e Marla Hanson (all’epoca compagna di Ferrara). Ken Kelsch firma la fotografia lavorando sui blu (e malva) e sui neri, donando al film un cromatismo da celebrazione funebre che ne amplifica il senso di dolore e di ritualità. La sceneggiatura originale del film presenta tutta una serie di scene poi tagliate nel final cut, quali: Ray che picchia Jean; I bambini del quartiere che discutono sulla superstizione; Chez che racconta a Johnny di come ha ucciso accidentalmente un cane, e poi in seguito ai rimproveri del fratello, tenta di accoltellarlo; le sfumature di una relazione lesbica tra Jean e Helen; la scena in cui Ghouly insulta Gaspare, in origine, prevede che il primo presenti il secondo a tre prostitute e mentre Gaspare è intento a intrattenersi con loro, Ghouly gli infila in tasca un’ escremento; scena che spiega il perché, quando Ghouly viene accoltellato fuori dal locale, Gaspare gli dice: “Hai problemi con le funzioni corporali eh?” . In Italia, il film esce con il titolo Fratelli (per motivi scaramantici della distribuzione), viene accorciato tagliando la durata delle scene più scabrose (il flashback con il primo omicidio di Ray bambino, l’amplesso tra Bridget e Ghouly sotto gli occhi di Johnny, la scena al bordello e l’agonia di Ray nel finale) e viene premiato per i valori morali che esprime dai cattolici dell’OCIC, mentre alla LIIIª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove viene presentato in concorso, viene acclamato dai critici ma ignorato dalla giuria. Ferrara fa di un film di gangster una tragedia morale e prende le distanze da tutto ciò che è involucro per concentrarsi sui contenuti: “Film muti, Godard, Fassbinder… ci sono più idee in una qualsiasi delle loro inquadrature di quante Hollywood non ne trovi in dieci anni. Ma non ci si alimenta solo di questo. Mi ispiro altrettanto a ciò che leggo o vedo nella strada. Un cineasta è un po’ come un vampiro che divora tutto, sempre. Dopo si scarta”.86 È naturale quindi che il dolore abiti ogni fotogramma. Nel film ci sono gli italo-americani, cioè le origini di regista e sceneggiatore, c’è 86
Dichiarazione di Abel Ferrara in Cahiers du cinéma, n. 508, 1996 in Pietro Baj (a cura di), Abel Ferrara, DinoAudino Editore, Roma 1997, p.53
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il loro dolore per le separazioni, e c’è il tormento di due anime inquiete che si interrogano sul libero arbitrio e sull’ineluttabilità del destino, ma c’è soprattutto il “funerale” del romanticismo mafioso. È un film claustrofobico, soffocato dal nero di una notte (dalle 19,00 di sera alle 9,00 del mattino dopo come indica l’orologio sulla parete della cucina inquadrato nelle prima e nell’ultima scena) e chiuso nella bara di Johnny (su cui si apre e si chiude la pellicola) da cui provengono (in forma vampirica) il dolore (poco) e la dannazione (molta) di questi tre fratelli che sono tali solo geneticamente. La famiglia mafiosa viene prima rivoltata nei suoi presunti valori, ridicolizzata nel suo presunto romanticismo, poi letteralmente fatta a pezzi dalle sue contraddizione (simbolicamente riassunte nel crocefisso e nel cornetto al collo di Clara), e infine, schiacciata dal peso delle sue colpe, annientata per implosione. La cultura della famiglia italiana trapiantata in America genera dissonanze interiori ed è vittima di un’evidente inadeguatezza capace di portare alla follia (come nel caso di Chez, e prima ancora di suo padre). In The Funeral si respira un aria mortuaria e sepolcrale che rende il dolore dei personaggi immanente e talvolta inquietante; il film possiede qualcosa di misterioso e affascinante allo stesso tempo che non permette di non rimanere indifferenti davanti a questa lancinante tragedia, perennemente sospesa tra due estremi: da una parte il racconto serio (per flashback del passato e della morte di Johnny) e dall’altra la parodia caustica e irriverente della famiglia mafiosa (intesa sia in senso letterale che cinematografico). La soglia è un luogo-non luogo ibrido, dove niente è definito e dove in un secondo la luce può diventare buio e viceversa, come il momento di uscita dalla sala cinematografica, che non a caso è il luogo in cui avviene l’omicidio di Johnny. Johnny esce da un cinema, in cui si proietta The Petrified Forest (La foresta pietrificata, 1936) di Archie Mayo come si vede nel prologo del film, soglia elettiva dello spazio tra reale e onirico, e ancora in preda ai fantasmi dello schermo sente pronunciare il suo nome: con lo sguardo offuscato dal nero della sala in contrasto con la luce del giorno, si dirige verso la macchina da cui partono tre colpi di pistola, senza riuscire a riconoscere il suo assassino (e Ferrara non fa nulla per mostrarlo chiaramente allo spettatore). The Funeral è un film agito e vissuto sulla soglia: una soglia che non deve essere oltrepassata ma che si presenta sempre davanti ai personaggi del film. La soglia irradia essa stessa la struttura ciclica della vicenda visto che dopo i titoli di testa, scende la notte dove le persone si agitano, ricordano e scelgo259
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no, ed è sulla soglia del giorno che si compie la tragedia. Soglia su cui si trova tutta la famiglia Tempio (quello di Gerusalemme invaso dai mercanti?), ad un passo dalla dannazione e dall’estinzione. Quindi, la famiglia mafiosa non rappresenta solo un’ involucro per il film (come in molti hanno detto) ma è il luogo attorno a cui costruire un ritratto d’ambiente che, nonostante la claustrofobia della messa in scena, ha il respiro ampio dell’affresco antropologico. Abel Ferrara compie una vera e propria analisi entomologica delle dinamiche familiari della famiglia italo-americana, evidenziando la ritualità dei compiti, la tribalità dei rapporti e la visceralità dei comportamenti. Senza mai cedere il passo ad aspetti folkloristici, e meno che mai ad aspetti romantici, il regista racconta la quotidianità della famiglia italo-americana mafiosa vista dal basso, con i suoi rituali funebri, le sue superstizioni, la commistione di linguaggi (italiano e inglese), l’incedere della rabbia e della volontà di vendetta, le tradizioni della cucina, tutti aspetti finalizzati alla necessità, vitale e protettiva, di chiusura del clan: Ferrara, volutamente rappresenta la famiglia Tempio, come l’archetipo di tutte le famiglie mafiose, cioè il grado più basso, ma imprescindibile della gerarchia costituita, in ordine crescente, da famiglia, cosca, mandamento e commissione. Quello che colpisce è che la famiglia Tempio è tutto fuorchè unita, che i legami di sangue sono sbandierati a parole ma traditi nei fatti e che sono, prima di tutto, le lacerazioni interne dettate da una inestricabile matassa di contraddizioni antropologiche a causarne l’implosione. Ferrara sceglie di esplicitare le contraddizioni che tanto cinema sulla mafia, precedentemente ha utilizzato come stereotipi romantici e mette a nudo come anche i rapporti tra fratelli, come quelli tra marito e moglie, siano dettati da reciproche convenienze e non da sentimenti reali. Per fare ciò utilizza due registri contrapposti ma funzionali allo scopo: la “tragedia” (intesa in senso classico) per raccontare le donne del film e la parodia per descrivere gli uomini. Jean e Clara sono due donne consapevoli di avere sposato dei criminali, ma anche disposte a donare tutto l’amore di cui sono capaci per tentare di rimediare ad una vita irreparabilmente compromessa. Sono gli unici personaggi in grado di offrire un po’ di calore in una vicenda altrimenti raffreddata e congelata nel dolore: sono una sorta di protezione morale e spirituale nei confronti dei rispettivi mariti, in grado di inchiodarli alle loro responsabilità, senza né remore né timori reverenziali. Esse rappresentano la morale di Ferrara, quella che non costruisce la propria vita sulla violenza, sull’odio e sullo spargimento di san260
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gue, ma che “cristianamente” si edifica sul perdono e sull’amore. Il senso della famiglia come nucleo chiuso che genera e dispensa violenza protetto dalla cultura della tradizione, non appartiene all’idea di Ferrara e St. John. Il romanticismo mafioso dei “bravi ragazzi” scorsesiani e dei Corleone di Coppola è solo una trappola dove è facile cadere e auto-condannarsi a una vita di sofferenze. Emblematico a questo proposito il dialogo tra Jean e Helen, in cui la prima, ormai disillusa nei confronti della sua scelta di vita dice alla giovane donne che ha di fronte: “Dovremmo dare una festa per te... Bisognerebbe festeggiare il fatto che non diventerai una delle loro mogli. Ai Tempio piace spacciarsi per dei personaggi unici e tutti d’un pezzo... e noi ci caschiamo... ma sono criminali! Sono criminali perché non si sono mai tirati fuori dall’ignoranza e dalla ferocia del loro ambiente, e non c’è niente... assolutamente niente di romantico in tutto questo...”.Jean e Clara, e più sullo sfondo Helen sono, dunque, l’antitesi della mogli/compagne degli uomini di mafia fin qui rappresentate al cinema. Le donne di The Godfather (Il Padrino, 1972) di Francis Ford Coppola, sono donne sottomesse, incapaci di guardare il proprio marito negli occhi, perennemente votate al sacrificio e alla cura tradizionale della famiglia e della casa, incapaci di reazioni che non sfocino in una nuova e violenta sottomissione: come Connie (Talia Shire) che, quando viene trovata da Sonny (James Caan) con il volto tumefatto per le botte subite da Carlo (Gianni Russo) dice al fratello “Lascia stare, è colpa mia” o che quando si rivolta verso il marito, nella messa in scena che precede l’agguato di Sonny, viene pestata a sangue da Carlo e ricondotta al silenzio. È interessante notare come in tutto il film di Coppola ci siano porte che si chiudono in faccia a mogli, madri e fidanzate, e che a queste sia adibito il ruolo di collante familiare, in un ambiente, che, come in The Funeral di Ferrara è ostile, chiuso e oscuro come una sorta di caverna. Non è casuale che in entrambe i film gli interni siano rappresentati come luoghi ancestrali, oscuri e in penombra, in cui domina il silenzio, si parla sottovoce, talvolta si prega e talvolta si piange, come in un luogo “sacro” ironicamente dipinto come il “Tempio della Famiglia”. Lo stesso St. John prende le distanze dalle donne della saga di The Godfather, ma anche da quelle, ad esempio, di Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990) di Martin Scorsese, che più o meno si muovono sulla stessa linea (la stessa Karen (Lorraine Bracco) accetta, per convenienza e per sottomissione, di “spartire” il marito prima con Janice e poi con Sandy). 261
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“Quelle figure femminili silenziose e spaventate mi erano sconosciute, perché le donne nella mia famiglia sono sempre state grandi presenze. Certo, soffrivano e qualche volta venivano maltrattate, ma anche in mezzo alle situazioni più barbare riuscivano a non farsi soggiogare e a crescere i loro figli buoni e onesti. Di certo poi non se ne stavano zitte: mia nonna, Dio la benedica, è morta a novant’anni, e fino all’ultimo è rimasta battagliera. Lei e le mie zie sono state gli eroi della mia infanzia. (…) Per me le donne sono le vere protagoniste di The Funeral, sanno chi sono, quali sono i valori importanti e vedono le cose molto più chiaramente degli uomini”.87
Le donne rappresentano la vera anima del film di Ferrara e St. John, e non poterebbe essere altrimenti se si analizzano i caratteri e la psicologia dei tre fratelli, dei tre personaggi maschili. Uomini inchiodati alla tradizione e alla cultura della vendetta: per loro sangue chiama sangue, come dichiara Ray alla moglie sconcertata e avvilita. Ray è della famiglia il più consapevole del suo destino, per ciò non ci pensa su due volte a proclamarsi giudice e Dio davanti al ragazzo che ha ucciso Johnny, per poi ergersi a giustiziere e freddarlo con un colpo di pistola sulla spiaggia. Pronunciando il suo discorso Ray non si accorge che sta parlando allo “specchio”: “Dimmi la verità!... Fallo come fossi davanti a Dio... Tu credi di meritare di vivere? Hai ucciso un uomo, due uomini sono già morti per questo. Ci puoi vivere tu con questo peso sulla coscienza? Una volta premuto il grilletto, indietro non torni più. (…) Tu hai perso la testa, sei pericoloso. Non hanno nessun rispetto per la vita quelli come te. Non hai un posto nella società e la galera è qualcosa che non ti meriti... Io non credo di avere una scelta”. Ray, con accezione negativa, è un predestinato, un bambino divenuto uomo con un “battesimo” di sangue, il veicolo dell’eredità familiare, con il quale, anche controvoglia, non può non esimersi dal perpetrare il Male. Chez è il frutto delle tare ereditarie, affascinato da sesso e denaro, perennemente i bilico tra ragione e follia e segno dell’incompatibilità tra tradizione e modernità, tra Italia e America ed è pertanto a lui che è riservato il ruolo di agnello sacrificale che, attraverso la morte collettiva e il sacrificio di sé rappresenta l’unico mezzo per la famiglia per trovare quella redenzione altrimenti impossibile. Johnny, invece è l’outsider, l’individualista “americanizzato” e comunista, mafioso e animato dal senso di giustizia e uguaglianza, peccatore consapevole e anarchico nei comportamenti, un ricet87 Dal
pressbook del film
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tacolo di contraddizioni che lo portano ad affermare che “La vita non avrebbe il senso senza il cinema” mentre osserva l’amico Ghouly che possiede Bridget Spoglia, in una inquadratura che è essa stessa rappresentazione del voyeurismo cinematografico; non a caso è lo stesso amico a replicare secco: “Io dico che finirai all’inferno per avere parlato così”. E infatti, Johnny viene ucciso all’uscita del cinema Ritz in cui ha appena visto Humphrey Bogart (nel ruolo dell’outsider) in The Petrified Forest, così come nella realtà John Dillinger viene ucciso dall’ FBI all’uscita del Biograph Theatre di Chicago in cui si proietta Manhattan Melodrama (Le due strade, 1934) di W. S. Van Dyke II, film nel quale due amici d’infanzia intraprendono strade diverse, per poi ritrovarsi di fronte in tribunale dove uno (Clarke Gable) è il gangster condannato a morte e l’altro (William Powell) il procuratore che lo condanna alla sedia elettrica. La connessione “romantica” tra realtà e finzione è dunque conclamata ed emerge nella scelta del regista di raccontare Johnny come un antieroe, una sorta di anticonformista che non si piega (più per ribellione che per convinzione) alle logiche della tradizione. I tre fratelli, sono uniti tra di loro, solo dal sangue, non quello che scorre nelle loro vene, ma quello versato nel loro agire. Il primo flashback, quello che mostra il passato e mette in scena un padre che educa i propri figli (non solo Ray, ma sulla scena sono presenti in veste di spettatori anche Chez e Johnny) è imprescindibile per capire la volontà del regista di de-costruire l’immaginario romantico-mafioso e il culto della tradizione come valore assoluto. Volutamente e opportunamente recitato (anche in originale) in un Italiano stentato, il monologo del padre è il giusto preambolo alla vicenda narrata e al contempo è l’anello intorno al quale ruota tutta la ciclicità del film: non a caso il proiettile che il padre dona a Ray bambino, finisce nella tasca del cadavere di Johnny dopo la morte del presunto colpevole del suo omicidio). Don Vito: “Ray, a tredici anni i ragazzi ebrei diventano uomini. Loro hanno una funzione che chiamano Bar Mitzvah, cioè “figlio della legge”. Non vuol dire che è preparato ad affrontare il mondo da uomo, infatti è ancora bambino... Porta con sé le paure che prima o poi devono essere conquistate. E più presto che conquista le paure che tiene e più presto diventa uomo. E più che si istruisce e più che si realizza... e più è adeguato per vivere in questo mondo. Quest’uomo ti ha tradito, vi ha derubato delle vostre proprietà. Deve morire perché la vita non permette ai nemici di vivere insieme. Se lui riesce ad andarsene da qui, adesso, eventualmente ritornerà per ammazzarci, perché fin quando stiamo vivi, la vita sua sta sempre in peri263
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colo... vivrà con la paura che qualche giorno cambieremo idea”. Poi il padre passa una pistola al figlio e continua: “Ammazzalo, ti ho messo dentro una sola cartuccia. Ammazzalo, io non lo faccio, o lo fai tu o altrimenti liberalo e aspetta che lui ritorni”. Il bambino titubante prende la mira e spara. Sul suo P.P. , lo stacco sul P.P. di Ray chiuso in macchina, poi nuovamente in flashback, il padre estrae il bossolo e lo consegna al figlio: “Portalo sempre con te, non c’è niente più costoso”. La soglia in The Funeral è dunque, anche, una pallottola che dentro di sé racchiude il destino di una famiglia (e forse di un’etnia) Il lampo dello scoppio della polvere da sparo che esce dalla pistola impugnata da Ray tredicenne, che uccide su ordine del padre, è la firma in calce sul suo contratto di dannazione: assassino per sempre, e il simbolo del “battesimo” è un bossolo da custodire gelosamente. Se Chez è, per forza di cose, raccontato con il registro della follia, teso a mettere in evidenza un miscuglio di rabbia e innocenza, violenza e dolcezza, pietas e misericordia, a Ray, uomo consapevole, se pur condizionato al passato, non è concessa redenzione, e la sua figura è il centro del racconto parodistico degli uomini di The Funeral. Sin dalle prime scene, nella dialettica con Jean è evidenziata l’ipocrisia di Ray ed è la moglie stessa che ne ridicolizza, con sarcasmo, anche i comportamenti più banali. Quando, rabbioso per la corona di fiori appena consegnata, la scaglia dietro ai poveri inservienti, Ray afferma: “Non hanno capito qui chi comanda”, Jeanette sconsolata e divertita replica: “Va bene... adesso lo sanno”; e quando subito dopo, Ray rimprovera i bambini che giocano con le pistole sulle scale, dicendogli (ma urlando lui stesso) di non fare rumore, Jean lo guarda con sarcasmo e sbotta: “Però... chi glie le ha regalate le pistole...”. Anche, quando il discorso tra i due è serio e profondo, Ferrara ironizza sulla saccenza e sulla superbia “onnipotente” di Ray, come quando di fronte all’invito di Jean a rinunciare alla vendetta, l’uomo replica con un improbabile (perché messo in bocca a lui) monologo sul libero arbitrio: “Tutti gli studiosi cattolici dicono che ogni cosa che facciamo dipende da una libera scelta, ma allo stesso tempo ci dicono che ci serve la Grazia di dio per fare quello che è giusto... vienimi dietro Jean... se io faccio di qualcosa di sbagliato è perché dio non mi ha dato la Grazia... per fare ciò che è giusto. Niente succede senza il suo permesso, quindi se questo mondo fa schifo è per colpa sua...”. Jean non replica, ma con commiserazione afferma: “Forse, domani, dopo il funerale... me ne vado con i bambini...”, poi entra in casa e tenta di ubriacarsi. Anche nel pre-finale, quando Ray fa portare Gaspare a club per interrogarlo e ucciderlo, 264
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l’uomo si rende protagonista di alcune battute parodistiche su se stesso (che ovviamente rivolge, come sempre, al personaggio-specchio che gli sta di fronte). Mentre impugna un’ ascia per uccidere Gaspare, Ray si rivolge a lui così: “Tu non sei mai onesto, mai degno di fiducia... è il difetto del carattere criminale!”, parole talmente ridicole e risibili dette da lui, che perfino Gaspare rimane sorpreso e lo guarda con aria interrogativa. L’intenzione di Abel Ferrara è dunque quella di creare nel film due strade che si contraddicono a vicenda: da un lato la rigorosa costruzione cinematografica, incentrata sull’unità di tempo e spazio, tutta chiusa in una notte che ruota attorno al feretro di Johnny e al racconto degli antefatti che a quella morte hanno portato, evidenziando il ruolo delle donne come coloro che provano a redimere i loro uomini e a scongiurare il circolo vizioso della vendetta; dall’altro la cronaca sarcastica e parodistica di una famiglia destrutturata, costituita da delinquenti di piccolo cabotaggio che si ergono a giudici del libero arbitrio, razzisti e grezzi (anche nei comportamenti sessuali), divisi tra prostitute minorenni e “affari” con i sindacati, convinti della loro forza dettata dalla tradizione e talmente ipocriti da considerarsi vittime del disegno divino. L’obiettivo di quest’intreccio è quello di mostrare il vero volto “mostruoso” della famiglia mafiosa, e non a caso ciò avviene tramite il funerale, il luogo esistenziale attorno a cui si ritrova (e si stringe) ogni comunità per commemorare la non-vita, un corpo freddo posto lungo e disteso dentro una cassa di legno e attraverso i flashback che, opportunamente, mostrano le divisioni fraterne, i reciproci scheletri nell’armadio e quanto quell’unione e quella sofferenza “famigliare” di fronte al morto siano fittizie e posticce. In The Funeral il flashback è associato alla dimensione e alla finalità che esso ha avuto durante il periodo del cinema classico, con l’aggiunta che in questo caso il racconto non è solo narrativo ma è soprattutto emozionale e pulsionale. Tre dei sei flashback sono poco più che schegge della memoria, passaggi veloci dal buio alla luce che riprendono il tema della soglia e che altro non mostrano che gli ultimi istanti di vita di Johhny, proprio sulla soglia che divide la vita dalla morte. I tre flashback più lunghi, invece, se presi singolarmente, hanno come finalità quella di proporre un ritratto, limitato ma essenziale e tragico nei contenuti, di ognuno dei tre fratelli e quindi un intento puramente narrativo che però si sviluppa all’interno di ogni flashback su coordinate sensoriali più che descrittive (compreso il doppio incastro nel caso di quello riferito a Chez). Nel loro complesso, ed è questo che interessa a Ferrara, mostrano invece come non ci sia alcun tipo di rap265
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porto né affettivo né emotivo tra Ray, Chez e Johhnny, ma solo l’apparenza di una solidità familiare necessaria per convenienza e opportunismo (non a caso il momento in cui sono tutti e tre abbracciati è solo durante le foto alla festa), come confermano lo stesso Ferrara: “Non so se sono riuscito a centrare il film, ma di sicuro ne ho catturato l’emozione, e di questo ne sono enormemente orgoglioso”88 e St. John: “La trama è quasi un pretesto, sono i rapporti fra i personaggi e le pressioni che vengono esercitate su di loro che mi interessavano davvero”.89 Anche nelle parti, apparentemente marginali è ancora il tema della soglia ad emergere, come nel caso dell’incontro tra Chez e la giovane prostituta, dove la soglia è rappresentata da 15 $: lo spazio tra 5-20 $ che Chez offre alla ragazzina fuori dal bordello. Se lei accetta i cinque sarà ancora in grado di farsi una vita onesta, ma se prende i venti, come in effetti fa, si condanna alla dannazione, perche come le ricorda Chez furioso : “Non devi scherzare con il diavolo”. Lo spazio in The Funeral, è per forza di cose, l’antro in cui si manifesta il Male, e in cui la m.d. p. di Ferrara si muove con rigore e circospezione, rimane attaccata ai volti pasoliniani delle donne che recitano l’Ave Maria, si muove con impercettibili movimenti per catturare ogni espressione, ogni sensazione e non arretra neanche di fronte all’ “errore” della correzione di campo pur di non perdere i gesti di ogni personaggio. Allo stesso modo, il regista utilizza il fuori-campo con finalità emotive e realmente inquietanti, come durante l’amplesso cui Chez obbliga Clara a riceverlo, nelle cui inquadrature si respira qualcosa di impercettibile e terribile a metà strada tra la pietas cristiana e il tocco del diavolo. La claustrofobia in The Funeral è dunque ontologica, non c’è alcuna possibilità di uscire da quella camera ardente per i protagonisti di questa tragedia: non a caso, spesso i personaggi sono racchiusi in una stesa inquadratura, posizionati su più livelli e messi vicinissimi uno all’altro, quasi come ad esorcizzare il contatto coatto come forma di redenzione (Sal prima che il prete entri in casa gli dice: “Padre, a questi gli serve un esorcismo”). E proprio il prete, interpretato anche qui dal vero sacerdote Padre Robert Castle, rappresenta l’unico raggio di luce in questa vicenda oscura e claustrofobica: un raggio di luce che ha il peso Cristologico della verità e che ha il coraggio (è l’unico tra tutti) di esprimere, nel merito, i fondamenti della natura famigliare dei Tempio. Quando Jean gli chiede di prega88 Paola 89 Paola
Casella, intervista a Abel Ferrara, Venezia 3 settembre 1996 Casella, intervista a Nicholas St. John, New York, 10 ottobre 1996
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re per loro, il prete replica bonario ma deciso: “Jean, sarò sincero. C’è un solo modo per cambiare le cose, ed è che questa famiglia capovolga completamente la sua vita... e non parlo di andare a Messa la domenica, no, è l’ateismo pratico che tutti voi vivete ogni giorno...” Jean scocciata lo incalza: “La mia famiglia crede in Dio, Tommy...”, ma il prete insiste, definitivo: “Non credo che nessuno di voi sia tanto umile da credere in Dio...”.La famiglia dunque, è solo una convenzione, e quello dell’unità un paravento dietro a cui nascondere i propri peccati. In The Godfather, quando Fredo (John Cazale), il fratello maggiore dei Corleone, si intromette negli affari di Mike (Al Pacino) a Las Vegas, questi lo riprende con queste parole: “Fredo, tu sei mio fratello, e io ti voglio bene... ma non azzardarti mai, e dico mai, a schierarti contro la famiglia...” .Per gli Italo-americani criminali, dunque, la famiglia è una necessità e un vincolo come spiega Ray, rispondendo a Sal che lo invita ad allontanare i bambini per qualche giorno: “No, restano qui... con la loro famiglia”. Sia nella tradizione del film di mafia, sia in quella del racconto della provincia americana, i legami di sangue sono pressochè una costante, questo perché il nucleo famigliare serve come ancora di salvezza e agisce come un nido in cui si è protetti e difesi, almeno fino a quando qualche membro non si ribella alle leggi non scritte che la regolano, o non infrange l’etica criminale che la sostiene. Mafiosi di città e rednecks di provincia hanno in comune l’ignoranza, l’omertà e il nichilismo. Entrambi utilizzano la religione come un feticcio e la famiglia come un rifugio, e lo stesso Ferrara nel tradurre la vicenda di The Funeral sul piano “basso” della manovalanza mafiiosa sembra da un lato, ovviamente, volersi contrapporre alla poetica di Coppola e Scorsese (allontanandosi definitivamente dall’etichetta ingiustificata e riduttiva di epigono) e dall’altro pescare nell’humus viscerale dell’America più profonda, quella teatro di vicende sordide con al centro la famiglia abilmente e scrupolosamente raccontate sia da Tennessee Williams che da Elia Kazan. Non a caso, The Funeral ha più di un punto di contatto con un film sceneggiato da Nicholas Kazan, figlio di Elia, e magistralmente diretto da James Foley. At close range (A distanza ravvicinata, 1986), oltre ad essere interpretato da due degli attori di The Funeral, Christopher Walken è Bradford Whitewood Sr, padre di Bradford Withwood Jr. (Sean Penn) e di Tomas Whitewood (interpretato dal quasi esordiente Crhristopher Penn), presenta una famiglia criminale che rimane unita fino al momento in cui tra i membri si stabilisce un patto di reciproca complicità legata a furti e rapine nella campagna della Pennsilvanya, ma 267
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quando Brad Jr. assiste ad un omicidio gratuito da parte del padre, si allontana da lui, rivendica la sua indipendenza e la possibilità di costruirsi un futuro onesto. Terrorizzato che il figlio possa fare il suo nome, Brad Sr. non esita ad eliminare il fratello minore e tenta anche di uccidere quello maggiore e la sua fidanzata. Come nei film di mafia, all’inizio del film Brad Sr. si rivolge a suo fratello Patch (Tracey Walter) che ha “osato” parlar male di uno dei suoi figli con queste parole: “Ti avverto di una cosa: non si parla male della famiglia”, e lo stesso Brad Jr., durante l’interrogatorio in carcere nel finale del film, risponde così al poliziotto: “Non parlo male della mia famiglia”.Ma, paradossalmente e come in The Funeral, in At close range l’etica criminale e il mantenimento dell’omertà che la regolano prevale sull’importanza dei legami di sangue. Un finale paradossale che ben si addice all’ipocrisia precedentemente sbandierata in merito alla necessità di essere una famiglia unita. Come in The Funeral, infatti, in At close range, si stringe un legame iniziatico tra padre e figlio; nel film di Ferrara questo avviene nel passato, con un omicidio a sangue freddo, mentre in quello di Foley avviene attraverso il battesimo del primo furto. Come in The Funeral, anche in questo caso c’è un dialogo rivelatore, dietro al quale si nasconde l’etica criminale della famiglia Whitewood, che il regista inquadra come un quadro impressionista, con un campo medio in cui padre e figlio sono di spalle sulla soglia della porta di un granaio. Brad Sr. dice al figlio: “Devo essere sicuro che entri con gli occhi aperti sapendo bene quello che fai e con chi stai. Soprattutto perché è una situazione familiare”. Uno stacco mostra i due personaggi, sempre di spalle, a mezza figura, e il padre continua a indottrinare il figlio dicendogli: “Vieni con noi una o due volte, vedi com’è e poi decidi. Se ci stai ancora... perché se ci stai è fatta. È un legame di sangue... non romperlo!”. Anche in At close range, sono gli uomini che scelgono se compiere il Bene o il Male: in questo caso, non c’è il paravento della religione, ma semplicemente una violenza reproba e ancestrale che porta il padre a violentare la fidanzata del figlio affinchè questa non lo distolga dall’attività familiare. Come in The Funeral non c’è redenzione, ma a differenza del film di Ferrara, qui la morte spetta solo ai comprimari della tragedia (il figlio minore e i suoi amici), mentre padre e figlio si ritrovano sui banchi del tribunale nella veste di imputato e di testimone d’accusa. Foley ragiona su una tragedia umana (il film è ispirato a un fatto vero), in cui gli attori decidono del loro destino nell’inconsapevolezza di essere dei perdenti nati, Ferrara invece rende i suoi protagonisti consapevoli del proprio destino, ed è 268
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proprio per questo motivo che ognuno dei tre fratelli, a modo suo, giustifica le proprie azioni come frutto di un disegno divino. La strage è dunque inevitabile come testimonia Chez quando Clara tenta di farlo desistere dal suicidio: “...E vivere senza i miei fratelli?...” Se Ray incolpa Dio perché lui è malvagio e il mondo fa schifo, se Chez dice a Clara: “Se Dio mi voleva in pace ci avrebbe pensato lui”, è Jean, che con malcelata ironia a rivelare l’impossibilità di redenzione della famiglia Tempio, se non attraverso lo sterminio della famiglia stessa e la conseguente interruzione della catena della violenza, (non a caso Chez risparmia le donne) quando (sapendo che non arriverà mai), chiude il dialogo con il prete dicendo e: “Beh! … forse ci serve un miracolo...”.
The funeral – Recensione Attraverso la cornice del gangster-movie, Ferrara e St. John mettono in scena il funerale della tradizione mafiosa della famiglia italo-americana. Utilizzando, abilmente i due colori funebri (cioè il nero e il viola), trasformano la casa della famiglia tempio in un enorme camera mortuaria in cui, però, il legno dei serramenti, dei pavimenti e dei mobili non riscalda mai con il senso profondo della sofferenza, un’atmosfera violenta e raggelante. Non c’è redenzione, se non attraverso l’autodistruzione, per questa famiglia, che si ritrova insieme per la veglia funebre di un congiunto. Il momento che cristianamente è deputato all’unità familiare, alla commemorazione del defunto e alla condivisione della sofferenza, paradossalmente diventa qui il momento in cui emergono gli egoismi personali, in cui si prende consapevolezza del proprio fallimento e in cui la separazione avviene attraverso dolori lancinanti che neanche le preghiere di un prete possono lenire. La scelta dell’unità di tempo e di luogo è dettata dalla necessità di utilizzare la casa dei Tempio come se fosse la stanza di un obitorio, in cui reiteratamente e alternatamente si susseguono le visite solo di persone appartenenti alla famiglia. Nessun estraneo può entrare, neanche attraverso le onoranze funebri, che subito viene ricacciato indietro; solo nel momento in cui, devozionismo e superstizione si legano nella necessità di scoprire il colpevole dell’omicidio di Johnny, solo in quel momento un estraneo può essere portato in casa. Quello dei Tempio è un mondo chiuso, isolato e solitario, persino nel contesto della stessa via in cui abitano, in cui, contravvenen269
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do alla tradizione, neanche i vicini si recano a rendere omaggio al defunto. Per Ferrara e St. John è questa la condanna che spetta alla famiglia mafiosa, quella di essere ignorata, isolata e avvinghiata solo ed esclusivamente attorno al proprio rancore e alla sete di vendetta. Tutto il film, altro non è che la messa in scena di una veglia funebre a cui i convitati sembrano scientemente rifiutare di partecipare. C’è nei personaggi dei film (e questo è comune sia agli uomini che alle donne) come la paura di confrontarsi con quel cadavere che giace disteso in una bara circondato da fiori e candele. Paura dettata dal terrore che da esso possa emergere (come puntualmente accade) la verità sulla natura criminale della famiglia Tempio. Persino il prete, in un certo momento sembra accorgersi dell’inutilità di pregare per questa famiglia dannata e invita Jean a pregare essa stessa per la famiglia, prima che, al momento del congedo, con pietas cristiana egli stesso le dica che anche lui pregherà per loro. Tutto il film nell’aspetto serio come in quello parodistico, è incentrato sul tema del libero arbitrio, e come, negli insegnamenti evangelici, anche nel film l’incapacità di riconoscere il criterio di scelta si trasforma in condanna per chi ha fatto del peccato (consapevole) il proprio stile di vita. Nonostante l’opposizione forte e reificata delle donne, i tre fratelli Tempio non sfuggono alla morte, che prima che nel loro destino appare rinchiusa nel loro stesso Dna, con uno stile sommesso e misurato, austero e solenne, Ferrara e St. John, in soli 99 minuti annientano l’immaginario mafioso propugnato da quasi un secolo di cinema. In The Funeral non c’è spazio per il romanticismo, perché nella mafia e nelle sue azioni non c’è e non ci deve essere nulla di romantico. È un sistema criminale e come tale merita solo di essere condannato.
The funeral – Sondaggi critici Ferrara filma gli attori come attori, le scene e i costumi come scene e costumi, il più vicino possibile, con la massima tensione drammatica, ma come se si dovesse vedere il trucco, come se la finzione del cinema dovesse apparire sempre visibile. Strano effetto, dalle prime immagini, questa impressione di trovarsi insieme ai personaggi, di essere urtato dalle persone in movimento, di seguire con agitazione i gesti patetici, di partecipare, in una parola alla vita dello schermo e di colpo di non essere altro che uno spettatore sorpreso da un atteggiamento, da una inquadratura, da un effetto particolarmente inar270
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cato. È una cinema da studio che sa di finzione e non lo nega. Un cinema di qualità, di prima scelta, dell’effetto ricercato. E di improvviso, in quest’atmosfera di rappresentazione, tra il legno levigato e le pose affettate, fa irruzione la massima violenza. Non c’è più recitazione, non c’è più distanza, non c’è altro che un disastro immediato davanti a una manifestazione che sotto ogni aspetto disturba. Disturba l’ordine sociale rappresentato, ma disturba anche l’ordine della rappresentazione stessa. E come l’intrusione di un eccesso di realtà sulla scena sofisticata delle convenzioni. E nel corso tranquillo delle apparenze, questa violenza ha qualcosa di ancora più insopportabile. Curiosamente questo scoppio di vita che dovrebbe essere sentito come un soffio salutare, questo scatenamento improvviso che permette di spezzare dei rituali troppo rigidi, dà al contrario l’impressione di un’assurdità ulteriore, di un’arbitrarietà intollerabile. VINCENT AMIEL, POSITIF, N.430, 1996 Fratelli (il titolo originario è The Funeral) copre l’arco temporale di una veglia funebre, un momento che di solito serve a rafforzare un gruppo. Qui, ha una funzione disgregante. Le figure narrative, immerse in un contesto connotato d aun cattolicesimo tradizionale sono schierate su fronti opposti: le donne vivono in profondità il rito del congedo che, per gli uomini, diventa un impegno sociale come altri pur scatenando in loro un flusso di memorie. E, dalla dialettica tra i due mondi, scaturiscono elementi per una meditazione religiosa. Ora accettata e ora respinta, essa conduce a un fitto interrogarsi sul libero arbitrio, la dottrina della predestinazione, la responsabilità individuale. Cose, tutte, assenti o rimosse in un comune film-gangster. FRANCESCO BOLZONI, AVVENIRE, 25 OTTOBRE 1996 Venendo dopo The Addiction, che è una specie di capolavoro, The Funeral è forse inevitabilmente meno intenso, ma ha tuttavia un mucchio di materiale ragguardevole da offrire. The Funeral tende ad avere una sua coerenza emozionale piuttosto che narrativa, ed è interessante che il compendio per la stampa si riferisca ad una storia più scorrevole e tradizionale. (…). oltre ad offrire fondamentale nutrimento alla folla di irriducibili del video, questi interventi servono a distogliere l’attenzione dalla tradizionale trama della rivalità familiare del film di genere e sottolineano l’ossessione di Ferrara per psicosi e violenza, dall’azione e redenzione. Scene che danno senso alla storia sono state tagliate a vantaggio di aspetti secondari. Per esempio, Johnny che trascina Ghouly a una riunione del partito comunista e si beve il discorso incendiario dell’oratore 271
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come se fosse il sermone di un prete, o ancora lo strano scambio tra Jean e il sacerdote di famiglia che ne bolla lo stato di pratico ateismo. KIM NEWMAN, SIGHT & SAOUND, APRILE 1997 Valutazione Pastorale: Il film, realizzato con rigore narrativo ed interpretato da professionisti eccellenti, è un affresco tragico di una “famiglia” di mafiosi nella quale agli uomini, tre fratelli, cresciuti ed educati in un clima di odio e di vendette, spietati nella difesa del proprio “onore”, fa da tenue contrappunto il gruppo delle mogli, persone animate da altri sentimenti, ma inca-paci ad opporsi alla volontà dei loro mariti. Nella notte che segue l’uccisione di uno dei fratelli un unico sentimento prevale nel cuore di uno dei due fratelli: la vendetta. Nell’evocare con gelido distacco il tumultuoso accavallarsi dei sentimenti, la rabbia di dolorosi e infami ricordi del passato e la spietata catena di decisioni che scandiscono la tragedia, il regista pone allo spettatore una serie di inquietanti problemi esistenziali che coinvolgono la persona umana ed appellano alle responsabilità, alla libertà, alla trascendenza, al rispetto della vita. Su questi problemi il regista, esprimendosi attraverso i personaggi del suo film, offre risposte quantomeno ambigue: il male è solo follia? L’uomo che fa il male è veramente libero? Chi è il vero responsabile del male? Ambigua anche la realistica descrizione delle crudeli e spietate scene di violenza e la sottolineata, talora riconosciuta, ineluttabilità del male COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
Subway stories: tales from the underground (1997) Stazione della metropolitana. John T. (Mike Mc Glone) e la moglie (Gretchen Mol) sono una bella coppia borghese. Tutte le mattine prendono la linea A, ma lui va in una direzione, a Manhattan, lei nella direzione opposta. Una mattina John T., sta leggendo il giornale tenendosi all’asta di sostegno (dalla sua voce over apprendiamo che è sposato da tre mesi), quando una formosa e sexy portoricana (Rosie Perez) si appoggia alla mano di lui: prima il seno poi l’inguine. L’uomo è imbarazzato, sposta la mano ma lei insiste. Si stabilisce una silenziosa intesa erotica che si compie ritualmente tutte le mattine e si protrae per nove mesi. Un giorno John, che si sente padrone della situazione, le rivolge goffamente la parola. Lei sbuffa, si sposta infastidita e alla fermata cambia vagone. 272
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A questo punto l’uomo capisce che è lei che conduce il gioco e che il suo potere si limita a quella mano appoggiata sull’asta. Decide di smettere e cambia la linea “A” per la “F”.Un giorno passando dai tornelli con la moglie visibilmente in cinta re-incontra la portoricana. I due si guardano a lungo, la moglie chiede spiegazioni ma l’uomo nicchia e mostra indifferenza. La portoricana sorride maliziosamente.
Nel 1995 Rosie Perez si rivolge alla alla HBO (la Tv via cavo “liberal”) e chiede di indire un concorso per raccogliere storie vere ambientate nella metropolitana di New York. I produttori dell’operazione sono Jonathan Demme, Rosie Perez e Edward Saxon, che nell’estate del ’96 selezionano venticinque racconti tra le migliaia pervenuti alla HBO. I racconti selezionati vengono messi a disposizione di dieci registi che possono scegliere quello che vogliono dirigere. Ogni episodio è scritto da uno sceneggiatore diverso e tra i registi intervengono: Jonathan Demme (Ep.: Subway car from hell), Ted Demme (Ep.: Manhattan Miracle), Bob Balaban (Ep.: The 5: 24), oltre ad Abel Ferrara. Il progetto prende forma nell’autunno del 1996, quando cominciano ad essere girati i vari episodi, con il titolo: Subways Stories-Tales from the underground. Ferrara gira il suo contributo nel Novembre dello stesso anno, della durata di nove minuti circa: Love on the “A” train. La sceneggiatura è di Marla Hanson, la fotografia di Ken Kelsch che lavora anche per altri sei episodi, mentre il montaggio è affidato ad Elisabeth Kling. La mano di una donna nella sceneggiatura si sente visto che in questo ménage a trois, vissuto tra la stazione e i vagoni della metropolitana, il punto di vista è esclusivamente femminile ed il maschio ci fa una pessima figura. In questi nove minuti Ferrara anticipa alcuni temi di The Blackout, come la sovrapposizione tra le due donne, il conflitto tra desiderio e controllo: nove minuti, nono episodio del film, nove mesi il tempo della “relazione” tattile tra John T. e la portoricana, come una gravidanza, non solo reale come quella della moglie, ma anche del pensiero e della maturazione/codardia del maschio, che non a caso chiosa l’episodio, prima dell’epilogo, con queste parole: “Era piacevole, ma valeva veramente quello che avrei potuto perdere. Pensavo di aver trovato in lei qualcosa che mancava al mio matrimonio... ma mi sbagliavo... e così la lasciai ...per la linela F”. Lo stile richiama il cinema classico, così come il tema del “breve incontro” è messo in scena utilizzando dissolvenze incrociate e sovrim273
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pressioni cariche di significato; come quella dove brevemente nella stessa immagine, si susseguono il tunnel del treno, la sbarra e lo sguardo seducente e orgasmico di Rosie Perez: tra brevi immagini la cui somma sintetizza un amplesso. Ferrara utilizza il “breve incontro” per mettere a fuoco fantasie e limiti del maschio: peccatore redento solo davanti all’impotenza, poiché solo quando si accorge di non controllare la situazione torna mente e corpo tra le braccia della moglie, ma forse, anche più consapevole della sua potenza sessuale all’interno della relazione coniugale, precedentemente ammantata da perbenismo estetico, come viene mostrata da Ferrara nelle inquadrature di fronte all’edicola. Qui il regista si affida nuovamente al registro della parodia, rivisitando metropolitanamente la famosa scena della colazione di Citizen Kane (Quarto potere, 1940) di Orson Welles, con l’executive e la moglie che progressivamente si fanno prima indifferenti e poi silenziosi nella loro routine quotidiana. Abel Ferrara disegna con lucidità e in pochi minuti come il desiderio maschile possa diventare ostacolo e “muro” nella relazione matrimoniale quando trova modo di essere esaudito in un “gioco” apparentemente innocuo. La relazione silenziosa e tattile tratteggia con ironia i limiti della comunicazione uomo-donna: due esseri che nel silenzio conducono la loro relazione tra corpi ma che quando interviene la parola diventano irrimediabilmente distanti. L’uomo si sente il padrone della situazione, si pavoneggia e si lancia in considerazioni presuntuose e ridicole sul suo potere sessuale, come quando afferma nei suoi pensieri: “Fu un incontro casuale quello, non mi sentivo affatto coinvolto... questo almeno era quello che dicevo a me stesso”, ma poco prima senza più ascoltare il discorso tedioso della moglie sui bambini dell’asilo, l’uomo guarda insistentemente l’orologio per non perdere la coincidenza giusta, non quella con il treno ma quella con il suo desiderio che si illude di saper controllare. Sempre in voce-off l’uomo dichiara (a se stesso): “Cominciai a sentire che la mia mano possedeva una potente attrazione, come i maschi di certe specie animali hanno dei naturali ornamenti che le femmine trovano irresistibili, il ventaglio del pavone ad esempio...” La scelta del pavone avviene non a caso visto che dopo dice: “Avrei potuto trascorrere ogni ora che avevo disponibile attaccato a quell’asta della metro, in completa esposizione, per tutte le femmine della città”. La parodia emerge dunque, anche nel linguaggio pieno di riferimenti animaleschi utilizzato dalla voce-off dell’executive, un uomo-paradigma che pretende che la donna sia innamorata di lui per il 274
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solo fatto che ama strusciarsi sulla sua mano tutte le mattine, e non a caso, quando le rivolge la parola la donna si dimostra indispettita e annoiata e lui non trova di meglio che dichiarare la sua presunzione: “Io voglio che tu mi ami per qualcosa di più della mia mano”. Il sorriso finale di Rosie Perez collima con quello “nascosto” della sceneggiatrice Marla Hanson, che in quanto donna sembra sorridere di questo ometto borghese che si ricorda del suo anniversario di matrimonio solo perché scadono i buoni del Comune, e che davanti ad una donna “disponibile” ma autoritaria e forte preferisce rifugiarsi nella calda sicurezza del matrimonio. Ferrara agisce nella costruzione dell’episodio su due binari paralleli come quelli su cui corre il treno underground: fantasia e realtà. La portoricana è una figura reale o il materializzarsi dei desideri dell’uomo? Il regista non risolve l’enigma, ma lascia che sia lo spettatore a decidere.
The blackout (1997) Un uomo sulla spiaggia, di notte, di fronte al mare illuminato dalla luna. Miami, l’attore di Hollywood Matty (Matthew Modine) ritorna nella città della Florida dalla sua fidanzata Annie (Béatrice Dalle)e, una volta in camera, le offre da bere champagne e le fa una proposta di matrimonio. In città, nel frattempo, in un night-club il regista Mickey Ray (Dennis Hopper) sta girando in video, un remake sexy di Nana di Christian-Jacque. Le persone che entrano nel locale, possono partecipare direttamente al film oppure finanziarlo. In albergo Annie confida a Matty di aver abortito: quando questi, infuriato, tenta più volte di colpirla, lei gli fa ascoltare la registrazione di una segreteria telefonica in cui lui la invitava ad abortire. Matty, disperato si rifugia nel locale di Mickey alla ricerca di forti sensazioni. Dopo una breve discussione i due escono in macchina, si recano da due prostitute dove partecipano a un’orgia, e una volta ritornati al locale Matty fuma del crack offertogli da uno sconosciuto. In un diner l’uomo si trova di fronte una cameriera di nome Annie (Sarah Lassez). Dopo un goffo tentativo di abbordaggio, Matty invita la donna a seguirlo nel locale di Mickey, dove questi, notata la somiglianza della ragazza con l’altra Annie, le fa indossare una parrucca nera. Matty, sempre più sconvolto la abbraccia e comincia a chiedergli dell’aborto. Le immagini saltano. Diciotto mesi dopo, Matty 275
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vive a New York, e partecipa alle sedute degli alcolisti anonimi. È fidanzato con Susan (Claudia Schiffer) una gallerista d’arte e frequenta sedute di analisi presso uno psicanalista (Christ Zois – non accreditato) che registra le sue confessioni con una videocamera. Susan deve partire per tre giorni e Matty, dopo aver litigato con lei in merito al suo rifiuto di un lavoro per la televisione, approfitta dell’assenza della donna e si reca a Miami. Raggiunge Mickey sulla spiaggia e gli chiede notizie di Annie. L’uomo gli risponde che Annie ormai si è trasferita in Messico e vive con un altro uomo. Matty disperato riprecipita nell’alcolismo, e in un crescendo autodistruttivo, ritrova frammenti della memoria su ciò che è accaduto con Annie2. Dopo essersi fatto trovare da Annie e da Michey, riverso a terra e in uno stato pietoso, il regista lo conduce al suo locale e gli mostra la registrazione in cui si vede lui che strangola Annie2. Matty disperato fugge sulla spiaggia, e durante la notte si suicida gettandosi nel mare. Una serie di stacchi neri mostrano il suo corpo sempre più lontano e sempre più sommerso. In sovraimpressione appare il corpo nudo di Annie2 con Matty che tenta, inutilmente, di abbracciarlo.
Dopo The Funeral, Ferrara cerca risposte. Dopo il rigore formale del film precedente, apprezzato anche dai detrattori, torna con un film destabilizzante e disordinato. La risposta è Miami, la città dei conti in sospeso, la città della riconciliazione dopo la delusione e l’abbandono di Cat Chaser. Il film prodotto da Edward R. Pressman costa otto milioni di dollari spesi dalla CIPA di Michel Chambat, dalla MDP Worldwide di Mark Damon e da Les Films Number One del francese Pierre Kalfon di Studio Canal. I soldi quindi li mettono sia gli americani che i francesi, ma è Gianni Nunnari, della componente americana della Cecchi Gori Group, a distribuire per pochi giorni il film in Italia. Lo script originale è di Marla Hanson, Christ Zois e Abel Ferrara, ma dalla versione definitiva scompaiono alcune scene: Matty e Michey in una piscina di uno strip-club di Cuba, due incontri con una veggente che invita Matty a ritornare sulla scena del crimine e alcune immagini dello stesso Matty che recita in un violentissimo action-movie, oltre alla famigerata scena onirica, girata a mai montata, dell’incontro lesbo tra Béatrice Dalle e Claudia Schiffer.90 Proprio questa scena “fantasma” scuote il Festival di Cannes, dove il film viene presentato nella sezione “Un certain regard”, che garantisce assieme alla presenza, in loco, della Schiffer un 90
La si può vedere tra gli extra del DVD francese.
