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Italian Pages [572] Year 2019
GIORNALE ITALIANODI FILOLOGIA
BIBLIOTHECA 19
EDITOR IN CHIEF Carlo Santini (Perugia) EDITORIAL BOARD Giorgio Bonamente (Perugia) Paolo Fedeli (Bari) Giovanni Polara (Napoli) Aldo Setaioli (Perugia) INTERNATIONAL SCIENTIFIC COMMITTEE Maria Grazia Bonanno (Roma) Carmen Codoñer (Salamanca) Roberto Cristofoli (Perugia) Emanuele Dettori (Roma) Hans-Christian Günther (Freiburg i.B.) David Konstan (New York) Julián Méndez Dosuna (Salamanca) Aires Nascimento (Lisboa) Heinz-Günter Nesselrath (Heidelberg) François Paschoud (Genève) Carlo Pulsoni (Perugia) Johann Ramminger (München) Fabio Stok (Roma) SUBMISSIONS SHOULD BE SENT TO Carlo Santini [email protected] Dipartimento di Lettere Università degli Studi di Perugia Piazza Morlacchi, 11 I-06123 Perugia, Italy
A primordio urbis
Un itinerario per gli studi liviani
A cura di Gianluigi Baldo & Luca Beltramini
F
© 2019, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium.
All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher.
D/2019/0095/88 ISBN 978-2-503-58184-2 e-ISBN 978-2-503-58185-9 DOI 10.1484/J.GIFBIB.5.116130 ISSN 2565-8204 e-ISSN 2565-9537 Printed in the EU on acid-free paper.
SOMMARIO
SOMMARIO
Gianluigi Baldo A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani 9 An Itinerary for Livian Studies 17 PARTE I
LIVIO TRA LETTERATURA E STORIOGRAFIA
Stephen P. Oakley Hannibal Reaches the Alps: Livy 21, 32, 6 – 33, 1 and Polybius 3, 50, 1 – 51, 13
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Craige B. Champion Magister vitae: Livy as Polybian Reader
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Bernard Mineo Tite-Live: Une histoire déformante? 69 David S. Levene Managing Narrative Expectations and Moral Complexity: The Case of Cannae 97 Giuseppe Zecchini Livio e la storia universale 115 Arnaldo Marcone Tito Livio: Storiografia e politica in età augustea 137 5
SOMMARIO
PARTE II
LIVIO FONTE PER L’ARCHEOLOGIA E LA STORIA DELL’ARTE ANTICA
Jacopo Bonetto La colonizzazione repubblicana della Pianura Padana: Tra tradizione liviana e documenti archeologici
161
Monica Baggio – Monica Salvadori Livio come fonte per la storia dell’arte antica: Linee di ricerca 181 Andrea Raffaele Ghiotto Il contributo dell’opera di Livio agli studi demografici sulle colonie dell’Italia settentrionale tra III e II secolo a.C. 205
PARTE III
LA FORTUNA DI LIVIO, FRA TRADIZIONE DEL TESTO E STORIA DELLA CULTURA
Claudia Villa Appunti per la storia della tradizione di Livio in età carolingia e ottoniana 221 Rino Modonutti Appunti per la Vita Livii tra medioevo e umanesimo 237 Marco Petoletti Episodi per la fortuna di Livio nel Trecento 269 Carla Maria Monti La lettera di Petrarca a Livio (Fam. 24, 8) 295 Cosimo Burgassi Volgarizzamenti liviani e fonti latine: Sondaggi per la terza decade 323 Nicoletta Giovè Marchioli – Marco Palma Livio nel Q uattrocento fra manoscritti e stampa: Strutture materiali e grafiche
355
Luigi Garofalo Livio e il diritto arcaico: Una prospettiva particolare
389
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SOMMARIO
PARTE IV
LIVIO NELLE ARTI FIGURATIVE, DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ CONTEMPORANEA
Zuleika Murat Jacopo di Paolo e il codice del De viris illustribus della Universitätsund Landesbibliothek di Darmstadt (Ms. 101) 425 Alessandra Pattanaro L’iconografia liviana a Padova nel Rinascimento. Q ualche nuova riflessione sul set Mocenigo di Stefano dell’Arzere
465
Giovanni Bianchi Il Tito Livio di Arturo Martini
493
Marta Nezzo Sapere murato sapere dipinto: Carlo Anti e Gio Ponti al Liviano 515 INDICI
Indice dei passi citati 549 Indice dei nomi e delle cose notevoli 557 Elenco delle illustrazioni 571
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UN ITINERARIO PER GLI STUDI LIVIANI
GIANLUIGI BALDO
A PRIMORDIO URBIS UN ITINERARIO PER GLI STUDI LIVIANI
Nel 2015, il convegno A primordio urbis apriva di fatto le celebrazioni patavine del Bimillenario della morte di Tito Livio; nel 2017, un secondo convegno (Livius noster, 6-10 novembre), i cui atti sono in corso di stampa, coronava una fitta serie di eventi e incontri scientifici solidalmente progettati per ridare slancio agli studi liviani in Italia. I due convegni, in particolare, sono stati pensati come un dittico, vòlto a rappresentare la ricchezza della tradizione liviana, a partire dalle complesse questioni interpretative legate al testo per giungere alle meno prevedibili, e sorprendenti, ramificazioni diacroniche (spaziali e disciplinari) di questa medesima tradizione. In questo volume, uno dei problemi nodali della storiografia e, più in generale, dell’ars liviana – il rapporto con Polibio – inizia a dipanarsi grazie al lavoro di Stephen Oakley, dedicato a una sezione del libro XXI circoscritta ma ricca di spunti metodologici e interpretativi. Oakley dimostra come lo storico romano intrattenga con il testo polibiano un dialogo dinamico e dialettico, senza esserne dipendente; rielaborando e manipolando Polibio, Livio affina la sua tecnica e forgia la sua ideologia: ricerca della brevità e dell’efficacia, rifiuto della razionalizzazione, e anche erudizione personale, non necessariamente legata alla lettura vincolante di un auctor precedente, determinano un rapporto fecondo e creativo – verrebbe da dire «artistico» – con lo storico greco. Vari sono gli interventi che confermano la grandezza dell’arte liviana nell’elaborare il «modello» greco: lo sguardo di Livio si rivela complesso, sottilmente ambiguo; il suo giudizio spesso 9
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è ambivalente e non necessariamente armonizzante. La sua ricostruzione dei fatti tende a includere il punto di vista dei vinti e dei vincitori, dei virtuosi e dei traditori, dei colpevoli e delle vittime. Come ricorda David Levene nel suo contributo, se, per esempio, chiare ed esplicite sono le responsabilità della sconfitta di Canne attribuite a Varrone, Livio rende sorprendentemente difficile capire in cosa consista tale colpa, chiamando in causa e ponendo in conflitto altre versioni più indulgenti verso il comandante. Gli studiosi che animano il dibattito documentato in questo volume non vedono più Livio solo come il maestro di stile ma anche come l’intellettuale scaltrito, capace di piegare le fonti ai propri scopi narrativi, moralistici e retorici, in termini adeguati al contesto augusteo (una prospettiva messa a punto efficacemente da Craige B. Champion). Per un corretto inquadramento critico, l’esegesi puntuale non può prescindere dall’architettura dell’opera e dalla dimensione progettuale che per certi versi richiama le storie universali ellenistiche; come dimostra Giuseppe Zecchini, quella liviana è però una storia universale sui generis, impegnata a rispecchiare la riscrittura augustea degli eventi e della costituzione romana; in particolare, la concezione provvidenziale della storia è organica a un preciso progetto politico, e influenza anche il riuso dei modelli: Polibio e Augusto sono due poli dialettici di cui tenere costantemente conto per valutare la portata della lealtà «repubblicana» di Livio e le strategie retorico-narrative da lui poste in atto. L’altro problema concettuale e intertestuale con cui la critica si misura è rappresentato dalla tradizione annalistica e dalla tendenza, che caratterizza sin dall’inizio la storiografia romana, a deformare ideologicamente i fatti. Anche la narrazione liviana risponde e obbedisce a una precisa filosofia, e in particolare a due principi guida, la visione organicistica dello sviluppo della Città e la concezione ciclica della storia. Come spiega Bernard Mineo, negli Ab urbe condita libri le figure di duces fatales sono una presenza immancabile agli zenith e ai nadir di un movimento alternato di ascesa e discesa; in questo modo, è possibile cogliere efficaci parallelismi fra Romolo e Camillo, fondatore e rispettivamente rifondatore di Roma, e ancor meglio individuare i tratti dei personaggi che prefigurano l’avvento di Ottaviano. 10
UN ITINERARIO PER GLI STUDI LIVIANI
Perché Augusto è il vero convitato di pietra delle Storie, la cui «presenza» agisce in modi che la critica non ha ancora efficacemente messo a fuoco. Per esempio, l’intrecciarsi dell’evoluzione politica del regime con le varie fasi della composizione dell’opera liviana rappresenta un capitolo ancora da scrivere, così come difficile è capire se e quanto Augusto abbia influito su tale composizione (lo mette bene in luce Arnaldo Marcone nel suo contributo). Tanto è impropria ogni semplificazione (lo studioso mette per esempio in guardia da troppo schematiche interpretazioni «augustee» di figure repubblicane) quanto ineludibile è il quesito sulla appartenenza morale di Livio al progetto del Principe, in senso ideologico e politico. Una questione che rimane aperta, questa, ma in modo fecondo: il testo liviano ha ancora molto da dire se, nell’interrogarlo, si tiene presente la costante tensione dialettica fra ciò che la Roma del passato rappresenta per Livio e ciò che rappresenta per l’establishment augusteo. Problemi di altro segno, ma non del tutto estranei all’ambiguità ideologica del Livio augusteo, sono quelli che incontra chi indaga il testo come fonte per la ricerca archeologica e storicoartistica. Si tratta di sondaggi estremamente preziosi per definire le possibilità di un approccio interdisciplinare al testo di Livio. I tre studi qui raccolti sono davvero complementari dal punto di vista del metodo e dei risultati. Lo studio di Jacopo Bonetto da un lato e quello di Andrea Ghiotto dall’altro attingono a Livio per sondaggi di vario tipo sul problema delle colonizzazioni: il primo illustra l’intreccio che i dati testuali (perlopiù offerti dalle Periochae) consentono con i dati materiali riguardanti la fondazione di colonie della Pianura Padana fra III e II secolo a.C. – un’epoca che, in merito al problema, presenta ancora molte zone d’ombra; il secondo si focalizza sul quadro demografico- insediativo delineato in seguito alla presa di possesso del territorio cisalpino da parte di Roma. Con sfumature diverse, i due studiosi rivelano il ruolo di primo piano che il testo liviano (soprattutto della quarta decade e delle Periochae) svolge. Il lavoro di Monica Salvadori e Monica Baggio, invece, muove dall’ipotesi che in determinati tratti il testo degli Ab urbe condita possa fornire il medesimo tipo di informazioni che gli storici dell’arte antica ritrovano nella de signis di Cicerone, soprattutto 11
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dove vengono forniti elenchi di opere d’arte incluse nei bottini di guerra (per Cicerone, in realtà, si trattava di opere d’arte illegalmente sottratte in tempo di pace da Verre, rapace governatore della provincia Sicilia). La scarsità delle indicazioni liviane documenta il fondamentale disinteresse dello storico (e dell’oratore) per il contenuto estetico dell’opera d’arte, e per ciò stesso fornisce un dato prezioso sull’ambiente culturale in cui l’importazione di opere d’arte aveva luogo. Ma le due studiose aggiungono numerosi elementi interessanti e nuovi: il costante inserimento della notizia relativa alle opere d’arte in contesti evocativi di res gestae, la dimensione geografica della tabula, il potere funzionale della rappresentazione iconografica nella cosiddetta «lotta delle immagini». L’opera d’arte subiva una risemantizzazione che solo la lettura del contesto ideologico può illuminare: lettura inevitabilmente interdisciplinare, intrecciata a un’idea della storiografia come genere letterario «tendenzioso». La compenetrazione fra prospettive d’indagine diverse è ben percepibile anche nello studio di Luigi Garofalo, che sonda il valore del testo liviano come fonte del diritto arcaico e, specificamente, della devotio; con metodo nuovo, lo studio ripercorre i filoni della ricezione culturale di alcuni passi liviani e ne coglie l’impatto su diversi momenti e forme della cultura occidentale, dalle arti figurative al pensiero politico. Livio diventa così, in fasi diverse della storia europea, un auctor che accompagna l’intellettuale impegnato a interpretare la propria contemporaneità. Q uesto, peraltro, è un filo rosso ben evidente a chi, attraversando la storia del pensiero, si imbatte nel nome di Livio; in particolare, le vicende della trasmissione testuale dimostrano sovente che la fortuna dei libri liviani dipende dal loro impiego politico. Vari sono i contributi che ricostruiscono alcuni tratti di questa fortuna: Claudia Villa dimostra come in età carolingia e ottoniana i codici liviani circolino in ambienti giuridici vicini alle corti, e costituiscano uno strumento indispensabile per la costruzione ideologica del potere – un potere che intende proporsi come erede e continuatore dell’impero di Roma. La storiografia liviana sostiene insomma con la sua forza esemplare il progetto politico dei suoi lettori: di volta in volta, la renovatio imperii tra IX e X secolo, ma anche la riproposizione di modelli di governo che 12
UN ITINERARIO PER GLI STUDI LIVIANI
si presentano innanzitutto come garanti di moralità. Anche nella geopolitica ecclesiastica del XIV secolo, del resto, copiare, diffondere e chiosare le Storie assumevano una precisa – e militante – valenza ideologica se, come ricorda Marco Petoletti, la celebrazione liviana della grandezza di Roma veniva contrapposta polemicamente allo spostamento della sede papale ad Avignone (il riferimento è alla Polistoria di Giovanni Cavallini). Ma, nel Trecento, a troneggiare sono gli studi di Francesco Petrarca: Petoletti pone le basi per un ripensamento sistematico della sua dominante presenza e della storia del suo codice più celebre, l’Harleianus 2493 (di cui ipotizza una possibile retrodatazione); sicuramente si deve supporre l’esistenza di una comunità di lettori e copisti assai più ampia di quanto si credesse in passato. Il quadro che si intravvede è ricco, nuovo e ancora parzialmente in ombra, esattamente come quello delineato dallo studio di Cosimo Burgassi sui volgarizzamenti liviani, soprattutto della terza e quarta decade. Le traduzioni e i volgarizzamenti affiancano il fervido lavoro di restauro del testo per tutta la prima metà del Trecento – attività tutte guidate dal desiderio di leggere lo storico romano nella sua integrale autenticità, non per diletto ma per trarne ammaestramento sul piano stilistico, storico e morale, con un impegno che non ha eguali per nessun altro autore. Burgassi traccia un programma di ricerca teso a indagare le relazioni testuali tra le tradizioni volgari e la tradizione latina, con una interessante focalizzazione sulla terza decade; tali relazioni, non ancora studiate nella loro interezza e complessità, se non aiutano la costituzione del testo sono comunque importanti per comprendere meglio le vicende della sua trasmissione e, in definitiva, la storia della cultura umanistica. La fortuna del testo prosegue inalterata anche nel passaggio dal codice alla stampa, come emerge dall’indagine di Nicoletta Giové e Marco Palma. Nel XV secolo, copioso è il numero dei codici prodotti in vari centri importanti del centronord italiano: i mano scritti contenenti il testo latino sono curati e di gusto antiquario (con alcune eccezioni), mentre hanno una diversa fattura quelli in volgare; la committenza è illustre. Elevato è anche il numero delle edizioni a stampa (ben 21 fra 1469 e 1498, quasi tutte prodotte in Italia). Un significativo case study (il Riccardiano 487) documenta, al di là di una nuova e suggestiva interpretazione dell’apparente colophon, una vitale attività editoriale. 13
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La fortuna del libro liviano s’intreccia e s’identifica, da un certo momento in poi, con la fortuna e l’immagine del suo autore. Ne è prova significativa la lettera di Petrarca a Livio (Fam. XXIV 8) che Carla Maria Monti esamina puntualmente mettendone in luce non solo la struttura ma anche la relazione stretta con il testo delle Storie. Petrarca, nuovo Livio, non solo celebra la propria grandezza attraverso quella dell’antico maestro, ma intreccia strettamente filologia e biografia: è infatti probabile che egli abbia mutato la data della lettera dalla prima alla seconda redazione (1351) per farla coincidere con la data di acquisizione di uno dei suoi due codici di Livio, il Par. lat. 5690; la persona dell’autore antico si identifica con il suo libro, oggetto di un desiderio di possesso che è desiderio di udire nella sua integra purezza la voce di un maestro antico. Non sarà del resto un caso se il personaggio Livio inizia ad assumere contorni biografici sempre più definiti man mano che crescono la fortuna del suo testo e l’aspirazione a leggerlo nella sua interezza; fra i suoi biografi si annoverano personaggi illustri, da Nicola Trevet a Lovato Lovati, da Petrarca a Boccaccio fino a Domenico Bandini e a Sicco Polenton. La storia delle biografie liviane, ripercorsa da Rino Modonutti, incrocia, come è prevedibile, questioni notevoli riguardanti lo statuto ideologico della patavinitas dell’autore, il luogo di composizione della sua opera, le ragioni della perdita, che allora sembrava ancora colmabile, di una parte considerevole della sua opera. E, anche in questo caso, le opere dei biografi, specie quella di Sicco Polenton, sono, almeno nei casi più felici, specchio e sintesi non solo della memoria «biografica» di un auctor, ma dell’intero umanesimo. Il valore ideale della biografia di Tito Livio – illustre patavino investito di un’aura «magistratuale» – è fondamentale nella costruzione dell’identità politica della città e del prestigio delle grandi famiglie: la perlustrazione della tradizione iconografica tra Medioevo e Rinascimento, compiuta da Alessandra Pattanaro, rivela appunto significative convergenze tra produzione letteraria e arti figurative, e nuove ipotesi interpretative che la lettura attenta del testo può offrire allo storico dell’arte e all’iconologo. L’influenza pervasiva di Livio, come personaggio e come testo ispiratore di immagini, si riverbera dai cicli pittorici maggiori ai codici miniati: la loro esplorazione può ancor oggi essere 14
UN ITINERARIO PER GLI STUDI LIVIANI
fonte di sorpresa, come documenta il manoscritto MS.101 della Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, studiato da Zuleika Murat; il codice, che contiene una volgarizzazione del De viris illustribus di Petrarca, è miniato in anni successivi alla decorazione trecentesca della Sala dei Giganti, a sua volta realizzata sulla base di un Compendium approntato dallo stesso Petrarca, e ne reca la memoria: testimonianza di cicli pittorici per noi perduti, il prezioso manoscritto, che segue fedelmente le storie di Tito Livio, testimonia un momento decisivo del preumanesimo padovano e la centralità stessa della corte carrarese. Q uesti atti non si propongono certo una ricostruzione sistematica della fortuna multidisciplinare di Tito Livio e del suo testo; ampi segmenti della sua diacronia restano ancora da colmare, e tuttavia i contributi di Giovanni Bianchi e Marta Nezzo, dedicati al padovano Palazzo Liviano (l’edificio rinnovato fu inaugurato nel 1942) e alle opere artistiche in esso contenute, dimostrano in modo significativo come tale tradizione giunga sino alla contemporaneità. La complessiva visione estetica che guida l’allestimento, la decorazione, la statua, riflette la tendenziosità di un’operazione ideologica, al cui centro si colloca l’innovativa e pretestuosa rielaborazione della figura liviana. Concorrono alla comprensione di quella temperie la stessa illustre committenza, rappre sentata dal rettore (e archeologo) Carlo Anti, e i suoi rapporti con gli artisti coinvolti (l’architetto Gio Ponti, il pittore Campigli, lo scultore Martini); il backstage del progetto rispecchia, in fin dei conti, il valore politico di un dialogo ideale che allora si intrattenne con la voce antica di Tito Livio. L’itinerario che il convegno disegna indica, a nostro avviso, un’ipotesi di lavoro per gli studi liviani dei prossimi anni: studi all’insegna dell’interdisciplinarità intesa non come mera giustapposizione di competenze diverse, ma come dialogo di studiosi impegnati sia sul fronte dei Roman Studies sia della storia della ricezione. Il lavoro interdisciplinare, come affermava Roland Barthes, «consiste nel creare un oggetto nuovo, che non appartenga a nessuno»: 1 Tito Livio è l’esemplare caso di un «L’interdisciplinaire consiste à créer un objet nouveau, qui n’appartienne à personne» (R. B., Le bruissement de la langue. Essais critiques IV, Paris 1984, p. 100). 1
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«patrimonio» immateriale che rivela una ricchezza nuova e insospettata solo quando se ne inseguano le tracce nell’arco intero della cultura occidentale, in un movimento interpretativo continuo che conduca dal testo alla sua ricezione e al testo ritorni, nutrendo l’esegesi con la linfa vitale dell’umanesimo europeo.
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AN ITINERARY FOR LIVIAN STUDIES
GIANLUIGI BALDO
A PRIMORDIO URBIS AN ITINERARY FOR LIVIAN STUDIES
In 2015, the A primordio urbis conference de facto inaugurated the celebration of the two thousandth anniversary of Livy’s death. In 2017 a second conference (Livius noster, 6-10 November), whose proceedings are about to be published, marked the coronation of a dense series of academic events and meetings that had been carefully planned to relaunch Livian studies in Italy. The two conferences, in particular, were conceived as two parts of the same event intended to illustrate the rich tradition on Livy, from the complex questions related to the interpretation of the text to the less predictable, and more surprising, diachronic, spatial and disciplinary ramifications of this tradition. The present volume starts by unravelling one of the key problems in Livy’s historiography and, more generally, in his ars, that is the author’s relation with Polybius, through Stephen Oakley’s contribution. This is devoted to a circumscribed section of Book 21 which offers plenty of methodological and interpretative insights. Oakley shows that the Roman historian established a dynamic and dialectical dialogue with Polybius’ text, yet without depending on it. By redeveloping and manipulating Polybius, Livy refined his technique and crafted an ideology of his own: a search for conciseness and efficacy, a rejection of rationalisation, and a personal body of knowledge, not necessarily bound to any previous auctor, ensured a fruitful and creative – ‘artistic’, one might say – relationship with the Greek historian. Several contributions confirm the remarkable ability of Livy’s art to redevelop its Greek ‘model’: Livy’s gaze is a complex and subtly ambiguous one; his judgements are often ambivalent and 17
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not necessarily conciliatory. His reconstruction of facts tends to include the point of view of both the vanquished and the victors, of both virtuous men and traitors, of both the guilty and their victims. As David Levene recalls in his contribution, whereas, for example, Varro is clearly and explicitly blamed for the defeat at Cannae, Livy makes it very difficult to understand what this blame consists in, insofar as he brings into play and sets in mutual conflict other versions that are more indulgent towards the commander. The historians who animate the debate documented in this volume see Livy not just as a master of style but as a sharp intellectual capable of bending the sources to meet his narrative, moral and rhetorical goals, in accordance with the Augustan context (a perspective compellingly illustrated by Craige B. Champion). In order to correctly frame the matter from a critical perspective, exegesis cannot ignore the overall architecture of Livy’s work and the project it embodies, and which in some ways is reminiscent of Hellenistic universal histories. As Giuseppe Zecchini shows, however, Livy’s history is a sui generis universal one, since it reflects the Augustan rewriting of events and of the Roman polity. In particular, Livy’s providential conception of history falls within a specific political project, and also influences the way in which he makes use of his models: Polybius and Augustus are the two dialectical poles we must constantly take into account in order to evaluate the extent of Livy’s ‘republican’ loyalty and the rhetorical-narrative strategies he deploys. Another conceptual and intertextual problem explored by critics is the annalistic tradition and the tendency displayed by Roman historiography from the very beginning to ideologically distort facts. Livy’s narrative too reflects and conforms to a welldefined philosophy, and in particular to two guiding principles: the organic view of the development of the City and the cyclical conception of history. As Bernard Mineo explains, in the Ab urbe condita libri figures of duces fatales are a recurrent presence at the zenith and nadir of a movement of alternating ascent and descent. This allows us to grasp effective parallels between Romulus and Camillus, respectively the founder and re-founder of Rome, and especially to identify the distinguishing features of figures foreshadowing the advent of Octavian. Augustus is the real ‘stone 18
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guest’ of the Ab urbe condita, whose ‘presence’ makes itself felt in ways that critics have yet to clearly bring into focus. For example, the intertwining between the political development of the Augustan regime and the various stages of composition of Livy’s works is a chapter that still remains to be written. Likewise, it is difficult to determine whether, and to what extent, Augustus influenced this composition (as highlighted by Arnaldo Marcone in his contribution). Oversimplification (the scholar, for instance, warns against over-schematic ‘Augustan’ interpretations of republican figures) is as unacceptable as the question of Livy’s moral endorsement of the Princeps’ project, from an ideological and political standpoint, is unavoidable. This question remains open, yet fruitfully so: Livy’s text still has much to tell us, provided that, in investigating it, we bear in mind that constant dialectical tension between what the Rome of the past represents for Livy and what it represents for the Augustan establishment. Altogether different problems, yet ones that are not entirely unrelated to the ideological ambiguity of the Augustan Livy, are encountered by scholars investigating the text as a source for archaeological and art-historical research. These surveys are most useful as a means to define the possibility of an interdisciplinary approach to Livy’s text. The three studies collected here are truly complementary in terms of their method and results. Jacopo Bonetto’s study, on the one hand, and Andrea Ghiotto’s one, on the other, draw upon Livy in order to variously explore the problem of colonisation: the former scholar illustrates the interplay between textual data (largely provided by the Periochae) and material data pertaining to the founding of colonies in northern Italy between the third and second centuries bc – a largely shadowy period with respect to the problem under consideration; the latter scholar focuses on the issue of demographics and settlements in the wake of the Roman conquest of Cisalpine Gaul. With various nuances, the two scholars reveal the leading role played by Livy’s text (especially the fourth decade and the Periochae). The essay by Monica Salvadori and Monica Baggio instead sets out from the hypothesis that certain passages of Ab urbe condita can provide the same kind of information which may be found in Cicero’s De signis. This is particularly the case with those passages 19
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providing lists of artworks acquired as spoils of war (for Cicero, these were in fact artworks illegally acquired in times of peace by Verres, the rapacious governor of the provincia of Sicily). The scarcity of the information provided by Livy shows that as a historian (and orator) he was largely disinterested in the aesthetic value of artworks. This in itself is a valuable piece of evidence with regard to the cultural milieu into which these artworks were imported. However, the two scholars also add many new, interesting elements: the constant addition of information about artworks in contexts pertaining to res gestae, the geographical dimension of the tabula, and the functional power of iconographic representations in the so-called ‘image struggle’. Artworks underwent a re-semantisation which only an interpretation of the ideological context can elucidate: an inevitably interdisciplinary interpretation, interwoven with the idea of historiography as a ‘tendentious’ literary genre. The blending of different research perspectives is also evident in Luigi Garofalo’s study, which assesses the value of Livy’s text as a source on archaic law, and especially devotio. Through an innovative method, the scholar explores the various strands in the cultural reception of some of Livy passages and highlights their impact on different stages and expressions of Western culture, from the figurative arts to political thought. Livy thus emerges, at different stages in European history, as an auctor accompanying intellectuals eager to interpret the culture of their own day. This guiding thread will be evident to anyone who comes across Livy’s name in exploring intellectual history. In particular, the transmission of Livy’s text often shows that the fortune of his books is due to their political use. Several contributions reconstruct specific aspects of this fortune. Claudia Villa shows how in the Carolingian and Ottonian ages codices of Livy were circulating in juridical milieus close to the court, and constituted a crucial resource for the ideological construction of power: a power that sought to present itself as the heir to – and extension of – the Roman Empire. In other words, through its exemplary power, Livy’s historiography supported his readers’ political project: the renovatio imperii which occurred between the ninth and tenth centuries, but also the adoption of forms of government that were 20
AN ITINERARY FOR LIVIAN STUDIES
first of all perceived as safeguarding morality. Besides, even within the context of fourteenth-century ecclesiastical geopolitics, copying, circulating and commenting on Livy’s books acquired a specific – and militant – ideological value: as Marco Petoletti recalls, Livy’s celebration of the greatness of Rome was polemically set in contrast to the relocation of the Holy See to Avignon (the reference is to Giovanni Cavallini’s Polistoria). However, in the 1300s the centre stage was taken by Petrarch’s studies: Petoletti lays the foundations for a systematic rethinking of the poet’s dominant position and of the history of his most famous codex, the Harleianus 2493 (for which the scholar suggests an earlier date). Certainly, we must suppose the existence of a community of readers and copyists far larger than what has hitherto been assumed. The picture that emerges is a rich, new and still partially indefinite one, as is also suggested by Cosimo Burgassi’s study on vernacular translations of Livy – especially of the third and fourth decades. In the first half of the fourteenth century these translations went hand in hand with enthusiastic efforts to restore the text. These activities were all motivated by a desire to read Livy’s work in its integral and authentic version, not merely for the sake of entertainment but to derive stylistic, historical and moral lessons from the text. No parallel for such efforts can be found in relation to any other author. Burgassi outlines a research plan intended to investigate the textual relations between vernacular traditions and the Latin tradition, with an interesting focus on the third decade. These relations, which have yet to be studied in all of their complexity, may not help us reconstruct the text, but are nonetheless important in order to better understand its process of transmission and, ultimately, the history of Humanistic culture. The literary fortune of Livy’s text endured even with the transition from codices to printed books, as illustrated by Nicoletta Giové and Marco Palma’s investigation. In the fifteenth century a large number of codices were produced in many important centres in central and northern Italy: the manuscripts containing the Latin text are carefully laid out and (with some exceptions) reflect an antiquarian taste, whereas the vernacular manuscripts are of an altogether different sort; the people commissioning these works were all distinguished patrons. Equally high is the number of printed editions (no less than 21
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21 between 1469 and 1498, almost all of them printed in Italy). A significant case study (Riccardiano 487), in addition to offering a new and intriguing interpretation of what would appear to be the colophon of the manuscript, documents a lively publishing activity. From a certain moment onwards, the fortune of Livy’s book intertwines and coincides with that of its author’s image. Significant evidence is provided by Petrarch’s letter to Livy (Fam. XXIV 8), which Carla Maria Monti examines in detail, highlighting not just its structure but also its close relation to the rest of the Ab urbe condita. As a new Livy, Petrarch not only celebrates his own greatness through that of the ancient master, but closely combines philology and biography: it is likely that he changed the date of the letter between the first and the second redaction (1351), so that it might coincide with the date of acquisition of one of his two Livy codices, Par. lat. 5690. The ancient author is identified with his book, the object of a desire for possession that reflects a desire to listen to the voice of an ancient master in its purity and completeness. Moreover, it is hardly a coincidence that Livy’s biographical profile starts becoming increasingly defined as the fortune of his text and the aspiration to read it in its entirety grow. Among his biographers we find some illustrious figures, such as Nicholas Trevet, Lovato Lovati, Petrarch, Boccaccio, Domenico Bandini and Sicco Polenton. The history of biographies of Livy, which is retraced by Rino Modonutti, is unsurprisingly intertwined with questions concerning the ideological significance of the author’s patavinitas, the place of composition of his work, and the reasons for the loss of a substantial part of his text – a loss that it still seemed possible to make up for at the time. In this case too, the works of biographers, especially Sicco Polenton, reflect and encapsulate – at least in the most fortunate cases – the ‘biographical’ memory not just of an auctor, but of Humanism as a whole. The ideal value of Livy’s biography – a distinguished Paduan with the aura of a ‘magistrate’ – is crucial to the construction of the political identity of the city and of the prestige of its leading families: Alessandra Pattanaro’s investigation of the medieval and Renaissance iconographic tradition reveals some significant convergences between literature and the figurative 22
AN ITINERARY FOR LIVIAN STUDIES
arts, pointing to some new interpretations that a careful reading of the text offers art historians and iconologists. Livy’s pervasive influence, both as a figure and as a source of images, shines through works of art ranging from major pictorial cycles to illuminated codices: to this day their investigation can lead to some surprising discoveries, as in the case of MS.101 of the Hessische Landesbibliothek in Darmstadt, studied by Zuleika Murat. This codex, containing a vernacular version of Petrarch’s De viris illustribus, was illuminated some years after the fourteenth-century decoration of the Hall of Giants – which in turn was executed on the basis of a Compendium composed by Petrarch himself – and preserves the memory of it: a testimony to pictorial cycles now lost, this valuable manuscript, which closely follows Livy’s History, bears witness to a crucial stage in Paduan pre-Humanism and to the centrality of the Carrara court. These procedings are not intended to provide a systematic reconstruction of the fortune of Livy and his texts across different fields. Considerable gaps in its diachronic history have yet to be filled; however, the contributions by Giovanni Bianchi and Marta Nezzo, devoted to Palazzo Liviano in Padua (the renovated building was inaugurated in 1942) and to the artworks it houses, significantly show that this tradition reached the contemporary age. The overall aesthetic vision behind the furnishings, decoration and statue in the palace reflect the tendentiousness of an ideological operation centred on an innovative and specious redefinition of Livy’s figure. Elements that shed light on this cultural climate include the distinguished patrons behind the renovation, most notably the rector (and archaeologist) Carlo Anti, and his relationship with the artists involved (architect Gio Ponti, painter Campigli, and sculptor Martini). Ultimately, the background of the project reflects the political significance of an ideal dialogue established at the time with the ancient voice of Livy. The itinerary traced by the conference outlines, in our view, a working hypothesis for Livian studies in the coming years: these studies will have to revolve around interdisciplinarity, understood not as the mere juxtaposition of different kinds of expertise, but as an exchange between scholars engaged both in the field of Roman studies and in that of reception studies. 23
G. BALDO
To quote Roland Barthes, interdisciplinary work “consists in creating a new object which does not belong to anyone”: 1 Livy provides a fine example of an intellectual ‘heritage’ that only displays new and unexpected richness when one follows its traces throughout Western culture, through a sustained interpretative effort leading from the text itself to its reception, and back to the text itself, so as to nourish exegesis with the sap of European Humanism.
«L’interdisciplinaire consiste à créer un objet nouveau, qui n’appartienne à personne» (R. B., Le bruissement de la langue. Essais critiques IV, Paris 1984, p. 100). 1
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PARTE I
LIVIO TRA LETTERATURA E STORIOGRAFIA
STEPHEN P. OAKLEY
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Q uellenforschung has a bad name, being associated with some of the practices of later nineteenth- and earlier twentieth-century scholarship from which we are all glad to have escaped. At its worst, its practitioners took more interest in lost authors than in those extant and arbitrarily divided up the text of extant authors between its supposed sources. Since the characteristics of lost authors were very often reconstructed from extant authors, such procedures tended to produce much circular argument 1. Yet when an author and his source are both extant, a comparison of the two texts is one of the most illuminating ways of discerning the later author’s techniques. For Livy, comparison with Polybius has been fundamental in this respect. This is effected most easily in the fourth and fifth decades: everyone agrees that Livy used Polybius as his primary source for Rome’s campaigning in Greece and the eastern Mediterranean. Whether Livy used Polybius in a similar way in the third decade has long been controversial. There is general, although not quite universal, agreement that Livy drew on Polybius in book 30 for Scipio’s campaign in Africa, and most scholars accept also that Livy used Polybius earlier in the decade in his account of Sicilian affairs 2. But did he make direct use of Polybius in books 21-22? That the question has been so controversial 1 For my own thoughts on this circularity, see Oakley 2009, 452. The weaknesses of the then standard view of Valerius Antias were pointed out by Cornell 1986, 77-80. 2 A recent exception is Leidig 1994.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 27-52 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117484
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S. P. OAKLEY
is paradoxical 3. Polybius in book 3 provides a full narrative of the opening of the Second Punic War from its beginnings to the battle of Cannae and, unlike the excerpts from his narrative that can be compared with later books of Livy, it is extant in its entirety: here, if anywhere, questions about Livy’s use of his sources ought to be capable of resolution. That everything in books 21-22 derives from Polybius cannot possibly be true, and no one has ever believed that it is true: there is a substantial amount of material, particularly relating to events in Rome itself, that had no counterpart in Polybius. But much of Livy’s military narrative is extraordinarily close to what we find in Polybius. Broadly speaking, there have been five ways in which this closeness has been explained 4: (i) Livy and Polybius used similar or the same sources; (ii) Livy used Coelius Antipater (this, at least, is certain) 5, who had used the same sources as Polybius 6; (iii) Livy used Coelius Antipater, who had used both Polybius and Polybius’ sources 7; (iv) Livy used another source, who had himself used Polybius 8; (v) Livy used Polybius 9. (i) is impossible, since Livy has material that Polybius claims that he derived from autopsy or that must in other ways be Compare the remarks of Jal 1988, xvi. The many works cited by Luterbacher 1875, 1-3 show that most of these positions had emerged before 1875. De Sanctis 1917, 176 listed eight items, six later than Luterbacher. In his words, «La bibliografia … è amplissima»; for Klotz 1940-1941, 102 the bibliography on the source-criticism of the third decade was «unübersehbar». Jal 1988, xiv-xxv provides a useful brief survey of the problems. 5 Livy refers to Coelius at 21, 38, 6; 21, 46, 10; 21, 47, 4; 22, 31, 8; 23, 6, 8; 26, 11, 10; 27, 27, 13; 28, 46, 14; 29, 25, 3; 29, 27, 14; 29, 35, 2. 6 Thus e.g. Kahrstedt 1913, 144-154; Klotz 1940-1941, 101-109 and 130 on the passage to be discussed below (but Klotz also conceded some limited direct consultation of Polybius by Livy), and Jumeau 1964, esp. 327-333. 7 Thus e.g. Walsh 1961, 124-125 and 1973, 38-40. 8 Thus e.g. Soltau 1894a, 10 and passim, 1894b, 72-81 (he thought that the source was Claudius Q uadrigarius, who had used Acilius’ Greek annals) and De Sanctis 1917, 181-188 (he preferred not to identify the source). 9 See below for proponents of this view. 3 4
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Polybius’ own creation 10. From about 1900 until recently the communis opinio has wavered between (ii), (iii), and (iv). However, the closeness of the two narratives must have made many readers feel uneasy and wonder whether (v) could perhaps be right. And sometimes the prompting of commentators points in the same direction. For example, on 21, 32, 8, part of the passage to be discussed below, Walsh comments: «[t]he conditional is likewise in Polybius, revealing Livy’s close use of his source [by which Walsh meant Coelius, but his comment encourages one to imagine direct use of Polybius]» 11. In recent years, (v) has perhaps become dominant, at least among English speakers. That is largely thanks to David Levene’s, Livy on the Hannibalic War, in which he argues powerfully, and I have no doubt correctly, that Livy made direct use of Polybius 12. Nevertheless, the position for which Levene argued had been adopted by several nineteenthcentury scholars, including Lachmann, Carl Peter (the father of the much better-known Hermann Peter, editor of Historicorum Romanorum reliquiae), Wölfflin, and Luterbacher 13. And, of course, others have stated their belief in it, for example Konrad Witte or Emilio Pianezzola 14. In this essay I shall compare Livy 21, 32, 6-33, 11, a characteristic and engaging episode that shows Livy’s writing at its best, with Polybius 3, 50, 1-51, 13 15. After briefly discussing some of the arguments used in the source-criticism of book 21 and 22, I shall proceed with my comparison, the purpose of which is to show that, although the two writers have been often compared, still more about Livy’s consummate craft as a writer, especially in the structuring of sentences, and about his powers of imagination in episodes that fully engaged him, can be revealed. As the comparison proceeds, I shall make passing comment on some details See e.g. Soltau 1894a, 4 and 1894b, 73-74; De Sanctis 1917, 177-178. Walsh 1973, 185. 12 Levene 2010, 126-163. 13 Lachmann 1822-1828, II 40-42 (and elsewhere); Peter 1863 (see esp. 16-19 on our episode); Wölfflin 1873, xvii-xxiii (with an appreciation of Livy’s literary qualities unusual for his time); Luterbacher 1875 (see esp. 27 and 29 on our episode). On the passages discussed in this essay Lachmann (41) remarks «Vertit ex [Polybio] pugnam cum Allobrogibus c. 32 med. – c. 36 fin. paucis mutatis». 14 Witte 1910, 397-398; Pianezzola 1969, 5. 15 In what follows references that have no book number are to these chapters. 10 11
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that seem particularly to confirm Livy’s use of Polybius and on others on which the two writers differ and for which some explanation is needed. An argument that should be stressed is that Livy’s narrative is often so close to that of Polybius that there is no space for a Latin source in between them. Had such a source existed, his narrative would either have been more or less a direct translation of Polybius (thereby improbably denying the source any creativity) or Livy would have taken over the source’s narrative with scarcely a change (thereby equally improbably denying Livy himself much creativity). Our passage provides a classic instance of this. Nevertheless, those who have argued that Polybius’ narrative is mediated to Livy through another author and those who have argued that Livy used an author who used Polybius’ sources may point to one important strand of evidence: throughout books 21 and 22, even where Livy seems to be following Polybius very closely, there are details that have no counterpart in Polybius, and these create a very real problem for those who believe in direct consultation of Polybius 16. They allow the argument that there was a lost source that was very like Polybius, except that it also contained such details. Perhaps more of these details could have come from Livy’s own general knowledge or imagination than is generally realised, but certainly not all of them. We therefore need a model for Livy’s use of his sources that will account for this. My working hypothesis is as follows. Livy made direct use of Polybius throughout books 21-22 and, as Levene has demonstrated, Polybius provided the basic framework for his narrative. But Livy also read other sources, not only Coelius but writers in the Roman annalistic tradition such as Fabius Pictor, Calpurnius Piso, Claudius Q uadrigarius, and Valerius Antias. When these writers provided information that he wished to take over, he inserted it into the narrative framework that he had derived from Polybius: such insertions could involve whole episodes, they could be limited to just a paragraph, or they could be shorter, just a name or a detail. Since Livy sticks so closely to 16 For these details see e.g. Luterbacher 1875, 32-35; Kahrstedt 1913, 145146; Walsh 1973, 39.
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Polybius for so much of his narrative, and since what little we know about Coelius suggests that when Livy took material from Coelius he may have stuck quite close to him, the old hypothesis that Livy had one dominant source for each episode still seems attractive. However, it is easy to believe that, although using predominantly one source, Livy remembered and inserted details from his reading elsewhere, and for the smaller details he probably would not have needed even to unroll his other source once more: they may have lodged in his memory. To have included some of these details, at least one of these sources must have had a narrative that was in places not dissimilar to Polybius’; and this would be explained by the popular view that Coelius used the same sources as Polybius. Such an explanation would account for Livy’s divergences from Polybius 17. Nevertheless, those who write on this problem should admit that, in the absence of the source(s) from which Livy drew the details that are not found in Polybius, any position is bound to involve some dogmatic and unprovable statements. I hope that the close reworking of Polybius that is demonstrated in what follows will make my own dogmatism excusable. Just before our two passages start and at their beginning we are confronted with such details. Polybius (3, 49, 5-7) mentions Hannibal’s marching through the area where the Rhône and the Isère flow close to each other and then in our passage refers (50, 1 quoted below) to the river, presumably the Isère, and to Hannibal’s marching through the territory of the Allobroges. Livy, too, just before the beginning of the passage that we shall analyse, records his presence in the terrain where the Rhône and the Isère flow next to each other (31, 4) but then goes on to record his leaving the territory of the Allobroges and moving past the territory of the Vocontii and into that of the Trigorii, for all of which his progress is easy before he reaches the Druentia (31, 9). This reference to the Druentia is picked up in the opening sentence of our passage sentence (again, quoted below). In his commentary Walsh (1973, 181) writes this about the section on the Vocontii and Trigorii: «it is at this point that Livy switches sources. Up to this point his narrative is close to I agree with Levene 2010, 145.
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Polybius’, and must stem from Coelius; it now diverges … Livy’s account seems to resume Hannibal’s journey from the earlier Rhône crossing, probably drawing on Antias». And on the opening sentence of our passage he writes (1973, 184): «The description hardly tallies with any possible route from the middle reaches of the Durance». I have stated my view that when Livy’s narrative is close to that of Polybius it is because he has been using Polybius himself and not Polybius mediated through Coelius Antipater, but these references to the Vocontii, Trigorii, or Druentia must certainly come either from Livy’s own knowledge or from a different source. I should not wish to rule out entirely that Livy, a north Italian, was well informed about the Alpine regions. However, that he was consulting a source other than Polybius at this point is revealed by his account of Hannibal’s settling a quarrel between two Allobrogan brothers who were disputing the local kingship (31, 5-8). His account is close to that of Polybius (3, 49, 8-13), except that Livy alone gives the name Braneus to the elder brother favoured by Hannibal; it is difficult to believe that he derived this detail from his general knowledge. The easiest resolution of the source-problem is that Livy is basically following Polybius but has taken from another source, perhaps Coelius, the information about the Braneus’ name and perhaps also some of the information about the Vocontii, Trigorii, and the Druentia, all of which he has stitched into a framework derived from Polybius. In the rest of our passage he is back entirely with Polybius and the reference to the Druentia is an isolated part of this stitching 18. In my comparison I shall argue that other details in Livy not found in Polybius come rather from his creative imagination than another source; see my comments on 32, 9; 32, 10; 32, 12; 33, 4 and 33, 11. In his pioneering article on Livy’s artistry, Konrad Witte argued that Livy’s tended to divide up his narrative into self-contained episodes. He illustrated this by comparison with Polybius, and That the material discussed here could not come from Polybius has been long recognised; see e.g. Lachmann 1822-1828, II 41 (with earlier bibliography); Luterbacher 1875, 32 and 33-34. From all this it follows that my view of which section of this narrative, if any, Livy may have been taken from Coelius is quite different from Walsh’s. 18
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Hannibal’s crossing of the Alps in book 21 was one of the passages to which he drew particular attention 19. Witte held that it divides into four episodes. My concern will be with Witte’s first, what he termed (398) the crossing of the first pass 20. The turning of these events into a self-contained episode was not difficult for Livy: they naturally structured themselves in this way, and such a structure is found already in Polybius. Polybius (50, 1-2) and Livy (32, 6) begin thus: Ἀννίβας δ’ ἐν ἡμέραις δέκα πορευθεὶς παρὰ τὸν ποταμὸν εἰς ὀκτακοσίους σταδίους ἤρξατο τῆς πρὸς τὰς Ἄλπεις ἀναβολῆς, καὶ συνέβη μεγίστοις αὐτὸν περιπεσεῖν κινδύνοις. ἕως μὲν γὰρ ἐν τοῖς ἐπιπέδοις ἦσαν, ἀπείχοντο πάντες αὐτῶν οἱ κατὰ μέρος ἡγεμόνες τῶν Ἀλλοβρίγων, τὰ μὲν τοὺς ἱππεῖς δεδιότες, τὰ δὲ τοὺς παραπέμποντας βαρβάρους After marching for ten days along the banks of the river for 800 stades, Hannibal began the climb to the Alps, and he happened to fall into great dangers. (2) So long as he marched on flat ground, all the chieftains of the Allobroges held off, fearing partly his cavalry, partly the escorting barbarians. Hannibal ab Druentia campestri maxime itinere ad Alpes cum bona pace incolentium ea loca Gallorum pervenit. From the Druentia Hannibal passed through to the Alps, on a route that was largely flat and with the compliance of the Gauls who lived in those regions.
Livy mentions the march through the low-lying land and the lack of any molestation from the natives, but more briefly than Polybius, and, as elsewhere, he disposes of Polybius’ precise indication of time, too insistent reference to which he may have thought beneath the dignity of his history, and he disposes too of the reference to local armed guides and to Hannibal’s cavalry. Nor does he mention the Allobroges by name; this last may be explained either as being part of the harmonizing of Polybian and non-Polybian material at the beginning of the episode that 19 For a recent study of Livy’s account of Hannibal’s crossing the Alps, and of the different spatial perspectives exhibited by the narratives of Livy and Polybius, see Fabrizi 2015. 20 For his discussion of it, see Witte 1910, 399-401.
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has just been discussed or, more interestingly, as a deliberate ploy on Livy’s part to enhance the impression that, after being in Gaul, Hannibal has now moved into a very different space – that occupied by the Alpine tribes 21. Polybius anticipates what comes next by saying that Hannibal fell into trouble; Livy, more excitingly, lets the trouble confront him without warning. It arrives first from the terrain, and in the next sentence (32, 7): Tum, quamquam fama prius, qua incerta in maius vero ferri solent, praecepta res erat, tamen ex propinquo visa montium altitudo nivesque caelo prope immixtae, tecta informia imposita rupibus, pecora iumentaque torrida frigore, homines intonsi et inculti, animalia inanimaque omnia rigentia gelu, cetera visu quam dictu foediora terrorem renovarunt. Then, although the reality had been anticipated by rumour, by means of which things that are uncertain tend to be talked up into something greater than the truth, nevertheless observation of the height of the mountains from close quarters and of the snow-falls that almost touched the sky, of the shapeless huts perched on the rocks, of the flocks and pack-animals seared with cold, of the unshorn and uncouth men, of everything both animate and inanimate frozen stiff with ice, and of other things more hideous to see than to describe all brought back their fearfulness.
This sentence has no counterpart in our portion of Polybius. But David Levene has shown in some detail how it looks back to what Hannibal had said to his men about the Alps at 30, 2-11, another passage with no direct counterpart in Polybius, and that both passages take their themes from a digression in Polybius at 3, 47, 6-48, 12, which occurs at the same point in the narrative as Hannibal’s speech. There he criticizes earlier historians for exaggerating the dangers of crossing the Alps, the dire straights in which Hannibal found himself, and the introduction of divine intervention to rescue him. Levene acutely suggests that, by making horrors greater than anyone had imagined follow on Hannibal’s making light of the danger, Livy implicitly criticizes For this suggestion see Fabrizi 2015, 129. The two explanations could both be correct: Livy may have adopted a non-Polybian detail because it suited the concept of space evoked in his narrative. 21
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Polybian rationalizing 22. More mundanely, it emphasizes the ambiguities in Livy’s portrayal of Hannibal – a skilled general and a charismatic leader of men, but dangerously reliant on fortune and a liar 23. The sentence is also remarkably expressive. Although its quamquam … tamen structure is simple, it is given a massive weight by the expanded subject (visa montium altitudo nivesque caelo prope immixtae, tecta informia imposita rupibus, pecora iumentaque torrida frigore, homines intonsi et inculti, animalia inanimaque omnia rigentia gelu, cetera visu quam dictu foediora) of the main verb, renovarunt, which comes last 24. Polybius continues (50, 3-6): ἐπειδὴ δ’ ἐκεῖνοι μὲν εἰς τὴν οἰκείαν ἀπηλλάγησαν, οἱ δὲ περὶ τὸν Ἀννίβαν ἤρξαντο προάγειν εἰς τὰς δυσχωρίας, τότε συναθροίσαντες οἱ τῶν Ἀλλοβρίγων ἡγεμόνες ἱκανόν τι πλῆθος προκατελάβοντο τοὺς εὐκαίρους τόπους, δι’ ὧν ἔδει τοὺς περὶ τὸν Ἀννίβαν κατ’ ἀνάγκην ποιεῖσθαι τὴν ἀναβολήν. (4) εἰ μὲν οὖν ἔκρυψαν τὴν ἐπίνοιαν, ὁλοσχερῶς ἂν διέφθειραν τὸ στράτευμα τῶν Καρχηδονίων· νῦν δὲ καταφανεῖς γενόμενοι μεγάλα μὲν καὶ τοὺς περὶ Ἀννίβαν ἔβλαψαν, οὐκ ἐλάττω δ’ ἑαυτούς. (5) γνοὺς γὰρ ὁ στρατηγὸς τῶν Καρχηδονίων ὅτι προκατέχουσιν οἱ βάρβαροι τοὺς εὐκαίρους τόπους, αὐτὸς μὲν καταστρατοπεδεύσας πρὸς ταῖς ὑπερβολαῖς ἐπέμενε, (6) προέπεμψε δέ τινας τῶν καθηγουμένων αὐτοῖς Γαλατῶν χάριν τοῦ κατασκέψασθαι τὴν τῶν ὑπεναντίων ἐπίνοιαν καὶ τὴν ὅλην ὑπόθεσιν. But when those escorts had dispersed for home and Hannibal had begun to advance into rougher terrain, then the leaders of the Allobroges collected together a respectable number of men and seized the strategic positions through which by necessity Hannibal had to make his ascent. (4) If they had hidden their intentions they would have completely destroyed the army of the Carthaginians, but, as it was, by revealing themselves, although they caused great damage to Hannibal, they caused no less damage to themselves. (5) The Carthaginian general, realizing that the barbarians were occupying these strategic positions, himself pitched
See Levene 2010, 149-155. Compare the remarks of Pausch 2011, 150. 24 Fabrizi 2015, 137 draws attention to the insistent use of words with the prefix in- (in both its senses). 22 23
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camp near the pass and waited, (6) and sent forward some of the Gauls who had been guiding him to spy out the plan of the enemy and the general situation.
Livy is much more graphic. He first writes (32, 8): erigentibus in primos agmen clivos apparuerunt imminentes tumulos insidentes montani, qui, si valles occultiores insedissent, coorti ad pugnam repente ingentem fugam stragemque dedissent. As they stretched out their column up the first slopes, mountain dwellers occupying the overhanging hills made an appearance, who, if they had occupied defiles that were more hidden, would have caused a massive rout and slaughter when they sprang out suddenly into battle.
This is a clever sentence. By beginning with the dative present participle erigentibus Livy is able to focalize from the perspective of Hannibal and his troops as they climbed the path 25. Masterly, too, is the way in which apparuerunt reveals that they have seen something, and then Livy lets us (and Hannibal’s men) see the imminentes tumulos and finally the insidentes montani on them: the word-order reflects the sense of the verb apparuerunt. This verb contrasts sharply with occultiores, and Livy here reflects Polybius’ ἔκρυψαν … καταφανεῖς 26. These tumuli will dominate the narrative. That the mountain folk had made a mistake in revealing themselves on them only heightens our interest in the scene that will unfold. Whereas Polybius dutifully records how the Allobroges gathered a decent-sized force before making their plan, Livy introduces their plan more dramatically as a surprise. 32, 9. Hannibal consistere signa iussit; Gallisque ad visenda loca praemissis, postquam comperit transitum ea non esse, castra inter confragosa omnia praeruptaque quam extentissima potest valle locat. Hannibal ordered his standards to stop. He sent Gauls forward to inspect the terrain, and when he had found that there
See e.g. Pausch 2011, 150. See Hutchinson 2013, 168-169.
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was no passage there, he pitched camp in the widest defile that he could find in an area in which everything was rough and precipitous.
The opening four words offer a short, stark sentence, a notable contrast to what has gone before. They emphasize the abrupt end to Hannibal’s march forward. The rest of the section consists of a brief periodic sentence, building up to a main verb. Polybius’ sentence structure has none of Livy’s drama, continuing in its unremarkable way. After incorporating Polybius’ καταφανεῖς into apparuerunt, Livy has omitted the rest of νῦν δὲ καταφανεῖς γενόμενοι μεγάλα μὲν καὶ τοὺς περὶ Ἀννίβαν ἔβλαψαν, οὐκ ἐλάττω δ’ ἑαυτούς, presumably thinking that its sentiment was implicit. He has reversed Polybius’ sequence of Hannibal’s encamping and sending out scouts (perhaps thinking that a good general should do the converse), and by turning the sentence about the Gallic scouts into an ablative absolute, he also manages to combine two Polybian sentences into one period, which may be articulated thus with indentation marking subordination and further indentation marking subordination within subordination: Gallisque ad visenda loca praemissis, postquam comperit transitum ea non esse, castra inter confragosa omnia praeruptaque quam extentissima potest valle locat.
This is a good short illustration of what a periodic, subordinating style can achieve 27. The underlined words have no counterpart in Polybius. Those who believe in his use of a source very like Polybius may wish to argue that they derive from such a writer, but it is easier to hold that Livy himself is entirely responsible for
As I hope in the future to show, comparison with Polybius greatly helps our understanding of how Livy composed his periodic sentences. The best study of the subject that I know is Lindemann 1964 (his pp. 125-147 are entitled ‘Livius und Polybius’). There are general remarks on Livy’s periodic writing, and further bibliography, at Oakley 1997-2005, I 128-136. 27
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this detail, wishing both to clarify the topography of the scene and to make it seem more dramatic 28. Polybius (50, 7-8) and Livy (32, 10) continue: ὧν πραξάντων τὸ συνταχθέν, ἐπιγνοὺς ὁ στρατηγὸς ὅτι τὰς μὲν ἡμέρας ἐπιμελῶς παρευτακτοῦσι καὶ τηροῦσι τοὺς τόπους οἱ πολέμιοι, τὰς δὲ νύκτας εἴς τινα παρακειμένην πόλιν ἀπαλλάττονται, πρὸς ταύτην τὴν ὑπόθεσιν ἁρμοζόμενος συνεστήσατο πρᾶξιν τοιαύτην. (8) ἀναλαβὼν τὴν δύναμιν προῆγεν ἐμφανῶς καὶ συνεγγίσας ταῖς δυσχωρίαις οὐ μακρὰν τῶν πολεμίων κατεστρατοπέδευσε. When they had carried out their task, the general learnt that by day they carefully performed their duty as guards and watched over their positions but by night they dispersed to a nearby town. He contrived the following plan, which he fashioned to suit this circumstance. (8) Advancing forward openly with his force and drawing near to the rough terrain, he pitched camp not far from the enemy. tum per eosdem Gallos, haud sane multum lingua moribusque abhorrentes, cum se immiscuissent conloquiis montanorum, edoctus interdiu tantum obsideri saltum, nocte in sua quemque dilabi tecta, luce prima subiit tumulos, ut ex aperto atque interdiu vim per angustias facturus. Then after he had been informed by the same Gauls (who, differing hardly in language and custom, had slipped into the conversation of the mountain folk) that the defile was guarded only by day and that at night everyone slipped away to their own homes, he approached the hills at dawn, as though being about to force the pass openly and in daylight.
This section illustrates again Livy’s skill in structuring his sentences: first, he has combined two Polybian sentences into one period. Again, his period may be represented schematically: tum per eosdem Gallos, haud sane multum lingua moribusque abhorrentes, cum se immiscuissent conloquiis montanorum, edoctus interdiu tantum obsideri saltum nocte in sua quemque dilabi tecta, luce prima subiit tumulos, ut ex aperto atque interdiu vim per angustias facturus. Thus Levene 2010, 153.
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He has achieved this by cutting πρὸς ταύτην τὴν ὑπόθεσιν ἁρμοζόμενος συνεστήσατο πρᾶξιν τοιαύτην; in other words, instead of saying, as Polybius says, that Hannibal had a plan and this is what he did, Livy states simply what he did. Polybius’ account of the moving of the camp takes fourteen words; Livy accomplishes this in his four-word main clause, a notable instance of his compression. That said, he does not take over into this sentence Polybius’ οὐ μακρὰν τῶν πολεμίων κατεστρατοπέδευσε, which is saved for the beginning of the next. Furthermore, the information which Hannibal gains is delayed (we are kept in suspense until after edoctus); the tumuli are brought back into prominence; ut and the future participle show how Hannibal’s move looked to the enemy; and this whole phrase with the future participle has no equivalent in Polybius and emphasizes Hannibal’s deceptive stratagem 29. By not including in this sentence the information that Hannibal pitched camp, Livy leaves his readers in momentary suspense as to his immediate intentions – just as the mountain-dwellers were left in suspense. Livy has added two ideas to Polybius: first, haud sane multum lingua moribusque abhorrentes, which could have come from another source but perhaps more easily from his head, since Livy likes rationalizing explanations. Second, luce prima: unless Polybius meant his readers to understand that ἐπέμενε had the nuance of passing the night (as μένω and its cognates sometimes do) he never explicitly states that the Carthaginians spent a night encamped before Hannibal’s advance to the narrows. Livy presumably decided, quite reasonably, that Hannibal could not have arrived at the pass, sent out his scouts, gathered information, and advanced all in one day. On the other hand, his clarification (or attempted clarification) of the stratagem does leave Hannibal with little to do between luce prima and nightfall 30. Polybius (50, 9) and Livy (32, 11-13) continue: τῆς δὲ νυκτὸς ἐπιγενομένης, συντάξας τὰ πυρὰ καίειν, τὸ μὲν πλεῖον μέρος τῆς δυνάμεως αὐτοῦ κατέλιπε, τοὺς δ’ ἐπιτηδειοτάτους εὐζώνους ποιήσας διῆλθε τὰ στενὰ τὴν νύκτα καὶ κατέσχε τοὺς
See Händl-Sagawe 1995, 222. Note too the discussion of Fabrizi 2015, 139.
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ὑπὸ τῶν πολεμίων προκαταληφθέντας τόπους, ἀποκεχωρηκότων τῶν βαρβάρων κατὰ τὴν συνήθειαν εἰς τὴν πόλιν. When night had come, after ordering his men to kindle fires, he left behind the majority of his force but, equipping the most suitable men so that they were only lightly burdened, he crossed the narrows during the night and took possession of the positions that had been left by the enemy, since, as was their habit, the barbarians had departed to their town. Die deinde simulando aliud quam quod parabatur consumpto, cum eodem quo constiterant loco castra communissent, (12) ubi primum degressos tumulis montanos laxatasque sensit custodias, pluribus ignibus quam pro numero manentium in speciem factis impedimentisque cum equite relictis et maxima parte peditum, (13) ipse cum expeditis, acerrimo quoque viro, raptim angustias evadit iisque ipsis tumulis quos hostes tenuerant consedit. They then passed the day with the pretence of doing something other than what they were planning and fortified a camp in the place at which they had halted. As soon as Hannibal first realised that the mountain-dwellers had gone down from the hills and that the guard-posts had been abandoned, he had for appearance’s sake more fires kindled than were necessary for the number of men to be left behind. Then, with his baggage and cavalry and a great part of his infantry left behind, he himself with lightly-equipped troops, each man a keen warrior, rushed hastily to the narrows and took up a position on those very hills which the enemy had previously held.
Here Livy gives us another periodic sentence, the most impressive in the episode 31, which builds up to a climax in the revelation of Hannibal’s stratagem 32. die deinde simulando aliud quam quod parabatur consumpto, cum eodem quo constiterant loco castra communissent, ubi primum Walsh 1973, 186 singles it out for comment. The skill with which the sentence is constructed was appreciated by Walsh 1973, 186. 31 32
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degressos tumulis montanos laxatasque … custodias, sensit pluribus ignibus quam pro numero manentium in speciem factis impedimentisque cum equite relictis et maxima parte peditum,] ipse cum expeditis, acerrimo quoque viro, raptim angustias evadit iisque ipsis tumulis quos hostes tenuerant consedit.