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grande battage pubblicitario. Schiffer, tra l’altro, che non recitando (su richiesta dello stesso Ferrara non frequenta nessuna corso di recitazione), conferisce al personaggio di Susan quella naturalezza e imbranataggine necessarie per essere credibile nel ruolo. Christ Zois è un amico comune di Abel Ferrara e Marla Hanson, che viene coinvolto in un primo momento solo come consulente in merito a casi di alcoolismo e ossessività paralizzante, mentre successivamente viene coinvolto direttamente nella stesura dello script. Ognuno dei tre sceneggiatori fornisce un contributo equivalente al 40%, all’incirca, del totale ma molto del risultato finale è frutto di improvvisazione (quasi tutta la parte di Dennis Hopper) e continui cambiamenti. La Hanson scrive integralmente la scena di Matty e Mickey in automobile; Zois viene coinvolto in prima persona nella parte dello psichiatra e improvvisa le due sedute analitiche con Modine; suo figlio Elia è il cameramen preso a calci da Matty; infine Nancy Ferrara recita se stessa e mette in scena la crisi coniugale con Ferrara in un breve inserto video. Le riprese del film vengono ultimate nel giro di un mese, nell’agosto del 1996 tra Miami e New York, e il set del film Nana Miami è ricavato in un vecchio night club in disuso: la lavorazione si svolge tra risse (quella tra Ferrara e Hopper è registrata in un home-movie custodito da PJ Delia, moglie di Joe) e continue tensioni ben raccontate dalla stessa Bétarice Dalle: “Non so come Abel ha avuto il mio numero di casa e mi ha chiamato da New York un venerdì sera: Mi ha detto: “Puoi venire a vedermi?”, “Certo” ho risposto, “Puoi venire domani?”, “D’accordo” e sono partita il sabato mattina. Ci incontriamo. Lui non parla una parola di francese, io a stento parlo l’inglese. Ma l’elettricità è passata. Le cose però sono peggiorate subito. Io dovevo trascorrere solo un week-end a New York e invece mi dice che dobbiamo andare per quindici giorni a Miami e che non voleva che tornassi in Francia. Non m’ero portata niente (…) Ma lui se ne fregava. Siccome nessuno faceva niente per facilitarmi le cose ho finito per incazzarmi. Una sera, in un ristorante, Abel ha preso il cuscino della sua sedia e me l’ha sbattuto in faccia. Io ho fatto lo stesso e mi sono messa a piangere. Era così in continuazione. Abel deve andare sempre fino in fondo. Per la scena in cui Claudia Schiffer parla al telefono con Matthew, di cui Abel mi ha fatto vedere un provino, lei era distrutta. Abel l’aveva ingiuriata in tutti i modi. (…) Le liti sul set erano una costante. (…) Abbiamo lavorato improvvisando molto. Abel metteva macchine da presa dappertutto, in modo che non gli sfuggisse nulla di quanto accadeva durante le riprese. Era asfissiante. Una volta sono scoppiata, siono sali277
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ta su un tavolo e gli ho detto. “ È una prigione questo film! Se dico un cosa me la ritrovo sullo schermo. Non ho voglia di crepare per te!”. (…) In Francia si gira per nove ore al giorno, con Abel si gira per quindici ore e una volta finito si va tutti nello stesso albergo. È fuori discussione provare a uscire dal film”91
L’idea originale del film, risale al 1994, ma la stesura della sceneggiatura è datata 9 luglio 1996: in essa non c’è niente che indichi che Annie è francese e Susan non è raccontata come un mercante d’arte ed è lo stesso Ferrara a parlarne: “Ho voluto scriverlo io, perché l’idea risale ai tempi di Bad Lieutenant. Ne sono venute fuori una trentina di pagine. L’idea era quella di fare Vertigo con indagine annessa, ma poi è subentrata la realtà con la rottura dei miei rapporti prima con Nancy e poi con Marla... Il protagonista ritorna a casa, dove è cresciuto a Mount Vernon nel Westchester. I suoi genitori non vivono lì da otto anni. Lui ha ucciso una coppia nella camera da letto. Il fatto che la gente uccide e poi rimuove gli omicidi, fino a quando all’improvviso tutto torna in mente, è affascinante. La versione originale parlava di un uomo che uccide la propria compagna dopo che questa l’ha lasciato, accoppiata alla storia del blackout.92
Di tutto questo rimangono solo l’omicidio ed il blackout, mentre la storia da un lato si rafforza riflettendo su scelta e libero arbitrio, e dall’altro sbanda paurosamente tra deliri meta-filmici e ragionamenti su sguardo, memoria e pornografia. La realtà “pornografata” del film, si intreccia con il corpo video registrato e frammentato, attraverso l’uso insistito della dissolvenza incrociata con personaggi e set che rimandano, continuamente, ai concetti di duplicazione e di remake. Ken Kelsch è il direttore della fotografia per la sesta volta e illumina una Miami da cartolina ma mai manierista. I tramonti bruciano di arancioni fiammanti su di un mare livido e opaco. La notte è un nero infinito che aleggia sull’acqua di un oceano color petrolio che non promette nulla di buono. Colori estremi e cangianti con gli stati d’animo dei personaggi. New York invece è invernale ma mai fredda dove i mattoni rossi delle case danno una sensazione di calore e di sicurezza. Il 91 Béatrice Dalle su The Blackout in Giona A. Nazzaro ( a cura di) Abel Ferrara, la tragedia oltre il noir, Stefano Sorbini editore, Roma 1997, pagg. 149-153 92 Gavin Smith, Interview with Abel Ferrara, Sight and Sound, Aprile 1997 in Brad Stevens, op. cit., p.246, traduzione nostra
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soundtrack composto da Joe Delia e Schoolly D., spazia da brani quasi classici a un tango-rock composto dallo stesso Ferrara, accreditato nei titoli di coda tra i musicisti con l’abituale pseudonimo di Jimmy Laine. Il tema della gravidanza attraversa tutto il film come un basso continuo mediante l’uso massiccio della dissolvenza incrociata e delle sovrimpressioni, dove un’immagine ne contiene un’altra. Dopo il blackout trascorrono diciotto mesi prima di vedere Matty a New York. Diciotto mesi, il doppio del tempo di una gravidanza. Il problema prioritario di Matty, come si evince dalle sedute analitiche, è quello di tagliare il cordone ombelicale che lo lega ad Annie. L’immagine in 35 mm contiene quella del supporto magnetico: il video “ingravida” la pellicola. Matty è “gravido” del suo dolore, quello che si porta dietro ma che non riconosce, perduto nella sua memoria alla sfascio tra eccessi alcoolistici e autodistruttivi. Sarà proprio grazie ad un video “gravido” di realtà mostratogli da Mickey che scoprirà finalmente di avere ucciso Annie2. Infine l’acqua, elemento costantemente presente nel film, come un liquido amniotico che ingloba paure e sensi di colpa, o che si manifesta in incubi notturni “gravidi” del male commesso e scelto da Matty. La memoria è rielaborazione del rimosso, riquadratura e reinvenzione di luoghi, la ricerca di qualcosa andato perduto ma che è necessario ritrovare per avere la pace. La memoria è quella di un amplesso vissuto o immaginato da cui nasce una nuova vita: la memoria è un corpo. La carne di un uomo ricorda quella di una donna in un incontro-dono di reciproco amore e piacere intenso. La memoria quindi è movimento, e ancora di più lo è quella erotica che per traslazione si tramuta in immagine che stimola il desiderio. Così è costruito The Blackout, cioè sull’erotismo come linguaggio cinematografico. La memoria è racchiusa nel cervello, identificato con l’appartamento, luogo perimetrato dove negli angoli, nell’intrecciarsi delle luci, negli interstizi dei muri e nei silenzi assordanti, si nascondono segreti intimi e talvolta terribili. La memoria quindi è luogo, e il luogo è cinema, un’immagine delimitata dai quattro lati della cornice. Immagine vuota sia che si tratti dei 35mm. sia che si tratti del video: se è 24 fotogrammi al minuto o al secondo, come afferma Mickey Ray, non ha importanza, perché quello che conta è riempire il vuoto. Ma per Abel Ferrara l’immagine è carne, il cinema è pornografia e lo schermo è la “porta della percezione” che amplifica il ricordo. Nel ricordo vivono esperienze e desideri, e la memoria è il mezzo che li materializza: per questo Matty ricorda solo quando vede il video dell’omi279
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cidio da lui commesso. La pornografia esistenziale vive quindi nel “nero” che stacca un fotogramma dall’altro. Il pornografo schizzoide interpretato da Dennis Hopper ricorda il produttore Al Gorsky interpretato da Gerard Damiano nel suo Skin ficks (La pelle, 1978), quando afferma rivolto al suo regista: “Un film è un’ora di niente, che ti deve riempire di tutto. Artistoidi beceri, non capiscono che la vera arte nella vita è creare un po’ di amore”. Sembra di sentire Mickey che, dopo aver fatto vedere il video dell’omicidio di Annie2, rivolgendosi a Matty lo insulta invitandolo a crescere e a prendere le proprie responsabilità, mettendolo di fronte al fatto di essere solo un montato hollywoodiano, un fighetto presuntuoso senza arte, che non si ricorda nemmeno la sua più grande interpretazione. La felicità che il dissoluto Matty sembra aver trovato nell’amore di Susan, egli non la riconosce se non quando si scopre assassino: ma ormai è tardi e il peso da sopportare troppo grande. Miami è la risposta, quella del suicidio che avviene in un mare nero e minaccioso che bagna le dorate spiagge della città costiera. Così avviene nello splendido finale del film, dove il nero domina su tutto, nasconde, inghiotte e fagocita il corpo di Matty che si abbandona alle onde: troverà la pace alla fine della notte, nell’aldilà dove con timore tenterà di abbracciare il corpo nudo di Annie2. Il video registra sempre. sia la vita che la morte, senza pregiudizi. Mickey ha un locale-set, dove i clienti a seconda di quanto pagano possono semplicemente vedere le riprese, oppure “recitare” nel film in presa diretta. Mickey Ray, che nel nome prima e nella performance poi, omaggia uno dei maestri di Ferrara Nicholas Ray e il suo ultimo lavoro collettivo fatto con gli studenti We Can’t Go Home Again (1979, inedito in Italia) è la riproposizine grottesca di contemporanei videomaker a tripla X come Andrew Blake o Michael Ninn, nei cui video non c’è distinzione tra realtà e finzione, ma regna il disorientamento tra corpi intrecciati e scenografie futuristiche create digitalmente. Il video è il supporto ideale dove addensare il peccato, e quindi il Male, perché in un mondo sempre più controllato dalle immagini “reali”, il cinema, inteso come “fabbrica di sogni”, consuma la sua lenta agonia. Con il personaggio di Mickey Ray quindi, Ferrara sembra annunciare la morte del cinema: “Il video è il futuro” sbraita Mickey in uno dei suoi deliranti monologhi. Ferrara quindi, celebra il funerale della pellicola in diretta così come faceva Gerard Damiano in Skin Flicks dove celebrava la morte del porno inteso, come arte e come ricerca, attraverso la storia lancinante di una attrice (Sharon Mitchell) alla 280
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ricerca del piacere assoluto che necessita del dolore reale per poter recitare e quella di un regista incapace di portare a termine un film: dolori esistenziali ben rappresentati attraverso l’allegoria delle bambole mortuarie che assistono silenziose alla prima e dolcissima scena hard del film che Harry (Jamie Gillis) sta girando. In The Blackout ci sono Hitchcock, Nana, il cinema, il video, l’amore, il sesso, la memoria, la morte e tante altre cose centrifugate in maniera più o meno disordinata, ma c’è soprattutto il nero. Quello degli spazi infinitesimali che scorrono allo scattare di ogni fotogramma e che sommati insieme, come dice Ferrara, “alla fine del film sono 8/10 minuti di buio”.Nel buio si muovono i pensieri e la mente lavora rielaborando il vissuto. Questo è il “blackout” del titolo, uno spazio-interrotto e minimo dove si possono cambiare/alterare le cose: il principio su cui questo avviene è duplice, perché contempla il tema del doppio e quello del remake, ma la modalità è unica ed è quella della performance. In The Blackout, il tema del doppio non è affrontato secondo le regole hitchcockiane di Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) cui, evidentemente, il film è comunque debitore, ma secondo lo specifico cinematografico del remake: il doppio inteso non come una “seconda vita” bensì come replica di se stesso, potenzialmente infinita e pertanto assimilabile alla duplicazione. A partire dai numeri con cui Mickey cataloga le due donne Annnie1 e Annie2, passando per il remake filmico di Nanà (quello di Christian-Jaque, in cui la protagonista viene strangolata dall’uomo che l’ama) che diventa Nanà Miami e che replica (involontariamente?) la scena fondamentale dell’omicidio finale, fino a giungere allla duplicazione del supporto con la pellicola che replica il video e viceversa. Ma anche la struttura stessa dal film è giocata sulla duplicazione: gli esterni di Miami sempre luminosi, ripresi sotto un cielo azzurro o in una notte illuminata a giorno dalla luna, che duplicano gli interni oscuri (del locale-set di Mickey) o luminosi (ma minacciosi perché “gravidi” di ricordi”) della stanza d’albergo; New York è duplicazione di Miami, nel senso che viene presentata come una città invernale, fredda, mai illuminata dal sole, come una sorta di purgatorio esistenziale, dove il legno che ricopre l’appartamento abitato da Matty e Susan non riesce a riscaldare la loro relazione e a lenire il dolore dell’uomo, e dove lo studio dello psichiatra sembra più un bunker (come dice lo stesso Matty) sotterraneo che uno studio medico; l’aborto espresso nelle parole, improvvisamente francesi, di Annie1, è duplicato dalla registrazione della segreteria telefonica, così come 281
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l’omicidio commesso da Matty nella realtà, e rimosso dalla sua memoria, è duplicato dalla ripresa video che lo riproduce davanti ai suoi occhi nel finale del film. Gravidanza e duplicazione dunque che conducono al remake: non è casuale infatti che per giungere alla verità Matty compia, autodistruggendosi, un remake delle sue condizioni al momento dell’omicidio di Annie2, e solo in quel momento riaffiorano nella sua memoria frammenti di quella verità indicibile che la sua memoria continua a negare a se stessa. Ma il salto più vertiginoso Ferrara lo compie nella rappresentazione dei due personaggi maschili, in cui Mickey rappresenta la duplicazione di Matty. Il regista newyorkese mette in scena un paradosso che confonde e destabilizza lo spettatore: se Mickey nella sua rappresentazione eccessiva nel suo urlato over-acting e persino nel nome (che rimanda anche a Mickey Mouse) appare come un personaggio da fumetto, parodistico e sarcastico, è in vece Matty il centro degli intenti parodistici del regista, che trasforma la vittima potenziale nella caricatura di se stesso, un personaggio talmente idiota da fare tenerezza. Per fare ciò ricorre al più banale, ma sottile, espediente cinematografico, quello della performance, costruendo l’interpretazione come una sorta di continua seduta analitica con domande persistenti, sulla memoria, sull’identità, sull’integrazione sociale, mostrate dal punto di vista di un attore hollywoodiano pieno di sé, arrogante e presuntuoso, spavaldo ma incapace di affrontare la vita perché privi degli strumenti necessari per farlo (è lo stesso Matty ad ammetterlo di fronte allo psichiatra). The Balckout, nella sua costruzione filmica come in quella rappresentativa dei suoi personaggi ricorda il film Performance (Sadismo, 1970) co-diretto da Donald Cammell (che lo scrive) e da Nicholas Roeg. Performance mescola materiali eterogenei, pellicola, super-8, disegni, graffiti, sovraimpressioni, dissolvenze incrociate, allucinazioni... all’interno di un montaggio avanguardistico confuso e affascinante, con la stessa fluidità con cui lo fa il film di Ferrara con un montaggio più “classico” e lineare, ma egualmente caotico. In Performance Chas (James Fox) è un sadico, misogino e violento membro di una banda di delinquenti dell’East London capeggiata da Harry Flowers (Johnny Shannon). Chas disobbedisce agli ordini di Flowers che gli aveva intimato di non lasciarsi coinvolgere nell’acquisizione di un negozio di scommesse di proprietà di Joey Maddocks (Anthony Valentine). Come ritorsione, Maddocks e un compare assalgono e torturano Chas nel suo appartamento, ma egli riesce a ribaltare la situazione, uccidendo Maddocks. Chas è 282
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costretto a mettersi in fuga e finisce per nascondersi, in un locale situato nello scantinato di una casa di proprietà di un tale di nome Turner (Mick Jagger), si ingrazia i favori della bella Pherber (Anita Pallenberg), una delle inquiline, e si trasferisce nella casa. Performance è noto soprattutto per il debutto sul grande schermo della rockstar Mick Jagger nei panni di Turner, musicista dissoluto e mefistofelico. Turner è una specie di recluso, un’eccentrica ex-rockstar che dice di aver “smarrito il suo demone” e che abita insieme a due sue amiche, Pherber e Lucille (quest’ultima francese come Annie1), con le quali vive ménage à trois bisessuale (più o meno come il Reno Miller di The Driller Killer). Turner sembra essere immerso in una esistenza edonistica con due ragazze, una varietà di droghe, e un assortimento stucchevole di manufatti primitivi e orientali. Quasi ogni oggetto nel suo appartamento/antro-oscuro è rivolto al passato: candele, incensi, tappezzerie, arazzi. Turner è l’equivalente di Mickey, un’artista caotico e impulsivo che basa esclusivamente la sua prestazione sulla ricerca della performance “perfetta” ed è un regista demiurgo capace, come il videomaker di Miami, di piegare alla sua volontà chiunque “profani” il suo spazio vitale. Turner al primo incontro con Chas gli si rivolge così: “No , lei non può adattarsi qui”, e lo invita a lasciare l’appartamento, e poi più tardi lo interroga: “Chi sono io?...ma lei sa chi è lei?”. Le domande sono le stesse del film di Ferrara, inoltre, anche in Performance emerge il concetto di memoria, esplicitato qui, attraverso l’uso del peyote come elemento in grado di aprire le “porte” del passato. È lo stesso Turner a dire a Chas poco prima dell’inizio del trip: “Io dico che dobbiamo continuare, ma tornando indietro nel passato.. e di corsa”. La droga assume dunque la stessa funzione dell’alcool in The Blackout: è lo strumento necessario per duplicare la realtà (con quella passata) e allinearsi al momento del ricordo, al recupero della memoria. Nell’atmosfera allucinata e distorta, enfatizzata dalla straniante colonna sonora, di un apologo sui perversi meccanismi del potere, tra ambiguità dell’essere e illusorietà del reale giocati, appunto, sulla performance il film presenta gli specchi e gli apparati di ripresa, come strumenti di rivelazione e mistificazione al tempo stesso, e il travestimento e l’identità fittizia legati all’uso di droghe psicotrope come elementi dissonanti che creano confusione tra finzione (Chas millanta di essere un’illusionista) e realtà. Il tutto è definito attraverso le tessere di un puzzle visionario che il montaggio cut-up scompone e rimescola in una narrazione dissociata e anti-lineare. Nel finale 283
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Chas sparando a Turner uccide il suo “doppio”, che lungo tutta la narrazione è abilmente mostrato attraverso un’insistito ricorso all’immagine speculare (Ferrara usa il video come specchio), e non a caso le ultime immagini che mostrano la Rolls Royce bianca allontanarsi lungo un strada di campagna e sparire sul fondo del quadro, non mostrano chiaramente chi sia l’uomo che guarda dal finestrino se Turner o Chas con una parrucca. Finale che richiama quello di The Blackout in cui il mare nero fagocita il corpo di Matty, che, nell’andirivieni di dissolvenze in nero, sparisce alla vista dello spettatore ma senza dare chiaramente l’impressione di una morte certa fino al momento della comparsa, in sovraimpressione, dell’ultima immagine di Annie2 nuda. La complessità psicologica di Performance è pertanto la stessa di The Blackout, che nel film di Cammell/Roeg emerge soprattutto nella scena in cui Turner si trucca e abbiglia come Chas e durante una fantasia psichedelica (costruita come un videoclip ante litteram), sembra adottare lo stile di vita del gangster. Se l’aspetto parodistico è legato principalmente alla figura di Matty, la costruzione filmica nella sua apparente ingenuità, è debitrice nuovamente di Special Effects di Larry Cohen. Non è casuale, e neanche fuori luogo dato il contenuto, che entrambi i film di Ferrara sul cinema, Snake Eyes e The Blackout, trovino richiami e fonti d’ispirazione in questo film piccolo e “sbagliato” di Cohen, non solo per la presenza in Special Effects di Zoë Lund (della quale è anche l’idea del soggetto di The Blackout), non solo per la riproposizione, in forma moderna (ma dozzinale) e meta-cinematografica di Vertigo, ma soprattutto per l’impianto parodistico e sarcastico su cui è costruito (in merito al cinema) e per la riflessione, non banale, proposta sul binomio realtà-finzione. Il film di Cohen, si apre, sui titoli di testa, con la voce-off di un giornalista che interroga il regista Christopher Neville (Eric Bogosian). Una delle domande riguarda il fatto se per girare sia meglio Hollywood o New York, e il regista risponde: “New York, perché qui le cose sono più reali. Ogni posto è reale quando giri un film?” e poi ancora, incalzato dal giornalista, su chi siano i suoi modelli, Neville risponde: “Abraham Zapruder”. Sin dall’inizio dunque, oltre alla dicotomia California/West Coast, emerge il richiamo al cinema inteso come riproduzione della realtà, lo stesso principio sui cui è costruito The Blackout, in cui Nanà Miami è girato senza un set vero e proprio ma semplicemente invitando gli ospiti del locale a prendere parte al film come se si trattasse di un infinito reality show. La protagonista di Special Effects, ha abbandonato 284
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il figlio in Oklahoma, per andare a New York per fare l’attrice, e quando il marito gli mostra il super-8 con le immagini del figlio ella lo ripudia e lo respinge perché lo vede come ostacolo ad una presunta carriera. In The Blackout, la scelta di Annie1 è molto più radicale, ed è quella dell’aborto indotto dalle parole del fidanzato, ma anche lei, dopo la morte del figlio mai nato, stranamente, intraprende la carriera di attrice e diventa la star del film di Michey Ray. In Special Effects, c’è un dialogo rivelatore all’inizio del film che rimanda alla insondabilità della differenza tra realtà e finzione se questa è slegata da elementi esterni. Il pretesto è quello della visione da parte di Neville del filmato che riproduce il momento in cui Jack Ruby spara a Lee Harvey Oswald (l’assassino di JFK) e il regista interroga l’aspirante attrice sui dettagli del volto dell’uomo. Di fronte al filmato Mary Jean afferma: “Questo è reale!” e Neville replica: “Come fai a dire che è vero?” e la donna a sua volta: “perché so che è successo”. Dopo averla guardata in faccia Neville la interroga: “Puoi conoscerlo, puoi sapere che è successo realmente, se non l’hai visto al telegiornale?” e la donna, sicura di sé risponde: “La sua faccia. Nessun può interpretare un’espressione così. Non può essere falsa”; il regista sorpreso dalla risposta della donna la interroga su quale sia la differenza tra la realtà e la finzione e di fronte alle titubanza di Mary Jean dichiara soddisfatto: “Se non ci fosse differenza? La morte reale e la morte ricostruita. È solo ciò che ti ricordi”. Anche in Special Effects, quindi, la memoria risulta imprescindibile per definire il realismo o meno delle immagini, e come in The Blackout, la partecipazione ad un film diventa un’esperienza limite e pericolosa, come si evince dal momento in cui la donna viene strangolata dal regista in seguito alla scoperta, da parte di lei, della cinepresa che da dietro uno specchio sta riprendendo il loro amplesso. Mentre la strozza, Neville le dice: “Ok baby, sei nel film adesso... guarda nello specchio”. Tutto il prosieguo del film di Cohen è finalizzato alla ricostruzione “reale” di una storia il cui epilogo possa essere rappresentato dalle immagini “vere” della morte in diretta di Mary Jean. Come Mickey Ray, Christopher Neville, con la sua cinepresa riprende ogni momento della ricerca della donna dal momento della sua scomparsa ed entrambi costruiscono il loro film attorno ad una donna scomparsa che diventa fulcro della storia narrata: dall’alto riprende Keef il marito, al momento dell’arresto, riprende le indagini della polizia, e invita l’ispettore Delroy a partecipare direttamente al film; entra in carcere, e invita, dietro lauto compenso, Keef a essere 285
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protagonista della ricostruzione della sua vita, e quando l’ispettore, appassionato di cinema, gli chiede se utilizza effetti speciali, Neville replica stizzito: “Io prendo la realtà e la ricostruisco in modo credibile. Anche questo è un effetto speciale”. La conferma di queste parole si ha nel pre-finale, quando Neville seduto alla moviola monta la “morte reale” di Mary Jean al posto di quella “ricostruita” sul set. Anche nella rappresentazione e nelle dinamiche che portano al reclutamento del “doppio” di Mary Jean, Special Effects ha più di un punto in comune con The Blackout. Elain Bernstein, come Annie2, è una donna di bassa estrazione economica, lavora come volontaria presso il magazzino della Salvation Army, mentre Annie2 è cameriera in un diner. L’approccio di Keef è pressapoco lo stesso di Matty: entrambi dopo il momento di sorpresa, invitano la donna a seguirli sul set del regista. Qui, sia Mickey che Neville, ricorrono all’utilizzo del trucco per “ricostruire” il personaggio reale scomparso. La scelta di donne umili, facilmente manipolabili attraverso il fascino esercitato dal cinema, e l’invito coatto alla trasformazione da parte del regista sono un chiaro segno della volontà diabolica che anima tanto Mickey Ray quanto Christopher Neville. Se questo aspetto viene messo in parallelo con le parole rilasciate da Béatrice Dalle sulla lavorazione di The Blackout ecco emergere l’aspetto autobiografico del film: la necessità da parte del regista di un controllo totale e assoluto su ogni elemento del profilmico compresi sia gli attori, che gli esseri umani che svolgono questo mestiere. L’attore dunque, le sue fragilità, le sue complessità psicologiche legate al ruolo, Matty: parodia al vetriolo (ma anche pietistica) dell’attore hollywoodiano. L’intento di Ferrara è chiaro sin dall’inizio, quando mostra il viaggio in limousine dell’attore di ritorno a Miami, durante il quale un taxista lo riconosce e gli chiede dei soldi e lui sarcastico gli regala un cioccolatino e poi si fa una tirata di coca direttamente dal palmo della mano. La supponenza e l’arroganza dell’attore “famoso”(come mostrato dalla fotografia che lo ritrae tra Bruce Willis e Angelina Jolie), di colui che vive la sua vita come una recita continua ed è incapace di distinguere la realtà dalla finzione, ma soprattutto i sentimenti reali da quelli recitati: mentre bacia Annie1, l’amico seduto al tavolo ammicca: “Ok Matty, stiamo girando. Forza Romeo”. Matty regala l’anello “di matrimonio” a Annie1 estraendolo dalla cocaina che si porta sempre dietro: un gesto simbolico che abilmente mescola emozione e corruzione. Gesto che trova conferma nell’arroganza con cui accarezza Annie1 durante 286
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il viaggio lungo le strade glamour di Miami e mentre accarezza il suo capezzolo Matty pretende di avere un modo esclusivo nel farlo; è la donna che con malcelato sarcasmo lo riporta alla realtà dicendogli: “Chiunque al mondo può fare questo, chiunque può farlo come te... Oh sì!... lo faccio anche da sola e provo le stesse cose, non mi serve”. Matty esiste perche gli spettatori gli permettono di esistere (Annie1: “Tutti sono felici. È un bene per te”): Ferrara mostra questo assunto con le carrellate sui locali alla moda di Miami, perché è quel tipo di pubblico che tiene in vita l’immagine di Matty ed è lo stesso che lo trasforma in merce al servizio dei registi come Mickey. Tutta l’inconsistenza di questo personaggio è mostrata esplicitamente durante il dialogo sull’aborto, in cui Matty non merita da parte di Ferrara neanche di essere inquadrato nella sua interezza: l’immagine che lo propone nel controcampo con Annie con il volto tagliato a metà dal bordo alto dell’inquadratura è esplicativa della sua misera esistenza divisa tra la cocaina( quella che sniffa nel bagno) e la superficialità (la storiella sconcia che racconta senza ascoltare le parole di Annie1 che infatti ricorre, paradossalmente, al francese per farsi sentire). Anche dopo il blackout, dopo la rinascita attraverso l’esperienza newyorkese degli alcolisti anonimi, Matty non è diverso, come dimostra la fragilità mostrata davanti alla videocamera dello psichiatra. Quando questi lo incalza con le domande su Annie1, Matty replica: “Voglio che mi dica addio, che tagli il cordone ombelicale...”, “Lei è il bambino?” gli chiede lo psichiatra e lui risponde: “Un bambino non si taglia il cordone ombelicale da solo...”, e ancora il dottore: “Non vuole prendere in mano le redini della sua vita?” e Matty: “Non posso, non ho gli strumenti per tagliare il cordone”.A questo punto Ferrara calca la mano sugli aspetti deteriori di questo personaggio ridicolo e “trasparente”, prima attraverso la violenta litigata con Susan in merito al rifiuto di una parte in un serial televisivo (perché lui è un attore di cinema), poi con la telefonata sempre con Susan da Miami, in cui ubriaco fradicio nega, inutilmente, la sua condizione, infine di fronte al ritorno di Annie1, in cui il regista newyorkese fa la parodia di se stesso attraverso la supplica disperata di Matty che ricorda (solo nei modi e nella postura) quella reale e lancinante di Lt. in Bad Lieutenant. Di quanto Matty sia la caricatura grottesca dell’attore arrivato, se ne ha conferma dal suo rifiuto di assumersi responsabilità (preferisce suicidarsi) e dal fatto che nel finale, non si accorge che Susan lo ama veramente, indipendentemente da quello che ha fatto o da quello che è, anzi, proprio 287
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per quello che è, perche Susan vede in lui l’essere umano, mentre Matty vede in se stesso solo la sua immagine per gli altri, ormai macchiata da un omicidio e pertanto impresentabile: meglio morire che affrontare i giudizio del pubblico. Sarà Mickey, questo personaggio inclassificabile, un po’ cartone animato, un po’ diavolo, un po’ coscienza morale a mettere di fronte a Matty la sua nullità, quando gli mostra il video su cui è registrato il suo omicidio di Annie2 e, con un lungo monologo, gli dice: “C’è molta emozione in questa ripresa. L’hai sentita mentre la giravi, vero? È il tuo lavoro migliore, peccato che l’hai dimenticato. Peccato che sei un drogato e un ubriacone. Non ricordi neanche la tua migliore interpretazione. Per me è difficile dimenticarla, Che merda di uomo sei? Che schifo di uomo sei? Tu, star montata del cazzo, arrivi e sputi nel mio piatto... con i toi privilegi! Fai il montato del cazzo! Quella sera quella ragazza l’hai uccisa. E io ti ho guardato... non voglio lavarmene le mani, ma non ho capito che eri morta fino a quando non l’ho toccata. Tu non potevi sapere che fosse morta perché eri in blackout... Quando ti prenderai le tue responsabilità? Guardati allo specchio e cresci! Pensa a crescere in fretta.. tu non vivrai in eterno”. Alla luce di quanto accade dopo, queste parole di Mickey appaiono sibilline: lo spinge lui al suicidio?, come lo ha spinto finora a fare ciò che serve alla realizzazione di Nanà Miami?. Non deve stupire che Abel Ferrara trasformi il pornografo d’assalto, cioè che colui che secondo le convenzioni, rimesta nel torbido e si “sporca” le mani con il peccato, diabolico e sincero, nella visione morale dell’esistenza, perché il punto centrale del film è incentrato sull’inganno delle apparenze secondo cui l’eroe (Matty) è invece il carnefice di se stesso e il carnefice (Mickey) è invece la vittima. Mickey, infatti, non recita, improvvisa, interroga lo spettatore : “Tu non mi conosci, ma io ti conosco... Andiamo io ti conosco” (queste sono le prime parole che pronuncia nel film), è ripreso da Abel Ferrara con piani sequenza (volutamente) sgrammaticati o attraverso la soggettiva delle videocamere, celebra il video, perché è il futuro, sbeffeggia Godard e si prende gioco di Matty quando gli dice accanto ad Annie1: “Non puoi essere la star del film, perché la star è lei”. È un essere diabolico, una sorte di Caronte della celluloide, che non a caso, riprende le confessioni di Matty durante il viaggio in macchina e poi lo conduce dalle due prostitute dove, durante il festino lesbico Matty dice: “Mi sembra di essere in un film di vampiri”. Infine, prima litiga con Matty quando questi gli chiede “Te la sei scopata Annie... te la scopi?” e Mickey 288
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risponde profetico: “Il punto non è se l’ho fatto, ma se me lo ricordo... e cosa ancora più importante, tu te lo ricordi?”, e dopo sembra creare la “proiezione infernale” (dettata anche dalla luce rossa) dell’uomo nero che nel bagno del night-club offre a Matty il crack da fumare: poco dopo l’alienazione di Matty, compare sullo sfondo Mickey silenzioso a riprendere la scena con la sua videocamera, perché Matty è la merce necessaria al confezionamento del suo film, ed egli la può plasmare e alterare a seconda delle necessità. Non a caso, è sempre dopo il nuovo incontro con Mickey che Matty, riassapora il primo Beefeater e si abbandona alla vertigine alcoolica e autodistruttiva: il regista dunque controlla ogni cosa, la recitazione è solo un performance il punto centrale della ripresa è l’agire reale adeguato dal “burattinaio” alle sue esigenze. The Blackout è un film sul potere, inteso in senso assoluto, che come un cancro fagocita tutto e non salva nessuno in un mondo in cui non c’è più spazio nè per i sentimenti, né per le emozioni ma solo per le loro riproduzioni e per vite ridotte a remake potenzialmente infiniti, e pertanto come dice Morando Morandini al termine della sua recensione: “Che cosa insegue Ferrara: una impossibile purezza originaria? O per lui come per Nietzche, l’uomo è soltanto uno sbaglio di Dio o Dio soltanto uno sbaglio dell’uomo? E se fosse un film religioso?”93.
The blackout – Recensione Un trip lungo un film in cui si mescolano reminiscenze artistiche, ricordi del cinema del passato, confessioni semi-autobiografiche, autocitazioni e riprese legate tra loro da un montaggio schizofrenico e caleidoscopico. In The Balckout Ferrara mette in scena la dannazione di esseri umani condannati, dal ruolo che rivestono, a essere dei perdenti. Che questi ruoli siano legati al mondo della celluloide è la dimostrazione che il film rappresenta la morte del cinema, perché con il video ognuno può fare “cinema”, ognuno può riprendere e riprodurre la realtà. Non è un caso che anche lo psichiatra riprenda le sedute analitiche attraverso una videocamera e che abilmente, Ferrara non mostri mai il controcampo che lo vede in scena ma solo l’immagine in P.P. di Matty, riprodotta dalla videocamera posta di fronte a lui. Il video è il futuro, 93 Morando
Morandini, Il Giorno, 31 dicembre 1997
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quello che da lì a qualche anno passerà senza filtro sui canali di you tube, in coi può essere mostrato tutto e il contrario di tutto, in cui non contano nè il contenuto della ripresa né la sua qualità ma solo l’effetto che le immagini fanno su chi le guarda. Una visione passiva del mondo, scevra da emozioni e da sentimenti, riproduzione fredda e glaciale della realtà più cruda e soggettivizzata che nulla ha a che fare con il cinema. In The Blackout, c’è un regista-demiurgo, un attore-merce e una vittima-colpevole, un’altra che ha abortito, e una che non riesce a trattenere tra le sue braccia l’uomo che ama: solo esseri dannati, dunque, condannati dal libero arbitrio, perché incapaci di scelta; per questo Abel Ferrara maltratta questi personaggi, li umilia, li ridicolizza, li distrugge, perché rappresentano l’opposto di tutto ciò in cui lui crede. E non è un caso che The Blackout sia il primo film senza St. John, perché è il film in cui Ferrara si confronta con i suoi fantasmi (hollywood, produttori, star, la televisione, i privilegi, la corruzione a portata di mano), quelli che secondo lui gli impediscono di fare cinema con continuità. Per questo il film appare (ma è solo apparenza) sconnesso, farraginoso, disordinato, caotico; in realtà l’operazione è lucidissima, perché è fatta della sua stessa materia: fantasmi dannati che possono essere visti nella loro mostruosità solo attraverso una visione deformata e onirica, perché appartenenti ad un mondo in estinzione e anello di congiunzione con un futuro (quello del video ma anche del reality show) tutt’altro che roseo, anzi nero come il mare che inghiotte tutto. The Blackout è un film (involontariamente?) profetico.
The blackout – Sondaggi critici Grondando cinema e sangue, Ferrara segue, mettendo molto peso morale, il discorso su realtà e finzione che incrociandosi ci uccidono. E cita Fellini non solo col poster in di 8 e 1/2, ma anche perché questa storia talvolta somiglia a una Dolce Vita allucinogena dove invece della fontana di Trevi ci si ritrova riversi su una piscina. Film sgradevole e coinvolgente, che mostra all’ingrosso sniffate, ubriacature, urlate e anche un minishow porno-lesbico: ma la sua forza sta sempre nell’andare sotto pelle con una specie di immagine subliminale, come accadeva ne Il Cattivo Tenente. perché in fondo è sempre la storia, continuamente interrotta di un’autodistruzione “americana” che appare ogni volta autobiografica in nome del cinema che Ferrara ama proporre allo stato grezzo 290
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ed estremo senza nessun abbellimento. E il blackout è della mente e del corpo, della legge morale dentro di noi, con rimando alla volgare Hollywood Babilonia d’oggi, dove il cinema non riesce più a essere un re. MAURIZIO PORRO, CORRIERE DELLA SERA, 10 MAGGIO 1997 The Blackout sembra una parodia di Ferrara, ciò che farebbe un bracciante che avesse imparato a memoria tre tra gli elementi principali del cineasta italoamericano: l’eroe combattuto tra il bene e il male, dialoghi infarciti di riferimenti a Jean-Luc Godard e al Vangelo e numerose scene di sesso. Da un soggetto fatto su misura per lui Ferrara non ne cava nulla, e si mostra incapace di dare consistenza a una sceneggiatura insulsa, o di andare al di là di una regia sciatta e “pigra”si ricorda sufficientemente del suo cinema per fre un film che gli rassomigli, ma non abbastanza per evitare di caricaturarsi. La riflessione già avviata in Snake Eyes, sulla separazione tra fiction e realtà è qui portata alle estreme conseguenze. Il famoso “blackout” non si limita a una semplice inefficienza mentale ma a una incapacità di vivere se non di fronte a una cinepresa. SAMUEL BLUMEMFELD, LE MONDE, 11 MAGGIO 1997 The Blackout è senza dubbio l’antidoto ideale a The Funeral. Tanto quest’ultimo ha un aspetto solenne, quasi inamidato, atteggiandosi a grande film e teatralizzando all’eccesso, tanto The Blackout è assolutamente libero senza alcun a priori estetico a imbrigliare l’ispirazione di Ferrara, febbrile ed agitata immagine del suo autore completamente a suo agio nella deflagrazione. THIERRY JOUSSE, CHAIERS DU CINEMA, N. 513, MAGGIO 1997 Il regista ha a disposizione una storia suggestiva: quella della doppia dipendenza di Matty da Annie e dalla droga. Però è deciso a non lavorare sulle convenzioni del thriller. Si abbandona, invece, ai simbolismi soggiacenti, racconta gli avvenimenti in modo caotico più che mai, alterna punti di vista e stili di regia senza ragione, farcisce il tutto con sequenze oniriche di gusto perlomeno discutibile. Malgrado i pezzi di bravura e le qualità visive che sopravvivono qua e là insomma, l’overdose di ambizione gli nuoce e gli impedisce di esprimere le sue qualità migliori: al punto da fargli imitare fuori tempo massimo il cinema francese degli anni’70, e non il migliore. Del clima, questa volta, risente persino la direzione degli attori, di solito ineccepibile in Ferrara. Nella parte semi-autobiografica di Mickey, regista mefistofelico, Dennis Hopper centra qualche momento di autentico virtuosismo, ma cade più spesso nell’ autoparodia. ROBERTO NEPOTI, LA REPUBBLICA, 28 DICEMBRE 1997 291
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Thriller banale? Senza il tocco di Abel Ferrara lo sarebbe stato certamente. Ma il regista di Bad Lieutenant trasforma in poliziesco in un dramma psicologico infuocato ed allucinante. L’occasione per un delirio visuale dove il reale si mischia al sogno e al video, per una totale cancellazione delle regole sotto l’effetto dell’alcool, della cocaina, dell’amour fou. Il risultato è un film totalmente sconnesso dal lirismo esacerbato una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde psichedelico. Che mantiene pur sempre, in questo mondo privo di bussola, la sua spinta in direzione di una dolorosa ricerca morale: la ricerca della redenzione. Terribile Ferrara! JEAN PIERRE LARGILLET, NICE MATIN, 10 MAGGIO 1997 Valutazione Pastorale: Anche questo film, come quasi tutti gli altri, è attraversato dai temi tipici del cinema di Abel Ferrara: il senso del peccato, della colpa da espiare, del cammino di sofferenza verso un difficile ma possibile riscatto. Sono argomenti che, come già ne “Il cattivo tenente”, “The addiction”, “ Fratelli”, sono molto sentiti dal regista americano di formazione culturale europea e cattolica. Di volta in volta si tratta di verificare come questi problemi, molto sofferti, siano visualizzati e resi convincenti. In questa occasione, l’impressione è quella di un lavoro tirato via in grande fretta, dove il dolore appare in più momenti posticcio e insistito, diluito in modo melo-drammatico e ripetitivo. Il dramma del protagonista è più presunto che autentico, per cui il film diventa più l’occasione per mostrare sequenze eroti-che di nessuna utilità, situazioni deplorevoli di inutile cattiveria, violenza gratuita. Un film esteriore che, dal punto di vista pastorale, va valutato negativamente. COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
New rose hotel (1998) Le immagini amatoriali di un video ad infrarossi riproducono il fallimento di un tentativo di sequestro e la successiva eliminazione dei terroristi. Titoli di testa. In un locale notturno sito presumibilmente a Tokyo, si susseguono le performance di giovani cantanti- prostitute, mentre Fox (Christopher Walken) e X/Mr. Masterpool (Willem Dafoe) due agenti dello spionaggio industriale della Hosaka progettano la diserzione di Hiroshi Imuri (Yoshitaka Amano) genetista di punta della Maas Biolabs GmbH. Fox si intrattiene con la tenutaria del loca292
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le-bordello Madame Rosa (Annabella Sciorra), la quale gli ricorda il suo passato e gli passa informazioni sui movimenti prossimi venturi di Hiroshi. Sul palco si esibisce una giovane prostituta di origini italiane Sandii (Asia Argento) che viene notata da Fox, il quale successivamente, nella stanza d’albergo di X la reincontra e le propone di sedurre Hiroshi, fargli mollare la moglie Helga (Gretchen Mol) la Maas per trasferirsi alla Hosaka. La ragazza tentenna, ma poi incalzata da Fox, accetta la proposta. Scorrono le immagini di un video in bassa definizione in cui si vede Hiroshi in un bordello di Amburgo gestito dalla sua multinazionale di riferimento, mentre Fox invita X a istruire Sandii e ad insegnarle ad innamorarsi, ammonendo l’amico di farlo senza innamorarsene lui. Tempo dopo, in Italia, Sandii assume l’identità di Angelica De Mayo e X rimane sempre più coinvolto dalla relazione con la ragazza. In una piscina Sandii racconta a X il passato della sua famiglia sommando tra loro versioni contraddittorie. Fox e X incontrano in un albvrgo di Tokyo i vertici della Hosaka e contrattano i termini dell’operazione. Fox per mettere pressione al CEO della Hosaka (Ryuichi Sakamoto) viola il protocollo è fa il nome della Sonthag, la concorrente della Hosaka, anch’essa interessata ai benefici del genetista della Maas. Le due parti si mettono d’accordo sui termini dell’operazione che all’Hosaka costa $1000.000.000, inoltre i vertici intimano a Fox di acquistare a Marrakech, in Marocco, un laboratorio dismesso per la produzione di eroina e di attrezzarlo come laboratorio al servizio di Hiroshi Imuri. Nel frattempo X organizza la diserzione di Hiroshi che deve avvenire a Vienna, mentre il rapimento del genetista deve avvenire a Berlino. Prima che Sandii si trasferisca con Hiroshi nel Nord Africa, X si incontra con lei per un’ultima notte d’amore nella capitale della Germania. Il mattino successivo, X scopre nel passaporto della ragazza un misterioso chip. Fox e X si incontrano in un locale a Tokyio e dopo aver controllato che la cifra pattuita sia stata accreditata sul loro conto, si preparano a trascorrere una notte all’Hyatt in compagnia di quattro prostitute. Prima di recarsi in albergo, X racconta a Fox di essersi innamorato della ragazza e che questa da lì a qualche giorno lo raggiungerà per andare a vivere insieme in un luogo non precisato. Successivamente Sandii scompara come scompaiono i soldi dal conto corrente. Nel frattempo Fox e X vengono a conoscenza della concentrazione a Marakech dei ricercatori di punta della Osaka, e che questi sono stati vittime di una strana epidemia che ha ucciso sia loro che Hiroshi. I due decidono di scappare, e in un centro commerciale, mentre X sta comprando i vestiti da turista per la fuga, Fox viene accerchiato da un gruppo di persone e si uccide buttandosi nel vuoto. X si ritrova a trascorre i suo tempo in una delle celle del New Rose Hotel, mentre attraverso una continua serie di flash-back ripercorre mnemonicamente i momenti più intendi della sua relazione con Sandii. 293
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Quella narrata nel film è un apocalisse a dimensione uomo: la sete di potere, il culto del denaro, la promiscuità sempre latente esibita in tutte le forme sono le droghe della società millenaristica. In New Rose Hotel per raccontare il collasso globale del mondo e la fine dei sentimenti, Abel Ferrara sceglie la via impervia del triangolo (non più amoroso ma amicale) e costruisce il film come un progetto minimalista che riecheggia i codici e le atmosfere del noir del cinema classico per raccontare l’implosione della globalizzazione, vista e vissuta, da dentro le quattro pareti di una stanza d’albergo. Nel caso di quest’ultimo aspetto, forse per le dimensioni del film, questo è un progetto troppo ambizioso, e forse parlare di globalizzazione e multinazionali nello spazio ristretto di angusti appartamenti e con solo tre personaggi, può apparire cervellotico e velleitario. Quello che è certo però è la volontà del regista di spingersi oltre, di cercare l’estremo, un po’ come la “scintilla” che ricerca Fox nel film. Il desiderio di Ferrara è quello di spingere il proprio cinema nel vuoto pneumatico di una società sprofondata nel nulla e senza più né risposte né persone a cui porre domande. Lo stesso Abel infatti dichiara: “Io non do più risposte… non puoi dare delle risposte quando si tratta dell’amore, ma adesso queste cose mi stanno ritornando dritte in faccia…la gente voleva un sacco di risposte da me… ma io non posso darle. Sai quello che mi piace di questo film è che lui “bang!” ritorna sempre al punto di partenza”.94
Il reiterare gesti e azioni accompagna tutti i personaggi del film. Le vite dei protagonisti costituiscono un cortocircuito continuo e inarrestabile la cui causa scatenante risiede nella memoria. New Rose Hotel è tratto dal racconto omonimo dello scrittore cyberpunk William Gibson, contenuto nella raccolta “Burning Chrome” (La notte che bruciammo Chrome). Il racconto risale al 1983 e i diritti vengono acquistati sul finire degli anni ’80 dal produttore Edward R. Pressman, che ne commissiona la sceneggiatura allo stesso Gibson in collaborazione con un altro scrittore cyber: John Shirley. La sceneggiatura di Gibson è pessima: il narratore si chiama Chaney (perché è un uomo dai mille volti?), Fox è di origini australiane, e la camera d’albergo diventa un ambiente squallido, ma spazioso, e gioca un ruolo più impor94
Giona A. Nazzaro, Conversazione con Abel Ferrara in Sentieri Selvaggi n.6, Ottobre 1998, p.25
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tante nella trama (è dove Sandii e Chaney si accoppiano dopo il loro primo incontro).95 Il film inizialmente deve essere prodotto da Malcolm McLaren e alla regia ci dovrebbe essere Julian Temple. Ipotesi subito decaduta, nel momento in cui il progetto passa nelle mani della regista Kathrin Bigelow che si appresta a girare il film a Tokyo. I soldi però non sono molti e Gibson e la Bigelow, che vorrebbe il suo compagno Arnold Schwarzenegger nella parte di Fox, abbandonano la lavorazione. La Bigelow dirigerà nel 1995 Strange Days (id.,) dove sono riconoscibili reminiscenze di questo progetto abortito. Nel frattempo si parla anche di una sceneggiatura di New Rose Hotel realizzata da Zoë Lund, in cui l’immagine è frammentata attraverso l’uso insistito dello split screen e in cui c’è una forte identificazione tra Zoë e Sandii, mentre il protagonista principale è un certo Johnny che rispecchia il carattere del personaggio di un suo racconto, “490”, che Ferrara avrebbe sempre voluto portare sullo schermo, e di cui esiste un trattamento intitolato “Kingdom for a Horse”. Alla fine, di queste sceneggiature, non rimane quasi più nulla nel lavoro definitivo, ultimato da Ferrara nel 1997, che firma la sceneggiatura con lo psicologo Christ Zois, seguendo abbastanza fedelmente il mediocre racconto di Gibson e apportando solo alcune innovazioni marginali come il personaggio di Madame Rosa o il suicidio di Fox. Leggendo la sceneggiatura stilata da Ferrara e Zois, ci si accorge di quanto questa sia servita solo come canovaccio: gran parte delle battute contenute nel film sono diverse da quelle scritte su carta; gran parte della recitazione è frutto di improvvisazione e di cambiamenti dell’ultimo minuto; la cronologia degli eventi è decisamente differente rispetto a quella contenuta nel film. I collaboratori del regista sono ancora una volta (l’ultima) quelli di sempre: troviamo ancora Ken Kelsch alla fotografia e Anthony Redman torna al montaggio in collaborazione con Jim Mol, mentre le musiche realizzate dal solo Schollly D. vengono integrate da alcuni brani scritti dallo stesso Ferrara: Asia Argento canta “I’ll die for you” (Ferrara-Harper Simon), mentre Echo Danon interpreta “Her Eyes Are Black” e “Falling in love whithout falling in love” (Ferrara- Danon). La scenografia è di Frank De Curtis, da ora in poi collaboratore fisso del regista, e il film vince “Il bastone bianco”, il premio Filmcritica alla LVª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. La genesi del film è così raccontata dallo stesso regista: 95 Brad
Stevens op. cit. pag 268
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“Il bastone bianco è...il sesto senso. Il film è soprattutto intuito. Bisogna cogliere lo spunto da ciò che ci circonda, è la risposta immediata al mondo, il modo di fare un film. È il modo in cui ho trovato la parola Sandii in una rivista di motociclismo, dove c’era una ragazzina di 14 anni seduta sulla parte posteriore di una moto che aveva tatuato il nome Sandii. Mi è piaciuto e da qui è venuta l’ispirazione per il personaggio di Asia. Sì, è vero che è una questione di genialità, ma non dipende da noi, solo da noi. È come dice Gibson. Abbiamo cercato di avvicinarci a lui, di cavalcare il libro. Abbiamo accettato, siamo entrati nella sua visione, questo è il nostro metodo: il fatto è che noi accettiamo le visioni degli altri, ma nessuno rispetta le nostre. Il pubblico vuole sempre cercare di capire, di chiedersi i perché di questa o di quella immagine e ci attaccano per questo. I nostri distributori ci dicono, ad esempio che l’inizio del film non è completo. Probabilmente lo rifaremo, non si regge, è una risposta debole, ma chi può dire quale è il modo, chi lo sa quale è il modo giusto per fare un film?”96
Il film si avvolge su di sé tra immagini video distorte, colori evanescenti e l’intrecciarsi dei corpi dei protagonisti. Ferrara gira il mondo tra fantomatiche multinazionali, fanta-terrorismo e uomini di potere per raccontarci invece la storia del triangolo sensual-spionistico tra Fox, X e Sandii. La luce solare non c’è quasi mai, e l’unica luminosità o è quella al neon dell’appartamento di X o quella di improbabili panoramiche su città sconosciute, e viene bypassata attraverso il video che deforma contorni e situazioni rendendo tutta la vicenda come un magma incandescente e inquietante che si insinua nella società. Il film è privo di rigore, sconnesso e discontinuo, ma tra dialoghi mai banali e a volte un po’ surreali si spinge a riflettere sul vuoto e a fare del vuoto la sua stessa forma filmica. Uno sgurdo, quello di Ferrara che può però legittimamente “decentrare” lo sguardo e cercare di scoprire/svelare, con la freddezza di un necrofilo dell’immagine, la materia di cui quell’angoscia si nutre.97 C’è una continua necessità di dipendenza in Fox, che quando guarda in camera verso lo spettatore mentre filma l’orgetta delle giapponesi con X, sembra dirgli: ecco io creo questo, guardate pure, tanto siete schiavi e non potete fare altro. Fox è qui rappresentato come il Dottor Mabuse di Die 1000 augen 96 Lorenzo Esposito, Daniele Dottorini, Andrea Pastor, Bruno Roberti, Francesco Solina e Daniela Turco (a cura di) Conversazione con Abel Ferrara e Frank De Curtis, in Filmcritica 488, Ottobre 1999, pagg. 396-400 97 Fabrizio Tassi, Innamorarsi del vuoto in Cineforum n.383, p.16
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des Dr. Mabuse (Il diabolico Dottor Mabuse, 1960), che sotto le mentite spoglie trasformiste di Cornelius, Dr. Jordan e lo stesso Mabuse, cannibalizza il controllo sull’industria militare ed economica, attraverso la pressione psicologica, fisica e violenta esercitata sui personaggi che transitano dall’Hotel Luxor le cui stanze sono tenute sotto controllo grazie ad un grande numero di telecamere a circuito chiuso. Lang costruisce il film sul rapporto speculare tra personaggi e spettatori in cui entrambi sono continuamente ingannati dalle apparenze. Lang riflette sull’imminenza della società dell’audiovisivo, in cui il controllo è esercitato attraverso il potere dei media mediante il controllo sul punto di vista, così come il Fox di New Rose Hotel esercita il potere astratto dell’economia di mercato attraverso l’imposizione del suo punto di vista. Egli crea grazie all’intuito, e in ciò non è molto differente da Hiroshi. Nel racconto di Gibson ci sono un paio di passaggi che permettono di tradurre il rapporto speculare tra Fox e Hiroshi: Fox era un uomo di punta nella guerra dei cervelli, l’intermediario del traffico interaziendale. Era un soldato nella guerra delle zaibatsu, le multinazionali che controllavano intere economie; e poi, più avanti: “…il sangue di una zaibatsu è fatto di informazioni, non di gente. La struttura è indipendente dalle vite individuali che la compongono, perché le aziende sono una forma di vita...”. Ferrara espelle dal suo racconto filmico, non le persone (come fa Gibson) bensì l’azione. Questa si svolge in un fuori-campo “astratto”, in cui le città cambiano nominalmente, ma il paesaggio, mostrato con lente panoramiche aeree, è pressochè sempre lo stesso. Il conflitto planetario ed economico tra la Hosaka e la Maas Biolabs GmbH, esiste solamente nelle parole dei protagonisti: non viene mai mostrato, non si capisce neanche se ci sia un conflitto in atto o meno o se tutto sia frutto solo del delirio di onnipotenza di Fox, e oltretutto, l’azione che ne dovrebbe conseguire viene suggerita solo attraverso video in bassa definizione che mostrano presunti rapimenti, presunti attentati e presunte vendette aziendali. Come Fox sembra il frutto parodistico di un “regista” eccentrico e guascone, un essere bidimensionale a cui tutto e concesso (ma solo fino ad un certo punto), dominato dall’istinto e dall’intuito, disinteressato al denaro ma ammalato di adrenalina, così Hiroshi viene mostrato solo attraverso l’immagine video: non è un personaggio reale, è solo l’immagine di un “genio” riprodotta attraverso supporti audiovisivi. Questa dimensione narrativa è esiziale nella costruzione filmica di New Rose 297
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Hotel, perché dimostra come il regista sia interessato solo ed esclusivamente ad illustrare le conseguenze dell’intuito di ogni personaggio, che permette ad ognuno di loro di creare qualcosa, di definire uno spazio vitale e di azione, di provare dei sentimenti, tutte cose che possono essere registrate da un supporto audiovisivo. In New Rose Hotel gli esseri umani e i loro rapporto sono entrambi ridotti a merce. A dimostrarlo intervengono, tanto il prologo del film (girato come uno spot pubblicitario), quanto i successivi titoli di testa che “legano” Hiroshi e Fox: questi si aprono con il fermo fotogramma sul volto di Hiroshi appena scampato ad un attentato, si sviluppano in tre lingue (tedesco, giapponese e inglese) come un pannello a led pubblicitario, su cui le informazioni scorrono a loop e in orizzontale, e si chiudono con lo stop-frame sul volto di Fox con il sigaro in mano. Nella seconda parte del film è lo stesso Fox, incalzato da X a confermare l’invidia da lui provata verso Hiroshi, ma anche la sua consapevolezza di essere, come lo scienziato, un reietto della società. Per riprendere questo dialogo, Ferrara ricorre ad un espediente interessante, in cui viene sempre inquadrato chi ascolta, mentre colui che parla è riflesso nello specchio alle sue spalle, in modo che il punto di vista del racconto appaia ingannevole per lo spettatore. Fox dichiara: “Anche Hiroshi è diverso. Lui è come noi. (…) Rendi felice quell’uomo. Avrà la ragazza, si libererà di quella moglie rompipalle... Diciamo che amerei essere come lui, così libero, così ricco, così famoso... Quell’uomo ha tutto...” L’estetica dunque, è dominante sui contenuti in New Rose Hotel, quello che conta è la possibilità di creare, la quale accomuna Fox e Hiroshi: il primo crea le sue “visioni” mette in scena i suoi “spettacoli”, mentre il secondo crea brevetti genetici e si differenzia dai suoi colleghi solo per l’intuito più spiccato e coraggioso. Quella in atto è dunque una “guerra” di idee e di informazioni, un conflitto in cui la materia del contendere è astratta e sfuggente, ma che proprio per questo suo essere implicita e sotterranea trasforma gli essere umani in guerrieri feroci, come afferma lo stesso Fox in una battuta della seconda parte del film, nel locale di Madame Rosa, (ma nella sceneggiatura fa parte del primo dialogo tra lui e X): “No cosa, non hai ascoltato o no, non ti sei divertito?. Hai capito come siamo collocati? Siamo uomini creati per uccidere nelle guerre di mente. Soldati pronti ad agire nelle guerre segrete delle finanziarie. Siamo lupi delle steppe. Soli, isolati, concentrati sul singolare. Ah, ti vedo, che 298
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perfetto lupo che sei. Occhi vitrei, labbra aride, costole che mostrano la fame...”98 In New Rose Hotel, “i guerrieri delle menti” combattono battaglie astratte e utilizzano il sesso come arma, perché al sesso e ai luoghi in cui esso viene consumato si legano tanto le informazioni economiche e finanziarie quanto i video clandestini che mostrano le immagini di tentati rapimenti (quello di Hiroshi e della moglie); materiali che circolano nei bordelli. Le multinazionali gestiscono o controllano postriboli di lusso ad uso e consumo dei propri scienziati e ricercatori, così che (anche piuttosto banalmente) i luoghi del sesso diventano i luoghi del potere. Ma Ferrara va oltre e si spinge nella rappresentazione di una società asettica in cui i sentimenti sono negati e in cui il sesso è veicolato attraverso la dimensione pornografica, al punto che il sesso diventa una sorta di riempitivo del vuoto esistenziale di ognuno: “la ciliegina sulla torta” per spingere Hiroshi Imuri alla diserzione. Nel film l’unico elemento in grado di riempire il vuoto è il sesso, presente come corollario e motore della vicenda ed esibito e radiografato come creazione artistica. Ferrara cita se stesso e il suo The Driller Killer nella scena lesbo del video girato ad Amburgo, e in maniera criptica ripropone stilemi e atmosfere del “mistero” Cafè Flash, nella scena dell’orgia nel locale-bordello di Madame Rosa. Quest’ultima sembra provenire direttamente dal cinema di Damiano, riprendendo iconograficamente la figura di Madame Zenobia, tenutaria del lussuosissimo bodoire del primo episodio di Odyssey, the Ultimate Trip (Odissea sessuale, 1977). Il rituale in New Rose Hotel è quello dell’iniziazione sessuale: rituale circolare come il percorso della memoria di X che rinchiuso nella cella ripercorre tutta la vicenda, senza soluzione di continuità: quello che interessa al regista sono solo le sue visioni, finalizzate ad una scrittura cinematografica non più lineare bensì circolare. Come in The Blackout, Ferrara rimanda il suo discorso estetico a quello del pornografo Michael Ninn. Se il linguaggio non coincide (Ferrara non gira scene hard), il metodo è lo stesso: mischiare video e pellicola per mettere in scena la dipendenza dal sesso dell’uomo contemporaneo. Ninn trasforma la pornografia in “video-arte”, mentre Ferrara la suggerisce tra video “rubati” e simulazioni al limite dell’hard. È un mondo quello di New Rose Hotel dove la ricerca scientifica corre parallelamente al sesso spinto e dove pornografia, 98 Dalla
sceneggiatura originale di New Rose Hotel in Sterling Millenium Series, trad. nostra.
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scienza e violenza formano la “trinità” blasfema su cui si regge il mondo globalizzato. Nell’interessante e sorprendente racconto-saggio di Paul Theroux “L’infermiera Wolf e il Dottor Sacks”99, che mette in parallelo il racconto delle esperienze sessuali di una dominatrix con quello delle patologie dei pazienti del famoso neurologo Oliver Sacks, il parallelismo tra “sesso spinto e ricerca pura” è esplicitato attraverso la sintesi del linguaggio pubblicitario (ricalcando la stessa operazione compiuta da Ferrara con New Rose Hotel) e mettendo in parallelo due mondi, apparentemente inconciliabili, ma sorprendentemente inclusivi: E poi c’era la questione del suo mondo, che era un mondo reale, un mondo a cui, nel mio mondo, si faceva sempre più riferimento nelle immagini algolagniche delle pubblicità della moda – il lungo tacco di metallo di una scarpa Gucci (chiamata “stiletto”) premuta contro il petto villoso di un uomo. Gucci offre un elegante anello da capezzolo in argento per $895. In una pubblicità della birra Bass si vede un uomo che lecca lo stivale di gomma di una donna(“In un mondo di gusti strani c’è sempre una Bass”). “Affittasi lingua” recita il testo della pubblicità di un commerciante di vino di New York, e, com’è prevedibile ci sono immagini perverse nella pubblicità del profumo Fetish.
In un mondo in cui tutto e ridotto a merce è naturale che gli estremi si tocchino e che la perversione o l’anomia si traducano in normalità e quotidianità. La pubblicità è il veicolo dei desideri e pertanto annulla ontologicamente i sentimenti per mettere in scena il vuoto e l’estetica: rimanda l’immagine di un mondo “altro” che già è presente in quello reale senza che il cittadino/consumatore ne sia consapevole. Ecco perché in New Rose Hotel, tutta l’azione passa solo ed esclusivamente attraverso supporti video, perché attraverso il controllo esercitato da telecamere a circuito chiuso, riprese amatoriali, infrarossi, video-sorveglianza, è possibile rendere manifesto il vuoto e concretizzare la visione: Fox è un manipolatore perché crea visioni, X è una vittima (perdente antropologicamente) perché ambisce a sentimenti ed emozioni (e rifiuta le immagini) e Sandii è vincente perché inventa storie (i suoi innumerevoli “passati”) e disorienta i suoi interlocutori e perché ha trasformato se stessa in informazione e quindi in merce. Non a caso, 99 Paul Theroux, L’infermiera Wolf e il Dottor Sacks, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001, pag 18
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anche la violenza in New Rose Hotel è vuota e priva di qualunque consistenza, anche solo quella del sangue: solo attraverso il supporto video può essere ripresa e mostrata, con distacco, con freddezza e con indifferenza. Il mondo di New Rose Hotel è dunque la versione statica di quello di Alphaville, un etrangé aventure de Lemmy Caution (Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, 1965) di Jean-Luc Godard. Come nel film di Godard, anche in quello di Ferrara c’è una totale assenza dei sentimenti (e se c’è, come nel caso di X si tratta di un amore unidirezionale e non reciproco). Su Aplphaville la parola “amore” è bandita, ma esistono “seduttrici di terzo grado” dal piglio professionale e inquadrate nella burocrazia e nel controllo esercitate da Alpha 60: un computer che regola la vita di ogni individuo e agisce per far prevalere la logica, al punto che chi si “macchia” di comportamenti illogici (come amare o “andare verso”, perché solo il movimento circolare è contemplato) viene giustiziato attraverso una cerimonia pubblica. In entrambe i film la fantascienza è trasmessa solo attraverso espedienti narrativi, mentre la scenografia è quella urbana (di Parigi nel film di Godard, di Tokyo in quello di Ferrara); sui due “mondi” domina una sorta di multinazionale delle coscienze che spinge gli individui verso il vuoto esistenziale e verso la sterilità emotiva. L’esercizio di un controllo astratto ma invasivo è finalizzato a far si che chi arriva in Alphaville provenendo dal “mondo esterno” venga integrato, si adegui suo malgrado o soccomba miseramente come accade a Henry Dickson (Akim Tamiroff), che vive marginalizzato in un albergo fatiscente e che muore farneticando di coscienza. All’inizio del film la voce-off di Alpha 60 dichiara: “Accade che la realtà sia troppo complessa per la trasmissione orale. La leggenda la ricrea sotto una forma che le permette di percorrere il mondo”. Abel Ferrara prende alla lettera questa affermazione e costruisce la “leggenda” alla base del suo film, percorrendo il mondo (Tokyo, Amburgo, Berlino, Marrackesh...), senza mai muoversi da una stanza di albergo, perché come dichiara Natasha Von Braun (Anna Karina) a Lemmy Caution (Eddie Constantine) durante il viaggio in taxi: “Nella vita c’è solo il presente. Nessuno ha vissuto nel passato e nessuno vivrà nel futuro”.Se lo stesso agente sembra discostarsi e isolarsi da Alphaville dichiarando al taxista: “Io comunque viaggio ai limiti della notte..” solo dopo aver privato Alphaville della luce e aver fatto precipitare nel caos la sua società, riuscirà a portare verso l’ “esterno” Natasha e a farle prendere consapevolezza dei suoi sentimenti, riuscirà cioè ad uscire dal cir301
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colo vizioso del mondo elicoidale e circolare di Alphaville e a percorrere la linea orizzontale dell’autostrada che “porta verso”. Il controllo infatti, si esercita in questa città-stato attraverso “l’ideale di una società tecnica come quella delle termiti o delle formiche” (come dichiara a Lemmy, il collega Dickson prima di morire), in cui ogni cosa è concatenata e in cui come dice Natasha all’uscita dall’istituto di semantica generale, “si apprende che la vita e la morte si trovano all’interno dello stesso cerchio”. Ferrara e Godard, pertanto abbracciano la circolarità delle loro opere con l’intento di mettere in evidenza come in un mondo controllato, ossessivamente e pedissequamente, dalla tecnica, il peso delle parole sia imponderabile: nella “bibbia” (il dizionario di Alphaville, alcune parole scompaiono giorno dopo giorno, mentre in New Rose Hotel, i racconti reiterati e diversi di Sandii sulle sue origini familiari danno vita ad un “nulla” provocato, paradossalmente, da un eccesso di informazioni. L’ingegnere capo di fronte a Lemmy Caution afferma: “Nella vita degli individui, come in quella delle nazioni, tutto si concatena, tutto è consequenziale”, rappresentando tanto il tema del controllo, quanto l’indissolubile legame tra potere economico e potere governativo. Nel dialogo che apre New Rose Hotel, un amico di Fox gli sussurra: “Tu lo sai meglio di chiunque altro no? È in corso una guerra sotterranea su scala planetaria per la conquista di informazioni. E gli agenti al soldo delle multinazionali si ammazzano a migliaia tra loro ogni anno. È come per l’olocausto nel XX° secolo: tutti ne erano a conoscenza ma nessuno diceva niente... E il governo è coinvolto...”, e Fox replica perentorio. “Tubero e patate. Governo e multinazionali... stessa cosa”.Percorrere una linea retta, verso qualcosa o qualcuno è dunque sia per Lemmy che per X, l’unica scelta possibile per sfuggire al controllo e per riappropriarsi dei sentimenti. Accade così che nel finale del film di Godard la missione di Caution diventi quella di far espatriare Natascha, la donna di cui è innamorato e la spinga a dire da solo le parole “Io... ti… amo”, mentre in quello di Ferrara, X dopo aver ripercorso nel New Rose Hotel gli attimi più intensi della sua relazione con Sandii, si addormenti placidamente dopo aver detto alla donna che ama: “Se veramente lo desideri, lasceremo tutto”.Alphaville e il New Rose Hotel sono luoghi concettualmente limitrofi: spazi mentali in cui il sogno prevale sulla realtà, in cui il ricordo si manifesta attraverso il dolore della memoria, in cui i personaggi recitano se stessi o cambiano/mutano ruolo a seconda delle necessità, luoghi in cui non è più possibile inventare 302
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nulla ma solo ri-vivere frammentariamente il presente. La distruzione della continuità narrativa, comune tanto a Godard quanto a Ferrara, serve appunto per ricreare intuitivamente (come Fox) nuove visioni in cui spazio e tempo sono indeterminati (nel film di Ferrara si parla di anni trascorsi ma non c’è nulla che lo certifichi), in cui i personaggi sono “imprigionati” in un’altrove tecnico (Alpha 60 con la voce umana di un vero reduce di guerra dalle corde vocali lesionate, Hiroshi e la moglie sempre e solo mostrati in video), impossibilitati ad uscire e a percorrere una realtà in cui tutto è vero ma contemporaneamente anche falso. Una realtà in cui la Storia fa dà sfondo al racconto (e viceversa) e in cui le focali e le ottiche con cui vengono ripresi i primi piani schiacciano i volti del personaggi deformandoli e in cui la claustrofobia esistenziale si traduce attraverso le riprese ossessive di dettagli inutili che soffocano la visione e riquadrano lo spazio della scena. Il finale, quei venti minuti in cui X riavvolge i fili del ricordo, in cui egli fugge della realtà per isolarsi nel vuoto del New Rose Hotel, in cui il film si rigenera attraverso l’uso asincrono del flashback e in cui la voce over si mescola alle immagini, ne altera il significato, ne inverte i contenuti rispetto all’ora di film precedente, quel finale è un percorso a rebours che non spiega nulla, non aggiunge nulla, ma anzi, se possibile, confonde ancora di più, ma che proprio per questi motivi diventa pura emozione. X rinchiuso nel suo cubicolo, ama come mai aveva fatto finora; perso nel suo universo psichico (e psicotico) ripercorre solo i momenti sentimentali del suo rapporto con Sandii, tralasciando (ancora una volta) l’azione, e ovviamente senza giungere a nulla: nessuna rivelazione è possibile, perché il flusso sconnesso delle emozioni non rivela nulla se non a chi le ha già vissute. Ferrara ambisce a ritrovare il senso di un cinema del passato, un cinema che guarda ai sentimenti e che mette in scena perdenti umani (e ovvio che il regista sia schierato con X) e vincenti cibernetici condannati però a rimanere ombre (Sandii sparisce) o esili tracce sul video di una videocamera di sorveglianza (il suicidio di Fox). Il regista di New York, dietro a tutto il pessimismo delle sue ultime opere coltiva una speranza: è ancora possibile e praticabile (Fox ripete sempre a X di “non essere pessimista”) il racconto dei sentimenti, anche se solo attraverso il ricordo, il rimpianto e la disillusione verso l’Amore. Il rimpianto di non averlo vissuto e di non averlo difeso lacera l’anima e la psiche di X nella cella del New Rose Hotel, spazio-cervello dove confluiscono pensieri e desideri. Sandii ha tradito, è lontana, ma lui ha 303
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permesso che ciò accadesse. Tutto ciò che gli rimane è il ricordo, reiterato e continuo di ciò che è stato. Sandii ora può solo esistere come una proiezione mentale da ripercorrere avanti e indietro come un nastro magnetico: rewind e fast-forward, per mantenere viva la memoria, per tenere accesa la speranza che ciò che è successo, l’Amore, si possa ripetere, magari nuovamente in una stanza d’albergo o nel blu di una piscina, abbandonando tutto e abbandonandosi alle emozioni.“Se veramente lo desideri, lasceremo tutto”dice X prima dei titoli di coda. Ecco perché non si può parlare (come quasi tutti hanno fatto a proposito dei suoi ultimi film) di empasse creativa per il regista, ma si deve parlare della riscoperta di uno dei codici del cinema noir: l’essenza della memoria e il suo senso legato al flashback: Il finale del film altro non fa che affermare che non esiste un modo per ricordare, non si può mettere ordine nelle emozioni, ripercorrere le stesse situazioni non porta alla scoperta di nulla ma solo alla ripartenza, ogni volta diversa, del dolore legato all’abbandono. Non è dunque casuale che New Rose Hotel guardi ad un classico del cinema noir come Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944) di Billy Wilder, film interamente costruito sul concetto di memoria, percorso da continui flashback, strutturato come una narrazione continua di fatti presunti, e incentrato su un triangolo amicale (come il film di Ferrara), in cui il delitto non paga e in cui lo spettatore non ha nulla da scoprire perché tutto viene raccontato attraverso la memoria del protagonista. Phyllis (Barbara Stanwick) è una femme fatale che come Sandii, inganna il proprio spasimante, lo stordisce attraverso l’uso sistematico delle parole e lo ammalia con un fascino seducente e pericoloso avvinghiandolo a se e intrappolandolo nella tela abilmente tesa attraverso un continuo rimando tra reticenza e disponibilità nei confronti del crimine. Walter Neff (Fred MacMurray), come X è un perdente consapevole, un uomo che ambisce ad essere ciò che non è, che rimane vittima di un gioco molto più grande di lui come ammette egli stesso nella sua confessione a Barton Keyes (Edward G. Robinson): “Dietrichson l’ho ucciso io. L’ho ucciso per denaro e per una donna. E non ho preso il denaro, e non ho preso la donna... bell’affare”. Come X ingenuamente è cieco di fonte alla seduzione di Sandii, e non si accorge della sua fuga strategica durante la notte d’amore a Berlino (abilmente Ferrara mimetizza l’azione attraverso un brevissima panoramica dall’alto che fa solo intuire che si tratti di Sandii, e che lascia il posto al vuoto della tromba delle scale), così Neff, non si accorge che il suo destino 304
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è già segnato sin dal primo, casuale, incontro con Phyllis, come egli stesso ammette durante il rientro a casa dopo il secondo incontro con la donna: “Fu allora che mi accorsi di non essermi liberato di nulla, ma di essere ben impigliato nella rete... non era la fine tra me e lei... ma solo l’inizio. Così quando alle otto il campanello squillò, sapevo esattamente chi era e mi parve la cosa più naturale...”. Il ruolo di Fox in Double Indemnity, non appartiene ad una persona fisica, ma è sostituito dalla presenza incombente del destino, anche se Keyes, come Fox, agisce in funzione del suo intuito ascoltando il suo “omino” cioè il suoi problemi di digestione che si presentano ogni volta che l’uomo si trova di fonte a qualcosa che non lo convince. Neff ritiene che per ingannare la sua compagnia di assicurazioni sia sufficiente mettere in atto tutte le conoscenze acquisite sul campo di lunghi anni di lavoro, e che il coraggio sia determinate per compiere un crimine da cui il suo pensiero (anche prima dell’incontro con Phyllis) non è mai stato esente: “Tutto quello che occorre è la decisione... per fare un colpo maestro”. Fox, in New Rose Hotel ritiene che “La scintilla è l’estremo, risiede in quella piccola porzione di coraggio umano... La scintilla è virtù”, e questa oggi sia determinante nel suo lavoro, anche se all’inizio del film quando Madame Rosa gli chiede: “Cosa cerchi Fox?”, prima l’uomo risponde sarcastico: “Un pompino perfetto”, poi incalzato dalla donna che gli dice: “Mi ricordo quando cercavi la virtù, questo mi dicesti in uno dei tuoi lunghi monologhi notturni...”, Fox replica sconsolato: “Quelli erano altri tempi...”. La cifra che sta alla base del crimine di Double Indemnity è $ 100.000, quella richiesta da Fox alla Hosaka per la diserzione di Hiroshi è $ 100.000.000, ma ciò che lega i due film non è tanto il dato numerico, quanto il fatto che questa cifra sia garantita solo dall’eccezionalità dell’azione. Difatti la doppia indennità viene riconosciuta dall’assicurazione solo in caso di morte in situazione particolare come l’investimento da parte di un treno, mentre la diserzione di Hiroshi è considerata, da tutti gli esperti del settore, come un’impresa impossibile. Ecco dunque che tanto Fox nel film di Ferrara quanto il destino in quello di Wilder assumono i connotati “sacri” del demiurgo, di colui cioè che rende possibile ciò che non è, che crea visioni irreali e le rende tangibili e praticabili, e che è destinato ad essere sconfitto solo dalla fredda e imprevedibile autonomia della donna. Sia Phyllis che Sandii, infatti, agiscono in autonomia, si smarcano prepotentemente dal loro mentore e intraprendono un percorso individuale in cui risultano determi305
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nanti il possesso, la sterilità sentimentale ed emozionale, e la cupidigia, salvo poi, forse, pentirsi quasi fuori tempo massimo. Chissà se anche Sandii, in un ideale seguito del film, parlerebbe come Phyllis di fonte alla morte: “Sono guasta dentro. Mi eri utile... solo fino ad un momento fa. Non pensavo potesse accadermi...” Se il noir di Wilder, pertanto, appare come lo schema narrativo di riferimento per Ferrara in merito all’intreccio sentimentale e amoroso, e risulta determinate nell’economia della parte “seria” di New Rose Hotel, l’aspetto spionistico, come nel caso di Alphaville, un etrangé aventure de Lemmy Caution, è legato, ancora un volta, alla riproposizione sotto forma di parodia. I tratti salienti di questa scelta sono riscontrabili oltre che nell’haiku improvvisato di Fox, oltre che nelle dinamiche relazionali del locale di Madame rosa, anche nelle riprese degli scienziati travestiti a Marrakech, così come nella descrizione della “guerra” in atto tra multinazionali della genetica. Ma Ferrara alimenta la parodia soprattutto attraverso tre diversi momenti nel film che riproducono sotto forma di recita grottesca e sconclusionata, ridicolizzandole, situazioni topiche del genere in questione: il momento della seduzione (quando Fox e Sandii mimano l’incontra tra la donna e Hiroshi), la trasformazione dell’identità (il “finto” viaggio di nozze in Italia tra X e Sandii) e il compenso per la buona riuscita dell’opera (il festino orchestrato da Fox con le quattro prostitute giapponesi). Abel Ferrara, ritorna serio, un ultima volta, solo per evidenziare il nichilismo che soggiace alle guerre di informazione e per tracciare un ritratto banalmente criminale delle scelte autodistruttive del potere e di come queste siano asservite all’ambizione e alla furbizia di una sola donna. Per questo fa dire a Fox, dopo l’apprendimento della notizia della diffusione dell’epidemia che ha ucciso in Nord Africa tutti i genetisti di punta della Hosaka: “La tua amichetta ci ha venduti alla Maas. Se ne fregavano di Hiroshi, lo hanno sacrificato per poter spazzar via tutti i grossi cervelli della Hosaka.. . L’hanno contattata a Vienna.”. La tesi di Ferrara in merito è semplice e lineare: eliminati quelli scomodi, ci saranno altri ricercatori che prenderanno il loro posto, perché in una società ridotta a merce e basata sul concetto di importexport, l’interscambio dei cervelli è la cosa è più normale che esiste; non sono le persone che sfornano brevetti che contano, ma le informazioni che quelle stesse persone sono in grado di utilizzare. Ecco perché, il film non può essere scisso dal racconto di partenza, e perché il prologo del film è così diverso da quello del libro in cui X esprime tutto il suo malessere emotivo 306
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per la perdita di Sandii, ed ecco perché invece, quest’aspetto nel film di Ferrara occupa l’ultima parte: lo scrittore sullo sfondo dell’azione spionistica inserisce gli elementi di una storia d’amore, mentre il regista relega fuoricampo l’azione per lasciare spazio solo al ricordo ormai sbiadito, e sempre uguale a se stesso, delle emozioni. Il cerchio tra le due opere si chiude, dunque, con le parole contenute all’inizio del racconto di William Gibson: Sette notti a pagamento in questa bara, Sandii. New Rose Hotel. Come ti desidero, ora. Qualche volta ti colpisco. Rivivo tutto adagio, dolcemente e crudelmente. Riesco quasi a sentirlo. Qualche volta prendo dalla tua borsa la tua piccola automatica e faccio scorrere il pollice sulla cromatura liscia da poco prezzo. Uno calibro 22 cinese, il foro della canna non più grande della pupilla dilatata del tuo occhio scomparso. Fox è morto, Sandii. Fox mi aveva detto di dimenticarti.100
New rose hotel – Recensione New Rose Hotel è il frutto dell’ostinazione cinematografica del regista newyorkese, quella che lo spinge a realizzare i propri film contro tutto e contro tutti. Non un film di passaggio o un film alimentare, al contrario un film imperscrutabile, avvolto su se stesso, contorto e indecifrabile. Una presunta guerra tra multinazionali in contrasto con un uomo e una donna che (forse) si amano in una stanza d’albergo. Due ambiti distinti e opponenti che Abel Ferrara si guarda bene dal confondere. Il conflitto aziendale è orchestrato attraverso immagini video fredde e distaccate, talvolta confuse come lo sono le riprese delle telecamere a circuito chiuso, mostrato attraverso contrattazioni che avvengono in fredde stanze d’albergo dall’arredamento asettico o in uffici impersonali dall’arredamento essenziale e neutro, mentre gli scambi di informazioni passano attraverso misteriose entreneuse e bordelli della capitale nipponica. I sentimenti, invece, si consumano in stanze d’albergo normali o in ville (come in Italia) dall’arredamento caldo, pesante e barocco e sono percorse da parole dolci e suadenti, rimpianti per una vita passata (quella dei nonni più volte ripresa da Sandii), e sono i luoghi in cui ci si ama dolcemente (“piano piano” come ripete X), in cui si riscopre la 100 William Gibson, New Rose Hotel, in La notte che bruciammo Chrome, Mondadori, Milano, 1993, pag. 95
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gelosia (la notte a Berlino tra X e Sandii) e in cui si fanno ipotetici progetti per il futuro. Il New Rose Hotel, invece è quasi la summa teorica dei due spazi precedenti: un luogo chiuso, oscuro, una sorta di ventre materno in cui provare a rinascere. X nel chiuso della sua “cella” accarezza più volte la piccola calibro 22 cinese di Sandii che ha portato con se mentre ripensa al suo passato con lei, agli intensi momenti d’amore trascorsi con la ragazza in ambienti normali, scambiandosi parole normali e vivendo una realtà ordinaria, lontana anni luce dal suo “lavoro” di organizzatore, su commissione, di rapimenti di scienziati e ricercatori: uccidere o morire, nessuna delle due è la risposta. Sommando i tre passaggi declinati sugli ambienti di riferimento, ne esce un film personalissimo, incomprensibile tanto allo spettatore quanto al critico e totalmente sfuggente nella sua interezza. Un film che come dice il regista ha come unico obiettivo quello di tornare sempre, in maniera inesausta, al punto di partenza, di ricominciare ogni volta a raccontare una storia, sempre diversa e sempre uguale, perché non c’è alcuna risposta da dare, ma solo domande da porre. Un film volutamente manierista, piegato su un estetica d’autore, riconoscibile e personale, che quasi diventa copyright originale dello steso Ferrara. Un film statico, che nella sua fissità immobile ricorda l’importanza di rallentare per non ridursi a merce e provare nuovamente ad amare. Un film, forse, sbagliato e forse “inutile”, ma con cui, il regista riesce, ancora una volta, a far discutere di cinema. E anche se l’unico motivo fosse quello di parlare di cinema, Abel Ferrara dimostra, godardianamente, che non esistono né film belli, né film brutti, ma solo rulli ricolmi di immagini, sensazioni, emozioni, luci, colori, parole e intuito...