Whereas Polybius has three main verbs (underlined), Livy has only two (euadit and consedit), and in more climactic positions in the sentence. First we learn of what Hannibal did in the day (and, as we have seen, Livy has moved forward into this sentence the information that Hannibal pitched camp); then of the enemy’s departure, and finally, with ipse, of Hannibal’s decisive move through the defile to seize the tumuli. Again the tumuli are brought sharply into focus. A comparison of Polybius’ καὶ κατέσχε τοὺς ὑπὸ τῶν πολεμίων προκαταληφθέντας τόπους, ἀποκεχωρηκότων τῶν βαρβάρων κατὰ τὴν συνήθειαν εἰς τὴν πόλιν with Livy’s iisque ipsis tumulis quos hostes tenuerant consedit shows how Livy well exploits the possibilities of Latin word-order. There is nothing particularly ugly about the way Polybius’ sentence ends with a trailing genitive absolute which explains that the hills had been abandoned, but by placing the information contained in the genitive absolute in a relative clause Livy is able to end climactically with the main verb consedit. The underlined words in § 12 do not come from anything in Polybius. Whether Livy invented the idea of Hannibal’s pretence (as is very easy to believe) or took over the notion from another source, this addition, like that in the previous sentence, makes Hannibal seem more masterful and cunning than he does in Polybius 33. At 34, 1 he will describe how Hannibal 33 See e.g. Witte 1910, 399; Gärtner 1975, 160; Händl-Sagawe 1995, 222. Luterbacher 1875, 27 merely noted the discrepancy.
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on the next stage of his journey is nearly defeated non bello aperto sed suis artibus, fraude et insidiis ‘not with open warfare but by his own skills, treachery and deception’. We remember that at 21, 4, 9 Livy has characterised him as the epitome of Punic perfidy. Polybius continues (51, 1-2): οὗ συμβάντος καὶ τῆς ἡμέρας ἐπιγενομένης, οἱ βάρβαροι συνθεασάμενοι τὸ γεγονὸς τὰς μὲν ἀρχὰς ἀπέστησαν τῆς ἐπιβολῆς· (2) μετὰ δὲ ταῦτα θεωροῦντες τὸ τῶν ὑποζυγίων πλῆθος καὶ τοὺς ἱππεῖς δυσχερῶς ἐκμηρυομένους καὶ μακρῶς τὰς δυσχωρίας, ἐξεκλήθησαν ὑπὸ τοῦ συμβαίνοντος ἐξάπτεσθαι τῆς πορείας. (3) τούτου δὲ γενομένου, καὶ κατὰ πλείω μέρη προσπεσόντων τῶν βαρβάρων, οὐχ οὕτως ὑπὸ τῶν ἀνδρῶν ὡς ὑπὸ τῶν τόπων πολὺς ἐγίνετο φθόρος τῶν Καρχηδονίων, καὶ μάλιστα τῶν ἵππων καὶ τῶν ὑποζυγίων. (4) οὔσης γὰρ οὐ μόνον στενῆς καὶ τραχείας τῆς προσβολῆς ἀλλὰ καὶ κρημνώδους, ἀπὸ παντὸς κινήματος καὶ πάσης ταραχῆς ἐφέρετο κατὰ τῶν κρημνῶν ὁμόσε τοῖς φορτίοις πολλὰ τῶν ὑποζυγίων. (5) καὶ μάλιστα τὴν τοιαύτην ταραχὴν ἐποίουν οἱ τραυματιζόμενοι τῶν ἵππων· τούτων γὰρ οἱ μὲν ἀντίοι συμπίπτοντες τοῖς ὑποζυγίοις, ὁπότε διαπτοηθεῖεν ἐκ τῆς πληγῆς, οἱ δὲ κατὰ τὴν εἰς τοὔμπροσθεν ὁρμὴν ἐξωθοῦντες πᾶν τὸ παραπῖπτον ἐν ταῖς δυσχωρίαις, μεγάλην ἀπειργάζοντο ταραχήν. εἰς ἃ βλέπων Ἀννίβας καὶ συλλογιζόμενος ὡς οὐδὲ τοῖς διαφυγοῦσι τὸν κίνδυνον ἔστι σωτηρία τοῦ σκευοφόρου διαφθαρέντος, ἀναλαβὼν τοὺς προκατασχόντας τὴν νύκτα τὰς ὑπερβολὰς ὥρμησε παραβοηθήσων τοῖς τῇ πορείᾳ προλαβοῦσιν. οὗ γενομένου πολλοὶ μὲν τῶν πολεμίων ἀπώλλυντο διὰ τὸ ποιεῖσθαι τὴν ἔφοδον ἐξ ὑπερδεξίων τὸν Ἀννίβαν, οὐκ ἐλάττους δὲ καὶ τῶν ἰδίων· ὁ γὰρ κατὰ τὴν πορείαν θόρυβος ἐξ ἀμφοῖν ηὔξετο διὰ τὴν τῶν προειρημένων κραυγὴν καὶ συμπλοκήν. When this had taken place and daylight had arrived, the barbarians watched what was happening. At first they desisted from attacking; (2) but, after they saw the mass of the baggage-animals and the cavalry awkwardly and slowly negotiating the difficult terrain unfurled like a thin thread, they felt impelled by the situation to intervene in the enemy’s march. (3) When this happened, and the barbarians were rushing forwards from many sides, there was much damage done to the Carthaginians, and particularly to their horses and baggage-animals, but it was inflicted not so much by these men as by the terrain: (4) because the road forward was not only narrow and rough but also precipitous, a result of any kind of movement and any kind of confusion was that many bag42
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gage-animals were carried away down the precipices, together with burdens. (5) Confusion of this kind was made especially by the wounded horses, some crashing face-to-face into the baggage-animals when they were terrified by a blow, others in their forward rush pushing out of the way everything that fell in their path. (6) When Hannibal saw all this and realized that those who had escaped the danger would not have found safety if their pack-animals had been destroyed, taking with him the men who had occupied the heights in the night, he rushed forward to help those who had started marching. When this occurred, many of the enemy were killed, since Hannibal had made his attack from higher ground – but so too were no smaller number of his own men: the confusion of those on the march was increased on both sides through the shouting and grappling of those whom I have just mentioned.
The equivalent passage in Livy starts (33, 1): Prima deinde luce castra mota et agmen reliquum incedere coepit. At first light the camp was moved and the remainder of the army began to advance.
Whereas Polybius describes first the barbarians’ muted response to Hannibal’s move and then their decision to fight when they saw the column on the move, Livy with this short and matter of fact sentence now turns to the Carthaginian army left in the valley. What he gains from doing this will become apparent with his next sentence. Prima deinde luce castra mota has no precise equivalent in Polybius but is an obvious extrapolation from what Polybius does say in § 2; here both Livy and Polybius agree that the action began at dawn. Next comes 33, 2: Iam montani signo dato ex castellis ad stationem solitam conveniebant, cum repente conspiciunt alios arce occupata sua super caput imminentes, alios via transire hostes. Now the mountain-dwellers, after a signal had been given, were coming together from their fastnesses to their customary guarding position, when suddenly they spy that some men had seized the highest point and were looming over their heads, and that other enemy were crossing ‹the narrows› on the road. 43
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Livy’s previous insertion of a sentence saying that the Carthaginian army was on the move now pays its dividend, with writing that is much more dramatic than its Polybian equivalent. We picture the barbarians assembling as usual, when they suddenly see that the situation has changed, in two respects: Hannibal is above them, and the rest of his army is moving 34. Repente, which has no equivalent in Polybius, and the ‘inverted cum’ construction point the enemy’s surprise. Livy often uses this construction to mark the turning point or περιπέτεια οf an episode 35 – even though here the turning-point is not so very surprising to his readers (as opposed to the mountain-dwellers), since we have been prepared for it. The use of alios … alios is another device that Livy likes to use to create ἐνάργεια 36. The final word hostes emphasizes the realization of the mountain-folk that they will have to fight. 33, 3-4. Vtraque simul obiecta res oculis animisque immobiles parumper eos defixit; deinde, ut trepidationem in angustiis suoque ipsum tumultu misceri agmen videre, equis maxime consternatis, (4) quidquid adiecissent ipsi terroris satis ad perniciem fore rati, † perversis † 37 rupibus, iuxta invia ac devia adsueti, decurrunt. The fact that both these things struck their eyes and minds together rendered them inert for a little time. Then, when they saw the panic in the narrows and that the column was out of order from confusion of its own making and that the horses were particularly frightened, thinking that whatever additional panic that they could add would be sufficient for its destruction, they run down from the […] rocks, accustomed to both impassable and out-of-the-way terrain.
As has been observed 38, these two sentences contain much that is characteristic of Livy. The momentary hesitation of the moun-
See also Pausch 2011, 151. See Oakley 1997-2005, I 593-594, with further bibliography. 36 See Oakley 1997-2005, I 137, with further bibliography. 37 Briscoe 2016 cites eight conjectures in his apparatus ad loc. and other conjectures changing the following words. None is obviously right, and his obeli are justified. 38 See e.g. Witte 1910, 395 and 400; Walsh 1973, 187. 34 35
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tain folk, which lasts only a little while (parumper), followed (deinde) by their reaction illustrates the manner in which he likes to split up battle-scenes (and other episodes) into separate sections 39: in this passage he conveniently found a precedent for this in Polybius’ τὰς μὲν ἀρχάς and μετὰ δὲ ταῦτα. What differs from Polybius is Livy’s more graphic portrayal of the thoughts of the mountain-dwellers: first they are stunned (defixit), and then they act. This corresponds to other passages in which actors in his history at first freeze with fear and then react 40. The second sentence is yet another period: it skilfully mentions first what the mountain-dwellers saw, then what they planned, and then finally their charge. The planning, as so often, is embraced in an indirect statement introduced by the participle rati 41. Whereas Polybius says that the Carthaginian column advanced δυσχερῶς … καὶ μακρῶς, Livy, doubtless wishing to make the scene still more dramatic, records that they were already in a state of some confusion. For the charge of the mountain-folk down the hill Polybius offers κατὰ πλείω μέρη προσπεσόντων τῶν βαρβάρων, but Livy’s reference to their managing the rocks makes his version more dramatic, and his explanation of why they could manage them is a rationalising explicative insertion that is entirely typical of his writing. His equis maxime consternatis anticipates what comes later in Polybius. 33, 5-7. Tum vero simul ab hostibus, simul ab iniquitate locorum Poeni oppugnabantur plusque inter ipsos, sibi quoque tendente ut periculo primus evaderet, quam cum hostibus certamen erat. (6) Et equi maxime infestum agmen faciebant, qui et clamoribus dissonis quos nemora etiam repercussaeque valles augebant territi trepidabant, et icti forte aut vulnerati adeo consternabantur, ut stragem ingentem simul hominum ac sarcinarum omnis generis facerent; (7) multosque turba, cum praecipites deruptaeque utrimque angustiae essent, in immensum altitudinis deiecit, quosdam et armatos; sed ruinae maxime modo iumenta cum oneribus devolvebantur.
See Oakley 1997-2005, I 127, with further bibliography. Witte 1910, 395 cites 2, 14, 6; 38, 5, 3; 38, 30, 8 and a host of analogous passages. For Livy’s interest in stupefying terror, see Oakley 1997-2005, III 62. 41 See Oakley 1997-2005, I 133-134, with further bibliography. 39 40
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Then the Carthaginians were assailed at the same time by their enemies and by the difficult terrain, and they had a greater struggle with their own men, since everyone was striving to be the first to escape from the danger, than with the enemy. (6) The horses made the column especially dangerous, since in terror they were panicking at the discordant sounds which the groves and re-echoing valleys were magnifying and, if by chance they had been struck or wounded, they were so frightened that they brought about great loss of both men and baggage of all kinds. (7) And since the narrows were sheer and abrupt on each side, the crowd threw many men, including some who were armed, down a very long way; and just like collapsing rubble mules were rolling downwards with their burdens.
If we could not see that Polybius had provided a template, we should say that Livy was very clever to think of delaying Hannibal’s reaction to the enemy’s charge so that he could dilate on the confusion among the Carthaginians. But Livy does add greatly to Polybius’ initial description of the confusion in the Carthaginian ranks. In Polybius the Carthaginians suffer loss (φθόρος) as much from the terrain as from the enemy, and this is reflected in simul ab hostibus, simul ab iniquitate locorum, phrasing notably close to Polybius’. But to enhance the sense of panic in the Carthaginian ranks Livy has added the idea of the struggle (certamen) being greater with themselves than the enemy 42. The idea of the noise comes not from this part of Polybius’ account but from his description of Hannibal’s intervention, where we find (§ 8) κραυγὴν καὶ συμπλοκήν; but Livy’s notion of its re-echoing around the valley and frightening the horses is an imaginative expansion. Both writers take the opportunity further to evoke the treacherousness of the terrain. In Livy we have learnt hitherto only that before Hannibal’s stratagem the terrain was impassable (32, 9 transitum ea non esse) and could be described as angustiae (32, 10). Now, in addition to the unnerving description of the re-echoing sounds, we learn of a huge falling away on either side of the path, in immensum altitudinis being an enhancement of Polybius’ κρημνώδους. What Livy says about Thus, rightly, e.g. Händl-Sagawe 1995, 223.
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the panic of the horses is a little more generalised than Polybius’ precise account of the two ways in which they caused trouble, and, whereas Polybius describes the falling of man and packanimals before describing the panic of the horses, Livy explicitly makes it a consequence of the panic of the horses; but iumenta cum oneribus is very close to (§ 4) ὁμόσε τοῖς φορτίοις πολλὰ τῶν ὑποζυγίων, and thereby provides a challenge for anyone who thinks that Livy was not using Polybius. 33, 8-9. Q uae quamquam foeda visu erant, stetit parumper tamen Hannibal ac suos continuit, ne tumultum ac trepidationem augeret; (9) deinde, postquam interrumpi agmen vidit periculumque esse ne exutum impedimentis exercitum nequiquam incolumem traduxisset, decurrit ex superiore loco et, cum impetu ipso fudisset hostem, suis quoque tumultum auxit. Although all this made for unpleasant watching, Hannibal nevertheless remained in position for a little while and held back his men lest he should increase the confusion and the panicking. (9) Then, after he had seen that his column was broken up and that there was a danger that because his army was denuded of baggage he should have brought through his army unscathed in vain, he ran down from his higher position and, although he scattered the enemy with his charge, he also increased the disorder among his own forces.
From describing the confusion Livy now moves to describe what it looked to onlookers. First there is a brief generalizing comment (quamquam foeda visu erant), and then, finally, the focus switches back to Hannibal. Like Polybius, Livy presents us with Hannibal’s thoughts, but, unlike Polybius, he divides them up into two stages, thereby heightening the suspense. And he keeps us waiting, first with the quamquam-clause, and then by delaying the subject Hannibal. This delay throws emphasis onto stetit and parumper, and makes us wait to learn that foeda visu (which had momentarily suggested that the description will be focalized through Livy’s readers) refers to Hannibal 43. Yet Hannibal still delays and charges only when there was a danger that his stratagem might backfire. This charge is described in
See the good remarks of Händl-Sagawe 1995, 223.
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a periodic sentence with two main verbs, another good illustration of the possibilities of subordination in Latin. The confusion that Hannibal causes amongst his own men is Livy’s clarification of Polybius’ διὰ τὴν τῶν προειρημένων κραυγὴν καὶ συμπλοκήν. Periculumque esse ne exutum impedimentis exercitum nequiquam incolumem traduxisset is notably close in phrasing to Polybius’ συλλογιζόμενος ὡς οὐδὲ τοῖς διαφυγοῦσι τὸν κίνδυνον ἔστι σωτηρία τοῦ σκευοφόρου διαφθαρέντος. Polybius (3, 51, 9-10) and Livy continue: ἐπεὶ δὲ τοὺς μὲν πλείστους τῶν Ἀλλοβρίγων ἀπέκτεινε, τοὺς δὲ λοιποὺς τρεψάμενος ἠνάγκασε φυγεῖν εἰς τὴν οἰκείαν, τότε δὴ τὸ μὲν ἔτι περιλειπόμενον πλῆθος τῶν ὑποζυγίων καὶ τῶν ἵππων μόλις καὶ ταλαιπώρως διήνυε τὰς δυσχωρίας, (10) αὐτὸς δὲ συναθροίσας ὅσους ἠδύνατο πλείστους ἐκ τοῦ κινδύνου προσέβαλε πρὸς τὴν πόλιν, ἐξ ἧς ἐποιήσαντο τὴν ὁρμὴν οἱ πολέμιοι. (11) καταλαβὼν δὲ σχεδὸν ἔρημον διὰ τὸ πάντας ἐκκληθῆναι πρὸς τὰς ὠφελείας ἐγκρατὴς ἐγένετο τῆς πόλεως. ἐκ δὲ τούτου πολλὰ συνέβη τῶν χρησίμων αὐτῷ πρός τε τὸ παρὸν καὶ πρὸς τὸ μέλλον. (12) παραυτίκα μὲν γὰρ ἐκομίσατο πλῆθος ἵππων καὶ ὑποζυγίων καὶ τῶν ἅμα τούτοις ἑαλωκότων ἀνδρῶν, εἰς δὲ τὸ μέλλον ἔσχε μὲν καὶ σίτου καὶ θρεμμάτων ἐπὶ δυεῖν καὶ τρισὶν ἡμέραις εὐπορίαν, (13) τὸ δὲ συνέχον, φόβον ἐνειργάσατο τοῖς ἑξῆς πρὸς τὸ μὴ τολμᾶν αὐτῷ ῥᾳδίως ἐγχειρεῖν μηδένα τῶν παρακειμένων ταῖς ἀναβολαῖς. (52, 1) Τότε μὲν οὖν αὐτοῦ ποιησάμενος τὴν παρεμβολὴν καὶ μίαν ἐπιμείνας ἡμέραν αὖθις ὥρμα. (2) ταῖς δ’ ἑξῆς μέχρι μέν τινος ἀσφαλῶς διῆγε τὴν στρατιάν· ἤδη δὲ τεταρταῖος ὢν αὖθις εἰς κινδύνους παρεγένετο μεγάλους. After he had killed the majority of the Allobroges and, routing the rest, had forced them to flee back home, the surviving mass of his baggage-animals and horses awkwardly and with difficulty made their way through the unhelpful terrain. (10) He himself, collecting as many men together as he could after the trial, attacked the town from which the enemy had made their onslaught, (11) and he found it almost deserted because all its inhabitants had been called out to help in the battle. In consequence, much that was useful both for the present and for the future fell into his hands. (12) Straight away he gathered up some of his horses and baggage and animals and the men who had been captured with them and for the future he also took a supply of grain and food that would last for two or three days. (13) Most importantly, he made the adjoining peoples fearful, with the result that none of those 48
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who lived near to his ascent dared readily to come to combat with him. (52, 1) Then he pitched camp and passed one day there before setting off again. (2) In the following days he led his army in safety up to a certain place, but on the fourth day he again fell into great danger. 33, 10-11. Sed is tumultus momento temporis, postquam libe rata itinera fuga montanorum erant, sedatur, nec per otium modo sed prope silentio mox omnes traducti. (11) castellum inde, quod caput eius regionis erat, viculosque circumiectos capit et captivo ‹cibo› ac pecoribus per triduum exercituum aluit; et quia nec montanis primo perculsis nec loco magno opere impediebantur, aliquantum eo triduo viae confecit. But that disorder was quelled in a moment after the flight of the mountain-dwellers had cleared the paths; then all were led through not only in peace but almost in silence. After this he captured the stronghold that was the chief settlement of the district and the surrounding villages and he fed the army for two more days on captured food and animals; and because he was not much hindered either by the mountaindwellers when once they had been beaten nor by the terrain, he made considerable progress over those three days.
Livy makes Hannibal’s charge more spectacularly and instantly effective than its equivalent in Polybius, and this reflects all the better on Hannibal’s generalship 44: in Polybius there is no quelling of the tumult momento temporis, and the journey of the baggage train through the defile is difficult and certainly not accomplished per otium and prope silentio (which effectively contrasts with the earlier noise, both having been enhanced by Livy) 45. As often, Livy spends less time in describing what a battle achieved than in describing the battle itself. His account of the capture of the town is more trenchant than that of Polybius, but omits nothing of substance (except perhaps the recapture of lost men and baggage). His reference to the capture of viculi is an extrapolation, it seems, from Polybius’ τοῖς ἑξῆς.
See Händl-Sagawe 1995, 225. Hutchinson 2013, 169 well observes that Livy’s tumultus places more emphasis on undisciplined behaviour (which Hannibal so commandingly brings to order), Polybius’ θόρυβος on sound. 44 45
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Livy’s final sentence is more trenchant than Polybius 51, 13-52, 1, which it abbreviates. From the first sentence he derives nec montanis primo perculsis … impediebantur but adds to it from his own initiative nec loco magnopere. He sees no need to mention that Hannibal camped in this place for a day 46, but rather combines it and the reference to the three-day march; the somewhat imprecise aliquantum … viae is suggested by Polybius’ μέχρι … τινος. In general, Livy likes to bring an episode to a swift close after the moments of tension have passed 47. The preceding comparison with Polybius has revealed the skill with which Livy has written this episode but suggests also a more general conclusion. If Livy did indeed make direct use of Polybius in books 21-22, then those interested in establishing the general characteristics of Livy’s historiographical techniques should be less shy of using evidence gained from a comparison of these books and the parallel narrative of Polybius.
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HANNIBAL REACHES THE ALPS: LIVY 21, 32, 6 – 33, 1 AND POLYBIUS 3, 50, 1 – 51, 13
Hutchinson 2013 = G. O. Hutchinson, Greek into Latin, Oxford 2013 Jal 1988 = P. Jal (ed.), Tite-Live, Histoire Romaine. Tome xi. Livre xxi, Paris 1988 Jumeau 1964 = R. Jumeau, Un aspect significatif de l’exposé livien dans les livres XXI et XXII, in M. Renard – R. Schilling (édd.), Hommages à Jean Bayet, (Collection Latomus 70), Bruxelles 1964, 309-333 Kahrstedt 1913 = U. Kahrstedt, Geschichte der Karthager, vol. III, Berlin 1913 Lachmann 1822-1828 = F. Lachmann, De fontibus historiarum T. Livii, Göttingen 1822-1828 Leidig 1994 = T. Leidig, Valerius Antias und ein annalistischer Bearbeiter des Polybios als Q uellen des Livius, vornehmlich für Buch 30 und 31, (Studien zur klassischen Philologie 82), Frankfurt am Main 1994 Levene 2010 = D. S. Levene, Livy on the Hannibalic War, Oxford 2010 Lindemann 1964 = K. Lindemann, Beobachtungen zur livianischen Periodenkunst, (Diss. Marburg), 1964 Luterbacher 1875 = F. Luterbacher, De fontibus librorum xxi et xxii Titi Livi, (Diss. Strasburg), 1875 Oakley 1997-2005 = S. P. Oakley, A Commentary on Livy, books vi-x, Oxford 1997-2005 Oakley 2009 = S. P. Oakley, Livy and his Sources, in J. D. Chaplin – C. S. Kraus (edd.), Livy, (Oxford Readings in Classical Studies), Oxford 2009, 439-460 Pausch, 2011 = D. Pausch, Livius und der Leser. Narrative Strukturen in ab urbe condita, (Zetemata 140), Munich 2011 Peter 1863 = C. Peter, Livius und Polybius. Ueber die Q uellen des xxi und xxii. Buchs des Livius, (Programm Pforta), Halle 1863 Pianezzola 1969 = E. Pianezzola, Traduzione e ideologia. Livio inter prete di Polibio, Bologna 1969 Soltau 1894a = W. Soltau, Die Q uellen des Livius im 21. und 22. Buch, (Programm Zabern), 1894 Soltau 1894b = W. Soltau, Livius’ Q uellen in der III. Dekade, Berlin 1894 Walsh 1961 = P. G. Walsh, Livy: His Historical Aims and Methods, Cambridge 1961 Walsh 1973 = P. G. Walsh, Titi Livi ab urbe condita liber xxi, Slough 1973 51
S. P. OAKLEY
Witte 1910 = K. Witte, Über die Form der Darstellung in Livius’ Geschichtswerk, RhM 65, 1910, 270-305 + 359-419 Wölfflin 1873 = E. von Wölfflin, Titi Livii ab urbe condita liber XXI für den Schulgebrauch erklärt von Eduard Wölfflin, Leipzig 1873
Abstracts A close comparison of the accounts of Hannibal’s crossing of the Alps in Livy (21, 32, 6-33, 1) and Polybius (3, 50, 1-51, 13) demonstrates Livy’s close reworking of his source and his consummate artistry in reshaping it in the light of his narrative and literary purposes. The episode highlights Livy’s evocative use of Latin syntax and his ability to build scenes that powerfully engage his readers’ imagination. Un confronto ravvicinato del resoconto dell’attraversamento della Alpi da parte di Annibale in Livio e Polibio dimostra la stretta aderenza di Livio rispetto alla sua fonte e la sua abilità nel rielaborarla in vista delle sue finalità letterarie e narrative. L’episodio evidenza l’uso evocativo della sintassi latina da parte di Livio e la sua abilità nell’offrire al lettore scene di grande potenza immaginativa.
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MAGISTER VITAE LIVY AS POLYBIAN READER
Polybius casts a long shadow in the history of historiography. In modern times, his stock has risen, with his having been an enviable stature for Post-Enlightenment, positivistic historical writing. Already rediscovered in western Europe in the early fifteenth century, from that time forward his text profoundly influenced the course of western political philosophy 1. This was true in America as much as in Europe, and indeed Arnaldo Momigliano once suggested that Polybius, with his theory of the mixed constitution and the idea of government through ‘checks and balances’, should be considered as an honorary founder of the constitution of the United States of America. In terms of historiography and historical method per se, Polybius’ history stood throughout many centuries as a model for emulation; along with Thucydides’ no-nonsense account of the Peloponnesian War, it was seen as the closest Greek and Roman antiquity ever came to producing that elusive dream of the nineteenth century: an objective, critical, scientific brand of history writing, à la Leopold von Ranke. The passage in Polybius most often cited in this connection comes early in the work, where the historian is discussing the vitally important element of ἀλήθεια, which we can roughly translate as ‘truth’: For just as a living creature which has lost its eyesight is wholly incapacitated, so if History is stripped of its truth (ἱστορίας ἀναιρεθείας τῆς ἀληθείας) all that is left is but an idle tale 2. See Momigliano 1987, 79-98. Polyb. 1, 14, 6-9; cf. 12, 12, 1-3; 13, 5, 4-6; 16, 17, 9-10; 20, 12, 8; 34, 4, 2, with assembled references at Champion 2004, 22 n. 30. For the ‘objectivity question’ in the American historical profession, see Novick 1988. 1
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A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 53-67 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117485
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Polybius, then, emerged as a critical, objective, scientific historian, much to the liking of the positivist historiography of the nineteenth and early twentieth centuries. And this view of him has persisted into fairly recent times, with the most sustained defense of Polybius as practitioner of ‘historical realism’ being G. A. Lehmann’s 1967 monograph, Untersuchungen zur historischen Glaubwürdigkeit des Polybios. The starkest formulation of the image of Polybius as rational, objective social scientist of which I am aware is an out-of-the-way, little-read article written by A. I. Nemirovskii, titled Polybius as Historian, published in 1977, in Soviet Studies in History. If Polybius’ stock as an historian has soared in modern times, Livy’s has correspondingly sunk. Q uintilian (inst. 10, 1, 101), asserted that Livy was the Roman equivalent of Herodotus, and Livy was much admired as a stylist and moral educator from his own day through the early modern period (in this connection, we need only think of Machiavelli’s Discorsi). But unlike Polybius, he did not fare so well with the advent of the putatively objective, scientific, critical historiographical strictures of the nineteenth and early twentieth centuries. Let us take, as an example, the most well-known work of R. G. Collingwood, The Idea of History, posthumously published in 1946. Livy is passed over without extensive treatment in The Idea of History, where Collingwood writes of Livy that, «he pitches the scientific claims of his work very low. He makes no claim to original research or original method. He writes as if his chance of standing out from the ruck of historical writers depended chiefly on his literary qualities». For Collingwood, Livy tried, but the requisite intellectual and conceptual universes required for the task were not yet available to him. «He does his best to be critical; but the methodical criticism practiced by every modern historian was still not invented. Here was a mass of legends: all he could do with them was decide, as best he could, whether or not they were trustworthy». He goes on, «There is here only the very crudest attempt at historical criticism. Presented with a great wealth of traditional material, the historian takes it all at its face value; he makes no attempt to discover how the tradition has grown up and through what various distorting media it has reached him; he therefore cannot reinterpret a tradition, that is, explain it as 54
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meaning something other than it explicitly says. He has to take it or leave it, and, on the whole, Livy’s tendency is to accept his tradition and repeat it in good faith» 3. Livy became a careless, ‘scissors-and-paste’ historian, without any real historical acumen, and at the mercy of the varying quality of his sources. From Book 21 onwards – of the extant books – one of Livy’s most important sources was Polybius 4. We owe much of our knowledge of Polybian passages in Livy to the pioneering work of Heinrich Nissen, Kritische Untersuchungen über die Q uellen der vierten und fünften Dekade des Livius (1863). For Livy’s use of Polybius, in addition to Nissen, we also owe a further debt to Hermann Tränkle’s Livius und Polybios, published in 1977. Since Nissen worked, we have come to designate Livian passages by adding an ‘A’ for an ‘annalistic’ source for the passage in question, or a ‘P,’ indicating Polybian derivation. For many historians, Livian passages with the ‘P’ designation were implicitly to be taken more seriously as reliable historical information, whereas passages marked with an ‘A’ presumably had considerably less authority. There are certainly several historical episodes for which we have both the text of Polybius and the text of Livy, and comparison shows that at times Livy did not fully understand the account of the Greek historian. There are six clear errors on Livy’s part in using his Polybian source. These fall into three categories: he mistranslates a Greek word or phrase; he misunderstands the meaning of a sentence; or he makes a geographical blunder. For an example, Polybius (21, 28, 11) describes the Roman siege of the Aetolians in the polis of Ambracia in the year 189 bce. There was a struggle of arms in a tunnel the Romans had dug (the Aetolians had constructed a tunnel from inside the city to intercept this), and the underground fighting reached an impasse when both sides thrust out their shields (the Greek word is θυρρεούς). Livy (38, 7, 10) has the combatants hastily throwing doors in the way; confusing the Greek word for ‘doors’ (θύρας),
3 I have used the Oxford University Press paperback edition of 1994; quotations from pp. 37-38. 4 For Livy’s uses of Greek sources generally, see Champion 2015.
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for the Greek word for ‘shields’ (θυρρεούς). Just where these doors are supposed to have come from does not seem to trouble Livy. But the most well-known, and even humorous, example of Livy’s blundering in this way occurs in his account of the battle at Cynoscephalae in 197 bce. In Polybius’ account (18, 24, 9), we learn that the Macedonian king Philip V had instructed his phalanx of pikemen to lower their deadly sarissas and charge, once the enemy Roman forces were at close quarters. But when Livy gets to this point in his reading of Polybius, he renders the Greek verb καταβάλλειν, which in this military context means to lower (pikes), with the Latin phrase, in an ablative absolute construction, hastis positis, adding the gratuitous aside that the length of the spears was an impediment to the action (quarum longitudo impedimento erat). As Livy understands the situation, shorn of the burden of their cumbersome pikes, Philip wanted his Macedonian phalangites to fight at close quarters with the short sword, or gladius. In a brief article published in 1958, P. G. Walsh assembled these errors in Livy’s reading of Polybius, and concluded: «These examples of carelessness in the scrutiny of sources collectively form a damning indictment of Livy’s accuracy. In vain do we search for any reasonable excuse. Livy’s early training, his career as a philosopher, and his regular reading of the older Roman annalists as well as Polybius all ensured that his knowledge of Greek was more than adequate… In short, it must be admitted that Livy has read the account of Polybius in these passages carelessly and only once, for a second reading would surely have exposed these fallacies… Even judged by the standards of the ancients, Livy as an historian is not in the first class. For he stands convicted not only of a lack of knowledge of various vital aspects of history, but of a careless and casual scrutiny of his sources» 5. In more recent times, much of this picture has changed. On a broad view, we can see these changes, at least in part, as a result of any number of scholarly trends: intertextuality, readerresponse theory, narratology, New Contextualist literary analysis, or the ‘linguistic turn’ in the historical profession, to name a few. The vast conceptual and methodological chasms separating Walsh 1958, quotation from p. 88.
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ancient Greek and Roman and contemporary historical-writing have been forcefully underscored, as in Anthony Woodman’s 1988 collection of essays, Rhetoric in Classical Historiography 6. We have begun to appreciate Polybius’ literary qualities as an author; and as we continue to extol Livy’s artistic genius, we can now do it without condemnation because his history does not conform to some putatively correct way of ‘doing history’. For Polybius, recent years have been a boom time, with John Marincola’s attention to Polybius’ editorially obtrusive style of narration in the context of classical historiography as a whole; Arthur Eckstein’s rehabilitation of Polybius as a moral thinker; and Felix Maier’s study of the role of the contingent and the unexpected in Polybian historiography; and we have had an international conference solely on Polybius in Liverpool in honor of the work of Frank Walbank back in July of 2007 – published in 2013 as The World of Polybius: Essays in Honour of F. W. Walbank, by the Oxford University Press – and another Polybian international conference in May 2016 in Thessaloniki 7. Finally, in a recent volume of the journal History and Theory, Jonas Grethlein has introduced us to the idea of the ‘future past’ for reading ancient Greek and Roman historiography. To quote from the article’s abstract, «The historian’s account of the past is strongly shaped by the future of the events narrated. The telos, that is, the vantage point from which the past is envisaged, influences the selection of the material as well as its arrangement. Although the telos is past for historians and readers, it is future for historical agents. The term “future past,”…lends itself to capturing this asymmetry and elucidating its ramifications for the writing of history». Grethlein’s ‘test cases’ for this study are Sallust and Polybius 8. After being neglected for so long, Polybius’ actual narration, then, has begun to receive considerable scholarly attention 9. Woodman 1988 (repr. 2014). Marincola 1997 passim; Eckstein 1995; Maier 2012; for the published essays from the 2007 Liverpool conference, see Gibson – Harrison 2013; for the published essays from the 2016 Thessaloniki conference, see Miltsios and Tamiolaki 2018. 8 Grethlein 2014; cf. Grethlein 2013. 9 Pédech 1964; Petzold 1969; and Sacks 1981 are important earlier studies of Polybian historiography. 6 7
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As for Livy, there has also been increased attention to his work within the conventions of classical historiography and the cultural and political contexts of the Augustan Principate. We have Andrew Feldherr’s 1998 study, employing literary and cultural theory to show how Livy uses visual imagery to capture his reader; David Levene has brought out nuances in Livy’s history writing with focus on the topics of religion and the Hannibalic War; and Jane Chaplin has examined moral exempla in Livy 10. While earlier generations stressed the great differences between Polybius and Livy – both in terms of the characters of the men and the nature of their works – more recent work, some of which we have touched on, has served to bring them more closely together. In what follows, I would like to take the cue from two books, Arthur Eckstein’s Moral Vision in the Histories of Polybius and Jane Chaplin’s Livy’s Exemplary History. The titles of these two books alone make it clear that their primary concern is the moral dimension of their respective authors’ histories. Let us look, as an example, at a supposedly historical event, a speech of a king to his sons, for which we have both the text of Polybius and that of Livy. Speeches in ancient Greek and Roman historiography are, of course, a feature that has perplexed later historians, since by and large there were no written transcripts of speeches, which were largely the free invention of the historian. We can get some idea of the methodological and conceptual underpinnings of this practice from the famous programmatic statement in Thucydides: In this history I have made use of set speeches, some of which were delivered just before and others during the war. I have found it difficult to remember the precise words used in the speeches which I listened to myself and my various informants have experienced the same difficulty; so my method has been, while keeping as closely as possible to the general sense of the words that were actually used, to make the speakers say what, in my opinion, was called for by each situation 11. Feldherr 1998; Levene 1997; Levene 2012; Chaplin 2000. 1, 22, trans. R. Warner, with Garrity 1998. For Polybius’ practice with reported speeches, see Champion 1997. 10 11
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Both Polybius and Livy preserve a supposed speech of the Macedonian king Philip V to his sons Perseus and Demetrius, probably of the year 182. Comparison of the two passages leaves no doubt that Polybius was Livy’s primary source here: both speeches offer reflections on the results of familial harmony and familial discord; both point as an example to ancient Sparta, which flourished under a system of collegial power sharing and struggled under one-man rule; both underscore the good-will and mutual respect of the brothers Attalus and Eumenes at Pergamum 12. This pair of passages is simply one example among many that demonstrate how closely Livy read Polybius; and it is also one of many examples of the strong moral dimension in both Polybian and Livian historiography. For the remainder of this paper, I would like to consider what we might call two moral questions in Polybius and Livy, and suggests some ways in which these topics illuminate Livy as Polybian reader. The first is a commonplace idea that goes back to the inception of the Greek and Roman literary tradition, indeed at least as far back as Homer and Nestor’s wistful and nostalgic reminiscences of heroes of a bygone age: the decline of contemporary society from some putatively pristine past 13. In a book published some fifteen years ago, I tried to show how the theme of decline is an important and pervasive one in Polybius’ history. In his work, there is a parallel rise and deterioration of the Roman Republic and the historian’s own native Achaean Confederation; and I argued that Polybius’ rhetorical strategy was to show that he had nothing to do with the degenerate, demagogic Greek politicians of his own day, but rather was politically and temperamentally aligned with traditional, conservative, aristocratic Roman values 14. The immediate political predicament of Polybius while he was composing his history and this contextual dimension of his work will most likely have been lost on Livy, but Livy will have read Polybius’ many passages on the theme of change and degeneration, as one moves from a hoary past to the contemporary scene. This moral dimension in Livy is plain to see. In Book 43, Polyb. 23, 11, 1-8; Liv. 40, 8, 7-20. See Hom., Il. 1, 260-274. 14 See Champion 2004a, esp. 144-169; Champion 2004b. 12 13
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Livy pauses to reflect on the fact that in his own time little account is taken of the gods, and public prodigies are no longer officially reported or recorded in histories. He goes on to state that his own mind is imbued with ancient values when he writes of Rome’s distant past, and he conscientously relays what men of former times thought of public concern. In another famous passage, this from the praefatio, Livy asks the reader to contemplate on what principles and morals the Roman empire was acquired and increased; and then to think on how discipline was relaxed and sank lower and lower, precipitously falling to its present state when, as Livy says, ‘we can neither endure our vices nor their remedy’ 15. A famous Polybian passage in Livy, for which we have lost Polybius’ text, provides further insights into Livy as Polybian reader. The historical context is the preliminary diplomatic activity of Q . Marcius Philippus and his colleagues during their embassy to Greece and Macedonia in 172/171 bce, leading up to the so-called Third Macedonian War against King Perseus 16. Livy tells us that when the embassy returned to Rome, the legates Philippus and Atilius were full of themselves and took great satisfaction in relaying how they had manipulated and deceived Perseus by disingenuously holding out the prospect for peace with a truce overture. This was necessary, the legates went on to say, because Perseus was war-ready, and he would have been able to seize strategically important places in Greece before a Roman army could arrive there. By their ruse, they had ensured that with Perseus’ induced cessation of hostilities, the war would be on an equal footing, as the Romans would have time to prepare and fight on their own terms. In addition, they had meddled in the political affairs of the Boeotian Confederation so that it would be in such chaos that no help to the Macedonian king from that quarter could be expected 17. Livy states that this report had a mixed 15 Liv. 43, 13, 1-2 mihi uetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus; Praef. 9 donec ad haec tempora quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus perventum est. 16 Liv. 42, 47, 4-9. The legates were Q . Marcius Philippus (cos. 189, 169), A. Atilius Serranus (cos. 170), P. Cornelius Lentulus (cos. suff. 162), Ser. Cornelius Lentulus (pr. 169), and L. Decimus. For the political background, see Briscoe 1964. 17 Liv. 42, 43, 4-44, 6; Polyb. 27, 1, 1-2, 10.
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reception on the Senate floor. Some approved of the duplicity, shrewd and calculated to make the coming conflict easier for the Romans; others, however, older senators who were still mindful of the virtues of a bygone day (veteres et moris antiqui memores), strongly disapproved. In indirect speech we learn what these older senators were thinking and saying: the Roman maiores waged war by genuine bravery (vera virtute); not by treachery and surprise attacks at night, or any other ruses or acts of cunning. They could only condemn this new and devious way of gaining advantage over the enemy, this nova sapientia. The substance of this indirect speech finds remarkable parallels with one in Polybius, in which he relays thoughts of Greek statesmen at the time of Rome’s destruction of Carthage and Corinth in 146 bce. There we read: Others said that the Romans were, generally speaking, a civilized people, and that the peculiar merit on which they prided themselves was that they conducted their wars in a simple and noble manner, employing neither night attacks nor ambushes, disapproving of every kind of deceit and fraud, and considering that nothing but direct and open attacks were legitimate for them. But in the present case, throughout the whole of their proceedings in regard to Carthage, they had used deceit and fraud (πᾶν δὲ τὸ δι’ ἀπάτης καὶ δόλου γινόμενον) 18…
Although the parallelism is striking, here we cannot press Livy’s debt to Polybius, since the passages in question treat different historical junctures, and more importantly, the theme of moral decline is a commonplace in Roman historiography generally, and a leitmotiv of the Augustan Principate. We need only think of Horace’s famous lines about the impiety of allowing shrines and temples to fall into decrepitude, and statues of the gods to be soiled by black smoke, or Augustus’ own boastful claim to having restored eighty-two temples that had fallen into neglect and disrepair 19. Rather, what we learn about Livy as Polybian reader from the famous nova sapientia passage in Book 42 is how judiciously Polyb. 36, 9, 9-11; cf. Diod. 32, 2, 1; 4, 5; Polyb. 13, 3, 6-8; 18, 34, 1-8. Hor., carm. 3, 6, 1-5; R. Gest. div. Aug. 20; on the theme of moral decline, see Lintott 1972; on Augustus’ propaganda on moral revival, see Zanker 1988. 18 19
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independent Livy is in selecting his material. We have Polybius’ text for the surrounding events. We know that the Greek historian himself, as hipparch or cavalry commander of the Achaean Confederation, was embroiled in Roman duplicity and placed in a difficult situation. When the legate Ap. Claudius Cento requested aid from the Achaeans for operations in Epirus, Marcius Philippus told Polybius not to comply. Polybius, then, had to choose which Roman superior to disobey. In the end, he denied Cento, formally appealing to Achaean legalities, stating that only such requests with senatorial approval (backed up by a senatus consultum) at Rome could be honored by Achaean law 20. Livy will have read all of this, but omitted it, as these were parochial Greek political matters, not to be bothered with in his grand history of the rise of the Roman Republic, and the moral values and ethical principles upon which it was built. The second moral theme showing us Livy as Polybian reader concerns what I have called ‘elite-instrumentalism’ among the Roman republican aristocracy. This is the idea that Roman elites crassly and duplicitously manipulated religion in order to control non-elites. The notion has long endured, and still appears in a muted fashion in even the most recent scholarship on Roman religion. For an ancient example, Livy purports to give the motivations of Rome’s legendary second king, Numa Pompilius in devising religious institutions: And fearing lest relief from anxiety on the score of foreign perils might lead men who had before been held back by fear of their enemies and by military discipline into extravagance and idleness, he thought the very first thing to do, as being the most efficacious with a populace which was ignorant and, in those early days, uncivilized, was to imbue them with fear of the gods (deorum metum iniciendum ratus est). As he could not instill this into their hearts without inventing some marvelous story, he pretended that he had nightly meetings with the goddess Egeria, and that her advice guided him in the establishment of rites most approved by the gods, and in the appointment of special officials for the service of each 21. Polyb. 28, 13, 1-14. Liv. 1, 19, 4-5; cf. Cic., Leg. 1, 1, 4; Plut., Num. 8, 1-4. I discuss ‘elite instrumentalism’ and the question of Roman elites’ ‘belief’ in Champion 2017. 20 21
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When Livy comes to discuss the disappearance and apotheosis of Romulus, he tells us that some people secretly said the king had been torn apart by the senators, with a certain Proculus Iulius reporting that Romulus had descended from the sky and instructed him to relay the message that Rome was to be the capital of the world and that the Romans were to cultivate the arts of war. In reading this, it would, of course, have been impossible for any Roman not to think of the assassination and deification of Julius Caesar 22. ‘Elite-instrumentalism’ was bolstered at Rome by Greek ideas. The so-called ‘Kritias fragment’, dating from the fifth century bce, provides an early example from classical Athens 23. But our earliest explicit formulation is to be found in Polybius. In his Book 6, Polybius writes of religion at Rome: But the most important excellence of the Roman commonwealth concerns their belief in gods. It seems to me that religious awe (δεισιδαιμονία), which is censured by other peoples, is the very thing that holds together the Roman state, in which it has been given the greatest dramatic role. This may seem surprising to many, but I think it has been done for the sake of the common people (πολλοί). If it were possible to compose a state of wise men, this might be unnecessary; but since every multitude (πλῆθος) is fickle and full of lawless desires, unreasoning anger, and violent passion, there is nothing left but to control it with vague fears and scenic effects of this sort. Consequently, I believe that the ancients were not acting without purpose or care when they introduced ideas about the gods and beliefs about those in Hades before the masses, but rather that men today are much more careless and foolish to reject them 24.
We have to think that the contemporaneous political and cultural contexts for these words in Polybius’ history would have been lost on Livy; we cannot be sure he would have been interested in them, in any event. The famous passage in Polybius reflects the intense politico-cultural debate of the Roman reception of Hellenism, Liv. 1, 16, 4-8. Sext. Emp., Math. 9, 54, with Jocelyn 1966, 98; Sutton 1981. 24 Polyb. 6, 56, 6-13; cf. 16, 12, 9-10. 22 23
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and the first sustained exposure of the Roman nobility to skeptical Greek philosophical traditions and critical inquiry into the nature, and the very existence, of the gods. Indeed, Polybius wrote these words a few years after the famous ‘philosophical embassy’, headed by the skeptical Academic Carneades, had visited Rome in 155 and stirred up the ire of the elder Cato; and there is some evidence that Polybius himself attended Carneades’ lectures 25. But Livy’s aim was not to resurrect that ancient history, and, unlike the theme of imperial success and moral decline, elite instrumentalism, though we find it occasionally expressed in some Roman writers (in Lucretius’ De rerum natura and Cicero’s essays on divine matters, for example), is not so pervasive in Roman literary texts 26. It certainly does not conform to what we might call Augustan propaganda. Livy likely found the most forceful expression of the elite instrumentalist interpretation of Roman religion in Polybius, but he will have used it for his own purposes, thereby showing himself to be an independent thinker, and perhaps even exhibiting a defiant, even subversive, commentary on the Augustan Principate. This last point leads us to an underappreciated link between our two authors. Both Livy and Polybius produced a kind of history-writing that is both artfully conceived and politically engaged. The first has been traditionally granted to Livy; the latter has more often been conceded to Polybius. We can profitably read either author in terms of what he was ‘doing’ in writing history in the first place; or to use the terminology of the New Contextualist Historians, we can attend to the ‘illocutionary force’ in their texts. Both authors produced guides for navigating tricky political waters that Leo Strauss would have applauded – each suited to the predicament of educated elites of their times – providing exemplars of how to survive a kind
25 Polybius apparently referred to the speeches in a lost part of his work: Polyb. 33, 2, 9-10 (Gell. 6, 14, 8-10). Moreover, we learn from Cicero (de or. 2, 154-155) that P. Cornelius Scipio Aemilianus, C. Laelius, and L. Furius Philus were auditors of the philosophical embassy, and that these men always surrounded themselves with the most learned Greeks (qui secum eruditissimos homines ex Graecia palam semper habuerunt), of whom Polybius must certainly have been one. 26 See, e.g., Lucr. 1, 101-111; Cic., nat. 1, 111; cf. 1, 77.
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of political subjection neither would have willfully chosen. Inter utrumque vola! Historian as political actor – this is another commonality between Livy and Polybius that we perhaps do not sufficiently recognize, and another way in which we can appreciate Livy as magister vitae.
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Abstracts Following the trend of Livian scholarship in recent decades, this paper seeks to understand Livy in terms of ancient historiographical conventions, rather than by the strictures of subsequent historiographical practice. Here Livy emerges as more than the great literary stylist, and nothing more, that earlier generations of scholars took him to be. Ancient Greek and Roman history writing, as is now well known, had as a principal aim the moral instruction of its readership, and in these terms even Thucydides and Polybius, in the past seen as exemplars of an objective, scientific brand of history, are no exceptions. When we read Livy from this perspective, and especially when we consider Livy as a Polybian reader, we find that not only does Livy use Polybius for his own purposes, rather than slavishly reproducing what he found in the Greek historian, but also that he fashions his Polybian material (even the moral precepts) to suit his own narrative purposes and rhetorical aims. The paper in conclusion considers some of the ways in which we may best understand these narrative purposes and rhetorical aims in the context of the Augustan Principate. Sulla scia degli sviluppi più recenti della critica liviana, l’obiettivo di questo capitolo è considerare la storiografia liviana in relazione alle convenzioni di genere antiche piuttosto che ai principi restrittivi della storiografia successiva. Livio emerge così come qualcosa più del semplice, per quanto abile, retore che le scorse generazioni di critici hanno visto in lui. Com’è ora noto, la storiografia greca e latina aveva come obiettivo principale l’ammaestramento morale del pubblico, e in questo senso anche Tucidide e Polibio, considerati in passato rappresentanti di una storiografia oggettiva e scientifica, non fanno eccezione. Se leggiamo Livio in questa prospettiva, e soprattutto nella veste di lettore di Polibio, scopriamo che non soltanto Livio ha piegato Polibio ai propri scopi programmatici, piuttosto che replicare ciecamente ciò che leggeva nella fonte greca, ma ha adattato il materiale polibiano (compresi i precetti morali) ai suoi obiettivi narrativi e retorici. In conclusione, il capitolo prende in esame alcuni dei modi in cui possiamo comprendere meglio questi obiettivi nel contesto del principato di Augusto.
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L’écriture de l’Histoire de Rome est dès le départ caractérisée par des effets de distortion idéologique, et parfois d’adaptation pure et simple de récits empruntés à la culture grecque. Fabius Pictor, le premier des annalistes romains, avait ainsi opéré des choix narratifs audacieux visant en particulier à démontrer aux Grecs la proximité culturelle existant entre eux et Rome: Évandre, un prince arcadien, était alors installé sur le Palatin, Rome se trouvait dotée d’une date inédite de fondation, 747, qui faisait d’elle une cité contemporaine des premières colonies grecques; le récit de la fondation de Rome, de la proclamation de la République ou celui de la Prise de Rome par les Gaulois étaient nourris de motifs empruntés à la littérature grecque (l’enfance de Cyrus, l’expulsion des Pisistratides, la prise et l’incendie d’Athènes); de façon plus générale, la reprise du thème des origines troyennes de Rome contribuait à confirmer l’appartenance de Rome à l’univers culturel hellène dans le même temps qu’elle justifiait les choix religieux du moment: Fabius Pictor était allé solliciter l’aide d’Apollon à Delphes 1 et avait contribué, à son retour, au développement de son culte. Apollon était protecteur naturel des Troyens, et les Romains avaient toutes les raisons d’espérer son heureuse intervention. Pour mieux convaincre ses compatriotes Fabius s’était attaché à faire systématiquement intervenir le dieu à des moments clés de l’Histoire: le dieu de Delphes est ainsi consulté par les Tarquins dans le récit aboutissant à la naissance de la 1 Sur la consultation de l’oracle de Delphes par Fabius Pictor, cf. Martin 2016, 129-141.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 69-96 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117486
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République, mais aussi lors de la guerre contre Véies, au moment du prodige du lac albain. Il en ira de même pour l’ensemble des annalistes, tous soucieux d’interpréter l’Histoire à la lumière de leurs convictions. Tite-Live appartient à cette école-là et n’hésite pas lui non plus à donner à son récit la forme que présuppose sa philosophie générale de l’Histoire, ce qui ne manque pas d’influer sur sa manière de traiter les sources sur lesquelles il s’appuie et ne laisse pas d’avoir un effet déformant. Le récit livien reflète en effet une représentation organiciste de la cité et une conception cyclique dans laquelle l’Histoire de Rome va devoir s’inscrire et dont nous essaierons ici de définir les principes. Nous verrons aussi que l’existence de cycles est concrétisée dans le texte notamment par l’intervention très dramatisée de duces fatales, une pratique qui a conduit Tite-Live à infléchir ou à adapter parfois quelque peu la nature du rôle que ses sources reconnaissaient à ces figures. Autre élément de distortion possible, le souci d’inscrire dans le récit le sens de l’évolution de la cité, vers la concorde, pour les tendances ascendantes, vers la discorde, pour les tendances au déclin.
1. Les principes généraux de l’Histoire livienne: une cité-organisme et une conception cyclique de l’histoire La philosophie livienne de l’histoire s’inscrit à l’intérieur d’une conception organiciste de la cité, d’origine hippocratique. TiteLive, comme bien des historiens et philosophes antiques, concevait en effet la cité comme un organisme passant par toutes les phases du vivant: la naissance, la croissance, l’âge mûr, le déclin et la mort. Or c’est le degré d’épanouissement des valeurs morales (fides, pietas, moderatio, iustitia, disciplina, modestia) qui détermine les progrès ou les reflux de la concorde et par là-même l’épanouissement ou le dépérissement de Rome. C’est parce que l’union nationale (concordia), la paix avec les dieux (pax deorum), la discipline militaire (disciplina) et la loyauté (fides) finissent par prévaloir que Rome peut prospérer. Non sans peine: ses vraies victoires sont celles qu’elle sait remporter en maîtrisant progressivement les facteurs psychologiques qui minent la qualité des relations politiques. L’hostilité (invidia), l’excessive liberté (licentia) de la plèbe, l’orgueil (superbia) des patriciens doivent pouvoir 70
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être réfrénés pour que triomphe la concordia. L’appétit personnel de gloire doit passer après l’intérêt de l’État; la loyauté (fides) qui soude l’imperium ne retrouve toute sa vigueur que lorsque Rome est capable de retrouver les voies de la douceur (clementia); c’est en renonçant aux actes de cruauté (saevitia) que les Romains peuvent espérer transformer leurs succès en victoire définitive. Cette dernière ne saurait cependant être possible que grâce au maintien de la paix avec les dieux (pax deorum) et à l’accomplissement des devoirs à leur égard (pietas). Le sort des armes romaines dépend étroitement de la bonne entente civique: la discorde, souvent illustrée au sommet de l’État par la mésentente entre les consuls, conduit à la défaite, tandis que l’union nationale produit l’inverse, une présentation des faits trop systématique et schématique pour avoir quelque chance de refléter très exactement la réalité historique: la meilleure illustration en est la façon dont Tite-Live rend compte dans les livres 21 et 22 de la série de défaites romaines au début de la 2e guerre punique en insistant sur la mésentente entre un consul respectueux du mos maiorum et du sénat et un autre au contraire démagogue, préfigurant les populares du siècle suivant. L’atmosphère de concorde nationale qui prévaut de nouveau au moment du retour de Varron à Rome après Cannes, où il est accueilli par toute la population rassemblée pour le remercier de ne pas avoir désespéré de la République (22, 61) contraste avec le tableau des deux consuls en campagne, Paul Émile étant escorté par les plus grands personnages de l’État (22, 41), Varron par la plèbe: le retour à l’unité nationale qui ponctue le livre 22 entend ainsi fermer une tragique parenthèse et augure le redressement militaire que promet ce retour à la concordia inspirée par le metus hostilis, un thème d’origine catonienne également intégré dans la philosophie livienne de l’histoire. Travaillée par une incessante dialectique opposant à tout moment concorde et discorde, l’histoire de la cité dessine de la sorte des tendances ascendantes ou descendantes, dont les modalités, caractérisées par leur progressivité, sont décrites par l’historien dans sa préface (§ 9): […] ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labente deinde 71
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paulatim disciplina velut desidentis primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus perventum est Ce qu’il faut, selon moi, étudier avec toute l’ardeur et l’attention dont on est capable, c’est la vie et les moeurs d’autrefois, ce sont les grands hommes et la politique, intérieure et extérieure, qui ont créé et agrandi l’empire; puis avec le relâchement insensible de la discipline, on suivra par la pensée d’abord une sorte de fléchissement des moeurs, puis un affaissement progressif et enfin un mouvement d’effondrement rapide jusqu’à nos jours, où la corruption et ses remèdes nous sont également intolérables.
Or, le temps livien, selon l’hypothèse que nous avons faite 2 serait en réalité constitué de deux cycles d’égale durée (360/365 ans), l’un historico-légendaire, l’autre plus historique, et chacun d’entre eux se subdiviserait en tendances historiques (ascendante puis descendante) de 180 ans. L’analyse du texte livien, suggère en effet très nettement l’utilisation par l’auteur des principes fonctionnels de la Grande Année, à savoir l’alternance de tendances ascendantes et descendantes de même durée, s’articulant autour de pivots historiques constituant autant de zéniths ou de nadirs. Des liens analogiques permettent en particulier de relier, au terme de chaque tendance, les différents moments-clé de l’histoire, lesquels coïncident toujours avec le rôle d’un personnage chargé des destins de la ville. Les cycles de l’Histoire livienne de Rome (les mécanismes du premier reflétant de façon analogique ceux des autres) feraient donc défiler les duces fatales suivants: Romulus (fondation), Servius Tullius (premier apogée), Camille (prise de Rome par les Gaulois, premier nadir, refondation de Rome, inauguration d’un nouveau cycle d’Histoire romaine), P. Cornelius Scipio Africanus Major (deuxième apogée de Rome, disparition du metus hostilis, ouverture de la perspective d’une expansion en Méditerranée), Auguste (deuxième nadir, fin des guerres civiles et refondation de Rome, inauguration d’un nouveau cycle d’Histoire romaine).
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De nombreux indices confirment, en effet, qu’Auguste intervenait au terme d’un nouveau déclin commencé après la bataille du Métaure, et inaugurait ensuite une ère nouvelle, selon une logique redevenue ascendante. Pour toutes ces raisons, et d’autres encore que nous n’avons pas le temps de développer dans le cadre de cette introduction, nous ne partageons pas l’avis de ceux qui interprètent le passage précédemment cité comme la marque d’un réel pessimisme de Tite-Live à l’égard du régime. Il me semble que la sévérité du ton stigmatise en réalité le peu d’entrain des Romains à accepter les remedia que propose Auguste (il s’agit en réalité probablement d’une allusion à l’échec d’une législation sur le mariage proposée dès 27). Ce terme même de remedia n’est du reste pas sans rappeler la propagande impériale concernant Apollon, dieu guérisseur et protecteur officiel du princeps. Tite-Live aurait donc, pensons-nous, situé historiquement le principat augustéen à un moment constituant à la fois un nadir mais portant aussi l’espoir d’un renouveau, laborieux certes, car on repart d’une situation chaotique, mais logiquement en marche. L’historien se serait donc engagé, au moyen de son Histoire de Rome, à encourager le développement de cette nouvelle tendance ascendante en offrant le miroir des vertus nécessaires à la renaissance de l’urbs. Il s’adressait là bien sûr à ses contemporains, mais on ne peut exclure qu’il ait cherché aussi à éclairer les choix du prince, conformément à la conception de l’Histoire qui se veut au service du politique. Cela n’en fait pas un thuriféraire du nouveau pouvoir: l’historien, à l’instar d’un Virgile, d’un Properce ou d’un Horace, fait le pari de la réussite du projet de respublica restituta du jeune Octavien, seule perspective souhaitable après 73
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Actium, bien préférable au retour à la guerre civile. Q uant au degré de conviction intime de chacun de ces auteurs, il échappe, selon moi, définitivement, à nos instruments de mesure 3.
2. La déformation livienne de la représentation traditionnelle des duces fatales Pour décrypter la structure cyclique de l’ouvrage, et mettre en perspective la fonction refondatrice du princeps autour de 27 av. J. C., le lecteur antique disposait encore d’indices très nets inscrits en profondeur dans l’ouvrage. Les analogies établies entre les chefs orientant le destin de Rome (les duces fatales), Romulus, Servius Tullius, Camille, Scipion l’Africain, constituent à cet égard le procédé le plus évident auquel a recouru l’historien. Tous sont éclairés en effet d’un reflet augustéen qui permet d’activer l’analogie avec le princeps: ils sont généralement conditores, c’est à dire fondateurs ou refondateurs de Rome (Romulus et Camille) auctores (garant du développement de Rome par la qualité de leurs auspices), patres patriae, hommes providentiels dont l’intervention a permis de faire naître ou renaître la patrie en assurant sa sauvegarde et sa perennité. L’apollinisme constitue aussi dans bien des cas un élément analogique permettant de relier les figures fondatrices du passé à Auguste. C’est ce souci de parer ces figures de qualités augustéennes qui a pu conduire Tite-Live à infléchir quelque peu la tradition les concernant. Évandre, prototype augustéen C’est à Évandre 4, figure initialement dessinée par Fabius Pictor, que revient l’honneur de servir de véritable prototype augustéen, à l’intérieur de l’Ab urbe condita, et d’être le premier de ces duces fatales qui devaient conduire, cycle après cycle, à Auguste. L’intention de Tite-Live d’établir un pont temporel entre le roi 3 Mineo 2006, 109-133: on y trouvera en particulier une étude critique ainsi qu’une bibliographie concernant le «pompéianisme» et le «pessimisme» de Tite-Live. Cf. également Mineo 2009, 295-308. 4 Sur l’histoire des premiers développements de la légende d’Évandre à Rome, cf. Delcourt 2001, 829-863. À propos de la possible assimilation d’Évandre et de Faunus, cf. Mastrocinque 1993, 24-35, références et bibliographie p. 24, n. 66.
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légendaire de Pallantée et le princeps se manifeste ici de plusieurs façons. Tout d’abord par la continuité établie entre eux à travers la pratique du rite grec, dont Auguste est le protecteur en tant que membre du collège quindécimviral. Cela est particulièrement net dans ce passage où Évandre est évoqué à l’occasion du récit des sacrifices offerts par Romulus à Hercule selon le ritus Graecus (1, 7, 3): (Romulus) fortifia d’abord le Palatin, sur lequel il avait été élevé. Il offre des sacrifices, aux autres dieux selon le rite albain, à Hercule selon le rite grec, suivant en cela la règle établie par Évandre.