New rose hotel – Sondaggi critici New Rose Hotel non è Shining, come ho sentito argomentare da qualcuno, né tanto meno (benchè il paragone suoni meno sacrilego) Lost Highway di Lynch, per il semplice motivo che Shining e Lost Highway non si limitano a enunciare i propri contenuti ma li mettono in pratica, attraverso forme nuove, intense e necessarie. Mentre New Rose Hotel, che qualche generoso potrebbe giustificare in nome di un’estetica del non finito, in realtà dà l’impressione di non essere mai nemmeno cominciato. Pezzotta scrive che Ferrara è un regista premoderno, e la definizione mi sembra acuta. Ferrara non è sicuramente un moder308
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no, nel senso in cui diciamo che sono moderni gli autori-filosofi delle nouvelles Vagues, perché non ha mai inseguito la riflessione metalinguistica sul cinema, la frizione tra linguaggio e lealtà, la prosopopea d’autore. Ma non è nemmeno post-moderno (nel senso banale dell’espressione), perché non si è mai accontentato soltanto del cinema: se ha mescolato l’alto con il basso, la teologia con i vampiri, il libero arbitrio con i gangesters, non lo ha fatto per spocchia intellettuale (come Cronemberg), né per fanatismo cinefilo (come Tarantino), o per gusto del nonsense (come Icoen), ma per confrontarsi “cristianamente” con dei materiali “indegni”, senza mai sentirsi superiori ad essi, senza volerli nobilitare. Invece, quando cerca di essere “post-moderno”, come New Rose Hotel il nostro corre incontro al fallimento sicuro. Rohmer ha detto che “non bisogna cercare di essere moderni: lo sia è se lo si merita. Moderni o post-moderni il risultato non cambia molto: ultimamente Ferrara non si merita granchè. VINCENZO BUCCHERI, SEGNOCINEMA 97, MAGGIO-GIUGNO 1999 Che Abel Ferrara, come già insinuato da qualcuno, non avesse i finanziamenti sufficienti a finire il film (e dunque abbia trovato un abile escamotage narrativo e stilistico per arrivare alla durata minima del lungometraggio), importa ben poco. A vedere “da vicino” New Rose Hotel, il rapporto di forza tra le parti del film sembra invertirsi. Il nucleo fondamentale dell’opera non è la prima parte, con il triangolo Walken-Dafoe-Argento impegnato in una “jam session” di intrighi internazionali più o meno “cyborg”, ma l’ultimo scorcio della pellicola, gli ultimi metri impressionati con materiale precedente, già visto, già vissuto: cioè il flashback ipnotico e dolente di cui è vittima e protagonista Willem Dafoe, disperatamente alla ricerca del tempo, del gesto, dell’amore perduto, in uno scavo nella memoria che si risolve in una antologia di ricordi “inutili”. Non può trattarsi di un’aggiunta, di un collage, di un pretesto per chiudere il film. Al contrario si ha l’impressione che Abel Ferrara abbia fatto New Rose Hotel proprio per “ritagliarsi” questo spazio-tempo di vuoto, riempiendolo di ciò che poteva, di ciò che sapeva, di ciò che aveva a disposizione. Esattamente come il suo personaggio “anonimo”: X non a caso. PAOLA MALANGA, PANORAMICHE N. 23, PRIMAVERA-ESTATE 1999 New Rose Hotel non è esattamente la trascrizione del racconto di Gibson, non è esattamente un neo-noir monco, con la rapina della vita, né un espediente per raccontare una storia di amicizia (allora è uno dei più bei film sull’amicizia della storia del cinema). L’ibrido linguistico, audiovisivo, concettuale brilla 309
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(come un ordigno) con l’ibrido sessuale, da cui si leva l’amore che ha ancora qualcosa di ideale, di mistico, d’incomprensibile e dileguato. È una vicenda di cronaca quella di New Rose Hotel. Cronaca dell’anima umanistica nei gelidi riflessi di un futuro-presente. New Rose Hotel è un film allo specchio, è un film più il suo farsi, e dunque gli appartiene anche la fatica della ripetizione e delle false ricostruzioni, gli appartiene che sia abbandonato come il suo autore, e fatto con gli scampoli per raggiungere con la coda la sua testa arrancando. E gli appartiene come un principio vitale che infine produca una verità, nessuna verità. E niente altro che la verità: è un film radicalmente assente da ogni impegno a costruirsi come in o come out. Dura prova (destinata infine al rifiuto o all’atto di fede) per ogni spettatore che, nella vita, e quindi nel suo occhio ragionante, segue un senso di marcia, una carreggiata o l’altra ( e come si potrebbe altrimenti?) SILVIO DANESE, DUEL N. 70, APRILE-MAGGIO 1999 Ferrara ha tutta l’aria di voler rifondare il proprio cinema cerca la palingenesi creativa figurandosi hacker dentro e fuori Hollywood, mixano e smistando immagini esauste (col vecchio video, col “vecchio” split screen) imponendo gigantesche affermazioni delle “vecchie” capacità del cinema: non solo i famosi venti minuti finali, dall’aria maudit dello scarto d’autore, ma anche la Marrakech evocata con quattro tappeti in un garage fuori mano e le riprese aeree virate in colori tramontani. Se Ferrara, dunque, è l’hacker che sceglie il materiale “no copyright” delle immagini per combinare cinema dentro il sistema, Sandii è la sua Musa traditrice. Ultima di una lunga serie di doppiogiochiste e Naime virtuali la Sandii della Argento rispetta il ruolo delle donne nel cinema di Ferrara (intrise di peccato e maternità senza soluzione degli opposti), e ripercorre anche le tappe di un genere letterario piuttosto avaro di riconoscimenti emancipatori. Piace ancor più, come si diceva, il lavoro di Ferrara sul racconto di Gibson. Là si trattava di poche pagine, condensate nel racconto confuso e spezzettato di X già chiuso nel New Rose Hotel, ferito da Sandii e perso nei ricordi. Ferrara decide di non rispettare il loop narrativo di Gibson ma di mantenere Sandii al centro della galassia testuale. Un’ora per passeggiare sul testo, mezz’ora per rispettarne la struttura. Un’ora per improvvisare su un canovaccio di gran firma, mezz’ora per essere fedeli al racconto. Tutto tranne che il film collassato di un regista cialtrone. ROY MENARINI, SEGNOCINEMA 97, MAGGIO-GIUGNO 1999 Valutazione Pastorale: Alla base c’é il racconto omonimo di William Gibson, scrittore di fantascienza tanto visionario quanto difficile da rendere in immagi310
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ni. Il film dura in realtà una settantina di minuti: gli ultimi 25’ sono riservati ad un montaggio/sintesi di ciò che si è visto in precedenza, con ripetizioni di intere sequenze e di dialoghi. Chi conosce i precedenti titoli di Ferrara ritrova una indubbia coerenza di temi: il diavolo tentatore (Fox), il rimorso (X), la presenza del demoniaco (il colore rosso dominante). Rispetto ai precedenti, qui manca il momento centrale della catarsi: X é uno sconfitto, e basta, senza altre vie d’uscita. C’é insomma l’idea del male, senza uno spiraglio di superamento. Così la trama, pretestuosa e quasi inesistente, diventa faticosa, ermetica, affidata ad immagini e situazioni spesso sgradevoli. Non c’é racconto, non c’é uno sviluppo convincente dei temi accennati, manca una sceneggiatura che supporti qualche momento visivo più indovinato. Resta una scenario dove il male é totalizzante e vincente. Dal punto di vista pastorale, il film é da valutare come negativo e inaccettabile. COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
Iowa (1998) Videoclip, della durata di tre minuti, realizzato per The Phoids: diretto a distanza da Abel Ferrara che non è mai presente sul set; il video viene realizzato da un operatore che segue le indicazioni del regista, il quale visiona il lavoro solo al termine del montaggio. L’avventura musicale dei The Phoids inizia nei primi anni ‘90, quando il cantante e chitarrista Jack Calabro incontra un altro chitarrista, Matt Chiaravalle tramite un comune amico. I due iniziano a scrivere canzoni insieme e decidono di formare una band. Dopo aver messo un annuncio sul Village Voice, Kristen Brockett risponde alla chiamata e dopo un provino positivo, viene integrato nella band come bassista. Quando il gruppo inizia a suonare dal vivo, Calabro e Chiaravalle si rendono conto che Brockett non funziona come credevano e lo allontanano. Chambers chiama a sostituirlo un vecchio amico bassista che si è appena laureato, Greg Basso, il quale accetta la proposta e va a comporre, assieme al batterista Michael Chambers, la formazione definitiva del gruppo. “Iowa” è una canzone tratta dal loro terzo album intitolato The Phoids. Il video, di questa ballata indie, diretto da Ferrara è poco più che un lavoro scolastico che alterna in dissolvenza incrociata e senza soluzione di continuità, le riprese del gruppo che suona dentro una stanza con le immagini di degrado di una periferia urbana generica in cui si vedono prostitute che telefonano, ragazzi che fumano crack e homeless ai bordi di strade anonime dai cui tombini emergono nuvole di vapore. 311
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Don’t change your pans (1999) Videoclip, della durata di quattro minuti, realizzato nell’agosto del 1999 per la band Ben Folds Five, e nel cui cast figurano l’attrice Gretchen Mol, lo stesso Ben Folds e Robert Sledge. La canzone è tratta dall’album “The Unauthorized Biography of Reinhold Messner” e le parole del testo, spesso e volentieri sono illustrate dalle immagini che si susseguono in dissolvenza incrociata e in lunghe sovraimpressioni. A proposito di questo lavoro lo stesso Abel Ferrara ricorda: “Dopo che ho finito di girare il video, la band mi ha licenziato e hanno cercato di modificare il mio lavoro e di fare il montaggio da soli, ma hanno poi finito per richiamarmi per chiudere il lavoro. Se hai a che fare con la Warner Bros. o Ben Folds Five, è sempre la stessa storia...”101 Il racconto è quello di una separazione tra un uomo dai risvolti psicotici (sempre vestito di nero e avvezzo alla vita mondana) e una donna semplice e “pura” (lo si vede dall’abbigliamento, ma anche dai sui ricordi di infanzia), il tutto vissuto all’interno dello spazio-memoria di un appartamento vuoto (che richiama la cella di New Rose Hotel) e fatiscente. Le immagini che ritraggono Gretchen Mol nel traffico di New York sono quasi “rubate” camera a mano e riprese con stile documentaristico, in netto contrasto con i movimenti di macchina eleganti che seguono l’uomo. Le riprese della vicenda della coppia vengono alternate con quelle del gruppo che suona in una stanza tutta di legno e il calore di questo ambiente contrasta fortemente con le pareti sbrecciate e azzurrine dell’appartamento n° 40 in cui si ritrova la donna, sprofondata in una poltrona, e prigioniera di ricordi e rimpianti.
‘R Xmas (2000) Nel dicembre del 1993 Dave Dinkins è al termine del suo primo e unico mandato di sindaco di New York. Dopo aver partecipato alla recita natalizia della figlia, due genitori (Drea De Matteo e Lino Brancato Jr.) si recano al Rockfeller 101 Conversazione
con l’autore in Brad Stevens op.cit. Pag 334
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Center a cercare i regali di Natale. Qui il marito tenta di corrompere una commessa affinchè gli faccia avere l’ultima “Party Girl” che due signore davanti a lui si sono contese con violenza. La donna lo invita a mettere il suo nome su una lista di attesa e l’uomo desiste dal suo intento. Una volta rientrati a casa, messa a dormire la bambina Liza (Lisa Valens), i due si spogliano e dei loro abiti “borghesi” e si mettono comodi abiti da “lavoro” pronti per dedicarsi alla loro occupazione: il confezionamento e lo spaccio della droga che svolgono in un appartamento al pian terreno situato dall’altra parte della città. Qui li raggiungono alcuni amici che li aiutano nel “lavoro”, ognuno rispettando il compito assegnatogli: chi riempie le bustine, che le chiude, chi mette il nastro adesivo, chi le timbra e chi le assembla in gruppi da cinque con l’elastico. I problemi sono tanti: c’è chi si lamenta del poco denaro in circolazione, chi delle bustine troppo vuote, i regali di Natale e la “Party Girl” che non si trova. La figlia vuole questa bambola a tutti i costi, inoltre il papà gliel’ha promessa, così la mamma si rivolge ad un commerciante illegale e ne acquista tre per la modesta cifra di $ 2.000 l’una. Nel frattempo il marito viene rapito. Un uomo (IceT.) si presenta alla donna e ne pretende un riscatto per il rilascio. È Natale e così la donna non riesce a rimediare molti soldi; si rivolge ai capi dello spaccio, chiede loro se hanno qualcosa da parte e infine, esausta, si rifugia in casa e comincia a chiedere aiuto ai sui conterranei, anche coloro che sono rimasti nei caraibi. Non trova né solidarietà né collaborazione e non riesce a metter insieme una grande cifra, ma a quanto sembra è sufficiente. L’uomo invita la donna a smetterla con il suo “lavoro” e a convincere il marito a cambiare vita: dopo molti tentennamenti lei si impegna nella promessa e così il marito viene rilasciato. I due a casa sono disorientati e non sanno come comportarsi (continuare a spacciare o farsi una nuova vita?), ma nel frattempo apprendono dalla televisione che i sequestratori sono poliziotti corrotti, ormai tratti in arresto. Durante una festa l’uomo viene richiamato dai suoi collaboratori che gli mostrano un cadavere invitandolo a riprendere con solerzia il suo “lavoro”. L’uomo torna al tavolo dalla moglie e alle domande di lei sorride, poi viene chiamato sul palco per intervenire alla festa in veste di benefattore per i bambini di Washington Heigh. Un mese dopo Rudolph Giuliani è eletto come 107° sindaco di New York. E la storia continua...
Con ‘R Xmas, Abel Ferrara torna a raccontare la famiglia e la quotidianità di New York, una città che fa dell’ambiguità e della doppiezza il proprio flusso vitale. Lo fa con un ritratto magistralmente cinico di una coppia borghese (ancora senza nomi come a volerla identificare con la collettività) che 313
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messa a dormire la propria figlia Lisa (la bambina ha nome perché i bambini sono puri e hanno la loro identità), e salutata la nonna, si dirige dall’altra parte della città dove in una piccola abitazione del Bronx inizia a preparare bustine d’eroina. Dopotutto la neve bianca che cade sull’albero del Rockfeller Center non è la sola polvere bianca che scende sull New York degli anni ‘90. Abel Ferrara sa di cosa parla, conosce la materia che da reale diventa filmica, è egli stesso protagonista indiretto della pellicola nelle vesti di regista-documentatore. L’inizio del film e i primi venti minuti che tanto assomigliano a quelli iniziali di Eyes Wide Shut (id., 1999), con il film di Kubrick hanno in comune solo l’apprato scenografico sia quello degli ambienti che quello della famiglia. Anche qui in ‘R Xmas come in Eyes Wide Shut, padre e madre, dopo aver messo a letto la figlia escono di scena (quella medio-borghese), per calarsi, all’interno di una notte oscura e misteriosa, in un altro ambiente fatto prevalentemente di fantasmi (da notare come Ferrara utilizzi le dissolvenze incrociate per far scomparire i personaggi); quello che differenzia il parallelismo tra i due film sono invece il percorso esistenziale e l’atmosfera: la coppia di ‘R Xmas scende fisicamente nei meandri della terra (il parcheggio) per attraversare il guado (tra legalità e illegalità) e diventare “criminale”, mentre quella di Kubrick sale verso le vette di una nobiltà massonica, tesa verso il potere dettato dall’erotismo, vissuta in una dimensione cerebrale e immersa in una atmosfera rarefatta e onirica. ‘R Xmas è la forma contratta di Our Christmas, cioè “Il Nostro Natale”, ma scritto con la “R” può indicare anche Rated che negli Stati uniti indica i film vietati ai minori di 17 anni: un gioco di parole quindi dietro a cui si nasconde la crisi morale di una città/mondo, unito alla necessità, come espresso dal regista in merito alla “X”, di “riportare Cristo nel Natale. La “X” l’ho usata per questo, per mettere in evidenza il nome di Cristo. È inusuale, non capita spesso di mettere Cristo nei titoli”. La New York del 1993 è la New York del sindaco David Dinkins; una città dove i prezzi sono allo sbando in quartieri poveri dove in pieno giorno si spaccia tranquillamente per strada: una New York “d’epoca” quindi, prima dell’avvento di Rudolph Giuliani e del “Zero Tollerance” “L’invasione del denaro da Wall Street a Internet, l’impennata dei prezzi in quartieri come Soho, Alphabet City e il Greenwich Village... La New York del 1993 è la New York prima dell’informatizzazione della vita quotidiana. Oggi sotto il 314
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regno di Rudolph Giuliani, la municipalità ha ripreso il controllo della strada, il traffico di droga si è ridotto e soprattutto si è trasformato. Nel 1993, si sapeva che alle tre del pomeriggio,in quel determinato palazzo, si poteva acquistare della droga, e la fila faceva il giro dell’isolato. Nell’East Village l’erba si vendeva nelle drogherie come se fosse caffé. In giro non si vedeva un poliziotto e il mercato era praticamente in strada. Ora è sufficiente un SMS e tutto viene recapitato a domicilio. L’esempio tipico di questo cambiamento è l’albero di Natale del Rockfeller Center dove abbiamo girato la prima scena dei film. Oggi ci sono transenne dappertutto, si entra da una parte e si esce dall’altra, tutto è ordinato, tutto scorre, tutto è… Disneyland. Nel 1993 imperava l’isteria collettiva”.102
Per Abel Ferrara la trasformazione della città e il rapporto tra economia e qualità della vita è esiziale, perché “la questione riguarda il prezzo del denaro e il prezzo del successo. Fino a che punto ci si può spingere? Quando si guadagna del denaro questo viene inevitabilmente sottratto a qualcun altro. Quale è l’equilibrio tra denaro e qualità della vita?103 Partendo da queste premesso “storiche” il film si concentra sui mutamenti metropolitani e sociali visti attraverso lo sviluppo di un “storia vera” utilizzata come archetipo di possibili storie simili, e la forma filmica si rinnova grazie alle nuove tecnologie e ad una serie di nuovi collaboratori. ‘R Xmas è scritto dallo stesso Ferrara con la collaborazione di Scott Pardo, ed è tratto da un soggetto di Cassandra De Jesus ispirato a fatti realmente accaduti. La prima stesura della sceneggiatura è stata scritta da Christ Zois, che ricorda “che il film è stato ispirato da una coppia di spacciatori, marito e moglie, che Abel conosceva. Il marito, un giorno, era stato apparentemente rapito. Questo è accaduto alla vigilia di Natale, e la moglie ha dovuto recuperare un sacco di soldi molto rapidamente. È stata la moglie104 che ci ha raccontato questa storia, dato che il marito non parla inglese. Nel mio script ho fatto del rapitore un insegnante che osservando i bambini nella sua scuola vede come sono esposti all’uso di farmaci e droghe, e nel tempo, come alcuni di loro muoiono. Suo padre è un poliziotto, così ha accesso a un sacco di informazioni privilegiate su spacciatori locali”.105 Ferrara non utilizza il 102
Fausto Furio Colombo, Merry Xmas Mr. Ferrara, Kult n.12, Dicembre 2001, p.16 a Canal +, New York 2000 104 Luigi Hernandez è colei che racconta la storia a Ferrara e Zois, ed è accreditata nel film come Cassandra de Jesus 105 Christ Zois ,conversazione con l’autore, 22 febbraio 2003 in Brad Stevens, op. cit. p.281 103 Intervista
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contributo di Zois ma conferma la natura “documentaristica” del progetto: “Un giorno mi è stata presentata “Cassandra de Jesus”, e lei ci ha raccontato questa storia. In sostanza, abbiamo affrontato il film come un documentario. Se quello che questa persona ci ha detto era vero o no, noi l’abbiamo accettata come vera. E più si desidera documentare in quel modo, più si diventa stilizzati.”. Messa da parte la “fiction” di Zois, lo stesso Ferrara partecipa in prima persona nella scrittura della sceneggiatura, perfezionando e ampliando il ruolo ricoperto nel dittico precedente (scritto con Christ Zois). Scelta inevitabile, dal momento che, l’amico/nemico Nicholas St. John ha, definitivamente, abbandonato le scene artistiche ed è entrato in una congregazione cristiana vicina a “Militia Christi”, recludendosi, praticamente, in una vita monastica. Ferrara dice di essersi trovato insoddisfatto del lavoro figurativo dei suoi ultimi film, così rivoluziona la troupe per avere la possibilità di ridisegnare il suo cinema. Ricerca in, ‘R Xmas, inquadrature particolari per riuscire a rendere importanti i dettagli ed evidenziare l’espressione del volto dei protagonisti. Attraverso l’uso del montaggio, affidato a Bill Pankow, Suzanne Pilsbury e Patricia Bowers, evidenzia il contrasto tra l’esteriorità della famiglia benestante, e la realtà cruda e interiore attraverso cui il loro successo è stato raggiunto. Grazie ad un nuovo sistema Avid i montatori riescono a “intrecciare” le immagini e a costruire passaggi di inquadratura stratificati in cui si sovrappongono prima e svaniscono poi, volti, bustine di cocaina, mazzette di soldi, ecc. Da New Rose Hotel, Ferrara si porta dietro lo scenografo Frank De Curtis che co-produce (e che da questo momento sarà uno dei pochi collaboratori fidati e sempre presenti nei film a venire) assieme ai francesi di Studio Canal. Dei vecchi “amici”, in questo lavoro rimangono l’inseparabile Ken Kelsch alla fotografia e Scholly D. alle musiche. Il cast è una scommessa (ampiamente vinta): il rapper IceT. nella parte del poliziotto-redneck, macho e razzista ha la sensibilità musicale nei movimenti e dona alla sua interpretazione un ritmo unico e “angelico” come vuole il personaggio ambiguo e sfuggente di questo poliziotto gretto e volgare ma animato da un forte istinto di umanità: estremo nei comportamenti ma leale nel rispetto delle regole che stabilisce con la moglie del rapito. Drea De Matteo, Ferrara l’incontra una sera ad un cocktail: ma i due non sono tipi da ricevimenti e quindi si salutano appena; poi è lei stessa a chiamare Abel parlandogli del suo lavoro nella serie The Sopranos e a confessargli di essere una sua fan. Drea è figlia di uno scrittore e ha frequenta316
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to per qualche anno la NYU Film School, per poi abbandonarla e intraprendere la carriera di stilista (possiede una boutique nell’East Village). Lillo Brancato Jr. (anche lui nel cast di The Sopranos )invece era il piccolo Calogero nel film di Robert De Niro: A Bronx Tale (Bronx, 1993). Per Ferrara, la scelta dei protagonisti risulta ottimale anche in merito ai tempi di realizzazione del film che usufruisce di un budget limitato ; gli attori, avendo fatto televisione, tutti e tre. sanno lavorare in fretta, un fattore cruciale se si pensa che le riprese di ‘R Xmas vengono ultimate nell’arco di un solo mese. Il contesto storico, la scelta di ambientare il film un mese prima dell’elezione di Giuliani a sindaco di New York, per Ferrara è un punto imprescindibile, nella costruzione di un film che, prima di tutto è un ritratto politico-economico di una città, come testimonia questa sua dichiarazione: Nel senso che è ambientato nel 1993 e non potrebbe mai svolgersi oggi. (…) Il sindaco era David Dinkins e New York era ancora una città pericolosa. Oggi con la “Tolleranza Zero” di Giuliani il comune ha ripreso il controllo delle strade, la città è piena di poliziotti e tutto avviene in modo sotterraneo. C’è chi lo chiama “stato di polizia”, chi “qualità della vita”. Non so se il consumo di droga è diminuito. So che il problema è tale solo per i poveracci. Se sei ricco e hai le conoscenze giuste, chiami lo spacciatore sul cellulare e quello viene a casa tua. Penso che come tutte le cose, anche le città sono in continuo cambiamento. Nel 1993 il sindaco di NY era appunto Dinkins, la città in questo periodo era molto aperta... libera... ma la cosa che ritengo molto interessante è che dopo di lui, nel bene e nel male, è arrivato Rudolph Giuliani, e durante il suo mandato lui stesso è cambiato quando ha scoperto di avere il cancro, quando si è separato dalla moglie. Credo dunque che si sia reso conto che era più facile che fosse la città a cambiare lui, di quanto lui a cambiare la città. Il film inizia con una recita natalizia fatta da bambini di famiglie facoltose che frequentano una scuola sulla Quinta Strada. Una scuola di quel livello costa $30.000 dollari e il Natale non è una festa come per tutti gli altri, ma è una festa per la quale è necessario mettere in scena una recita che costa moltissimo; grazie a questo stratagemma ho potuto introdurre il tema della “pressione economica” che la famiglia costantemente vive. Dunque quando i protagonisti si trovano a dover affrontare la possibilità di non poter sostenere tutto ciò... la domanda che si fanno è “chi pagherà per tutto questo?”.106
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minuto in digilander.libero.it/fearcity
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‘R Xmas è una favola: una favola nera senza lieto fine, che si interroga sul libero arbitrio e sui limiti dell’azione tra legalità e illegalità, nella cornice di una società vinta dal consumismo, distrutta nel suo nucleo (la famiglia), schiava del denaro e corrotta nelle istituzioni. In ‘R Xmas il limite non esiste, è ormai normalizzato e pertanto è difficile rinunciare al successo raggiunto: come si può non pensarlo davanti alla dedizione impiegatizia del “lavoro” dei due coniugi e davanti alla normalità di un’umanità che si lascia vivere in balia dei suoi desideri, che sono l’ unico e vero motore del muoversi e dell’affannarsi delle persone nel film (non a caso la Chiesa è vuota e silenziosa e lo stesso silenzio avvolge i due appartamenti). A Natale, le persone indigenti o in difficoltà economica che vivono nel quartiere si rivolgono alla coppia per avere favori e per garantirsi prebende, più o meno come succede nella scena iniziale di The Godfather (Il Padrino, 1972), ma qui non si tratta di scambi di favore bensì della volontà di vivere al di sopra delle proprie possibilità. In questa favola “Biancaneve” uccide i ragazzi che vivono in strada e la strega maligna (il poliziotto nero, razzista e corrotto) anziché offrire la mela avvelenata offre la possibilità di redenzione. Il personaggio di Ice T. interroga la donna sul libero arbitrio, sulla scelta e sulla morale; come tutti gli altri personaggi di ‘R Xmas anche egli è un cumulo di contraddizioni: è corrotto e odia i domenicani, ma come si può rimanere indenni dal Male in un mondo come quello che lo circonda? (e Ferrara rivolge questa domanda sia verso i poliziotti corrotti che verso la famiglia di dealers). La sua moralità sta nel fatto che lui, come gli altri poliziotti-sequestratori, non può accettare che una famiglia, che ha anche una figlia, possa così ciecamente confezionare e spacciare la droga che uccide i ragazzi per le strade. Il suo obiettivo è quello di far capire alla donna, attraverso il sequestro del marito, che deve cambiare vita (infatti, solo in un primo tempo chiede i soldi), ma nel secondo incontro con la donna la interroga sulla sua condizione di vita e sulla sua moralità; è lui il vero “King of New York”. “In questo film il re è il personaggio interpretato da Ice T. perché in fondo lui viene arrestato ma è un poliziotto che fa ciò in cui crede. Essere dei re non vuol dire essere morali…del resto un re è una persona come tutte le altre”.107 Questo re però non ha sudditi, e nel finale apparentemente sospeso del film, i due coniugi, che tra di loro si chiamano “baby” e “papi” (come se non volessero riconoscersi un’identità), nonostante l’accaduto, partecipano 107
ibidem
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felici e sorridenti ad una festa. A casa al mattino si sono inutilmente interrogati su un possibile cambiamento di vita; è la moglie a porsi domande sulla rinuncia quando il marito le chiede se vuole smettere: “Come paghiamo l’affitto? E voglio che Lisa vada ancora alla scuola privata...” , la scelta rimane in sospeso, ma alla sera, “mami e papi” che mettono a letto la figlia circondata da tutti i regali ricevuti e come ninna nanna gli cantano “Astro del ciel”, hanno già deciso che l’indifferenza è la migliore delle soluzioni. Il problema sollevato da Abel Ferrrara in ‘R Xmas è la doppiezza, cioè la schizofrenia imperante in un mondo svuotato di ogni concretezza, mosso dal flusso di denaro e invaso dalla superficie. Il film è pieno di superfici, luccicanti e riflettenti, belle e pulite. Come fosse un pacco natalizio, Ferrara confeziona un film dove dietro l’ardire architettonico dei palazzoni del Greenwich Village si nasconde una borghesia dedita allo spaccio della droga. Dietro le vetrate luminose del Rockfeller Center si agita un’umanità nevrastenica pronta a scannarsi per un regalo. Dentro alla superficie lucida e riflettente della carrozzeria di una macchina ci sono due coniugi che si dirigono verso il Bronx per confezionare buste di eroina. Ogni regalo (di Natale e non) è un oggetto, e un oggetto, una bambola che non fa nulla ma che “ti tiene compagnia” come la Party Girl, nell’intenzione di Ferrara, assume un valore aggiunto rispetto alla semplice materia: è l’elemento di congiunzione tra New York e il mondo occidentale, nel circolo permanente del consumismo. Per questa bambola due donne si insultano e aggrediscono nel centro commerciale; il papà di Liza cercare di corrompere una commessa con $ 500 e la moglie lo rimprovera dicendogli che è uno stupido perché doveva offrirgli di più; infine la stessa bambola viene trattata illegalmente (e parificata con la droga) per la “modica” cifra di $ 2.000. Perfino la chiesa è ormai solo più superficie: dentro è curata, addobbata per il Natale c’è il Presepe, si prega in silenzio, ma un prete si sede nel banco vicino al protagonista, gli consegna un pacco, saluta e se ne va. L’uomo torna a casa, apre il pacco e mostra il contenuto: una serie di preservativi pieni di eroina. Il grande utilizzo della dissolvenza incrociata speso in ‘R Xmas, mescola inesorabilmente “le vite” dei protagonisti disorientando lo spettatore. Immagini di normalità borghese, si sovrappongono ad immagini di degrado morale e viceversa. La cinepresa riprende la recita scolastica come se fosse realtà, e la videocamera riprende la realtà come se fosse una recita. Ai piani alti dei palazzi si conduce una vita normale: la famiglia, la nonna, la televisione; ai piani bassi si confeziona e si spaccia eroina. Gli abiti eleganti e artifi319
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ciosi dello shopping, la sera lasciano il posto a comodi abiti da lavoro. Lo scintillio delle luci e degli addobbi natalizi lascia il posto alle luci al neon di parcheggi sotterranei. Anche la macchina si cambia se si deve passare dall’altra parte della città: per scendere all’ “inferno” una BMW è troppo appariscente, e poi tutti devono essere pagati, portiere, autista, parcheggiatore... con un a busta rossa affinchè mantengano il silenzio e rispettino la “regola del gioco”. Tutto nel film è abitato dalla doppiezza e dall’ibridazione: nell’appartamento dove i coniugi si ritrovano la sera con i loro amici per “lavorare”, campeggiano in bella mostra crocifissi e immagini sacre. In ‘R Xmas Ferrara racconta un mondo schizofrenico dove la sottile linea che divide il Male dal Bene, il morale dall’amorale, non esiste più, esiste solo l’indifferenza più totale in cui ognuno coltiva unicamente il proprio desiderio di un effimero benessere. I personaggi del film, infatti, sono andati oltre il limite, perché non sono più in grado di compiere una scelta, e subiscono una esistenza artefatta a causa dell’incapacità di dare una direzione alla propria vita. La Grande Mela è libera ma è bacata, è una città marcia dentro in cui la catastrofe sembra imminente e niente e nessuno sembra essere in grado di fermarla. Il film viene presentato a Cannes nel Maggio del 2001: l’11 Settembre 2001 il World Trade Center (Twin Towers) di New York viene spazzato via in un pomeriggio afoso dall’attentato che ha cambiato la storia. Ferrara quindi, sembra fare un (nuovo) film profetico, e New York e le sue dinamiche sono il motore che anima la storia minimale di questa famiglia “under class” che vuole essere “upper class” ma senza averne possibilità (almeno quelle legali). Vivere a New York non è facile, soprattutto se non si è autoctoni, ma africani, caraibici, messicani, sudamericani..., perché a New York c’è la lonely crowd, un flusso indistinto di persone che si muove come corpo unico tra solitudine e anonimato, in cui, da sempre, gli emigranti sbarcati a Ellis Island o quelli passati dal confine messicano, non trovano spazio. La convinzione e il miraggio che le strade della Grande Mela siano lastricate d’oro, lasciano ben presto spazio alla schiena piegata e al freddo e nero asfalto che le ricopre. La favola americana non è differente dalla favola del Natale: l’opportunità “per tutti” esiste come esiste Babbo Natale, almeno nell’immaginario, ma i nuovi migranti, non sono più disposti (come quelli del passato) ad aspettare la prossima generazione, quella dei figli, per trovare riscatto. Arrivano dai Caraibi e dall’America latina con la 24 ore o con le borse di Luis Vuitton, sono stranieri già ricchi o sul punto di diventarlo, per lo più giovani desiderosi di tuffarsi nel boom delle profes320
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sioni post-industriuali e del terziario. Questa è la New York degli anni ‘90, una New York in cui, per sopravvivere prima e per emergere poi, è necessario imparare in fretta la “regola del gioco”. Lo sbarco è traumatico, l’impressione deludente, lontana anni luce dall’immagine rimandata enfaticamente da libri e film. New York è una realtà sporca, trascurata e oscura, una Babele mondiale: un newyorkese su tre è nato all’estero, il 60% della popolazione è costituito da neri, asiatici, portoricani, caraibici..., ma tra le etnie non c’è solidarietà, ogni comunità è chiusa in se stessa e ogni territorio è segnato da barriere (magistrale l’uso delle reti in ‘R Xmas) e questo rende molto più difficile applicare la “regola del gioco” che invece si apprende facilmente e in tempi brevi. Come ne La régle du jeu (La regola del gioco, 1939) di Jean Renoir, la “regola” mette alla prova tanto il mondo dei servi quanto quello dei padroni, mentre i due intrusi Andre Jureau (Roland Toutain) e Octave (Jean Renoir), ne sono entrambi vittime (uno ucciso l’altro allontanato) perché estranei al mondo circoscritto ipocrita e perbenista del “La Coliniere”, anche alla moglie del domenicano in ‘R Xmas viene chiesto da un intruso (Ice-T) di mettersi in gioco e di infrangere la “regola” per salvare la vita a sè e al marito. Nel film di Renoir la regola del gioco impone di rispettare la tolleranza e l’ipocrisia e di mantenere la superficie dei comportamenti lucida e riflettente, nonostante tutti i protagonisti appartengano ad una società ormai giunta al crepuscolo: non è casuale che lo stesso regista definisse il suo film come un film di “guerra” e che Ferrara parli dei protagonisti di ‘R Xmas come di personaggi in “guerra”. In entrambe i film la guerra (come battaglia visiva) non c’è, ma in entrambi è imminente: per Renoir la viglia è quella del secondo conflitto mondiale, per Ferrara è quella dell’11 settembre 2001. La famiglia di ‘R Xmas segue la regola della connivenza: a Natale il marito distribuisce buste rosse piene di soldi alla “servitù” necessaria per la sua esistenza di benessere e “compra” il loro silenzio e la loro complicità. La recita iniziale che sembra reale dalle prime inquadrature e che successivamente viene mostrata attraverso le immagini sgranate del monitor della videocamera è già sintomo di corruzione: il Natale ridotto a simulacro, a recita, in cui i bambini sono vestiti da grandi e recitano sul palco ciò che non fanno più nella vita; Lisa sul palco dice: “Sbrighiamoci, dobbiamo portare cibo ai poveri”, mentre il giorno di Natale: “Questo è il giorno più bello della mia vita... perché ho ricevuto una Party Girl”. La dissonanza tra recita e realtà, tra intenzione e azione, è la stessa che in La regle du jeu porta alla messa in scena dello spettacolo in masche321
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ra: qui è la dance-macabre a portare scompiglio e ad essere veicolo di oscuri presagi, mentre in ‘R Xmas sono i colori acidi della platea in cui sono seduti i genitori a disarmonizzare quanto mostrato nelle prime immagini idilliache e favolistiche. I pupazzi meccanici di Robert De LaChesnaye (Dalio), in La regle du jeu, oltre ad essere il simulacro delle persone, sono per l’uomo l’unica fonte di soddisfazione, mentre il suo desiderio di collezionarne il più possibile si trasforma in commozione di fronte alla presentazione agli amici del teatrino meccanico. Robert, nelle intenzioni di Renoir ha lo stesso atteggiamento e comportamento di un bambino che desidera spasmodicamente un giocattolo, così come in ‘R Xmas è Liza, la figlia della coppia, a incarnare questo sentimento di possesso verso i giocattoli e gli oggetti. La Party Girl non ha neanche un meccanismo meccanico è solo una bambola a dimensione quasi umana, che rispecchia nella sua estetica i modelli femminili glamour rimandati senza soluzione di continuità dai mass media. In La regle du jeau, Christine chiede a Lisette: “Cosa c’è di naturale di questi tempi’”, mentre nel finale Octave afferma, rivolto a Christine: “Anche questo è un male della nostra epoca, nella quali tutti mentono: i dottori, i politici, la radio, il cinema, i giornali. Come pretendere che noi semplici pedine non mentiamo come gli altri?”. All’arrivo a “La Coliniere” è il marchese a chiedere al bracconiere Marceau perché faccia qualcosa di illegale e questi replica: “Veramente faccio l’impagliatore di sedie, ma ora c’è un po’ di crisi... devo arrangiarmi”. Conformismo e pressione economica determinano dunque i comportamenti dei personaggi del film di Renoir, e sono le stesse leve su cui agisce Ferrara per costruire il suo ‘R Xmas: i due coniugi per continuare a far parte del mondo che hanno scelto devono vivere al di sopra delle loro possibilità è solo la droga e non (un “fottuto lavoro” come più volte dice la moglie) è in grado di garantirgli il loro tenore di vita; allo stesso tempo le difficoltà nel trovare lavoro, la cronica diffidenza verso chi è straniero, impongono anche a questi caraibici di “arrangiarsi” e la New York del 1993 (ancora “umana” e senza informatizzazione) in questo senso offre molte possibilità e non è molto differente dalla Parigi del 1939. A muovere tutto è comunque e sempre il denaro che nel film di Renoir non viene mai mostrato esplicitamente ma è rappresentato bell’opulenza di spazi e costumi, mente in ‘R Xmas agisce come leit-motive con scambi di mazzette di dollari, la moglie che conta le banconote, le mazzette accumulate sul comò... La merce diventa denaro e viceversa, in un circolo vizioso che non lascia scampo. Più volte Ferrara mostra i personaggi del 322
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film non come persone che vivono, ma come automi che fanno delle cose, applicando la stessa modalità (quella del frazionamento del corpo) utilizzata da Robert Bresson nel suo ultimo film L’argent (id., 1983). Qui una banconota falsa da cinquecento franchi contagia chiunque ne venga in possesso e lo spinge a fare del Male. Nel film di Bresson il denaro è un’entità “mostruosa” (in ‘R Xmas lo è più della droga) che diventando “invisibile” distrugge l’esistenza di individui insospettabili (ma deboli) spingendoli verso il crimine e verso l’omicidio. Lucien (Vincent Risterucci) quando escogita l’espediente per sottrarre denaro agli utenti dei bancomat afferma rivolto all’amico: “Io diventerò buono, quando sarò ricco”, e il suo agire, come quello degli altri personaggi, è un continuo reiterare gesti convenzionali. In ogni dinamica del film, i personaggi agiscono in base ad una suddivisione dei ruoli che ha come obiettivo quella di generare del profitto, replicando su scala minimale le dinamiche dell’economia e del commercio. Il denaro passa di mano in mano, ne genera altro, ne richiede altro, così come in ‘R Xmas è la droga stessa a generare il nuovo “carico” a pretendere di essere divisa equamente e ad essere motivo di contrasto “perché le bustine sono più vuote”; quando l’uomo dice agli amici che non è vero, uno di essi replica: “Lo so che hai ragione, io lo so, perché metto il nastro adesivo alle bustine”. Il ruolo che ricopre un personaggio, determina la sua consapevolezza, in base alle regole che reggono le dinamiche dello smercio della droga, così come in L’argent Lucien sostiene in tribunale di non poter essere condannato perché egli ha agito in base alle regole (cioè l’assenza totale di regole) vigenti nella società. Come in L’argent, il carcere in cui si ritrovano Yvon e Lucien è la sintesi di tutti i precedenti luoghi di detenzione dei film di Bresson, così in ‘R Xmas le reti, le inferriate, le grate dentro (e dietro) a cui si muovono i personaggi sono la sintesi esplicita della claustrofobia dei film precedenti di Ferrara: per Bresson come per Ferrara, i luoghi chiusi, circoscritti, delimitati, sono lo spazio in cui si esercita la privazione della libertà e in cui anzichè redimersi si peggiora il proprio comportamento. Anche in carcere si continua a scambiare merci, e la Chiesa durante la messa diventa il luogo ideale per contrattare e scambiare, da parte dei detenuti, beni “imprescindibili” come sigarette e profumi (in Ferrara è addirittura il luogo in cui si fornisce la droga). In L’argent come in ‘R Xmas dunque l’utilizzo di inquadrature che mostrano solo i dettagli dei corpi intenti in azioni, più o meno lecite, è il frutto di una volontà di spersonalizzazione dei personaggi che, una volta ridotti ad automi assumono su di sé l’inconsistenza mate323
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riale della merce, e anziché essere coloro che gestiscono droga o denaro, sono vittime della forza simbolica di droga e denaro e vengono a loro volta manipolati da essi perché ormai schiavi del possesso a tutti i costi. Ferrara, di quest’intento politico, fa l’asse portante del suo film, come dimostrato dalla prima scena mentre ancora scorrono i titoli di testa. Il padre invita la bambina e la moglie a salire sulla carrozza della recita appena terminata, dopo averla noleggiata, e la donna, con chiaro riferimento al denaro sborsato, si rivolge così al marito: “È stato facile? Per te è tutto facile...”. Ovviamente è il denaro, che secondo il principio di proporzionalità, alimenta il mercato e permette di soddisfare i desideri: emblematica la scena successiva, al Rockfeller Center, in cui tutto è rappresentazione: dalle biondine che accolgono i bambini vestite da Babbo Natale, a Babbo Natale stesso che li prende in braccio e chiede loro che cosa vogliono, alle transenne necessarie per contenere la ressa e per disciplinare la coda dei bambini. Tra ciò che avviene al Rockfeller Center e il dispensare buste piene di denaro da parte del marito, non c’è alcuna differenza: entrambe le azioni rispondono ad aspettative e soddisfano desideri. Le mode, gli status-symbol, per Ferrara altro non sono che merce la cui potenza plasma l’esistenza. Emblematiche sia la scena della vendita clandestina di Party Girl, sia quella successiva, quando la donna è in macchina, in cui l’inquadratura in profondità di campo (con la donna in primo piano e la bambola in secondo) non mostra alcuna differenza tra le due, grazie anche alla luce che penetra nell’abitacolo che modifica il colore dei capelli della bambola, e li fa diventare biondi come quelli della donna. Appartamenti e abitacoli delle macchine, questi sono gli spazi “abitati” e subiti da questo gruppo di persone pieno di contraddizioni e schiavo delle proprie ambizioni e del conformismo, il tutto però vissuto in una normalità e quotidianità disarmanti. La sequenza orchestrata sulle note di “Make your money” di Schoolly D., mostra come la “regola del gioco”, quella sul movimento perpetuo dei soldi non presenti differenze tra piani alti e piani bassi (come nel film di Renoir): i ragazzi scommettono sui canestri, pattugliano il territorio e incontrano clienti eterogenei e trasversali a tutte le classi sociali, il ritmo è sempre lo stesso, le azioni reiterate e la merce viaggia velocemente come le note musicali del rap incalzante, ma tutto avviene attraverso riprese in cui sono presenti sempre ostacoli, reti, barriere, porte che si chiudono, perché la libertà è pura apparenza, superficie. Il personaggio di Ice-T nelle sue contraddizioni nel suo essere, apparentemente ipocrita, in realtà è un angelo, come lo è la vecchia che accoglie Yvon nel finale di 324
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L’argent: entrambi agiscono su un registro-limite fatto di una sottile linea di demarcazione tra il Bene e il Male, e entrambi si oppongono alla forza “distruttrice” del denaro e al suo potere di rendere ogni cosa intercambiabile pretendendo di tradurre i valori in prezzi. Bresson sceglie la delicatezza e la determinazione di una donna apparentemente dimessa, mentre Ferrara, coerentemente, opta per un redneck razzista e volgare, ma il risultato a cui entrambi aspirano è lo stesso, portare i loro “protetti” a convertirsi alla legalità e a rinunciare al peccato. In Bresson c’è una redenzione, una assoluzione quasi fuori tempo massimo: Yvon dopo essersi concesso al Male più brutale, quello del massacro della famiglia, assume su di sé la colpa e sceglie di espiare il peccato attraverso la detenzione per riacquistare la libertà.; la coppia di ‘R Xmas, invece, cinicamente ma coerentemente, sceglie di non scegliere, perché la società di appartenenza glielo permette. Durante la festa finale, infatti, lo speaker annuncia: “Invitiamo sul palco l’uomo che ha fatto così tanto per i nostri ragazzi. L’uomo che ha aperto tanti centri creativi a Washington Heights”, ed ecco che quello che fino ad un momento prima è stato uno spacciatore, ora appare, allo spettatore, sotto un’ottica diversa. Nessuna certezza, solo dubbi, perché, “un mese dopo Rudolph Giuliani è eletto 107° sindaco di New York... e la storia continua...”, e forse, non è ancora tempo per ritrovare Cristo nel Natale.
‘R Xmas – Recensione Abel Ferrara parla del suo film come la versione moderna de It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946) di Frank Capra. È certo che alcuni degli elementi del film natalizio più famoso sono presenti all’interno di ‘R Xmas, ma è altrettanto vero che il percorso è inverso: in Capra dall’intenzione di suicidio iniziale di George Bayley (James Stewart) si passa alla redenzione finale, mentre lo spacciatore di Ferrara è un uomo qualunque, un perfetto padre di famiglia all’inizio e uno spietato killer per delega nel finale del film. Quello che colpisce in ‘R Xmas oltre all’ ambiguità dell’assunto narrativo è soprattutto la modifica da parte di Ferrara dei codici del genere gangster-movie. Niente eroi, niente manicheismo tra buoni e cattivi, niente poliziotti o killer su commissione, ma semplici cittadini, immigrati di seconda generazione che svolgo325
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no il lavoro di spacciatori con una meticolosità e attenzione sbalorditivi. Una famiglia-impresa che sopperisce alla pressione economica attraverso una scelta criminale che tale è solo per chi guarda. Gli unici scrupoli sono quelli che si pongono nei confronti della figlia che comincia a fare domande sulla professione dei genitori, o su come si dovranno posizionare nelle “giornate della famiglia” della scuola di Lisa. Lo stile semi-documentaristico interrotto dalla variabile del sequestro a scopo di estorsione morale, permette al regista di raccontare una città-mondo schizofrenica, in cui componenti a tutti i livelli e in tutte le classi sociali non sono più in grado di distinguere ciò che è Bene da ciò che Male, obnubilati dal miraggio del guadagno facile. Le parole volgari con cui il poliziotto/criminale “travestito” da angelo si rivolge alla donna suonano come “intruse” ( e per questo efficaci e sorprendenti) in un microcosmo assuefatto ad una “normalità” distonica in cui l’anomia non è più l’eccezione bensì la regola. L’utilizzo del riflesso come elemento ritornante è volto a rappresentare la specularità dei mondi che si intrecciano nelle dissolvenze incrociate, in cui non è più possibile operare delle distinzioni. Non si tratta di un “doppio sogno” alla Kubrick come alcuni hanno detto, bensì di uno spaccato di realtà che, non a caso, non ha più niente di parodistico rispetto al passato: l’assurdo di questa famiglia “tranquillamente” criminale non è tale nel mondo rappresentato in ‘R Xmas, perché il loro comportamento non solo è accettato socialmente (anche dai familiari), ma è addirittura elevato a modello: la famiglia è unita, amorevole con la figlia, i due coniugi sono innamoratissimi e non c’è nulla che non possa far dire che si tratti di una famiglia felice. Ecco perché la donna rimane sorpresa dal comportamento di Ice-T, perché un’intrusione morale nel suo mondo asettico e “perfetto” non è concessa. Nel “nostro Natale” , quello a cui Ferrara sembra rivolgersi in prima persona, non c’è più posto per Cristo, che infatti è solo nel titolo e, silente e iconico, appeso a tutte le pareti, ma non c’è nel cuore e nei sentimenti degli uomini e delle donne che ormai, sempre più paganamente, celebrano la sua nascita.
‘R Xmas – Sondaggi critici Il nostro Natale è un film compatto e interessante, ma attenzione a non farvi trarre in inganno dal titolo e guardate piuttosto alla firma. Interpretati con bella grinta dall’inedita Drea the Matteo e da Lillo Brancato Jr., i protagonisti sono 326
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dunque una coppia di spacciatori colti nel loro quotidiano, quasi con un effetto di cinema verità; e lo stile resta scarno, asciutto anche quando a un certo punto scatta un tipico meccanismo di fiction, ovvero il rapimento del marito da parte della concorrenza. Si capisce che il regista sa di cosa parla nel disegnare senza orpelli questo incredibile ritratto sul giro della droga a New York, prima che a ripulire le strade pensassero il Sindaco Rudolph Giuliani e l’avvento dell’informatica (ormai tra portatile e internet la roba ti arriva dritta a casa). Il film è percorso da una vena decongelata, plumbea disperazione. Ultima annotazione: nonostante sullo schermo non sprizzi allegria questa New York natalizia del ‘93 dopo l’11 Settembre sembra lontana anni luce. ALESSANDRA LEVANTESI, LA STAMPA, 14 DICEMBRE 2001 Malgrado il criptico titolo originale, ‘R Xmas (ci sono dentro “raggi X”, “Natale” e altro) Abel Ferrara sembra diventato saggio. Con Il nostro Natale torna sui luoghi del delitto di King of New York e de Il Cattivo tenente, ma per mettere in scena, in modo lineare, la normalità del crimine. Se non sembra fatto per entusiasmare i suoi fan, il film apre una prospettiva inedita nel crimemovie, genere tra i più refrattari a rinnovarsi. Oltre a mantenere intatta una delle migliori doto del regista del Bronx: la capacità di lavorare sugli attori (qui semisconosciuti m molto bravi, ricavandone il meglio in lunghe sequenze più vere del vero). ROBERTO NEPOTI, LA REPUBBLICA, 28 DICEMBRE 2001 Se un film di Abel Ferrara si apre con dei bambini impegnati in una recita natalizia c’è da aspettarsi il peggio. Il peggio ne Il nostro Natale è che papà fa un brutto mestiere: spaccia. Non fosse droga si direbbero commercianti qualunque, più preoccupati dai regali per i figli che per il giro d’affari.. Ma sotto Natale, il giovane capofamiglia viene sequestrato e sua moglie si vede chiedere un ricatto assurdo da un nero violento e sprezzante. La trattativa stringente, il clima di minaccia fisica e psicologica con la moglie chiusa in auto come Harvey Keitel ne Il cattivo tenente (il nero le fa la morale, mette zizzania, le ordina di impedire al marito di tornare a spacciare, etc...), è la parte più interessante del film. Che riporta Ferrara alla sua forma migliore pur senza aggiungere granchè al suo cinema. Salvo forse l’allarmante ironia (ma sarà ironia?) di quella famiglia e così naturalmente, tranquillamente criminale, da non farci nemmeno più caso. FABIO FERZETTI, IL MESSAGGERO, 14 DICEMBRE 2001
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Un certo tenore di vita richiede sacrifici, e qualsiasi sacrificio, in quanto tale, va rispettato. E Ferrara, forte dell’esperienza fatta sul campo, non cerca certo di condannare i suoi personaggi, di inquadrarli in un moralistico biasimo. La radicalità del cinema di Ferrara, l’ossimoro dominante che fa capolino in film come Il cattivo tenente, King of New York, The Addiction, e in quest’ultima pellicola ancor più impastato in un continuum narrativo che amalgama con sapienza alchemica i simboli oppositori del suo cinema. L’uso del piano sequenza, della dissolvenza incrociata determinano non solo un’estensione lineare, una successione ininterrotta di immagini, ma anche e soprattutto una miscela insolubile di quegli ingredienti che grazie al montaggio Ferrara riusciva a mantenere scissi. La dicotomia di alcuni film precedenti curata nella fotografia da Ken Kelsch e nella sceneggiatura da Nicholas St. John, è in ‘R Xmas azzerata. Se questo è un passo avanti o indietro nella poetica ferrariana saranno le prossime pellicole a dirlo. È semmai interessante e non confortante notare che la famiglia di ?R Xmas, come quella di fratelli, esce ancora con le ossa rotte e registra, in seno alla società americana, l’ennesimo funerale. (…) SIMONE CIARUFFOLI, 16NONI, 15 DICEMBRE 2001 Valutazione Pastorale: Il 1993 é l’anno in cui David Dinkins diventa primo cittadino di New York. È il primo sindaco di colore nella storia della città. Ricorda Abel Ferrara: “Quella del 1993 é la New York prima dell’informatizzazione della nostra vita quotidiana. Oggi, con Rudolph Giuliani al potere, il consiglio comunale ha ripreso il controllo delle strade, lo spaccio della droga è diminuito, ma sopratutto è cambiato. Nel 1993 si sapeva che alle 3 del pomeriggio in quel certo palazzo si poteva comprare quella droga. Nell’East Village l’erba si vendeva nei negozi di alimentari, come fosse caffé. Non si vedeva un poliziotto, tutto avveniva alla luce del sole. Adesso, con una telefonata sul cellulare, te la consegnano a casa (...)Ci sono più bambini qui che in tutti gli altri miei film. È il Natale delle famiglie. In fondo é un film sulla famiglia”. Quest’ultima frase è il punto di partenza. Marito e moglie immigrati: una coppia che crede nella vita matrimoniale, che ama la propria figlia, che vuole, per convinzione e non per imitazione, rispettare le tradizioni religiose. Una coppia che lavora su un materiale che non ti aspetti, la droga. Gli “opposti” , su cui Ferrara continua a costruire una poetica della provocazione e dello stupore, non sono mai facili da afferrare. Ma si tratta appunto di ricordarsi che siamo a New York e di prendere quindi la metropoli americana come scenario delle contraddizioni più totali e laceranti, come terreno dove ogni giorno va in scena il calvario dell’uomo e 328
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della donna contemporanei. Il crimine (qui lo spaccio di droga) accettato come ‘normalità’ rappresenta il gradino ultimo della colpa, quello da cui cominciare, se si vuole, a risalire. Tenendosi fedele ad un cinema dove crudeltà e pietà non possono esistere l’una senza l’altra, Ferrara traduce in un racconto breve e asciutto la metafora di un percorso di penitenza e di espiazione. Il copione, ancora una volta, non è del tutto suo (e nemmeno più del fido Nicholas St.John, ormai allontanatosi), ma è solo sua la costruzione semplice e incisiva dell’immagine, il tono quasi distratto, la capacità di recuperare la bellezza nascosta del Natale in famiglia. Il racconto non è consolatorio nè risolutivo. Ma lo sguardo del regista non rinuncia, nell’inferno della città che stritola, a cercare una purezza in cui mostra di credere con forza. Film da vedere con attenzione dunque e, dal punto di vista pastorale, da valutare come discutibile, certo problematico e adatto a dibattiti. COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
Flowerland (2002) Video live diretto da Abel Ferrara per la band Floweland (di cui è estimatore). Le riprese del concerto (che nell’atmosfera richiama la performance dei The Roosters in The Driller Killer) sono state effettuate al club New York’s Arlene Gorocery l’8 Gennaio del 2002. Il video non è mai stato editato. I Flowerland sono una band nata a New Haven, nell’autunno - inverno del 1991, formata da Steven Christopher, Roger Guimond, Jon Lichatz e Jeff St. George. Dal 1991 al 1997 i Flowerland hanno suonato per tutto il New England, New York e la costa orientale da Boston a Miami. Hanno pubblicato quattro album con la Down Records, la loro etichetta indipendente. Inseriti nella scena grunge e assimilabili ai Soundgarden non hanno mai intrapreso la via commerciale e non hanno mai firmato per un’etichetta ufficiale, e i diritti dei loro lavori sono detenuti da loro stessi. Forse è per questo motivo che il video girato da Ferrara non è mai stato commercializzato.108
108 Alcuni
brevi spezzoni, di pochi secondi, sono visibili su You tube
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Rain (2002) Videoclip per la canzone “Rain” tratta dall’album di debutto della cantante “Tuesday’s Child”, e girato alla fine del 2002 in uno studio di New York. Il videoclip sovrappone il primo piano della cantante con immagini di nuvole in movimento e nel ritmo asseconda le cadenze suadenti e blues della canzone. La cantante è rimasta molto soddisfatta della collaborazione e del rapporto umano con il regista, come si può vedere nel backstage delle riprese all’interno del documentario Abel Ferrara: Not Guilty diretto da Rafi Pitts nel 2003.
You don’t look so good (2003) Videoclip diretto nel novembre del 2002, di cui una parte relativa alle riprese live è stata girata il 13 aprile del 2003 presso il club New York’s Arlene Grocery (mentre l’altra è girata al Bar-B la notte di Halloween del 2002), in seguito a problemi relativi al montaggio ad opera di Jim Mol che di questo clip è anche direttore della fotografia. Prodotto da Frank De Curtis, il videoclip utilizza una serie di immagini illuminate da luci stroboscopiche che assecondano il suono acido della performance dei Dead Combo, band post-punk portoghese che in questo lavoro ripete ossessivamente sottoforma di loop un sessione ritmica che solo nel finale sfocia in un doppio assolo di chitarra filtrato dal sintetizzatore. Le riprese relative alla parte narrativa sono state realizzate nell’appartamento di Frank De Curtis e mostrano un uomo (Nuuty Kataja) alle prese con alcuni problemi e incomprensioni con un gruppo di amici.
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Move with me (2004) Videoclip diretto a Roma da Abel Ferrara, per la cantante R&B Kyrsten, nei primi mesi del 2004 durante il suo soggiorno italiano. Prodotto da Frank De Curtis, fotografato da fabio Cianchetti e co-diretto da Tony D’Angelo vede al centro di un locale la cantante impegnata nella sua performance canora mentre attorno a lei i clienti dialogano tra di loro, si scambiano effusioni e bevono drink. Nella seconda parte la stessa Kyrsten viene sedotta da un uomo con cui si cambia tenerezze, mentre le immagini alternano il colore e il bianco e nero. La parte musicale relativa al brano scrachato presenta un montaggio veloce di immagini in bianco e nero e in negativo.
Tiny Alice (2005) Tre individui inquietanti: un avvocato senza scrupoli (Claudio Botosso), una bellissima miliardaria di nome Alice (Chiara Caselli), un maggiordomo mezzo matto di nome Maggiordomo (Antonio Piovanelli), offrono ad un cardinale (Antonio Iuorio) venti miliardi di dollari in cambio di un uomo, frate Julian (Luca Lionello), segretario di Sua Eminenza, che si occupi a tempo pieno della donazione. Ma occuparsi della donazione significa trascorrere il proprio tempo nella casa della miliardaria, che a poco a poco comincia ad esigere tutto da frate Julian, fino a volerlo sposare. Julian accetta, ma alla fine scopre di non aver sposato se non il fantasma della defunta proprietaria della magione, e che lo scambio era tra il denaro e l’anima di un uomo. Uno scambio consensuale. I tre emissari se ne vanno, poiché hanno esaurito il loro compito. La bellissima donna aveva solo prestato ad Alice il proprio corpo. L’avvocato per rendere definitivo lo scambio, spara a Julian.
Dal 26 al 28 Marzo 2004, Abel Ferrara è a Bologna per un seminario di tre giorni organizzato dalla Cineteca sul “cinema indipendente”. A Bologna, parla di cinema, pone domande più che dare risposte, svuota una cassa di birra, e parla del suo passato (poco), e dei suoi progetti futuri (molto) e ha 331
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dichiarato: “Io sono un animale in estinzione…non chiedetemi niente perché non ho niente da dirvi, nessun segreto da svelarvi…Abbiamo tre giorni, diciotto ore, cosa cazzo volete sapere?”109 Ancora una volta sembra dire che è inutile fare domande. I film sono la risposta. Ma i film vengono sempre dopo la realtà: prima bisogna vivere, solo dopo si può imbracciare la cinepresa come fosse un fucile e sparare la propria rabbia. “Dobbiamo prima fottere la società e poi filmarla. Prima bisogna agitarsi e poi filmare…Il cinema viene sempre dopo”.110 Durante il suo soggiorno in Italia, in un primo tempo, Abel Ferrara lavora su due progetti distinti: il primo, che si concretizza anni dopo è quello di Go Go Tales, mentre il secondo, mai realizzato (finora) è un film sceneggiato a partire dalla autobiografia di Fernanda Pivano che racconta la sua amicizia con Hernest Hemingway: “Ho letto il libro della Pivano che mi ha molto affascinato. Hemingway è una specie di eroe. Nessuno sa la verità su Hemingway. È una sorta di Citizen Kane. Per questo sto impostando il film non sul ritratto di un personaggio ma su una investigazione, la ricerca di un personaggio. In questo mi aiuta il libro della Pivano. È lei, una donna bella, libera che può dichiarare liberamente la sua passione, la mia lente d’ingrandimento. È un argomento intrigante, almeno per me. A qualcun altro potrebbe non interessare nulla. Gli stessi attori fanno un passo indietro quando devono recitare un personaggio realmente esistito, e poi uno come Hemingway. (…) lo porteremo attraverso gli anni, per me è un personaggio in costante cambiamento. Specialmente nei suoi libri scritti in prima persona dove, nei diversi personaggi, Hemingway rappresenta se stesso. Ci vuole molto coraggio a scrivere libri e fare film, ed è ancora più difficile quando si usa la prima persona perché si può essere fraintesi.(...) Io non avrei proprio il coraggio di fare un film mettendomi davanti alla macchina da presa per farmi soggetto. Bisogna essere coraggiosi e io ho grande rispetto per quelli che lo fanno. In molti dei suoi libri Hemingway è diretto, è questo il suo modo di fare arte. Dritto giù per la gola. (...() Il suicidio di Hemingway è l’atto disperato di uno che ha vinto, che aveva successo: È il suicidio dei “vincenti”, come lo sono stati, di fatto, quelli di John Garfield e Jack London... Fratello, quando premi il grilletto verso te stesso sei già un perdente. Soprattutto se era nei tuoi piani di andare in Paradiso”111
109
Vittorio Bongiorno, Lezioni di regia, “Alias”, 26 Febbraio 2005, p.8 Dario Zonta, Il viaggio in Italia di Abel Ferrara, in Duellanti 00_3 Febbraio 2004 pp. 30-31 111 Ibidem 110
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Il progetto su Hemingway non va in porto, e, forse, si è trattato solo di una suggestione momentanea, visto che pochi mesi dopo, le energie del regista del Bronx vengono assorbite da una nuova esperienza di vita, e siccome il “cinema viene sempre dopo”, ecco che nei primi mesi del 2005 Ferrara si cimenta con un’esperienza totalmente nuova: quella del teatro. Dal 6 al 12 Aprile 2005, al teatro Mercadante di Napoli va in scena la riduzione teatrale di Tiny Alice di Edward Albee nell’allestimento curato dal regista newyorkese e dal designer Frank De Curtis. Solo un regista a suoi agio nel trattare l’estremo come Abel Ferrara, un uomo alla continua ricerca di una visione morale delle azioni, dei gesti, delle parole e delle visioni ha potuto mettere in scena attraverso il continuo crescendo della vertigine ossessiva del peccato e della colpa un testo così complesso e avvolgente, ma anche “pericolosamente” metaforico e stringente come come Tiny Alice di Edward Albee. Edward F. Albee nasce a Washington il 12 Marzo del 1928 e viene adottato a poche settimane dalla nascita da genitori miliardari coinvolti in imprese teatrali I genitori adottivi vorrebbero farne un magnate influente e rispettabile mentre egli, creativo e anticonformista, si sente attirato dagli artisti e dagli intellettuali. Dopo studi discontinui e tormentati, durante i quali viene espulso da diverse scuole, nel 1950 si trasferisce nel Greenwich Village di New York dove svolge diversi lavori, mentre inizia il suo approccio alla scrittura teatrale. I suoi primi testi, ricchi di polemica sociale, di arguti dialoghi e di buona caratterizzazione psicologica, includono, tra gli altri, gli atti unici Zoo Story (Lo zoo, 1958), The Sandbox (La sabbiera, 1960), The American Dream (Il sogno americano, 1960) e risentono dell’influenza dei temi e delle tecniche rappresentative di Tennessee Williams: come lui, Albee tenta di squarciare il velo dell’incomunicabilità per mezzo di un linguaggio sferzante e vigoroso. Il dramma Who’s Afraid of Virginia Woolf? (Chi ha paura di Virginia Woolf?, 1961-2),vincitore del Tony Award e del Grammy Award, rappresentato anche in Italia, e dal quale Mike Nichols dirige nel 1966 l’adattamento cinematografico, lo impongono all’attenzione sia nazionale che internazionale come un autore moderno in grado di mettere in scena con aspro umorismo e in modo crudo e metaforico tutte le innumerevoli nevrosi dell’America contemporanea e il contraddittorio panorama degli anni Sessanta, ove tabù e falsi valori spingono alla deriva l’umanità, stravolgendone il mondo reale. Dopo l’alternarsi nel corso dei decenni successivi di alti e bassi in merito al successo dei suoi lavori, 333
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che comunque ricevono un numero considerevole di premi nel corso degli anni, dal 1989 al 2003 è docente presso la School of Theatre della Huston University, dove promuove il teatro americano universitario con “letture” in giro per l’America, che riscuotono grande interesse e suscitano l’entusiasmo degli studenti e degli organizzatori. Nel 2005 ha perde l’amato compagno di una vita, lo scultore Jonathan Thomas, deceduto per cancro. Tiny Alice, dramma del 1964 viene rappresentato per la prima volta il dal 29 dicembre dello steso anno al 22 marzo del 1965 al Billy Rose Theatre di Broadway e vede, tra gli atri, la partecipazione del grande attore inglese John Gielgud nella parte di Julian. Nel testo scritto da Albee nel 1964, i temi sono svelati per accenni, per giochi di specchi, per rivelazioni folgoranti ed estenuanti interrogatori: realtà e immaginazione, tensioni e ossessioni, pulsioni e perversioni avvolgono strani personaggi in una società tanto ricca quanto corrotta. In questo microcosmo troviamo un cardinale avido e violento, un avvocato senza scrupoli, un giovane religioso puro ma ambizioso e vanesio, un maggiordomo manipolatore che ha molto da nascondere, per rappresentare un mondo ambiguo e incomprensibile, quello di Alice, ricca ereditiera che manipola ed è a sua volta manipolata e vittima di un gioco più grande di lei. A prima vista l’opera di Albee appare come l’ennesima trasposizione del mito di Faust, che invece qui, rimane solo in superficie, mentre addentrandosi nella scrittura contorta dell’ autore si trovano i raccordi metaforici sui personaggi, il tema del doppio e il nucleo poetico che tanto a cuore sta a Ferrara: un confronto serrato e problematico tra l’uomo e Dio. Come nel suo cinema, anche qui, il corpo e lo spirito sono metafora di sostanza e simbolo, due elementi cioè di una spirale soffocante che avvolge dentro di se carne, denaro e sesso, nella rappresentazione di una sublime menzogna. Menzogna della finzione che diventa menzogna del reale. Teatralizzazione estrema della sessualità espressa/repressa dei protagonisti, disegnata sul “nero” scarno e muto delle scenografie di Frank De Curtis, sfondo ideale per le vicende di umana miseria vissute dai personaggi di Tiny Alice. Non c’è salvezza in questo mondo notturno, cupo e claustrofobico, dove il denaro è intriso di sangue e dove il sesso esplode violento e brutale nella sua volgarità allorché privato dell’amore necessario. Il dramma si contorce su se stesso nel suo lento progredire verso la fine, che non è tanto quella narrativa, bensì quella esistenziale di un umanità che lacerata dal potere del Male si rinchiude su se stessa, trovando piacere solo dentro di se. Julien è un “cro334
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cifisso”, una “imitazione di Cristo” condannato più da se stesso e dal suo cedere ai piaceri della carne e come alla vanità e all’ambizione, che dal mondo a cui appartiene. La sua è una via crucis fatta di repressione e violenza verso di sé fino all’inevitabile resa finale, quando la seduzione del Male avrà il sopravvento. È una storia di perdizione quindi, l’ennesima dichiarazione di morte di ogni civiltà, che deflagra irrimediabilmente di fronte allo strapotere dei soldi e del sesso. È il necrologio finale sul materialismo di una società corrotta a tutti i livelli in cui l’uomo, incapace di fare il Bene, è schiavo (servo) condannato al servizio del Male. Tiny Alice, nella visione di Ferrara, è un dramma sulla trascendenza, sul rapporto conflittuale tra l’uomo e Dio vissuto attraverso un materialismo dialettico che permette al regista di costruire una visione metaforica, fortemente teatralizzata, dell’eterno conflitto tra azione e ragione, tra pensiero e comportamento. Questa radiografia dell’ “essere” affonda, ancora una volta, le sue radici nel binomio peccato/seduzione, dove il corpo diventa al contempo oggetto di desiderio e motivo di rifiuto estremo. Il dramma di Albee si sviluppa come una spirale che discende nei meandri dell’oscurità, sia materialmente (nel castello) sia simbolicamente (nell’anima); un lento discendere che porta con sé umiliazioni e ferite frutto di un intricato sovrapporsi di memoria, rancore e rimpianti. Aspetto questo che prende forma nel dialogo teso ed estremo tra Alice, che usa il suo corpo flessuoso per sedurre, e Julian che tenta di opporsi alla tentazione attraverso l’isteria di un racconto che culmina con l’orgasmo dell’autoerotismo. Scena che prelude, nella sua dialettica tra corpo e anima, tra sperma e sangue, a quella successiva in cui l’uomo e la donna si congiungono (anche fisicamente) nell’immagine della Croce, e in cui Julian assume i crismi dell’agnello sacrificale votato all’ “imitazione di Cristo”. A tessere le fila, dell’untuoso quartetto diabolico al centro di Tiny Alice, la figura “ragnesca” del maggiordomo, apparentemente figura secondaria, in realtà gran burattinaio delle gesta autodistruttive di questi personaggi pericolosi e velenosi come vipere. Abel Ferrara sottolinea l’importanza di questa figura attraverso la centralità del suo posizionamento sul palco, e costruisce, attraverso i movimenti dei co-protagonisti le fila di una ragnatela il cui centro è sempre rappresentato dal maggiordomo, e in cui, è inevitabile, che Julian vi rimanga impigliato a causa della sua ambizione e vanità. Ecco dunque, che il farsi del dramma di Albee, nella regia di Ferrara, diventa un continuo sovrapporsi di richiami psichici la cui manifestazione esteriore è data 335
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da gesti isterici e nevrotici e in cui la “retorica dell’inconscio” viene sublimata dagli ambienti tetri e inquietanti in cui la vicenda si svolge. L’esplosione dell’inconscio avviene nel finale, attraverso il monologo di Julian morente: l’uomo, non più frate, isolato nella sua agonia riassume nello strazio del suo lento avvicinarsi alla morte ambizioni e rimpianti, desideri e gesti mancati, e mentre il sangue imbratta la sua camicia bianca, attorno a sé in uno straniante spazio astratto (in cui i mobili sono opportunamente coperti), si agitano i personaggi suoi carnefici, che tra perversione e indifferenza, pietà e morbosità, assistono all’esito della loro messa in scena, in un finale di partita in cui non ci sono né vincitori né vinti, ma solo fantasmi pronti d uscire di scena. Gli ambienti del dramma, i tre spazi simbolici sono ognuno, a suo modo, duplicazione di qualcos’altro, così come lo è il modellino del castello riproducente il castello stesso. Il cortile è anche una gabbia, la biblioteca è anche una Chiesa, la camera di Alice è anche un patibolo. Il nero delle scenografie, la luce radente che penetra dalle bifore della biblioteca, i drappi damascati e oscuri che pendono dalle finestre della camera da letto e le inferriate alte e insuperabili che delimitano il cortile sono rappresentazione simbolica della prigionia a cui questi personaggi sono costretti. Ognuno di loro, come gli ambienti, è doppio, così come è doppio il rapporto tra denaro e feticismo che contraddistingue l’escalation narrativa. Il passato di ognuno di loro è terreno di scontro e conflitto, e più volte, loro stessi, sono chiamati alla messa in scena di una recita scritta da altri (Dio? Il destino? Il Male?) di cui Ferrara traduce opportunamente l’aspetto grottesco attraverso la parodia. Per gran parte di questi aspetti e di queste suggestioni la regia di Ferrara di Tiny Alice, è assimilabile alla costruzione de Le journal d’une femme de chambre (Diario di una cameriera, 1963) di Luis Buñuel. La Celestina, protagonista della vicenda, è una donna, che da Parigi regredisce in provincia, al servizio di una famiglia in cui Rabour (Jean Ozenne) è un feticista, la figlia, la signora Monteil (Francois Lugagne) è frigida ed “esigentissima”, il marito Monteil (Michel Piccoli) un satiro condannato all’impotenza, il servo e guardiacaccia Joseph (Georges Geret) un fascista e razzista. Come in Tiny Alice, Celestina è al centro della ragnatela che lei stessa tende, così come lo è il maggiordomo della pièce di Albee. Il film di Buñuel, è nella prima parte apparentemente privo di uno sviluppo narrativo in cui i rapporti tra i personaggi si intrecciano e si avviluppano attorno a Celestina e come il dramma di Albee, procede attraverso la dupli336
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cazione degli spazi: la sala da pranzo e la cucina dei domestici, lo studio di Robour e la casa del guardiacaccia, il giardino e il bosco di Raillon. La scenografie dello studio di Rabour, con le pareti oscure e legnose, il mobilio barocco e pesante e l’atmosfera straniante e soffocante del feticismo espresso dal vecchio capofamiglia, richiamano la dimensione della biblioteca di Tiny Alice in cui il mobilio nero e barocco si coniuga con il porpora della pelle che riveste le sedie, mentre la luce “ecclesiastica” proveniente dalle fessure evidenzia il pulviscolo e trasforma la scena in uno spazio sospeso. La sala da pranzo, con la sua disposizione ordinata e rigorosa degli oggetti e delle persone, e il tappeto cinese su cui il padre esercita l’assoluto possesso, così come la signora Monteil lo esercita sulla “sua” vetrinetta, richiamano il rigore barocco della camera di Alice al cui centro staziona la “sua” poltrona mentre agli ospiti non rimane altro per accomodarsi che uno scomodo pouff. Infine il giardino della villa, che è anche metonimia del bosco di Raillon all’interno del quale si verifica l’orrendo delitto di Clara, con il suo intrecciarsi di inferriate e rami accartocciati richiama il cortile in cui il cardinale e l’avvocato si scannano a vicenda con cinismo e malcelata soddisfazione. Inoltre, in Le journal d’une femme de chambre, Clara è la vittima sacrificale, designata, ingenua e pura necessaria per fare uscire allo scoperto la tela intessuta dalla cameriera-ragno. Dal momento in cui la donna desiste dal partire, il suo agire precedentemente subdolo e sofisticato, diventa cinico e sarcastico, e lentamente si prende gioco e condanna, ad uno ad uno, quelli che ormai sono divenuti solo più comprimari della sua messa in scena. In Tiny Alice anche Julian assume il carattere di vittima sacrificale, ma non si tratta di un essere puro ed ingenuo come Clara, bensì di un uomo vittima inconsapevole della sua ambizione e della sua vanità, che rispecchia pienamente l’incedere del prologo del libro biblico di Coelet, in cui “tutto è vanità” e in cui uno dei versi recita: Non si sazia l’occhio di guardare, né mai è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà. Ecco dunque, che Julian è colpevole e il suo gesto, il suo accettare supinamente e devotamente il ruolo di servo, si “rifarà” nel momento dell’accettazione coercitiva della morte. In Tiny Alice, il rapporto denaro/potere è orchestrato sulle dinamiche padrone-servo, così come tutto il dramma è imperniato su un rapporto sadomasochistico tra chi sta in alto e chi sta in basso. Il cardinale, che nella prima scena, a cospetto dell’avvocato si esprime solo ed esclusivamente con il “Noi” e dichiara sprezzante: “Noi utilizziamo la 337
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prima persona singolare solo con i nostri pari, con i nostri intimi... siamo andati alla stessa scuola, siamo stati nella stessa classe ma non siamo della stessa classe”, viene smentito e deriso da se stesso nel momento in cui, nel bisogno di riscuotere il denaro, diventa desideroso e smanioso di farlo in prima persona. Ed ecco inevitabile che arriva la replica puntuale dell’avvocato: “Il denaro pareggia qualunque cosa, livella la terra, il cielo e i superiori. Chi è superiore? Colui che si erge alla sommità del cielo o colui che scende?”. Così dopo aver congedato l’avvocato, al cardinale non resta che ammirare morbosamente e viscidamente il suo anello con sigillo, strumento che gli permette di avere ai suoi piedi un nugolo di servi di cui frate Julian è il più fedele e il più debole e fragile, colui che nasconde sei anni della sua vita e che ha barattato la perdita della fede con l’internamento in manicomio ma anche, colui che afferma rivolto al maggiordomo: “Dio non è un fantoccio, Dio è un creatore e non una creatura dell’uomo”. L’ingresso in scena di Alice è caratterizzato dalla prima messa in scena parodistica, in cui la donna si finge vecchia per prendersi gioco dell’ignaro Julian per poi disvelare un corpo seducente e ammiccante che sorregge un cinismo di grana grossa che la spinge da un lato ad affermare a proposito della riscossione del denaro: “I grandi capitali sono pazienti...” e dall’altro costringe l’ingenuo Julian a mettersi a nudo psicologicamente e con violenza inaudita, espressa attraverso la pressione psicologica, lo spinge ad ammettere: “Quando ero fuori di me non distinguevo più cos’era immaginazione, da cos’era realtà”. Alice è sempre seduta, ma non viene mai meno al suo ruolo di dominatrix della psiche. La sua più che una seduzione fisica è una seduzione celebrale ed è quindi particolarmente rilevante la frase espressa in chiusura di scena, in cui ammette la presenza del doppio e in cui (forse involontariamente) lancia una segnale di pericolo che il suo interlocutore non è in grado di cogliere: “Il ricordo di una cosa... non equivale forse alla cosa stessa?”. Il ritorno nella biblioteca corrisponde all’approccio sessuale tra l’avvocato ed Alice, preceduto da uno scambio di battute al vetriolo in cui la donna dichiara: “Ho un tale odio per te che non so davvero descriverlo...”, e l’uomo replica: “Per capacità d’espressione non sei mai stata famosa...”. Segue il rapporto sessuale interrotto dall’irruzione del maggiordomo. La rappresentazione dell’amplesso è costruita da Ferrara sulle coordinate della parodia votata alla rappresentazione più di una messa in scena che di un atto realmente compiuto. Nell’intrecciarsi dei dialoghi serrati e dissimulati dall’in338
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gresso di Julian, due luoghi simbolici dell’ “alto” e del “basso” diventano protagonisti della vicenda: da un lato la cantina fatiscente e maleodorante in cui il vino di qualità marcisce e dall’altro la cappella ricoperta di ragnatele, con l’altare sprofondato, che improvvisamente viene avvolta dalle fiamme. La messa in scena continua nel rapporto tra il maggiordomo manipolatore e l’avvocato servo, quando l’avvocato afferma: “Anche io sono umano”, il maggiordomo replica puntuale: “Umano si...ma votato alla caccia”. Scena che funge da preambolo alla rappresentazione grottesca e “blasfema” del rapporto tra l’avvocato e il cardinale, istigata dal maggiordomo che invita il suo interlocutore a interpretare il cardinale di cui dice: “È un uomo di Dio per quanto possa semplificare”, mentre lui interpreterà l’avvocato stesso replicando: “Gli uomini fanno Dio a loro immagine”. La messa in scena, plastica e viscida allo stesso tempo, orchestrata da Abel Ferrara sulle dinamiche della parodia, non lesina dettagli grotteschi e prese in giro grossolane sulla corporatura del porporato, così come non arretra di fronte all’umiliazione di Julian, descritto come un fantoccio nelle mani del destino. Riferendosi a lui il maggiordomo chiosa imperturbabile e maligno: “Credo che abbia perdonato gli uomini, sta camminando sull’orlo di un abisso ma si tiene in equilibrio e con una spinta potrebbe essere precipitato giù di nuovo...”. Nella stanza di Alice, nel frattempo, va in scena una lunga serie di ammiccamenti sadomasochistici in cui l’ingenuo Julian, dopo una picevole cavalcata, provocato dalla donna le suggerisce: “Vi piace l’odore di sella, volete che vi faccia assaggiare il frustino?”, e in tutta risposta, la donna maliziosamente si accovaccia di fronte a lui a quattro zampe porgendogli le natiche e sussurrandogli: “Lo fareste? Nessuno fa più le cose con naturalezza”. Ecco dunque, che le dinamiche servo-padrone, finora relegate al rapporto tra potere e denaro irrompono nella dialettica carnale dei corpi e si sublimano nella simulazione di un rapporto feticista fra un servo che ambisce da sempre a essere tale e una padrona che sembra avere perso il controllo sulla sua ambizione. La naturale conclusione di questo incontro, è quella di una crocifissione reciproca in cui si manifestano tanto il doppio del Male quanto l’imitazione di Cristo, tanto la seduzione, quanto l’allucinazione. Il finale di partita, inevitabilmente, si gioca nella biblioteca, ed è aperto, ovviamente, dal rapporto padrone e servo, quello tra il cardinale e Julian. Il primo afferma sibillino: “Così come hai accettato, lontano da ogni previsione, ciò che è accaduto, così dovrai accettare ciò che accadrà...ciò che potrà 339
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accadere. Accetta ciò che potrà accadere come la volontà di Dio. E che nostro Signore Gesù Cristo abbia pietà della tua anima...e di quella di tutti noi... delle anime di tutti quanti noi...”. Julian, ancora ignaro di essere il sacrificio umano in cambio della donazione monetaria e miliardaria alla Chiesa, rimane interdetto e distoglie l’attenzione dalle parole del cardinale evocando il suo matrimonio appena celebrato con Alice. È l’avvocato ad essere esplicito dicendogli: “Ti sei vestito in questo modo per il sacrificio...”. Sempre più sospettoso e spaventato, Julian si allontana per raggiungere Alice nella sua stanza e lasciare così il centro della scena all’avvocato e al cardinale. Quando il primo, strisciante, mostra al cardinale tutta la soddisfazione per l’obiettivo raggiunto il cardinale replica sprezzante: “Noi non prendiamo, né portiamo”, e l’avvocato, ancora una volta ne svela l’ipocrisia dicendo: “Non siete forse il galoppino di Dio...”. Ecco allora che le quattro figure metaforiche, Alice (denaro), l’avvocato (giustizia), il cardinale (religione) e il maggiordomo (il gran burattinaio) si preparano per l’ultima messa in scena, quella definitiva. E se l’avvocato è l’unico a mettere in evidenza la colpevolezza di Julian dicendo: “Un martire o un santo... accetterà qualsiasi cosa pur di essere ciò che voleva...”, gli altri astanti sono intenti a celebrare, come fosse una cerimonia, il funerale della loro vittima e sottolineano, ognuno a suo modo, l’assenza del caso e come tutto sia il frutto di un potere manipolatore che predetermina gli eventi. Una volta ferito a morte Julian è isolato nel suo dolore mentre l’avvocato gli dichiara la natura sua e dei suoi comprimari: “Ora ti lasciamo Julian, non siamo altro che strumenti noi, ora ti lasciamo al suo destino... noi siamo dei surrogati, il nostro compito è finito ora...”. La partita è chiusa, la scenografia viene coperta dal maggiordomo, lo spazio lentamente si svuota, il castello prende fuoco e gli spettri svaniscono nel calore delle fiamme dell’inferno.
Tiny Alice – Sondaggi critici C’era molta attesa per il debutto romano di Piccola Alice nella inedita versione diretta da Abel Ferrara. Roma vive di cinema, e potersi cimentare con la prima regia teatrale di un geniaccio maledetto come è l’autore di The Addiction, Il cattivo tenente, e New Rose Hotel era occasione davvero ghiotta. E stupiva che il poco più che cinquantenne del Bronx avesse scelto per la Capitale - dopo la 340
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prima nazionale al Mercadante di Napoli - un teatrino off come il Colosseo. La produzione, La famiglia delle Ortiche di Cherif, ha appoggiato la decisione del regista, sottolineandone il valore politico: ma certo un lavoro del genere avrebbe meritato sale più ampie e consone. La scrittura avvolgente dell’autore di Chi ha paura di Virginia Woolf? trova nella regia di Ferrara un adeguato devoto: il regista spinge verso il noir, sfiora il grottesco, senza negarsi accelerazioni comiche e scene francamente spregiudicate. Il tema sotteso, quello dell’afflato verso un divino sin troppo lontano e la sudditanza a un capitale che riesce a segnare immancabilmente ogni rapporto umano, diventa per Abel Ferrara lo spunto per requisitorie durissime contro il degrado sociale e personale di ogni personaggio, in un continuo interrogarsi iconoclasta sul senso di ogni possibile. Non c’è salvezza in quel mondo notturno, cupo e claustrofobico come il cinema di Ferrara: e la risata, violenta e grottesca, che si scambiano i protagonisti di questa storia di perdizione è solo l’ennesima dichiarazione di morte di ogni civiltà, deflagrata di fronte allo strapotere dei soldi. Lo spettacolo, allora, riesce a trasportare in scena quell’ossessione: Ferrara quasi sembra citarsi, o rimandare al suo cinema fatto di deliri di dipendenza e funeree perversioni sessuali, di tossicità e violente crisi. I frequenti cambi scena (decisamente troppo lunghi) sono un richiamo ai “neri” del grande schermo, e la recitazione - che pure strizza l’occhio a Rocky Horror come a La piccola bottega degli orrori riesce anche a tenere alta una tensione del “non detto”, inseguendo un mistero che si dipana solo nell’ultima scena. Con le musiche originali, eseguite dal vivo, di Francis Kuipers e nelle luci fosche di Mario Felciangeli, si muovono sul palco (un po’ a fatica, viste le ridotte dimensioni della scena) attori che reggono bene il disegno di Abel Ferrara. Dall’ottimo Claudio Botosso, che fa del suo avvocato un viscido e fastidioso killer, al dirompente e cinico cardinale di Antonino Iuorio, al folgorante maggiordomo di Antonio Piovanelli fino all’appassionato (ma forse troppo calcato) Julian di Luca Lionello. Resta da dire della protagonista, miss Alice, interpretata con grande sfavillio di epidermide da Chiara Caselli: forse troppo rigida per il ruolo, ma decisamente magnetica sulla scena. DA WWW.MYWORD.IT Spettacolo di primo ordine ieri sera al Teatro Colosseo di Roma dove si e svolta una replica dello spettacolo Tiny Alice scritto da Edward Albee del 1964 e messo in scena per la prima volta in Italia proprio dal registra cinematografico del “Cattivo Tenente”, tanto per citare uno dei suoi film piu famosi (e anche tra i piu belli). L’unica delusione della serata e stata quella di trovare una sala semi341
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deserta con dispiacere per attori e regista e compatimento per gli appassionati di teatro assenti. A noi la piece teatrale e piaciuta moltissimo nonostante alla fine siamo rimasti con molte domande. Gli attori sono stati molto bravi e il testo e scivolato via in due ore e mezzo suscitando interesse, curiosità e passione. (…) Che cosa succede in questo dramma? Nel primo atto si incontrano-scontrano due personaggi rappresentativi delle istituzioni di appartenenza, un cardinale e un avvocato. Il dialogo e inizialmente amichevole e si capisce che i due sono amici dall’infanzia, ma lentamente non si risparmiano le crudeltà verbali più antipatiche e gli insulti piu sottili e velenosi. Si respira alla fine un’aria intrisa di trascorsi omosessuali, di invidie per rivalità tra le sponde religiosa e laica.(...) Dentro il potere rappresentato dall’avvocato si cela un gioco piu grande di noi, che siamo dei principianti dell’esistenza. Piccola Alice e piccolo Avvocato. Dentro la sicumera del leguleio si annida la sua aggressività, cioè l’aggressività di tutti, che lo portera all’omicidio del suo protetto nonche fresco sposo di Alice. Il sesso che lega o ha legato i quattro protagonisti non e a caso un collante viscido e pericoloso, una losca reificazione reciproca dove non si intravede neanche un po’ d’amore, etero oppure omo che sia. E cosi spesso che lo psicoanalista e costretto a vedere i suoi simili, specchiandosi anche in essi. Con un bravo emergente attore del nuovo cinema italiano Antonino Iuorio (il cardinale), una seduttiva e giusta Chiara Caselli (Alice), un fascinoso Claudio Botosso (l’avvocato), l’enigmatico Antonio Piovanelli (il maggiordomo, molto simile allo Stroheim di Viale del Tramonto), il Giuda di “The Passion” Luca Lionello (Julian, l’unico personaggio, con Alice, ad avere un nome). AMEDEO CARUSO, WWW.THEFREELIBRARY.COM, MAGGIO 2005 Non sono molti gli autori ( e pochi anche gli uomini) che in questi tempi abbino saputo parlarci di Dio. E non sempre il sapere di cosa si sta parlando facilita il compito. Anzi, spesso sono molto più persuasivi (proprio perché per loro si tratta solo di un gioco) quelli per i quali Dio è solo una parola.(...) Piccola Alice nasce da un’idea semplicissima ed elementare. È la storia di una compravendita. (…) Una riedizione insomma del mito faustiano, dove però la serietà, la non-codificabilità del problema rende la scrittura di Albee improbabile, inguaiandola in progressive contorsioni. (…) Ferrara, credo, ha scelto Piccola Alice, per la stessa ragione per cui Albee la scrisse: un faccia a faccia con Dio che insiste ad incarnarsi, congiungendo simbolo e sostanza, e con un uomo sempre tentato dalla Disincarnazione. Lo spettacolo è pieno di errori, quasi che l’urgenza comunicativa (un’urgenza che alla fine, comunica poco) avesse annullato il tempo a disposizione dei dettagli: dalla recitazione, cui si salvano 342
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Chiara Caselli davvero bravissima, e uno stralunato Antonio Piovanelli, alla pronuncia approssimativa, dai microfoni fino alla coordinazione tra azioni e parole, fino alla finzione, quasi sempre incomprensibile, della musica sl vivo. Un disastro, dunque. Ma con quel po’ di vera grandezza, ossia di vera religiosità, che nell’attuale panorama iper-impiegatizio si fatica a trovare. LUCA DONINELLI, AVVENIRE, 8 APRILE 2005
Mary (2005) Maria entra nel sepolcro di Cristo. Marie Palesi (Juliette Binoche) sta recitando in un film la parte di Maria Maddalena. L’attrice, terminate le riprese rifiuta di tornare a New York con il regista del film Tony Childress (Mattew Modine). Marie abbandona il set e fugge a Gerusalemme. A New York, un anno dopo, un anchor-man, Theodor Younger (Forest Whitaker) conduce lo show televisivo di prima serata “Gesù, la vera storia” e ha come ospite in studio Amos Luzzatto (se stesso), il presidente dell’unione comunità ebraiche in Italia. Al termine della registrazione della puntata, la produttrice Brenda Sax (Stefania Rocca) invita il conduttore a partecipare alla proiezione-stampa del film di Tony Childress che si terrà il giorno dopo. Theodor, di ritorno verso casa guarda sul portatile le immagini del conflitto isreaelo-palestinese, poi, una volta giunto a casa, ha un piccolo diverbio con la moglie Elizabeth (Heather Graham) in merito al suo ritardo. La moglie è incinta. Il giorno dopo Theodor assiste alla proiezione per la stampa del film “Questo è il mio sangue”, e al termine dell’evento accompagna il regista nel centro di New York. Mentre sono in macchina i due stipulano un contratto: Tony sarà ospite dello show di Ted e il conduttore farà un servizio live sulla prima del film che si annuncia carica di tensione e di proteste. Theodor è nuovamente in trasmissione con ospite il monaco benedettino Ivan Nicoletto (se stesso).Marie a Gerusalemme si rivolge verso la macchina da presa e parla di anima e desiderio. Theodor è a letto con Gretchen (Marion Cotillard), un amica di Marie e di Tony, da cui vuole ottenere il suo numero di telefono per invitarla a parlare in trasmissione. Recuperato il contatto, all’alba telefona alla donna, poi ritornato in studio gurda il filmato di un documentario sui vangeli apocrifi, telefona alla moglie con la quale litiga animatamente a causa della sua notte trascorsa fuori, poi le chiede scusa e la saluta. Ted registra un’altra puntata del suo show in cui ha come ospite il teologo Jean Yves Leloup (se stesso). Immagini del film di Childress, con 343
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Maria assieme a dei pescatori. Theodor torna a casa e scopre che la moglie ha rotto le acque ed è stata portata in ospedale, perche lei come il bambino, versano in cattive condizioni. Ted va in chiesa, telefona a Marie per chiederle come si fa a pregare: l’uomo piange di fronte alla croce mentre a Gerusalemme Marie accende candele nella basilica della Natività. La moglie di Ted si risveglia, chiede notizie del bambino e rimprovera al marito la sua assenza della sera prima; Theodor ammette le sue colpe. A Gerusalemme si celebra la Pasqua con pane azzimo e erba amara poi in tavola arriva l’agnello, ma al momento del taglio si verifica una forte esplosione. Marie si allontana dalla casa in cui era ospite e scompare nella notte. Immagini del film con Gesù che parla ai discepoli. Theodor va in onda con ospite Tony Childress e una telefonata di Marie Palesi. Il regista litiga con il conduttore e si allontana. Immagini del film “Questo è il mio sangue” con voce-off di Ivan Nicoletto che fa l’esegesi della lavanda dei piedi. Theodor, in lacrime si reca in chiesa a pregare e chiede di essere sacrificato al posto della moglie del figlio; non si presenta all’appuntamento della prima del film mentre di fronte al cinema si verificano incidenti provocati da attivisti cattolici. La minaccia di una bomba svuota la sala mentre Tony proietta il film da solo. Ted è in ospedale, sua moglie e il bambino ora stanno bene, e lui chiede loro perdono. Immagini del film di Tony con tre donne, di cui una è Maria, che si apprestano ad andare a pescare in mare.
Mary è un film che viene da lontano, un film che Ferrara ha covato dentro di se sin dall’infanzia, qualcosa che da piccolo era entrato nella sua mente e che non l’ha più abbandonato come egli stesso racconta parlando, cosa assai rara, di un episodio della sua infanzia: “Molti anni fa, quando frequentavo una scuola elementare cattolica nel Bronx, ci fecero vedere un film, proprio il giorno prima dell’inizio delle vacanze pasquali. I ragazzi da una parte e le ragazze dall’altra ci sedemmo obbedienti sulle sedie di legno nella vecchia palestra a guardare una versione in bianco e nero della Passione di Cristo… Fui ipnotizzato dalla scena finale della crocifissione – nel cuore della notte, con la pioggia e il vento che urlava – che mi è rimasta per sempre impressa nella mente e nel cuore. Nonostante siano trascorsi molti anni, mi domando ancora che film fosse e se avrò mai la fortuna di scoprirlo. In caso contrario mi resterebbero comunque “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini e “L’ultima tentazione di Cristo” di Scorsese. È stato grazie all’esperienza e al ricordo della potenza e bellezza di questi tre film che abbiamo intrapreso l’avventura di Mary”.112 112
Mary, in Catalogo 62ª Mostra internazionale del cinema di Venezia, p.60
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Mary è stato presentato il 6 settembre 2005 in concorso alla 62ª Mostra internazionale del cinema di Venezia, riscuotendo consensi e perplessità da parte della critica, ma applausi e commozione da parte del pubblico. Per la prima volta Abel Ferrara ha ricevuto un premio in un festival e dato il personaggio non poteva che essere un premio speciale e quasi inventato dalla giuria. Il Gran premio della Giuria per Mary è stato ritirato dal suo autore, sorpreso e imbarazzato sul palco della Sala Grande, e rappresenta il riconoscimento per un’opera diseguale, talvolta confusa ma densa e originale, che nonostante le apparenze ha avuto una lunga e difficile gestazione. Il cinema di Ferrara è una battaglia continua, e spesso e volentieri, si deve confrontare con gli imprevisti e le difficoltà che riguardano tutto ciò che accade prima delle riprese. Giunto in Italia attratto da alcuni produttori disposti a finanziare il progetto di Go-go Tales, Abel Ferrara si trova a fare i conti con dei professionisti improvvisati e con una serie di ostacoli economici, che rischiano di far naufragare la produzione del film, a cui subentra l’ideazione di Mary che in un primo momento prevede per il ruolo di Maria Maddalena la presenza di Monica Bellucci e quella di Vincent Gallo, nel ruolo di Gesù. Quando il progetto di Mary comincia a prendere forma, subentrano ulteriori difficoltà: la Bellucci rimane incinta, compromettendo l’offerta dei finanziatori e portando via con sé la partecipazione di Vincent Gallo. Il documentario Odyssey in Rome, diretto e prodotto da Alex Grazioli e presentato nell’ambito del New York International Independent Film and Video Festival, racconta la cronaca delle vicende produttive (alcune delle quali realmente incredibili) che hanno portato, dopo tre anni, alla produzione del film. A partire dal 2003, anno in cui Abel Ferrara mette in cantiere il progetto Mary, il documentario segue da vicino la complicata fase di produzione e i continui colpi di scena del finanziamento del progetto, tra migliaia di telefonate, preventivi improbabili, fogli strappati, pagine di sceneggiatura cancellate litigi, truffe e sotterfugi e ingenuità, mescolate ad una continua tensione mostrata dal regista che porta avanti le sue istanze (a volte confuse e disomogenee) tra Roma e New York guidando e motivando i suoi collaboratori, sbracciandosi ed imprecando di continuo. Il regista, si ritrova durante la produzione di Mary, suo malgrado, al centro di un mondo di produttori e di finanziatori improvvisati, prima di riuscire ad ottenere un budget almeno tre volte inferiore a quello previsto. Il film viene salvato dall’entrata in scena di Massimo Cortesi, Roberto De Nigris e Fernando Sulichin che sostengono le 345
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idee di Ferrara, sviluppano il progetto scritto dal regista con Simone Lageoles e Mario Isabella, e ingaggiano per i ruoli principali Juliette Binoche, Forest Withaker, Mattew Modine e Stefania Rocca. Le musiche originali in un primo momento sono quelle di James Lavelle, mente del progetto Unkle, a cui subentra Francis Kuipers, già curatore della musica dal vivo dello spettacolo teatrale Tiny Alice; La scenografia è dell’oramai sodale Frank De Curtis, mentre la fotografia è di Stefano Falivene. Il punto di vista del regista sul film è chiaro nelle parole dette, ma ambiguo nelle immagini del film, come dimostra la seguente dichiarazione messa a confronto con i contenuti della pellicola, e da cui si evince che Mary è un film tanto sofferto, quanto appiattito sulle mode del momento. “Abbiamo girato il film a Gerusalemme - siamo andati in luoghi dove nessuno è mai andato. È stato come prendere di nuovo alla radice reale la storia di Cristo e leggere la Bibbia come una dottrina rivoluzionaria, ciò a cui Marty (Scorsese) voleva arrivare. Questi ragazzi sono come Fidel e il Che, sai cosa intendo? Questi ragazzi combattevano i romani. Gli ebrei non credono che Gesù fosse qualcosa di più, di un profeta, perché hanno detto: “Ehi, Gerusalemme è piena di frutta secca come voi.” Pensavano che Gesù era solo un altro fottuto pazzo, e i Romani pensavano che fosse solo un altro pazzo in un mondo di matti ebrei che combattono per le loro vite contro una dittatura fascista, che era l’Impero Romano. Così si vede in questo modo e poi si inizia a capire Gesù come un vero uomo. Gesù era un uomo rabbino. Un rabbino ha una moglie. C’è questa idea di cercare di trasformare Maria Maddalena - che avrebbe potuto essere sua moglie - in una prostituta. Questo è un cambiamento storico, perché per Gesù non c’erano undici ragazzi presenti all’Ultima Cena. C’erano donne, c’erano uomini, c’era un gruppo di persone. Ed è quello che Da Vinci ha visto. Ho guardato L’ultima cena un milione di volte, ma come un pazzo, non l’ho mai visto correttamente. Come Da Vinci ha detto: “Per coloro che hanno occhi per vedere e orecchie per sentire ...” E ci mostra proprio lì: c’è una donna seduta lì accanto a lui. Ho guardato quel dipinto 8.000.000 volte e non ho mai pensato così, perché simo così condizionati a pensare dalla parte della Chiesa cattolica romana...”113
Mary è un film intenso, forse l’atto ultimo e definitivo del cammino ferrariano ed è in qualche modo la fine del suo cinema (non a caso, dopo Go 113 Nick
Dawson, Intervista a Abel Ferrara in filmakersmagazine.com,17 ottobre 2008. Trad.
nostra
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Go Tales, già in produzione, per anni il regista realizza solo documentari e videoclip). È un viaggio tormentato, confuso, sfilacciato, talvolta presuntuoso, ai confini della Fede e dell’Amore, dove il peccato scatena il perdono e la preghiera restituisce la Grazia. Il cinema, la televisione, la realtà sono gli elementi che formano la “trinità blasfema” del credere contemporaneo basato sulla menzogna e sulla sostituzione dell’ uomo a Dio. Ferrara, per la prima volta dalla separazione da St. John parla esplicitamente di religione e di fede (ed è evidente la mancanza dell’amico-guida), come se fosse giunto al termine del proprio cammino di ricerca e finalmente potesse esprimere le sue certezze. Mary si svolge tra New York e Gerusalemme, due città dove la perdizione è dappertutto e dove quindi può arrivare più facilmente la redenzione; si svolge tra un set reale e uno immaginario, e divide i suoi passaggi tra cinema e televisione, mettendo in scena lucidamente (ma superficialmente) tutti i temi cari al regista: la fede e la metropoli, il processo creativo che vede il suo autore crollare sotto il peso della sua opera, il peccato come detonatore per far esplodere il bisogno di fede, la parodia del mondo del piccolo schermo e la complessità dell’ “essere” incarnata dalla figura di Maria Maddalena. Ferrara nell’analizzare la figura di Maria Maddalena, si è confrontato con i vangeli gnostici detti di “Hag Hammadi” (dal luogo in cui vennero trovati nel 1945) e con gli studi del teologo francese Jean-Yves Leloup (che appare anche nel film come ospite dello show di Ted), e restituisce una Maria Maddalena vista non come la prostituta che amò e fu redenta da Cristo, ma come, seguendo la moda del “Codice Da Vinci” di Dan Brown, un “discepolo” , anche se poi, apparentemente, se ne allontana mostrandola come né madre, né moglie, ma personaggio sfaccettato e complesso incarnazione di Fede e Amore. Personaggio che risponde precisamente alla domanda centrale del film: quale strada conduce, attraverso il dolore, la perdita e l’espiazione dei peccati, verso il necessario Amore?. La risposta secondo Ferrara è nell’umiltà dei gesti e dei corpi. Il momento centrale del film, dal punto di vista cattolico, che riscatta le precedenti adesioni alla cultura New Age, è quando prima di morire Gesù lava i piedi ai suoi discepoli. È solo un gesto non di umanità ma di umiltà e di parità. Io sono il vostro Signore ma vi lavo i piedi come il più umile dei servitori. Corpo che lava corpo: parità dei corpi. Corpo e corpi che Ferrara mette in scena e segue con la macchina da presa schiacciata sui volti degli attori, limitando spazi e luce per far emergere la densità del corpo dando la sensazione di uno spazio 347
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che si sta sempre più restringendo intorno a loro. Chiude lo spettatore nello schermo, in quel rettangolo di luci e suoni chiedendogli di sfondarlo e di andare oltre, di riscoprire la verità, di vivere secondo il Vangelo, di amare intensamente e incessantemente, perché questa è l’unica salvezza. Ecco quindi che la “lavanda dei piedi” assume i connotati di un esame di coscienza collettivo e che dopo l’11 settembre 2001 non può più essere rimandato altrimenti il fondamentalismo (religioso) prevarrà sul fondamentale: l’Amore appunto. “Penso che bisognerebbe andare oltre lo schermo e la maschera che ci si costruisce dagli altri e dal mondo, essere onesti con se stessi, nel mio film c’è la sequenza della lavanda dei piedi che è uno dei momenti più importanti, infatti è proprio in quel momento che Cristo si spoglia di tutto e sceglie di essere il servitore degli altri. Anche Ted non può più nascondersi ma deve affrontare la realtà.”114 La realtà, ecco l’anello di congiunzione tra il cinema e la televisione. Ferrara mostra gli orrori del mondo contemporaneo attraverso lo schermo televisivo perennemente acceso di un network che mostra immagini del conflitto israelo-palestinese e ci mostra il regista Tony Childress che vuole utilizzare come “bomba” il suo film. Sullo sfondo di questi intrecci pericolosi, la notte newyorkese è perenne mentre si consumano tradimenti e crollano certezze. Ted tradisce sua moglie per fare uno scoop, ma quando si rende conto che il suo gesto sta per fargli perdere sia la moglie che la figlia, mette da parte la sua presunzione e umilmente si reca in chiesa a pregare. Recupera così la fede e trova le risposte alle mille domande che insistentemente poneva agli ospiti del suo talk-show solo per far salire l’indice d’ascolto. L’uomo quindi, in Mary è visto come l’agnello sacrificale immolato al proliferare dell’egoismo e della violenza, che rischia di perdere quanto ha di più caro a causa dei suoi peccati. Violenza che si genera nelle strade di New York cosi come nella notte di Gerusalemme dove un’esplosione deflagra proprio nel momento del taglio dell’agnello Pasquale. Mary è fatto di continue sovrimpressioni dove immagini si mischiano ad altre immagini, e dove la menzogna che queste rappresentano è il contraltare di un mondo controllato e saturo di immagini. La disinformazione globale che accompagna questi anni per Ferrara è il frutto di una corsa sfrenata all’individualismo e all’ossessione del successo a tutti i costi. In un 114 Dalla conferenza stampa di Mary alla 62ª Mostra internazionale del cinema di Venezia, Settembre 2005
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mondo spogliato del senso di comunità, ecco l’importanza (per il regista ma non solo) di riaffermare la necessità della collettività attraverso la messa in scena di Cristo e dei suoi discepoli. Questa per Ferrara è la vera comunione a cui tendere, così anche il cinema non può essere opera di un individuo, ma necessita del gruppo: “Innanzitutto un film non si realizza da soli, ma richiede uno sforzo collettivo, l’apporto di più persone. Per me i film sono come una piramide inversa, si parte con l’idea e si va verso il basso, verso la sua base, il regista rappresenta la punta di questa piramide, quindi l’idea da cui si parte per la realizzazione del film”.115 Ecco perché il regista Tony Childress nel film perde il controllo di se e del suo mondo: egli con la sua arroganza e presunzione (ma in fondo è l’unico realmente sincero) ha creduto di essere l’unico “padrone” del suo film e viene schiacciato dal suo stesso individualismo e dalla sua smania di successo, che non è slegata dalla deriva settaria e del fondamentalismo religioso: “Sono convinto che ci siano idee per le quali possiamo morire, ma non uccidere!”.116 La tesi relativa alla compenetrazione biunivoca tra macrocosmo e microcosmo, in Mary è espressa solo per accenni e mai approfondita, al punto che il discorso del regista appare (stranamente) presuntuoso e poco incisivo. La struttura stessa del film sembra essere un limite per la riuscita dello stesso. Il film è articolato su tre paradigmi programmatici, ognuno dei quali animato da una riflessione di fondo: Marie Palesi e il suo ruolo di Maria Maddalena nel film su Gesù; Theodor Younger e lo show televisivo sulla figura di Cristo; Il regista Tony Childress che si spende in prima persona per promuovere il suo film controverso e provocatorio. Le tre istanze si intrecciano lungo tutta al durata del film assecondate da un montaggio parallelo e progressivo che lentamente le annulla le une nelle altre, mentre al loro interno confluiscono crisi esistenziali, interrogazioni sulla fede, inutili manie di grandezza, tradimenti e sotterfugi. Tutto il film, nonostante i tentativi di nobilitarne i contenuti attraverso la presenza live di teologi, monaci e rabbini, appare costruito sul precario equilibrio che divide la Fede dalla Spiritualità e abbraccia in maniera ambigua sopratutto le istanze New Age veicolate dai Vangeli apocrifi di Tommaso, Filippo e Maria Maddalena. Non a caso una delle sequenze centrali di Mary è occupata dalla spiegazione del contenuto degli apocri115 116
Ibidem Ibidem
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fi da parte della filosofa Elain Pagels e dal suo lungo monologo (intervallato al montaggio di immagini sacre, dipinti, e di repertorio su Hag Hammadi): “Il Vangelo di Tommaso suggerisce che Gesù è generato da Dio ma lo siamo anche noi. Anche noi discendiamo dalla luce divina perché siamo creati ad immagine di Dio. Il Vangelo di Tommaso suggerisce che anche tu puoi diventare figlio di Dio esattamente come Gesù perché dentro hai la luce divina e sei creato ad immagine di Dio. Quindi puoi non aver bisogno della Chiesa, dei preti e anche di Gesù. Puoi fare riferimento a te stesso. Nel suo Vangelo Tommaso fa dire a Gesù: “Se porterai fuori ciò che è dentro di te, ciò che porterai fuori ti salverà. Se non porterai fuori ciò che è dentro di te, ciò che non porterai fuori ti distruggerà”. Questo, dal punto di vista dell’ortodossia è un’eresia”.In Mary, questa è la strada intrapresa sia da Marie Palesi che va a Gerusalemme a cercare se stessa, sia da Ted che prima di abbandonarsi a Cristo, si affida alle parole della attrice al telefono: non a caso la sequenza del monologo è intervallata da immagini che mostrano Marie che “guarda” dentro una croce di pietra e Ted che, assorto, annuisce di fronte al monitor. Due personaggi su tre, ma in modo diverso e più grottesco anche il terzo, aderiscono al modello religioso New Age che contiene nei suoi fondamenti la ricerca del sé nella propria interiorità, fino al momento in cui la propria “divinità interiore” non viene minacciata da agenti esterni che la ri-mettono in discussione. Se visto da questo punto di vista Mary, presenta tre personaggi che sembrano poter fare a meno di Dio, il quale è utilizzato da loro stessi come un sorta di amuleto in grado di preservarli dalla sventura e dall’ansia della vita quotidiana. Non a caso, quando Ted dice a Tony che il suo nome significa “Dono di Dio”, il regista risponde che “avere Dio dalla propria parte non guasta mai”. Ognuno dei tre personaggi, quindi, vive un’esistenza anestetizzata dall’onnipotenza del sé, e non a caso i tre appartengono al mondo dello spettacolo, al punto che il “viaggio” che ognuno di loro intraprende li porta a confrontarsi con la realtà attraverso la violenza. Il riscontro più emblematico di questo aspetto si ha nella scena dello sfondamento del finestrino che costringe Tony e Ted ad uscire fuori dall’abitacolo della vettura perché la realtà, che loro vanamente sfuggono, ha fatto irruzione in essa e, quindi, nella loro vita. Ecco perché non solo il film è chiuso tra le pareti degli interni e degli abitacoli delle vetture, ma presenta anche il mondo dei mass-media come l’unico possibile veicolo della realtà (menzognero, perché ne mostra solo il riflesso per 350
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immagini). Anche lo stile “finto sporco” con cui Ferrara gira il film contribuisce alla pedissequa incanalatura del filone modaiolo di film pseudo-religiosi come The Passion (id., 2005) di Mel Gibson; nonostante Ferrara voglia allontanarsi da questo modello e lo faccia anche attraverso una battuta di Tony nel finale in risposta alla domanda di Ted sul perché abbia fatto un film su Gesù: “perché il film di Mel Gibson ha incassato milioni di dollari”, inopinatamente, con Mary il regista del Bronx realizza il suo film più impersonale e ambiguo. Indipendente dal punto di vista religioso di ognuno è evidente che il film più che su quest’aspetto, concentra la sua attenzione su quello relativo alla perdita dei valori etici dell’uomo, alla mercificazione della morale, all’utilizzo della religione come convenzione dietro a cui nascondere e immergere ideologie e giustificazioni (come quelle delle “guerre sante”) e allo strapotere dei mass-media in grado di plagiare le menti di chi ne usufruisce. Per verificare ciò è necessario vedere il film nell’ottica del “genere” (quello del “film religioso” che mescola diverse traettorie) di appartenenza e addentrarsi nella struttura stratificata della messa in scena che pesca a piene mani all’interno di un vecchio e misconosciuto film di Larry Cohen. God Told Me To (id., 1975), propone tre riflessioni intrecciate (come Mary), annegate in una confezione commerciale da fanta-thriller che comunque non cancella le istanze profonde e critiche sulla società americana veicolate dalla prima parte del film. Una riflessione sul ruolo della spiritualità nella società americana (e non), un’altra sul potere dei mass-media e l’ultima sulla figura di Cristo come giustificazione al Male. Il film di Cohen racconta la vicenda del detective Peter Nicholas (Tony Lo Bianco), cattolico praticante che si vergogna della sua Fede, alla prese con una serie di misteriosi delitti compiuti all’improvviso da gente comune che afferma di aver avuto l’ordine da Dio, “God Told Me To”, appunto. Nel film, vittime e carnefici, sembrano aspettare la venuta di Cristo sulla terra e il secondo Avvento porta con sé la volontà incomprensibile di un Dio che spinge l’uomo ad uccidere il suo prossimo, mentre al domanda centrale del film è: “Che cosa succede se il potere più alto dell’universo non è così benevolo?”. La risposta risiede, come in Mary, nella deriva spiritualista della società americana (che troverà compimento nel Massacro della Guyana del 1978 ad opera del reverendo Jones) che percorsa da fanatismo e modelli comportamentali privi di valori ed etica non riesce più a comunicare e a interagire con gli altri e si chiude, letteralmente, nell’individualismo e nel ricerca di un divino fit351
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tizio e utilitaristico. Il film di Cohen, regista “profondamente” newyorkese come Ferrara è girato con stile documentaristico, quasi tutto per la strada con incursioni prive di permesso, nel traffico e nelle manifestazioni (la parata della polizia per San Patrizio e la festa di San Gennaro in Mulberry St.) della città e si sviluppa come un apologo grottesco e impietoso costruito sulla stessa idea di montaggio progressivo al centro di Mary. Come nel film di Ferrara, anche in God Told Me To uno dei protagonisti, Peter Nicholas ha qualcosa da farsi perdonare (dall’ex-moglie) e come in Mary la richiesta di perdono e riconciliazione coincidono con la soluzione dell’enigma. Nicholas, come Theodor considera la religione come qualcosa da non mostrare agli altri (per andare in chiesa si nasconde dalla sua fidanzata), ma a differenza di Ted, egli non usa la religione e conosce la materia della Fede, nonostante sia afflitto dal senso di colpa per la separazione dalla moglie acuito dall’inizio della serie di omicidi casuali “in nome di Dio” che si verificano in città. Anche in God Told Me To, i mass-media, in questo caso la stampa, diventano la cassa di risonanza degli avvenimenti e tentano ipocritamente e opportunisticamente di legare il microcosmo con il macrocosmo al fine di diffondere il panico e spingere al consumo. Infine, proprio come in Mary, l’adesione alla cultura New Age e ad una spiritualità comoda e fai da te, diventa l’origine di tutti i mali, che a differenza del film di Ferrara non prevede un ravvedimento e una apertura alla speranza, ma solo morte e distruzione. I personaggi del film di Cohen, a differenza di quelli di Mary, sono monolitici e non smettono mai i panni manichei di vittime e carnefici. Nel film di Ferrara, invece, ognuno, a suo modo, tenta di cambiare la propria vita e seppur in modo superficiale e semplicitstico, il regista mostra come questo coincida con il cambio di prospettiva in merito alla presenza o assenza non della religione, ma della Fede. Tony Childress, regista presuntuoso e arrogante che sbatte la porta dello studio televisivo inviperito per la telefonata di Marie Palesi, dicendo: “Che ci faceva lei nel mio show?”, oltre ad essere l’unico sincero nei suoi atteggiamenti discutibili, onestamente non rinuncia al suo narcisismo neanche di fronte al fallimento e si spinge a proiettare il film da solo e a imprecare contro il concetto di Verità utilizzando surrelisticamente il suo film come arma e minacciando tra il tripudio per la coda di due isolati a Philadelphia (comunicata gli per telefono): “Ve la faccio veder io la bomba... Non è quello che vedi con gli occhi, è quello che vedi con il cuore”. Con queste parole Childress riprende un brano della sce352
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neggiatura del suo film recitato da Marie Palesi che nella prima parte di Mary è mostrato nella scena dell’incontro tra Maddalena e i discepoli, in cui la donna dice: “Io gli dissi: “Signore, quando qualcuno ti incontra in una visione, ti vede attraverso l’anima o lo spirito?”. Egli mi disse:”Non è né l’anima, né lo spirito. È la mente che vede la visione”. Il film è una visione, e nell’idea del regista “onnipotente” il cuore si deve sostituire alla mente per comprendere il significato della visione e dunque per abbracciare l’emozione. Theodor, invece, nonostante dall’inizio alla fine del film indossi l’elegante e trendy completo blu, solo apparentemente sveste i panni di colui che utilizza la religione per fini commerciali e egoistici, perché in realtà il suo pentimento è talmente melenso e la sua contrizione falsamente sofferente che egli non fa che diventare “buono” e buonista e mercanteggiare il “successo” con Dio (che salva la moglie il figlio) con una redenzione che è solo di facciata (l’abito è sempre lo stesso). Infine è interessante vedere come anche il viaggio ascetico di Marie Palesi, altro non sia che l’esemplificazione sterile e puerile di una crisi i di mezza età, in cui lei continua ad essere la star dello show televisivo, la dispensatrice di consigli in quanto “modello”, la pellegrina che visita i monumenti di Gerusalemme come una turista qualunque e che indossa i panni della recita (il vestito ricorda quello che ha nel film quando recita la Maddalena). L’esito di queste pretestuose trasformazioni, utilizzate da regista per assecondare le mode del momento e per non scendere sul terreno scivoloso della Morale Cristiana, stridono con la volontà del film di essere il racconto di una conversione, di un cambiamento animato da una verità cristologica. Mary, nonostante gli sforzi, non trova mai quel “senso del sacro” pasoliniano a cui Ferrara dice di essersi ispirato. Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini racconta la vicenda di Cristo, come qualcosa di incontrovertibile, qualcosa che è già nella natura sacra della sua venuta sulla terra. La figura di Cristo, così semplice e così immediata, traduce al meglio, nell’ottica del film di Pasolini, il senso mistificatorio del devozionismo e della spiritualità (New Age e non) e afferma senza possibilità di replica la rappresentazione evangelica della mitezza e della redenzione dell’uomo dal Male che animano il Cristo evangelico. Nel confronto con Pasolini, Ferrara non solo è perdente per manifesta inferiorità ma anche, e soprattutto, per l’incapacità di comprendere la vera natura nel sacro (cosa che gli riesce pienamente invece nei film sceneggiati da St. John) che, ovviamente, non è sufficiente ricercare né tra i Sassi di Matera, 353
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nè nello gnosticismo, né nei primi piani degli attori, né in posticce redenzioni quasi fuori tempo massimo. Se il primo piano in Pasolini non ha nulla di esteticamente (secondo i canoni convenzionali) attraente ma serve al regista per cancellare la retorica della rappresentazione religiosa, in Ferrara rimane pura estetica della bellezza e non trasmette mai vera emozione. Così, è anche per la “trasformazione “ di Marie Palesi che non raggiunge mai il senso profondo dell’ascesi ma si ferma all’accettazione, da parte della donna, di una crisi mistica. La Madonna del controverso Je vous salue Marie (id., 1984) di Jean-Luc Godard, nella sua nudità, non solo non ha nulla di erotico ma è, paradossalmente, profondamente sincera nell’assunzione del sacro dentro di sé, e la sua “trasformazione” in vergine dell’immacolata concezione risulta non una semplice rinuncia alla sessualità (che la donna tenterà di riconquistare nel finale del film), bensì la comprensione del “senso sacro” del concepimento del figlio di Dio. Non a caso si interroga su corpo e anima, come dal ginecologo, quando chiede: “È vero che l’anima ha un corpo?” e questi, sorpreso e convenzionale, le replica: “Che idea! Il corpo ha un’anima...”. Godard guarda Maria, la osserva, la studia e la ammira con una tale forza e un tale impeto che non ammettono ambiguità, come dimostra l’immersione di tutta la vicenda che si svolge “En ce temps la” (come ricorda il cartello nero che percorre a intervalli regolari tutto il film), nella bellezza del creato, in cui le immagini “sacre” della natura si confondono e si amalgamano con la bellezza “sacra” della venuta di Cristo. Anche un altro dei modelli ispiratori, The Last Temptation of Christ (L’ultima tentazione di Cristo, 1988), più volte richiamato da Ferrara in merito a Mary, appare poco convincente se messo in relazione con il risultato del film. Quella di Scorsese ricamata sul testo di Nikos Katzanzakis e sceneggiata da Paul Schrader è chiaramente una allegoria (come evoca già il cartello iniziale che apre il film con la citazione dello scrittore) in cui il regista italo-americano riversa tutti i suoi dubbi e le sue domande in merito alla religione di appartenenza. Il suo discorso è sincero, animato dalla visionarietà dell’assunto, mai pretestuoso e incentrato sull’ “umanizzazione” della figura di Cristo e sulla proiezione del conflitto interiore, sulla sua natura, che lacera il messia. La Maddalena nel film è dichiaratamente la rappresentazione di qualcosa di “altro” una tentatrice, ma anche una “sorellaamante” per Cristo e diventa la sintesi di ogni forma di tentazione possibile per l’uomo (moderno e non). In fondo è Paolo di Tarso, nel finale a scopri354
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re le carte nel film di Scorsese, quando afferma, in sintesi, che non è la Storia che fa la Fede, ma è la Fede che fa la Storia. Sintesi, di cui Ferrrara si ricorda e che traduce in Mary nella telefonata tra Ted e la madre, in cui questa gli dichiara: “Io ho già tutto quello che mi serve di sapere. Non importa quante volte racconti la storia, non importa se la cambi tutta, comunque Dio parla d’amore”. Scorsese privilegia in The Last Temptation of Christ il dilemma morale che abita in Cristo, la sofferenza costituita dalla “pesantezza” del ruolo, il senso di inadeguatezza allo stesso emerso in punto di morte, mentre Ferrara rinuncia ad approfondire questi temi e sceglie la via facile dell’estetica della redenzione e del glamour religioso. In fondo, il regista ripercorre le orme di uno dei suoi maestri del passato, Nicholas Ray che con l’irrisolto King of the Kings, (Il Re dei Re, 1961), perde per strada i temi della sua poetica come il conflitto padre-figlio, il senso del destino e l’ineluttabilità della presenza del passato nel presente, per assecondare un’estetica della bellezza del quadro e per rincorrere la polemica “politica” incarnata dal ribelle e ambiguo Barabba, e segue la lettura dei Vangeli per tracciare un affresco storico magniloquente ma freddo, troppo vistosamente preponderandte rispetto alla figura di Cristo ridotto a semplice e umile profeta. Il ritratto anticonformista della figura di Cristo, nel film di Ray non è solo debole per l’interpretazione scialba di Jeffrey Hunter, ma risulta secondario rispetto alla complessità della messa in scena. Se la scelta appare pertinente dal punto di vista laico del regista e meritoria dal punto di vista critico nei confronti dell’oleogafia cristiana di Hollywood, essa ridimensiona le potenzialità di una profonda riflessione sul “senso del sacro” all’interno della vita, morte e resurrezione del Cristo, rendendo King of The Kings solo un grande kolossal storico-ollywoodiano, percorso da (pochi) momenti realmente efficaci ed empatici. Girato come un western con le battaglie e i duelli tra romani e ribelli, e come un melodramma ad alto tasso di morbosità nel rapporto incestuoso di Erode Antipa, nella prima parte, King of the Kings, nella seconda parte annulla tanto il ruolo dei discepoli quanto quello di Pietro e fa emergere il contrasto ideologico che anima Giuda diviso tra Gesù e Barabba. Nel film Cristo diventa figura marginale per lasciare posto alla descrizione “fascista” della occupazione romana, mostrata con tanto di scenografie magniloquenti, simboli retorici come l’effige di Tiberio, e a Barabba, visto come un guerrigliero non più semplice ladrone ma patriota anti-romano, ammiratore dei Giovanni Battista. Iinfine, la Passione (fredda 355
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e senza senso del dolore) e la Resurrezione (sbrigativa e oleografica) sono risolte in pochi minuti a paragone dell’attenzione riservata al contesto storico, mentre tutto, il film è pervaso dalla voce narrante di Orson Welles (Gino Cervi in Italia) che appesantisce con un tono pontificante e invadente tutto il racconto evangelico. Ray, quindi, per motivi diversi, anche indipendenti dalla sua volontà visto che il film viene rimontato dalla MGM, e in maniera sicuramente inferiore rispetto a Ferrara “sbaglia” il film, ma nonostante tutto mantiene un fondo di sincerità e di onestà intellettuale che invece mancano a Mary. Il regista di New York, infatti, dimostra non solo di essere abile nel non mostrare di cavalcare le mode per poi, invece, abbracciarle pienamente, ma si abbandona anche a facili metafore visive, come il pertugio da cui esce Marie Palesi a Matera, che nella forma ricorda la vagina e che vorrebbe quindi rappresentare il passaggio ad una nuova vita da parte dell’attrice, la macchina di Tony Childress che dai Sassi, luogo cinematografico “sacro” e morale arretra verso New York nel mondo del peccato e della dissoluzione, e il tunnel, vero leit-motive di tutto il film che rappresenta banalmente tanto il tradimento, quanto la perdita della morale e della Fede. Non è quindi solo sugli aspetti religiosi che scivola Ferrara (questi in fondo sono aperti ad ogni tipo di lettura a seconda delle credenze di ognuno), ma è su quello cinematografico, e quindi a lui più congeniale, che il cineasta sbanda paurosamente, come dimostra anche la sterile parodia (elemento da sempre caustico e incisivo nel suo cinema) del mondo della televisione, riassumibile nella battuta rivolta da Tony a Ted a proposito dell’importanza della televisione: “Non sputi sulla televisione, passa tutto da li. Il mio agente mi sta proponendo per uno show proprio adesso”. Anche il rimprovero di Ted al regista quando questi è ospite del suo show, in merito a cosa voglia dire portare la croce appare telefonato e prevedibile. Quando Tony afferma: “La vicenda di Gesù è attuale come lo era duemila anni fa. Quando Cristo è sulla croce, tu sei sulla croce, io sono sulla croce, l’intera società è sulla croce”, Ted replica piccato: “Tu sei stato inchiodato alla croce Tony?”. In conclusione Mary si presenta come opera diseguale, vero esempio di empasse creativa e ideologica (a differenza del successivo Go Go Tales, che nel suo essere volutamente freak è invece pienamente ferrariano), che trasuda un senso di inautenticità finora sconosciuto al cinema di Abel Ferrara e che presenta una disomogeneità mai vista tra significato e significante.