C’est alors l’occasion d’un étonnant retour en arrière 5 qui va permettre à Tite-Live d’introduire dans son récit de subtils effets de miroir entre Évandre, Romulus et Auguste. Ce développement sert de fait tout d’abord de récit d’origine aux cérémonies de l’Ara Maxima Herculis qui furent sans doute l’objet de la sollicitude impériale dans le cadre de sa politique de renouveau du culte archaïque de divinités nationales. Tout cela paraît certes s’inscrire dans la continuité de la tradition décemvirale telle qu’elle a pu être mise en place à l’époque des guerres puniques et illustrée par Fabius Pictor. Mais Tite-Live n’hésite sans doute pas à déformer cette tradition lorsqu’il caractérise le pouvoir exercé par ce roi avec une précision si invraisemblable pour cette période légendaire qu’il n’est guère difficile d’entrevoir la volonté de l’auteur de construire une analogie entre les fondements du pouvoir du roi légendaire et ceux d’Auguste (1, 7, 8): À cette époque, Évandre, un réfugié venu du Péloponnèse, gouvernait ces lieux en s’appuyant bien plus sur son autorité que sur un pouvoir officiel (auctoritate magis quam imperio). On le vénérait en raison de sa connaissance merveilleuse de 5 Selon E. Paratore, (1971, 281-282), il s’agirait d’une faiblesse de Tite-Live, qui, séduit par le récit virgilien du livre 8, aurait décidé d’intégrer ce développement à l’endroit où il en était de sa narration. Cette explication, difficilement défendable (cf. Delcourt 2001, 39), a eu cependant le mérite d’attirer l’attention sur la singularité de cette construction qui dit assez l’importance de l’épisode pour Tite-Live.
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l’écriture, chose inouïe chez ce peuple grossier; on le vénérait plus encore en raison de la divinité que l’on prêtait à sa mère Carmenta qui avait fait l’admiration de ces nations avant l’arrivée de la Sibylle en Italie.
Auctoritate magis quam imperio: la formule ne saurait mieux définir l’essence du principat, tel qu’il prétend se définir dans les Res Gestae (34, 2) soit un pouvoir fondé avant tout sur une autorité morale, source de consensus politique: auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt. On retrouve même, dans l’évocation de la filiation du roi, un incontestable symbolisme apollinien, si central dans la propagande religieuse grâce à laquelle le principat tente de s’imposer. Même s’il s’agit d’abord, en apparence, de présenter l’origine du nom de la Porte Carmentale, le choix de «Carmenta» ne manque pas d’évoquer sémantiquement les carmina, ces fameux livres du destin dont Auguste a précisément envisagé puis entrepris le transfert dans le temple palatin d’Apollon. Le commentaire livien faisant de Carmenta une Sibylle avant la lettre, souligne sa proximité avec la source de connaissance des fata désormais sous la protection du dieu de Delphes 6. On se rappelle aussi que, par la suite, ce sera au collège chargé de la consultation des livres sibyllins qu’il reviendra d’être le gardien de ce même rite. L’appartenance d’Auguste au collège des quindécemvirs, l’actualité du transfert des Carmina, l’importance du ritus Graecus dans les cérémonies qui ont permis la consécration du temple apollinien, emblème du nouveau pouvoir, sont à mettre assurément en relation avec ces données du texte livien 7. Romulus 8 Les analogies entre Auguste et Romulus étaient à la fois plus faciles et plus difficiles à établir. Plus faciles, puisque Octavien avait ouvertement affiché sa prétention à être un nouveau Romu Delcourt 2001, 833. Mineo 1997, 44-55 et 162-175. 8 Pour une présentation plus complète de mon interprétation des analogies établies par Tite-Live entre Romulus et Auguste, cf. Mineo 2006, 162-175. 6 7
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lus; plus difficiles, parce que la légende du personnage était déjà trop élaborée pour pouvoir aisément être infléchie, ce qu’il parvient cependant à faire en prêtant certains traits augustéens au fondateur de Rome. L’évocation du Palatin intervient assurément de façon notable dans la construction de l’analogie. Elle est, comme on le sait, dans le récit livien, la colline au pied de laquelle les jumeaux furent recueillis et où ils furent élevés; c’est encore le point géographique d’où Romulus dessina son templum céleste pour prendre les auspices (1, 6, 4). C’est aussi, dans la réalité politique, la colline où naquit Auguste, celle où il devait élire domicile, où il devait prétendre avoir observé douze vautours lorsqu’il y prit les auspices lors de son premier consulat en 43 av. J. C. (Suet., Aug. 95). C’est là qu’il consacra en octobre 28 le temple consacré à Apollon, ce dieu sous les auspices duquel le prince entendait inaugurer une ère nouvelle pour la Ville; c’est encore sur cette même colline que l’empereur construisit cette domus aux apparences modestes, située entre le nouveau temple d’Apollon et le Faustuli tugurium. On relèvera en particulier le caractère singulièrement insistant du commentaire par lequel Tite-Live souligne le lien entre le choix du Palatin pour y fonder une ville et le fait d’y avoir été éduqué (1, 6, 3; 1, 7, 3). On ne manque pas non plus de s’étonner de la façon dont le Romulus livien a recours à la «recette» augustéenne autorisant la croissance organique de la cité à savoir la concordia. Les récits traditionnels des premiers combats que Romulus avait livrés pour affirmer la puissance de Rome ne laissaient guère de place a priori à un Romulus qui eût été l’homme du consensus et de la méthode douce. Il n’en est que plus significatif que Tite-Live se soit malgré tout employé à le faire en montrant le fondateur de la ville acceptant volontiers de suivre la politique de concorde que lui suggère son épouse Hersilia afin de renforcer l’unité et la puissance de Rome (1, 11, 2). L’importance de la concordia dans la politique de Romulus est encore rehaussée par le commentaire livien visant à caractériser le règne conjoint de Romulus et de Tatius, après la fusion des peuples romains et sabins faisant valoir l’idée que «non seulement les deux rois régnèrent ensemble, mais qu’ils le firent en plus dans un esprit de concorde» (1, 13, 4-8). Tite-Live se démarque 77
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ici quelque peu d’une tradition plus ancienne qui fait apparaître davantage de tension entre les deux rois (Cic., Rep. 2, 13; Dion Hal. 2, 5, 4). Un autre aspect important de l’éclairage analogique du personnage de Romulus tient à son activité religieuse qui offre l’image d’une pietas dont les caractéristiques méritent d’être rapportées à la politique religieuse augustéenne. Le récit des sacrifices offerts par Romulus à Hercule selon le rite grec, dans le récit relatif à l’institution du culte de l’Ara Maxima Herculis par Évandre précédemment étudié, visait peutêtre aussi à rappeler le fait que la célébration de la fête d’Hercule avait coïncidé avec le premier jour du triomphe célébré par Octave le 13 août 29. La correspondance avec le récit virgilien qui fait arriver Énée lors de ces mêmes célébrations suggère la réalité d’un rapport analogique entre ces mises en scène et la réalité 9. Le même récit avait aussi pour objet d’annoncer la future apothéose évhémériste d’Hercule, vainqueur de Cacus, et la met en rapport avec celle de Romulus (1, 7, 15): «Ce fut à cette époque le seul culte étranger qu’adopta Romulus: il admettait déjà l’immortalité conquise par le mérite, celle à laquelle le conduisait son destin». Tel est précisément l’avenir que les poètes contemporains de Tite-Live laissent espérer à Auguste, prince dont la victoire sur le chaos semble devoir lui assurer une place dans le panthéon romain en tant que bienfaiteur de l’humanité. De ce fait, il paraît logique de penser que la série d’apothéoses que laisse miroiter celle d’Hercule dans le récit étiologique relatif à l’Ara Maxima vise à renvoyer, par analogie, à la perspective d’une future divinisation de l’empereur, pour peu qu’il remplisse effectivement la mission salutaire que les destins lui ont confiée. C’est bien ce que laissent apparaître le récit virgilien de la rencontre d’Évandre et d’Énée, au Chant 8 (vv. 194 ss.), ainsi que deux odes d’Horace (2, 2, 21; 3, 3, 9-16), textes dont la composition semble avoir été contemporaine de la rédaction du Livre 1 de Tite-Live 10. Il est donc 9 Cf. Grimal 1951, 51-61. Pour la restauration augustéenne des rites de l’Ara Maxima et de ceux des Lupercales, cf. Plin., nat. 34, 21; Binder 1972, 124; Delcourt 2001, 846. 10 On retrouve dans le récit de Denys d’Halicarnasse une même orientation idéologique de la figure d’Héraclès: cf. Martin 1972, 172.
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évident ici que la reprise de la tradition sans doute pictorienne de l’établissement d’un culte à Hercule par Romulus n’empêche pas Tite-Live de donner ici à son récit un éclairage et une portée symbolique que les contemporains d’Auguste ne pouvaient pas manquer de comprendre. Premier apogée de Rome: Servius Tullius Grâce à ses réformes institutionnelles, Servius Tullius incarne quant à lui l’aboutissement de l’évolution institutionnelle et morale initiée par Romulus, un premier apogée de l’histoire de Rome. La «constitution» servienne permet au reste à Tite-Live de qualifier le roi de conditor (1, 42, 4) 11. Le récit livien lui accorde un statut providentiel et le présente comme un protégé de la Fortune 12, ainsi que l’illustrent le prodige et la prophétie qui accompagnent sa naissance. Seule la complicité de Tanaquil, figure symbolique de Fortuna dans ce passage, lui permet d’accéder au trône 13. Ce sont ses qualités morales, les mêmes qui caractérisent l’action de Camille, de Scipion ou d’Auguste, qui indiquent au lecteur le parfait épanouissement politique auquel est parvenu Rome sous l’autorité de ce prince. Son pouvoir est doux et modéré selon TiteLive (1, 48, 9) et c’est cette même modération qui conduit à sa désignation comme roi par consensus (1, 46, 1): Servius est un rassembleur comme Camille, Scipion (26, 18, 5-10) et bien entendu Auguste, l’homme du consensus par excellence. Tite-Live semble en réalité déformer ici les traditions plus anciennes, comme celle que suit Denys d’Halicarnasse, où Servius Tullius était présenté 11 Le fait que Servius soit un nouveau conditor, que sa réforme centuriate lui donne une stature égalant celle de Numa a été notamment analysé par Martin 1998, 28. Il semblerait que l’attribution de l’organisation centuriate à Servius Tullius soit bien antérieure à Fabius Pictor, comme semble l’indiquer un fragment de Timée de Tauroménion (Plin., nat. 33, 43 = FGrH 566F61), selon lequel le roi aurait été à l’origine de l’aes signatum: cf. Forsythe 1994, 221). Pour une synthèse du règne de Servius, cf. Thomsen 1980. 12 1, 41, 4. Sur le thème de la «dame à la fenêtre» et sur les liens entre Servius et Fortuna cf. Borghini 1979, 137-161; Guarducci 1949-1951, 23-32; Coarelli 1992, 301-363; Cornell 1995, 146-147; Poucet 2000, 32; Grottanelli 1987, 71-110; Briquel 1998a, 113-141 et 1998b, 397-414. 13 Mineo 2006, 187.
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comme un personnage plutôt conflictuel, un popularis avant la lettre, honni du Sénat (Dion. Hal. 4, 44). Au reste, l’intention prêtée au roi de se démettre de son pouvoir pour instituer un régime fondé sur la liberté populaire, si elle peut bien remonter à l’époque syllanienne 14, n’en est pas moins ici susceptible de rappeler au lecteur contemporain de l’Ab urbe condita la rumeur qui avait couru en 31 av. J. C. et selon laquelle Octave aurait songé à rendre aux Romains les rênes du pouvoir 15; ce même lecteur pouvait aussi se souvenir de l’étrange cérémonie du 13 janvier 27 où le prince avait fait mine de rendre toutes ses prérogatives au Sénat et de se démettre du pouvoir. Servius Tullius est aussi, à l’instar des autres duces fatales de la cité, entouré d’un discret symbolisme apollinien que lui vaut son rôle dans la construction du temple de Diane sur l’Aventin, tandis que le sacrifice d’une génisse d’une taille et d’une beauté exceptionnelles en l’honneur de la déesse constitue la promesse d’un destin impérial exceptionnel pour Rome (1, 48, 5). Camille, premier refondateur de Rome 16 L’autre grande figure fondatrice de l’histoire de Rome intervient 360/365 ans après la fondation romuléenne en la personne de Camille dont le rôle et les qualités font de lui, dans le récit livien, une parfaite préfiguration du princeps. De fait, les qualités morales dont est revêtu Camille ne sont pas sans rappeler celles que le Sénat romain avait décernées à Auguste en janvier 27, notamment la virtus, la iustitia, la clementia et la pietas, inscrits sur le clipeus virtutis. 14 Cf. Ogilvie 1965, 194; Heurgon 1963, 163; Martin 1992, 178; Poucet 2000, 310. 15 Cf. Suet., Aug. 28, 1. 16 Il sort de notre propos de refaire ici la protohistoire du personnage de Camille, notamment ses liens avec la déesse de l’aurore, Mater Matuta, et l’importance des relations diplomatiques entre Rome et Caere au IVe siècle dans le développement de la geste de Camille: cf. Piccirilli 1996, XXIV-XXXIX; Sordi 1960, 14-52; Dumézil 1973, 93-115 (Camille et l’aurore), 142-163 (la nuit et le jour), 216 et 238 (La geste de Camille). La bibliographie sur Camille est immense: on se réfèrera à cet égard à la première note de Momigliano 1960, 89-108; voir aussi Hellegouarc’h 1970, 112-132. Lire aussi les articles de Coudry 2001; Von Ungern-Sternberg 2001; Späth 2001; Mineo 2003, 159175 et 2006, 210-241; Briquel 2008.
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Camille est d’abord l’homme du consensus, comme Auguste. Après les échecs répétés des Romains contre Véies, dus à la discorde civile, sa nomination permet de rétablir le moral de tous et la discipline (5, 19) et la cité étrusque peut être prise. Victime innocente de la discorde générale, le général vainqueur doit s’exiler (5, 32) 17. Mais une fois Rome prise, il est le seul à même de rassembler les citoyens autour de lui. Cette réconciliation et ce retour à la concorde permettent à Camille de libérer Rome (5, 46 et 5, 49) et de remporter sur les Gaulois une victoire dont les effets effacent ceux de la bataille de l’Allia. On notera que dans les traditions antérieures au récit livien, le rôle de Camille était très différent. Chez Diodore de Sicile 18, qui reflète sans doute la version de Claudius Q uadrigarius, Camille n’intervient qu’après le retrait des Gaulois de Rome sur qui il tombe alors qu’il sort tout juste vainqueur de toute une série d’engagements contre plusieurs peuples de la région. C’est seulement à ce moment là qu’il livre bataille et récupère le butin. Mais par-dessus tout, c’est sa piété apollinienne, son souci de l’accomplissement scrupuleux des rites ou de la restauration des cultes nationaux, qui valent à Camille d’être qualifié de diligentissimus religionum cultor (5, 50), qui permettent de constituer lien analogique très fort entre ce personnage et Octave-Auguste. Il suffit pour le comprendre d’avoir à l’esprit l’importance d’Apollon pour le nouveau pouvoir (inauguration du temple palatin d’Apollon en octobre 28), ainsi que la fierté du prince lorsqu’il se targue, dans ses Res Gestae (19-20), d’avoir fait restaurer 82 temples pour la seule année 28 av. J. C; on se rappelle aussi comment Octave avait dénoncé la trahison par Antoine des dieux de sa patrie (Dion Cassius 50, 25, 3-4) et pris des mesures pour interdire la célébration des rites égyptiens à l’intérieur du Pomerium (Dion Cassius 54, 2, 4). 17 Le motif de l’invidia plebis qu’aurait suscitée l’emploi d’un quadrige blanc par Camille lors de son triomphe a pu, par la suite, servir de modèle aux détracteurs du triomphe de César, et alimenter chez les annalistes le thème de l’hostilité populaire naturellement générée par la méfiance à l’endroit de quiconque se trouverait en situation de prétendre à une position politique prédominante en raison de services exceptionnels rendus à la patrie: dans le fameux discours qu’il prête à Agrippa sur les avantages de la démocratie, Dion Cassius (52, 13, 3-4) établit ainsi un parallèle entre Camille, Scipion et César (cf. Coudry 2001, 65). 18 Diod. 24, 117, 3-5.
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La piété de Camille permettait encore de dessiner analogiquement le rôle historique qu’Octave avait prétendu jouer en confirmant la pérennité de Rome comme centre du pouvoir. Ainsi le sauveur de Rome reste-t-il fidèle au site choisi par Romulus, en s’opposant, dans un long discours au style direct, à la proposition du tribun Sicinius de permettre à la plèbe de s’installer à Véies, récemment conquise, plutôt que de reconstruire la ville en ruines depuis la catastrophe gauloise; la réécriture de cet épisode, évoquant à l’origine un simple projet de colonisation, pouvait difficilement ne pas évoquer l’accusation qu’Octave avait lancée contre son rival de vouloir transférer le centre du pouvoir à Alexandrie 19. Et c’est précisément sa fidélité au site premier de Rome qui lui vaut d’être désigné par les sénateurs comme deo Romulo, dei filio, parente et auctore urbis Romae (5, 24, 11). Ces qualités lui sont de nouveau reconnues après la libération de la Ville, puisque les Romains décernent à leur sauveur les titres de Romulus ac parens patriae, conditorque alter urbis (5, 49, 7; 7, 1, 10). Or, l’équivalence ainsi posée entre Camille et Romulus en autorisait une autre, cette fois-ci entre Camille et Auguste 20. On se rappelle, en effet, qu’avant de retenir le cognomen d’Auguste, Octave avait caressé l’espoir de se faire appeler Romulus, probablement dès son triomphe sur l’Égypte 21 en 29, et qu’à défaut d’en avoir gardé le nom, il en avait conservé le rôle de refondateur (Suet., Aug. 7, 4). Le titre de pater patriae devait lui être décerné en 2 av. J.C, mais il était déjà dans les esprits en 23, puisqu’une ode d’Horace pouvait alors le lui décerner symboliquement (Hor., carm. 1, 2, 50). Enfin les expressions de 19 Alexandrie avait fait planer sur les Romains le même risque que celui que Véies avait fait encourir aux contemporains de Camille, chez Virgile et TiteLive: cf. Sordi 1964, 80-100. 20 Hellegouarc’h 1970, 112-132 a bien vu que le personnage de Camille préfigurait celui d’Auguste et permettait de dessiner une représentation idéale du princeps. Sur le lien entre Camille, Auguste et Romulus, cf. Syme 1939, 305306; Mazza 1966, 186-191; Martin 1992a, 63-64; Miles 1995, 88-94. Certains chercheurs estiment cependant qu’il n’est pas nécessaire de retrouver dans la présentation livienne de Camille une quelconque préfiguration d’Auguste (Walsh 1961, 16-17; Mette 1961, 269-285; Burck 1992, 170-176 estime que la ressemblance entre Camille, Romulus et Auguste tient simplement à «l’air du temps», et serait plutôt un écho involontaire de l’actualité). 21 Cf. Gagé 1931, 94.
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dei filio et d’auctore urbis Romae, que l’on retrouve dans la titulature officielle d’Auguste, pouvaient difficilement passer inaperçues des lecteurs de Tite-Live. L’épitaphe livien consacré à Camille confirme cette analyse: après avoir rappelé que l’on pourrait légitimement décerner au héros les titres de Romulus et de fondateur de Rome, Tite-Live précise que ce personnage avait été le princeps de la cité, en temps de paix comme en temps de guerre (7, 1, 9-10): fuit enim vere vir unicus in omni fortuna, princeps pace belloque. Ainsi, grâce à ce système d’analogies, Tite-Live était-il parvenu à poser l’équivalence historique entre Romulus, Camille et Auguste, les héros dont l’action avait permis que s’ouvrît un nouveau cycle d’histoire. C’est ce que laisse bien apparaître au demeurant l’insistance étonnante de Camille sur les 365 ans de Rome, dans ce discours où il entreprend de persuader la plèbe romaine, après la tourmente gauloise, de rester fidèle au site choisi par Romulus (5, 54, 5-6): Nous en sommes à la trois cent soixante cinquième année de l’existence de Rome; cela fait bien longtemps que vous guerroyez au milieu de peuples si anciens et dans tout ce temps-là, – pour ne pas citer les villes une par une – ni l’union des Volsques et des Eques, qui représentent des places si nombreuses et si fortes, ni l’Étrurie entière, également puissante sur terre et sur mer et occupant toute la largeur de l’Italie, n’ont pu vous égaler à la guerre. Puisqu’il en est ainsi, pour quelle raison diantre iriez-vous tenter une expérience ailleurs, quand celle que vous avez faite ici est heureuse, et que d’autre part, à supposer que votre valeur puisse s’exercer ailleurs, la fortune de ce lieu, elle, ne saurait être transférée?
C’est à J. Hubaux 22 que revient le mérite d’avoir répéré la signification symbolique de ce chiffre qui indique l’achèvement du premier cycle d’existence de l’urbs. Cette mort avait aussi été symbolisée dans le récit de la prise de la ville par l’épisode mettant en scène ces vieux patriciens faisant escorte à la jeunesse romaine en route pour le Capitole pour assurer la continuité des destins de la cité; après quoi, ces représentants du passé romain Cf. Hubaux 1948, 343.
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s’en étaient retournés vers la ville basse, pour trouver la mort dans le brasier qui allait détruire ce qui restait de la vieille Rome (5, 39, 8-40, 10) 23. Le point de départ choisi par Tite-Live pour marquer les commencements d’un nouveau cycle historique ne saurait du reste surprendre. La gravité de l’événement, le recul territorial de Rome ne pouvaient que donner l’impression d’un retour au point de départ. Ennius déjà, probablement dans ce même discours où Camille dissuade ses compatriotes d’aller s’installer à Véies, semble avoir voulu fermer un cycle d’Histoire en évoquant les sept cents ans de la Ville (Enn. ann. 501-502 V.2, cit. par Varr. rust. 3, 1, 2). Polybe avait choisi de faire lui aussi de cette date le point de départ de la croissance continue de l’urbs 24. Mais il n’en reste pas moins vrai qu’en construisant de façon analogique la figure de Camille et la crise traversée par son monde, en faisant, par ailleurs, résonner le chiffre symbolique de 365, Tite-Live orientait le sens de l’Histoire de façon plus précise que ne l’avaient fait ses prédécesseurs. Ses contemporains, bien informés de l’ambition augustéenne d’ouvrir une ère nouvelle, après l’accomplissement d’un nouveau cycle de même durée, n’eurent sans doute pas grand mal à comprendre le message, d’autant moins que l’historien n’était pas le seul à adopter ainsi une représentation cyclique de l’Histoire pour relier Auguste à un passé mythique, comme M. Sordi l’a bien montré à propos de Virgile 25. Le deuxième apogée romain: Scipion l’Africain L’apogée du second cycle historique romain est incarné, quant à lui, par la figure charismatique de Scipion l’Africain auquel le récit livien confère le rôle de chef providentiel (dux fatalis) qui entraînera sa cité vers son nouveau destin. Il est vrai que les exploits du personnage en Espagne, en Afrique et en Asie, l’avaient de son vivant désigné comme un homme exceptionnel, comme en témoigne le poème qu’Ennius avait écrit en l’honneur du héros. 23 Sur la construction du récit relatif à la prise de Rome par les Gaulois, et ses significations symboliques cf. Briquel 2008; 307-344; Mineo 2016, 165202. 24 Polyb. 1, 5, 3; cf. Pedech 1964, 443. 25 Cf. Sordi 1964, 80-100.
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L’historien s’est cependant employé à conférer un sens nouveau à la mission du personnage: celui-ci reste certes avant tout le futur vainqueur d’Hannibal, mais il devient aussi celui qui, en transportant le théâtre des opérations en Afrique, inaugure un cours historique nouveau. Personnage essentiellement ambiguë, Scipion est à la fois le général romain qui porte en lui les qualités qui caractérisent une Rome parvenue à son apogée moral, mais aussi celui qui par son ambition et la démesure de son projet impérial ouvre une tendance historique nouvelle et pernicieuse, à long terme, pour sa cité 26. À cet égard, le long débat portant sur l’opportunité d’une expédition en Afrique où Scipion est opposé à cette autre figure symbolique qu’est Fabius Cunctator constitue un repère essentiel pour le lecteur. L’importance narrative exceptionnelle accordée à ce débat (28, 40-44) ainsi que sa situation dans l’œuvre sont en effet remarquables: placé à la fin du livre 28, ce long échange apporte un éclairage particulier aux dernières pages du livre précédent, ponctuées quant à elles par l’image d’une cité enfin libérée du metus hostilis grâce à la victoire du Métaure (27, 51, 10). Le discours de Fabius est, d’autre part, accompagné d’indications visant à définir la fonction emblématique du personnage. Fabius incarne, en effet, dans le récit livien, le dévouement absolu à Rome, l’entière subordination de l’individu aux intérêts de la collectivité. Son opposition à Scipion est donc tout un symbole. Dans ce passage, le Cunctator, qui se dit fatigué de la vie (28, 40, 13-14), assume, à l’évidence, le rôle du sage par excellence, de celui à qui la proximité de la mort (30, 26, 7) permet d’entrevoir la signification de la réalité avec une lucidité extraordinaire, comme s’il était un uates (Cic., div. 1, 63-64). La signification de l’intervention de Fabius est particulièrement apparente à la fin de son discours qui en est le point d’orgue (28, 42, 22): Mon avis, pères conscrits, c’est que P. Cornélius Scipion a été élu consul dans l’intérêt de l’État et du nôtre, non pour luimême et son intérêt propre; c’est pour assurer la sécurité de 26 Cf. Chaplin 2000, 97 a bien reconnu la fonction de pivot de l’Histoire de Rome impartie à Scipion, le fait que Fabius incarne le passé, Scipion l’avenir, et que ce dernier soit doté de qualités bien propres à évoquer la figure de dynastes du Ie siècle av. J.C.
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Rome et de l’Italie que les armées ont été levées, non pour que les consuls puissent les faire passer dans telle ou telle région de la terre où ils en ont envie, agissant orgueilleusement à la façon des rois.
Ces derniers mots présentent, en réalité, avec une extrême précision les caractéristiques de la nouvelle tendance historique qui commence alors à poindre, dans le récit livien, et que contient en germe l’aventure africaine de Scipion: une superbia aristocratique s’affirmant aux dépens de l’intérêt général, une cupido honorum conduisant parfois les généraux à agir sans mandat du sénat et du peuple romain, à provoquer, de ce fait, des guerres injustes, à exercer donc précisément leur consulat pour eux et non pas pour la République et, pour finir, à compromettre l’unité civique, la concordia, par leur comportement tyrannique. En réalité, la signification de cette mise en scène que constitue le débat sénatorial opposant Scipion à Fabius ne pouvait pas échapper au lecteur cultivé de Tite-Live. Il aurait été, en effet, difficile à ce dernier de ne pas réaliser que notre historien leur proposait de rapprocher son récit de celui de Thucydide et plus précisément des discours prononcés par Nicias et Alcibiade devant le peuple athénien sur l’opportunité d’une expédition en Sicile contre Syracuse 27. Cette entreprise illustrait, pour l’historien grec, le risque mortifère qu’avait constitué pour la puissance athénienne un impérialisme imprudent qui avait projeté la cité de Périclès loin de ses frontières naturelles 28. Bien entendu, l’histoire d’Athènes n’était pas celle de Rome: au lieu de la défaite de l’Assinaros, les Romains allaient connaître la victoire de Zama. Mais c’est sur l’orientation de la nouvelle tendance historique induite par l’expédition africaine de Scipion que le lecteur de l’Ab urbe condita était invité à méditer, et sur les leçons d’une Histoire qui avait démontré les périls d’un impérialisme démesuré. S’il est clair cependant que la mise en scène livienne de ce débat s’accorde trop avec la philosophie de l’Histoire de l’auteur pour ne pas constituer dans une large mesure une déformation
Cf. Tedeschi 1998, 90-91. Cf. Romilly 1990.
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de la tradition concernant l’opposition stratégique entre Scipion et Fabius Cunctator. Ce dernier s’est-il véritablement opposé au projet de Scipion de débarquement en Afrique avec l’appui du Sénat? Il ne nous est resté aucun fragment d’annaliste, et notamment de Fabius Pictor, susceptible de confirmer la réalité de ce débat. Nous n’avons pas non plus conservé la partie des Histoires de Polybe qui eût été susceptible de nous éclairer sur ce point. Caton l’Ancien, qui dénonçait la corruption de mœurs romaines au contact du monde hellénistique et qui de surcroît, était l’adversaire politique de Scipion peut avoir le premier mis en scène cette opposition qui entre bien également dans la logique de son propos dans les Origines. On ne peut en être sûr, faute de tout fragment de ce texte susceptible de le suggérer. Il est donc impossible de définir avec précision le point d’ancrage de ce débat dans la tradition historiographique, mais on ne peut exclure que TiteLive ait pu s’appuyer sur une tradition catonienne, voire pictorienne qu’il aura amplifiée narrativement pour lui conférer une portée symbolique nouvelle.
3. L’organisation narrative des périodes ascendantes et descendantes L’autre élément déformant dont l’historien devrait tenir compte pour relativiser la valeur historique du discours livien tient à l’inscription narrative des tendances historiques, ascendantes puis descendantes. À l’échelle de l’ensemble de l’œuvre, le lecteur pouvait percevoir l’évolution des tendances historiques à travers l’aggravation et la multiplication progressive des crises politiques, ou au contraire leur régression sur un arrière-fond de prodiges dont le nombre et la gravité varient en fonction de l’importance historique des épisodes 29. Différents procédés rhétoriques permettaient également à Tite-Live de délimiter dans son récit les points de repères fondamentaux de sa représentation cyclique. Les grands tournants historiques, celui de la Prise de Rome par les Gaulois et celui de la bataille du Métaure sont signalés aux Cf. Mineo 2006, 198-336.
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lecteurs ainsi qu’on a pu le voir par de grands discours (Camille) ou débats (Fabius et Scipion) dont l’importance est dramatisée à la fois par le recours au style direct et par la longueur exceptionnelle de ces passages (28, 40-44). Tite-Live procède aussi par touches successives, par une présentation dramatique d’épisodes ou de tableaux dont la fonction emblématique ou symbolique est marquée soit par des procédés d’amplification, soit par des commentaires narratifs. Le résultat le plus remarquable de cette construction consiste dans le parfait parallélisme des mécanismes historiques et des situations historiques des deux cycles dont le fonction paraît de fait parfaitement analogique. Ainsi, les germes de déclin sont-ils introduits de la même manière dans les deux cycles, à un moment proche de l’apogée de la cité, amenée par le développement même de sa puissance à entrer en contact avec des cultures extérieures (l’Étrurie, la Grèce) caractérisées par la luxuria, le goût du luxe, et l’ambitio, l’ambition personnelle. Ainsi l’épisode de l’arrivée de Lucumon (le futur Tarquin l’Ancien) et de son épouse Tanaquil illustret-il la contamination de Rome par l’ambition et le goût du luxe (1, 34, 1); de la même façon, Tite-Live marque bien, par un commentaire narratif comment la prise de Syracuse par Marcellus en 211 fut à l’origine de «cette admiration que l’on voua aux œuvres d’art grecques; c’est là le point de départ de ces pillages sans frein et sans distinction des édifices sacrés et profanes. Cette passion finit du reste par se porter contre les dieux de Rome…» (25, 40, 2-3). Tite-Live exploite en réalité ici une tradition qui remonte à Polybe (9, 10, 5-9) en lui accordant un ample développement 30: C’est très précisément de cette manière que Carthage fut prise. Le butin y fut sans doute aussi important que ce qu’on aurait pu tirer à grand peine de Carthage si on avait pris la ville au moment où sa puissance égalait celle de Rome.
Il est du reste significatif que Tite-Live insistera de nouveau sur l’ampleur de ces richesses rapportées à Rome dans la description
Cf. 25, 31, 11.
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qu’il fera de l’ovation accordée à Marcellus lors de son retour dans l’urbs 31: Ce fut aussi le défilé des œuvres d’art qui attestaient la longue prospérité et la richesse du royaume, des objets précieux en argent et en or, de la vaisselle et des tissus de prix, des statues célèbres qui faisaient la fierté de Syracuse parmi les cités grecques.
Mais l’élément le plus révélateur tient à la façon dont Tite-Live entend bien forcer le trait en accusant le contraste entre Marcellus à Syracuse et l’attitude de Fabius Maximus à Tarente. En effet, alors qu’aucune nécessité narrative ne le poussait à le faire, l’historien évoquant la prise de cette ville, souligne la plus grande clairvoyance du Cunctator qui, à différence de Marcellus en Sicile, choisissait de laisser leurs dieux irrités aux Tarentins 32: Mais Fabius se montra plus avisé (que Marcellus) en s’abstenant de toucher à ce butin; au greffier qui lui demandait ce qu’il voulait qu’on fît des statues colossales – il s’agit de dieux, chacun représenté dans l’attitude qui lui est propre, dans la posture de combattants – il donna l’ordre d’abandonner aux Tarentins leurs dieux en colère.
Et pour mieux souligner l’impiété de Marcellus, Tite-Live accuse le contraste entre les deux généraux, en prétendant que Fabius, à la différence de Marcellus, n’aurait pas touché pas aux œuvres d’art (16, 8), ce qui semble être historiquement inexact, puisque Strabon et Plutarque attestent le contraire 33 et notamment le fait que le Cunctator fit emporter à Rome la statue colossale d’Héraklès en airain, œuvre de Lysippe, qu’il plaça au Capitole et à côté de laquelle il installa sa propre statue équestre de bronze. C’est en soulignant de la sorte le contraste entre l’attitude des deux hommes que l’historien pouvait donner toute sa valeur emblématique au traitement des œuvres d’art par Marcellus et construire avec plus de netteté l’opposition entre la phase historique italienne représentée dans le récit par Fabius et celle Cf. 26, 21, 7-10. Cf. 27, 16, 8. 33 Cf. Strabo 6, 3, 1; Plut., Fab. 6. 31 32
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tournée vers l’orient hellénistique dont Marcellus et bientôt Scipion allaient encourager le développement. Autre élément historiquement déformant du récit livien, l’inscription narrative des progrès de la concorde ou inversement ceux de la discorde. La logique historique qui conduit Rome à la bataille de l’Allia reflétait analogiquement les mécanismes qui devaient plus tard conduire Rome aux guerres civiles et à la fin de la libera respublica. La première mort de Rome (la prise de la Ville par les Gaulois) apparaît ainsi comme le terme d’une évolution politique encourageant le développement de la discorde à partir de Tarquin le Superbe. S’appuyant sur une tradition annalistique défavorable à ce prince, Tite-Live n’avait guère eu de mal à rendre sensible l’inversion de tendance historique et à mettre en scène les mécanismes devant aboutir à l’établissement de la République. L’instauration de cette dernière s’intègre de fait à l’intérieur d’une logique descendante, même si Rome est encore proche de son premier apogée. Avec l’institution des instruments de la liberté (lex de provocatione, institution des tribuns de la plèbe) la plèbe va en en effet devenir plus rétive. Sa liberté tend alors à devenir excessive (licentia), exacerbant progressivement la superbia des grands. Conformément au schéma évolutif décrit dans la préface, après un début discret, ce déclin s’accélérait et aboutissait à une situation de crise aiguë évoquée aux livres 4 et 5; l’auteur y montrait notamment comment la multiplication des procès injustes contre les patriciens, la superbia croissante de ces derniers, l’affaiblissement de la discipline militaire, le danger grandissant des invasions étrangères (la discorde faisant négliger le metus hostilis), l’abandon des valeurs traditionnelles, notamment la pietas et la fides, étaient à l’origine de l’affaiblissement de la cité: l’attaque gauloise est du reste présentée comme la conséquence d’un manque de fides des ambassadeurs romains, tandis que la défaite militaire s’explique par l’absence de Camille, le seul homme capable de faire front. Celui-ci, à la suite d’une injuste condamnation, inspirée par l’hostilité de la plèbe (invidia plebis) alors à son paroxysme, a choisi de s’exiler volontairement. Le scénario écrit par Tite-Live est ignoré des sources antérieures dont nous disposons. Tout laisse penser que Tite-Live a voulu faire de Camille l’homme providentiel dont l’absence de Rome, 90
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conséquence de la discorde, favoriserait l’effondrement de Rome. Un commentaire de l’historien établit explicitement une relation de cause à effet entre l’exil de Camille et la capacité, pour les Gaulois de s’emparer de Rome (5, 33, 1): «Ainsi fut chassé un citoyen qui, s’il était resté, … aurait pu empêcher la prise de Rome». De la même façon, son retour spectaculaire, résultat d’une réconciliation et d’un nouveau climat politique propice la concorde, permet sa victoire sur les Gaulois, et empêche la migration de la population vers Véies, permettant ainsi d’ouvrir un nouveau cycle d’Histoire. On observe une évolution analogue dans la tendance historique aboutissant aux guerres civiles et à l’instauration du Principat. Cette dernière commence aux lendemains de la victoire du Métaure en 207, fruit du triomphe des valeurs romaines parvenues à leur plus haut degré d’épanouissement et de la parfaite concorde qui a pu prévaloir après la défaite de Cannes. L’affaiblissement de la crainte de l’ennemi permit alors à Scipion de mener à bien son expédition en Afrique. Cette dernière inaugure une nouvelle phase de la conquête et l’on voit bientôt la superbia des grands se développer de nouveau, encouragée par les progrès de la puissance romaine qui nourrissent l’avaritia et la luxuria des habitants de l’urbs; la plèbe, de son côté, se laisse aller à la licentia, provoquée par l’orgueil des dirigeants avides de gloire, et se trouve parfois séduite par le charisme de grands imperatores, émules d’Alexandre le Grand; les guerres civiles viendront à la clé de cette évolution qui aboutit, 180 ans après le Métaure, à l’établissement du Principat. Certes, le récit couvrant les événements allant de la bataille de Pydna à l’instauration du Principat nous fait défaut. Mais les livres 28 à 45 offrent déjà des indices très clairs du nouveau cours de l’Histoire grâce à l’introduction par touches successives d’épisodes à portée symbolique (rivalité renaissante entre généraux avides de gloire personnelle (30, 38, 7; 45, 35, 3 - 42, 1); premiers indices d’avaritia et de luxuria après la pénétration des armées romaines en Asie en 186 (39, 6, 6-9); impiété croissante: déprédation de temples, par Pleminius, mais aussi par un censeur de la République qui n’hésite pas à arracher ses tuiles de marbres au toit du temple de Junon Lacinia (42, 3, 1-11); récit dramatisé de la crise des Bacchanales (39, 8, 1 - 19, 7). L’affaiblissement de la fides est également sensible à travers l’échec 91
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des sages à faire prévaloir leur indignation devant les nouvelles pratiques diplomatiques (nova sapientia, 42, 47, 4-9) jugées déloyales. L’échec dramatisé de Caton à s’opposer à l’abrogation de la Lex Oppia (34, 4, 3) confirme que la cité s’est engagée résolument dans la voie de la luxuria. Si les manuscrits ne nous permettent pas d’aller au-delà du livre 45, soit les lendemains de la bataille de Pydna, tout laisse cependant penser que Tite-Live devait continuer d’accentuer la tendance par la suite, surtout après 146 où il rejoignait une tradition historiographique relative au déclin de Rome déjà utilisée par Salluste. En s’appuyant prudemment sur les periochae, et compte tenu de la logique historique que les parties conservées de l’œuvre ont laissé percevoir, on peut proposer une reconstruction hypothétique de l’orientation de la fin de l’Ab Urbe condita. Les relations entre Rome et le reste du monde ne pouvaient manquer de devenir de plus en plus tendues, de même que le joug carthaginois avait fini par être insupportable: exposés à l’avaritia et à la saevitia des gouverneurs romains, les populations soumises devaient progressivement oublier la fides qui les liait à Rome. Rome était désormais soumise à des forces centrifuges menaçant l’unité de son empire tandis que les luttes internes prenaient une tournure toujours plus tragique. L’action des Gracques devait ainsi être rendue responsable de la violence accrue caractérisant l’action politique (perioch. 58, 1; 59, 7; 61, 4); l’individualisme des grands chefs charismatiques apparaissait sans doute comme une autre menace autrement dangereuse pour le lien civique lui-même. Marius et Sylla, surtout Marius (perioch. 59, 5) devaient contribuer à accentuer la tendance à la désagrégation du corps civique, tandis que l’Italie se déchirait avec la Guerre Sociale. Le triumvirat formé par César, Pompée et Crassus et la guerre civile qui en résulta constituèrent donc, dans cette optique, le terme d’une longue évolution qui avait fini par conduire le vieux corps perclus de Rome à une mort certaine mais aussi à une renaissance sous les auspices du jeune Octave, ainsi que l’historien comme beaucoup de ses compatriotes voulaient le croire. L’historien moderne, en lisant Tite-Live, devra donc prendre soin de prendre en compte les éléments d’une philosophie de l’Histoire très élaborée qui a conduit Tite-Live à jeter un éclai92
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rage particulier et donc sans doute déformant sur les événements qu’il rapporte à partir des sources dont il pouvait disposer. En cela, il n’est pas plus mauvais historien que les annalistes qui avaient été les premiers à évoquer des temps les plus reculés de Rome, pour lesquels ils ne disposaient pas d’information abondante et précise, en des termes reflétant leurs préoccupations politiques ou idéologiques propres. Au reste, pour la période royale des débuts de la république en particulier, le problème n’est assurément pas seulement celui de la valeur historique du récit livien, mais en réalité celui de la tradition annalistique tout entière.
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Abstracts An analysis of the narrative organisation of the surviving decades of Livy’s work reveals the historian’s strong ideological and moral point of view on Roman history. Rome’s existence is conceived in biological terms, as a cyclic sequence of morally positive and negative periods. In Livy’s view, the major turning points in this sequence are represented by the advent of distinguished leaders, who mark the moment of Rome’s rebirth at the end of a period of decadence, or the apogee of her power, after which a new period of decadence begins. L’analisi dell’organizzazione narrativa delle decadi superstiti suggerisce la potente prospettiva ideologica e morale di Livio sulla storia romana. L’esistenza di Roma è concepita in termini biologici, come una sequenza ciclica di ascesa e decadenza morale. Nella prospettiva liviana, i momenti di svolta di questa sequenza sono rappresentati dall’avvento di leader, che segnano un momento di rinascita dopo un periodo di decadenza o, viceversa, il momento culminante della potenza di Roma, che precede un nuovo periodo di decadenza.
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If we ask who, in Livy’s view, was primarily responsible for the Roman defeat at the battle of Cannae, the answer is – at least on the face of things – clear 1. At the very end of Book 22, as the defeated consul, C. Terentius Varro 2, returns to Rome, Livy comments (22, 61, 14): consuli ex tanta clade, cuius ipse causa maxima fuisset, redeunti et obviam itum frequenter ab omnibus ordinibus sit et gratiae actae, quod de re publica non desperasset. As the consul returned from that massive defeat, of which he himself had been the major cause, all classes of people flocked to meet him, and thanks were paid to him, because he had not despaired of the state.
However, although Livy’s judgement here appears unequivocal and straightforward, it is also worth considering the question from a slightly different angle, one which leads to rather different conclusions. This comment appears at the very end of the story, after the battle has been fought and lost. How surprising would this account of Varro’s responsibility appear to a Roman reader who was coming to Livy’s narrative for the first time 3? What prior expectations would such a reader bring to the story, 1 In general for Livy’s explanations for the defeat at Cannae, and Varro’s primary role in bringing about that defeat, see Bruckmann 1936, 70-103. 2 On the character of Varro in Livy see esp. Vallet 1964, though his focus is primarily on his actions after the battle. 3 Cf. Pausch 2011, 195-199.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 97-114 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117487
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and how does Livy respond to those expectations in constructing his narrative? As we shall see, examining the narrative of Cannae from this perspective, rather than assuming Varro’s responsibility from the start, reveals a complexity to Livy’s account which is not apparent if we merely take Livy’s final words as a lens through which the reader is to understand the entire story. Of course, we do not have access to most of the sources on which Livy was drawing for his account of Cannae, and it is certain that he was not the first to assert Varro’s responsibility 4. However, not all of Livy’s readers would have read his sources either (although some would presumably have read at least some of them), and, as far as we can tell, popular knowledge of Cannae prior to Livy did not include an automatic association of it with Varro as the figure responsible for it 5. Cicero refers once to the rashness of Aemilius Paullus’ colleague at Cannae, for which Paullus atoned by his death (sen. 75); and this shows that there was at least some sense in the pre-Livian tradition that Varro bore a major responsibility for the defeat at Cannae, such that Cicero could allude to it without further explanation and expect to be understood. But the other references to Cannae in Cicero do not mention Varro, treating the battle simply as the iconic instance of a massive Roman defeat (so Verr. II 5, 28, div. 2, 97), albeit one to which the Romans responded with their customary heroism (off. 3, 47); Livy himself in an earlier book had referred to Cannae in similar terms to this (9, 19, 9). Cicero also refers a couple of times elsewhere to the death of Paullus in the battle, but nowhere to Varro’s role in it for good or ill (Tusc. 1, 89; nat. 3, 80). No less important is that Livy’s one source who does survive 6, namely Polybius, has an entirely different account of the generals’ role in the battle 7. Polybius is certainly not especially 4 For an account of the development of the ancient historiographical traditions on Varro, see Zecchini 1976. 5 Contra Vallet 1964, 707, who speaks of the «tradition unanime» of Varro’s responsibility. 6 For Polybius as a source for Livy in the Third Decade see Levene 2010, 126163, contra Tränkle 1977, 193-241. 7 This has been widely observed: see e.g. Bruckmann 1936, 78-79, Hoffmann 1941, 37-40.
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sympathetic to Varro: on his account Varro unquestionably bore a significant measure of responsibility for the defeat, since he was in command on the day of the battle (3, 113, 1), and moreover was less experienced a commander and more willing to engage Hannibal on unfavourable ground than was Paullus (3, 110, 2-4); Polybius also draws a sharp contrast between their conduct at Cannae itself, where Paullus distinguished himself in fighting while Varro disgraced himself in flight (3, 116, 1-3; 116, 9; 116, 13). Nevertheless, the division between the generals is not so neatly marked as in Livy. In Polybius, unlike Livy, the broad overall plan of seeking a decisive battle with the Carthaginians is mandated by the Senate and endorsed by both commanders equally (e.g. 3, 107, 7; 3, 108, 1-2); it is Paullus, not Varro, who gives an encouraging speech to the army assuring them of victory in the impending battle (3, 108, 2-109, 13) 8. The occasion when Paullus and Varro dispute over the question of engaging Hannibal (cf. above) is not on the day of Cannae, but earlier; the basis of the dispute is only on the ground on which the engagement is to take place, rather than on the question of fighting a battle at all, and when Hannibal attacks the Romans are not in the event altogether unsuccessful (3, 110, 5-7). The reader who came to Livy from the background of Polybius would not necessarily be primed to expect that the major responsibility for Cannae lay in Varro’s hands. Moreover, there are indications that certain versions of Cannae were slanted so as to exculpate Varro more or less completely from responsibility for the defeat. Those versions were especially prominent in later antiquity 9, but such an interpretation is already found as early as Manil. 4, 37-38 (quid referam Cannas admotaque arma moenibus / Varronemque fuga magnum, qua vincere [al. vivere] posset – ‘Why should I mention Cannae and 8 On Paullus’ speech in Polybius, and in particular on the mismatch between its effectively rational arguments and the Romans’ subsequent actions that lead to their defeat, see Wiater 2010, 92-95. 9 The clearest statement of this version is in Flor., epit. 1, 22, 7 ducum fugit alter, alter occisus est; dubium uter maiore animo: Paulum puduit, Varro non desperavit (‘One of the generals fled, the other was killed, and it is unsure which with the greater spirit: Paulus was ashamed, Varro did not despair’). More generally see Levene 2015, 318-322.
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the weapons brought to the walls / and Varro great in flight, by which he could be victorious [OR “survive”]’). Manilius’ reference to that motif brings us close to the time of Livy, and makes it at least a reasonable possibility that it predated him. Indeed, it is possible that this tradition is even earlier than the ones hostile to Varro: it is certainly the case that Varro cannot have been generally seen as culpable for the defeat at Cannae in its immediate aftermath, since his command was extended until the end of the following year 10, and it may be that early literary traditions on Cannae reflected this. Whether or not that is so, however, it seems likely to have begun prior to Livy, and if so, the range of possible interpretations of Cannae that his readers might approach his text with were wider still. How, then, does Livy handle this? The first thing to note is that, like Cicero, he assumes that the name of Cannae is recognizable to the readers as an iconic instance of a Roman defeat: he both begins and ends his narrative of the campaign with a reference to it in those terms (22, 43, 9 ad nobilitandas clade Romana Cannas urgente fato profecti sunt – ‘They set off under the promptings of fate to make Cannae famous by Roman defeat’; 22, 50, 1 haec est pugna Cannensis, Alliensi cladi nobili tate par – ‘This is the battle of Cannae, equal to the defeat at the Allia in fame’). This explicitly assumes a readership which will recognize the battle and know its outcome. However, the first of these comments introduces the story with an implication that the Romans are drawn to the site by fate (cf. 22, 42, 10, with its reference to Cannae as an imminentem pestem which the gods only temporarily postpone) 11. This offers to the reader a suggestion that Cannae is not the consequence of the failings of any individual, but rather of a broad cosmic inevitability 12 10 Noted by e.g. Zecchini 1976, 119-120. More generally on the surprising tendency of military defeats at Rome not to derail the commander’s career – even in instances when the commander was blamed for the defeat – see Rosenstein 1990, esp. 35-36 on the case of Varro in particular; though note also the caveats of Rich 2012. 11 Note also 25, 12, 5-6, where a prophecy of Marcius – albeit one discovered only belatedly – warns the Romans that disaster awaits them if they fight at Cannae. 12 Cf. Levene 1993, 33 and 48; however, in my argument there I (wrongly, as I now believe) downplayed the significance of this point for Livy’s overall
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– for while the Stoics, the contemporary philosophers most closely invested in the concept of Fate, argued that there was no incompatibility between the ascription of events to Fate and the attribution of moral responsibility for them 13, in more informal contexts bare references to fate might well be taken as the equivalent of denying human responsibility. This is clear not least from Livy’s own handing of Cannae: not only (unsurprisingly) does he have no reference to the philosophical reconciliation of fate and responsibility, but in a later speech the defeated troops explicitly interpret the battle in such a way as to treat fate and human responsibility as mutually exclusive explanations for the defeat (25, 6, 6) 14. Instead, the striking phrase ad nobilitandas … Cannas implies an entirely different causal explanation: that it is the readers’ own future recognition of the battle which provides the ultimate reason for which the battle is fought. Accordingly, Livy invites readers not only to draw on their prior knowledge of the battle’s fame, but to make that knowledge into a reason for rejecting the versions of it which made Varro responsible. The very fact that Cannae was so deeply ingrained as an iconic defeat in the public consciousness means that from the reader’s perspective it is an inevitable feature of the narrative; that psychological perception of inevitability easily shades into a perception that the inevitability was present on a metaphysical plane as well 15. It is worth noting that Livy narrates the war in such a way as to suggest that his narrative itself interpretation of Cannae. For a better account, see Davies 2004, 107-108: cf. further below, 108. 13 On the relationship in Stoicism between fate and moral responsibility see esp. Bobzien 1998, 234-329. 14 Contra Stübler 1941, 118-119, who interprets the fact that the troops go on in the speech to excuse their own actions as meaning that fate was not seen as mitigating human responsibility. This, however, confuses rhetorical strategy with metaphysics; the fact that the troops argue on the assumption that it was not fate but human fault does not undermine their clear statement that if it ‘were’ fate, no human fault would be at issue. 15 For a profound and challenging account of how knowledge of the ultimate outcome of historical events may lead author and readers alike to play down the contingency of the features that led up to it, and instead (mistakenly) to treat it as if it were inevitable and indeed predictable, see Bernstein 1994. Grethlein 2013 has a broader discussion of the use (and limitations) of teleological perspectives by ancient (and modern) historians.
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has causative force: that history exists in a particular way precisely because he wrote it in a particular way 16. There is a relatively narrow gap between this and allowing the readers’ subjective perception of an event as inevitable to undermine the suggestion that Varro was the one responsible for it, as Livy does here. To set against that impression, however, is the manifest hostility which Livy shows to Varro from the moment of his introduction to the narrative, a hostility which itself presumably draws on aspects of the pre-existing traditions about him (22, 26, 2): unus inventus est suasor legis C. Terentius Varro, qui priore anno praetor fuerat, loco non humili solum sed etiam sordido ortus. patrem lanium fuisse ferunt, ipsum institorem mercis, filioque hoc ipso in servilia eius artis ministeria usum. is iuvenis, ut primum ex eo genere quaestus pecunia a patre relicta animos ad spem liberalioris fortunae fecit togaque et forum placuere, proclamando pro sordidis hominibus causisque adversus rem et famam bonorum primum in notitiam populi, deinde ad honores pervenit. One person was found to propose the law: C. Terentius Varro, who had been praetor in the previous year, and whose origin was not just lowly but disgraceful. They say that his father had been a butcher who sold his own meat retail, and had employed this very son in the slavish tasks of his business. The money which that young man inherited from his father derived from that sort of business; as soon as it made his spirits aspire to a more noble position and he took pleasure in the toga and the forum, he came first to public notoriety, then to offices, by orating on behalf of disgraceful people and disgraceful causes against the property and the reputations of the respectable.
The law which Varro is proposing is to give Fabius and Minucius equal power, a measure which receives a good deal of popular support, given the hostility to Fabius’ cautious strategy and popular preference for Minucius’ aggression, which Livy has described at some length in the preceding chapters. Hence with Varro, as 16 For an extended demonstration of this apparently paradoxical mode of understanding history in Livy, and also for an account of how it may have appeared less paradoxical to a Roman reader than it does to us, see Levene 2010, esp. 382-392.
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with Flaminius before him (see esp. 21, 61, 2-4), an association is made between the debate over the proper strategy to adopt against Hannibal, and the long-standing conflict between the upper and lower classes. With regard to that conflict in general, Livy, for all the aristocratic sympathies he evinces, can often allow that the ordinary people have a genuinely strong case against the attempts of the upper classes to keep an exclusive hold on power; and something of that emerges with Varro also, especially with the subsequent description of his rise to the consulship (22, 34, 2): C. Terentio Varroni, quem sui generis hominem, plebi insectatione principum popularibus artibus conciliatum, ab Q . Fabi opibus et dictatorio imperio concusso aliena invidia splendentem, volgus et extrahere ad consulatum nitebatur, patres summa ope obstabant, ne se insectando sibi aequari adsuescerent homines. The common people strove to raise C. Terentius Varro to the consulship: he was a man of their own class, who had endeared himself to the plebs by using populist methods to attack the leaders, and after striking at the power and dictatorial authority of Q . Fabius shone by encouraging resentment against another. The senators exerted all their power to block him, because they did not want people to get into the habit of rising to their level by attacking them.
The last sentence suggests that a major part of the senators’ motives is nothing more elevated than concern to maintain their own position in the state. However, the language of the first passage indicates that Varro’s anomalous position goes beyond class conflict. His background includes disgraceful elements that make him, at least in upper-class Roman eyes, thoroughly unsuited to high office 17: note especially the repeated word sordidus (cf. also servilia … ministeria), which associates his father’s less-thanrespectable (though lucrative) occupation with the political positions that Varro takes once he begins his career; the association of Varro with the worst aspects of the lower classes is one that continues later in the narrative, where, although being a general, he is depicted as behaving like an insubordinate soldier Cf. Vallet 1964, 708.
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(22, 42, 3-4; cf. 22, 40, 2) 18. Moreover, the context in which he is introduced is the attempt by Minucius to undermine Fabius Maximus during his dictatorship owing to his detestation of Fabius’ passive strategy. Livy, however, treats Minucius’ aggression as fundamentally misguided and potentially fatal to Roman prospects; Varro’s support of it, and the similarly aggressive strategy he adopts during his consulship (cf. e.g. 22, 38, 4-7) marks him from the start as someone whose approach is liable to lead to disaster. In this respect, Livy does exactly the opposite of what he would shortly afterwards do with the question of ‘fate’ at Cannae. There he draws on the reader’s prior knowledge of the battle and its outcome to undermine the implication that Varro is primarily responsible for it. Here, however, he leads the reader to expect that Varro will bear the blame. This is partly because this slanted picture of Varro’s personality and politics is likely to have derived from those versions of Cannae which ascribed the defeat to his political and military failures; it is also partly because, even for readers who were unaware of those earlier versions, Livy’s own narrative of the opening phases of the Second Punic War have strongly conditioned the reader to associate strategies like those of Varro with failure and defeat. It is often noted that Varro is the last in a sequence of stereotyped ‘rash commanders’ at the opening of the war, the others being Sempronius Longus, Flaminius, and Minucius. With every one of those, their aggression and excessive eagerness to confront Hannibal ultimately ends in ignominious defeat; Varro is, in addition, paired with Aemilius Paullus, who is no less obviously stereotyped as a ‘cautious commander’, on the model of the elder Scipio, who unsuccessfully sought to restrain Sempronius, and of Fabius Maximus, who is set against Minucius, and the natural conclusion is that the reader should endorse Paullus’ approach against his colleague’s 19. The language with which he is characterized throughout Livy’s narrative reinforces this,
18 On the way Varro is both implicated in and reinforces the vices of the mob, see Johner 1996, 80-82. 19 On ‘rash commanders’ in Livy Books 21-22, and especially the antithesis constructed with their ‘cautious’ counterparts, see e.g. Catin 1944, 42-53; Will 1983; Bernard 2000, 211 and 262-264.
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by consistently associating Varro with the qualities of rashness and general irrationality 20. Yet Livy then proceeds to undermine those expectations. Although Varro is portrayed as the kind of commander whose ill-considered rashness is liable to lead to disaster, much as his immediate predecessors were, it is far less obvious that the defeat at Cannae is to be seen as the consequence of his rashness. Admittedly, in Livy, unlike in Polybius, the Fabian strategy of not engaging Hannibal’s army appears to be on the verge of success, since there is considerable emphasis on the difficulty that Hannibal was having obtaining supplies as a direct result of the actions of Fabius and his successors (22, 11, 4; 22, 32, 1-3; cf. 22, 39, 14-15), and it is explicitly stated that Hannibal immediately prior to Cannae had only ten days’ food-supply left, and part of his army was ready to desert because of it (22, 40, 8-9) 21. Livy’s Varro throws that imminent success away by taking on Hannibal in open battle. Nevertheless, the fact that Fabius’ passive strategy was about to yield success does not show that Varro’s aggressive strategy could not have done the same; and the connection between that aggressive strategy and the defeat at Cannae is not straightforward. Unlike in the cases of Sempronius, Flaminius, and Minucius, Livy does not narrate the battle in terms of a trap which Hannibal sets in advance and which Varro blunders into 22. The Romans do make various errors in the course of the fighting – for example, they ‘incautiously’ (22, 47, 8 incaute) charge forward and allow themselves to be encircled by the Carthaginian wings; they are tricked by a pretended desertion on the part of the Numidians, who then turn on them (22, 48, 2-4) – but these are not associated with Varro, who is barely mentioned in the course of the battle. Varro’s mistake was not to engage in battle at a place where Hannibal is prepared to trap him, but to engage in any battle at all. This is a natural consequence of his rashness, yet at the same time, as noted above, Livy indicates that it was fate, rather 20 Cf. Johner 1996, 56-58, setting this in the context of other similarly characterized figures in Livy; also Bernard 2000, 139-141. 21 For Livy’s emphasis on the Carthaginians’ lack of supplies – and its probable unhistoricity – see Erdkamp 1992, esp. 132-136. 22 Cf. Pausch 2018, 245-249.
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than the fault of any person, which drew the Romans to the place of their defeat. Now, it is true that Livy’s Varro could have known that he was wrong to seek to engage Hannibal in battle. Fabius Maximus, in his advice to Aemilius Paullus before the consuls’ departure from the city, not only warns that this is a mistake, but correctly predicts the outcome (22, 39, 6-10): ominis etiam tibi causa absit C. Flamini memoria. tamen ille consul demum et in provincia et ad exercitum coepit furere: hic, priusquam peteret consulatum, deinde in petendo consulatu, nunc quoque consul, priusquam castra videat aut hostem, insanit. et qui tantas iam nunc procellas proelia atque acies iactando inter togatos ciet, quid inter armatam iuventutem censes facturum et ubi extemplo res verba sequitur? atqui si hic, quod facturum se denuntiat, extemplo pugnaverit, aut ego rem militarem, belli hoc genus, hostem hunc ignoro, aut nobilior alius Trasumenno locus nostris cladibus erit. nec gloriandi tempus adversus unum est, et ego contemnendo potius quam appetendo gloriam modum excesserim; sed ita res se habet: una ratio belli gerendi adversus Hannibalem est qua ego gessi. nec eventus modo hoc docet – stultorum iste magister est – sed eadem ratio, quae fuit futuraque donec res eaedem manebunt, immutabilis est. Let us avoid the bad omen and not recall the memory of C. Flaminius. Nevertheless, his madness began only when he was consul and in his province and with his army. This man showed his insanity before he stood for consul, and now similarly when he is consul, before he has seen his camp or his enemy. A person who already raises storms by bandying around battles – what do you think he will do among armed young men and when deeds follow hard upon words? And if this man fights immediately, which he proclaims he will, unless I am ignorant of military matters, and of this kind of warfare and of this enemy, another place will be more famous than Trasimene for our defeat. It is no time to glorify myself when I am speaking to one man; and I am more likely to go overboard in despising glory than in seeking it; but this is the way things are – the only way of waging war against Hannibal is the way I waged it. Not only the outcome shows this – only fools learn that way – but the same rationale is unchangeable as was and will be as long as the same conditions are present. 106
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The reference to ‘another place more famous than Trasimene’ is an instant alert to the reader who is aware of the iconic status of Cannae, and it also indicates to the reader that it is Varro’s intemperate behaviour, which Livy has already set us up to distrust, as explained above, that will lead to the defeat. At the same time, however, other aspects of what Fabius says here suggest that his own perspective is more limited than is apparent at first sight 23. His forthright claim is that there is no way to fight Hannibal except by employing his own strategy of passivity, and indeed that this will remain true in the future. Yet the ultimate outcome of the war demonstrates that this claim is entirely wrong: Scipio Africanus will eventually defeat Hannibal by using the sort of boldly aggressive strategy that Fabius consistently eschews, and will moreover do so over Fabius’ vigorous opposition. Moreover, it is not only in retrospect that those limitations are apparent: already in the course of the narrative of Fabius’ dictatorship, Cn. Scipio has achieved a victory in Spain by using the very strategy which Fabius here and elsewhere rejects (22, 19, 6-20, 2) 24, and directly after Cannae the young Scipio Africanus, described as the ‘fated leader of this war’ (22, 53, 6 fatalis dux huiusce belli), argues for immediate action in language which significantly echoes that which Minucius had employed in challenging Fabius (22, 53, 7 audendum atque agendum; cf. 22, 14, 14 audendo atque agendo) 25. Varro, like Minucius before him, is right to recognize that at some point the Fabian strategy will have to be replaced by active aggression; his mistake is to believe that he is the right person and that this is the right time to adopt that new strategy. Fabius’ argument here works in another way also: it reinforces the sense that Livy has already given 26, that Varro replicates the faults of the ‘rash commanders’ who preceded him, and accordingly will meet the same fate. Fabius directly compares Varro to Flaminius, with the one difference that (he suggests) Varro will be even worse than Flaminius had been. Fabius’ point is further Cf. Catin 1944, 182. Levene 2010, 79-81; as I note there, the parallel passage of Polybius (3, 96, 1-5) has nothing of this. 25 Noted by Johner 1996, 33; cf. also Elliott 2009, 538; Levene 2010, 197. 26 Cf. 104-105 above. 23 24
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reinforced by the dispute between Paullus and Varro prior to Cannae, where Paullus explicitly brings up Sempronius and Flaminius as a warning to Varro, while Varro does the same with Fabius to Paullus (22, 44, 5). Yet here too Livy complicates the case: shortly beforehand, Varro, faced with an omen not unlike the ones that Flaminius had received prior to Trasimene, takes the warning (albeit with bad grace), and declines to join battle, precisely because he has learned from his predecessor’s mistake 27. Contrary to what Fabius states, not only is Varro not a replica of Flaminius, he has improved on him in one crucial respect. It is worth in this context considering the prodigy list at the beginning of Varro’s consulship (22, 36, 6-8). Some years ago, I argued that in the Third Decade Livy establishes a general correlation between the length and other features of these lists, the morality or otherwise of the Romans, and the progress of the war in that year 28. However, I noted that this list is a surprising exception to that rule: Cannae is the greatest disaster of the war, in electing Varro the Romans have chosen a consul whose moral position is low, and yet the list is unusually perfunctory; it is, moreover, followed by an apparently positive omen, when Hiero of Syracuse presents the Romans with a statue of Victory (22, 37, 5; 22, 37, 12). My interpretation then was that Livy preferred to play down the influence of the divine with «the central battles of his history» 29; but I now believe that this interpretation was profoundly mistaken. Not only is it hard to come up with a non-circular definition of ‘central battles’ where Livy avoids divine implications in this way (apparently Lake Regillus is a ‘central battle’ by this criterion, but the Allia is not), but it gives insufficient weight to the aspects of Livy’s account of Cannae which do imply divine influence, such as the indications that the Romans were brought to the battle by fate 30. A more plausible explanation for the brevity of the prodigy list is to see it in the context of the two lists that preceded it, the first two of the decade (21, 62; 22, 1, 8-20). Those lists were
29 30 27 28
Cf. Rosenstein 1990, 84-85. Levene 1993, 38-77. Levene 1993, 47-49. Cf. above, 100-101.