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Mary – Recensione Operazione irrisolta e fintamente religiosa che annega in un mare di ipocrisia le buone intenzioni iniziali e che finisce per abbracciare un problematico devozionismo di maniera dimenticando per strada la profondità dell’etica e del senso del sacro. Le ordinarie, seppur puntuali, interpretazioni degli attori del cast non riescono a cancellare il senso di inadeguatezza del opera in relazione alle proprie ambizioni. Ferrara perde il controllo sul suo cinema nel momento (non a caso) in cui ri-affronta il sacro senza la guida e la profondità di Nicholas St. John (che lo sceneggiatore, nell’abbandonarlo, abbia avvertito il cambiamento del regista?) e rischia di diventare la maniera di se stesso. Mary è un film “alla Ferrara” e non “di Ferrara”, un film in cui l’estetica prevale sul contenuto e in cui l’ambiguità si sostituisce alla radicalità. Un film abbagliante ( e infatti premiato e osannato quasi ovunque) che rifulge di luce riflessa e che è l’immagine di se stesso. Come This is My Blood, il film nel film, Mary, ammicca, provoca in maniera elementare (la vocazione di Marie, la vicenda della mogli e del bambino, il merchandising religioso, il potere dei media), ma non emoziona mai, non cattura mai lo spirito ma solo gli occhi. Ferrara sembra pensare di vincere facile utilizzando il sacro nello stesso modo in cui lo usano i personaggi del film, visto che da tempo gli è stata appiccicata l’etichetta (sbagliata) di regista in conflitto tra religione e ragione. Il suo discorso sulla Fede è confuso, superficiale, nemmeno provocatorio alla Godard, Scorsese o Pasolini, ma semplicemente, involontariamente parodistico. La dimensione spaziale è connaturata alle dimensioni (anche di durata del film) in cui tutto appare troppo compresso, confuso, buttato li quasi a caso (e qui emergono, forse, le traversie produttive), ricalcato su dinamiche ritrite del suo cinema quali quelle di “scelta, peccato e redenzione”, ma senza la vera sofferenza della remissione dei peccati mostrata, ad esempio, in Bad Lieutenant da risultare imbarazzante per un regista che è sempre riuscito a dare il meglio di sè nelle difficoltà.
Mary – Sondaggi critici Ferrara, cattolico, risponde al fondamentalismo occidentale con la spiritualità immanente, la scoperta del “dialogo con Dio” a distanza ravvicinata di un al di qua quotidiano. Nelle prime immagini del film, una luce accecante svela la 357
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stretta inquadratura di uno sguardo, Cristo non è ancora salito in cielo, è qui, uomo: E l’altra parte di sé ha lo sguardo di Juliette Binoche, la Maria Maddalena del film nel film, che invece di tornare a New York con il regista decide di partire per Gerusalemme colpita da crisi mistica. Donna, e quindi espulsa dai discepoli nella lotta per la successione, Maria Maddalena è l’ambasciatrice di una religiosità più “democratica”, che può salvare persino un adultero. Il giornalista afro-americano disperato per le conseguenze dell’amor profano, si appella a Mary, contattata per il programma, e lei gli trasmette, via telefono, il virus della Fede. Il giornalista prega in un lungo monologo infervorato. Un appello ad un Gesù comprensivo e pronto al perdono. Il cattolico Abel Ferrara narra per ellissi, incolla frammenti di pensieri, silenzi e suppliche di un non credente convinto ormai che la “luce divina è in ognuno di noi”. Cinema benedetto di un regista “maledetto”. MARIUCCIA CIOTTA, IL MANIFESTO, 18 NOVEMBRE 2005 Tra il “Codice da Vinci” e “la Passione” di Mel Gibson, c’è un terzo incomodo: il “Vangelo secondo Abel Ferrara”. Mary, il film italiano del regista newyorkese che ormai vive a Roma all’ombra del Vaticano, è un ulteriore capitolo dell’accidentato percorso “mistico” di un cineasta che amiamo soprattutto per un suo film purtroppo piuttosto misconosciuto, The Addiction. Ferrara, che ormai è un autore nel bene e nel male, un po’ si ripete. E così, con i soldi di imprenditori italiani fa un film nel film come era per esempio Snake Eyes, fa un film sul pentimento e la redenzione come era Bad Lieutenant, fa un film sulla sottrazione delle immagini e sulla visione annebbiata come era New Rose Hotel. Sembra, però, scoprire e questa è forse la novità meno gradita ai suoi fan, un brandello di fede a tratti, quasi disdascalizzata. Come nella preghiera in ospedale di Forest Whitaker. Ferrara rilegge a modo suo uno dei temi culturali del momento, il ruolo e la figura di Maria Maddalena, che molti ritengono il tredicesimo apostolo e forse colei che più di ogni altro poteva ereditare il messaggio di Cristo, addirittura la sua sposa. Il film ha certamente una connotazione politica perché Gesù era un rivoluzionario, perché l’ultima cena è stata un gesto politico, perché Gerusalemme era in guerra contro i Romani all’epoca di Cristo ed è oggi insanguinata dalla violenza che mostra attraverso le immagini di repertorio. (…). CRISTIANA PATERNÒ, VIVICINEMA, NOVEMBRE 2005 Genere rivisitato in concorso: il film religioso. In Mary di Abel Ferrara si discute di Maria Maddalena: forse non è vero che fosse una prostituta pentita, era 358
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invece una sororale discepola di Gesù, così come la Madonna era la materna prima discepola. Si sa che Abel Ferrara ha avuto una educazione cattolica però Mary è assai più pacifico e osservante di altri suoi film in cui la religione era presente come dubbio e inquietudine. Si vede anche che il breve film è colmo di zeppe (piani e piani di paesaggio notturno in cui New York splendente di luci appare come una città-fantasma, semioscurità a risparmio in grotte e luoghi sante). Si constata che il film non è ben strutturato e che a volte sembra persino poco significativo: ma che resta comunque, interessante e impressionante come Ferrara merita. LIETTA TORNABUONI, LA STAMPA, 7 SETTEMBRE 2005 Forse la prima conseguenza é quella della scelta del cinema nel cinema: un regista/attore che si muove tra ispirazione sincera e sensazione che, dopo Mel Gibson, parlare di Gesù garantisca buoni incassi; un’attrice che non vuole uscire dal ruolo e sovrappone finzione e realtà. Parla di tante cose, Ferrara: il cinema (il “suo” fare cinema), la televisione, i mass-media tra menzogna e verità possibile, l’incontro/scontro culturale, il terrorismo. Parla in modo concitato, spezzato, quasi ansimante. Ma le sue sono le parole (le immagini) di chi non rinuncia a mettere le pagine del Vangelo alla prova del Terzo Millennio, all’esame della vita quotidiana, delle scelte morali da compiere, della sofferenza che va spesa per dare la vita agli altri, anche a costo di sacrificare la propria. Dove comincia un cammino verso la ricerca delle mozioni dello Spirito e della tentazione di Credere, il “provocatore” Ferrara é lì. Confuso, disordinato, insofferente, talvolta eccessivo. Ma testimone dell’esserci. Ed é ciò che conta. Premiato dalla giuria del SIGNIS alla mostra di Venezia 2005, il film, dal punto di vista pastorale, é da valutare come accettabile, problematico e molto adatto per dibattiti. COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
Go go tales (2007) Un uomo è assorto nel sonno. È Ray Ruby (Willem Dafoe) il gestore del locale Ray Ruby’s Paradise. Un club go-go dove si esibiscono le spogliarelliste dell’agenzia Ray of Hope, come annunciato dallo speaker-D.J. (Frank De Curtis). Ray e Jay (Roy Dotrice) sono incalliti giocatori, e mentre, nel locale, le ragaz359
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ze si esibiscono sul palco, loro coltivano sogni milionari. Mentre i due sono chiusi nell’ufficio di Ray, il locale è organizzato e gestito da “il Barone” (Bob Hoskins) e Luigi (Frankie Cee). I clienti si susseguono e le ragazze pretendono di essere pagate. Una sera, al Pardise, arriva Lilian (Sylvia Myles), la proprietaria dei muri del locale, per rivendicare quattro mesi di affitto arretrato, minacciando, se non verrà saldato il debito, di vendere il locale ad una catena di supermercati.Nel frattempo la tranquillità del locale è turbata dall’arrivo di Monroe (Asia Argento), una lap-dancere che si esibisce sul palco con un grosso rotweiller. Monroe litiga con lo chef il quale non vuole che il cane stia vicino alla cucina.Ray e Jay scoprono di aver vinto al lotto diciotto milioni di dollari, ma non riescono a trovare il biglietto vincente. Johnie (Matthew Modine), il fratello di Ray, è un famoso ed eccentrico parrucchiere, ed è anche socio d’affari di Ray: gli comunica che vuole chiudere il Paradise, perché è un’impresa improduttiva. Nella cucina, Monroe e Johnie si abbandonano ad un sensuale amplesso. Nel frattempo le ragazze sono sempre più nervose per i mancati pagamenti e cominciano a litigare tra di loro. Adrian (Bianca Balti) e Dolly (Shanyn Leigh) si recano nell’ufficio di Ray e gli comunicano che Adrian è incinta e non può più ballare. Ray tergiversa e invita la ragazza a continuare il suo lavoro facendo attenzione, e a consultare un altro ginecologo. Nel frattempo nel locale giunge Danny Cash (Joseph Cortese) un affarista di rilievo, accompagnato da tre medici, tra cui il Dott Steven (Riccardo Scamarcio) che ha una violenta crisi di gelosia quando vede esibirsi sul palco la moglie Paola/Adrian. Una delle ragazze, l’intraprendente Debbie (Stefania Rocca) si chiude in un privè con il produttore Stanley (Andy Luotto) per vendergli, in cambio di una sua esibizione sexy, la sceneggiatura scritta da lei. Il giovedì sera il Paradise cambia volto e le ragazze si esibiscono sul palco, non come strippers, ma per mettere in mostra il loro talento: chi fa la prestigiatrice, che la ballerina classica, chi il mimo e chi è una sofisticata pianista. Ray e Jay, sempre più disperati per non trovare il biglietto vincente, attendono nel loro ufficio l’arrivo delle ragazze pronte a battere cassa. Di fronte a Sugar (Justine Mattera), Electra (Sabina Began), Ally (Chiara Picchi), Tanya (Julia Mayarchuck), e tutte le altre, Ray confesssa loro la verità, e casualmente, durante il monologo finale, ritrova il biglietto vincente nella tasca interna della sua “giacca fortunata”. Ben presto la dura realtà delle vincite alla lotteria si presenta di fronte ai suoi occhi. Non resta altro che ricominciare a giocare...
Go Go Tales è l’ultimo film di fiction, prima di un periodo di quattro anni in cui il regista realizza solo documentari. Il film, scritto e diretto da Abel 360
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Ferrara, è prodotto dalla Bellatrix Media di Massimo Gatti e dalla De Nigris Productions, in coproduzione con l’americana Go Go Tales Inc. Il film, viene girato interamente a Roma negli Studi di Cinecittà, dove viene ricostruita una strada di New York, ed è ambientato in un “go go” cabaret a Downtown Manhattan: il club “Paradise”, una fabbrica di sogni per giovani ballerine in cerca di fortuna. In origine il film avrebbe dovuto essere girato a New York, dove Ferrara affitta un appartamento su tre piani in Woooster Street per costruire il set del film; i soldi sono molti di meno e quei pochi richiesti alla fine scarseggiano pure, al punto che l’affitto dell’immobile non viene più pagato, il set sfrattato e i finanziatori abbandonano il progetto. Il cast originario sulla carta è composto da Harvey Keitel, Drea DeMatteo, Eva Herzigova e Robert Carlyle. Il film di Ferrara negli Stati Uniti non vede la luce e viene dunque realizzato in Italia. Nel Dicembre 2003, Abel Ferrara è ospite del Roma Film Fest dove parla del suo nuovo progetto e della sua permanenza in Italia: “Più facciamo film, più difficoltà incontriamo nel trovare le persone e i posti dove girare i film che abbiamo in mente. Questo viaggio ci ha portato da questo giovane produttore, Andrea De Liberato, che ci stava cercando mentre noi cercavamo un tipo come lui. Hollywood per noi a questo punto non è più un’alternativa possibile. Ci sono tanti posti dove fare cinema, ma il mio sangue e il mio cuore mi portano qui in Italia, perché in fondo le mie origini sono italiane”.117 Dunque Ferrara “ritorna a casa” per poter fare cinema e parla dell’Italia come di un posto magico che soprattutto negli anni settanta ha dimostrato con il suo cinema di saper lavorare nei teatri di posa creando ambienti incredibilmente realistici e veritieri. Cita a memoria non solo Fellini ma anche film dimenticati come Copkiller (id. 1983) di Roberto Faenza, dimostrando di conoscere e apprezzare il nostro cinema “nascosto”. Ferrara compone il cast per Go Go Tales e nel 2004 inizia a girare negli studi di Cinecittà, poi d’improvviso sparisce nel nulla, abbandona il film e non si rende più reperibile. Il 7 gennaio 2005 viene citato in giudizio, per inadempienze contrattuali dall’Istituto Luce. Nell’atto di citazione si spiega che: “in un periodo compreso tra il 13 dicembre 2004 e il gennaio 2005, si sottraeva a qualsiasi possibilità di contatto.” La vertenza legale, viene risolta dopo l’uscita (e il successo) di Mary e la produzione di Go Go Tales ha un nuovo inizio subito dopo. Come sem117
Chiara Ugolini, Intervista ad Abel Ferrara, Katawebcinema, internet, citaz.
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pre per il regista si tratta di un vero e proprio work in progress in cui la sceneggiatura serve solo da canovaccio, e la recitazione è spesso frutto di intuizioni momentanee o di momenti di “folle” improvvisazione. Bianca Balti durante le riprese è veramente incinta e il suo personaggio viene modulato seguendo la sua condizione che presenta realmente una gravidanza a rischio. I movimenti delle ballerine vengono curati dal coreografo Toni Colandrea, ma molte ragazze sono lasciate libere di improvvisare e di proporre movimenti e pose talvolta sgraziate, come nel caso di Asia Argento e il “famoso” bacio al rotweiller (buono solo a produrre l’ennesima e inutile polemica festivaliera) che garantisce al film la dovuta pubblicità. Go Go Tales vanta un cast tecnico quasi tutto italiano a cominciare dal direttore della fotografia Fabio Cianchetti e proseguendo con la costumista Gemma Mascagni e il montatore Fabio Nunziata, finendo con le musiche di Francis Kuipers, mentre il produttore associato è Frank De Curtis che, anche in veste di scenografo, ha ricostruito negli studi di Cinecittà il nightclub newyorkese su tre piani. Nelle intenzioni di Ferrara Go Go Tales è una screwball-comedy, sullo stile di quelle di Frank Capra e Billy Wilder, in cui fatti tragici assumono toni rosa e spensierati e dove la realtà viene spesso osservata con occhi sognanti, mentre le regole sono sovvertite con spensieratezza e ironia. L’origine del film e l’idea di partenza sono raccontati dallo stesso regista: “Questo film viene da lontano, ma non da così lontano... Quando 11 e 9 per gli americani erano ancora due numeri che potevano starsene isolati io vivevo a New York, in prossimità di una caserma dei pompieri: era all’incrocio tra la Diciottesima e Broadway, nei pressi della libreria Barnes and Nobels e del negozio di articoli sportivi Paragon, vicinissimo all’atelier di Andy Warhol. Lì c’era anche il bar feticcio mio e dei miei amici, una ex-chiesa gotica trasformata in un locale rock: si chiamava The Limelight ed era gestito da una banda di gangster modaioli e molto trendy, il cui santo patrono si chiamava Nick D. A quell’epoca l’intero quartiere era un paradiso, pieno zeppo di club di striptease: cambiavano continuamente nome, ma i gestori rimanevano gli stessi. Uomini sempre vestiti in smoking, come se il loro fosse un mondo a parte: tra le regole, che vigevano solo lì, c’era quella secondo cui chi entrava poteva farlo solo se dotato di carta di credito, per pagare lo spettacolo di lap dance. Più pagavi più le ragazze si spogliavano. Era un’altra fabbrica dei sogni. Ma gli attori non erano solo le ragazze, perché in realtà, ai miei occhi, i veri protagonisti erano i clienti. (…) Mi piaceva dare questa sensazione di altrove, una specie di favola...(...) New York era bellissima all’epoca, ma 362
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anche molto cattiva, per via del crack e degli omicidi legati alla droga. L’11 settembre è stato la fine di tutto, per me è lo spartiacque tra il prima e il dopo: all’epoca non avrei mai immaginato che tutto potesse cambiare in modo così totale e che quella fosse una golden age che poi avrei rimpianto... Ruby ha in mente i club di Copacabana: è un sognatore e il suo night è il suo paradiso, ci crede fino alla fine, spera di salvarlo fino all’ultimo. (…) Non vorrei fare il suo lavoro, vestito con lo smoking bianco e cantare circondato da ragazze seminude. So però che è un lavoro duro, che qualcuno deve pur fare”.118
A differenza di Mary, con Go Go Tales, Abel Ferrara torna ad essere pienamente padrone del suo cinema, e dirige un film solo apparentemente frivolo e superficiale, che, seppur sgangherato e improvvisato, riesce ad essere molto più incisivo (e persino critico) del precedente nei confronti di un mondo che non gli appartiene più, ad anticipare temi economici sociali di urgenza imminente, a riappropriarsi e a rileggere i codici del cinema di John Cassavetes, oltre a proporre una riflessione tutt’altro che banale sul suo mestiere di regista. Ma il film, per il regista è importante anche per altri motivi, perché Go Go Tales, permette a Ferrara di ritrovare visibilità (quella delle conferenze stampa) nel momento in cui è in corso la battaglia tra lui e Werner Herzog per la realizzazione di una nuova versione della vicenda di Bad Lieutenant, e di esprimere tutto il suo disprezzo e la sua rabbia verso una operazione che non condivide e che ritiene irriguardosa nei suoi confronti: “Se non riesci a tirare fuori delle idee originali per farti un film,lascia perdere il jio. Non hanno le palle neanche per avvicinarsi a quel film”.119 Go Go Tales è il secondo film realizzato in Italia e la permanenza del regista nella penisola, prevede, inoltre, una serie di nuove opportunità lavorative e la possibilità di realizzare alcuni progetti, destinati però, a rimanere (fino ad ora) solo su carta, come quello relativo al film Pericle il nero, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Ferrandino, in cui Pericle è un criminale di mezza tacca incapace di umanità, che diventa uomo e acquisisce consapevolezza di sé attraverso il rifiuto delle regole del suo mondo e l’incontro con una strana donna; una trama perfettamente nelle corde del regista: 118 Alessandra Matella (a cura di), Paradiso a pagamento – Intervista ad Abel Ferrara, Duellanti n°44, Luglio-Agosto 2008, pag 9 119 Conferenza stampa di Go Go Tales al cinema Adriano di Roma, 20 giugno 2008
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“Scamarcio ha avuto un problema con la famiglia, quindi è dovuto andare via: adesso vediamo, perché ovviamente il progetto è con lui; speriamo non si tratti di nulla di importante e che quindi possa consentirci di andare avanti. ?Io sono cresciuto con Nicholas St. John, uno scrittore che è stato, in un certo senso, la fonte della mia originalità: lui, però, non ha più interesse nel lavorare nel cinema. E poi Zoë che, invece, ha scritto Bad Lieutenant e che, purtroppo, non c’è più, il che mi fa sentire doppiamente incazzato. Dopodiché a quel punto abbiamo in un certo senso deciso di rivolgerci ai libri e ai romanzi. Questo libro di Ferrandino per me è un progetto bellissimo: però credo che sia tutt’altro che facile realizzarlo e secondo me non lo si può estrapolare, non lo si può estraniare da quella che è la sua lingua originale, quindi sicuramente dovrà essere girato a Napoli. Adesso poi vediamo quando torna Riccardo, andremo per televisione: dobbiamo cercare di mettere su i quattrini e lo faremo pensando che ogni euro conta. Io scherzando ho detto che potremmo cominciare da qua, ma coi giornalisti è un po’ dura...”120
Go Go Tales, è un film tutto di interni, chiuso, avvitato su se stesso, e costruito sulla forma perfetta del cerchio, dalla rotondità dei pali da lap dance, ai movimenti circolari delle ballerine e a quelli di macchina con cui viene mostrata la “vita” all’interno del club di Ray. L’esterno dunque, è solo una propaggine, un luogo ricoperto dai ponteggi di un cantiere, una scala che dà l’accesso agli avventori del locale, una serranda abbassata dietro a cui clandestinamente si gioca al lotto anche di notte, qualcosa che viene marginalmente ripreso dalle videocamere di sorveglianza che ne rimandano immagine sgranata, o al massimo lo show della lotteria mostrato dal piccolo schermo. Persino la concorrenza di Mr Crab e della relativa pubblicità offerta ai giapponesi dall’uomo granchio, altro non è. e non appare. che come un riflesso luminoso sui vetri del pullmann che si allontana dall’ingresso del Paradise. Il club di Ray è dunque un acquario (che ha il suo doppio in quello con i pesci che campeggia dietro al bancone del bar), in cui in modo ovattato, indistinto e isolato dal mondo si agita (nel vero senso della parola) un’umanità che sembra vivere fuori dal mondo. Ed ecco dunque il richiamo al noir e alla dimensione onirica. Ray ha spesso gli occhi chiusi, dorme nel suo ufficio con una benda sugli occhi, parla quasi esclusivamente di sogni (il club, le donne, la lotteria...) e agisce in funzione di essi. Abel Ferrara non spiega, rimane sospeso nella trattazione di questo sogno/incubo venato di nostalgia e malinconia, 120 ibidem
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al punto che tutto il film sembra essere solo uno sbiadito ricordo della sua memoria che riaffiora alla vista grazie alla magia del cinema e si riprende i colori sgargianti, la bonaria cialtroneria dei personaggi, la sgangherata vitalità dell’ambiente, e la colorata umanità che popola il club. Ferrara gira seguendo l’estetica del musical, riprende con ampi e sinuosi movimenti di macchina numeri delle strippers, ammicca ai loro corpi seducenti ricoperti di brillantini e mostra la platea dei clienti come tanti sonnanbuli in cerca del sogno erotico: emblematico l’utilizzo delle banconote finte (surrogato di quelle vere che scarseggiano) acquistabili all’ingresso del locale, infilate nelle mutandine o nel reggiseno delle ragazze. Il lunghi piani sequenza radenti al palco, apparentemente descrivono ciò che succede nel locale, in realtà deformano dal basso e conferiscono al film un tocco perturbante che trova conferma nel ribaltamento che sottilmente il regista opera su alcune istanze narrative. L’aspetto economico è rilevante all’interno del film, e ancora sui titoli di testa, viene mostrato il grande uso di carta di credito fatto dai clienti che la utilizzano persino per acquistare i gadget del locale. I soldi, la loro assenza, la mancanza cronica di denaro che sfocia nella frustrazione e nella crisi (sin dai tempi di The Driller Killer, con esiti ben più tragici), non sono un elemento trattato con leggerezza all’interno di Go Go Tales. Nell’unità di luogo del locale, quindi in uno spazio duttile e immobile allo stesso tempo, capace di cambiare faccia per accogliere un altro tipo di clientela il giovedì sera ma al contempo capace di rimanere sempre uguale a se stesso per rinnovare nel cliente il desiderio di ri-vedere e ri-vivere all’infinito il suo sogno, il denaro sembra essere l’unico elemento in grado di intaccare la serenità spensierata e incosciente che aleggia nel club: fa litigare le ragazze tra loro, fa bestemmiare la padrona che rivendica la pigione arretrata, fa infuriare Ray che rimprovera a Jay di non trovare il biglietto vincente, fa incattivire Johnie che con disprezzo rinfaccia al personale che gestisce il Paradise la loro cronica incapacità commerciale. Non sono queste istanze elementi casuali, visto che lungo il film il regista distribuisce elementi (dalle carte di credito, al mancato pagamento dell’immobile, al continuo parlare del bisogno di soldi da parte di tutti...) ma sono pienamente coerenti con quelli che saranno al centro della crisi economica del 2008; Go Go Tales, sembra infatti, anticipazione, forse involontaria, dei temi della stessa crisi che dì li a qualche mese avrebbe investito gli Stati Uniti prima e il mondo intero poi. La crisi economica del 2008 originatasi negli Stati Uniti con la crisi dei subpri365
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me, ha investito in breve tempo in tutto il mondo. Gli Stati Uniti dall’estate precedente sono entrati in una grave crisi creditizia e ipotecaria che si è sviluppata a seguito sia della forte bolla speculativa immobiliare (la vicenda dei mutui subprime a tasso variabile), che di un uso indiscriminato della carta di credito unito all’abbassamento del valore del dollaro rispetto all’euro e ad altre valute. Nell’agosto 2007 la Lehman Brothers Holdings Inc., una società attiva nei servizi finanziari a livello globale, fondata nel 1850 ha chiuso la sua banca dedicata ai prestiti subprime, BNC Mortgage, eliminando 1.200 posti di lavoro in 23 sedi. A settembre 2008, i problemi si sono aggravati con la bancarotta di diverse società legate al credito ed alla finanza immobiliare e a New York, il 15 settembre 2008, poco prima dell’una del mattino, Lehman Brothers Holdings ha annunciato l’intenzione di avvalersi della protezione (cioè il Chapter 11, una parte della legge fallimentare americana che permette alle imprese che lo utilizzano una ristrutturazione a seguito di un grave dissesto finanziario) in caso di bancarotta. Le azioni Lehman Brothers sono crollate dell’80% nella fase di pre-apertura alla Borsa di New York e Il 15 settembre 2008 l’indice Dow Jones ha chiuso in ribasso di 500 punti, realizzando la più grande caduta da quella che era seguita agli attacchi dell’11 settembre 2001. Il fallimento di Lehman è il più grande nella storia delle bancarotte mondiali, ed è stata la scintilla da cui ha preso il via la crisi economica mondiale che dura ancora oggi. Il Ray Ruby’s Paradise è sull’orlo della bancarotta e del fallimento, la chiusura è imminente ed è già stata decretata da uno dei soci dalla sera alla mattina, la padrona dei muri vuole vendere il tutto ad una catena di supermercati che le garantisce l’affitto per novantanove anni, e le “impiegate” rivendicano la loro liquidazione. Ecco dunque che il microcosmo di Go Go Tales, è perfettamente coerente con il macrocosmo di Lehman Brothers, ed apre la lettura agli altri aspetti oscuri che venano la pellicola di Ferrara. Ray e Jay, vivono in uno spazio oscuro, illuminato di un freddo blu acciaio: l’ufficio di Ray è una sorta di caverna-rifugio, in cui è ancora possibile sognare rimanendo lontani dal mondo reale. È un non-luogo, in cui la vita si succede senza soluzione di continuità, in cui non è possibile distinguere il giorno dalla notte, in cui gli schermi e i monitor rimandano le immagini “sporche” di ciò che succede nel locale, di chi vi entra e chi vi esce e attraverso i quali, il titolare/regista del locale, esercita il controllo su ciò che avviene sul suo set. Il tema del controllo, è esiziale all’interno di Go Go Tales, perché è attraverso di esso che Ray può condurre un vita onirica nel366
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l’inesausta speranza della vincita al lotto. Quando qualcuno cerca di riportarlo alla realtà egli lo avvista attraverso i monitor e cambia atteggiamento diventando cocciuto e caparbio nel perseguire la sua attività, mostrandosi come un padrone di casa accogliente e puntuale. Ma il suo essere “fuori dal mondo” va di pari passo con il suo egocentrismo (ha persino le sue iniziali griffate sui polsini della camicia bianca), che lo trasforma e lo rende immagine bidimensionale di se stesso. Egli esercita il controllo da un lato per poter continuare a mentire agi altri e a se stesso, e dall’altro per verificare che la sua merce (le ragazze) soddisfi pienamente il cliente. Non dà l’impressione di amarle, a lui servono, e, anche se ipocritamente, nel finale dice di non avere il senso degli affari, tutto nel suo locale è merce e mercificato: dai gadget, alle finte banconote, persino alle colonne sonore che accompagnano i numeri delle ballerine che come nel caso di Sophie, il dj annuncia con queste parole: “Sophie, la musica che l’accompagna è eseguita dal complesso saturno, della stessa Sophie, e se volete il cd potrete acquistarlo qui al Paradise. È una distribuzione esclusiva della Ray of Hope records”; e quando Debbie riesce a vendere la sua sceneggiatura a Stanley, Ray chiede a Jay di fare il calcolo sulla possibile percentuale di guadagno per sé. Dunque Ray, apparentemente disprezza i soldi e gli affari, ma è cinicamente consapevole che a lui servono non per coltivare il suo sogno del Paradise, ma per continuare a giocare e continuare a perdere (come ogni giocatore incallito che si rispetti). Ecco dunque che il Paradise altro non è che un luogo dove si vendono sogni, in cui non a caso, come viene rimproverato dal Barone ad un cliente all’inizio del film: “Ehi, dicco a te. Qui dentro si guarda ma non si tocca!”, e in cui la merce può solo essere vista da dietro alla vetrina ma non può essere toccata. Il sesso è la merce, un sesso intangibile e impraticabile, parodistico nella rivisitazione glam e futuribile dei travestimenti delle ballerine, che spesso ballano sgraziate e volutamente scoordinate, che si offrono svogliate ai clienti, che fanno quel mestiere perché devono pagare l’affitto, le bollette o mantenere una bambina; mentre i clienti vanno a casa presto perché passa l’ultimo bus, perché il mattino dopo devono lavorare o non entrano neanche perché non c’è pronta la polpa di granchio prenotata. Parodia degli strippers club che coincide con quella del mondo del cinema su cui emerge la battuta memorabile e programmatica pronunciata da Ray nel momento in cui apprende da Jay che il guadagno di Debbie per la vendita della sceneggiatura si aggira intorno ai $ 23.000: “Ho sbagliato mestiere, 367
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avrei dovuto mettermi a scrivere film. Se scrive bene come si infinocchia gli uomini … è nata una stella”. Ray è il gestore del Paradise, non è il proprietario, si presenta come un self made man ma non lo è, pensa di essere intelligente ma è solo ingenuo ed immaturo, si presenta come un perdente bonario ma in realtà è un cinico opportunista, interessato al guadagno per riversarlo nel gioco e non per preservare l’indipendenza finanziaria del proprio esercizio. È un artigiano e non un autore, un doppio del regista indipendente (come Ferrara) alla perenne ricerca di finanziamenti per continuare a fare cinema, ed è guidato non dalla ragione ma dall’intuito, da un desiderio infantile di autonomia e imprigionato nella schiavitù del (e dal) denaro. Il suo terrore è quello di essere assimilato, integrato (e quindi distrutto), per cui pur di evitare ciò sarebbe disposta a fare qualunque cosa. In questo è l’equivalente del suo progenitore cinematografico, il Cosmo Vitelli di The Killing of a Chinese Bookie (L’assassinio di un allibratore cinese, 1976) di John Cassavetes, di cui Go Go Tales è un’ evidente rivisitazione. Nel film di Cassavetes, il locale di Cosmo Vitelli, il Crazy Horse West è chiara metafora del teatro mascherarato, ed è al centro di un anti-noir in cui la dilatazione temporale, la sospensione del possibile, l’attesa dell’indefinito, il silenzio dell’ambiente urbano (in netto contrasto con la polifonia del locale) si oppongono alla frenesia del montaggio, all’incedere di movimenti di macchina, al caos sonoro del traffico e all’assordante ululare dei clienti del Paradise presenti in Go Go Tales, che al teatro sostituisce il cinema e alla mascherata il freak-show. Se il film di Cassavetes si impone per il suo straniamento “di genere” e per la frammentazione della continuità narrativa, quello di Ferrara emerge per la contrazione temporale degli stacchi di montaggio e per una messa in scena onirica di matrice “classica”. Entrambe i registi, oltre a destrutturare la semantica dei generi, mirano alla rappresentazione parodistica del loro “circo”, e sia Cosmo Vitelli che Ray Ruby sono individui che proiettano, e introiettano, all’interno del locale tutte loro smisurate ambizioni e manie di grandezza; ma se il primo mette in scena il carnevale abietto e corrotto, strambo e inquietante orchestrato da Mr Sophistication, il secondo si limita a mettere in mostra se stesso e a lasciare le redini del locale in mano a fidati e grotteschi collaboratori (come Luigi che sostituisce una lampada solare con un neon provocando l’inevitabile incendio della stessa). Quello che accomuna ancora le due opere è la portata ludica tanto dell’assunto narrativo quanto della messa in scena. Cosmo Vitelli si reca alla sala da gioco 368
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accompagnato da tre bellezze del suo locale che da uomo galante (e apparentemente raffinato) va a prendere a casa con l’autista della Lincoln Continental presa a noleggio per l’occasione, ma è anche colui che mentre sta per andare a saldare il suo debito di gioco uccidendo il cinese, si ferma alla cabina telefonica e chiama il locale per informarsi su che numero musicale sia in corso e non esita a cantare al telefono la canzone di riferimento “I Can’t Give You Anityng but Love” , per spiegare al suo interlocutore di cosa sta parlando. Ray Ruby, mentre presenta i numeri del cabaret del giovedì sera, impreca contro Jay, incurante del pubblico che ha di fronte, e , nel finale, si confessa di fronte alla platea delle sue strippers, non ammettendo il suo fallimento, ma cercando di giustificare il suo modo di essere. Entrambi dunque sono giocatori, uomini che intendono la vita come un gioco “pericoloso” in cui non conta ciò che sei o ciò che fai ma ciò che gli altri vedono in te. Non a caso entrambe i film si chiudono in maniera incompleta: Cosmo Vitelli, ferito esce in strada di fronte al locale e rimane fermo mentre attorno a lui la metropoli è assente, spettatrice muta e indifferente del suo tormento; Ray Ruby stringe nelle mani il grosso assegno da diciotto milioni di dollari mentre una voce fuori campo gli spiega che il guadagno è minimo se tolte le tasse, i debiti e la riscossione immediata della vincita, e il suo primo piano, progressivamente mostrato attraverso il lento zoom ad avanzare, sparisce nel nero dei titoli di coda. Così deve essere per questi due personaggi la cui esistenza non è tattile ma piuttosto onirica, in cui entrambi sembrano essere i protagonisti di una favola dal finale volutamente sospeso perché animata dalla malinconia e dalla nostalgia e permeata dalla speranza che tutto possa di nuovo, e sempre, ricominciare. Le dinamiche dello spettacolo del Crazy Horse West e quelle del Ray Ruby’s Paradise, infine, sono praticamente le stesse. Si tratta di un continuo divenire di immagini, suoni, rumori interrotti al centro di uno spettacolo in precario equilibrio sull’orlo della dissoluzione. Non c’è un modello, un paradigma a cui fare riferimento ma sono frutto di improvvisazione, di intuito di lazzi momentanei e di trovate estemporanee. Cosmo Vitelli e Ray Ruby sono due perdenti che mai diventeranno vincitori, perché entrambi sono animati dall’energia del giocatore, quel flusso irrazionale e sfuggente che li porta a continuare a giocare e a continuare a perdere senza accorgersi che nonostante gli sforzi e le scelte compiute mai riusciranno ad estinguere i loro debiti. Entrambi sono coinvolti in un processo circolare che lega i movimenti delle ballerine, il veicolare il sesso come merce in 369
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circolo, le dinamiche economiche che regolano il mondo reale e la circolarità della messa in scena che, nel finale, ri-porta sia Cosmo che Ray all’inizio della storia raccontata sempre uguale eppure sempre diversa. Basta confrontare alcuni dialoghi dei due film per accorgersi dell’uguaglianza e della diversità dei due protagonisti. Se entrambe, all’inizio, ambiscono a farsi riconoscere come registi e produttori dei loro spettacoli e annunciano alla platea la bellezza della loro messa in scena, alla fine uno (Cosmo) rifletta sulla vita come messa in scena teatrale, l’altro (Ray) propone una visione di fiction della realtà ed eleva la menzogna a verità (giocando abilmente sul concetto di immagine). Cosmo Vitelli esordisce con queste parole: “Mr Sophistication e le sue bambole stanno per tornare qui da voi. Io mi chiamo Cosmo Vitelli e questo locale è mio. I numeri sono miei, io li dirigo, io li arrangio. Se avete lamentele, venite pure da me e vi prenderò a calci nel sedere”. Ray Ruby si presenta, invece, così: “Buonasera a tutti. Ebbene sì, sono Ray Ruby è questo è il mio Paradiso, ma stasera sarà anche il vostro, quindi mettetevi comodi perché vi invito a godervi l’ospitalità di queste fanciulle meravigliose. E non dimenticate, le signore adorano i gentiluomini...” Ferrara e Cassavetes intendono i loro protagonisti come due esercenti esigenti, uno possessivo e intransigente, l’altro suadente e garbato desiderosi entrambi di piacere al loro pubblico. Ma una volta attraversata la crisi (l’omicidio per Cosmo, i debiti da sostenere per Ray) i due registi fanno reagire i rispettivi personaggi in maniera diametralmente opposta ( e coerente con il loro cinema), come si evince dal confronto tra i due monologhi finali che Cosmo e Ray sostengono di fonte alle “loro” ragazze. Cosmo Vitelli: “Che c’è di male nelle tette? Teddy, tutto è lavoro, che sia chiaro. Devi sgobbare per sentirti bene. Molta gente si racconta favole. Sanno quando sono nati, sanno dove stanno andando, sanno se andranno in Paradiso o all’Inferno. Credono di saperlo, ma si sbagliano. Solo le persone che stanno bene con se stesse... sono felici. Capito? Per esempio, prendiamo Carol... lei è un po’ suonata no? Un po’ pazzerella?. È quello che pensa la gente perché è quello che vogliono credere. Ma provate a metterla in un altro contesto, in una situazione difficile. In una situazione di tensione... vedrete che non è matta. Quella che per te è la verità per me è la menzogna e viceversa. Io sto bene solo quando sono arrabbiato, quando sono duro... è quello che pensa la gente, sono ciò che la gente vuole che io sia e non ciò che sono realmente. Hai capito? Per questo bisogna lavorare. Non importa chi sei o che personaggio scegli... sceglietevi un personaggio e 370
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andate in scena...”.Ray Ruby: “I soldi? Me li sono giocati al lotto. Ma sapete cosa? Ho vinto. Il fatto è che non riesco trovare il biglietto e quindi è come avere perso. Avete mai sentito una storia più surreale? È tutta la vita che lavoro nei locali. A dieci anni già servivo ai tavoli al Lucky di Midtown. Non c’è nulla al mondo che abbia mai desiderato più di un locale tutto mio, col mio nome scritto in grande sull’insegna luminosa. Già da allora era il mio sogno, la mia spirazione e non permetterò a nessuno di sbattermi fuori di qua. È vero ho fatto i miei errori. Ne ho fatti tanti. Non voglio prendervi in giro, non ho avuto la mentalità dell’affarista. Ma il vero problema non sono gli affari, il vero problema sono io. È la mia dipendenza, io adoro il gioco. Neanche immaginate quanto ho perso... e vi sto parlando di cifre iperboliche. (…) No, non vado da nessuna parte. Il Ray Ruby’s Paradise è lanciato verso il decollo... libertà, creatività, passione, amore reciproco, è di questo che vi parlo. E mi dispiace di aver mentito. Io impazzisco per il gioco, lo amo da morire. Ma voi, voi cosa volete?... Ah Già , i soldi...”. Cosmo Virtelli, dopo il suo monologo sul “teatro della vita” scende in strada fuori dal suo locale e attende, mentre Ray, dopo le sue parole che certificano il suo fallimento e la dimensione onirica in cui vive, ritrova il biglietto vincente (ma che da lì a poco scoprirà essere perdente). In entrambe i casi, la vita del club si contrappone a quella vera, i sogni che si coltivano al chiuso dentro le rassicuranti parete del proprio “regno”sono destinati a naufragare all’esterno, nella dura realtà del quotidiano. Tanto il Crazy Horse West che il Paradise, possono esistere solo nei sogni, e nell’immaginazione che, come canta, Mr. Sophistication in The Killing of a Chinese Bookie: “...L’immaginazione è pazzia che rende la vita iridescente...”, sembra essere la vera linfa vitale e il vero motore esistenziale della vita dei due cineasti newyorkesi.
Go go tales – Recensione Il “Ray Ruby’s Paradise” è molto più di un locale per spogliarelliste: è una fabbrica di sogni per ballerine in cerca di fortuna, gestita dal carismatico Ray Ruby e da una serie di personaggi, altrettanto stravaganti, che gli ruotano intorno; un luogo dove le più belle ragazze “GoGo” non sono delle semplici lap dancers ma appartengono all’agenzia di talenti “Ray of Hope” 371
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(Raggio di speranza) che promette loro di diventare, forse un giorno, superstar di Hollywood. Go Go Tales, ovvero il paradiso secondo Abel Ferrara, è una commistione di colori (contraddittoriamente) “infernali” (il prevalere del rosso e del nero), un muoversi lento e sinuoso di corpi che emergono e spariscono nel “nero” del locale, illuminati improvvisamente da fasci di luce elettrica che scolpiscono le curve dei seni, le rotondità dei glutei, la morbidezza delle caviglie e il vorticoso roteare dei piedi nudi sulla piattaforma. Una ciclicità della messa in scena che stride con la rottura in atto: un senso di famiglia conflittuale che tra due fratelli (Caino e Abele?) divide il sogno dal baratro del fallimento, il desiderio di ricchezza materiale dalla fisicità della bellezza carnale. Il Paradise è un luogo “magico” percorso da una tensione erotica costante che trasferisce la sua potenza perfino nella forma filmica in una pellicola dove i fotogrammi si penetrano l’uno con l’altro e dove le dissolvenze incrociate determinano un orgiastico sovrapporsi di corpi. Un luogo dove una donna può baciare un cane senza apparire volgare (Asia Argento e il rothweiller), dove i pali della lap-dance appaiono oggetti fetish necessari per costruire il sogno, dove le luci al neon costruiscono traiettorie fiabesche e dove il denaro appare contemporaneamente necessario e superfluo. Ma Go Go Tales, forse, involontariamente, è anche qualcosa di più: è un omaggio a se stesso da parte del regista e una dichiarazione di fallimento della società delle immagini, sulla sua precarietà ontologica e sulla doppiezza (persona e personaggio) di chi la abitai, cui il corpo centro vitale del tutto, può solo essere guardato e mai toccato, e pertanto è impossibile ogni relazione umana e fisica. I pali sono i clienti, fermi, fissi, immobili ed eccitati che assistono al lento roteare di algidi corpi femminili, spettatori dell’estetica e nulla più. Quello del film è un maschio ammiccante che rimane illuso di poter cogliere la tentazione del corpo di donna, ma si deve accontentare delle sua immagine. Poi, d’incanto Ferrara sorprende, spiazza, decontestualizza e ribalta le carte come un baro professionista e mostra quegli splendidi corpi (prima nudi), fasciati in lussuosi abiti di raso, pronti a salire su quello stesso palco, senza più pali, senza più luci al neon, senza più ululati belluini a far da contorno, per mostrare il loro vero “talento”: ballerine, prestigiatori, pianiste ecc.. e, ora, spogliarsi diventa solo più un mezzo, un passaggio, una “tangente” (“speriamo che in sala ci sia qualche produttore”) per diventare altro, oltre il sogno, oltre Ruby, oltre il Paradiso.
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Go go tales – Sondaggi critici Abel Ferrara questa volta, sorprendentemente, non infila occhi e mani negli escrementi della morale ma ci danza sopra con divertita leggerezza. perché Ruby è si l’imprenditore del sesso con il vizio del gioco, ma è anche una brava persona purtroppo sull’orlo del fallimento. Go Go Tales è un film di caratteri che ballano a tempo in un fumoso saloon stile Badfa Bing. Papponi, maitre di sala con il grugno cockney di Bob Hoskins, uomini d’affari cinesi, una guardarobiera che si chiama Sin (peccato) ed è reduce da mille battaglie come la sua interprete Anita Pallenberg, una padrona di casa vecchia malefica che irrompe bestemmiando per la mancata pigione, poi si siede, sbraita, spegne un incendio, passa il testimone alle ballerine, tra le quali Asia Argento che manco fosse Anna Falchi, adesso ripudia Abel in cerca di chissà quale responsabilità ma in scena slingua con trasporto il suo rotweiller. Un freak show raccontato con il solito talento radicale: la lunga sequenza sulle note di “Strange” di Grace Jones è francamente un capolavoro di intensità, per non parlare del fulminante incipit, con la candida ballerina classica e il movimento di macchina che dall’alto avvolge Willem Dafoe assorto e perso. Certo il finale è repentino, il budget scarso, i personaggi di Modine e di Scamarcio non proprio fondamentali, ma Ferrara è da sempre imperfetto. Questa volta, però, per la sua riconciliazione si tinge di una dolcezza lieve e lo sguardo vola altissimo. MAURO GERVASINI, FILM TV, 25 AGOSTO 2008 Frenetico e claustrofobico incrocio tra noir e commedia, costruito come un’autoparodia degli imperativi etici di King of New York, Go Go Tales è una provocazione melanconica e isterica sul paradiso perduto, sulla dissolvenza di un mondo popolato di piccoli ed affannati operai del crimine, cialtroni e sognatori, corrotti dal potere del denaro, dall’infelicità del presente, dalla consapevolezza della fine, dalla perdita del piacere nel peccato. Ferrara ha scritto il film senza le illuminanti intuizioni dello sceneggiatore abituale Nicholas St. John, che ha sempre cercato le disturbanti ragioni della colpa alla ricerca di un equilibrio, mettendo a fuoco desideri e bisogni di trascendenza in disperati viaggi metropolitani. Il film è un divertimento “in minore” irrisolto e sarcastico, costruito sui corpi e realizzato dentro spazi chiusi, ritmato da inganni e contraddizioni per un’umanità caotica, disordinata e perplessa, notturna e distratta. Go Go Tales resta un numero di cabaret di transizione, dentro un night di cui tutti sono consapevoli della provvisorietà dei ruoli. Ferrara si diverte con incosciente leggerezza con una sterile opera corale, sorprendentemente realistica, trala373
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sciando i sensi di colpa e l’impossibilità di coniugare castigo e redenzione, eccedendo in alcool e nostalgia, conservando un’idea di cinema radicale e vivace, libera e provocatoria. DOMENICO BARONE, VIVICINEMA, 3 AGOSTO 2008 Non è la prima volta che un regista abbandona la strada maestra disegnata dai suoi film per percorrere nuovi sentieri. Ma una giravolta come quella che ha fatto Abel Ferrara con Go Go Tales ha davvero pochissimi precedenti. Non è la prima volta che difficoltà produttive e (forse) scarsa ispirazione portano Ferrara a dirigere film che sembrano contenere solo in parte le qualità e soprattutto l’energia dei suoi risultati migliori. È probabile che tutti si siano più o meno divertiti durante le riprese, ma facciamo fatica a farci coinvolgere dal loro divertimento e l’idea che, una volta alla settimana, il Paradise cambi faccia e permetta ai propri dipendenti di esibirsi nella vera passione della loro vita, dà l’impressione di una trovata estemporanea per allungare un storia striminzita, più che di una qualche, autentica, necessità narrativa. Abel Ferrara ha dichiarato che la sua idea era quella di girare una commedia alla Frank Capra (dove la fortuna alla fine faceva il suo ingresso nella vita di Ray) e i fan più irriducibili del regista sembrano aver preso per buona la spiegazione. Ma si fa davvero fatica a convincersi che alle buone intenzioni siano seguiti risultati coerenti: più che una commedia Go Go Tales sembra un puzzle di immagini, a volte anche curiose e intriganti, ma senza un vero senso “compiuto”, che lascia inappagata la speranza di veder il regista tornare ai livelli dei suoi capolavori. PAOLO MEREGHETTI, CORRIERE DELLA SERA, 20 GIUGNO 2008 Rispetto ai titoli di alcuni anni fa, è impressionante constatare la caduta verticale di Ferrara nel vuoto di temi e risorse narrative. La parte eccessiva, provocatoria fino al pugno nello stomaco c’è sempre stata ma era appunto compensata dall’emergere di argomenti forti, di situazioni vissute al limite di scelte morali che mettevano in gioco la vita. Qui tutto è azzerato, e non si sa se ridere o irritarsi. La cornice del locale per voyeurs prende il sopravvento, e si intuisce che Ferrara sa come costruire le atmosfere o muovere la m.d.p. ma dentro il quadro non c’è niente, solo donne manichino, uomini maschere, personaggi fasulli e inesistenti. Forse anche per il regista newyorchese é venuto il momento di riflette sul da farsi. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come inconsistente, e certamente scabroso. COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM DELLA CEI
Chelsea on the rocks (2008) 374
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Chelsea on the Rocks celebra le personalità artistiche e le voci che sono emerse da questa leggendaria residenza nel cuore di New York. Una volta considerato un luogo intoccabile, torre impenetrabile per scrittori, artisti, musicisti e cani sciolti, è stato recentemente rilevato da una joint venture per conto di una società di gestione esterna che mostra disprezzo per la sua storia formidabile e che vuole trasformarlo in una sorta di Chateau Marmont. L’edificio monumentale è ufficialmente riconosciuto come icona culturale americana ed rinomato per coloro che hanno vissuto e creato lì, tra cui Sir Arthur Clarke, Bob Dylan, Stanley Kubrick, Arthur Miller, Joni Mitchell, Dee Dee Ramone, Larry Rivers, Dylan Thomas, Mark Twain, Tennessee Williams, Milos Forman, Janis Joplin, Donald Sutherland, Patti Smith, Philip Taaffe, Dennis Hopper, Andy Warhol, Edie Sedgwick, Eugene O’Neill, Jane Fonda, Leonard Cohen, Robert Mapplethorpe, Tom Waits, Courtney Love, Sam Shepard, Charles Bukowski, Julian Schnabel, Jasper Johns, Viva, Quentin Crisp, Jimi Hendrix e molti altri (alcuni dei quali appaiono e compaiono nel film). Al di là delle personalità più o meno famose, sono gli artisti poco conosciuti, i residenti abituali egli abitanti comuni che vi soggiornano tutt’ora che hanno fatto di questo albergo il loro rifugio a New York, coloro i quali appaiono come veri depositari dell’essenza dell’albergao. In Chelsea on the Rocks, ognuno di questi personaggi completa un cast che vede nella parte di se stessi da Ethan Hawke a Milos Forman, da Dennis Hopper a Robert Crumb, da William S. Burroughs a Andy Warhol, in cui gente comune e anonima si fonde con il meglio di New York, tra architettura, storia, arte, commedia e tragedia, tutti ripresi e raccontati con gli occhi e la passione di Abel Ferrara. Intervistando gli inquilini attuali, ricreando le scene di eventi che si sono verificati al Chelsea, come la morte di Nancy Spungen (Bijou Philipps) ad opera di due balordi Steve (Adam Goldberg) e Tip (Giancarlo Esposito), ma di cui venne incolpato il fidanzato Sid Viciuos (Jamie Burke), e intrecciando filmati d’archivio di diversi formati con film e video che raccontano l’esterno e l’interno dell’hotel, Ferrara rompe lo stampo documentario e trasforma la sua visione in qualcosa che cattura l’anima del Chelsea Hotel.