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very closely connected with the election of Flaminius 31; and the reader might well expect that, after electing the no less problematic Varro, an even more dramatic list might follow. There was indeed a tradition which connected Varro with an act of impiety, albeit at the time of his aedileship in 221 rather than in his consulship in 216: it is recorded in Val. Max. 1, 1, 16 (cf. Lact., inst. 2, 17, 6). Valerius made a direct connection between the divine anger that he evoked then and the defeat at Cannae, and may well have been following an existing tradition in doing so 32. We cannot be certain that Livy did not record this story in Book 20, which does not survive, but the probability is that he did not, since his introduction of Varro during Fabius’ dictatorship in 217 is in terms which suggests that he had not previously had a significant narrative role in Livy’s text. But this would not have precluded him from introducing the story here digressively as part of the background to Cannae: certainly at least some of the readers might have expected him to portray Varro in those terms, and hence to employ the prodigy list of 216, like those of 218 and 217 to signal the divine anger that he has aroused. However, Livy never in fact refers to the episode of Varro’s impiety, and when he actually introduces the prodigy list for 216, he frames it in different terms. He thus signals to the reader that Varro, as things turn out, is no Flaminius, neither in his refusal to follow the latter’s impiety, nor in his tactical failures. Of course, the reader is well aware, as I have already remarked, that Cannae is imminent, and Varro is certainly aligned with his rash predecessors, but his role in the narrative ends up being rather different 33. Thus Livy, while endorsing Fabius’ criticisms of Varro in a general sense, includes various hints that they are not uncomplicatedly correct. It is also relevant that Fabius, like Varro’s colleague Paullus, may be viewed as an agent of the same class conflict which Varro promotes from the opposite side 34. With Fabius, See Levene 1993, 38-40. So Zecchini 1976, 120-122; cf. Rosenstein 1990, 68-69. 33 Cf. Pausch 2011, 244, for another example of how Livy, in the build-up to Cannae, challenges the reader’s expectations, setting up a scene similar to that which led to the defeat of Sempronius Longus at the Trebia, but having events play out rather differently in practice. 34 Cf. above, 102-104. 31 32
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at least at the time of Cannae 35, this appears more by omission than direct statement. When, at the end of the book, Varro is met by ‘all classes of people’ (22, 61, 14) 36, no individuals are named. Plutarch (Fab. 18, 5) specifically identifies Fabius as one of those magnanimously greeting his humiliated opponent; this might be thought to represent simply his own elaboration, but Sil., Pun. 10, 615-639 has the same theme at even greater length, with Fabius taking the lead to encourage the Senate to welcome Varro to Rome. This makes it much more likely that the idea existed in an earlier historian, on whom Silius and Plutarch separately draw, in which case there is a reasonable likelihood that it predated Livy. If so, then Livy’s failure to mention Fabius in this context draws the informed reader’s attention to an omission that looks pointed: if the willingness to welcome Varro home illustrates the greatness of Rome that will culminate in her victory, then Fabius has failed to play his part in that greatness. With Paullus, the problematic elements are more direct. While he is correct, as Livy observes, to warn the people of Varro’s boastful overconfidence (22, 38, 8-10), he is elected in the first place as the agent of class conflict: it is not simply that he is opposed to Varro’s military policy, but he is described as ‘hostile to the plebeians’ (22, 35, 3 infestum plebei) – he resents the entire class that Varro champions. The scene when Paullus and Varro depart for their campaign, each attended only by members of his own class, is a striking illustration of the division in the state which both commanders have promoted (22, 40, 4) 37. It is in accord with this that Livy, here as elsewhere in his history, implies that, even leaving aside debates over strategy, the discord between the commanders is deeply damaging to the Romans 38. In addition, while Paullus carefully follows the tactics developed by Fabius, he does so in a way which gives some force to Varro’s complaints of excessive caution. Notably, when the Romans are successful in a hap See Levene 1993, 51, Levene 2010, 312-313 for examples of Fabius’ contentious behaviour elsewhere in the Third Decade. 36 Q uoted 97 above. 37 Cf. Mineo 2006, 258. 38 So esp. 22, 45, 1 dum altercationibus magis quam consiliis teritur (‘while time was wasted in quarrels rather than counsels’); cf. 22, 35, 4, also 22, 39, 4-5; cf. Will 1983, 176-177. 35
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hazard skirmish, Paullus refuses to allow them to pursue the fleeing enemy ‘through fear of ambushes’ (22, 41, 2 metu insidiarum). At that point, however, no ambush has been set – it is not until 22, 41, 6 that Hannibal decides to place a trap (the trap which Varro would have fallen into had he not paid attention to omens) 39. Paullus’ caution means that he passes up the opportunity to win, if not the decisive victory that Varro rashly predicts (22, 41, 3), at any rate one which could have inflicted a significantly greater measure of damage on the Carthaginians. Finally, in the battle itself, while Paullus, unlike Varro, is depicted as fighting courageously, his tactics are portrayed as – possibly – contributing to the defeat. The Roman cavalry around him dismount, because, as Livy explains (22, 49, 2), Paullus had been wounded, and ‘lacked strength even to control his horse’ (22, 49, 2 et ad regendum equum vires deficiebant). Then Hannibal is informed that the consul had ordered his men to dismount, at which he ironically comments ‘I would have preferred him to hand me them in chains’ (22, 49, 3 quam mallem, vinctos mihi traderet) – and indeed, the dismounted cavalry are cut down where they stand. Livy in fact leaves it open whether the cavalry dismounted on Paullus’ orders or on their own initiative, but his narrative draws attention to the possibility that it was the former, and on that reading, Hannibal’s comment brings home the tactical failure that it represents. We may contrast Plutarch’s handling of the same anecdote (Fab. 16, 4), where it is explained that the dismounting was in fact the result of an unfortunate misunderstanding: Paullus was thrown from his horse; the riders immediately around him dismounted to protect him, and the rest of the cavalry falsely inferred from this that a general order to dismount had been given. This may represent Plutarch’s own elaboration of Livy’s story, but it is also possible that Plutarch took this from the pre-Livian tradition, and in the latter case, Livy, by suppressing (albeit without actively contradicting) the idea that the cavalry dismounted in error, introduces the possibility of Paullus’ misjudgement while retaining for an informed reader a hint at the prior tradition which offered exculpation.
See above, 108.
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In an earlier work, I demonstrated that the antithesis between rash and cautious commanders, which is set up relatively simply in the opening books of the Third Decade, is progressively complicated by commanders who only partially fit the stereotype, or where the aspects of them which do fit the stereotype do not manifest themselves in expected ways or lead to the expected outcomes: commanders such as Marcellus, Livius Salinator and Claudius Nero, and ultimately Scipio Africanus himself 40. The argument of this paper shows that the process of complication already begins with Aemilius Paullus, Terentius Varro, and the battle of Cannae. The overall conclusion is not that Livy entirely exculpates Varro – his final comment in the book, which I quoted at the start, reflects one significant axis of his narrative: Varro’s character is clearly flawed, and his failings as a commander are apparent not least in his arrogant aggression and his determination to fight Hannibal, which is manifestly misplaced. In that respect, Varro is indeed ‘the major cause’ of the defeat at Cannae, exactly as Livy had described him. But the narrative gives openings to other possible readings as well, ones which are less damning: that it was fate rather than individual fault which brought the Romans to defeat at Cannae, that as the battle turned out Varro, for all of his weaknesses, does not make the particular mistakes that the reader had been led to expect 41, and that the views of the ‘cautious commanders’ who oppose him are not necessarily to be taken at face value. These readings emerge partly through Livy’s direct statements, but also partly through his manipulation of the readers’ prior expectations, both expectations derived from their existing knowledge of the story, and from their reading of the previous episodes in the war as Livy recounted them. As I showed at the start, previous accounts of Cannae included ones where Varro bore a significantly lesser degree of responsibility for the defeat; Livy introduces aspects of those within his own account, even while ultimately concluding that Varro should after all bear the guilt.
Levene 2010, 170-172, 186-208. Cf. Levene 2010, 300-316 for the lack of control that even competent commanders in Livy have over the outcomes of their battles. 40 41
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Abstracts Livy’s hostility to Varro, the defeated commander at Cannae, is clear. Moreover, he explicitly assigns to him the responsibility for the defeat. However, there were other versions of Cannae circulating in antiquity, including ones in which Varro either shared the blame or was completely exculpated. This paper will show how Livy draws on his readers’ knowledge of those alternative possibilities in order to raise questions about the defeat. Varro, for Livy, is not innocent, but Livy makes it surprisingly hard to tell what precisely his guilt consisted in. L’ostilità di Livio nei confronti di Varrone, il comandante sconfitto a Canne, è palese ed egli gli attribuisce esplicitamente la responsabilità delle sconfitta. In epoca antica, tuttavia, circolavano altre versioni della battaglia di Canne, e tra queste alcune in cui la colpa non ricadeva sul solo Varrone o questi era addirittura completamente discolpato. Q uesto capitolo mostra come Livio attinga alla conoscenza di queste versioni alternative da parte del lettore allo scopo di sollevare interrogativi a proposito della sconfitta. Agli occhi di Livio Varrone non è innocente, ma lo storico rende sorprendentemente difficile affermare in cosa precisamente consistesse la sua colpa.
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GIUSEPPE ZECCHINI
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Nella praefatio degli Ab urbe condita libri, scritta o tra il 27 e il 23 a.C. o forse prima di Azio 1, Livio adduce due giustificazioni, una esplicita e una implicita o perlomeno assai più sfumata, alla sua decisione di intraprendere la gigantesca impresa di scrivere l’ennesima storia di Roma dalle origini ai suoi giorni. La prima giustificazione è quella di ripercorrere un cammino già da molti intrapreso, la cui materia può essere o meglio documentata o più elegantemente rielaborata, ma che non è nuova e può anzi ingenerare noia nel pubblico; questi era desideroso di leggere la storia contemporanea, il che significava, in quel tempo, la storia delle guerre civili appena concluse: era il tema di scottante attualità, che suscitava una curiosità anche un po’ morbosa (praef. 4 et legentium plerisque haud dubito quin primae origines proximaque originibus minus preabitura uoluptatis sint festinantibus ad haec noua, quibus iam pridem praeualentis populi uires se ipsae conficiunt) e prometteva allo storico ambizioso un vasto successo di pubblico, Livio mostra chiaramente di non condividere questa inclinazione per i bestsellers e di non voler inseguire una facile popolarità: la sua sdegnosa polemica è qui rivolta verso un’intera generazione di storici a lui coevi e, se vogliamo proprio fare un nome, è possibile che avesse in mente in particolare C. Asinio Pollione e le 1 Cronologia bassa: Syme 1959, 49-50; Gabba 1984, 79; cronologia più alta, verso il 32 a.C.: così Burton 2008. Le migliori analisi dell’intera praefatio restano quelle di Mazza 1966; Mazza 2005 (già con proposta di cronologia alta, come poi Burton; ampia e aggiornata bibliografia alla nota 36).
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 115-135 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117488
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sue Historiae in 17 libri dal 60 al 44/42 a.C. 2: che i due non si amassero è ben noto dalle accuse di patavinitas rivolte dal cesariano Pollione al Pompeianus Livio, dietro le quali non c’è solo la critica al linguaggio e allo stile, ma anche al conservatorismo politico di un nostalgico della repubblicana e ciceroniana concordia ordinum e al suo provincialismo culturale 3. Naturalmente anche Livio, volendo scrivere l’intera storia di Roma, avrebbe finito per trattare delle guerre civili dell’ultimo secolo, ma le avrebbe inserite in un contesto più ampio, presentandole in ogni caso come la fase di declino di un popolo in precedenza incomparabilmente glorioso; soprattutto, cominciando dalla fondazione dell’Urbe, guadagnava tempo prima di fornire sull’età di Cesare e di Ottaviano una versione tanto sincera quanto sgradevole (praef. 5 omnis expers curae scribentis animum etsi non flectere a vero, sollicitum tamen efficere posset), lasciava che le braci ancora accese, ed evocate da Orazio proprio riguardo all’opera di Pollione 4, si spegnessero e si riservava di pubblicare i libri corrispondenti (dal CXXI, cioè dal 43 a.C., in poi) dopo la morte del princeps 5. Fin qui Livio poteva contrapporre il proprio distacco dall’attualità alle scelte altrui dettate dalla moda; sullo sfondo, non esplicitato, restava l’interrogativo di quale mai bisogno ci fosse di un’ennesima storia di Roma. Se infatti noi collochiamo Livio nel panorama della storiografia romana della sua età la sua opzione può apparire incomprensibile. Una certa stanchezza nel riprendere a scrivere sin dalle origini si può già cogliere verso gli ultimi A Pollione e anche a Sallustio pensa Mazza 1966, 72-73. Patavinitas: Q uint. 1, 5, 56 e 8, 1, 3; Pompeianus: Tac., Ann. 4, 34. Su Livio e Pollione cf. Zecchini 1982, 1286; non persuade l’interpretazione positiva del termine patavinitas in Muñoz Coello 2009. Su Livio «pompeiano» (e ciceroniano) cf. Mazza 1966, 192-193 e, più di recente, Mineo 2006, 109-134; 2009 (il quale però esagera nel sostenere la piena consonanza con Augusto: la res publica restituta era per Augusto una necessaria finzione, per Livio un effettivo ideale etico-politico); ora cf. anche Witzmann 2011. 4 Hor., carm. 2, 1, 7-8. 5 Sulla testimonianza della perioch. 121 (qui editus post excessum Augusti dicitur) cf. Mazza 1966, 198-200; Mazza 2005, 57-59 e Zecchini 1987, 80 nota 98. Naturalmente la decisione di attendere la scomparsa di Augusto per pubblicare i libri di storia contemporanea vale anche se si dovesse correggere la cronologia tradizionale della vita di Livio dal 59 a.C.-17 d.C. al 64 a.C.-12 d.C. e quindi anteporne la morte a quella del princeps. 2 3
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decenni del II secolo a.C., quando ancora L. Calpurnio Pisone Frugi scrive ab urbe condita, ma già L. Celio Antipatro preferisce il genere monografico sulla II guerra punica e Sempronio Asellione si concentra sulla contemporaneità; a maggior ragione una scelta analoga poteva sembrare la più ragionevole dopo la grande stagione della storiografia post-sillana, che grazie a Q uadrigario, Macro e soprattutto Anziate aveva fornito narrazioni assai ampie ed aggiornate della storia di Roma: peraltro già Q uadrigario cominciava dal sacco di Roma da parte dei Galli all’inizio del IV secolo e ometteva il lungo, oscuro periodo anteriore, mentre gli almeno 75 libri di Valerio Anziate sembravano costituire anche da un punto di vista quantitativo un testo esauriente 6. È un dato di fatto che nella seconda metà del I secolo a.C., a fronte di una produzione storiografica quanto mai varia e vivace tra opere di storia contemporanea, memorialistica e biografia, il solo Tuberone pare avere scritto di nuovo sull’intera storia di Roma 7. Di conseguenza l’opzione liviana non era solo fuori moda, era anche non necessaria. Per giustificare ciò che poteva apparire inutile e superfluo, Livio sceglie di non polemizzare coi suoi predecessori, né sostiene che la sua opera sarà più ampia (grosso modo, il doppio di quella di Valerio Anziate) e meglio documentata (si pensi solo alla decisione di privilegiare Polibio come fonte), insomma di migliore qualità, ma adduce due motivazioni, una soggettiva e l’altra oggettiva, la prima all’inizio e la seconda a conclusione della praefatio. Innanzitutto egli vuole distogliere lo sguardo dai mali presenti e riconfortarsi con la contemplazione della passata grandezza, che è naturalmente una grandezza non politica, ma etica: la sua è quindi un’esigenza psicologica di carattere personale (praef. 5 ego contra hoc quoque laboris praemium petam, ut me a conspectu malorum, quae nostra tot per annos vidit aetas, tantisper certe, dum prisca illa tota mente repeto, avertam); in secondo luogo egli crede alla funzione pedagogica della storia e quindi ritiene suo dovere stimolare attraverso la conoscenza di un passato esemplare
6 Sugli autori qui citati basti ora il rinvio a FRHist I 230-239 (Pisone); 256263 (Celio Antipatro); 274-277 (Asellione); 288-304 (Q uadrigario e Anziate); 320-331 (Macro). 7 Cf. ancora FRHist I 364-367.
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(praef. 10 hoc illud est in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri: inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu, foedum exitu quod vites) quella rigenerazione morale delle élites romano-italiche, che sola avrebbe promosso il superamento della crisi attuale e garantito l’aeternitas imperii 8. Tutto ciò è detto da Livio in modo esplicito e con estrema chiarezza. Tuttavia Livio vi aggiunge una riflessione in sé non necessaria: che la sua ricostruzione della storia di Roma e soprattutto delle sue origini e delle sue virtù primigenie deve essere accolta dall’umanità intera con la stessa rassegnazione con cui ne accetta l’impero: praef. 7 tam et hoc gentes humanae patiantur aequo animo quam imperium patiuntur. In particolare Livio collega la gloria militare di Roma, che le ha permesso la conquista dell’egemonia mondiale, con la discendenza dei Romani da Marte (cum suum conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat), una discendenza quindi più che nobile, addirittura divina, a cui le gentes humanae sono tenute a prestare fede. Q ui la polemica di Livio non è più rivolta contro gli storici latini di Roma, ma contro i levissimi ex Graecis, a cui avrebbe dedicato un celebre excursus nel libro 9 9. Se nell’excursus Livio contrasta l’idea che Alessandro fosse superiore ai generali romani e avrebbe quindi potuto impadronirsi dell’Italia, nella praefatio il suo bersaglio è evidentemente la calunnia che i Romani fossero un’accozzaglia di gente di bassa estrazione sociale, se non di banditi e criminali comuni, che era stata messa in circolazione, a quel che ne sappiamo, soprattutto in ambiente micrasiatico ai 8 Miles 1995, 78-79 e Mineo 2006, 63-79 e 109-134 non ritengono che Livio sia pessimista, ma anzi fiducioso nelle riforme augustee, che sarebbero i remedia ai mali della società romana, mentre Cataudella 2006 ritiene prevalenti nello storico sentimenti di nostalgia repubblicana; anche Mazza 1966, 53-56 e Ridley 2010 giudicano Livio ben più repubblicano che augusteo e negano ogni legame tra le sue riflessioni e le riforme del princeps, anzi Mazza si spinge sino a individuare nelle guerre triumvirali i remedia. Come si evince dal testo, secondo me Livio intendeva con vitia le guerre civili e con remedia la soluzione monarchica augustea, che sapeva necessaria, ma si augurava temporanea, poteva quindi essere pessimista sul presente stato delle cose a Roma senza essere oppositore di Augu sto e poteva sperare in una futura rigenerazione senza collegarla necessariamente alle misure legislative del princeps. 9 Cf. 9, 17-19, su cui cf. da ultimo Morello 2002, Muccioli 2007 e Ligeti 2008.
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tempi delle guerre mitridatiche, in particolare da Metrodoro di Scepsi 10. A tale calunnia Livio contrappone una discendenza divina, non dal Saturno più italico che romano delle Georgiche, non dal Giove dell’Eneide, il cui pontefice massimo era ancora Lepido e non Augusto, non da Q uirino, pericolosamente accostato a Cesare tra il 45 e il 44 a.C. 11, non da Venere, madre degli Eneadi per Lucrezio, ma anch’ella troppo cesariana per un nostalgico della repubblica, bensì da Marte; questi era anche il Mars ultor di Augusto, ma era soprattutto il padre di Romolo e quindi il padre dei Romani non nel tempo mitico della saga eneica, ma nel tempo storico della fondazione dell’Urbe, da cui l’opera di Livio prendeva inizio: la discendenza divina dei Romani era dunque diretta e immediata, senza nessun intervallo inserito nell’ἄδηλον preistorico 12. Il riferimento alla discussione sulle origini, ignobili o divine, del popolo romano, inserito nel testo programmatico della prae fatio, ci assicura che Livio non ha in mente tra i fruitori della sua opera e tra i colleghi storici solo i Latini, ma anche i Greci 13. Che poi egli scrivesse in latino, come era ormai acquisito da Catone in poi, non ha rilevanza, poiché chiunque volesse scrivere di storia romana doveva poter leggere gli autori latini: da Dionisio di Alicarnasso a Plutarco, da Appiano a Cassio Dione tutta la storiografia greca di età imperiale assolve a queste condizioni. La domanda che ora mi pongo è se Livio, ponendosi in rapporto con gli storici greci, prendeva in considerazione solo gli storici antiromani, da confutare su temi ben precisi, come abbiamo visto, o se egli rifletteva sugli indirizzi allora prevalenti nella storiografia del tardo ellenismo. Una breve panoramica su tali indirizzi è dunque opportuna per chiarire la posizione liviana a riguardo. Sembra opportuno cominciare da Timagene, che rientrò a Roma da Alessandria dopo la fine del sogno ellenistico di Cleo Su cui da ultimo Marastoni 2007, ma è classico Gabba 1993, 9-34. Cf. Cassio Dione 43, 45, 2-3; cf. Zecchini 2001, 45-46. 12 Su questo concetto, di origine greca, ma accolto nella cronografia romana almeno fin da Varrone cf. Zecchini 2014, 7. 13 Un confronto tra Diodoro e Livio riguardo al pubblico, verso il quale erano rivolte le loro opere, entrambe di storia universale, è stato avanzato in forma assai suggestiva da Rodriguez Horrillo 2012. 10 11
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patra e che, dopo una breve e burrascosa frequentazione di Augusto, trovò rifugio sotto l’egida di Pollione 14; il suo Περὶ βασιλέων era forse una storia delle monarchie sorte dalla dissoluzione dell’impero di Alessandro e comunque, dato il titolo, rivelava una visione della storia come successione di dinastie: storie di età imperiale come la seconda parte della Συριακή di Appiano e il Περὶ τῶν ἐν Συρίᾳ βασιλευσάντων di Ateneo 15 potrebbero testimoniarne la fortuna e il prestigio, ancora capace di imporsi nel IV secolo al siriaco Ammiano Marcellino, se è di derivazione timagenica l’excursus gallico del libro 15 delle sue Res gestae 16. Q ui però non interessa tanto il successo di Timagene nei secoli successivi quanto il suo impatto immediato: tra il 30 e il 20 a.C., quindi in perfetta contemporaneità con l’avvio del l’opus liviano, usciva a Roma un’opera di storia universale, pur se limitata al periodo ellenistico, che non trascurava però neppure i popoli barbari retti da sovrani e che non aveva certamente Roma al proprio centro; quest’opera usciva per di più nell’ambito del «circolo» di Pollione, assai critico nei confronti di Livio, al cui provincialismo romanocentrico si contrapponeva l’accettazione del filellenismo timagenico. Come è ben noto, si è spesso individuato Timagene come il bersaglio o almeno uno dei bersagli dell’attacco liviano ai levissimi ex Graecis a proposito dell’eventuale scontro tra Alessandro e i Romani, ma, ben oltre questo delimitato tema, è la scelta complessiva di dare risalto alle monarchie di diadochi ed epigoni secondo una visione ellenocentrica, non romanocentrica, della storia che appare distonica rispetto a Livio. D’altra parte Timagene era solo l’ultimo anello di una catena, che presentava precedenti tanto illustri quanto temibili. Polibio non era certo uno storico antiromano, ma non aveva scritto una storia di Roma, bensì Ἱστορίαι di carattere universale, anche se ristrette, nel progetto iniziale, agli ultimi 53 anni, contraddistinti dall’ascesa dell’Urbe e dal suo imporsi come potenza unica sui regni ellenistici: in ogni sezione della sua opera si alter Cf. Zecchini 1982, 1279-1281. Appiano: Brodersen 1989, 16 n. 1 registra le numerose adesioni di studiosi moderni all’ipotesi che Appiano dipenda da Timagene, ma non la condivide, pur non proponendo soluzioni alternative; Ateneo: Zecchini 1989, 7. 16 Su tale excursus in particolare cf. Sordi 1979; Sordi 1982. 14 15
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navano regolarmente parti dedicate a Roma e all’Occidente con parti riservate alle vicende della Grecia, della Siria e dell’Egitto; come Polibio sottolinea con vigore, non erano parti monografiche e indipendenti l’una dall’altra, ma anzi erano parti di un tutto, in cui si intrecciavano in forma sempre più indissolubile 17: la storia dell’umanità era una sola, ma i singoli popoli e le singole città vi contribuivano alla pari, con uguale dignità, anche se l’esito era al momento quello dell’indiscussa supremazia romana. Posidonio aveva continuato Polibio non solo riallacciandosi meccanicamente al termine delle sue Ἱστορίαι nel 146 a.C. e adottandone il medesimo titolo, ma anche nell’attenzione prestata al mondo ellenistico nelle sue residue manifestazioni di indipendenza, dalla I guerra mitridatica alle coeve vicende degli ultimi Seleucidi; d’altra parte un filosofo stoico come Posidonio, per cui il mondo era una cosmopoli e tutti gli uomini erano uguali di fronte al paradigma dell’ἀρετή, non poteva che adottare un approccio universalistico nel momento in cui decideva di passare dalla filosofia alla storia: anche Posidonio era filoromano, anzi lo era con ancor meno dubbi ed esitazioni che Polibio, ma anche Posidonio non si riconosceva in una visione della storia esclusivamente romanocentrica 18. D’altronde, se scendiamo cronologicamente di qualche decennio, troviamo in Strabone un altro esponente delle élites orientali di cultura greca, ma di sentimenti lealistici verso l’impero di Roma: come non mette l’Italia al centro dei suoi Γεωγραφικὰ ὑπομνήματα, così nei suoi Ἱστορικὰ ὑπομνήματα egli collega Eforo a Polibio e poi prosegue Polibio per costruire una storia generale che giungesse alla sua epoca, ma si mantenesse in continuità con la più nobile e antica tradizione della storiografia universale di matrice greca 19. Posidonio e Strabone si limitavano, pur nell’ampiezza delle rispettive opere (52 e 47 libri rispettivamente) a essere continuatores Polybii. Diodoro Siculo decise invece di riprendere sin dalle origini la stesura di una storia universale e portò a compimento la sua Ἱστορικὴ βιβλιοθήκη in 40 libri in un arco di tempo che 17 La ben nota συμπλοκὴ τῶν γεγονότων, su cui cf. Walbank 1975 e ora Hartog 2010. 18 Desideri 1972; Desideri 1973; Malitz 1983, 409-428. 19 Sugli Ἱστορικὰ ὑπομνήματα di Strabone seguo Prandi 1988.