Realizzato come una ballata malinconica, razionalmente nostalgico e pregno di passione umana, Chelsea on the Rocks si presenta come un antidocumentario, istintivo e sgrammaticato, ma pulsante e vitale, in grado di cogliere l’anima dell’edificio e di trasportare nei fotogrammi l’energia esistenziale che lo ha attraversato nel corso degli anni. Abel Ferrara interviene sulla scena, passa davanti alla macchina da presa, dialoga con i suoi assi375
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stenti, interagisce con gli intervistati, commenta, si agita e ride sguaiatamente, non fa domande particolarmente interessanti, non si cura dell’ingresso in campo del boom o dell’asta del microfono, e neanche se un suo operatore che sta filmando si veda sullo sfondo dell’inquadratura, ma pensa solo ed esclusivamente a raccontare il Chelsea Hotel. Lo fa con l’anima e la passione del “vagabondo” in senso beat, così come continuerà a farlo nei successivi documentari Mulberry St. e Napoli, Napoli, Napoli, ognuno dei quali, a suo modo, racconta un pezzo della propria vita e contemporaneamente lo rappresenta. L’idea di un film sul Chelsea Hotel scatta appunto quando Ferrara vi è residente tra il 2006 e il 2008, ed è egli stesso a raccontare la genesi e le motivazioni di questo lavoro: “Ho vissuto in uno dei migliori hotel del mondo. Ho vissuto in tanti altri alberghi, ma non c’è niente al mondo che sia paragonabile al Chelsea Hotel. La produttrice Jen Gatien, figlia del mio amico di lunga data Peter Gatien, viveva al settimo piano quando Stanley Bard e suo figlio l’hanno sfrattata. Stanley è stato il padrone assoluto dell’hotel per quarantacinque anni e quindi quello che stava succedendo ha fatto molto rumore. Jen ha cominciato ad appassionarsi alla vicenda e mi ha chiesto di filmarla e di portare sullo schermo il racconto del Chelsea Hotel e di quello che stava succedendo. Lo sviluppo del film che ho realizzato prevede l’alternarsi di immagini di archivio, interviste agli attuali abitanti e sequenze narrative in cui attori recitano personaggi o parlano nelle vesti di se stessi, come se fossero la vera anima dell’hotel, da Ethan Hawke, Dennis Hopper a Adam Goldberg. Per scrivere queste storie ho rincontrato Christ Zois lo sceneggiatore/psichiatra dei miei film The Blackout e New Rose Hotel. Il Chelsea Hotel, sin dalle sue origini è stato un posto di grande tradizione artistica. Da Twain, Dylan Thomas, Nabokov e Tennessee Williams, fino ad Arthur Miller e Bob Dylan, è stato un importante luogo in cui creare qualcosa di immortale che, oggi, ci viene lasciato in eredità”.121
Il Chelsea Hotel, conosciuto anche come, semplicemente, “Il Chelsea”, è uno storico albergo di New York City, situato al 222 West della 23ª Strada, tra la Settima e l’Ottava Avenue. L’edificio è stato designato punto di riferimento culturale di New York dal 1966, e dal 1977 è iscritto nel Registro Nazionale dei luoghi storici. Costruito tra il 1883 e il 1885 e inaugurato, nel 1884, la costruzione di dodici piani in mattoni rossi che è oggi l’Hotel 121 Dichiarazioni
di Abel Ferrara, dal pressbook americano del film. Trad. nostra
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Chelsea, comprendente ben 250 tra stanze e appartamenti, è stato uno dei primi condomini privati di lusso della città. È stato progettato dalla Hubert, Pirsson & Company in uno stile a metà strada tra un revival Queen Anne e il gotico vittoriano. Tra le sue caratteristiche distintive presenta il delicato ornato di fiori sui balconi in ferro della sua facciata, costruito da JB e JM Cornell, e lo scalone interno che si estende verso l’alto per dodici piani, accessibile solo agli ospiti registrati. Al momento della sua costruzione, l’edificio era il più alto di New York, e quindi del mondo, e la sua architettura rappresentava il progressivo elevarsi della borghesia, mentre la zona circostante, da Wall Street a Washington Square ospitava il quartiere dei teatri della città. Nel giro di pochi anni però la combinazione di crisi economica con il fallimento di alcuni teatri e il trasferimento di altri portarono nel 1905, l’edificio ad essere riconvertito in hotel di lusso, gestito dai proprietari della catena Knott Hotels, fino al suo fallimento nel 1939. In quell’anno, l’edificio viene rilevato e acquistato da Joseph Gross, Julius Krauss, e David Bard, i quali gestiscono “in libertà” l’albergo che nel frattempo diventa ritrovo delle più illustri personalità culturali della città, cui offre trattamenti di favore con pagamenti dilazionati, supporto economico e protezione, fino ai primi anni ‘70, quando la gestione passa (con le stesse modalità) nelle mani di Stanley Bard, figlio di David Bard. Il 18 giugno 2007, Stanley Bard viene licenziato dal suo ruolo di gestore e l’albergo viene rilevato da una società di gestione, la BD Hotel New York, di cui fanno parte Marlene Krauss, figlia di Julius Krauss, David Elder, il nipote di Joseph Gross, oltre al figlio del commediografo e sceneggiatore Lonne Elder III. Troppe le spese di gestione accumulate negli anni, troppe quelle di manutenzione per un edificio logoro e antiquato, al punto che solo il “mitico” ristorante “El Quijote”, uno dei primi ristoranti spagnoli di New York, un tempo sala ospitante il ristorante dell’albergo, e attivo dal 1934, sembra resistere all’usura del tempo. Nel maggio del 2011, il Chelsea Hotel è stato venduto all’immobiliarista Joseph Chetrit per $ 80 milioni di dollari, il quale è intenzionato a farne un residence di lusso in stile Chateau Marmont. A partire dal 1 agosto, 2011, l’hotel non accetta più prenotazioni di ospiti. La lista dei racconti, più o meno veri, spesso semplici aneddoti, sugli accadimenti del Chelsea Hotel è lunga come il numero dei suoi ospiti. Nel 1912 diversi sopravvissuti del Titanic vengono ospitati in questo hotel perché è a breve distanza dal Pier 54 il molo della White Star Line dove il Titanic avrebbe dovuto attraccare. Nel 1918 il Chelsea ospita molti marinai di ritor377
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no dalla prima guerra mondiale. Nel 1930, l’avventuriero Harkness Ruth, conosciuto per essere colui che ha portato il primo panda gigante vivo dalla Cina negli Stati Uniti è tra gli ospiti del Chelsea Hotel. Sir Arthur C. Clarke scrive The Sentinel (cioè “2001: Odissea nello spazio”) durante il soggiorno al Chelsea, e Allen Ginsberg e Gregory Corso lo scelgono come luogo di scambio filosofico e di sostanze psicotrope. William S. Burroughs e Jack Kerouac sono stati spesso ospiti del Chelsea nel periodo in cui vi era residente Herbert Hunke, il tossico e ladro che ha ispirato “Howl” (Urlo) di Allen Ginsberg. Il 9 novembre del 1953 in una stanza del Chelsea Hotel, muore di polmonite (ufficialmente), alcoolizzato (realmente), il poeta Dylan Thomas, oggi ricordato con una targa affissa all’esterno dell’hotel. Nel 1966 Andy Warhol e Paul Morrisey, dirigono nelle stanze del l’albergo The Chelsea Girls, un film che racconta, tra le altre cose, la vita di alcuni membri della factory all’interno dell’hotel, e a cui partecipano, tra gli altri, Bob “Ondine” Olivio, Viva, Ultra Violet, Ingrid Superstar, Mary Woronov, Gerard Malanga, Nico e Angelina “pepper” Davies. Il 12 ottobre 1978, nella camera 100 muore accoltellata Nancy Spungen, e il leader dei Sex Pistols e suo compagno Sid Vicious viene incriminato per omicidio. Madonna, all’inizio degli anni ‘80, quando non è ancora famosa, nella stanza 822 dell’albergo trascorre un notte focosa con Jean-Michel Basquiat e nel 1992 torna al Chelsea, nella stessa stanza, per scattare le fotografie per il suo libro “Sex”. Nel 1986 Adrian Lyne, nelle stanze dell’albergo gira le ultime scene di Nine 1/2 Weeks (9 settimane e 1/2). Al Chelsea Hotel Il pittore Alfeo Filemone Cole è vissuto per 35 anni fino alla sua morte nel 1988 all’età di 112, quando era l’uomo più vecchio del mondo. Nella sua lunga e controversa storia, per periodi più o meno lunghi, la residenza ha ospitato un numero pressochè infinito di artisti, tra cui, oltre a quelli già citati val la pena ricordare Edith Piaf, Dee Dee Ramone, Alice Cooper, Jeff Beck, Chick Corea, Patty Smith, Iggy Pop, Tom Waits, Joni Mitchell (che qui scrisse quella “Chelsea Morning” che fece innamorare Bill e Hillary Clinton al punto da chiamare la loro figlia come l’albergo), Jimi Hendrix, Vincent Gallo, Uma Thurman e tantissimi altri. Questa la storia, e questi i presupposti da cui parte Chelsea on the Rocks di Abel Ferrara, scritto dallo stesso Ferrara con Christ Zois e David Linter, ripreso con l’alternarsi di una cinepresa in 16 mm, una videocamera HD e una m.d.p. 35mm, fotografato dall’ “amico” Ken Kelsch, montato da Langdon Page e realizzato con le scenografie di Frank De Curtis. Il regista opta per una visio378
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ne istintiva, per un racconto impulsivo e “di cuore”, evitando ogni celebrazione nostalgica e ogni inutile riflessione cerebrale, e rischiando di sbagliare nel momento in cui ricostruisce in maniera sbrigativa le scene di fiction che disarticolano la continuità narrativa e creano confusione nello spettatore come nel caso di quelle reiterate sulla vicenda di Sid e Nancy, che nell’insieme della visione invece assumono un valore aggiunto nel momento in cui il regista evidenzia la volontà di dissacrare il mito e di scendere negli abissi dell’anima della struttura. L’utilizzo di formati diversi, il rincorrersi tra passato e presente, il nichilismo di fondo, tutto contribuisce ad una messa in scena disomogenea e contorta in cui Abel Ferrara, senza soluzione di continuità, rinnova i fasti dell’albergo, mette a confronto la sua storia con la Storia (come nel caso dell’11/9), racconta le vicende e i turbamenti di gente comune e le ansie e le speranze di artisti in erba, facendo diventare cifra stilistica del suo lavoro la digressione, con l’obiettivo di rendere il suo sguardo totale e circolare, per scrivere una ballata sentimentale, una dichiarazione d’amore non solo per quel luogo “sacro” ma soprattutto per la sua New York, di cui, nel ricordare le immagini dell’11/9 il regista si limita a queste laconiche ma emblematiche parole: “Sono immagini che ti spezzano il cuore”. Chelsea on The Rocks, è dunque un prodotto di difficile classificazione, e proprio il suo essere anomalo risulta vincente per la descrizione di un luogo “sospeso” tra mito e realtà come il Chelsea Hotel, visto che il film di Ferrara mira oggettivamente alla rappresentazione di un edificio collocato fuori dal tempo e immerso in uno spazio “alieno”, in cui il succedersi ininterrotto di fatti, aneddoti e racconti sembra essere un fluido capace di rigenerare l’edificio anno dopo anno e di rinnovare continuamente la sua memoria. Non a caso, quindi Abel Ferrara si mette in gioco in prima persona desideroso di dimostrare quanto quel luogo gli appartenga e quanto egli appartenga a quel luogo, trasformandosi prima in guida poi in poeta e infine in menestrello per sondare ed esplorare gli angoli più oscuri e misteriosi del Chelsea Hotel e per costruire un racconto discontinuo capace di cambiare in continuazione registro narrativo (dal divertente al tragico, dal grottesco all’ironico, dal riflessivo al nostalgico e dall’indignato al rabbioso) che asseconda, si immerge e si plasma sulla natura bohèmienne dell’albergo alla ricerca di fantasmi che sembrano aleggiare nei corridoi nelle stanze e nella hall e per evocarli, come avviene nel finale, con romantica disperazione. Ricorre ad una rappresentazione “spirituale” dell’edificio di cui mostra attraverso lunghe carrellate 379
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radenti il suolo, i lunghi corridoi, la tromba delle scale, i numeri, ognuno diverso, che segnano le porte, i sottoscala e le mansarde, il tetto trasparente e quello “a prova di incendio”. Si fa riprendere mentre osserva lo spazio vuoto, mentre sembra fluttuare tra le opere d’arte appese, mentre guarda il precipizio dell’abisso e confessa di avere paura dell’altezza, mentre chiacchiera animatamente e semplicemente con i gestori di “El Quijote” e mentre esprime la sua rabbia per il cambiamento in atto. Lascia che i suoi interlocutori si avventurino in improbabili visioni New Age della struttura che ne evochino fantomatici vortici su cui è costruito l’edificio, che ne raccontino l’energia e i fantasmi di cui hanno sentito o i rumori che li hanno spaventati, i presunti suicidi e le morti di overdose. Poi come il più sognatore dei cantastorie, chiude il racconto dell’“anima” del Chelsea Hotel e dell’edificio, inteso come creatura vivente, in una sovraimpressione emblematica, quasi impercettibile, di un occhio (di un quadro) posto al centro della piramide che svetta sul tetto dell’hotel, trasfigurando la natura del luogo da materiale a “divina” e facendo seguire, non a caso, l’immagine d’epoca in cui seduti a tavola si trovano, uno di fronte all’altro, William S. Burroughs intento ad autografare con dedica un volume a Andy Warhol. Come sul manifesto del film, riportante un quadro del pittore David Combs che ormai da anni staziona di fronte all’albergo e continua a dipingerlo su commissione, e che mostra l’albergo come una creatura vivente sinuosa e seducente, slanciata verso l’alto e turrita quasi in maniera fallica, Abel Ferrara ritrae gli esterni dell’edificio con taglio impressionista, mostrandone i colori ingrigiti dal tempo o brillanti dopo un restauro, inquadra lo spazio che sta sotto le ringhiere in ferro battuto, segue con panoramiche i fregi e gli ornamenti della facciata che accarezza voluttuosamente e lo skyline che si vede dall’alto del suo tetto, la notte umida e piovosa che lo attraversa o la sua insegna “nascosta” tra i vapori provenienti dai tombini; mentre gli interni seguono il taglio espressionista che mescola il perturbante della vita vissuta con movimenti di macchina radenti i muri, inquadrature sghembe o in profondità di campo, passaggi repentini dalla notte al giorno e dalla luce alle tenebre, tra rumori, urla evocate o reali, musica e sovrapporsi continuo di dipinti appartenenti, indifferentemente, ad ogni epoca e ad ogni corrente artistica. Nel riprendere gli intervistati, lascia andare la macchina da presa, e attende ciò che essi hanno da dire per poi intervenire per dare il ritmo alla ballata cinematografica solo in fase di montaggio, senza badare più di tanto alla grammatica o al linguaggio, 380
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senza prestare attenzione alla divisione volumetrica degli spazi o alla costruzione ordinata dell’inquadratura. Si può dire che Ferrara, parzialmente segue la strada percorsa da Andy Warhol per realizzare il suo The Chelsea Girls (id., 1966) e che come il suo illustre predecessore, mira a raccontare per ognuno dei suoi “ospiti” i fatidici 15 minuti di celebrità. Il film di Warhol della durata di 194min, è costituito da 12 episodi, proiettati su un doppio schermo, che scorrono seguendo un parallelismo asincrono in ognuno dei quali, in un unico estenuante piano-sequenza di 30 min., e senza stacchi di montaggio, viene raccontata la vita di alcuni giovani che vivono nelle varie stanze del Chelsea Hotel. Privo di trama e senza che gli attori vengano diretti, The Chelsea Girls si limita a riprendere personaggi che non fanno altro che vivere, registrando la loro voce in presa diretta e inquadrandoli in campo fisso, dove solo alcuni movimenti, nervosi e scoordinati, della cinepresa, li risvegliano dal torpore apparente e li spingono ad interpretare un ruolo. L’inquadratura riprende volti e corpi tagliati a metà, priva i personaggi della voce eliminando l’audio, zooma vertiginosamente su di loro mandandoli fuori fuoco o si allontana dagli esseri umani per inquadrare dettagli (solo apparentemente inutili e secondari). Il film di Andy Warhol è ferocemente essenziale e minimalista, sincero (o falso, a seconda dei punti di vista) sino al disgusto, finalizzato a descrivere, in anticipo sui tempi l’estetica e l’essenza del reality-show. I personaggi sono ripresi in una quotidianità irritante, annoiata e terrifica, che li spinge, attraverso la presenza della macchina da presa, verso una spontaneità consapevole in cui raccontano ansie e frustrazioni, paure e desideri, sempre mantenendo un aspetto caratteriale gretto e rivoltante. Il loro comportamento naturale, scrutato incessantemente dall’occhio indiscreto della macchina da presa, fino alla fine del rullo, si trasforma in una sorta di seduta psichiatrica all’interno della quale il paziente è obbligato (dalla m.d.p.) ad esprimere ciò che ha dentro, senza badare troppo né al modo, né ai contenuti, ma animato solamente dal furore narcisistico di apparire. Ecco perché questi personaggi appaiono come animali in gabbia, non solo a causa dello spazio angusto dell’inquadratura (ancor più ridotto dalla modalità a doppio schermo) ma anche e soprattutto perché attraversati da un senso ineluttabile di disperazione e smarrimento mostrato attraverso comportamenti nevrotici, scatti di rabbia, violenza, sussurri e grida, e necessità di denudarsi. Ma è soprattutto nella dinamica della composizione filmica che Warhol racconta l’atteggiamento dello spettatore voyeur di fronte al rality381
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show. Il doppio schermo infatti dà a chi guarda la possibilità di scegliere cosa guardare, di lasciarsi attrarre nei movimenti silenziosi del quadro muto o dagli sgrammaticati sproloqui del quadro sonoro, o addirittura di stare sulla soglia, sulla linea di demarcazione che divide i due schermi. Lo spettatore, come nel reality è portato a chiedersi cosa stia succedendo nella stanza accanto, che cosa stia facendo e dove stia andando il personaggio che esce fuori campo, indipendentemente dal fatto che si tratti di scene di sesso etero o omosessuale, dell’utilizzo di sostanze stupefacenti, dall’iniezione di eroina, di una performance sadomasochistica, di un’orgia lesbica o di gesti di autolesionismo, i quali si susseguono, indistintamente, alla noia, alla staticità e all’imbarazzato silenzio dei protagonisti. The Chelsea Girls, mostra in maniera anomala, e fuori sincrono, il disagio e lo spaesamento della generazione di giovani americani già intrappolati, o in partenza per il Vietnam, e mostra in maniera quasi profetica, l’atroce destino a cui questi giovani dannatamente belli e soli sembrano andare incontro. In The Chelsea Girls, il bianco e nero si alterna, o meglio lascia il posto, al colore, e il quadro muto agisce come un commento a quello parlato. In ogni momento, in ognuno dei due schermi può succedere sia il tutto che il contrario di tutto, sia il nulla come l’apparire del vuoto. I dialoghi, confusi disordinati, spesso noiosi e senza significato, raccontati attraverso un glaciale bianco e nero sporco o il succedersi di gelatine roteanti e colorate e di luci stroboscopiche, servono al regista-artista per descrivere una sarabanda di comportamenti antitetici, tetra rappresentazione di un’umanità terribile e angosciante. Le stanze del Chelsea Hotel, quindi, appaiono sia come aridi contenitori di esseri umani immobili o in perenne agitazione, sia spazi vitali e viventi in grado di generare comportamenti, azioni e reazioni. Abel Ferrara, pur eliminando la struttura narrativa da reality show di The Chelsea Girls, nel suo Chelsea on the Rocks ripercorre la strada warhoriana di lasciare andare la ripresa e di vedere che cosa succede davanti. Come quella di Warhol, anche l’umanità raccontata da Ferrara è spaesata e spaventata (dopo l’11/09) terrorizzata dall’imminente sfratto, ed è perfetta rappresentazione dello stato d’animo new yorkese dopo la ferita dell’attacco al World Trade Center. Uomini e donne, artisti e gente comune, ancorati, come il regista, al cuore pulsante di New York City che trovano nel Chelsea Hotel uno spazio onirico in cui poter continuare a sognare e a immaginare un mondo diverso lontano dagli orrori umani e dalla violenza terroristica, emblematicamente rappresentato da una figura apparentemen382
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te marginale e insignificante come Tina, la barbona “Che potrebbe avere 70 come 85 anni” ma di cui nessuno sa la vera età, che rifiuta di essere ripresa se non a debita distanza per paura che gli rubino tutte le sue cose collocate nel carrello della spesa e che ogni giorno, instancabilmente, trascina sui marciapiedi della città, attraversando la Grande Mela nell’indifferenza generale e trovando solo nel Chelsea Hotel e nei suoi abitanti qualcuno che si prenda cura di lei. Nonostante Ferrara sottolinei la solidarietà che in alcuni momento attraversa la variopinta umanità che popola il Chelsea Hotel, più volte gli abitanti intervistati, ricordano come sia difficile sapere ciò che succede nella stanza accanto, e alcuni di loro raccontano anche di persone morte o salvate appena in tempo da un’emorragia celebrale a causa dell’indifferenza generale. Sono questi elementi di inquietudine e perturbanti, come il racconto in viva voce da parte dell’attore caratterista Rocketz Redglare che dice la “sua” verità sulla morte di Nancy Spungen ad opera di due balordi che vogliono derubarla mentre Sid Vicious è collassato sul letto, uniti ad alcune affermazioni curiose e bizzarre come quella fatta dallo scrittore in camicia gialla che dice: “Ho visto delle ragazze entrare qui con le loro chitarre e diventare prostitute in meno di un mese... Si poteva diventare dipendenti da tutto con facilità”, o il racconto del collezionista sul feticcio africano fatto con feci umane su cui le donne devono mestruare ad attraversare l’opera di Ferrara e a trasformare quello che sulla carta è un documentario in un prodotto sfuggente e magnetico. Un’intervista, nella seconda parte, ad un reduce del Vietnam, dimostra come la ferita della guerra nel sud-est asiatico, sia ancora aperta e fatichi a rimarginarsi. Il reduce parla di riunioni di militari per esorcizzare il loro karma, racconta dell’orrore dei bombardamenti e cerca logiche giustificazioni al comportamento degli uomini durante un conflitto bellico: “Sei un giovane in guerra ed è facile che ti venga voglia di uccidere. Non realizzi cosa stai facendo, e nemmeno devi...”. Mentre le agghiaccianti parole del militare si susseguono e l’uomo mostra il suo crescente disagio verso ciò che sta raccontando (ad un certo punto chiede di fare una pausa), Ferrara alterna agli orrori della guerra la bellezza dell’arte, mostrando attraverso morbide carrellate i quadri appesi alle pareti del Chelsea Hotel. Il Vietnam raccontato per interposta persona, da Abel Ferrara è un ricordo del passato terribile e minaccioso da esorcizzare attraverso l’assoluto divino dell’arte. La sua ottica romantica, si contrappone a quella asettica e brutale di Andy Warhol, che nei due episodi paralleli Hannoi Hannah (schermo destro) e Hannoi Hannah 383
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and guests (schermo sinistro) di The Chelsea Girls, usando la ripresa di quattro lesbiche chiuse in una stanza e precipitate sull’orlo di una crisi di nervi, mostra l’orrore della guerra attraverso le sevizie inferte alla ragazza legata sotto la scrivania, dichiaratamente modulate, come dice una delle interpreti, alle torture del Vietnam. Come nel film di Warhol, l’episodio 9 Eric says hall (schermo destro) mostra Eric Emerson che sotto l’influsso di droghe si spoglia e si confessa, anche nel film di Ferrara uno dei protagonisti racconta in maniera grottesca il suo essere stato sull’orlo della morte. Le differenze delle due confessioni sono sostanziali e mentre il pittore si limita a riprendere il narcisismo del ragazzo, Ferrara partecipa emotivamente all’irridente disagio del suo interlocutore. Il giovane pittore seduto sul divano, all’inizio di Chelsea on the Rocks dichiara: “Nel momento in cui varcavi la soglia del Chelsea Hotel era come se venissi al mondo. La sua energia è più forte di quella di chi ci abita”. Partendo da questa considerazione, Ferrara cerca di districarsi tra racconti di fantasmi, gradevoli aneddoti su Arthur Miller e Marilyn Monroe, raccontati da Ethan Hawke che interpreta la parte di Stanley Bard, veloci incursioni a “El Quijote”, per giungere alla seconda parte del suo lavoro in cui grazie alla presenza del vero Stanley Bard e del regista Milos Forman, riflette sul destino segnato dal Chelsea Hotel. Se Bard, ammette i suoi errori e rimpiange il fatto di aver permesso alla nuova gestione di licenziarlo da gestore dell’albergo, Forman riesuma sbiaditi ricordi del passato che attraverso il suo racconto passionale e partecipato ridiventano vivi nonostante nessuno si ricordi di ciò di cui egli parla. Stanley Bard afferma: “Mio padre e altri hanno creato questo albergo per queste persone (rivolto a Forman), ma ora i figli e i nipoti si oppongono al volere dei loro padri, che si rivoltano nella tomba”, e dice di aver sbagliato e di essersi fidato di persone che credeva amici, e constata, con malcelata amarezza, che il suo “mecenatismo” privo di interessi ha lasciato il posto al pragmatismo economico, che vede nel denaro una forma di affermazione personale e nella cultura un ostacolo al modello di vita sposato. I giovani manager che gestiscono l’albergo durante le riprese del film, non si fanno riprendere, minacciano Ferrara con il blocco delle riprese stesse, e indirettamente, mostrano il loro lato pragmatico attraverso gli sfratti che stanno per essere eseguiti. Ferrara, mostra anche come fiducia e ingenuità, vadano di pari passo nelle persone che abitano il Chelsea Hotel, e che ora si rendono conto che non avere un contratto (“perché Stanley ci ha sempre ritenuto della famiglia”) li ponga in 384
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una posizione sconveniente rispetto a chi li vuole cacciare via. Lo stesso Ferrara, sembra riconoscersi in questi personaggi semplici e bohemienne, persi dietro le loro passioni e disabituati a confrontarsi con la dura realtà quotidiana, e ad un certo punto la sua stessa figura di regista, sembra sovrapporsi a quella del collega Milos forman il quale inizia la sua conversazione con queste parole: “Sono stato qui, per la prima volta nel 1969, per pochi giorni. Ma dopo il mio primo film americano nel 1971, (rivolto a Ferrara) tu sai come funziona?, dopo il mio primo film americano non avevo più un soldo, e Stanley mi ha ospitato dicendomi che l’avrei pagato quando avessi avuto i soldi”. Questo inciso di Forman da il via ad una serie di domande e di confronti tra Ferrara e i suoi intervistati in merito al pagamento del soggiorno al Chelsea Hotel, ed è emblematico che questa serie di richiami al denaro si chiuda con la secca affermazione di Ferrara: “Oggi a New York quando si deve pagare si paga”. Ma la presenza di Milos Forman, contribuisce anche a rivitalizzare l’atmosfera opprimente e cupa scesa sulla pellicola, con il racconto dell’aneddoto del finto incendio, di cui è vittima un’anziana ospite del Chelsea; racconto partecipato, dialetticamente brillante, approfondito nei dettagli più grotteschi, quali la sospensione della festa in atto al passaggio del cadavere della donna, e la successiva ripresa, da far nascere il sospetto che si tratti di pura invenzione, o che qualora fosse realmente accaduto potesse verificarsi solo ed esclusivamente in un luogo “alieno” come il Chelsea Hotel. Il film si chiude con le didascalie degli sfratti eseguiti e di quelli a venire, prima di lasciare il posto ad una giovane donna che disorientata deambula tra i corridoi del Chelsea Hotel e mentre in sovraimpressione compare la figura di Sid Vicious, la donna rivolta verso la m.d.p. si interroga urlando: “Dove siete finiti tutti?”.
One dream rush – Dream piece (2009) Lo sponsor “42 Below”, che dà il nome all’evento è il marchio di una vodka dalla Nuova Zelanda di proprietà di Bacardi, ed è lo sponsor creativo di One Dream Rush, un progetto che prevede un concorso, lanciato nell’ottobre 2008 dal direttore creativo Rajan Mehta, partendo dall’affermazione: 385
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“La metà la nostra vita trascorre dormendo, solo con i nostri sogni”. Il progetto prevede la realizzazione di quarantadue clip provenienti da tutto il mondo: ad ogni cineasta coinvolto sono stati dati 42 secondi di tempo per realizzare in qualunque forma, formato e supporto, una clip sul tema il sogno. Il sito di One Dream Rush è stato sviluppato presso il Portable Content dal produttore esecutivo Andrew Apostola, dall’art director e curatore Rajan Mehta e dalla co-curatrice Ilya Rozhdestvensky. L’evento è globale, perche come dice il suo ideatore: “Viviamo in un mondo dove lo scambio culturale si diffonde più velocemente. L’idea era di sfruttare quello scambio per produrre qualcosa di veramente unico”. Il progetto è culminato in un evento-vetrina tenutosi nell’ aprile del 2009 presso il Museo Nazionale del Cinema Cinese a Pechino, e successivamente è stato presentato al Festival di Cannes. Le clips sono state valutate da una giuria composta, tra gli altri, da Werner Herzog, Mu Deyuan, Gang Xia, Ge You, Cary Woods,il quale afferma a proposito della durata: “A quanto pare, la numerologia è qualcosa su cui un sacco di gente spende un sacco di tempo, passano anche tutta la loro vita a studiare. E il numero 42 ha sicuramente una certa importanza per un sacco di gente.” I quarantadue registi coinvolti sono: Kenneth Anger, Grant Morrison, Matt Pyke, Chris Milk, Dee Poon, Chun Xiao, Arden Wohl, Asia Argento, Zhang Yuan, Michele Civetta, Florian Habicht, Taika Waititi, Yung Chang, Abel Ferrera, Sergei Bodrov, David Lynch, Larry Clark, Chan Marshall, Charles Burnett, Joe Coleman, Terence Koh, Carlos Reygadas, Zachary Croitoroo, Rinko Kikuchi, Mike Figgis, Tadanobu Asano, Griffin Marcus, Brian Butler, Rajan Mehta, Floria Sigismondi, Sean Lennon, Leos Carax, James Franco, Niki Caro, Lou Ye, Harmony Korine, Lola Schnabel, Mote Sinabel, Chris Graham, Jonathan Caouette, Gaspar Noe, Jonas Mekas. Ognuno ha scelto una strada diversa e traloro c’è chi ha usata la cronaca del proprio paese (Asia Argento), chi il tema del terrorismo (Abel Ferrara) chi ha costruito una mini-sceneggiatura come Chris Milk, e infine anche chi ha coinvolti veri attori come nel caso di Brian Butler che nella sua clip ha fatto recitare Vincent Gallo; allo stesso modo anche la forma è diversa: c’è chi ha scelto il digitale, chi la pellicola, chi materiale d’archivio, chi ha lavorato sulla computer graphic, chi ha utilizzato l’animazione, ecc. Nella sua clip, dal titolo Dream Piece, Abel Ferrara ha costruito una composizione musicale orchestrata con le immagini dell’ 11/9 che sovrapponendosi tra loro e roteando una sull’altra in “tra386
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sparenza” rendono il tragico evento qualcosa di onirico e di indefinito. La scelta delle immagini dell’attacco alle Twin Towers rientra in quella poetica del dolore che anima il suo pensiero in merito alla visione delle immagini stesse. Il regista che considera l’11/9 uno spartiacque tra il prima e il dopo che coinvolge ogni ambito dell’esistenza globale, ambisce nella brevità della clip a restituire, al contempo, il dolore del colpo al cuore inferto alla “sua” città ma anche mostrare come le immagini possano lasciare tutto in sospeso e fare credere che le cose non siano avvenute, come dimostra l’ultimo frammento della clip in cui uno degli aerei diretti a colpire il WTT sembra persino indietreggiare e allontanarsi dall’obiettivo.
Mulberry St. (2009) Sullo sfondo dei dieci giorni della festa di San Gennaro a Little Italy (dalla preparazione alla conclusione), un racconto etnico che Abel Ferrara declina attraverso ricordi, aneddoti e vita vissuta nel suo quartiere di adozione. Tra amici più o meno illustri, ricordi di gioventù, improvvise confessioni autobiografiche e nostalgia per il passato, si snoda un racconto, umano e autobiografico, per interposta persona, in cui il regista newyorkese da un lato mostra l’orgoglio delle sue origini e dall’altro l’amarezza per la semplicità perduta, anche dalla gente comune. In ordine alfabetico e tutti nella parte di se stessi, partecipano al film: Danny Aiello, Frank Aquilino, Frankie Cee, John “Cha Cha” Ciarcia, Abel Ferrara, Shanyn Leigh, Matthew Modine, Gianni Russo, Frank Vincent, Paul Zucker
Mulberry Street è una delle strade principali di Manhattan a New York. La strada è presente nelle mappe della città a partire dal 1755. Mulberry Street è tra Baxter e Mott Street, e attraversa da nord a sud il centro storico di Little Italy. All’estremità meridionale di Mulberry St., la strada si fonde con New York Chinatown, qui la strada è fiancheggiata da asiatici che fanno i fruttivendoli, negozi di macelleria e pescherie. Più a sud si trova il Columbus Park che è stato creato nel 1897. La strada prende il nome dai gelsi che si affacciavano sul Mulberry Bend una curva stretta a Mulberry Street, un imbuto circondato da alti caseggiati in cui la folla camminava in mezzo alla strada perché i mar387
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ciapiedi erano occupati dai banchetti dei venditori. Mulberry Bend, è delimitata da Mulberry Street a est e Orange Street ad ovest ed è stata storicamente parte del nucleo dei famigerati Five Points, con l’angolo sud-ovest di Mulberry St. che faceva parte della intersezione dei cinque punti. Mulberry Street, durante il periodo della Rivoluzione americana, era denominata “Slaughter-house Street” per la presenza del macello di Nicholas Bayard (fino al 1784 quando venne rimosso) sito su quello che oggi è l’angolo sud-ovest di Mulberry St. La strada è stata oggetto di canzoni, libri, e film. Billy Joel ha scritto la canzone “Big Man a Mulberry Street”. Oltre alle incursioni degli esordi di Martin Scorsese, nel 2006 un film horror di Jim Mickle è stato intitolato con il nome della strada; il film racconta il noioso e caotico tran tran quotidiano di New York che viene improvvisamente interrotto da una anomala e frenetica invasione di ratti che imperversa per la città, e che diventano in breve i padroni delle strade limitrofe a Mulberry Street, contagiando ogni ogni persona che viene morsa. La strada è anche citata nella canzone “Io tengo n’appartamento” dal cantante Renato Carosone, storia di un’ emigrante che rimpiange la sua casa di Napoli. La Festa di San Gennaro in Mulberry Street si svolge dall’ 11 al 21 settembre. La festa di San Gennaro è anche una fiera che si tiene a Little Italy ed originariamente, era una commemorazione religiosa, mentre, ora, è la celebrazione del rapporto tra italiani e statunitensi. Il cuore della festa è in Mulberry Street, chiusa al traffico per l’occasione e la festa è caratterizzata da parate, da giochi e dai tipici venditori di salsicce e zeppole. La festa inizia con una processione religiosa che parte dalla più antica chiesa del quartiere italiano. Contemporaneamente, una festa simile inizia nel quartiere italiano nel Bronx. I festeggiamenti iniziano di mattina presto e continuano fino a notte fonda, per finire 11 giorni più tardi. San Gennaro è il santo patrono di Napoli e nell’anno liturgico della Chiesa cattolica, si festeggia, nella città partenopea il 19 settembre. La prima festa di San Gennaro a Little Italy, si tenne il 18 settembre 1926. Un tempo, venticinque anni fa, come viene evocato più volte in Mulberry St., la festa permetteva a chi vi partecipava di ritrovare quelle caratteristiche così “puramente italiane” che spesso scadono nello stereotipo e nel luogo comune, ma che all’epoca conservavano appieno il senso della tradizione ed erano effettivamente contigue antropologicamente all’emigrante italiano. Oggi invece, come mostra con amarezza il lavoro di Ferrara, lo spettacolo che si ha di fronte è quello di una mandria di persone affamate e urlanti che deambulano nella strettissima via, provenienti da ogni dove per riversarsi nella Little Italy 388
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newyorkese, tra bancarelle, dolciumi, stand con giochi e intrattenimenti e negozietti di souvenir; senonchè, oggi a differenza che in passato, di italiano, a parte il nome di San Gennaro e qualche sottile cenno di accento nelle parlate, c’È ben poco. Quello che oggi, è diventato il San Gennaro Festival rispecchia esattamente il concetto indefinito degli italo-americani suoi frequentatori, che seduti negli stand davanti ai vari locali ordinano cibi che nulla hanno né di italiano e (forse) né di americano, come i loro stessi consumatori che richiedono “hotdog cinesi” o “penne alla vodka”, con l’aggiunta di “zeppoli” e “Italian sausages”, che altro non sono che dolci con semi di semi di finocchio dentro. In Mulberry St., Abel Ferrara, è accompagnato, nel suo “vagabondare” su e giù per la strada, dall’amico e attore “Butchie The Hat”, il quale lo introduce tra la preparazione e costruzione degli stand, gli mostra i locali degli Italiani, lo fa interagire con i “personaggi” che vivono nel quartiere, per poi lasciarlo solo seduto ai tavoli del ristorante “La Mela” (sopra il quale abitano Abel e la fidanzata Shanyn Leigh) ad intrattenersi con gli amici di sempre, litigare con chi gli deve dei soldi o con chi l’ha ingannato sui contratti di produzione, lamentarsi per l’impossibilità di capire l’utilizzo delle nuove macchine da presa o perché i montatori, oggi non lavorano dopo le nove di sera. Frankie Cee è l’amico/agente che lo segue passo passo, colui che lo rimprovera per la sua ingenuità nel mettere firme su contratti che non legge, che racconta il lato alcolico del cinema del regista e come anche questo aspetto, sul set, diventi un problema economico, mentre certifica la cronica mancanza di denaro nelle tasche del regista del Bronx. Quello di Ferrara è dunque un viaggio agito in prima persona (spesso è egli stesso protagonista nelle inquadrature) volto a rappresentare una autobiografia per procura, utilizzando i racconti degli altri, e i suoi ricordi come elementi efficaci per narrare la sua storia di figlio di emigranti, i suoi “oscuri” esordi cinematografici, e le sue affinità con gli esordi di Martin Scorsese. Il suo punto di vista è dolce-amaro, critico nei confronti della mercificazione della tradizione e verso i suoi stessi conterranei che non solo l’hanno permesso ma addirittura voluto, e il suo pensiero i merito è venato di pessimismo come egli stesso dichiara: “Noi viviamo in un mondo che non ha le capacità storiche per relazionarsi con la realtà. Oggi non c’è la capacità di reagire alle difficoltà perché quando le cose vanno male non ci sono regole, non esistono leggi e anche l’esperienza non conta. Oggi la nostra civiltà esprime una società molto desolata, dove la cultura è stata 389
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completamente dimenticata. Tutti quanti abbiamo contribuito a creare questa situazione disarmonica perché gli strumenti per affrontare la realtà dovrebbero venire dal passato ma invece noi li abbiamo persi.(...) Il futuro della civiltà è ritornare in dietro, a quello che eravamo prima...”122
Ripreso con videocamera a a mano, senza né raffinatezze stilistiche né particolare inventiva, Mulberry St., punta dritto al cuore della tradizione per mostrarne la degenerazione commerciale e mercificata. Racconta per immagini con ilarità, sussiego e partecipazione i preparativi della festa, il suo svolgersi caotico, le aspettative dei commercianti e la smobilitazione dell’ultimo giorno, per evidenziare, attraverso la parola e il racconto dei testimoni, il contrario di ciò che si vede: dalle invidie personali tra esercenti, all’italianità ormai estinta, al business fine a se stesso al devozionismo come feticcio e nulla più, allo sterile e rutilante ondeggiare di uomini e donne “turisti” per caso in quel luogo ormai “profanato” dalla cupidigia e dalla necessità di campare per gli Italo-americani che ci vivono e ci lavorano. Mulberry Street non è più una delle “mean streets” di Martin Scorsese, qui ormai più nessuno conosce e parla l’italiano, non ci sono più mamme che cucinano il sugo, il retrobottega dei negozi è solo un accumulo di casse e vettovaglie, non più luogo di ritrovo, di litigio o di divertimento, non c’è più la biancheria stesa da asciugare sui balconi, i bambini sono scomparsi e i giovani, che vengono da fuori, vengono mandati via o si divertono con volgari attrazioni; la chiesa è chiusa a chiave e sono scomparsi i santi e i crocifissi dalle pareti e le madonne dalle case: ora sono tutti allineati nel “giardino del silenzio e della solitudine” come lo chiama Cha Cha. La festa è diventata una sagra e Gianni Russo (Carlo Ricci ne Il Padrino di Coppola) vende magliette, gadget e Dvd nel suo stand utilizzando il logo de Il Padrino per richiamare l’attenzione; la banda attacca L’ Inno di Mameli mentre l’organo in Chiesa non ha ancora terminato di suonare, e può capitare di trovare Danny Aiello seduto al bancone di un Bar che dice “non sono una attore, sono un cantante”. Ma Mulberry St., come lo era anche Italianamerican (1974) di Scorsese, è un anti-documentario. Entrambe i lavori, oltre ad essere confezionati in maniera anomala rispetto alle convenzioni e a non avere codici di riferimento precisi, raccontano, attraverso la voce di uomini e 122 Da
Intervista ad Abel Ferrara di Maurizio Braucci, Zaza, Radio 3 , 19 Giugno 2011
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donne avanti negli anni, la nostalgia per un tempo perduto, e il rimpianto per un senso della tradizione ormai estinto. Sia Scorsese che Ferrara non fanno l’elegia di un passato “mitico” ma ne raccontano la durezza e la brutalità, la miseria e la fatica senza dimenticare che proprio grazie a questi elementi negativi, uomini e donne vivevano una solidarietà partecipata grazie alla quale veniva rafforzata l’unità della comunità di Little Italy, il senso della famiglia, e la la religione assumeva il ruolo di rifugio, fonte di conforto nella preghiera per superare gli ostacoli e i drammi che la vita degli emigranti italiani comportava sin dall’arrivo delle navi a Staten Island. Se Scorsese affida alle testimonianze dirette, talvolta divertite, talvolta commoventi e talvolta crude e e realistiche dei suoi genitori Charles e Catherine, il compito di illustrare il legame che univa Italia e America nel passato, quello tra Sicilia e Campania e Little Italy, attraverso il lungo filo rosso del cibo e dei momenti del pasto che come un basso continuo tra ricordi, fotografia e riprese live, attraversa tutti i 48min., di Italianamerican, Ferrara non è da meno: anche lui dall’inizio alla fine di Mulberry St., intrattiene il pubblico attraverso continui richiami al mangiare e il suo obiettivo è dimostrare come anche il luogo comune della cucina e dei ristoranti italiani presenti a Little Italy sia ormai solo più tale, come mostrato nella scena conviviale in cui viene servita la cotenna arrotolata con sale, pepe e prezzemolo preparata solo al “La Mela” in tutta New York. Sia Scorsese che Ferrara, in fondo, non fanno altro che provare a raccontare se stessi attraverso interposta persona, e se Scorsese mettendo in scena la propria famiglia lo fa direttamente ma al contempo si allontana dall’aspetto autobiografico facendo diventare Italianamerican, un ipotetico racconto generico di due persone che hanno vissuto assieme per oltre quarant’anni, Ferrara in prima persona confessa pagine più o meno conosciute della sua carriera cinematografica sia attraverso la sua voce (come nel caso del riferimento a 9 Lives of a Wet Pussy) sia attraverso quella dei suoi amici (il contratto di Bad Lieutenant). Il film di Scorsese è girato nel 1974, a casa dei suoi genitori, ed è un mediometraggio in 16mm. in cui il regista parla, o meglio fa parlare i propri genitori nella loro casa in Elizabeth Street nel Lower East Side di New York, delle proprie origini e dei loro ricordi di figli di immigrati. Realizzato su richiesta dell’associazione National Endowement for Humanities, per illustrare le condizioni di vita degli Italo-americani, il film avrebbe dovuto far parte di un progetto intitolato Storm of Strangers che prevedeva la realizzazione di altri film 391
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su altre comunità di immigrati. Scorsese chiede e ottiene mano libera e realizza Italianamerican su una struttura narrativa emotiva, ponendo al centro i soggetti ripresi nel loro ambiente quotidiano e utilizzando la m.d.p. come un terzo occhio partecipe che osserva, commenta e interagisce con i personaggi. I due genitori sono prima seduti sul divano (opportunamente ricoperto con il cellofan) a debita distanza l’uno dall’altro e poi a tavola con lo stesso Martin: la madre dimostra una presenza scenica sorprendente da attrice navigata, mentre il padre appare timido, impacciato e scorbutico; ma quando la dialettica tra i due diventa incalzante entrambi sembrano estraniarsi dal set per venire catapultati nella loro quotidianità e opportunamente Scorsese non arretra di un millimetro di fronte alla naturalezza di questi simpatici battibecchi coniugali Non a caso gran parte del film si svolge in sala da pranzo, attorno ad una tavola imbandita, luogo tradizionalmente assegnato dalla famiglia italiana agli affetti, centro di irradiazione vitale, e luogo di confronto delle diverse opinioni in merito alle decisioni familiari. Tra racconti di un viaggio di nozze fatto trentanove anni dopo il matrimonio, tra aneddoti sui genitori e nonni emigranti e sulle difficoltà nell’essere naturalizzati americani o nel vivere la quotidianità del lavoro nel fondo delle navi o dall’alto dei ponteggi, a metà strada, quindi, tra “inferno” e “paradiso”, nel film di Scorsese in cui sala da pranzo e cucina diventano spazi scenici contigui senza la presenza di una “quarta parete” (con tanto di ricetta degli “spaghetti with meatball” che scorre sui titoli di coda), emerge il ritratto in “bianco e nero” di una generazione che ha sofferto e combattuto, equamente divisa tra forza di volontà ed ingenuità. Due estremi compresi nell’episodio raccontato da Chrales Scorsese sul vino fatto in casa abitudine consolidata degli italo-americani (più per necessità che per piacere) che, anche, nel finale di Mulberry St. fa capolino attraverso le parole di Cha Cha che prende proprio una bottiglia di vino fatto in casa (ma adesso con tanto di marchio ed etichetta) da condividere con i suoi amici sul marciapiede davanti al suo locale. In Mulberry St., come in Italianamerican, niente voce-off, presa diretta a cogliere rumori e umori della strada, un accuratezza spietata e angosciosa nel raccontare un esotismo urbano senza folklore ma solo mercificazione di se stesso, non più una celebrazione del sangue e della pasta ma un percorso di vita vera e vissuta, in cui la morte fa capolino improvvisamente e lo schermo diventa nero per commemorare il defunto e in cui, parlando di cannoli siciliani, esplode una rabbia antropologica, inspiegabile 392
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se non legata alla conflittualità etnica degli “Italinamercans” . Il lavoro di Ferrara è intervallato da immagini “storiche” provenienti da film suoi o di riferimento, dal dialogo tra Johnny Boy (Robert De Niro) e Charlie (Harvey Keitel) in Mean Streets (Mean Streets – domenica in chiesa, lunedì all’inferno, 1972) di Martin Scorsese per commentare il ricordo dell’infanzia di De Niro da parte di Frankie Cee, passando per l’inseguimento in Mulberry Street del finale di China Girl (id, , 1987) per mostrare la recitazione degli amici Skinny e Cha Cha e e dar modo a questi di raccontare aneddoti su quella scena, e per finire a Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990) di cui Ferrara cita la sua scena preferita di sempre, quella dello scontro al bar tra Billy Baths (Frank Vincent) e Tommy De Vito (Joe Pesci). Nel mezzo Abel Ferrara parla della sua relazione con la fidanzata Shanyn Leigh, incontra Matthew Modine ed è il pretesto per parlare della sua conflittualità con i produttori e per riesumare vecchi rancori legati a Scott Pardo che sostiene di aver scritto Mary, improvvisa alla chitarra e duetta all’interno di una sala di registrazione, incontra vecchietti a cui vuole dare una mano e con cui si dimostra sinceramente affettuoso, deambula per la strada, impreca al telefono, urla e inveisce contro le nuove tecnologie e si agita continuamente fino alla fine, quando con calma serafica ed entusiasmo fanciullesco mostra a Dennis Lim, giornalista del New York Times, l’ora magica del tramonto, il momento migliore per riprendere lo skyline di New York, quello “in cui non puoi dirigere ma solo agitarti”. La lettura manifesta e quella latente, del lavoro di Ferrara è rappresentata da un frase di rito pronunciata dai ristoratori, che ritorna più volte in Mulberry St.:“E stata una bellissima serata, signore e signori, ci siamo divertiti un sacco, ci è piaciuto, ma la festa è finita, grazie e buona notte”, parole pronunciate da “Butchie The Hat” all’ inizio e alla fine del “viaggio” e che si associano (e contrastano) a quelle dette da Ferrara poco dopo davanti ad una birra in compagnia di Cha Cha: “In culo a tutti quanti. Abbiamo avuto ciò che volevamo”. Non a caso il leitmotive che lega l’inizio e la fine di Mulberry St. è l’incontro di boxe del 1977 tra Tony Danza (Anthony Salvatore Iadanza) e Billy Perez. Tony Danza è un ragazzo di Mulberry Street, che ora “recita” in un reality show a Singapore ma che prima è stato pugile professionista e attore di successo nella sit-com Taxi andata in onda sulla ABC dal 1978 al 1982. L’incontro del 1977, svoltosi nel quartiere, si conclude dopo pochi secondi, a favore di Tony Danza, alla prima ripresa per knock out, con l’avversario scaraventa393
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to a suon di pugni fuori dal ring, mentre lo speaker in sottofondo sembra parlare direttamente a (e di) Ferrara, quando commenta: “Ma evidentemente Tony Danza non ha voglia di studiare. Tony Danza è pronto a bombardare e lo sta facendo...”.
Napoli Napoli Napoli (2009) Napoli Napoli Napoli è un ritratto della città Partenopea, ma anche e soprattutto un affondo nella sua umanità, vitale e brutale, appassionata e crudele. Con l’aiuto di Gaetano Di Vaio, ex detenuto, Abel Ferrara ha realizzato una serie di interviste alle donne recluse nel carcere femminile di Pozzuoli. Colpito dalle loro dichiarazioni, dense di amarezza e fatalismo, ha deciso di innestare sulle loro storie di vita tre diverse narrazioni, sceneggiate da Peppe Lanzetta, Maurizio Braucci e Gaetano Di Vaio. La prima, scritta da Gaetano Di Vaio e Maria Grazia Capaldo, si basa sulla reale esperienza di vita in carcere di Di Vaio; la seconda, scritta da Maurizio Braucci, già sceneggiatore di “Gomorra”, il film tratto dal best seller di Roberto Saviano, dipinge la storia di una crescita dura e brutale. La terza, scritta e in parte interpretata da Peppe Lanzetta, descrive un melodramma familiare fatto di violenza, aspettative e vendetta. Alternando realtà a finzione, dunque, Abel Ferrara offre una lettura “diversa” della città, lontana, lontanissima dai luoghi comuni di cui spesso essa è fatta prigioniera. Nasce così, ibridando realtà e finzione, storie personali e altrui, questo innovativo docu-film, mosaico complesso e proteiforme, come i mille volti di una città seducente quanto indecifrabile.
Il film è stato presentato fuori concorso alla 66ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e riproposto nei mesi successivi in varie città europee. Tra queste, ovviamente, c’è anche Napoli, dove ad ospitarne la proiezione è la sede del Forum Internazionale delle Culture in pieno centro storico. Qui Abel Ferrara ha spiegato gli intenti che stanno alla base della realizzazione di quest’opera: “Un film che è lo specchio della mia anima, non la rappresentazione della realtà, dei mali di Napoli o di come il pubblico amerebbe vederla raccontata. Un film 394
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che riguarda tanto me quanto la città, che mi ha dato l’opportunità di esprimere tutti i miei sentimenti e il mio dolore verso un luogo che amo moltissimo. Volevo fare qualcosa per tutto il mondo tranne che per l’Italia. Un film che non avrei mai potuto girare in America”123
Il progetto nasce dall’incontro tra Abel Ferrara e Gaetano Di Vaio fondatore della Società di Produzione cinematografica “Figli del Bronx” che ha poi prodotto il film unitamente a P.F.A. Films e Minerva Production & Marketing di Gianluca & Stefano Curti. “Figli del Bronx” è una società di produzione fondata dallo stesso Di Vaio, ex-detenuto, con l’intento di ricollocare nella società giovani che “hanno sbagliato” e dare loro l’opportunità di imparare un mestiere e mettere a frutto la loro creatività; la società si occupa della realizzazione di progetti legati al settore cinematografico, teatrale e musicale. Già attiva dal 2003 come associazione culturale, si pone sin da subito come strumento per la rappresentazione e la comunicazione del disagio sociale nelle cosiddette aree a rischio delle realtà metropolitane. Partendo dal presupposto che l?espressione artistica sia il mezzo attraverso cui settori distanti della società possono interagire tra di loro, “Figli del Bronx” ha perseguito con tenacia la realizzazione di una serie di progetti nell’ Area Nord e nell’intera città di Napoli, portando il lavoro di registi, autori, attori in luoghi inusitati come istituti di detenzione, associazioni per minori a rischio, scuole di periferia, strutture pubbliche, private e coercitive per la cura delle tossicodipendenze. Napoli Napoli Napoli è girato come un documentario e intersecato da episodi di finzione: il film parte dalle anguste celle del carcere femminile di Pozzuoli, attraversa i vicoli dei Quartieri Spagnoli, e giunge sino alle “Vele” di Scampia, per raccontare luci e ombre di una città-carcere, facendo diventare quest’ultimo elemento il simbolo e il leit-motive su cui si sviluppa una narrazione claustrofobica e centripeta, che non è illuminata, neanche, dal paesaggio idilliaco dei belvedere cittadini o dal panorama suggestivo del parco del Vesuvio. La scelta del titolo, con la ripetizione per tre volte del nome della città è spiegata dallo stesso regista: “perché qui esistono almeno tre città diverse. Una è quella della gente ricca, benestante; un’altra è quella degli emarginati, che vivono al di fuori. L’altra, quella che amo di più, è la città “trasversale” della creatività”.124 Mentre cultura borghese e popolare espri123 Dalla 124 Anna
conferenza stampa di presentazione, Gennaio 2011 Trieste, La Napoli di Abel Ferrara tra droga e pop art, “Roma”, 4 Gennaio 2001
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mono nel film i loro rispettivi malesseri e aspirazioni opportunamente alternati e messi a confronto nel loro valore, dal sapiente utilizzo del montaggio da parte di Fabio Nunziata, la città che emerge è quella disegnata nelle scenografie minimaliste di Frank De Curtis, una città-carcerre appunto, in cui tutto rimanda, in modo manifesto e latente, alla prigionia, e che si sviluppa di fianco a quella che distrugge se stessa o a quella che rinasce come mito della grande capitale perduta. Un tema spicca tra gli altri nelle immagini di Ferrara: la cultura femminile come contrappeso e vittima dell’imperante machismo della violenza e del potere. Elemento sotterraneo nella sua forza, quello del ruolo della donna in Napoli Napoli Napoli, costituisce uno degli aspetti di maggior interesse all’interno di un opera diseguale, molto più complessa di ciò che appare ad una prima visione, meno confusa e “pasticciata” di quanto sia stato detto e che conserva al suo interno qualcosa di inquietante e sfuggente, che forse solo l’occhio esterno e “straniero” (quello per cui è stata pensata) può essere in grado di cogliere pienamente. Ferrara ha posto il suo sguardo ad altezza d’uomo, ma ha opportunamente deciso di rimanere dietro la telecamera e di ascriversi il ruolo di colui che ascolta, colui che osserva e, soprattutto, non giudica, viaggiando per la città con la curiosità di chi cerca strenuamente di capire qualcosa che riconosce come appartenente alla propria storia di italoamericano, interrogando la terra delle sue radici con la consapevolezza di quanto questa sia mutata tra l’uniformità voluta dalla globalizzazione e le stratificazioni identitarie della sua cultura. Non a caso, le parole che il regista rivolge all’operatore all’inizio del film, in una delle poche inquadrature in cui compare fisicamente, sono esplicite e programmatiche: “Tu ed io...dietro, capito cosa intendo? Voglio fare qualcosa da usare per tutto il mondo...tranne che per gli italiani”. A guidare Ferrara in questo viaggio nel cuore e nell’anima di Napoli è lo stesso Gaetano Di Vaio, profondo conoscitore dei mali e delle virtù di questa grande capitale del sud. La scelta della struttura del film avviene come un processo in divenire, come spiega ancora lo stesso Ferrara: “Tutto ha avuto origine dall’idea di girare un documentario sulla Casa Circondariale femminile di Pozzuoli a Napoli. Poco tempo dopo l’inizio delle riprese mi è stato chiaro che le storie delle detenute non erano altro che un punto di partenza. Per arrivare a comprendere fino in fondo ciò che mi veniva detto, avevo bisogno di uscire dalle mura della prigione, dovevo andare nei quartieri di Scampìa e nei Quartieri Spagnoli, dove queste donne avevano vissuto e avevo bisogno di 396
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intervistare non solo i detenuti, ma anche i giudici e i politici e di parlare con gli altri abitanti di questi quartieri chiamati “ghetti?. (…) Sapevo che avevo bisogno di altri personaggi e storie per rappresentare al meglio le interviste che facevo, dovevo raccontare storie che potremmo definire fiction, ma sia la parte documentaristica che quella narrativa sono per me elementi forti nel film. (…) Quanto a me, tutto sommato potrei forse essere estraneo alla città, ma non al problema di cercare di sopravvivere in una città che cerca di reagire alla violenza e alla povertà e nella quale possiamo trovare una sovrabbondanza di arte, cultura e intenso valore della famiglia. Ritengo che questo film potrebbe anche essere intitolato New York, New York, New York o Detroit, Detroit, Detroit per le similitudini che giacciono nel substrato di questi impressionanti paesaggi urbani del ventunesimo secolo”125.
Napoli, Napoli, Napoli, è un film istintivo, sanguigno e pulsionale, come il suo autore. Un film che ancora una volta mette da parte l’estetica della forma (in alcuni casi si vedono persino le regolazioni dell’obiettivo in base alla luce) per concentrarsi sul contenuto descrittivo di una realtà complessa e stratificata. Il film di Abel Ferrara, ipoteticamente può essere suddiviso in sei parti, comprese tra un prologo e un epilogo, in cui vengono analizzati ambiti diversi tra loro, talvolta contraddittori, ma sempre e comunque onesti e sinceri nella loro rappresentazione. Ognuna delle sei parti del film è consequenziale ed è finalizzata al risultato ultimo in cui su un pessimismo manifesto e motivato, si inscrive una flebile vena di speranza per un futuro migliore, che in questo caso non è semplice e telefonato richiamo ad un happy end di maniera, bensì rappresentazione “sacra” della volontà di non arrendersi anche da parte di chi, solo apparentemente, appartiene alla categoria dei perdenti. L’intento del regista con Napoli, Napoli, Napoli, è quello come detto, della descrizione di una città-carcere in cui la possibilità di scelta è ontologicamente negata. Il richiamo al cortometraggio documentario Napoli Sessantasei (1966) di Emilio Marsili, serve appunto per mostrare come tra passato e presente nulla sia cambiato, e come la conformazione stessa della città partenopea possa essere ascritta tra le motivazioni di un disagio esistenziale così evidente e marcato. Se in Napoli, Napoli, Napoli, le interviste a politici e magistrati risultano banali e inutili, così non è, ad esempio, per quelle parallele tra Maurizio Braucci e Alberto Paolo, i quali, nel montaggio alternato che li vede protagonisti rappresentano da un lato la 125 Dichirazioni
del regista, pressbook Napoli Napoli Napoli
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speranza e dall’altro la rassegnazione, da un lato l’ora d’aria e dall’altro la chiusura dentro la cella. Ma la città-carcere è anche quella rappresentata dal sovraffollamento delle celle che per traslato diventa sovraffollamento dei quartieri da Montesanto al Vomero, dai Quartieri Spagnoli a Mergellina, da Secondigliano a Scampìa. La tecnica con cui Ferrara riprende, tanto gli aspetti documentaristici quanto quelli di fiction, richiama essa stessa alla dimensione del carcere, con campi e piani sempre più ristretti, con riprese in spazi angusti e oscuri, con il primo piano unico delle interviste alle detenute, e con il continuo riproporre immagini “rubate”, riprese da dietro vetri, inferriate, grate, o porte aperte che dimezzano lo spazio dell’inquadratura in cui si può muovere il personaggio. Anche le teche all’interno delle quali si trovano santini e Madonne, in alcuni casi grottescamente illuminate con luce fosforescenti, sono spazi chiusi, carceri virtuali, così come lo sono, indifferentemente, sia i monolocali al piano terra dei Quartieri Spagnoli, sia l’architettura megastrutturista delle “Vele” di Scampìa. Inevitabile dunque, che nel finale del film la dimensione costrittiva e coatta in cui sono chiusi vite e personaggi sfoci nella brutale rappresentazione di una animalità latente che esplode contiguamente all’emergere di tensioni esistenziali sopite e mai affrontate. Il film di Ferrara rappresenta uno sguardo terzo (ed esterno) ma mai freddo e distaccato, sulla realtà della città di Napoli, cosi come il precedente Gomorra lo è sulla realtà di Scampìa e sulle storture del tessuto economico italico. Napoli Napoli Napoli, come Gomorra (id., 2008) di Matteo Garrone, tra i cui sceneggiatori figura lo stesso Maurizio Braucci, descrive un universo concentrazionario pieno di contraddizioni, espresso dai suoi protagonisti in modo talvolta ipocrita, talvolta sincero. Ma come il film di Garrone non fa distinzione tra vittime e carnefici, così quello di Ferrara, non si adagia sullo stereotipo (se non in rare occasioni) e cerca di andare oltre nella descrizione degli anfratti esistenziali della città partenopea. Gomorra è un sintesi vorticosa e indifferenziata, profonda e “poetica”, di emozioni e sensazioni, asprezze e inquietudini, volti e corpi posizionati nel caleidoscopio mostruoso di un quotidianità malata, in cuoi ogni elemento presente, da quello primario a quello ultimo, da quello diegetico a quello extra-diegetico serve per raccontare uno spazio-ambiente multiforme e tentacolare orchestrato sul registro del “vuoto” e capace di restituire, attraverso la quotidiana banalità del Male, un orrore senza fine sospeso e intangibile ma presente ed endemico. Il discorso di Gomorra parte dall’estetica (del manifesto ma non 398
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solo) per giungere al cuore di una realtà aliena e nullificata che appare tremendamente normale nel suo reiterato orrore esistenziale. Anche il film di Ferrara nella scelta dei titoli di testa, nella declinazione trinitaria del nome della città, e nella scelta del carattere minuscolo, posta in “arial” bianco su sfondo nero, al temine di un prologo in cui la prima immagine è quella “rovesciata” del riflesso di uno specchio che mostra l’interno di un carcere, evidenzia l’intento, anche, simbolico dell’intera operazione. Quello di Gomorra è un manifesto nero su cui “esplode” la scritta fucsia Gomorra, scritta con caratteri “impact” e pesante come un macigno. Il nero è quello dell’assenza, degli anfratti di Scampìa, del baratro dell’esistenza, della morte improvvisa e banale, del sonno della ragione, dello stato che non c’è. Il fucsia, violento e invadente delle canzoni di Gigi D’Alessio e dei cantanti neo-melodici, dei trucchi troppo marcati sui visi di giovani donne già troppo vissute, delle magliette “Made in America” che servono per giocare a Scarface, delle docce solari che trasformano in “mostri”, delle macchine truccate che attraversano luccicanti l’inferno delle “Vele”. Gomorra potrebbe già essere tutto nell’estetica del manifesto, un contrasto allucinante dell’oscurità che nasconde e del colore che esplode, contraddizione che riecheggia il perbenismo e la compostezza di Franco (Tony Servillo) l’imprenditore della camorra che smaltisce i rifiuti con l’aiuto delle braccia nere della schiavitù e con i colori vivaci delle magliette dei piccoli Rom che guidano i camion, ma anche il divertimento e la spensieratezza dei “piccoli gangster” che nel nero bruciato delle ville di Casal di Principe (quella di Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, ricalcata su quella di Scarface) diventano emuli coloratissimi di Tony Montana e giocano a fare la guerra ai colombiani virtuali. In Napoli Napoli Napoli non si spara mai, la morte è qualcosa di corporeo che avviene per strangolamento, mentre la violenza è sotterranea, nelle voci, nelle grida, nei racconti delle giovani e giovanissime detenute, nelle lacrime dello stupro finale e nei gesti della rissa in cella. In Gomorra, invece, si spara nel vuoto del cielo plumbeo che sovrasta un mare che odora di morte; si spara di fretta perché non c’è tempo e la vita va bruciata il più in fretta possibile; si spara nei solarium, dove i “divi” della camorra emulano i divi televisivi e tra una manicure, una lampada, e una cura alle sopracciglia, improvvisamente arriva una pioggia di pallottole a stroncare sogni mai esistiti. In Gomorra si spara nel profondo della terra, sotto la superficie, perché è li che si diventa “grandi”, mentre in Napoli Napoli Napoli si cre399
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sce attraverso un omicidio su commissione, quello di Carmine un infame cha ha tradito, e la crescita dei due giovani sicari è sia esistenziale che gerarchica. In Gomorra si spara tra le barriere di Scampìa perché qualcuno l’ha deciso e c’è sicuramente qualcuno pronto a farlo perché “O sei con noi o sei contro di noi”; si spara per diecimila euro perché questo è il prezzo che vale una vita umana, poi, forse, arriva anche la motocicletta e allora “Il colpo vale la pena”. Si spara e basta con armi sempre uguali e sempre diverse, che fanno rumori secchi, che sono lorde di sangue, che si nascondo sotto la maglietta taroccata o che si tengono su con l’elastico delle mutande. In Gomorra “si fa del bene”, si aiutano gli amici che in cambio ti cedono un terreno dove puoi scaricare le scorie delle fabbriche; si favoriscono gli imprenditori del Nord che vogliono risparmiare sullo smaltimento dei rifiuti tossici e a cui importa solo “Che il lavoro sia clean, come dicono gli americani”, perché in fondo è “Così che funziona il sistema” e per salvare un operaio di Mestre bisogna far morire di tumore una famiglia a Mondragone. In Napoli Napoli Napoli si avverte l’odore acre e pungente dell’ingiustizia ma è impossibile da decifrare perché le parole sono quelle delle detenute e l’occhio di chi guarda non è mai esente da pregiudizio, anche quando una ragazza dai tratti mascolini dichiara: “Giovanna Rivoli. Sto qua per 1.100. Intendevo spacciare. Per l’intenzione sto qua.... Però avendo altri recidivi sto qua...”. Nel film di Ferrara c’è lo sfruttamento, il ricatto, la minaccia, tutte cose che spingono a delinquere perché il contraltare di queste è rappresentato dalla paura. In Gomorra si va a lavorare per i cinesi, perché pagano di più, ma bisogna mettere in conto che gli amici possono non gradire e che una pallottola può sempre arrivare. Si deve scegliere, se stare con gli scissionisti o rimanere con il proprio clan perché “C’è la guerra e tu non ne puoi stare fuori”. In Gomorra, come in Napoli Napoli Napoli, si assolvono tutti e non si condanna nessuno (ma vale anche il ragionamento inverso), perché tutti sono responsabili, ma nessuno di loro si sente tale. Nel film di Ferrara, una delle detenute dichiara in merito alla camorra: “La camorra siamo noi. Io sono vittima e sono parte della camorra”, mentre, subito dopo, il giornalista del “Roma” dice che ormai la camorra viene alimentata quotidianamente, perché è integrata nel tessuto sociale ed economico della città, per cui prendendo un caffè in un bar del centro o mangiando in un ristorante, molto probabilmente, si contribuisce a foraggiare la criminalità organizzata. Nel film di Ferrara viene raccontato che quello che 400
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conta nella declinazione de “O’ sistema” sono solo ed esclusivamente i soldi, come spiega il magistrato in uno dei pochi ed efficaci passaggi interessanti della sua intervista. Le donne sono in carcere per rapine, furti, spaccio, tutte attività legate all’acquisizione di denaro: così, come in Gomorra, dove si contano i soldi, a mazzette, a montagne, a spiccioli, e se poi finiscono, si può sempre fare una rapina. In Napoli Napoli Napoli come in Gomorra il Male è quotidiano, nascosto nella routine, vivo nei balli, chiuso negli abitacoli delle macchine, seduto negli uffici delle aziende, nascosto dietro le porte posticce delle “Vele” o chiuso dentro gli angusti retrobottega intasati dalle macchinette video-poker in cui assieme ai soldi se ne vanno la felicità e la vita stessa; ti aspetta su una spiaggia deserta, ti sbuca alle spalle, ti scopre dietro un finestrino rigato dalla pioggia, ti rapisce mentre sei tra le braccia di una prostituta…è ovunque e in nessun luogo. Lo stato è un ombra nella folla, un scritta sulla fiancata di una macchina metà azzurra e metà bianca, un lampeggiante che brilla nella notte fatiscente che scende dentro le “Vele” anche durante il giorno. Lo stato non c’è, perché “Il sistema funziona così”. E così l’occhio dello spettatore di fronte ai due film reagisce allo stesso modo a seconda di dove si trovi e di che ruolo sociale rivesta. Non a caso Abel Ferrara rimarca che il suo film (ma anche Gomorra) non è per gli Italiani, perché il nostro occhio ormai è assuefatto e rassegnato da decenni e decenni di malcostume alla visione miope della realtà mostrata. L’occhio dello spettatore italiano di fronte a Napoli Napoli Napoli non è diverso da quello che si pone di fronte a Gomorra e che può essere riassunto così: L’uomo del Nord vede Gomorra e dice che ha Napoli è così. L’uomo del Sud vede Gomorra e dice che a Napoli è così, ma che dal Nord inquinano i nostri terreni. Il contadino vede Gomorra e dice che per mangiare si può vendere un terreno a chi vuole smaltire i rifiuti, tanto poi si copre tutto e si semina di nuovo. L’imprenditore vede Gomorra e dice che smaltire costa troppo, quindi se si può risparmiare è meglio, l’importante “È che sia clean, come dicono gli americani”. L’Italia vede Gomorra e dice “Che il sistema funziona così”, ma che è meglio non fare troppa pubblicità negativa all’estero perché se no poi i turisti non vengono più nel Belpaese. Lo straniero vede Gomorra e ha paura… Emozione che non è differente di fronte al film di Ferrara che, nonostante abbia alcuni temi in comune con quello di Garrone, non ambisce mai ad essere né risolutore né, tanto meno, definitivo (in questo perfettamente allineato con Gomorra), né ad offrire un 401
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affresco a tinte plumbee e sanguinarie di una realtà banalmente “alinea”. Napoli Napoli Napoli nel suo essere infinitamente inferiore a Gomorra (ma non è un difetto ma solo un dato di fatto) cerca di capire e di spiegare “agli altri” il tessuto esistenziale ed emotivo della città partenopea. Per fare ciò ricorre ad una struttura a blocchi in cui si susseguono i vari ambiti di approfondimento che possono essere così individuati: immagine, vita, architettura, merce, dignità e animalità. L’ “immagine” è quella dei primi piani delle detenute della casa circondariale sezione femminile di Pozzuoli, dal cui volto e dalle cui parole, emerge la banalità ineluttabile del Male, tra fatalismo e stereotipo, all’interno di un sistema di regole diverse da quelle convenzionali. L’immagine che proiettano queste donne dal volto scavato dalle rughe, dai capelli scarmigliati, dai denti mancanti e dall’orrore di una vita vissuta molto diversa da quella sognata e intrisa di un destino già scritto che emerge dai loro occhi, è contemporaneamente così vicina e così lontana da quella delle donne che affollano gli studi televisivi delle trasmissioni pomeridiane e che trasmettono angoscia esistenziale e smania di apparire, finzione della recitazione di un ruolo pre-scritto e forzata spontaneità. Donne quelle del carcere di Pozzuoli che non hanno studiato, che hanno abbandonato la scuola, che non leggono libri se non uno dal titolo emblematico “malavita” e che delinquono per mantenere famiglie troppo numerose o bambini venuti al mondo quasi per caso. Donne che vivono nel miraggio del mondo di plastica proiettato dalle televisioni, non a caso sempre accese nelle parti di fiction del film, incapaci di distinguere la realtà dalla finzione se non quando la prima le schiaccia con tutto il suo peso che diventa insostenibile per donne cresciute troppo in fretta senza possibilità di trovare gli strumenti per districarsi onestamente in una vita di rinunce e sofferenze. Vittime di un sistema certo, ma consapevoli dignitosamente della loro condizione di reiette per la quale stanno pagando oltre misura, ma desiderose comunque di una prospettiva di futuro migliore. Abilmente Ferrara lega queste immagini di detenute con quelle del documentario Napoli Sessantasei, il cui incipit recitato dalla voce-off afferma: “Napoli, una metropoli, una ex-capitale, un milione di abitanti e un milione di televisori”, sintetizzando puntualmente gli stessi aspetti testuali evocati da Napoli Napoli Napoli. Incipit che dà il via al secondo blocco del film, quello in cui il regista newyorkese intende narrare la “vita” della metropoli partenopea. La voce-off di Napoli Sessantasei prosegue dicendo: “Napoli è una città impenetrabile, uno dei 402
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comuni più piccoli d’Italia come estensione...”, evidenziando la dimensione-carcere della conformazione urbanistica e al contempo il sovraffollamento delle aree edificate. Ferrara introduce qui l’inizio della fiction che mostra la disgregazione e l’indifferenza familiare, in cui la madre subisce le angherie del marito alcoolizzato e i figli vivono allo sbando felici solo per la paghetta settimanale ricevuta e da dividere di nascosto dalla vista del padre. Seguono le intervista parallele a Maurizio Braucci, scrittore e tra i fondatori del DAMM un centro sociale occupato il cui acronimo vuol dire “Diego Armando Maradona Montesanto” e Alberto Paolo, caporedattore del settore cronaca del “Roma” di Napoli che vive nel quartiere collinare. Il centro sociale sito nel quartiere di Montesanto appunto, già nel nome ha un richiamo popolare, perché come spiega Braucci, dal momento dell’occupazione da parte di cittadini del quartiere, l’intento è stato quello di trasformare l’ “isola” (basta vedere i giardini interni) in un luogo capace di rappresentare un’opportunità per giovani e non, attraverso laboratori di giocoleria, teatro e cineforum, perché: “Questo è un posto che sulla carta sarebbe illegale ma di fatto è uno dei posti più legali della zona”. La voglia di combattere, di provare a cambiare le cose giocandosi in prima persona di Braucci è messa a confronto (attraverso il montaggio alternato) con la disillusione e la rassegnazione del giornalista che vive in un quartiere “bene” che è diverso dagli altri solo perché: “Qui ti rapinano meno spesso”, e che sembra aver interiorizzato la sua condizione di carcerato obbligato a vivere in una città-carcere, in attesa della possibilità di evasione, perché: “Questo non credo sia il posto migliore per fare crescere i figli”. Il terzo blocco del film è quello con il richiamo all’ “architettura” e alle sue colpe (presunte e reali) e si apre con le parole e le note della canzone “In Napoli “ cantata da Dean Martin, mentre le immagini dei bombardamenti americani del’44 scorrono come a voler ascrivere a quel momento storico le origini dei mali della città; una politica locale spiega come “la liberazione” abbia rappresentato paradossalmente l’inizio della “prigionia”: “perché da quel momento i napoletani hanno capito che si dovevano vendere a qualcuno”, e non a caso nel primo dopoguerra ad emergere è il populismo di Achille Lauro, armatore, editore e politico, già presidente del Napoli Calcio, detto “il Comandante”, eletto a sindaco di Napoli dal 9 luglio 1952 al 19 dicembre 1957, un uomo tanto amato quanto discusso in particolare per come gestisce la cosa pubblica mostrando mancanza di considerazione nei confronti degli avversari politici, delle 403
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forze sociali e degli stessi compagni di coalizione. Durante il suo mandato ha inizio la speculazione edilizia nella città di Napoli, ed egli è stato capace di “comprare” i napoletani attraverso promesse e chili di pasta e di salsa al pomodoro. E proprio il sacco edilizio della città è al centro del racconto di Napoli Sessantasei, in cui Marsili non si sofferma superficialmente solo sugli aspetti deteriori dell’edilizia pubblica ma cerca di spiegare la mostruosità non dell’architettura in sé, ma dei suoi mezzi se legati, esclusivamente, al culto del profitto. L’interlocutore spiega infatti: “Quando si parla dell’architettura moderna in generale si equivoca sul suo significato... e cioè si crede che l’architettura moderna siano i mezzi dell’architettura moderna e non le sue realizzazioni. Noi possiamo dire che i mezzi sono splendidi... ma la loro applicazione sottoposta all’ economia di consumo è la peggiore che si possa considerare dal punto di vita dell’interesse umano”. A questo ragionamento logico e geometrico, Ferrara contrappone quello istintivo e “di pancia” di Vittorio Passeggio, presidente del Comitato Riqualificazione di Scampìa, il quale, nelle sue parole, ascrive all’architettura stessa delle “Vele” la responsabilità del degrado umano che le abita: “Queste megastrutture nelle intenzioni degli architetti dell’epoca dovevano rappresentare uno sfogo per la città di Napoli in espansione... ma, già solo per la struttura ad “H” e per come sono costruite, abbiamo ottenuto alle Vele l’effetto carcere”. Discorso abbastanza pretestuoso e velleitario, visto che l’architettura in se non è “malvagia” ma è l’utilizzo che di essa si fa e le modifiche progettuali che si succedono nel tempo unite ad una dislocazione demografica di “convenienza” e fuori dalle regole e dai parametri individuati sulla carta, a determinare il disastro sociale, e, come sempre, prima di esprimere giudizi è importante ripercorrere la storia e le intenzioni alla base dell’edificazione delle sette megastrutture del quartiere a nord di Napoli. Scampìa, con i suoi 10.000 abitanti è per numero la quarta città della Campania dopo il capoluogo, Salerno e Torre Del Greco, e le sette “Vele” (di cui oggi ne rimangono solo quattro) sono destinate al contenimento di 1200 nuclei familiari. Il progetto delle “Vele” elaborato dal 1972 al 1974 su incarico della Cassa del Mezzogiorno da un gruppo di stimati professionisti e docenti universitari, coordinati dall’architetto Franz Di Salvo, confluisce nel piano regolatore di Napoli del 1972. Sulla carta i progetti di queste aree sono estremamente interessanti, se non rivoluzionari. Per esempio, al momento del loro concepimento, le sette “Vele” di Scampìa (ultimate nel 1982) sono unità abitative 404
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di concezione estremamente ardita, che vogliono realizzare intenti quasi “utopici”. Come in molti casi simili, l’intenzione del progettista è evidentemente quella di plasmare le forme della convivenza civile nelle forme delle strutture architettoniche: le “Vele”, in grado di ospitare centinaia di nuclei familiari, devono divenire veri e propri edifici-rione, favorendo l’integrazione tra gli abitanti. Attorno, la disposizione urbanistica prevede grandi viali di scorrimento rapido (mai realizzati) che consentono collegamenti veloci ed agevoli, mentre le grandi torri abitative divise da parchi e giardini permettono la divisione tra funzioni abitative, amministrative e commerciali. Scampìa inizia a popolarsi tra il 1976 e il 1977. Dopo il terremoto del 1980, che colpisce anche Napoli, ai vincitori dei bandi di case popolari si aggiungono numerose famiglie che provengono dalle altre periferie e dal centro storico della città colpito dal sisma. In realtà nelle “Vele”, nei palazzi dei lotti “L” ed “M” pochi sono gli abitanti che vi si insediano in quanto assegnatari di quelle abitazioni. Molte invece sono le famiglie che occupano le strutture: i senzatetto storici, gli abitanti temporaneamente sistemati qui dal programma straordinario post-terremoto (che vi risiedono tutt’oggi), altre famiglie di disperati che occupano gli spazi al pian terreno degli edifici i quali non sono adibiti ad uso abitativo. Un insieme di famiglie, monoclasse, in larga misura uomini e donne disoccupati, totalmente prive del concetto di integrazione sociale, accomunate dall’esigenza pressante di avere un tetto sulla testa e caratterizzate da un basso livello reddituale. Ecco dunque che il risultato di questo progetto “ambizioso e mancato” non può essere altro che quello di un alveare di celle dislocate senza soluzione di continuità, che non a caso il regista mette a confronto (ancora con il montaggio alternato) con quelle della fiction di Gaetano Di Vaio. Il paradosso è quello che la vita nella cella del carcere ricavata dall’esperienza dello stesso Di Vaio, appare più coordinata, ordinata e persino con delle regole (come mostra il momento della colazione) rispetto a quella vissuta quotidianamente nelle “celle” di Scampìa, dove quello che conta è solo ed esclusivamente “farsi i fatti propri”. La speculazione edilizia e i suoi mali ritornano in apertura del quarto blocco del film quello in cui l’essere umano diventa “merce”. Il segmento si apre con l’intervista alla presidente del G.RI.DA.S. Un centro sociale sito nel quartiere INA-Casa che prende il nome dal piano edilizio omonimo varato dallo stato italiano nel 1949. La donna spiega: “Il nostro sogno fondando il G.RI.DA.S era quello di cercare 405
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di svegliare... di risvegliare la coscienza delle persone, perché G.RI.DA.S. Vuol dire “Gruppo Risveglio Dal Sonno”, con riferimento alla frase di Goya che “il sonno della ragione genera mostri”, perché qua c’è un nevrosi pazzesca, la gente non parla normalmente ...urla...” Mostri che secondo Ferrara sono generati dalla mercificazione dell’esistenza in cui ogni ambito è compreso nel processo economico che trasforma in merce anche le istanze spirituali oltre a quelle materiali. Emblematico a tal proposito è lo stacco tra la teca verde fosforescente in cui è contenuta una statua della Vergine Maria e il piano che mostra l’incedere su dalle scale della giovanissima figlia-prostituta, anche essa, a suo modo, “pura” nella sua colpa. Ma il rapporto tra corpo, religione e mercimonio non si ferma a questa facile associazione di immagini ma si integra con la ripresa di un manichino (dalle fattezze simili a quelle della prostituta) chiuso nella vetrina di un negozio (come la teca della Madonna): tanto Maria, quanto la prostituta sono “merce” a disposizione per un uso utilitaristico e di convenienza ammantato di ipocrisia e perbenismo di facciata ma che dietro nasconde l’orrore e la frustrazione degli uomini scatenati e rabbiosi di fronte ai video-poker, avvinghiati alle macchinette con la stessa forza ed energia con cui tengono in mano le bottiglie di birra, altra merce, utile per dimenticare la sofferenza e per dimenticare se stessi. Il quinto blocco di Napoli Napoli Napoli è quello più complesso e coinvolgente, talmente sincero da rischiare di essere frainteso e di essere inteso in senso mellifluo e sentimentalistico. Mentre le tre storie di fiction si avviano, tra tensione e attesa, verso un tragico finale, il blocco incentrato sulla “dignità” mette a confronto la storia struggente della giovane nigeriana: “Sandra, 27 anni. Mia famiglia composta di undici persone, nove figli. Io studiavo medicina in Nigeria. (…) In Nigeria non conoscevo la droga. Non ne ho mai fatto uso. Ho conosciuto qua la droga. Quelli che mi hanno portato qua li devo rimborsare. E per rimborsare i devo prostituire...”, con l’esperienza dell’imprenditore Giorgio Lanzillo che dice che per fare impresa a Napoli: “C’è un prezzo da pagare che è alto. È difficile lavorare qui”. Storie, entrambe, ricolme di infinita dignità, in cui la giovane donna nera appare tremolante, impacciata, con il suo sguardo che esprime tutto il dolore e la sofferenza repressi, mentre le sua mani si agitano nervosamente e sembrano cercare le parole per riempire le pause del suo discorso; l’uomo invece, sicuro e duro nella saggezza dettata dall’esperienza dei suoi settantanove anni, rimarca il desiderio di attraversare le difficoltà per coltivare il sogno di produrre e lavorare nella 406
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propria terra. La merce non può essere scambiata con la dignità: il dolore fortifica il cuore e la forza di volontà diventa motrice nel desiderio inesausto di continuare a lottare per sé e per gli altri. La giovane immigrata e l’anziano imprenditore, infatti, sono accomunati dal desiderio feroce di non arrendersi e per entrambi valgono, aglio occhi di Ferrara le parole pronunciate da Lanzillo in merito alla sua scelta controcorrente: “C’è stato il prete di Forcella che disse: “Fuitevenne”, scappate via. Pare la cosa più facile. Io dico che bisogna rimanere qua, combattere... e anche chi sta in carcere perché... ma non è detto che debba sempre essere un emarginato... Ma certamente, una cosa non si può fare, sarebbe la fine.. arrendersi...”. Il sesto e ultimo blocco, che non a caso, non contempla aspetti documentari, ma è sintesi univoca dell’epilogo delle tre storie di fiction è volto a rappresentare l’ “animalità” dell’uomo, intesa come conseguenza ineliminabile di una vita costruita e vissuta all’interno di una città-carcere. Le tre storie si chiudono con l’esplodere della violenza; una violenza che Ferrara mostra come il risultato di un percorso repressivo della rabbia, crescente con il susseguirsi delle frustrazioni, atavica nel suo essere antropologicamente inaccettabile e persino brutale nelle sue manifestazioni. La rissa in carcere, lo stupro incestuoso della figlia “travestita” da giovane prostituta da parte del padre e l’esecuzione fredda e vigliacca di Carmine, sono i tre anelli che chiudono la catena del racconto “carcerario” di Napoli. Dopo l’orrore mostrato in tutta la sua freddezza e asetticità, talmente banale nella sua ordinarietà da risultare endemico, privo di ogni effetto emotivo e scarno nel mostrare il dolore delle vittime, non bastano neanche lo sguardo e il sorriso della ragazza detenuta che dice di ricercare una “vita migliore”, per mitigare il pessimismo di fondo che attraversa Napoli Napoli Napoli, e al termine del viaggio delle tre città, piaccia o non piaccia, quella che rimane di più nella memoria, purtroppo, è la stessa rappresentata da Gomorra attraverso la vita quotidiana nell’ “antro infernale” delle “Vele” di Scampìa, perché napoli (volutamente in minuscolo) non può essere scissa dalla sua periferia come il suo cuore non può essere separato dalla sua anima. I titoli di coda scorrono sulle immagini, in montaggio alternato, tra la preparazione delle interviste tra il regista e le detenute del carcere di Pozzuoli e le riprese del concerto tenuto da Ferrara e Francis Kuipers durante il festival “Lo Sguardo di Ulisse”, tenutosi nei Quartieri Spagnoli, nel Luglio del 2007, in cui Ferrara interpreta una versione rock ‘n’ folk di “King of New York” di Schoolly D. 407
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4:44 Last day on earth (2011) In un grande appartamento in cima alla città, abita una coppia. Si amano. Skye (Shanyn Leigh) è pittrice, Cisco (Willem Dafoe) un attore di successo. È un pomeriggio come tanti apparentemente, ma in realtà non lo è nè per loro, nè per chiunque altro, perché tutta l’umanità è in attesa della fine. Gli schermi televisivi rimandano notiziari, interviste ad esperti e dibattiti sull’imminente catastrofe. Alle 4:44 del mattino dopo, secondo più, secondo meno, il mondo finisce più velocemente di quanto si possa immaginare. La causa è l’assottigliamento irreversibile dello strato di ozono che protegge la terra. Fuori, nel mondo reale, non quello mostrato attraverso le immagini dei supporti audio-video c’è chi si suicida prima del tempo, chi continua la vita di sempre, il traffico è ininterrotto, chi cerca conforto nella droga. Skye e Cisco continuano ad amarsi, accarezzando le loro nudità come alla ricerca di un qualcosa, di un essenza perduta, e tra ricordi di infanzia, aneddoti di gioventù, quadri realizzati senza soluzione di continuità, vestiti tolti e rimessi, il tempo trascorre inesorabile. Una telefonata via Skype irrompe nella vita della coppia e li destabilizza. La ex moglie di Cisco parla con luomo che le confida di averla sempre amata. Skye ascolta le parole del compagno e scoppia in una crisi isterica. L’uomo esce di casa e la donna chiama sua madre (Anita Pallenberg) via Skype per confidarsi. L’uomo va a trovare suo fratello (Paul Hipp) e per poco non ricade nella tossicodipendenza: scoperto da Skye getta via la bustina e le chiede perdono. Il momento fatidico è ormai giunto, i preavvisi cominciano a farsi sentire. Skye e Cisco, come la maggior parte della popolazione mondiale , hanno ormai accettato il loro destino, non resta che abbracciarsi ed amarsi. “Il film nasce da alcune riflessioni che feci tempo addietro. Alcuni anni fa mi fermai a pensare e a riflettere sullo scorrere del tempo. Ma quella del film non è un’idea pazzesca, non so come sia venuta, non so in generale da dove mi vengano le idee ma ci sono e lavorano. Due sole cose sono cere: le tasse e la morte. Delle tasse si occupa il fisco, della morte non si sa chi. Sappiamo che ci capiterà, ma accantoniamo l’idea. Finchè qualcosa un giorno ce la rammenta di colpo. A me successe un paio d’anni fa durante un volo che mi portava proprio qui a Venezia. L’aereo ha avuto dei problemi, sono scese le maschere d’ossigeno. Sto per morire mi sono detto. Poi abbiamo ripreso quota. Sono qui. La morte può attendere. Il momento terminale è quello limite e il film è ambientato poco prima che tutto finisca. Nel momento in cui il mondo scompare, tutto il mondo non può fare altro che 408
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affidarsi a ciò in cui crede. Per questo, nell’appartamento molti sono gli oggetti riconoscibili dai protagonisti, è quasi come se li rappresentassero. La fine del mondo avviene per implosione, è una specie di bomba interiore. Ci si chiede come si reagisce nel momento in cui si sa che la propria vita, che la vita di tutti finisce. Ho voluto rappresentare la serenità, è molto importante ricercarla in se stessi. Quando sai che il mondo finirà non pensi ad altro che a come arrivare alla fine, con serenità, certo, ma nel frattempo si vive. Anche io cercherei di salvarmi a tutti i costi, poi se proprio non ci fosse via d’uscita, farei come Cisco, il protagonista del film. Mi chiuderei in casa con la mia donna. A parlare, dipingere, fare l’amore. Insieme, fino all’ultimo secondo. Nel film è presente l’aspetto scientifico, ho consultati degli esperti del settore, ma non volevo fare un documentario, non era quello che mi interessava. La nube verde del film è una vera aurora boreale, non l’ho creata al computer. Secondo alcuni esperti l’effetto visivo potrebbe essere quello. Ma nessuno vuole dire troppo sul buco dell’ozono. Non vogliono spaventarci, ma è certo che dilaga nonostante continuiamo a prenderlo sottogamba. Alcuni anni fa Al Gore ha chiamato alcuni registi a lavorare sul riscaldamento globale. Queste ipotesi catastrofiche non sono fantascienza ma scienza. La fine del mondo non avverrà per un incidente nucleare, né perché Dio ci punirà. Sarà solo responsabilità di noi uomini distruttori e avvelenatori del pianeta. Li abbiamo consultati e gli esperti sono stati entusiasti e ci hanno consigliato: “Ottimo, ma meno se ne parla meglio è”. Allora abbiamo fatto ricorso alla spiritualità del Dalai Lama. Quella che nel film è rappresentata dalla comunicazione, dai vari supporti su cui scorrono le immagini, i contatti con le persine care e non, è la multimedialità e la multimedialità è il mondo, ti permette di essere in contatto come chiunque in qualunque momento. Oggi i giovani vivono col mondo ai loro piedi, hanno il cellulare, internet, la web-cam. Ma non lo imparano, questo mondo, ci sono nati e il film riproduce la realtà di oggi. Questo contribuisce a dare serenità, ma anche a far crescere l’angoscia per la perdita di tutto e tutti. Come dice il Dalai Lama nel film: “Noi esseri umani siamo quasi come il creatore, come il controllore del mondo; per mezzo di tecnologia, per mezzo di scienza possiamo fare tutto, qualsiasi cosa... non comandiamo la natura. Penso che noi esseri umani crediamo di essere qualcosa al di sopra di natura. Penso che è sbagliato. Dopotutto siamo parte della natura, e così è molto chiaro, vedete abbiamo la responsabilità di prenderci cura dell’ambiente, della natura perché alla fine siamo parte della natura e del suo equilibrio, e di conseguenza possiamo cambiarlo in modo drammatico....”. Ciò che ho imparato è parola per parola, frammentato, attraverso lingue diverse, più o meno sgrammaticato, più o meno fuori contesto, ecc. Quando il messaggero è puro, il messaggio la vince. Nel fare il film ho provato a eliminare di rappresentare ciò che è successo, ma poi quando si parla dell’umanità che viene a termine e non capisce 409
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come fare per potere evitarlo, non puoi non mostrare le reazioni. Non c’è una colpa di Dio, una punizione divina... È l’uomo, siamo noi, siamo noi che l’abbiamo fatto, non ce ne siamo accorti ma l’abbiamo fatto. La distruzione del mondo è opera dell’uomo. Non è che ci possiamo dire: “Questo non succederà mai... Non possiamo farlo...”126
Dopo alcuni anni dedicati alla realizzazione di documentari e docu-fiction, Abel Ferrara torna alla regia di un film di finzione, girato in digitale e scritto direttamente (e solamente) da lui. In 4:44 Last Day on Earth si avverte l’urgenza di una necessità di esprimere direttamente un racconto dai tratti autobiografici, che chiude in Cisco la rappresentazione di un alter-ego a distanza, concentrato sulla ricerca di un sé interiore. L’ultimo film di Ferrara equivale ad una seduta di autoanalisi in cui il regista e il suo “doppio”, l’attore-feticcio (in questo caso Defoe) si sublimano in un’unica rappresentazione archetipica: quella dell’uomo solo di fronte alla catastrofe. Non a caso, nel realizzare questo nuovo film il regista convoca tutta una serie di persone a lui legate da affetto e amicizia: dalla fidanzata (ora ex) Shanyn Leigh agli amici Willem Defoe, Paul Hipp e Anita Pallenberg, passando dai collaboratori di sempre Ken Kelsch alla fotografia e Anthony M. Redman al montaggio, per finire con i colleghi di recente contatto/amicizia come Frank De Curtis alla scenografia e Francis Kuipers alle musiche. Un film “in famiglia” dunque, chiuso claustrofobicamente tra le quattro pareti del loft che, anche simbolicamente, domina New York. Una casa-studio-caverna equivalente ad una scatola in cui il pavimento e le pareti confluiscono nel soffitto (e viceversa) e in cui gli oggetti presenti sono sia rappresentativi del carattere dei due personaggi sia rassicuranti perché facilmente riconoscibili da loro stessi. Il loft è ossessivamente chiuso su se stesso, come mostra lo snodarsi dei lenti piani sequenza che lo attraversano per descrivere l’azione: uno spazio criptico e “proibito” in cui dell’esterno si ha visione solo attraverso i supporti tecnologici (I-Phone, Skype, videocitofono, tv, I-Pad, computer) mentre dall’esterno proviene solo una polifonia di rumori indistinti. 4:44 Last Day on Earth è dunque un film “in famiglia”, ma in cui, paradossalmente, la famiglia, quella vera, è assente, perché si è lentamente scomposta lungo la via dell’esistenza, e ora, i vari “pezzi” sono raggiungibili solo 126
Dichiarazioni del regista durante la conferenza stampa di presentazione del film alla 68ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia , 7 Settembre 2011.
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attraverso la tecnologia; frammenti di realtà che irrompono in una quotidianità, apparentemente, serena non attraverso la fisicità dei corpi di fratelli, madri, ex mogli...ma solo mediante l’immagine degli stessi rimandata dalla continuità e contiguità degli schermi. Questa volta, il moltiplicarsi dei punti di vista, la sovrapposizione di vari formati e l’intrecciarsi di immagini diverse ma legate dall’unicità della descrizione di un momento limite e definitivo, non sono solo una necessità legata ad uno stile registico, ma servono ad Abel Ferrara per intrecciare esperienze di visioni multiple volte a dare un quadro immanente del comportamento dell’umanità nelle ultime dieci ore della sua esistenza. La scelta, pur seguendo una forma disarticolata, e talvolta prevedibile (è inevitabile che raccontando tutta la storia dall’interno, l’esterno non vi trovi spazio) sembra essere un omaggio a Nicholas Ray e al suo ultimo film sperimentale We Can’t Go Home Again (id., 1971-’73). Il film, iniziato a girare nel 1971 assieme agli studenti del Harpur College è un lavoro collettivo in cui la commistione dei formati e della struttura narrativa trovano definizione in una eterogeneità espressiva segno della lucidità artistica del vecchio regista, che si mette in gioco, alla fine della sua carriera, di fronte ai suoi allievi, insegnando loro attraverso la pratica e non la teoria, come realizzare un film. We Can’t Go Home Again presenta uno sfondo fisso di un paesaggio cittadino su cui si alternano più immagini contemporaneamente, sovrapponendosi le une alle altre. Non si tratta di un banale esercizio di split-screen bensì di un’esperienza visiva in cui inquadrature multiple all’interno dello stesso quadro anziché avere la precisione geometrica dello split-screen danno vita ad una astrattezza anarchico-figurativa che porta l’operazione lontano dal cinema e vicino alla pittura come dimostrano i continui bagliori di luce che attraversano lo schermo. Il lavoro di Ray e dei suoi studenti è in definitiva un confronto attraverso lo schermo, tra due generazioni di cineasti, riassumibili, a distanza di anni nel “vecchio” regista e “giovane” filmaker. In We Can’t Go Home Again ogni elemento visivo viene risucchiato dallo schermo all’interno del quale i punti di vista e quelli di fuga dello sguardo si moltiplicano vertiginosamente come alla ricerca di un impossibile visione assoluta e totalizzante. Seguendo le orme di Nicholas Ray, Abel Ferrara nel suo film, cerca di dare la stessa visione, senza mai uscire (se non incidentalmente) fuori dall’appartamento di Cisco e Skye. L’esterno mostrato dall’intrecciarsi delle immagini provenienti dei supporti tecnologici mescola la piazza con l’individuo, la collettività con il 411
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singolo unificando i due estremi nell’attesa di un momento sospeso e potenzialmente infinito: quello della fine del mondo. A differenza di Ray però, Abel Ferrara ascrive alla tecnologia quell’aspetto parodistico, perenne costante all’interno del suo cinema, alternando alle riflessioni serie e profonde del Dalai Lama, le sgrammaticate immagini degli amici di Cisco seduti nella loro casa, il pessimismo profetico ed ecologista di Al Gore che parla in un dibattito televisivo con quelle in bassa definizione della madre di Skye e della ex-moglie di Cisco. L’intento, chiuso all’interno della rappresentazione conflittuale dei due ambiti (quello collettivo e quello individuale), è evidente evocazione dell’impotenza della tecnologia: se, infatti, le parole provenienti dagli schermi altro non fanno che integrare la polifonia proveniente dall’esterno, quelle provenienti dagli schermi “privati” alterano l’equilibrio della coppia come esplicitato nella telefonata di Cisco alla exmoglie e dalla successiva reazione isterica di Skye. Gli schermi nel loft, sono sempre accesi, e continuano a proporre immagini nell’indifferenza generale, ma le immagini televisive e/o in super-8, s’intrecciano all’interno della narrazione anche attraverso la proposizione dei ricordi. Nel momento ultimo e definitivo infatti, quello che resta, prima dell’implosione, sono i ricordi, che in 4:44 Last Day on Earth hanno la funzione di sondare il concetto di limite, qui inteso come momento estremo, una volta superato il quale, non è più possibile tornare indietro; limite, quindi, che non è zona di confine ma linea oltre la quale tutto diventa irreversibile. La linea, può anche essere dunque quella del touch down, che in una partita di football americano segna il limite oltre il quale viene segnata la meta, quella che allo scadere del tempo può diventare rappresentazione di una vittoria o di una sconfitta. Non è casuale dunque, che uno dei ricordi di Cisco, evocati nel film mentre l’uomo, sdraiato sul letto accarezza il sedere nudo di Skye, sia quello di un’incredibile e storica partita di football americano, perché in quella partita, giocata al limite della morte, sono gli ultimi secondi a ribaltare un risultato già scritto e a certificare il limite irreversibile tra la gioia dei vincitori e il dolore degli sconfitti. La finale di Conference del 1967 è da un lato rappresentazione della passione umana (in questo caso quella sportiva) e dall’altro simbolo di uno spazio sospeso tra la vita e la morte, come sono le ultime dieci ore che costituiscono la struttura narrativa di 4:44 Last Day on Earth. Il 31 dicembre 1967 si gioca la finale di Conference che da accesso al Superbowl II, al Lambeau Field di Green Bay nel Wisconsin: la finale 412
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della National Football League vede di fronte i Green Bay Packers campioni della Western Conference, e i Dallas Cowboys campioni della Eastern Conference. A causa delle avverse condizioni climatiche la partita è passata alla storia come l’ Ice Bowl ed è considerata uno dei match più memorabili nella storia della NFL. I Packers hanno precedentemente vinto due campionati del mondo consecutivi nel 1965 e 1966 (anno del primo Superbowl), ma le due squadre che si disputano il titolo di Conference hanno come allenatori due tra i più grandi di sempre, il “mitico” (darà il nome al trofeo del Superbowl) Vince Lombardi per Green Bay e Tom Landry per i Cowboys. La partita si gioca con una temperatura che si avvicina ai -44 ° C, in condizioni al limite dell’umano, anche perché il sistema di riscaldamento del prato del Lambeau Field non funziona perfettamente, per cui il manto erboso è praticamente una lastra di ghiaccio. A 16 secondi dalla fine, con Dallas in vantaggio di 17 a 16 su Green Bay, Bart Starr, il quarterback di Green Bay chiama il timeout finale per i Packers per conferire con Lombardi. Rientrati in campo, gli uomini di Green Bay, in un unica azione, ribaltano il risultato e si impongono su Dallas per 20 a 17. I racconti sulla partita sono leggendari: i giocatori fisicamente apparivano come se avessero ingannato la morte, alcuni di loro, come il Linebacker dei Peckers Ray Nitschke presentano un principio di congelamento ai piedi mentre Bart Starr non riesce più a muovere le mani. Il pubblico sugli spalti soffre le pene dell’inferno (come racconta lo stesso Cisco presente al match quando era bambino) per assistere alla partita fino alla fine e vedere trionfare la squadra del Wisconsin, che di lì a poco vincerà il terzo titolo sconfiggendo al Superbowl II gli Oakland Raiders campioni dell’American Football League. Di quanto l’aspetto simbolico sia importante all’interno dell’ultimo film di Ferrara è data conferma sin dalla scelta stessa del titolo che include, ripetuto per ben tre volte (come il “sei” apocalittico) il numero quattro. Numero che, nella cultura giapponese è associato alla sfortuna ed è collegato direttamente alla rappresentazione della morte, per cui come nell’Apocalisse, il “444” del film diventa sinonimo di fine del mondo. Secondo Ferrara la colpa dell’estinzione dell’umanità è dell’umanità stessa, e della sua indifferenza di fronte al problema del surriscaldamento del pianeta, dei cambiamenti climatici e dell’assottigliarsi del buco dell’ozono a causa dell’inquinamento globale. Non a caso l’apocalisse ferrariana è legata alla vicenda del popolo dell’ Isola di Pasqua, autoestintosi a causa dell’indifferenza nei confronti del taglio, indiscriminato, 413
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degli alberi sull’isola. Quando non rimangono più alberi da tagliare, non solo viene meno l’ossigeno, ma non è più possibile fare nulla sull’isola, né cacciare, né mangiare, né costruire una zattera per allontanarsi e pertanto alla popolazione non rimane altro che attendere la fine. La stessa cosa accade nel film in cui mentre alla tv si alternano esperti, giornalisti e predicatori che espongono il loro punto di vista sulla fine del mondo, emergono due volti simbolici, quello di Al Gore e del Dalai Lama, cioè coloro, che più di ogni altro hanno vaticinato la situazione catastrofica in cui si trova l’umanità a dieci ore dalla fine. Nonostante Ferrara scelga una rappresentazione minimalista per raccontare la vicenda di una coppia di fronte all’imponderabile, colpisce la maniacale attenzione verso l’esterno, come a voler rappresentare attraverso le strade affollate, le violenze, le folle oceaniche di San Pietro e La Mecca, o il semplice individuo che si getta dalla terrazza di fronte, la colpa collettiva di un’umanità che incoscientemente ha determinato la sua stessa fine. La chiave di lettura scelta dal regista, è, paradossalmente, quella di un’attesa serena che accompagna gli ultimi istanti della vita. Attesa che è ricolma di fatalismo e che intende mostrare la fine del mondo come il momento da sempre atteso dall’umanità intera, come esplicitato dalle parole di Cisco: “Il mondo sta finendo da quando è cominciato, noi stiamo finendo da quando siamo venuti al mondo”. Mentre Skye sembra pacatamente serena nel trascorrere i momenti dell’attesa, continuando a coltivare la sua passione, quella della pittura, Cisco appare tormentato da una storia sentimentale finita nel peggiore dei modi e contemporaneamente mostra rabbia e frustrazione verso coloro che hanno abbandonato il mondo alla deriva. La sua attesa è vissuta nell’ambiguità di una scelta tra il ritorno alla “vecchia famiglia” (va a trovare il fratello che non vede da tempo, e rischia di cadere nuovamente nella tossicodipendenza) e una “nuova” famiglia costituita da una donna che (forse) ama davvero: la scelta dell’uomo è quella di affrontare il destino con consapevolezza o inabissarsi nella perdita della conoscenza attraverso la droga. Ecco dunque, che a dieci ore dalla fine l’appartamento ossessivo in cui un uomo e una donna si amano diventa dunque utero esistenziale dove, nel finale, nel cerchio del serpente blu, prima che tutto finisca per sempre, mentre i due fanno l’amore Skye supplica Cisco dicendogli: “Vienimi dentro”. Il sesso, che diventa amore procreativo quasi fuori tempo massimo, perché, precedentemente il sesso in 4:44 Last Day on Earth rappresenta invece qualcosa di egoistico, e cioè la ricerca di sé nell’al414
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tro e attraverso l’altro. L’amplesso sui cui indugia, in maniera ossessiva l’inizio del film è mostrato attraverso le riprese ravvicinatissime e frammentarie dei corpi che al tatto reagiscono attraverso intermittenti sospiri di piacere, precludendo alla polifonia dell’esterno la possibilità di penetrare in una intimità “religiosa” dominata dal silenzio. In 4:44 Last Day on Earth, l’atto sessuale ha la valenza della ricerca della propria essenza ed è concentrato sullo “studio” dei corpi come dimostra l’insistenza con cui vengono mostrati i preliminari: sia Cisco che Skye, prima di morire vogliono essere consapevole di come è fatto l’altro; non si tratta di una semplice ricerca tattile bensì di qualcosa di spirituale come dimostra il ricorso allo yoga e alla meditazione che i due compiono uno di fronte all’altro. In questa atmosfera serena la rottura e la crisi sono in agguato, e possono manifestarsi (come avviene) attraverso una telefonata via Skype improvvisa e inaspettata. La tecnologia e i supporti su cui essa agisce, diventano dunque elemento di crisi volto a portare gli individui verso una “nuova” consapevolezza e a mostrare tutta la devolezzaa e la fragilità dell’essere umano. Ecco, quindi, che nell’ultimo film di ferrara si manifesta ancora una volta la fragilità della carne, marginalmente mostrata attraverso la tentazione della droga, e prevalentemente concentrata sull’analisi e sul dubbio che stanno alla base della scelta: Cisco ama veramente Skye? Domnda centrale, anche nell’economia del film , che tuttavia resta opportunamente irrisolta, e che lega l’opera di ferrara d un film canadese della fine degli anni ‘90 in cui la stessa ipotesi di fine del mondo imminente (a sei ore dalla fine) porta i protagonisti ad interrogarsi sulle scelte fatte. Last Night (id., 1998) di Don McKellar, è un film che attraverso una serie di episodi legati tra loro dalla presenza di Patrick (Don McKellar), indaga i rapporti interpersonali e le crisi che li minacciano, attraverso una rappresentazione minimalista, senza spiegazioni, e senza effetti speciali (come in 4:44 Last Day on Earth) dell’annunciata fine del mondo. Ma le similitudini tra i due film non si fermano alla rappresentazione estetica low budget dell’assunto, in Last Night, teatro della vicenda è Toronto, ma si allineano anche nel racconto del rapporto asimmetrico tra Patrick e Sandra(Sandra Ho), i quali, quasi per caso, si ritrovano negli ultimi istanti l’uno accanto all’altro sul terrazzo di un appartamento che domina la città. In Last Night la figura del direttore dell’azienda del gas che nella su perfezione chiama, con un rigore maniacale, tutti i clienti per un ultimo saluto e che è parodia dell’efficienza canadese (paradossalmente qui incarnata da 415
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David Cronenberg), fa da filo conduttore al peregrinare di Patrick lungo le strade della città alla ricerca di se stesso: di una impossibile serenità familiare, di una relazione continuativa, di una identità sessuale (flirta con l’omosessualità) della ricerca di un sé interiore che crede di poter trovare nell’isolamento del suo appartamento in attesa della fine. Il tema dell’autoanalisi di fronte alla fine imminente lega dunque sia il film di Ferrara che quello di McKellar: ma se il primo opta per una soluzione serena e condiscendente in cui la coppia ritrova la pace dopo la crisi e chiude il proprio film con le parole “Ti Amoo”, il regista canadese tiene in sospeso fino alla fine il rapporto criptico tra Patrick e Sandra prima di mostrarli sul tetto del loft, seduti uno di fronte all’altro, mentre si tengono vicendevolmente una pistola puntata alla tempia, prima che la snervante attesa li porti ad abbassare l’arma e a baciarsi mente l’immagine diventa bianca. La solarizzazione finale accomuna i due film, così come i difficili rapporti familiari di Patrick non sono dissimili da quelli di Cisco, ma mentre Ferrara sceglie una soluzione intimista chiusa all’interno della relazione di coppia, McKellar introduce un serie di personaggi secondari (amici e parenti) per rendere la vicenda più complessa e più narrativa. In 4:44 Last Day on Earth, infatti, Abel Ferrara sceglie una via che è solo apparentemente narrativa, mentre l’assunto di fondo presenta tutta una serie di prerogative psicologiche irrisolte, che nonostante il finale, lasciano aperto il film.
4:44 Last day on earth – Recensione Con 4:44 Last Day on Earth l’intento del regista, sembra essere quello di porre delle domande su una situazione ricorrente nella contemporaneità, e se da un lato si allontana dagli intenti commerciali di sfruttamento della fatidica data del 2012 legata alla funesta profezia del calendario Maya (il film di Ferrara, in merito, è realmente poco vendibile) dall’altro si allinea ad una condizione esistenziale autobiografica che lo vede progressivamente allontanarsi dall’alcool e dalla dipendenza, conclamata dalla visione buddhista attraverso cui cerca di leggere l’intera narrazione del film. Si potrebbe quasi dire che nel suo cinema, vengano meno gli aspetti trascendenti e morali, per lasciare spazio ad una più facile (ma non per questo meno interessante) 416
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visione esistenziale dei personaggi, che, forse, mai come in questo caso appaiono empatici con lo sguardo e con la coscienza di chi li guarda. In 4:44 Last Day on Earth resta tuttavia il dubbio di una rappresentazione semplicistica e improbabile di un’attesa della fine collettiva. Il tema della serenità, fin qui estraneo alla poetica pessimista e radicale del regista rende il film troppo leggero per poter essere credibile. Certo la sua capacità registica e le sue abilità tecniche non sono in discussione, come dimostrano gli interessanti piani-sequenza che compongono gran parte del film, ma in questo caso servono più che altro a nascondere le pecche di una sceneggiatura frammentaria, irrisolta e persino banale nello svolgimento prevedibile del rapporto di coppia. La visione dell’esterno inteso solo come piazza, e le immagini religiose che si susseguono nel finale, non riescono mai ad incidere e ad essere veramente significative nel rappresentare ciò che sta accadendo. Aspetto che contrasta invece, con la felice scelta di eliminare ogni riferimento temporale nella scansione della vicenda, dove l’orologio fa la sua comparsa solo negli ultimi momenti finali, e che restituisce al film, seppur nella sua brevità, tutta la potenza emotiva di un’attesa imminente incentrata sulla sospensione del possibile. Questo film, probabilmente, rappresenta un momento di passaggio tra ciò che il regista è stato finora e ciò che potrà essere dopo i sessantanni appena compiuti, oltre ad essere, l’ennesima testimonianza di un’inesauribile passione per il cinema attraverso la visione di una poetica “vagabonda e itinerante” in cui non contano né i budget a disposizione né i metri di pellicola impressionabili ma solo ed esclusivamente continuare a girare nonostante tutto e nonostante tutti, contro tutto e contro tutti.
4:44 Last day on earth – Sondaggi critici Abel Ferrara si interroga sui mali che hanno portato la cara, vecchia Terra sull’orlo del baratro. E li individua nel surriscaldamento globale. La tesi cara ad Al Gore che non caso compare in una scena mentre parla in Tv. Non c’è speranza, non c’è possibile remissione in 4:44 Last Day on Earth: i protagonisti sono ormai preparati al peggio. Sanno da mesi, come il resto dell’umanità, che il mondo cesserà di esistere a quell’ora esatta. Nei loro cuori non c’è più posto nemmeno per la disperazione, tra molto sesso e un po’ di droga compiono con calma rassegnata la loro mesta cerimonia degli addii via Skype. Insomma, 417
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Ferrara fa di necessità (il low budget) virtù, rinuncia agli effetti speciali e si concentra con intelligenza sull’uomo. TITTA FIORE, IL MATTINO, 8 SETTEMBRE 2011 Con 4:44 Last Day on Earth Abel Ferrara si esercita sul tema della fine del mondo. Raccontando l’ultimo giorno di una coppia che si ama in un appartamento di New York, e il regista è bravo nel comunicare il sentimento della fine in modo minimalista ma efficace, senza uso di effetti speciali. Nel film ci sono reazioni diverse. Collettive, come l’ultima benedizione del Papa alla folla a San Pietro o la preghiera dei musulmani a La Mecca. E private: chi, insofferente, si butta dalla finestra, chi si stordisce con la musica, chi coltiva qualche speranza, chi ride della multa sull’auto e chi fuma tranquillo in poltrona. MARIA PIA FUSCO LA REPUBBLICA, 8 SETTEMBRE 2011 L’altro, al contrario, “kammerspiel” sulla fine del mondo, quindi tutto girato verso il nulla, di Abel Ferrara: 4:44 The Last Day on Earth. Accolto da pochi applausi e da troppi, forse, fischi, l’ultima opera di Ferrara, magnifico intellettuale e artista che usa la macchina da presa come i grandi cantautori americani, spiazza e sorprende per chi conosce a fondo la pur discontinua passeggiata di generi che è la sua filmografia. Non ha riferimenti, la cifra stilista è l’uso del digitale al servizio della trama; a differenza della Villaverde l’intervallo come poesia non esiste; il culto del 35mm è meno importante del poter girare; ed è proprio l’annunciata catastrofe che crea il film. L’attore e intellettuale Cisco e la sua compagna pittrice attendono la fine del mondo nel loro appartamento. L’umanità sa che il definitivo squarciarsi del buco dell’ozono e il conseguente bombardamento di radiazioni che annienterà il pianeta ha un rintocco d’ora preciso. Le 4 e 44. La conoscenza della propria morte conferisce agli uomini e alle donne uno stato d’apparente tranquillità. Qualcuno si getta dal balcone, ma suicidi ce ne sono stati anche prima, e il brusìo incessante della metropoli moderna si muta in un canto gioioso, di sapore ancestrale. Ancora in tv gli scienziati s’accalcano in spiegazioni. Le religioni affrancano i propri fedeli. Nell’appartamento, nello spazio di due ore, i due amanti s’abbandonano a tenerezze e a scoppi di gelosia (cellullari, skype, video, pizze hut, figli lontani, amori persi, sembra il trovarobato di un’altra epoca) fino allo scontato finale abbarbicato all’estrema umanità di un abbraccio, mentre il di fuori fa esplodere gli interni. Pare con 4:44 Ferrara abbia “scritto” la propria “Coscienza di Zeno” abbeverata però allo sperimentalismo di “We can’t go home again” di Nick Ray. FABIO FRANCIONE, IL CITTADINO, 8 SETTEMBRE 2011 418
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Arriva Abel Ferrara con un titolo senza metafore, 4:44 Last Day on Earth. Un film della “redenzione”, polifonia sulle ultime ore del Crash terrestre, e rinascita in un aldilà del cinema e della vita. Il film guarda dall’alto di una terrazza di un loft newyorkese i brulicare di demoni tossici di Ferrara, sonnanbuli strafatti, queer dai tacchi a spillo disperati che aspettano giorno per giorno “l’ultima ora”. Il buco dell’ozono si è aperto e i brandelli del giorno voleranno, verdi ali nebbiose, sulla città. Flash in diretta di santoni, predicatori e speaker delle news che abbandonano lo studio. Fine del tg. E via con il blob planetario, folle bianche come spettri in preghiera, manifestazioni di massa, Cristo, Buddha, la Madonna... la natura siamo noi e con noi si suicida. Giudizio universale con umor, Ferrara carica il film di un’angoscia corretta da un certo allegro sollievo. Cisco indugia sul corpo nudo di Skye, la ragazzina scelta dal dio-maschio per garantirsi l’eterna giovinezza, ma niente da fare, l’apocalisse arriverà e mentre lei dipinge figure astratte e cangianti in draghi di fuoco blu lui osserva il vicino che si getta dalla finestra, il profilo dei grattacieli, i fuochi d’artificio. Finale di partita e non solo metaforica, Ferrara, che sembra rinato in punto di morte si diverte e rievocare. Ognuno ha la sua gerarchia di ricordi e il regista ci invita a metterli assieme e a ringraziare cantando il cielo come il famoso uccellino per averci regalato un altro giorno. Composizione prismatica, alleluja laico, 4:44 Last Day on Earth è il film più ottimista di Abel Ferrara. MARIUCCIA CIOTTA, IL MANIFESTO, 8 SETTEMBRE 2011 Che cosa accade l’ultimo giorno sulla terra quando tutti sanno che moriranno alle 4:44, ora scelta per il titolo del nuovo film di Abel Ferrara? Per rispondere il regista maudit di New York sceglie un interessante e, a tratti riuscita chiave intimistica agli antipodi del solito catastrofismo che un’idea del genere avrebbe potuto scatenare al cinema. Ferrara, si concentra sulle ultime ore della coppia di amanti formata da Cisco e Skye. All’inizio 4:44 Last Day on Earth gioca siu di loro con immagini insistite ma non provocatorie, su alcune parti dei loro corpi, una scena d’amore di chi sa che saranno le ultime. Ma non c’è drammatizzazione, perché la fine del mondo è una convenzione che ci permette di vedere come si possono affrontare le responsabilità e fare il bilancio dei nostri rapporti. Il grande loft di un’anomia città americana in cui i protagonisti mettono in scena le loro ultime ore di vita, non si sentono pianti di disperazione e di sofferenza, ma l’eco di sottofondo che ormai pervade tutte le nostre quotidiane esistenze, con la tv a dare l’idea e l’e immagini di cosa sta succedendo al pianeta. la tecnologia come unico mezzo per comunicare con il mondo. Infatti il personaggio di William Defoe si attacca a skype per parlare con la figlia, salutare un 419
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amico. Intanto il mondo sembra andare avanti verso il baratro quasi come se niente fosse, tanto che alla porta di casa si presenta il solito fattorino per la consegna. La tecnologia e il su utilizzo, solo apparentemente così estraniante, è uno dei temi fondamentali del film ambientato quasi completamente all’interno del loft tranne una scena in cui il protagonista va a trovare degli amici che aspettano la fine, chi fumando e chi bevendo, anche se da tempo avevano abbandonato questi vizi. PEDRO ARMOCIDA, IL GIORNALE, 8 SETTEMBRE 2011
Cattivi guagliuni (2011) 99 Posse Cattivi Guagliuni Coltivati a batterie negli alveari di cemento siamo stati tutti selezionati accuratamente come natura crea la legge poi distrugge dentro questo ciclo modificato geneticamente che vive la mia gente in assoluta sincronia col mondo adiacente ma sempre fuori tempo guardare e non toccare però desiderare desiderate pure quartieri programmati programmat’ pe’ ‘e reati quartieri programmati pe’ gghi tutti carcerati famiglie cundannate assieme ‘e carcerate famiglie cundannate a mantene’ ‘o carcere ‘e stato rit. cattivi guagliuni nuje tenimmo all’attivo precedenti e recidive cattive cattive ‘a colpa È sulo ‘a nosta si ‘stu munno nun funziona cattivi guagliuni simmo nuje ca simm’ tutte quante nate sbagliate cattive cattive nuje nun eremo manco nate e gia’ ci avevano cundannate stevano ‘nu gruppo ‘e signorine ca s’allamentavano 420
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doje mamme ca chiagneveno, nun capeveno cu’ chi erano parla’ addò se va che se fa figlimo addò sta? totore ca appena vedeva ‘o frate l’era abbuffa’ ‘e mazzate lucchetto ca parlava d’o cainato tutto ammirato nu pate ca luvava da dint’ ‘o pacco tre cammise pecchè cu’ ‘e chile nun s’era regolato genta normale ca può ‘ncuntra’ ‘o ‘spitale ‘o mercato o in fila pe’ parla’ cu’ ‘e pariente carcerate pecchè dint’ a ‘sti celle nun ce truovi ‘e peculate ‘e truffe aggravate contro ‘o stato ‘o falso in bilancio ‘a bancarotta fraudolenta ‘a corruzione ‘e magistrato o l’evasione fiscale truovi a pascale, rapina a mano armata truovi a vicienzo, spacciatore a renato, scippo e estorsione truovi a diego , rissa e danneggiamento aggravato e si tu vide buono, truovi pure ‘o cazzo ca ‘e cacato tu, ‘a legalità l’inflessibilità ‘a certezza della pena e ‘o magistrato ‘e sorveglianza vuje site una paranza ‘e gente ca ha perduto ‘a dignità ‘e pagliacce ca nun fanno paria’ e io me sonno tutte ‘e notte ca ve veco ‘a vocca aperta ‘o lato ‘e cà rit cundannate, cundannate in primo grado a commettere i reati nati dint’a certi quartieri ca tutto chello ca tenimmo è chello c c’ammo arrubbato concentrati invogliati sedotti abbandonati po’ l’appello ‘a cassazione e jammo tutte quante carcerate niente clemenza e se non fosse abbastanza dopp’ si pregiudicato sospettato delinquente abituale sorvegliato ato ca nun ce sta ‘o stato nun ce sta ‘o stato? 421
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stann’ ‘e guardie sta ‘a galera secondini magistrati cà t’a faje cu l’avvocate è n’ambiente esclusivo è l’ambiente de’ cattive estorsione scippo omicidio spaccio aggressione ricettazione e rapine e tutte ‘e manere tentata sventata reiterata a mano a mano con destrezza a mano armata con tristezza aggravata cu’ l’intenzione d’o reato me capisce? staje scetate? ‘a vuo fair ‘na bella cosa? sienti a nu frate , nun venì maje addò stongo ‘e casa io state a casa toja e vidave quanto è suggestivo quando vaje a definitivo In quest’ultimo periodo della sua carriera, l’espressione artistica di Abel Ferrara si intreccia sempre più con la variegata poliedricità della cultura napoletana. A dieci anni dall’ultimo album, i 99 Posse si riappropriano della scena hip hop italina con l’album Cattivi Guaglioni, e chiamano a dirigere il videoclip della canzone che dà il titolo al disco , il regista newyorkese, già impegnato in Italia per le riprese del documentario sulla vita di suo nonno. L’incontro tra il gruppo e il regista avviene a Venezia, dove nel frattempo, i 99 Posse alimentando ulteriormente quello che è lo spirito politico della loro azione, hanno deciso in sostegno i lavoratori del teatro Valle di Roma. Il Teatro Valle sito nel Rione sant’Eustachio, è il più antico teatro della capitale ancora in attività. Con la definitiva dismissione dell’Ente Teatrale Italiano, il teatro Valle ha concluso temporaneamente l’attività il 19 maggio 2011. Dal 14 giugno 2011 il teatro è occupato da lavoratrici e lavoratori dello spettacolo in lotta affinché lo stesso venga mantenuto pubblico e gestito con criteri di trasparenza e ampia partecipazione. Gli occupanti dello storico teatro romano, che nei giorni della Mostra del Cinema sono arrivati a Venezia per farsi sentire e occupare, in segno di protesta, così come il Valle anche il Marinoni (un tetro del Lido di Venezia), hanno prestato la loro collaborazione professionale, oltre agli spazi del del teatro stesso per dare vita al video di Cattivi Guaglioni che Abel Ferrara ha girato con la produzione della casa cinematografica napoletana I Figli del Bronx, fondata da Gaetano 422
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Di Vaio. Per ringraziare i ragazzi del Valle per la loro collaborazione e aderire alla loro protesta contro i tagli ai lavoratori dello spettacolo, i 99 Posse hanno dato vita ad un Dj Set sul lungomare nella zona del Teatro occupato. Gli stessi membri del gruppo hip hop spiegano la vicenda così: “Abel Ferrara... anzi “Aibol Ferrara”... perché si incazza moltissimo se gli dici Abel... sta girando un film su Sarno, che è il paese da cui proviene la sua famiglia. Sarno è molto vicino a Napoli, e quindi, la produzione che si sta occupando di questa cosa è una produzione napoletana, di Secondigliano... produzione che noi conosciamo per mille motivi... storici... li conosciamo da anni, I Fogli del Bronx: Quindi cosa abbiamo fatto, da bravi napoletani: noi conosciamo questi che stanno lavorando con Abel Ferrara...proviamoci. Ci abbiamo provato, gli abbiamo mandato “cattivi guagliuni”... anche sapendo che il suo soprannome è “Bad Boy”, e niente, gli è piaciuto e ha accettato. Abbiamo cercato di organizzare al volo le riprese di questo video, e approfittando della sua venuta in Italia per il festival di Venezia... e vedi caso, proprio in questi giorni i compagni del Teatro Valle di Roma, che cosa ti vanno a fare? Ti vanno ad occupare un teatro qui al Lido di Venezia, offrendoci la location ideale, non solo, offrendoci quell’atmosfera giusta per la realizzazione del videoclip”127
Il videoclip di Abel Ferrara interpreta al meglio le parole della canzone e traduce per immagini, quasi dei flash improvvisi che squarciano la notte, le istanze più urgenti e violente del testo. Grazie al contributo determinate della fotografia di Ken Kelsch, il silenzio e la notte si aprono con una luce fredda e violenta, necessaria per mettere a nudo la vera realtà di fondo e al contempo sottolineare la sua tragicità e il caos che la contraddistingue. Il chiaro riferimento, dell’episodio che vede il front-man del gruppo O’ Zulù (Luca Persico) essere picchiato in carcere, è alla vicenda di Stefano Cucchi, che il 15 ottobre 2009 viene trovato in possesso di alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici (il giovane soffre di epilessia), e arrestato. Il giovane al momento della custodia cautelare è in buona salute, non ha alcun trauma fisico e pesa 43 chilogrammi. Il giorno dopo viene processato per direttissima, processo durante il quale ha difficoltà a camminare e a parlare, oltre a presentare degli ematomi evidenti agli occhi. Nonostante le precarie condizioni del giovane, il giudice stabilisce un nuova udienza da celebrare qual127
Intervista ai 99 Posse in lgblog.it – Settembre 2011
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che settimana dopo. Dopo l’udienza le condizioni di Stefano Cucchi peggiorano ulteriormente, e viene visitato all’ospedale Fatebenefratelli dove vengono refertate lesioni ed echimosi alla gambe, al viso, all’addome e al torace. Viene quindi richiesto il suo ricovero che però è rifiutato dal giovane stesso. In carcere le sue condizioni si aggravano ulteriormente e Cucchi muore all’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre 2009, e il suo corpo pesa 37 chilogrammi. Il corpo di 0’ Zulù, che nel testo spiega qui la differenza tra i “cattivi guagliuni” e i “ragazzi cattivi”, sotto le percosse degli agenti di pubblica sicurezza, è scosso, dalla forza del lampi di violenza che si abbattono su di lui, sussulta, si contorce dal dolore si imbratta di rosso vermiglio e perde almeno in parte la sicurezza e il senso di protezione che aveva fino ad un momento prima. Ed in questa situazione d’angoscia e paura che Ferrara innesta un montaggio capace alternando le varie situazioni, da quella della notte della periferia a quella della dose di eroina in uno squallido bagno fatiscente per finire al patologo che copre il corpo sul tavolo autoptico, di far sentire (interpretando al meglio le parole dei 99 Posse) la vita del protagonista in bilico tra il voler restare in un “nido” ormai distrutto e l’affrontare una vita piena d’inganni. In Cattivi Guagliuni viene descritta la casa-alveare attraverso il colore grigio, per segnarne l’aspetto positivo come rifugio di fronte al “temporale”, ma allo stesso tempo per denunciare come già quella dei palazzoni popolari di periferia sia una forma di prigione indiretta in cui non può che generarsi un Male endemico alla società che quegli spazi li occupa. Alla casa e al colore che la differenzia, in cui compaiono le uniche note di colore del video come i vestiti stesi ad asciugare, si contrappone il nero della notte con sensazioni opposte di paura e angoscia. La descrizione della casa accerchiata dal nero della notte durante un “temporale” con le sensazioni di paura e di terrore che gli vanno dietro si contrappone alla rappresentazione del l’oscurità che viene paragonata dal regista (attraverso l’utilizzo di stacchi che simulano il batter d’occhi) ad una sorta di occhio che si apre e si chiude per ricevere una tragica realtà, e mostra lo stupore ed il timore per la natura ossessiva e violenta che gli viene mostrata. Il videoclip di Ferrara è costruito su un climax ascendente che conferisce alla realtà una dimensione umana e sconvolgente, tormentata e triste. In un senso più ampio, quindi, mettendo in scena droga violenza e prevaricazione, il breve racconto per immagini diretto dal regista newyorkese sembra interrogarsi sull’enigma che circonda l’uomo, sulla sensibilità delle piccole cose, sulla 424
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musicalità della rima cantata, sulla quasi continua presenza della morte. L’energia con cui il videoclip è diretto e l’immediatezza visiva e verbale del messaggio in esso contenuto stanno a testimoniare, inoltre, un fertilità artistica non del tutto estinta nell’opera di Ferrara, che pure nell’ultima fase della sua carriera sembra quantomeno appannata.
Storie di Abele/Mio nonno/The grandfather (2012/2013) Nella primavera del 2011 si è conclusa la prima parte di riprese del film documentario Storia di Abele (il cui titolo alternativo potrebbe essere Mio nonno, mentre quello del progetto è The Grandfather), diretto da Abel Ferrara e incentrato sulla vita del nonno Abele Ferrara e sulla sua emigrazione da Sarno nel 1902. Da quando Ferrara è venuto in Italia per cercare finanziamenti per i suoi progetti, e dopo la felice esperienza di collaborazione con “I Figli del Bronx” per la realizzazione di Napoli Napoli Napoli, il suo desiderio è sempre stato quello di andare alla ricerca delle origini familiari. Storia di Abele rappresenta l’esaudimento di questo desiderio, e la sua lavorazione che si sviluppa tra Sarno, Napoli e New York è stata resa possibile grazie alla collaborazione con il Forum Universale delle Culture del 2013 che ha finanziato la prima parte delle riprese appena concluse nella città natale del nonno di Abel Ferrara. L’emigrazione dell’avo da Sarno, nel salernitano, diventa l’occasione, per il regista, per realizzare un film che è anche un racconto dell’emigrazione italiana di inizio Novecento. Un progetto ad ampio respiro dunque, volto a dare corpo e forma alle sue origini familiari e alle sue radici. Come spiega lo stesso regista: “Io sto ricercando le mie origini italiane attraverso la storia di mio nonno. Se fossi partito da mio padre avrei dovuto fare un film di gangster ambientato a New York, dove lui è nato e cresciuto. Invece mio nonno è arrivato in America per cercare la ricchezza e a questo ha dedicato tutta la sua vita. In seguito mio padre ha fatto il passo successivo ed è entrato pienamente nel meccanismo economico americano. Tutto è ciclico, se mio nonno alla fine degli anni ‘20 fu travolto dalla crisi economica e perse l’azienda che era riuscito a costruire, mio padre, in seguito, è 425
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riuscito invece a risistemarsi facendo buoni affare durante la guerra del Vietnam. Ma io stesso, come filmaker indipendente ho avuto grandissime difficoltà con la crisi mondiale del 2007, per cui mi dico che risulta evidente che siamo tutti quanti vittime dell’economia e che piuttosto che all’economia possiamo soltanto affidarci alla misericordia di Dio”.128
Dopo un lungo periodo dedicato ai sopralluoghi e alle ricerche che ha visto protagonista in prima persona il regista durante i suoi soggiorni in Italia, Storia di Abele ha dunque cominciato a prendere forma. L’intento del regista, come sempre è quello di non limitarsi alla realizzazione di un semplice documentario ma di utilizzare vari tipi di linguaggio, senza escludere apporti di finzione, al fine di realizzare un prodotto poliedrico e sfaccettato, per raccontare, questa volta una storia che lo riguarda in prima persona. Il progetto si è concretizzato grazie alle ricerche effettuate negli archivi del Comune di Sarno, al contributo di Maurizio Braucci e della professoressa Gaetana Mazza, una storica sarnese che da anni cerca di ricostruire le vicende migratorie che riguardano il suo comune di appartenenza, la quale ha recentemente ritrovato nell’archivio comunale una lettera del 1923 scritta da Abele Ferrara ai suoi genitori. Il nonno del regista, all’età di 22 anni, nel 1902 salpa da Napoli a bordo della nave Kaiserin M. Teresa assieme ad Aniello Ingenito, Luigi Cirillo e Natale Correale alla volta di New York, ospite dello stesso cugino Ingenito. Episodio, che è ricordato anche da alcuni abitanti di Sarno tuttora viventi e intervistati all’interno della docu-fiction. La parte della docu-fiction riguardante il viaggio e i suoi protagonisti è realizzata attraverso una ricostruzione che vede Salvatore Ruocco interpretare il ruolo di Abele Ferrara, Concetta di Vaio nella parte della moglie Emilia Catalano e Peppe Lanzetta nel ruolo del cugino Aniello Ingenito. “Si tratta di raccontare una storia usando tutti i mezzi che puoi, allora ascolti la gente parlare, fai delle domande, assimili tutte le informazioni, le raccogli per metterle assieme e per poi poterle elaborare. La verità però è che la gente, ogni giorno, non fa niente altro che interpretare dei ruolo il cui successo è misurato dal livello di successo personale che ognuno conquista nella vita. Quindi, quando la interroghi, la realtà à molto potente nel raccontarti ciò che è”.129 128 129
Maurizio Braucci, Intervista ad Abel Ferrara, Zaza, Radio 3, 19 Giugno 2011 Ibidem
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Abele Ferrara è un colono, di famiglia indigente, che come tanti altri cerca di sfuggire alle miserie del Mezzogiorno d’Italia, e dalla crisi economica che lo attraverso, che nella cittadina di Sarno porta alla chiusura di alcune industrie tessili130. I suoi genitori, risultano essere Alfonso Ferrara e Alfonsa Baselice, e Abele è il secondo di nove figli avuti dalla coppia. Nel primo 1900, quattro dei nove figli emigrano negli Stati Uniti: Abele, Gennaro, Giulia e Concetta.131 Ben inseritosi nella comunità italiana del Bronx Abele Ferrara, che in Italia è stato giudicato inabile al servizio militare per debole costituzione, si dimostra essere un pacifista e non disdegna le frequentazioni di socialisti newyorkesi. Nel 1905 ritorna in Italia, per raccontare con entusiasmo e soddisfazione l’esperienza vissuta oltreoceano e soprattutto per convolare a nozze con Emilia Catalano, la quale, tra l’altro, non sa né leggere né scrivere, con la quale nel 1906 parte da Napoli, a bordo della nave Madonna, alla volta di New York ospite con la moglie di un certo Luciano Parziale. Nel 1910, la coppia, che vive in un appartamento in affitto nella First Avenue, dà finalmente una svolta alla sua esistenza. Abele, che lavora come manovale, nota che nella comunità italiana del Bronx il vino è difficile da reperire. Viene a scoprire che la zona, la sola degli Stati Uniti, all’epoca, in cui si produce vino è la California, sulla East Cost, così senza neanche parlarne alla moglie, l’uomo una notte parte per un lunghissimo e difficoltoso viaggio fino a Mendocino, in California appunto, dove con alcuni risparmi accumulati nel tempo compra un decina di quintali di uva Barbera. La sola zona degli States dove si possa produrlo è la California e così, una notte, senza rivelare niente nemmeno alla moglie, Abele parte in direzione del sud. Ha pochi soldi, risparmia per quanto può sul viaggio, lo effettua in treno, su carri, a piedi, a bordo della motocicletta di un primo pioniere delle due ruote. La sua conoscenza della lingua americana è essenziale, tanti sono gli incontri e i pericoli che deve affrontare, impiega quasi due settimane ma alla fine arriva alla meta, a Mendocino, tremila miglia ad ovest di N. Y. Compra con i suoi risparmi dieci quintali di uva da barbera, la sua conoscenza dell’uva americana gli deriva dagli innesti delle viti italiane su quelle statunitensi, avvenuta ad inizio del ‘900 per render130
La ricostruzione della vita di Abele Ferrara è stata possibile grazie alle informazioni della Sig.ra Gaetana Mazza(sul sito vesuvioeweb.com) e dell'articolo-intervista Storia di Abele filmata da Abel, di Alberto Castellano in Alias n° 30 Luglio 2011 131 Gaetana Mazza e Alfredo Franco in vesuvioweb.com
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le resistenti ad una pervicace forma di fillossera che stava distruggendo le colture vinicole mediterranee. Abele carica l’uva su un treno merci e compie il viaggio di ritorno verso N.Y, non meno estenuante dell’andata ora che ha un carico da proteggere dai ladri e dal deterioramento degli acini132.
Salito, con il prezioso carico, su un treno merci diretto a New York, scende nella campagna alle porte della città, trova ospitalità presso un suo conoscente e si fa aiutare da lui per produrre il vino ricavato dall’uva Californiana. Si mette nuovamente in viaggio e lungo la strada già comincia a vendere alcune bottiglie di vino e, quando giunge nel Bronx, trova la moglie inquieta e preoccupata per la sua lunga assenza ma placa il suo disappunto mostrandogli i soldi ricavati dalle vendite. Abele Ferrara sviluppa e incrementa la sua attività negli anni successivi, al punto da arrivare a essere ricco, mantenendo sempre l’umiltà e la cortesia che lo contraddistinguono, e una generosità si manifesta anche attraverso l’adozione di tre bambini dell’orfanotrofio locale che si vanno ad aggiungere agli altri undici avuti da Emilia. L’uomo che in casa parla sempre italiano, ma che ha anche imparato l’inglese, elargisce prestiti a parenti e conoscenti che spesso non gli vengono restituiti. Gestisce i suoi affari in prima persona, evita consiglieri e si tiene alla larga dagli uomini di Cosa Nostra fino a quando con la crisi del 1929 perde tutto ciò che ha guadagnato ed è costretto a chiudere l’attività, cosa che lo sprofonda nella depressione. Nel 1930 Abele Ferrara è proprietario dell’appartamento al 735 Noble Avenue, Bronx New York, e dopo il tracollo finanziario si arrangia come può facendo il “junk dealer”, cioè il venditore di stracci, metallo, corde e carta. Nel 1932 torna in Italia da solo; rimane a Sarno due anni e poi fa ritorno negli Stati Uniti con l’intenzione di risollevarsi economicamente. Il suo carattere ribelle e il suo atteggiamento riottoso gli precludono l’entrata nelle corporazioni italo-americane adagiate su posizioni di appoggio al fascismo italiano, che lui rifiuta categoricamente. Abele si riadatta al nuovo stile di vita, riprende a fare il manovale, e rifiuta di adeguarsi al consumismo. Ormai ha sessant’anni, il secondo conflitto mondiale è alle porte e decide serenamente di dedicarsi esclusivamente alla sua famiglia e ai piccoli nipoti che educa amorevolmente insegnandogli i 132 Maurizio Braucci, The Shapes of the Clouds - Soggetto per una docu-fiction di Maurizio Braucci e Abel Ferrara, e-mail all'autore, 13 marzo 2012
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principi in cui crede egli stesso. Storia di Abele vuole essere, dunque, un film in cui il regista, desideroso di ritrovare le sue radici, ripercorre, in fondo anche se stesso, visto che dal carattere ribelle ed irrequieto, da una visione del mondo di stampo socialista, dall’incapacità di scendere a compromessi e dallo stile di vita mai allineato a quello del consumismo, tanti sono i punti in comune con quelli dell’avo paterno. “Come italo-americano, il mio è un film italo-americano. Mi sono sempre sentito americano, ma ora penso che a Sarno mi sono sentito a casa, come se fossi stato lì da millenni. Vorrei il mio passaporto, un passaporto italiano. Voglio raccontare questa storia usando ogni forma narrativa disponibile, interviste, scene di ricostruzione fiction, documenti originali, filmati d’archivio, spezzoni di film già realizzati e fotografie. La mia sfida è di assimilare tutti questi elementi e intrecciarli per creare un racconto organico. La realtà è un elemento narrativo molto potente, vedere mia zia intervistata, che si relaziona con la camera che la filma, riesce a farti veramente capire cosa significa recitare, mentre le parti in cui le scene vengono scritte, e recitate da attori, servono a far rivivere allo spettatore momenti reali, sempre con l’obiettivo di cercare la verità, di ricreare la realtà. È una grande sfida. Il film racconterà di gente che lasciava le campagne per andare verso il futuro, per andare verso l’industrializzazione, lavorando in fabbrica. Ma quando dopo anni, lungo questo percorso, mio nonno incontrò il televisore, il prodotto che condensa tutte queste speranze, la prese e lo buttò dalla finestra. Questo è quello che fece con la TV”.133
Nota d’intenti del regista134 Voglio fare una docu-fiction per cercare le mie radici e raccontare la storia di un milione di italiani che dagli inizi del ‘900 lasciarono il loro paese per cercare fortuna negli Stati Uniti d’America. Il racconto sarà la storia di mio nonno, Abele Ferrara, delle ragioni che lo spinsero a lasciare Sarno - oggi una cittadina a 45 minuti di viaggio da Napoli, ma ancora lontana come la Luna da questa città- e della sua altalenante fortuna a New York. Mio nonno non era soddisfatto del mondo 133 Abel
Ferrara in Storia di Abele filmata da Abel, di Alberto Castellano in Alias n° 30 Luglio
2011 134 Dal press-book The Grandfather, per gentile concessione all'autore da parte de I Figli del Bronx di Gaetano Di Vaio
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in cui viveva, era un contadino povero. Nel 1902 lasciò il suo lavoro e venne a NY quando la società dei consumi era al suo inizio. Il suo primo lavoro fu raccogliere metalli per strada; viveva raccogliendo e vendendo gli scarti della lavorazione industriale. Agli inizi del ‘900 gli italiani non piacevano agli americani; avevano i denti sporchi, le mani sporche, erano vestiti male, puzzavano. Erano poveri ed erano cresciuti con l’idea che se hai soldi in tasca nessuno ti offende, ottieni stima e rispetto. Questa era la vera posta in gioco. Per loro i soldi equivalevano al concetto di uguaglianza e anche io sono stato cresciuto con il mito del Dio denaro. Ma con la devastante crisi economica del ’29 mio nonno si trovò di nuovo povero, il suo mito crollò e si ammalò di depressione. Proprio la stessa reazione di moltissimi americani alla crisi finanziaria del 2007. Così come la sua, anche la mia vita è stata condizionata in modo determinante dagli andamenti dell’economia e della finanza americana e proprio come lui, anch’io, dopo l’ultima crisi, ho avuto l’esigenza di tornare alle origini. Per lui fu un ritorno, per me è stata una scoperta. Ho sempre pensato di essere americano, ma ora so che a Sarno mi sono sentito a casa, come se fossi stato lì da millenni. ABEL FERRARA, NY GIUGNO 2011
Note di regia135 Voglio raccontare questa storia usando ogni elemento di narrazione disponibile: interviste, scene di ricostruzione fiction, documenti originali, le lettere che mio nonno scriveva alla famiglia d’origine, filmati d’archivio, spezzoni di film di finzione già realizzati, ritagli di giornali e fotografie. La mia sfida è assimilare tutti questi elementi e intrecciarli narrativamente per creare una storia organica, che possa raccontare in modo chiaro l’esperienza di mio nonno e quella dell’emigrazione italiana. Immagino scene girate nella realtà di oggi –incontri, interviste- che si alternano a scene di finzione, recitate da attori. Come in Chelsea on the Rocks e in Napoli Napoli Napoli gli attori reciteranno sia personaggi reali che di creazione, in sequenze narrative, alcune delle quali storiche, altre immaginarie. La realtà è un elemento narrativo molto potente. Vedere mia zia intervistata che si relaziona con la camera che la filma può veramente far capire allo spettatore cosa significa recitare. Le parti di fiction, in cui le scene sono scritte e recitate da attori, serviranno invece a far rivivere momenti reali, sempre con l’obiettivo di cercare la verità, di ricreare la realtà. È una grande sfida. 135 Dal press-book The Grandfather, per gentile concessione all'autore da parte de I Figli del Bronx di Gaetano Di Vaio
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Nota biografica
Abel Ferrara nasce nel Bronx il 19 Luglio del 1951 da padre italo-americano e madre irlandese. La nonna è una strega napoletana136, in realtà si chiama Emilia Catalano, nativa di Sarno, mentre il nonno Abele Esposito è la figura cardine della sua infanzia. Arrivato negli Stati Uniti all’inizio del ‘900, proveniente anch’egli da Sarno nel salernitano, il nonno cambia, per ragioni sconosciute, il cognome italiano Esposito nel nordico, ebraico “Ferrara”. Abele Esposito, in Italia fa il colono e parte per l’America una prima volta nel 1902 (cui seguiranno altri viaggi), e nel 1920 è naturalizzato americano, mentre nel 1930 e proprietario dell’appartamento in cui abita al 735 Noble Avenue, Bronx New York.137 Sposa Emilia Catalano nel 1906, in Italia, e parte con lei per New York sulla nave Madonna partita da Napoli nello stesso anno. La donna ha venticinque anni, non sa né leggere né scrivere, e i due hanno con sé, in tutto, $160.138 Nonno Esposito è a capo di una numerosa famiglia, si parla di undici o quattordici figli, più alcuni prelevati dalla strada e cresciuti assieme agli altri. “Sono arrivati assieme in America, gli italiani e il cinema. La nascita del cinema e la grande ondata di emigrazione dall’Italia verso gli Stati Uniti portano infatti le stesse date”.139 Siamo tra il 1890 e il 1920 e possiamo pensare che intorno al 1900, sulle navi stracolme di emigranti provenienti dal Sud Italia, ci sia anche il nonno di Abel Ferrara. Una volta scesi dalle imbarcazioni e attraversati i cancelli di Ellis Island questi poveri disperati si stabiliscono nelle grandi città sulla costa 136
Federico Pontiggia, Abel Ferrara, il cattivo tenente, Effatà Editrice, Cantalupa (TO), 2004,
p.136 137
Gaetana Mazza, in vesuvioweb.com ibidem 139 Paola Casella, Hollywood italian, Baldini & Castoldi, Milano, 1998, p.19 138
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dell’oceano atlantico: New York, Filadelfia, Baltimora, dove costituiscono le loro comunità chiamate “Little Italy”. Vivono ammassati nei tenements (casermoni in pessime condizioni igieniche), e le famiglie che comprendono anche parenti e amici sono costituite di 15-20 persone. Fanno lavori manuali e pesanti al servizio dei “padroni”, spesso anche loro immigrati italiani. Questi accolgono i nuovi arrivati, facendo loro da consiglieri e talvolta ne finanziano il viaggio, al fine di sfruttarli e arricchirsi alle loro spalle. Le situazioni di degrado e di disperazione rafforzano negli immigrati italiani valori già consolidati come il senso della famiglia e il legame con la religione. Valori che verranno poi trasmessi e radicati negli italo-americani di seconda generazione, figli di napoletani e siciliani emigrati in America all’inizio del secolo. A questi appartengono i genitori di molti registi italoamericani oggi affermati quali: Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Quentin Tarantino e ovviamente Abel Ferrara. Ferrara nelle poche dichiarazioni rilasciate sulla figura del nonno ne parla quasi come di una figura leggendaria: “Un tipo incredibile, non ha mai guardato la televisione. L’unica posta che sia mai entrata in casa usciva dalla finestra del dodicesimo piano. Non ha mai voluto pronunciare una parola di inglese. Era un sopravvissuto e qualcuno sul quale poteva contare. Mi ha cresciuto lui”140, mentre così spiega le origini del suo cinema e la genesi di The Funeral, il film che più di ogni altro si confronta, anche, con la realtà degli italo-americani: “Volevo raccontare gli italo-americani come mio nonno, quelli arrivati qui poverissimi, impregnati di una cultura tradizionale in cui la famiglia era tutto. Era una cultura basata sulla vendetta. Per mio nonno sarebbe stato inconcepibile non vendicarsi se gli avessero ucciso qualcuno”.141 Il nonno, negli anni ’20 diventa ricco mettendo insieme una piccola impresa per il trasporto dell’uva da una costa all’altra degli Stati Uniti per gli italiani del Bronx, dove molti italiani non avendo la cantina accumulano le cassette d’uva, provenienti dalla California, in cucina per poi farsi da soli il vino in casa. L’impresa di Abele Ferrara va in crisi con la grande depressione e il nonno torna a Sarno per rifarsi una vita. Se poche sono le notizie sull’ infanzia di Abel Ferrara, ancora meno sono quelle sui suoi genitori. Il padre, Alfred J. 140 Revue du cinema, n.436, Marzo 1998, p.47, in Silvio Danese, Abel Ferrara, l'anarchico e il cattolico, Le Mani, Recco (GE), 1998, p.34 141 In “Il Manifesto”, 4 Settembre 1996, p.21, in Silvio Danese, op. cit., p.35
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Ferrara, è un bookmaker invischiato in un giro di scommesse, e un incallito giocatore e durante la residenza a Peekskill è proprietario di una discarica. Mentre della madre quasi non si sa nulla, nulla, in famiglia ci sono anche due sorelle bigotte e opportuniste (stando a quello che dice il regista): una che gli chiede soldi in continuazione, l’altra che lo considera un indemoniato. Abel Ferrara cresce in Morris Park Avenue, tra la Fordham Road e lo Yankee Stadium, frequenta la scuola cattolica del “Sacro Cuore”, e impiega il tempo libero dividendosi tra i primi grandi schermi panoramici e le partite dei Bronx Bombers. Quando il padre si trova con l’acqua alla gola e comincia a temere per la sua vita, nel 1966, si trasferisce con la famiglia a Peekskill, a nord di New York verso Albany, periferia povera divisa tra fabbriche e coltivazioni. Qui Ferrara trascorre sette anni. Viene iscritto alla Lakeland High School, dove conosce Nicholas St. John (oggi sappiamo che il suo vero nome è Nicodemo Oliverio) e altri due amici: John Paul McIntyre e Richard Shaw. McIntyre lavorerà con Ferrara come tecnico del suono, mentre Nicholas St. John scriverà le sceneggiature del regista newyorkese e ne sarà in qualche modo il suo alter-ego fino al 1996 quando ci sarà la rottura dei loro rapporti poco prima dell’uscita di The Funeral ultimo film, per ora, cui lavorano assieme. A Peekskill però, la prima passione di Ferrara è la musica e assieme ai suoi tre amici forma un rock-band ispirata ai Rolling Stones. Passione questa, che rimane incompiuta al momento, ma che ritorna più volte nella sua carriera, sotto forma di canzoni scritte ed inserite nelle colonne sonore dei propri film. Non sempre comunque è distinguibile dove finisce il contributo di Joseph “Joe” Delia (suo musicista feticcio) e dove inizia quello di Ferrara. Dopo il 1973 ritorna a New York e si iscrive all’università che non termina, partecipa alla contestazione e alle marce contro la guerra del Vietnam. Il rapporto con Oliverio diventa sempre più importante, legato dalla passione per il cinema e per la musica. Insieme scrivono canzoni, poemi, girano cortometraggi in super 8 che poi montano, spesso scambiandosi i ruoli. In questo periodo Abel lavora anche con suo zio, che possiede un camion dell’immondizia: “Quello è il lavoro con cui ho cominciato. Mio zio raccoglieva l’immondizia in Arthur Avenue e in tutto il nord New Jersey, ecco come ho cominciato…se avessi continuato con lui sarei stato un figlio di puttana ricco”.142 Ferrara e Oliverio si nutrono di 142 Dal documentario Abel Ferrara: not guilty di Rafi Pitts (80 min.) contenuto nel DVD di Bad Lieutenant, Wild Side Video, Paris, 2004, traduzione nostra
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cinema, vedono centinaia di film, senza interessarsi ai nomi dei registi, indifferenti verso un sapere che differenzia gli uomini dalle loro opere. Girano cortometraggi in super 8 e 16 mm (1 o 2 min. di durata) contro la guerra del Vietnam dei quali non si hanno più traccia e altri, con protagonisti amici intenti in rapporti sessuali o in scene di auto-erotrismo, anche essi spariti nel nulla. Le prime opere pervenute sono Nicky’s Film (1971) girato nella discarica di famiglia e i due cortometraggi The Hold-Up (1972) e Could This Be Love (1973). Il primo lungometraggio invece, ignorato dalla maggior parte delle monografie, è l’ hard-core 9 Lives of a Wet Pussy databile tra il 1976 e il 1977, e prodotto dalla Navaron Film. La genesi del film, viene raccontata, da un amico e attore di Ferrara, Frankie Cee: “Non trovava i soldi per fare il primo film. Il padre di Abel ha messo i soldi. Il padre di Abel dice:”Mio figlio vuole fare un film culturale!”. Era intitolato “nine lives of a wet pussy”. E il padre trovò $ 5.000”.143 Il pensiero del regista sul cinema è questo “Cos’è un film? Cinque rulli di roba, quaranta scene in due ore. Potresti invertire i rulli e non cambierebbe niente. A volte, quando monto, le cose migliori sono quelle che avvengono per caso”144,segno che per lui, quello che conta (come ha sempre detto) è lavorare senza pregiudizi nei confronti né dei mezzi a disposizione né dei formati utilizzati. Il suo lavoro è uscire di sera in cerca di esperienze.145 Vive di notte, e soprattutto gira di notte, perché può dominare le luci, manipolare i contrasti e i riflessi, distinguere i suoni perché c’è più silenzio (“New York è anche un suono, ancora più sottile da ricreare”)146 e trovare la poesia che il suo cinema esprime.“Erano le cinque del mattino, giravamo “King of New York”,era una magnifica ripresa, l’operatore era teso. È un’ora magica a New York, l’unico momento in cui si vedono gli edifici separati dal cielo, e una magnifica ripresa, ci sono otto minuti, dodici al massimo per farla. In pratica non si può dirigere, non puoi fare niente, è un momento bellissimo per girare. Quello che puoi fare è solo agitarti”.147 Dopo gli esordi nel cortometraggio e il passaggio dall’hard-core, nel 1977 Abel Ferrara gira Not Guilty:For Keith Richards un cortometraggio in bianco e nero che sotto forma di docu143
Dal documentario Abel Ferrara: not guilty di Rafi Pitts (80 min.), traduzione nostra Sambain, n.19, 1990, in Alberto Pezzotta: Abel Ferarra, Il Castoro, Milano 1998, p.8 145 Dal documentario Abel Ferrara: not guilty di Rafi Pitts (80 min.), traduzione nostra 146 Fausto Furio Colombo, Merry Xmas Mr. Ferrara, Kult n.12, Dicembre 2001, p.16 147 Dal documentario Abel Ferrara: not guilty di Rafi Pitts (80 min.), traduzione nostra 144
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mentario prende posizione in merito alle vicende giudiziarie che coinvolgono il chitarrista dei Rolling Stones. Dopo un paio d’anni, nel 1979 Ferrara realizza The Driller Killer, quello che può essere considerato il suo esordio nel cinema ufficiale. L’anno successivo è la volta di Ms.45 con cui riscrive i codici del “rape and revenge movie”, ma con cui, soprattutto, impone il suo stile cinematografico. Dopo un periodo abbastanza oscuro in cui realizza solo il lungo video musicale The Beds (1982), Ferrara chiude la sua trilogia metropolitana nel 1984 con Fear City, film che rappresenta il suo primo scontro con l’industria cinematografica e con i produttori hollywoodiani. Non a caso, anche a causa dell’impossibilità di trovare i budget necessari, il regista abbandona, temporaneamente, il cinema per dedicarsi alla televisione dove nel 1985 dirige due episodi della serie TV Miami Vice e il film televisivo The Gladiator, mentre l’anno successivo è tra i realizzatori della serie TV Crime Story. Nel 1987 torna al cinema con China Girl film che, a causa sia della traversie economiche della Vestron Pictures sia per gli scarsi risultati in termini di incasso lo riporta all’interno del mercato televisivo. Nel 1988 è ideatore e realizzatore della serie televisiva The Loner, un prodotto che, nelle intenzioni dovrebbe essere plasmato “a sua immagine e somiglianza” e che coinvolge tutti i suoi abituali collaboratori, ma che a causa di incomprensioni e scontri con i produttori rimane fermo all’episodio pilota. Grazie al contratto precedente con la Vestron Pictures nel 1989 ottiene la possibilità di girare Cat Chaser, tratto dall’omonimo romanzo di Elmore Leonard. Escluso, dalla produzione, dal montaggio finale film, Ferrara abbandona Cat Chaser al suo destino, per correre alla corte di Augusto Caminito che gli offre la possibilità di girare King of New York, quella che tuttora, rimane per Ferrara l’esperienza più positiva con produttori cinematografici. Due anni dopo è coinvolto in un progetto di docu-fiction televisiva intitolato FBI: The Untold Stories. Nel 1992 ilsuo nome si impone all’attenzione di tutto il mondo grazie al clamore suscitato da Bad Lieutenant durante la presentazione al Festival di Cannes. Clamore e scandalo da rotocalco, che assieme al sorprendente esito commerciale del film gli garantiscono un contratto da venti milioni di dollari con la Warner Bros per la realizzazione di Body Snatchers, remake del film di Don Siegel del 1956. Il contratto con la Warner si interrompe a causa del fallimento commerciale della pellicola e della difficoltà da parte dello studios di gestire un personaggio “anarchico” come Ferrara. Il regista viene chiamato, nello stesso anno, 435
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il 1993 da Madonna che con la sua Maverick è tra i produttori di Snake Eyes/Dangerous Game. Dopo una breve parentesi in cui dirige alcuni video clip per l’amico e collaboratore Schoolly D., Abel Ferrara dirige The Addiction, film che non trova distribuzione e che dopo la presentazione al Festival di Berlino del 1995 sparisce nel nulla per poi essere distribuito, in maniera saltuaria, solo dopo il successo di critica e di pubblico di The Funeral, film che nel 1996 sfiora la vittoria alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, ma che a causa della miopia della giuria internazionale si deve accontentare della Coppa Volpi a Chris Penn come miglior attore. Nello stesso anno, il regista viene coinvolto dalla cantante francese Mylene Farmer che gli offre la possibilità di dirigere il videoclip della canzone California, mentre nel 1997, Abel Ferrara è tra i registi coinvolti ne progetto collettivo della HBO Subway Stories: Tales From the Underground. Nello stesso anno, il regista torna a lavorare per il produttore di Bad Lieutenant Edward R. Pressman, con cui realizza The Blackout e New Rose Hotel l’anno successivo. Tra il 1998 e il 2000 Abel Ferrara dirige altri videoclip prima di essere scritturato da Studio Canal per realizzare ‘R Xmas. Nei quattro anni successivi, non trovando finanziamenti, si dedica alla regia di videoclip e contemporaneamente lavora alla scrittura di molteplici prodotti cinematografici tra cui Mary, che, dopo lunghe traversie con produttori italiani vede la luce nel 2005. Abel Ferrara rimane in Italia, dove trova i soldi per portare a termine un altro progetto precedentemente abbandonato: Go Go Tales (2007). Tornato in America all’inizio del 2008, realizza due progetti a basso costo di taglio documentario: nel 2008 Chelsea on the Rocks sul Chelsea Hotel di New York e nel 2009 Mulberry St. su una delle vie storiche di Little Italy oltre a essere il luogo in cui il regista, attualmente, risiede con la sua fidanzata Shanyn Leigh. Alla fine dello stesso anno torna in Italia per realizzare una docu-fiction sulla città partenopea dal titolo Napoli Napoli Napoli. Nel 2011 torna al cinema grazie alla società di produzione Annex Film con cui realizza 4:44, Last Day on Earth che viene presentato in concorso alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Per il 2012 si prevede l’uscita di Storia di Abele, docu-fiction di carattere biografico sulla vita del nonno realizzata grazie al contributo del Forum Internazionale delle Culture e alla produzione de “I Figli del Bronx” di Gaetano Di Vaio. L’aspetto sorprendente della sua carriera, ma coerente con il modo di essere e di vivere del regista è che la filmografia dei prodotti realizzati e portati a compimento è infe436
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riore al numero di opere ideate, pre-prodotte, scritte e/o abbozzate ma mai realizzate. Della fine degli anni ‘70 è una sceneggiatura dal titolo The Master and Margherita, un adattamento della novella omonima di Mikhail Bulgakov, pensata e modulata in relazione alla canzone Sympathy for the Devil dei Rolling Stons. Tra il 1979 e il 1980 Nicodemo Oliverio scrive la sceneggiatura di Birds of Pray, un progetto di fantascienza incentrato su una rivolta popolare nella città di New York. Due anni dopo Ferrara si accorda con Bob Dylan per dirigere il video clip della canzone Sweetheart Like You tratta dall’album Infidels, ma dopo un banale litigio per questioni relative ai collaboratori, il progetto salta. Nel 1985 in un’intervista al New York Times Ferrara parla della volontà di realizzare, Sarah, storia romantica di una ragazza che vive nei sobborghi di una grande città ispirata dalla figura di una sua vicina di casa dell’epoca, e contemporaneamente della possibilità di realizzare un remake del film 3:10 To Yuma (Quel treno per Yuma, 1957) di Delmer Davies, dove l’adattamento di ferrara è tratto da una sceneggiatura di Elmore Leonard e con, nella parte dei protagonisti, Tom Beremger e Michey Rourke. Nel 1988 Ferrara viene chiamato dalla New World per realizzare Honor Bright tratto da una sceneggiatura originale di Doug Richardson. Dopo l’abbandono in fase di produzione del progetto, Ferrara è intenzionato a realizzare un film tratto da una sceneggiatura di Zoë Lund che ha adattato un racconto di Erskine Caldwell dal titolo Last Night of Summer, ambientato nella provincia americana tra gli anni ‘50 e ‘60. Non trovando i soldi per realizzare il film, Ferrara e la Lund scrivono assieme, tra il 1989 e il 1990 una sceneggiatura sulla biografia della pornostar John Holmes dal titolo The John Holmes Story, il cui protagonista dovrebbe essere Christopher Walker: il regista riesce a trovare una produzione, la Mypenry Productions, ma il taglio esplicito e quasi pornografico che egli vuole dare al film ben presto allontana i finanziatori. Abel Ferrara nel ‘96 fa parte del ventaglio di registi chiamati a dirigere Get Shorty, nuovamente tratto da Elmore Leonard, mentre l’anno successivo durante il London Film Festival il regista parla di una sceneggiatura in corso d’opera dal titolo Shadow of Death. A metà degli anni ‘90 il regista assieme a Zoë Lund mette in cantiere un progetto senza titolo ispirato alla figura di Pier Paolo Pasolini, mentre è del 1998 l’idea di un film dal titolo Crack City Terminator, remake futuristico di Yojmbo (1961) di Akira Kurosawa, con la partecipazione di Laurence Fishburne. Agli inizi degli anni 2000 il regista è intenzionato a 437
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dirigere un remake de La Dolce Vita di Federico Fellini, ma il progetto è abbandonato a causa della morte di Marcello Mastroianni così come quello successivo di realizzare con Asia Argento un remake di The Driler Killer. Nel 2001 Ferrara è coinvolto nel progetto collettivo 11’ 09’’ 01 – Semptember 11 ma la sua idea di film sull’attacco al World Trade Center è scartata perché troppo estrema. Infine a metà degli anni 2000 il regista scrive la sceneggiatura di The Last Crew prequel di King of New York, con Mark Whalberg nella parte di Frank Withe, progetto che entra in fase di pre produzione ma che non trova i finanziamenti necessari, come il successivo Dr. Jekyll e Mr. Hyde, che prevede la trasformazione del medico sessantenne in bambino di pochi anni che grazie alla sua innocenza resta impunito per i crimini commessi.
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Master Class Locarno 64 – 6 Agosto 2011
In occasione della consegna del Pardo D’Onore Swisscom, il regista Abel Ferrara ha tenuto una “lezione di cinema” di fronte al pubblico del Festival di Locarno: “Se devo parlare del cinema hollywoodiano... Bene, non mi interessa, anzi, proprio non lo considero, perché lì non conta né cosa fai né chi sei, ma solo quanto incassi. Per cui cerco di tenermene alla larga. Detesto il cinema commerciale, detesto chi pensa solo a fare soldi, e in questo il cinema è un modo come un altro. Detesto chi va ad Hollywood solo per diventare ricco e ottenere la fama... desto anche vivere a Los Angeles. Mi sembra una “company city” dove tutti lavorano per il cinema e non c’è alternativa. O fai quello o sei out... è un mondo che detesto realmente. Certo quando vai a lavorare per loro, ti propongono montagne di soldi per fare i tuoi film, ma poi non riesci a fare i tuoi film e devi fare i loro. Anni fa mi è capitato dio vivere questa esperienza, di lavorare per loro... ma è un’esperienza che non ho intenzione di ripetere. Era il set di Body Snatchers, una produzione enorme rispetto alle mie intenzioni, e nonostante i miei tentativi, siamo riusciti a sforare di oltre quattro milioni di dollari. È stata una esperienza paradossale e orribile, tutto quello che volevo fare doveva essere approvato o meno, e tutto doveva essere fatto in maniera “troppo grande” rispetto agli standard cui ero abituato. È stata una esperienza che non voglio ripetere, una produzione che mi ha succhiato l’anima. Abbiamo lavorato come in una cazzo di miniera, abbiamo girato per sessanta giorni, otto ore ogni giorno con delle aspettative altissime. Quel film lo ricordo come un incubo.... se ripenso a quando ero giovane, avevo tutta un’altra immagine di Hollywood, che vedevo come il posto in cui i sogni si realizzano. Sono cresciuto a pane e cinema hollywoodiano, un po’ in televisione, un po’ al cinema del mio quartiere. Era un mondo che immaginavo fantastico, il mondo in cui “abitavano” tutti i miei eroi... ma ero piccolo... poi crescendo ho capito come stanno le cose e ho cambiato idea. Per fortuna c’era la televisione che oltre a quelli holly439
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woodiani trasmetteva anche tanti film europei, come quelli dei francesi o di Fellini, tanto per fare un nome, che mi hanno sicuramente ispirato di più delle produzioni americane. Io non sapevo chi li avesse fatti, non ho mai dato molta importanza a chi fa il film ma a come è il film..l’autore o il regista sì sono importanti, ma il cinema è un lavoro collettivo... Guardavo tutti questi film europei senza sapere di chi fossero, né da dove provenissero, solo dopo ho imparato a conoscere quel mondo... Se fai attenzione noi lavoriamo, lavoriamo, ma poi chi ha visibilità è chi viene da hollywwod. Anche io ho lavorato con attori hollywoodiani, e non me ne pento,...sono loro che non vogliono più lavorare con me....Prendi Madonna, con lei ho fatto Snake Eyes nel 1993, è stato piacevole lavorare con lei...ma è davvero una pessima attrice... Funziona così, a hollywood non conta quanto sei bravo, ma quanto, potenzialmente, puoi fare incassare. È per questo chi si inventano di continuo delle stronzate... Il 3D, che idea fottuta...non me ne parlate, non mi parlate del 3D. È la terza volta che cercano di rifilarci quella merda...Il cinema non ha bisogno della terza dimensione. Tu devi entrare in un cinema e per vedere un film ti devi rovinare la vista.. è un’idea pazzesca. Se vado al cinema ci vado per vedere un film, per starmene tranquillo, e invece quelli vogliono che ti metti quegli occhialini del cazzo... lasciate perdere... io non voglio farlo, non ho alcuna intenzione né di vedere film in 3D né di girare un film in 3D.... Spendono un sacco di soldi per queste stronzate, che vanno avanti per un po’ e poi spariscono, questa è la terza, o forse la quarta volta, che ci provano... e tu, invece, quando devi fare un film non sai dove cazzo sbattere la testa per trovare i finanziamenti... Negli ultimi anni ho dovuto girare il mondo per poter fare i miei film... Negli ultimi tempi sono stato in Italia, dove ci sono le mie origini, e anche lì ho dovuto litigare con i produttori, però, in fondo, continuavo a pensare: perché cazzo non ci ho pensato prima a venire qui?... Quando sei A New York, non ti immagini da nessuna altra parte, non puoi concepire di vivere altrove. C’è qualcosa, in quella città, che ti stringe come una morsa, ti tiene lì e non ti lascia andare via. Se sei cresciuto a New York, hai la sensazione che, se vai in qualunque altro posto, puoi solo stare come in un campeggio. Non esiste un’altra città che continua a vivere per ventiquattro ore di fila...È lì, in quell’ambiente, in quel magma continuo che nascono i miei personaggi...che non potrebbero nascere da nessuna altra parte e non potrebbero neanche vivere da nessuna altra parte... Sono estremi?...si è vero..., è fottutamente vero...ma sono quelli più interessanti, quelli che hanno bisogno di lottare di più per arrivare a ottenere il perdono o la redenzione. A me interessano loro. Loro cercano sempre una redenzione, che non necessariamente è quella nel Dio che conosciamo o come amiamo definirlo... Io non so se credo in Dio, credo però che tutto quello che abbiamo intorno, i posti dove viviamo, il mondo che attraversiamo, insomma tutto quello che abbiamo su questo fottuto pianeta, non è di certo opera della Coca Cola Company. 440
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Chi lo ha fatto?.. e chi sono io per dare questo tipo di risposte... perché lo chiedete a me?... non lo so, come non lo sapete voi.. chiamatelo Dio, oppure come vi pare... Se però è cieco oppure guarda da un altra parte... non lo so, quello che so è che non guarda verso l’uomo. So che alcuni pensano che io sia cattolico, e forse lo sono stato e forse lo sono, in fondo quella è la mia formazione, ma non mi sento tale... Credo di essere fondamentalmente buddhista, cioè, più precisamente, come un buddhista, perché amo soffermarmi a pensare e ad osservare le cose, meditare sulle cose. Non lo so, ma credo di ricercare una forma di spiritualità simile a quella buddhista, la ricerco nelle cose e nelle persone, così come nelle storie che voglio raccontare. Scrivere queste storie è faticoso ed estenuante, ti assorbe un sacco di energie... è la parte più faticosa della realizzazione di un film.. dopo quella di trovare i soldi per farlo... Credo che la migliore esperienza fatta a livello di sceneggiatura risalga ad alcuni anni fa. La migliore esperienza in merito, è sicuramente, stata quella di The Funeral, un mio amico me l’ha portata scritta e completa. Non ho dovuto fare nulla. Altrimenti è necessario seguire passo per passo, dalle prime battute a quando arriva in mano agli attori. Un lavoro estenuante. E poi... fai tutto questo lavoro, ti agiti per fare del tuo meglio e a volte non riesci neanche a vedere il tuo film in una sala cinematografica... in America succede spesso con i miei film... Il problema è che oggi è praticamente impossibile vedere alcuni miei film, conoscere le mie storie... Oggi però, per fortuna c’è internet, e allora possono censurare quello che vogliono, impedirti di lavorare o modificare il tuo lavoro, ma poi, alla fine su internet trovi tutto quello che vuoi.. così è per i miei film... L’unico modo per vederli è internet. Cercate i torrent. Ecco qual’è il mio più grande distributore. Sono tutti lì. Certo, non mi piacerebbe trovarci quello su cui sto ancora lavorando. Ma per il resto, basta andare in rete.... Detto questo, a volte succede l’incredibile, come il fatto che qualcun altro si metta a rifare un tuo film e non ti chieda neanche se può farlo. Sto parlando di Werner Herzog che ha rifatto il mio Bad Lieutenant, ma è una merda...non dico, non fare il mio film, ma cerca di avere delle idee, o quanto meno chiedimi il permesso, io non farei mai il film di un altro... non mi piace molto parlarne, e per me non è un capitolo chiuso... Probabilmente lui non voleva urtarmi, ma con lui io ho un problema.., un grosso problema!... Adesso sono qui, con il mio ultimo film, e voglio parlare di questo, anzi venite a vederlo... Lo so che ha un titolo mistico, che può far pensare ad un certo simbolismo. D’altra parte parla di relazioni, ma soprattutto della fine del mondo... E poi io guardo al futuro: non ci si ritira mai, non ci si ferma, si va sempre avanti. Un regista non è un calciatore che si ritira a trent’anni...”148
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Traduzione Nostra
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Cast and credits
Nicky’s Film (1971) Durata: 6 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicodemo Oliverio (Nicholas St. John) Cast: Nicodemo Oliverio (Nicky), Abel Ferrara (l’uomo dietro la scrivania), Nadia Von Loeweinstein (la donna che dorme) The Hold-Up (1972) Durata: 14 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John e Abel Ferrara. Fotografia: Habi Vogel. Suono: John Paul Mc Intyre e Brendon Jones. Produttore: John Howard. Cast: Ken Fowler (Johnny), Mary Kane (moglie di Johnny), Robert Denson (Bob), Joe Guida (Joe), Joseph Capecchi, John Paul Mc Intyre. Could This Be Love (1973) Durata: 29 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Abel Ferrara. Fotografia: John Rosen (Francis Delia non accreditato). Montaggio: Joseph Burton. Musica: eseguita dai Rolling Stones e Dennis Gray. Scenografia: David Pirel. Dipinti: Douglas Anthony Metro (accreditato come Douglas Gervasi). Produttore: Claude Ramirez per la Caution Films. Cast: Nadia Von Loeweinstein (Jacky), Dee Dee Rescher (Renée), Cassie Holtzberg (Cathy, accreditata come Casandra Cortez), David Pirel (Michael), Lanny Taylor (Stephen), Carl Loow (Mr Gatto), Dennis Gray (Dennis), Alphonso Ferrara (Bartender). 9 Lives of a Wet Pussy/ Nine Lives (1976) Titolo di lavorazione: White Woman Durata: 70 min. Regia: Abel Ferrara (accreditato come Jimmy Boy L.). Sceneggiatura: Nicholas St. John (accreditato come Nicholas George). Fotografia: Francis Delia (accreditato come Francis X. Wolfe). Montaggio: K. James Lovitt. Musica: Joseph Delia. Suono: John 442
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Paul Mc Intyre. Produttore: Arthur Weisberg (non accreditato) per Navaron Films. Cast: Pauline LaMonde (Paoline), Dominique Santos (Gypsy), Joy Silver (Nacala), David Pirel (il marito), Shaker Lewis (Abel Ferrara?, l’uomo della stalla), Nicholas St. John (autista, accreditato come Nicholas George), Abel Ferrara (il nonno accreditato come Jimmy Laine). Not guilty: for Keith Richards (1977) Durata: 5 min. Regia: Abel Ferrara e Babeth Mondini-Vanloo. Sceneggiatura: Abel Ferrara e Babeth (Babeth Mondini-Vanloo). Fotografia: Abel Ferrara. Montaggio: Bebeth MondiniVanloo. Musica: Rolling Stones. Produttore: Babeth Mondini-Vanloo. Cast: Abel Ferrara (Keith Richards), Susan Andrews (giudice). The Driller Killer (1979) Durata: 96 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John (accreditato come N.G. St. John). Fotografia: James Lemmo (accreditato come Jimmy Spears) e Ken Kelsch. Montaggio: Orlando Gallini, Bonnie Constant, Michael Constant, Abel Ferrara (accreditato come Jimmy Laine). Musica: Joseph Delia, Abel Ferrara (accreditato come Jimmy Laine) co-autore della versione punk di Grand Street Stomp. Scenografia: Douglas Anthony Metro. Produttore: Rochelle Weisberg e Douglas Anthony Metro per Navaron Films/Rochelle Film. Cast: Abel Ferrara (Reno Miller, accreditato come Jimmy Laine), Carolyn Marz (Carol), Baybi Day (Pamela), Harry Schultz (Dalton Briggs), Alan Wynroth (il vecchio), Maria Helhoski (la suora), Butch Morris (un barbone). I Roosters sono: Douglas Anthony Metro (Tony Coca-cola, accreditato come Rhodney Montreal, alla chitarra), Dicky Bittner (Ritchy, al basso), Steve Brown (Steve, alla batteria). Ms 45 / Angel of vengeance (1980) Titolo italiano: L’angelo della vendetta Durata: 80 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John (accreditato come N.G. St. John). Fotografia: James Lemmo (accreditato come James Momel). Montaggio: Christopher Andrews. Musica: Joe Delia. Scenografia: Ruben Masters. Suono: John Paul Mc Intyre. Produttore: Rochelle Weisberg. Produttori associati: Mary Kane e Richard Howorth per Navaron Films. Cast: Zoë Tamerlis (Thana), Bogey (Phil), Albert Sinkys (Albert), Darlene Stuto Laurie, Helen Mcgara (Carol), Nike Zachmanoglou (Pamela), Abel Ferrara (primo stupratore, accreditato come Jimmy Laine), Peter Yellen (ladro stupratore), Editta Sherman (signora Nasone), Vincent Gruppi (rockabilly), S. Edward Singer (fotografo), Stanley Tims (pappone), Faith Peters (prostitute), Alvin Moore (detective), Nicholas St. John 443
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(assistente del detective, accreditato come N.G. St. John), Mariana Tripaldi (acquirente), Bogeey (il cane Philly). The Beds (1982) Regia: Abel Ferrara. Produttore: Mary Kane Fear City / Border (1984) Titolo italiano: Paura su Manhattan Durata: 96 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John. Fotografia: James Lemmo. Montaggio: Jack Holmes, Anthony Redman. Musica: Dick Halligan, Joe Delia. Scenografia: Vincent M. Cresciman. Costumi: Linda M. Bass. Produttore: Bruce Cohn Curtis per Zupnik-Curtis Enterprises. Produttori esecutivi: Tom Curtis e Stanley R. Zupnik. Cast: Tom Berenger (Matt Rossi), Melanine Griffith (Loretta), Billy Dee Williams (Wheeler), Jack Scalia (Nicky), Rae Dawn Chong (Leila), Joe Santos (Frank), Michael V. Gazzo (Mike), Jan Murray (Goldstein), Janet Jiulia (Ruby), Maria Conchita Alonso (Silver), Daniel Faraldo (Sanchez), Ola Ray (Honey), John Foster (pazzo), Jim Boeke (architetto), Juan Fernandez (jorge), Rossano Brazzi (Carmine). Miami Vice (1985) Episodio 20: The home invaders. Titolo italiano: Gli invasori della casa Durata: 49 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Chuck Adamnson. Fotografia: James A. Contner. Montaggio: Joe Godman. Musica: Jan Hammer. Produttori: Richard Brams, John Nicolella, Liam O’Brien. Produttore esecutivo: Michael Mann. Messa in onda: 15 Marzo 1985. Cast: Don Johnson (Sonny Crockett), Philip Michael Thomas (Ricardo Tubbs), Saundra Santiago (Gina Calbrese), Michael Talbott (Switek), John Dehl (Zito), Olivia Brown (Trudy Joplin), Edward James Olmos (Castillo), Paul Calderon (Nicky), David Patrick Kelly (Jerry), Nancy Valin (Lana). Episodio 27: The dutch oven. Titolo italiano: Una donna senza onore Durata: 49 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Maurice Hurley. Fotografia: James A. Contner. Montaggio: Robert A. Daniels. Musica: Jan Hammer. Produttori: Richard Brams, John Nicolella, Liam O’Brien. Produttore esecutivo: Michael Mann. Messa in onda: 25 Ottobre 1985. Cast: Don Johnson (Sonny Crockett), Philip Michael Thomas (Ricardo Tubbs), Saundra Santiago (Gina Calbrese), John Dehl (Zito), Olivia Brown (Trudy Joplin), 444
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Edward James Olmos (Castillo), Cleavant Derricks (David Jones), Gian Carlo Esposito (Adonis Jackson). Non accreditati: Nicholas St. John (spacciatore), Joe Delia (musicista). The Gladiator (1986) Titolo italiano: Il Gladiatore Durata: 98 min. Regia: Abel Ferrara. Soggetto: Tom Schulman, Jeffrey Walzer. Sceneggiatura: William Bleich. Fotografia: James Lemmo. Montaggio: Herbert H. Bow. Musica: David Frank. Scenografia: Richard E. La Motte. Produttore: Robert Lovenheim. Produttori esecutivi: Tom Schulman e Michael Chase Wlaker. Co-produttore: William Bleich. Compagnia di produzione: Walker Brothers/New World Television. Messa in onda: 3 Febbraio 1986. Cast: Ken Wahl (Rick Benton), Nancy Allen (Susan Neville), Robert Culp (Frank Mason), Stan Shaw (Joe Barker), Rosemary Forsyth (Loretta Simpson), Brian Robbins (Jeff Benton). Crime Story (1986) Titolo italiano: Crime Story-Vite sbagliate/Crime Story-Le strade della violenza Durata: 96 min. Regia: Abel Ferrara. Soggetto: Chuck Adamnson, Gustave Reininger. Sceneggiatura: Chuck Adamnson, Gustave Reininger, David J. Burke. Fotografia: James Contner. Montaggio: Jack Hofstra. Musica: Todd Rundgren. Scenografia: Gregory Bolton. Produttore: Ervin Zavada. Produttore esecutivo: Michael Mann. Compagnia di produzione: Michael Mann Productions/New World Television. Messa in onda: 18 Settembre 1986 Cast: Dennis Farina (tenente Mike Torello), Anthony Denison (Ray Luca), David Caruso (Johnny O’Donnell), Stephen Lang (David Abrams), Darlanne Fluegel (Julie), Jon Polito (Bartoli), William Smitrovich (sergente Danny Krychek), Steve Ryan (Nate Grossman), William Russ (Wes Connelly), Bill Campbell (Joey Indelli), Paul Butler (Walter Clemmons), Ted Levine (Frank Holman), Elisabeth Bracco (cameriera), Andrei Dice Clay (Goldman), Lisa Jane Persky (Joanne Goldman), Michael Rooker (tenente), Eric Bogosian (DeWitt Morton). Nel 1987 Ferrara dirige anche cinque episodi della serie: The Mafia War, Blood Feud, The Vegas Connection, Lucas Fall e The Final Charter. China Girl (1987) Titolo italiano: China girl Durata: 90 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John. Fotografia: Bojan Bazelli. Montaggio:Anthony Redman. Musica: Joe Delia. Scenografia: Dan Ligh. Consulenti creativi: Christopher Andrews, John Paul Mc Intyre. Costumi: Richard Hornung. 445
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Produttore: Michael Nozik per Vestron Pictures. Produttori esecutivi: Mitchell Cannold e Steven Reuther. Produttore associato: Mary Kane. Cast: James Russo (Alby Monte), Richard Panebianco (Tony Monte), Sari Chang (TayanHwa), David Caruso (Mercury), Russel Wong (Yung Gan), Joey Chin (Tsu Shin), Judith Malina (Maria Monte), Robert Miano (Enrico Perito), Paul Hipp (Nino), James Hong (Gung Tu), Doreen Chan (Gau Shong), Randy Sabusawa (Ma Fan), Keenan Leung (Ying Tz), Lum Chang Pan (Da Shan), Josephina Gallego-Diaz (Rosetta), Robert Lasardo (Carlo Forza), Chi Moy (Yang), Anthony Dante (Costare), Diane Cheng (Nyuren), Frank Young (Walter), John Ciarcia (Cha Cha), Jon Orofino (Nicky), Ida Bernadini (Rosa). The Loner (1988) Durata: 49 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Larry Gross. Fotografia: Tony Richmond. Montaggio: Anthony Redman. Musica: Joe Delia. Consulente creativo: Douglas Anthony Metro. Produttore: Larry Gross per Aaron Spelling Productions. Produttori esecutivi: Aaron Spelling, E. Duke Vincent. Cast: John Terry (Michael Shane), Vanessa Bell (Jane Carver), Larry Hankin (Abner Gibson), Constance Towers (Kate Shane), Clare Kirkconnell (Jessica Greenville), Kristy Swanson (Sherry Spicer), Michael Medeiros (Kyle Hadley), Claude Brooks (Cole Newton), William Russ (Jake Willis), Rick Logan (Manny Sanchez), Monty Bane (Boomer). Cat Chaser (1988) Titolo italiano: Oltre ogni rischio Durata prevista: 157 min. Durata della prima versione: 110 min. Durata della versione in circolazione: 90 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: James Borelli, Elmore Leonard (e Alan Sharp non accreditato), dal romanzo di Elmore Leonard. Fotografia: Anthony B. Richmond. Montaggio: Anthony Redman. Musica: Chick Corea. Scenografia: Dan Leigh. Costumi: Michael Kaplan. Produttori: Peter S. Davis e William Panzer per Vestron Pictures. Produttoti esecutivi: Guy, Collins e Josi Konski. Produttore associato: Mari Provengano. Cast: Peter Weller (George Moran), Kelly McGillis (Mary DeBoya), Tomas Milian (Andres DeBoya), Charles Durning (Jiggs Scully), Frederik Forrest (Nolen Tyner), Juan Fernandez (Rafi), Kelly Jo Minter (Loret), Phil Leeds (Jerry Shea), Tony Bolano (Corky), Adrienne Sachs (Anita DeBoya), Maria R. Ruperto (Luci Palma), Vivian Addison (Maid Lula), Brooke Becker (Philly), Fara chiller (Marylin), Guido Inguanzo (autista), Victor Rivers (Ermeillo Mendoza). King of New York (1989) Titolo italiano: King of New York Durata: 103 min. 446
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Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John. Fotografia: Bojan Bazelli. Montaggio: Anthony Redman. Musica: Joe Delia. Scenografia: Alex Tavoularis. Consulenti creativi: John Paul Mc Intyre, Christopher Andrews. Costumi: Carol Ramsey. Produttore: Augusto Caminito per Rete Italia e Scena International. Produttori esecutivi: Jay Julien e Vittorio Squillante. Produttore associato: Randy Sabusawa. Cast: Christopher Walken (Frank White), Larry Fishburne (Jimmy Jump), David Caruso (Dennis Gilley), Victor Argo (Roy Bishop), Wesley Snipes (Thomas Flanigan), Janet Julian (Jennifer), Paul Calderon (Joey Dalesio), Joey Chin (Larry Wong), Gian Carlo Esposito (Lance), Steve Buscemi (chimico), Theresa Rande (Raye), Carrie Nygren (Melanine), Leonard Leen Thomas (Blood), Roger Guenveur Smith (Tanner), Frank Gio (Arty Clay), Jay Julien (Abraham Cott), Harold Perrineu Jr. (capo dei teppisti), Sari Chang (reporter TV). King of New York (1990) Durata: 3 min. Regia: Abel Ferrara. Fotografia: Ken Kelsch. Musica: Schoolly D. Produttore: Randy Sabusawa. Cast: Schoolly D., Larry Fishburne, Theresa Randle, Code Money. Videoclip della canzone omonima. FBI: The Untold Stories (1991) Durata: 25 min. Regia: Abel Ferrara (non accreditato) e Charles Braveman. Sceneggiatura: Zöe Lund (non accreditata) e Donna Kanter. Fotografia: Ken Kelsch (non accreditato) e Donald M. McCuaig. Montaggio: M. Edward Salier. Musica: Bill Fulton e Richard Bower. Produttore: Joe Morheim, Lou Morheim, David Buelow per The Arthur Company. Produttori esecutivi: Arthur L. Annecharico. Produttore associato: Randy Sabusawa (non accreditato), J. J. Jacobson e Mary Kane. Cast: Gregory Sierra (Jimmy Chagra), Barry Cullison (Charles Harrelson), Vic Trevino (Joe Chagra), Charlie Sprading (Liz Chagra), Randi Brazen (Joan Harrelson), Donna Wilkes (Teresa Starr), Tommy Townsend (giudice Wood). Bad Lieutenant (1992) Titolo italiano: Il Cattivo Tenente Durata: 96 min. Durata versione R-Rated: 91 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Zöe Lund e Abel Ferrara. Fotografia:Ken Kelsch. Montaggio: Anthony Redman. Musica: Joe Delia. Scenografia: Charles M. Lagola. Costumi: David Sawarin. Produttore: Edward R. Pressman e Mary Kane. Produttori esecutivi: Patrick Wachsberger e Ronna B. Wallace. Produttore associato: Randy Sabusawa. 447
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Cast: Harvey Keitel (Lt.), Frankie Thorn (suora), Victor Argo, Paul Calderon e Leonard Thomas (poliziotti che scommettono), Zöe Lund (Zöe), Paul Hipp (Gesù Cristo), Fernando Velez (Julio), Joseph Michael Cruz (Paulo), Anthony Ruggiero (Lite), Vincent ladresca (JC), Robin Burrows (Ariane, prostituta), Victoria Bastell (seconda prostituta), Eddie Daniels e Bianca Bakija (ragazze in macchina), Nicholas Decegli (spacciatore in discoteca), Brian McEllroy e Frankie Acciarino (figli del tenente), Peggy Gormley (moglie del tenente), Stella Keitel (figlia del tenente), Heather Bracken (infermiera), Ed Kovens (monsignore), Bo Dietle (se stesso), Anthony Redman (voce stazione dei bus, non accreditato). Body Snatchers (1993) Titolo italiano: Ultracorpi – L’invasione continua Durata: 87 min. Regia: Abel Ferrara. Soggetto: Raymond Chisteri (Brian Yuzna?) e Larry Cohen, dal romanzo di Jack Finney The Body Snatchers. Sceneggiatura: Stuart Gordon, Dennis Paoli, Nicholas St. John, Billy Wirth (non ccreditato), Nevin Schreiner (non accreditato). Fotografia: Bojan Bazelli. Montaggio: Anthony Redman e Dade Allen (non accreditato). Musica: Joe Delia. Scenografia: Peter Jameson. Effetti Speciali: Thomas R. Barman, Bari Dreiban-Burman. Costumi: Margareth Mhor. Produttore: Robert H. Solo per Warner Bros. Produttore associato: Kimberly Brent. Co-produttore: Michael Jaffe. Snake Eyes/Dangerous Game (1993) Titolo italiano: Occhi di serpente Durata: 103 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John. Fotografia:Ken Kelsch. Montaggio: Anthony Redman. Musica: Joe Delia. Scenografia: Alex Tavoularis. Costumi: David Sawarin. Produttore: Mary Kane per Maverick Pictures company/Eye films Inc.. Produttori esecutivi: Freddy DeMann, Ron Rotholz. Cast: Harvey Keitel (Eddie Israel), Madonna/Mary-Louise Veronica Ciccone (Sarah Jennings), James Russo (Francis Burns), Nancy Ferrara (Madlyn Israel), Reilly Murphy (Tommy Israel), Christina Fulton (spacciatrice), Glenn Plummer (Glenn), Niki Munroe (ragazza nel camper), Heather Bracken (hostess), Victor Argo (direttore della fotografia), Leonard Thomas (trovarobe), Lory Eastside (ospite al party), Randy Sabusawa (produttore), Anthony Redman (ballerino), Hiram Ortiz (parrucchiera). Cast non accreditato:Nina Siemaszko (moglie del ballerino), Ken Kelsch (uomo della troupe). I Know You Want to Kill Me (1994) Durata: 4 min. Regia: Abel Ferrara. Musica: Schoolly D. Cast: Schoolly D. Videoclip della canzone omonima – censurato dalla Sony 448
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The Addiction (1994) Titolo italiano: The Addiction – Vampiri a New York Durata: 82 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John. Fotografia:Ken Kelsch. Montaggio: Mayin Lo. Musica: Joe Delia. Scenografia: Charles M. Lagola. Costumi: Melinda Eschelman. Consulenti creativi: anthony Redman, John Paul Mc Intyre. Produttori: Dennis Hann e Fernando Sulichin pe Fast Films Inc./October Films. Produttori esecutivi: Preston Holmes, Russel Simmons. Produttori associati: Anthony Blinken, Marla Hanson. Cast:Lily Taylor (Kathleen Conklin), Christopher Walken (Peina), Annabella Sciorra (Casanova), Edie Falco (Jean), Paul Calderon professore), Kathrine Herbe (studentessa), Freddo Starr (ragazzo nero), Jamel “Redrum” Simmons (suo amico), Michael Imperioli (prete che volantina), Jay Julien (rettore), Nicholas Decegli (soccorritore), Dr. Louis A. Katz (dottore), Heather Bracken(infermiera), Father Robert Castle (se stesso), Michael Fella (poliziotto). Nigger Enterteinement (1995) Durata: 5 min. Regia: Abel Ferrara. Fotografia: Ken Kelsch. Musica: Schoolly D. Produttore: Randy Sabusawa. Cast: Schoolly D., Randy Sabusawa. Videoclip della canzone omonima. The Funeral (1996) Titolo italiano: Fratelli Durata: 99 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Nicholas St. John. Fotografia:Ken Kelsch. Montaggio:Bill Pankow, Mayin Lo. Musica: Joe Delia. Scenografia: Charles M. Lagola. Costumi: Melinda Eschelman. Produttore: Mary Kane per MDP Worldwide e October Films. Produttori esecutivi: Michail Chambers e Patrick Panzanella. Produttori associati: Jay Cannold, Annabella Sciorra, Russel Simmons. Co-produttore: Randy Sabusawa. Cast: Christopher Walken (Ray Tempio), Chris Penn (Cesarino “Chez” Tempio), Vincent Gallo (Johnny Tempio), Annabella Sciorra (Jeanette Tempio), Isabella Rossellini (Clara Tempio), Gratchen Moll (Helen), Benicio Del Toro (Gaspare Spoglia), Patrick McGann (assassino di Johnny), John Ventimiglia (Sal), Paul Hipp (Ghouly), Victor Argo (Julius), David Patrick Kelly (Michael Stein), Amber Smith (Brigitte), Robert Miano (Enrico Borghese), Heather Bracken (Liz), Mia Bablis (Mia), Gian DiDonna ( Ray Tempio Sr.), Paul Perry (Ray ragazzo), Gregory Pirelli (Chez piccolo), Joey Hannon ( Chez ragazzo), Nicholas Decegli (Victor), Phil Neilson (Billy), Edie Falco (donna alla riunione), Carrie Slaza (Fox), Santo Fazio (becchino), Chuck Zito (Zito), Vincent Lamberti (James), Dimitry Pracheno (Sentieri), Anthony Alessandro (dottore), Father Robert Castle (se stesso). 449
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California (1996) Durata: 5 min. Regia: Abel Ferrara. Fotografia: Ken Kelsch. Musica: Mylene Farmer. Produttore:Anouk Nora per Toutankhamon S.A. Cast: Mylene Farmer (Moglie/Prostituta),Gian Carlo Esposito (Star/pappone). Videoclip della canzone omonima. The Blackout (1997) Titolo italiano: Blackout Durata: 98 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Marla Hanson, Christ Zois, Abel Ferrara. Fotografia: Ken Kelsch. Montaggio: Anthony Redman. Musica: Joe Delia e Schoolly D.. Scenografia:Richard Hoover. Costumi: Melinda Eschelman. Consulenti creativi: Jim Mol, Lori Eastside. Produttori: Edward R. Pressman e Clayton Townsend per CIPA/Les Films Number One/MDP Worldwide. Produttori esecutivi: Mark Damon, Alessandro Camon, Gianni Nunnari, Meir Teper. Produttore associato: Jay Cannold. Cast: Matthew Modine (Matty), Tennis Hopper (mickey Wayne), Béatrice Dalle (Annie), Sarah Lassez (Annie 2), Claudia Schiffer (Susan), steven Bauer, Nancy Ferrara, Laura Bailey; andy Fiscella, Vincent Lamberti (troupe dello studio di Mickey), Nicholas Decegli (spacciatore), Daphne Duplaix, Mercy Lopez (prostitute), Victoria Duffy (script girl), Lory Eastside (ragazza), Shareef Malnick (l’uomo con la “carta oro”), Peter Cannold (operatore), Christ Zois (psichiatra, non accreditato), Schooly D., Joe Delia, Lucille Grace (musicisti nello studio di Mickey, non accreditati). Abel Ferrara compare tra i musicisti con lo pseudonimo di “Jimmy Laine”. Subway Stories: Tales From the Underground (1997) Episodio 9: Love on the “A” train Titolo italiano: Subway Stories – cronache metropolitane Durata: 9 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Marla Hanson. Fotografia: Ken Kelsch. Montaggio: Elisabeth Kling. Musica: Mecca Bodega. Scenografia: Edward Check. Produttore: Rich Guay, Valerie Thomas per HBO NYC e Clinica Estetico Production/Ten in Car production. Produttori esecutivi: Jonathan DEmme, rosie Perez, Edward Saxon. Cast: Michael McGlone (John T.), Gretchen Moll (la moglie), Rosie Perez (la donna). New Rose Hotel (1998) Titolo italiano: New Rose Hotel Durata: 93 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Christ Zois, Abel Ferrara.Basata sul racconto omonimo di William Gibson. Fotografia: Ken Kelsch. Montaggio: Jim Mol, Anthony Redman. Musica: Schoolly D.. Scenografia: Frank DeCurtis. Costumi: David C. Robinson. Produttore: Edward R. Pressman. 450
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Co-produttore: Adam Brightman. Produttori esecutivi: Jay Cannold, Alessandro Camon. Cast: Christopher Walken (Fox), Willem Dafoe (X), Asia Argento (Sandii), Toshitaka Amano (Hiroshi), Annabella Sciorra (Madame Rose), Ryuichi Sakamoto (CEO della Hosaka), John Lurie (cliente), Gretchen Moll (moglie di Hiroshi), Ken Kelsch (lo spedizioniere), Victor Argo (l’uomo d’affari a Marrackesh), John Ciarcia (Cha Cha), Echo Danon (cantante#1), Kyrie Tinch (cantante#2), Bridget Bernardt (bar-woman), Frankie Cee (Frankie Fats), Vincent D’marco, Waltert Abraham, Sal Savino, Sam Canegallo (tecnici di laboratorio). Iowa(1998) Durata: 3 min. Regia: Abel Ferrara. Musica: The Poids. Cast: The Poids. Videoclip della canzone omonima. Don’t Change Your Plans (1999) Durata: 4 min. Regia: Abel Ferrara. Musica: Ben Folds Five. Produttore: Epic Rcords/550 Cast: Gretchen Moll, Ben Folds, Robert Sledge, Darren Jessee, John Mark Painter. Videoclip della canzone omonima. ‘R-Xmas (2000) Titolo di lavorazione: Christmas Story Titolo italiano: Il nostro Natale Durata: 85 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Scott Pardo, Abel Ferrara, da un racconto di Lugi Hernandez (accreditato come “Casandra De Jesus”). Fotografia: Ken Kelsch. Montaggio:Bill Pankow, Suzanne Pillsbury, Patricia Bowers. Musica: Schoolly D.. Scenografia: Frank DeCurtis. Costumi: Debra Tennenbaum Produttore:Pierre Kalfon per Studio Canal. Produttori associati: Lugi Hernandez (accreditato come Casandra De Jesus), Tony Trimarco. Co-produttori: Frank DeCurtis, Denis Heraud, Richard Klug. Produttori esecutivi: Stefano Celesti e Barry Amato. Cast :Drea DeMatteo (la moglie), Lillo Brancato Jr.(il marito), Ice-T (poliziotto/rapitore), Lisa Valans (la figlia), Dan Sweeney (babbo natale), John R: Tramatola III (il bambino in braccio a babbo natale), Brsalda Vega (commessa), Raymond “Voodoo Ray” Ultare (l’uomo del garage), Luis Santos (Tio), Victor Argo (Louie), Naomi morales (Niece), Orran Farmer (Sucio), Jamal “Redrum” Simmons (Trey), Andy Fiscella, Thomas Murray, EdWin “Eddie” Martinez (complici), Carlos Leon (amico del marito).
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Flowerland (2002) Durata: 4 min. Regia: Abel Ferrara. Musica: Flowerland. Cast: Floweland (Steven Christofor, Roger Guimond, Jon Lichaltz, Jeff St. George). Videoclip della canzone omonima Rain (2002) Durata: 3 min. Regia: Abel Ferrara. Musica: Abenaa. Cast: Abenaa. Videoclip della canzone omonima. You Don’t Look So Good (2003) Durata: 3 min. Regia: Abel Ferrara. Fotografia.: Jim Mol. Montaggio: Jim Mol, Ruth Maria Mamaril. Musica: Dead Combo. Produttore:Frank DeCurtis . Cast: Nuuti Kataja, Harry Kupiainen (Dead Combo), Jonna Nygren. Videoclip della canzone omonima. Move With Me (2004) Regia: Abel Ferrara e Tony D’angelo. Fotografia: Fabio Cianchetti. Musica: Kyrsten. Cast: Kyrsten Videoclip della canzone omonima. Tiny Alice (2005) Tiolo italiano: Piccola Alice Durata: 132 min. Regia teatrale: Abel Ferrara. Piece: Edward Albee. Scenografie: Frank De Curtis. Musica dal vivo: Francis Kuipers Cast: Luca Lionello (Frate Julian), Antonio Iuorio (Cardinale), Chiara Caselli (Alice), Claudio Botosso (avvocato), Antonio Piovanelli (maggiordomo) Mary (2005) Titolo italiano: Mary Durata: 83 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Simone Lageoles, Abel Ferrara, Mario Isabella. Fotografia: Stefano Falivene. Montaggio: Langdon Page, Fabio Nunziata. Musica: Francis Kuipers. Scenografia: Frank DeCurtis. Produzione: Wild Bunch, Associated Film, Central Films, De Nigris Productions, Surreel Cast: Juliette Binoche (Marie Palesi), Forest Whitaker (Theodor Younger), Matthew Modine (anthony Childress) , Heather Graham (Elizabeth), Marion Cotillard Gretchen), Stefania Rocca, Marco Leonardi, Luca Lionello, Mario Opinato, Elio Germano, 452
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Emanuela Iovannitti, Chiara Picchi, Angelica di Majo, Ettore D’Alessandro, Aza Benyatov, Francine Berting, Giovanni Capalbo, Roy-Oronzo Casalini, Go Go Tales (2007) Titolo italiano: Go go tales Durata: 100 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Abel Ferrara. Fotografia: Fabio Cianchetti. Montaggio: Fabio Nunziata. Musica: Francis Kuipers. Scenografia: Frank DeCurtis. Arredamento: Corinna Ughi; Costumi: Gemma Mascagni. Effetti: Wonderlab; Produzione: Bellatrix Media, Go Go Tales Inc., De Nigris Productions Cast: Willem Dafoe (Ray Ruby), Bob Hoskins (il barone), Matthew Modine (Johnie Ruby), Asia Argento (Monroe), Roy Dotrice (Jay), Lou Doillon (French), Riccardo Scamarcio (Dottor Steven), Stefania Rocca (Debby), Bianca Balti (Adrian), Sylvia Miles (Lilian Murray), Burt Young (Murray), Joe Cortese (Danny Cash), Andy Luotto (Stanley), Anita Pallenberg (Zia Sin), Danny Quinn (Clark), Romina Power (Yolanda Vega) One Dream Rush – Dream Piece (2008) Durata: 42 sec. Regia: Abel Ferrara. Produttore esecutivo: Andrew Apostola. Art director/curatore: Rajan Mehta. Co-curatore: Ilya Rozhdestvensky. Responsabile del progetto: Hody Hong. Interfaccia e progettista: Courtney Kim. Consulenti tecnici: Narinda Reeders e Leigh-Smith Grigio Chelsea on the Rocks (2008) Titolo italiano: Chlsea on the rocks Durata: 88 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Abel Ferrara, Christ Zois, David Linter. Fotografia: Ken Kelsch. Montaggio: Langdon Page. Musica: Hal Willner. Produzione: Deerjen Films. Cast: Grace Jones, Giancarlo Esposito, Bijou Phillips, Jamie Burke, Christy Scott Cashman, Dennis Hopper, Ethan Hawke, Milos Forman, Andy Warhol, William S. Burroghs, Janis Joplin, Stanley Bard, Adam Goldberg, Gaby Hoffmann, Vito Acconci, R Crumb, Lola Schnabel Mulberry St. (2009) Titolo italiano: Mulberry St. Durata: 90 min. Regia: Abel Ferrara. Riprese: Jimmy Lee Phelan, Douglas Underdahl, Sean Price Williams. Montaggio: Byron Karl, Joseph Saito. Suono: Thomas Myers. Produttore: Michael M. Bilandic. Produttore esecutivo: Frankie Cee. Produttore associato: Charles Gambetta. 453
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Cast (in ordine alfabetico e tutti nella parte di se stessi): Danny Aiello, Frank Aquilino, Frankie Cee, John “Cha Cha” Ciarcia, Abel Ferrara, Shanyn Leigh, Matthew Modine, Gianni Russo, Frank Vincent, Paul Zucker Napoli Napoli Napoli (2009) Durata: 109 min. Regia: Abel Ferrara. Soggetto: Giuseppe Lanzetta, Maurizio Braucci, Gaetano Di Vaio, Abel Ferrara. Sceneggiatura: Giuseppe Lanzetta, Maurizio Braucci, Gaetano Di Vaio, Abel Ferrara, Maria Grazia Capaldo. Fotografia: Alessandro Abate. Montaggio: Fabio Nunziata. Musica: Francis Kuipers. Scenografia: Frank De Curtis. Produttori: Minerva Production & Marketing, P.F.A. Films, Figli del Bronx, Massimo Cortesi, Luca Liguori. Produttori associati: Fabio Gargano, Pietro Pizzimento. Cast: Luca Lionello (Sebastiano), Salvatore Ruocco (Franco), Benedetto Sicca (Carmine), Salvatore Striano (Gennaro), Ernesto Mahieux (Celestino), Shanyn Leigh (Lucia), Giuseppe Lanzetta (Padre di Lucia), Anita Pallenberg (Madre di Lucia), Giovanni Capalbo (Tic Tac), Luigi Maria Burruano (comandante), Maurizio Braucci, Alberto Paolo, Gaetano Di Vaio, Abel Ferrara. 4:44 – Last Day on Earth (2011) Titolo italiano: 4:44 – Last Day on Earth Durata. 82 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Abel Ferrara. Fotografia: Ken Kelsch. Montaggio: Anthony Redman. Cxstumi: Moira Shaughnessy. Scenografia: Frank De Curtis. Produttori: Brahim Chioua, Peter Danner, Adam Folk, Juan de Dios Larraín, Pablo Larraín, Vincent Maraval Cast: Willem Dafoe (Cisco), Shanyn Leigh (Skye), Natasha Lyonne (Tracy Tennis), Paul Hipp (Noah), Paz de la Huerta, Cattivi Guagliuni (2011) Durata: 4 min. Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Abel Ferrara Fotografia: Ken Kelsch. Musica: 99 Posse. Camera Francesca Amitrano, Emanuela Pirelli, Loredana Antonelli. Scenografia: Frank De Curtis Produttore esecutivo: Fabio Gargano 2011 Figli Del Bronx Cast: Joe Capalbo (ispettore), Salvatore Ruocco (poliziotto), Alberto Santonastaso (killer), Peja (killer) Videoclip della canzone omonima. Storia di Abele/Mio nonno (2012/2013) Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Abel Ferrara, Maurizio Braucci e altri.
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Bibliografia
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Dario Zonta, Il viaggio in Italia di Abel Ferrara, Duellanti 03, 2004 Audio commentary in The Driller Killer, limited edition, Cult Epics Intervista a Canal +, New York 2000 Catalogo 62ª Mostra internazionale del cinema di Venezia onferenza stampa di Mary alla 62ª Mostra internazionale del cinema di Venezia, Settembre 2005 Conferenza stampa di Go Go Tales al cinema Adriano di Roma, 20 giugno 2008 Conferenza stampa di presentazione Napoli Napoli Napoli, Gennaio 2011 Pressbook americano del film Chelsea on the Rocks Pressbook DVD The Driller Killer, Cult Epics, USA 2004 Pressbook Napoli Napoli Napoli Pressbook di Ultracorpi – l’invasione continua Sceneggiatura originale di New Rose Hotel - Sterling Millenium Series Ultimo minuto in digilander.libero.it/fearcity
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