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può essere compreso tra il 60 e il 30 a.C., cioè nell’età di Cesare e subito prima che Livio si mettesse a sua volta al lavoro. Almeno dalla monografia di K. S. Sacks 20 si è cessato di considerare Diodoro un mero compilatore: egli è a tutti gli effetti il punto d’arrivo della storiografia ellenistica, che riprende e aggiorna il disegno di Eforo e utilizza in larga misura i maggiori storici universalistici di II-I secolo come i suddetti Polibio e Posidonio, ma che soprattutto reinterpreta in forma originale l’intero sviluppo della storia ellenistica 21. Essa ha la sua origine nelle straordinarie conquiste orientali di Alessandro, l’unico personaggio per cui Diodoro ritiene di dover abbandonare lo schema della sua opera, in cui si registravano contemporaneamente in ogni singolo libro i fatti della Grecia e i fatti d’Italia: mentre nel libro 16 le imprese di Filippo II occupano non più di un terzo dello spazio, il libro 17 è monograficamente e, direi, biograficamente, riservato ad Alessandro 22; Diodoro accenna soltanto a eventuali progetti occidentali del Macedone 23, ma non partecipa della discussione su che cosa egli sarebbe riuscito a compiere, se fosse sbarcato in Italia: il suo intento non è infatti quello polemico di contrapporre Alessandro ai Romani, ma anzi di sottolineare come il processo storico avviato da Alessandro e capace di unificare l’Oriente ha avuto il suo sbocco nella Roma del suo tempo, soprattutto grazie a C. Giulio Cesare. Come Alessandro aveva conquistato l’Oriente, così Cesare aveva appena conquistato l’Occidente barbarico; come Alessandro era il fulcro intorno al quale ruotava la storia universale di Diodoro, così il 60 a.C., l’anno dell’ascesa di Cesare, era il punto d’arrivo scelto a un certo momento dallo stesso Diodoro per la sua opera 24; ancora: come Alessandro era stato accostato a Dioniso e ad Eracle – e Diodoro ne è ben consapevole 25 –, così Cesare era stato divinizzato per la grandezza delle sue gesta, degne di Eracle, come Sacks 1990. Cf. in particolare Wirth 1993 e inoltre Ambaglio 1995; Bearzot – Landucci 2005; Ambaglio et alii 2008; Sheridan 2010; Rathmann 2016. 22 Prandi 2013a; Prandi 2018 23 Diod. 18, 4: essi non includono un’eventuale invasione dell’Italia. 24 Cf. Zecchini 1978. 25 Per Eracle cf. Diod. 17, 1, 5; 4, 1; 40, 2; 46, 6; 85, 2; 96, 2-3; 117, 1; per Dioniso cf. 106, 1 e la periocha iniziale; cf. Prandi, 2013a, XXXVII. 20 21
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Diodoro registra in quattro passi, conservandoci forse la formula ufficiale dell’apoteosi del divo Giulio 26; infine: come Alessandro aveva incoraggiato l’adozione di costumi persiani e i matrimoni misti per integrare i conquistatori macedoni coi vinti iranici 27, così Cesare, almeno secondo la versione diffusa da M. Antonio, aveva lasciato nelle sue carte la disposizione di concedere la cittadinanza ai Siciliani, che, sia pure per pochi anni, ne avevano goduto tra il 44 e il 36 a.C. 28. La continuità tra Alessandro e Cesare (e i Cesari) era negli auspici di Diodoro, come di molti intellettuali greci filoromani, e doveva rivelarsi addirittura un paradigma vincente con Dione Crisostomo e con Arriano nell’età degli Antonini 29; il presupposto era sempre quello di un mondo, in cui Roma si era felicemente inserita e che ora dominava, ma che le era preesistito e che anzi poteva fungerle da modello. È appena il caso di aggiungere che sotto Augusto tutto ciò apparteneva all’utopia: come è noto, la cittadinanza romana fu tolta ai Siciliani, a Dioniso fu preferito l’Apollo aziaco e, più in generale, dèi maggiormente compatibili col mos maiorum, Alessandro, di cui Ottaviano visitò il sepolcro in Egitto 30, fu ben presto accantonato: il sidus Iulium assicurava che Cesare era stato assunto in cielo come dio tra gli dèi per loro volere 31, mentre nulla di tutto ciò si poteva affermare per Alessandro. Resta il fatto che la più recente e importante opera della sto riografia greca circolante nella Roma di Livio era una storia universale, che si muoveva nel prevalente solco di Eforo sino al libro 16, dedicava ad Alessandro e ai diadochi i due lunghi libri successivi e, nella seconda parte, si occupava della dialettica tra i regni ellenistici e l’ascesa di Roma. Peraltro il caso di Diodoro è quello a noi meglio conosciuto, ma non il solo e neppure il più rilevante, almeno a livello quantitativo. Nicola di Damasco lo superò, scrivendo una Καθολικὴ 26 Diod. 1, 4, 7; 4, 19, 2; 5, 21, 2 (ove il paragone implicito con Eracle); 32, 27, 1 e 3. 27 Diod. 17, 77-78; cf. Prandi 2013a, XXXV e 128-130. 28 Diod. 13, 35, 3 e 16, 70, 6. 29 Cf. Zecchini 1984. 30 Suet., Aug. 18, 1. 31 Suet., Iul. 88.
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ἱστορία in 144 libri, in cui, da buon Orientale ellenizzato, risaliva ai più antichi regni del Vicino Oriente attraverso l’utilizzo di autori assai rari e alternativi ad Erodoto come Xanto di Lidia per giungere all’età contemporanea 32; qui ampio spazio era naturalmente riservato a Roma, se uno dei pochi frammenti superstiti si riferisce ai soldurii, cioè a guerrieri aquitani a noi altrimenti noti solo dai commentarii cesariani 33; proprio i libri finali di questa imponente opera di storiografia furono apprezzati e citati da Ateneo quale fonte privilegiata per il periodo successivo all’86 a.C., dove terminava Posidonio 34. Come Posidonio e ancor più di Diodoro, Nicola era perfettamente integrato nel regime imperiale di Roma: era amico personale di Augusto, di cui scrisse una biografia, che doveva fungere per i lettori ellenofoni come equivalente dei commentarii de vita sua scritti dallo stesso principe intorno al 23 a.C.; infatti, nonostante un recente tentativo di abbassare la cronologia del Βίος Καίσαρος di Nicola e di sganciare tra loro le due opere 35, credo che sia saggio mantenere una datazione pressoché coeva, negli anni 20 del I secolo a.C. 36. Tuttavia, pur essendo filoromano, quando volle darsi alla storia, il Damasceno non scrisse su Roma, ma sull’intera ecumene, di cui Roma poteva essere il culmine e l’elemento unificatore nella fase più recente, ma certo non l’unico attore. In questo panorama di storici tardoellenistici impegnati a scrivere di storia universale due apparenti eccezioni potrebbero essere costituite da Pompeo Trogo e da Dionisio di Alicarnasso. Trogo era un Gallo voconzio e scriveva in latino; proveniva da un’area geografica celtica relativamente affine a quella del veneto Livio; per di più era figlio di uno stretto collaboratore di Cesare 37; eppure, redigendo le sue Historiae Philippicae al più presto nell’ultimo decennio del I secolo a.C. 38, egli compose un’altra storia universale, che prendeva le mosse dall’assiro Cf. Wacholder 1962. Nic. Damasc. FGrH 1054F80 = Athen. 6, 249a-b; Caes., Gall. 3, 22. 34 Cf. Zecchini 1989, 117-120. 35 Così FRHist I 460. 36 Così Gabba 1984, 62-63. 37 Iustin. 43, 5, 12. 38 Per una data di pubblicazione tra gli ultimi anni del I sec.a.C. e i primi del I sec. d.C. cf. Yardley – Heckel 1997, 5-6. 32 33
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Nino e giungeva ai Parti e a Roma, non necessariamente applicando il principio della translatio imperii 39; ad Alessandro dedicava ben due libri, l’11 e il 12, ma non lo apprezzava come Diodoro, mentre riconosceva a suo padre, Filippo II, un ruolo eccezionale, quello di fondatore dell’impero macedone 40: la prima decade dell’opera si concludeva proprio con una comparatio tra il padre e il figlio a netto vantaggio del primo, i 30 libri successivi costituivano un’autentica storia dell’ellenismo visto come eredità macedone, a questi 40 libri, il medesimo numero di Polibio e di Diodoro, si aggiungevano 4 libri sui Parti, Roma e l’Occidente (segnatamente Marsiglia e la Spagna) a mo’ di appendice. Trogo intendeva così riempire una lacuna della storiografia latina, che non annoverava «titoli» di storia greca, ma intendeva anche riscrivere la storia delle monarchie ellenistiche dal loro punto di vista, come enti autonomi, anche se a mano a mano assorbiti da Roma: in questa prospettiva ad Augusto spettava il compito di essere un nuovo Filippo II, il fondatore di un nuovo impero, che era però in continuità rispetto al precedente, visto che l’egemonia universale era passata dall’uno all’altro; il parallelo tra Filippo II ed Augusto, sottinteso in Trogo, ma forse proposto in forma più netta all’interno delle scuole di retorica, divenne esplicito in età antonina nelle Vite parallele di Aminziano 41, quando ormai le élites ellenofone d’Oriente già collaboravano al governo dell’impero e le pregiudiziali antielleniche, ancora sensibili all’epoca di Traiano 42, erano ormai cadute a partire dal suo successore Adriano 43. Tali pregiudiziali erano invece ben vive e operanti in età augustea e l’opera di Trogo, mentre si trovava in sintonia con la coeva storiografia di lingua greca, non si poneva certo nel solco di una tradizione, che dal Censore giungeva sino a Virgilio e allo stesso Augusto. Dionisio di Alicarnasso può sembrare il caso specularmente opposto a quello di Trogo: greco di Caria, scrive dopo il 30 a.C., 39 Su questo tema cf. in particolare Alonso-Nuñez 1987; Alonso-Nuñez 1992; diversamente Hofmann 2018, 211-216. 40 Su Alessandro (e Filippo) in Giustino cf. ora Prandi 2015. 41 Su Aminziano cf. Zecchini 1983, 11-12. 42 Cf. Zecchini 2002. 43 Su cui da ultimo cf. Galimberti 2007.
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in perfetta contemporaneità con Livio, di storia romana, per l’esattezza una Ῥωμαικὴ ἀρχαιολογία, una storia di Roma arcaica, che terminava con lo scoppio della I guerra punica, là dove di fatto cominciava Polibio 44; dunque egli riempiva una lacuna della storiografia greca, che non si era ancora occupata in modo sistematico della formazione e dell’ascesa della città dominante, e non si adagiava nella moda delle opere di storia universale, anzi riteneva urgente dare alla modesta Roma dell’età arcaica una preminenza del tutto sproporzionata alla sua realtà e giustificabile solo alla luce del suo successivo destino. Q uesta scelta tematica può apparire in sintonia con quella di Livio, che – come abbiamo visto – vuole ripercorrere la storia di Roma sin dalle origini anche per farne accettare l’egemonia alle gentes humanae, ma parte da un presupposto inconciliabile: che i Romani erano greci e che esclusivamente a questa comunanza di valori e di παιδεία dovevano la loro grandezza; anche per superare la crisi etica presente, che Livio denuncia con così profonda amarezza, sarebbe bastato ispirarsi al classicismo ellenico e ateniese in particolare: infatti secondo la tesi del dionisiano De antiquis oratoribus nella cultura dell’Atene di IV secolo, nel patrimonio della grande oratoria attica, c’era già tutto quanto era necessario per educare una nuova classe dirigente degna dei propri antenati, i «greci» della Roma arcaica 45. Ora, questa enfatizzazione del rapporto particolare, che legava Greci e Romani, aveva due conseguenze, una per così dire teorica, in base alla quale il diritto romano all’egemonia si fondava su una superiorità etnica e culturale a sua volta derivata dalla loro appartenenza alla grecità, l’altra assai più pratica, in base alla quale le élites elleniche rivendicavano un ruolo paritario nella gestione dell’impero: se Livio dissentiva dalla prima conseguenza, Augusto rifiutava categoricamente la seconda. Certamente né Livio né Augusto ignoravano la grandezza della Grecia classica e soprattutto di Atene, baluardo dell’Occidente contro la minaccia persiana, ma intendevano questa eredità in modo ben diverso da Dionisio. Il loro atteggiamento e, Monografia di riferimento: Gabba 1996; ora cfr. anche Santamato 2018. Cf. Gabba 1996, 31-60.
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direi, i loro sentimenti dovevano essere, a mio avviso, assai simili a quelli che emergono dall’opera di un loro contemporaneo, il Padi accola Cornelio Nepote, la cui provenienza geografica può suggerire anche una certa affinità di idee e di interpretazioni con Livio. La sezione externi duces del De viris inlustribus di Nepote seleziona all’interno della storia greca condottieri solo dell’età classica (V-IV secolo a.C.) e in prevalenza ateniesi; uno studioso di storia militare può sentirsi a disagio di fronte alla presenza di Cabria e Timoteo e all’assenza di Filippo e Alessandro, ma in realtà la visione sottesa a tale scelta è chiara e coerente: se la scelta biografica è una modalità particolare di scrivere la storia, Nepote vuole sottolineare l’irrilevanza del periodo ellenistico e ridurre la storia politico-militare dell’Ellade a una serie di exempla atemporali; non a caso egli insiste sulle virtù dei singoli personaggi, ma svincola i loro atti dal loro contesto: così egli li rende replicabili ovunque, li universalizza, ma non collega la loro paradigmaticità al fatto che essi appartenevano alla civiltà delle πόλεις e al suo sistema di valori 46. Dopo questa rapida panoramica della storiografia greca e latina contemporanea, in cui mi sono sforzato di mettere in rilievo tematiche, scelte e atteggiamenti che trovano una loro precisa corrispondenza nello storico di Padova, torniamo in conclusione a Livio e alla domanda che mi ero posta, se Livio rifletteva sulle tendenze della storiografia tardoellenistica e ne era influenzato. Io credo che nel progetto di Livio non ci fosse solo la volontà di riscrivere la storia di Roma meglio di qualsiasi predecessore, ma anche quella di replicare alle storie universali del suo tempo 47 con una storia universale di nuova concezione. Mi spiego. Se ci atteniamo ai prestigiosi modelli della storiografia classica, Erodoto e Tucidide, lo storico deve applicare alla selezione del suo materiale un principio assiologico secondo la categoria della grandezza: Erodoto narra la più grande guerra sino ad allora combattuta, quella persiana, e Tucidide fa altrettanto con la guerra del Peloponneso; Erodoto premette alla Cf. Stem 2012, 140-144 e 230-237; Prandi 2013b. Cf. Momigliano 1984, 90-92, Clarke 1999 e ora Liddel – Fear 2010.
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narrazione della guerra nei primi quattro libri la presentazione dei vari popoli che abitavano l’impero persiano perché ci si rendesse conto della disparità delle forze in campo e quindi a maggior ragione si riconoscesse alla piccola Grecia e in particolare ad Atene tutta la gloria che meritava; ovviamente Tucidide non ha bisogno della stessa premessa, perché si occupava di un conflitto intraellenico. Ora, nell’età del classicismo augusteo, i due costituivano i modelli indiscussi per ogni storico: Erodoto era per Cicerone il pater historiae e già Sallustio si era sforzato di imitare Tucidide 48. Di conseguenza Livio può adottare il medesimo criterio assiologico per la storia universale o, se si preferisce, per la storia del l’umanità: essa comincia non con la guerra di Troia o il ritorno degli Eraclidi oppure col regno di Nino, ma ab urbe condita, con la fondazione di Roma, perché questo è il principio che conta; è inutile disperdersi nel raccogliere notizie sui vari popoli, ma è essenziale concentrarsi sul popolo eletto dagli dèi a reggere il mondo per le sue virtù etico-religiose, per la sua pietas; è essenziale seguirne la crescita, che è destinata a essere eterna e infinita (4, 4, 4 in aeternum urbe condita, in immensum crescente), e apprendere su quali valori è stata costruita; come nelle Origines di Catone i popoli e le città d’Italia venivano illustrate a mano a mano che entravano nell’orbita di Roma, di cui già condividevano i mores 49, così nel catoniano e italico 50 Livio le altre parti della terra e gli altri popoli che abitano l’ecumene entrano in questa storia e ne traggono senso e valore solo nella misura in cui incontrano Roma e vengono a far parte del suo impero e in questo caso ogni digressione etnica e storica sul loro passato è superflua, perché non c’erano mores condivisi 51. Se la storia ha una funzione pedagogica, come Livio fermamente crede 52, allora del vasto e composito passato va ritenuto e trasmesso ai posteri solo, o soprattutto, ciò che è degno di κλέος Erodoto e Cicerone: Cic., leg. 1, 1, 5; Tucidide e Sallustio: Scanlon 1980. Cf. Letta 1984, seguito in linea di massima da FRHist I 208-213. 50 Sull’Italia in Tito Livio cf. ora Mahé-Simon 2003. 51 Sull’eccezionalità del popolo romano in Livio ha giustamente insistito Mazza 1966, 34. 52 Così Mazza 1966, 88 e 100-102 e Chaplin 2000. 48 49
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(Erodoto) e di essere uno κτῆμα εἰς ἀεί (Tucidide) 53, proprio perché esemplare per ogni generazione a venire: dunque la storia del popolo romano. In questa prospettiva è estremamente significativo il rapporto con Polibio, che mi permette di addurre un esempio preciso e concreto della mentalità liviana. Livio sdoganò Polibio a Roma 54: un autore, che rischiava il ridimensionamento dell’epitome 55, venne assunto a fonte principale e più autorevole per il periodo 220-146 a.C., relegando in secondo piano storici di prestigio come Celio Antipatro, Q uadrigario e Anziate. Eppure una scelta pur così impegnativa non altera lo schema liviano, forse desunto da Anziate 56, di una narrativa anno per anno, in cui gli eventi politico-militari sono inseriti in una cornice tutta romana di elezioni ed elenchi di magistrati eletti all’inizio, di politica interna, prodigi e nuove elezioni alla fine: secondo la visione liviana della storia ogni anno, cioè ogni frazione del tempo storico, si apre e si chiude a Roma, laddove Polibio allineava alla pari le res Italiae, Graeciae, Asiae, Aegypti; inoltre l’adozione dello storico di Megalopoli non trattiene Livio dal ribadire il suo antiellenismo, in particolare nella contio di Cn. Manlio Vulsone, dove il confronto tra Galli e Greci è a tutto favore dei primi e i secondi sono visti solo come un fattore di corruzione e di declino etico 57; infine non gli impedisce neppure di «correggere» Polibio, laddove egli ravvisa l’incompatibilità di alcuni dati con la propria visione della storia. La narrazione polibiana della celebre battaglia di Magnesia è per noi perduta, ma la ricuperiamo in parte attraverso la Συριακή di Appiano, dove il vincitore è indicato in Cn. Domizio Enobarbo 58, a cui P. Cornelio Scipione malato aveva affidato il com Sul rapporto di Livio con Erodoto e Tucidide cf. ora Champion 2015. Cf. Zecchini 2012, 207 e ora anche FRHist I 85-86. 55 Plut., Brut. 4, 8. 56 Così FRHist I 303. 57 Cf. 38, 17. I giudizi di Livio verso i Greci nei libri 31-45 sono quantitativamente più positivi che negativi (così Achard 2002), ma tale analisi quantitativa è ingannevole, perché in questi libri pesa in modo rilevante l’influsso di Polibio; laddove invece, come nella suddetta contio, Livio pensa e scrive in proprio, emerge un animus inequivocabilmente antiellenico. 58 App. Syr. 30. 53 54
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pito di eseguire il suo piano e di affrontare la falange in modo efficace; ebbene, in Livio Enobarbo è menzionato una sola volta in posizione subordinata 59 e per ben tre volte 60 si ribadisce che «il console», cioè L. Cornelio Scipione, diresse e vinse la battaglia: è qui evidente la volontà di distaccarsi da Polibio e di affermare che i Romani sconfiggevano regolarmente la falange greca (era già successo a Cinoscefale) non grazie alla τέχνη scipionica trasmessa ai suoi discepoli della nuova generazione (Flaminino come Enobarbo), ma, chiunque fosse il magistrato cum imperio che li comandava, grazie alla loro superiore virtus. Non è peraltro casuale che la lunga digressione di Polibio sul confronto tra falange e legione dopo Cinoscefale 61 sia omesso da Livio: non si trattava solo di sopprimere una disquisizione assai tecnica e specialistica, ma di rifiutare fermamente un’analisi che non partiva dal riconoscimento della superiorità etica di Roma. Concludo: la genuina concezione romana della storia, che da Catone perviene all’età augustea e di cui Livio è l’esponente più grande, implicava il rifiuto della storia universale nel senso ellenico, direi multietnico, del termine 62 e la scelta alternativa di un altro tipo di storia universale, quella del popolo eletto e dell’attuazione del suo dominio ecumenico, in cui tutta l’umanità doveva riconoscersi, accettandolo di buon grado o almeno con serena rassegnazione. Q uesta drastica selezione liviana del passato, per cui importa solo la memoria storica di Roma, può sembrare una decisione arrogante, di superba chiusura verso l’altro, e, nel clima trionfalistico dell’età augustea, lo è certamente 63; non è però solo questo: l’eccezionalità di Roma per Livio deriva in ultima analisi da una scelta o, se preferiamo, da un dono degli dèi e chi si impegna a trasmetterne la memoria assolve al compito di testimoniare che è una volontà metastorica a guidare la storia.
Cf. 37, 39, 5. Cf. 37, 37, 1; 38, 1; 39, 1. 61 Cf. Polyb. 18, 28-32. 62 Registro però che di recente il carattere universalistico dei primi storici di Roma e soprattutto di Catone rispetto a Livio è stato rivendicato con efficacia da Cornell 2010. 63 Cf. già, assai bene, Luce 1977, 284-286. 59 60
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LIVIO E LA STORIA UNIVERSALE
Abstracts The Roman conception of history, extending from Cato down to the Augustan Age and Livy, rejects the Hellenic idea of ‘universal history’, and embraces an alternative declination , based on the postulate that the Romans were a ‘chosen people’, whose universal rule gathered the whole humankind and had to be willingly accepted. Rome’s special place in world history derives from the gods, and historians writing on Rome have to confirm that history is guided by a meta-historical will. La concezione romana della storia, che da Catone perviene all’età augustea e quindi a Livio, implica il rifiuto della storia universale nel senso ellenico del termine e la scelta alternativa di un altro tipo di storia universale, quella del popolo eletto e dell’attuazione del suo dominio ecumenico, in cui tutta l’umanità doveva riconoscersi, accettandolo di buon grado o almeno con serena rassegnazione. L’eccezionalità di Roma deriva da un dono degli dei e chi si impegna a trasmetterne la memoria assolve al compito di testimoniare che è una volontà metastorica a guidare la storia.
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ARNALDO MARCONE
TITO LIVIO: STORIOGRAFIA E POLITICA IN ETÀ AUGUSTEA
Scrivere di storia è un esercizio complesso e, in talune circostanze, problematico. Vero è, nello stesso tempo, che ci sono congiunture che sono più propizie di altre alla redazione di opere di contenuto storico. Certamente una di queste si produce nei grandi momenti di conflittualità all’interno di una comunità politica, quando le parti in causa sentono l’esigenza di rivisitare gli eventi in cui sono state coinvolte. Dare una propria versione dei fatti, si potrebbe dire. Anche, ma non necessariamente in modo esplicitamente tendenzioso. L’età delle guerre civili a Roma è certamente una stagione propizia all’elaborazione storiografica. Fare dei bilanci era in qualche modo inevitabile soprattutto quando esse erano giunte al termine. In più in questo caso c’era un detentore assoluto del potere che era interessato in prima persona alla letteratura e che risultava quindi essere, a un tempo, protagonista della lotta politica e della vita culturale. Augusto aveva un illustre precedente in Cesare, i cui Commentarii rappresentavano un diretto e fondamentale punto di riferimento. È noto come, essendo metodico e scrupoloso per carattere, si preparasse con cura i propri discorsi evitando di improvvisare. Dunque è lecito supporre che i Commentarii de vita sua fossero il prodotto di attenta riflessione e di vaglio del materiale raccolto 1. Secondo Luciano Canfora, Cf. Smith – Powell 2009. Dal volume emerge un fondamentale scetticismo sulla possibilità di ricostruire in modo plausibile il carattere dell’autobiografia di Augusto e la sua influenza sulla storiografia contemporanea. Tra l’altro Powell 2009 si domanda le ragioni per le quali le memorie di Augusto non siano divenute un classico. 1
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 137-157 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117489
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A. MARCONE
Augusto era convinto che i Commentarii di Cesare fossero stati uno strumento efficace al fine di propiziare un’opinione pubblica favorevole 2. Li avrebbe quindi considerati uno strumento di propaganda, meritevole di essere sfruttato e valorizzato con attenzione. Ci si può chiedere, con Canfora, quale fosse il pubblico che potesse essere così raggiunto. In proposito merita tornare un momento a delle considerazioni di Luigi Moretti riferite da Marta Sordi nella premessa al volume dell’Università Cattolica da lei curato su I canali della propaganda nel mondo antico 3. Moretti osservava, forse in modo troppo ultimativo, che «i mass media dell’antichità non erano affatto i libri, e meno che mai quelli di storia che andavano tra le mani di “pochissimi” (i quali erano tra l’altro anche i meno “massificabili”)». Naturalmente non è, a rigore, questione di numeri ma piuttosto di qualità degli interessati. I pochi o pochissimi possono contare molto o moltissimo, come in buona sostanza replicava la Sordi. Se mai ci si dovrebbe chiedere se ci potesse essere una forma di mediazione tra la storiografia, che riguardava direttamente solo un numero ristretto di persone, e un pubblico più ampio. Come, cioè, certe idee potessero circolare anche attraverso canali differenti. Altra questione è poi se ci fosse un genere propriamente autobiografico al momento in cui Augusto scriveva, vale a dire, per dirla con Christopher Pelling, se Augusto sapeva che cosa stesse facendo 4. È in ogni caso difficile da immaginare che i Commentarii augustei, a prescindere da qualche punto di contatto, potessero avere una qualche similitudine strutturale con le Res Gestae, un testo che ha una forma estremamente complessa in cui la struttura cronologica è secondaria rispetto a una tematica, per categorie. L’anno di stesura dell’autobiografia di Augusto si presta a varie considerazioni, alcune delle quali potrebbero indurre a sfumare il concetto di propaganda, in sé già problematico per tutto
2 Cf. Canfora 2015, 310. Al contrario Smith 2009, 79 ritiene che l’autobiografia di Augusto fosse altrettanto lontana dalle memorie di Cesare quanto queste da quelle di Silla. Va anche considerato che Augusto optò, contrariamente a Cesare, per la prima persona singolare per parlare di sé (cf. Pelling 2009, 45). 3 Cf. Sordi 1976, 3. 4 Cf. Pelling 2009.
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quello che di modernizzante inevitabilmente porta con sé 5. Gli anni attorno al 27-25 si prestano, in effetti, a essere considerati “un nuovo inizio” anche al fine di cercare di tracciare una linea di cesura con un passato per certi aspetti imbarazzante. Sappiamo da Svetonio (Aug. 85, 1) che i Commentarii si chiudevano con la guerra cantabrica 6. È lecito chiedersi quale tipo di collocazione i Commentarii trovassero rispetto a quella che sogliamo chiamare ‘politica culturale augustea’. Come si poteva rispondere a livello storiografico alla congiuntura che si era venuta determinando in un quadro generale che presupponeva suggestioni di vario genere? Ovviamente erano possibili risposte diverse. A fronte di una memorialistica che si prestava ad essere partigiana, selettiva, tendenziosa e, comunque, condizionata dalla contingenza storica, un’altra opzione, molto diversa, era quella di tentare la via di una storiografia di ampio respiro, celebrativa non tanto e non solo di un individuo ma della città che si era fatta Impero con un originale sistema di governo, con un reggitore unico al suo vertice. Livio segna sotto questo profilo un momento di svolta. La prima domanda che ci si deve porre è a un tempo scontata e ineludibile. In che rapporti era Livio con Augusto? È opinione diffusa che tra i due intercorresse un rapporto di amicizia, al punto da dare la cosa quasi per scontata. Le fonti in merito non sono in realtà così cogenti: resta comunque difficile da valutare se questi rapporti fossero davvero stretti al punto da poterli considerare amichevoli. Ernest Badian, in particolare, ha riconsiderato attentamente quanto si può dedurre dalle testimonianze di cui disponiamo 7. In sintesi: Tacito riferisce che Cremuzio Cordo difendeva la propria manifestazione di sentimenti filorepubblicani in un processo del 25 d.C. appellandosi al fatto che Livio avesse trattato con tanto favore Pompeo nella sua storia da far sì che Augusto lo chiamasse scherzosamente ‘pompeiano’ senza che la cosa recasse
5 In generale sul limitato effetto propagandistico delle autobiografie in quanto costruite secondo i principi di un elogium e culminanti quindi nel momento della celebrazione del trionfo cf. Smith 2009, spec. 76-79. 6 Cf. Rich 2009. 7 Cf. Badian 1993.
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danno alla loro amicizia (Ann. 4, 34) 8. In verità qui abbiamo a che fare con un discorso di un accusato che sta cercando di sottrarsi alla pena capitale. Che Augusto chiamasse Livio ‘pompeiano’ è senz’altro possibile ma non è così ovvio farne scaturire che tra i due ci fosse davvero un rapporto di amicizia (a prescindere dal valore che il termine amicitia può avere). Da Svetonio (Claud. 41, 1) sappiamo che il futuro imperatore Claudio fu incoraggiato da Livio a scrivere di storia in una data non precisabile con sicurezza 9. Q uesto è un indizio a favore dell’apprezzamento di cui Livio godeva a corte ma non è di per sé una prova di un’amicizia personale con il Principe. La testimonianza forse più significativa riguarda un passo (4, 20, 5-11) in cui è questione di un episodio relativo a Cornelio Cosso e alla dedica della sua corazza. Livio cita direttamente Augusto come fonte per l’episodio che narra 10. Badian ha argomentato dottamente per escludere che si possa presupporre un’informazione avuta da Augusto. A suo giudizio si sarebbe trattato piuttosto di un discorso pubblico in cui l’imperatore spiegò l’accaduto e che Livio aveva avuto modo di ascoltare. Si è pure dato evidenza al fatto che Livio di fatto citi Augusto come fonte ma, in buona sostanza, per contestarne l’informazione: un modo considerato plausibile per ribadire la propria competenza di storico indipendente, almeno sotto il profilo della ricostruzione degli eventi, dall’autorità del Principe 11. Ci sono in verità seri indizi che suggeriscono come, in un arco di tempo relativamente ristretto, il contesto politico gene Secondo Bernard Mineo il pompeianismo di Livio era ben conciliabile con la rilettura della storia che si elaborava progressivamente in riferimento alla res publica restituta (Mineo 2006, 126). 9 Cf. Momigliano 1932, 21-22, che spiega il fatto che Claudio avesse rinunciato al suo proposito di iniziare la propria narrazione a partire dalla morte di Cesare con la pressione dei familiari intimoriti dalla spregiudicatezza con cui aveva trattato il periodo. Essi lo indussero a partire dalla fine delle guerre civili. 10 Il passo di Livio risulta sconcertante perché, dopo aver presentato Cosso come tribuno militare, cita direttamente Augusto come testimone a sostegno del fatto che Cosso era console, qualifica necessaria per essere abilitati a ottenere gli spolia opima. 11 Cf. Kraus – Woodman 1997, 72. Vero è, peraltro, che le guerre civili continuavano ad essere un reale problema storico e politico anche dopo il 31 a.C., come mostra proprio Livio, perché il loro esito poteva essere valutato solo sulla base delle loro cause. Cf. Gabba 1984, 77. 8
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rale cambiasse in modo tale da influenzare la stessa elaborazione storiografica. Verrebbe da dire, per impiegare una formulazione che ha avuto fortuna malgrado l’implausibilità della tesi sostenuta nel libro di Francis Fukuyama, «da fine della storia». Con la guerra cantabrica, come si è detto, si chiude l’autobiografia di Augusto 12. Cassio Dione sottolinea a sua volta la difficoltà di ottenere informazioni sulla vita politica dopo la stabilizzazione del Principato 13. In realtà, a cessare è la memorialistica, salvo pochi nostalgici irriducibili, perché sul presente (e sul futuro) non c’era vera ragione di dibattere. E, in effetti, Livio in qualche modo giganteggia nel deserto. Gli storici a lui contemporanei sono in effetti poco più di nomi, a parte il narbonese Pompeo Trogo che arrivava sino ad Augusto ma le cui Historiae Philippicae hanno una prospettiva universalistica (sulla povertà storiografica del dopo Azio vale il giudizio di Tacito, hist. 1, 1). Tito Labieno era un pompeiano radicale. Cremuzio Cordo, indicato da diversi studiosi come fonte di Dione soprattutto per spiegare la severità con cui quest’ultimo tratta Ottaviano, che comunque dovette concludere la sua opera forse all’inizio del I sec. d.C., era a sua volta un esaltatore dei campioni della resistenza repubblicana. A questi nomi si può aggiungere forse quello di un altro autore con simpatie tradizionaliste, Messalla autore di Commentarii, i cui pochi frammenti pervenutici provengono, forse non a caso, dalla Vita di Bruto di Plutarco. È notevole che anche Messalla concluse i suoi commentarii attorno al 25 a.C. 14. Ma si tratta, con ogni verosimiglianza, di voci residue di un passato tramontato 15. 12 «Official book» del periodo secondo Syme 1959, 65. La Vita di Augusto di Nicolao di Damasco, è stata spesso considerata «a free paraphrase of Augustus’work adapted to the point of view of the eastern part of the Empire» (cf. Gabba 1984, 62). Nicolao avrebbe attinto direttamente dall’autobiografia la sostanza della versione augustea della presa del potere e dei rapporti con Antonio. Secondo Momigliano 1993, 118 quella di Nicolao è stata probabilmente la biografia maggiormente informata a criteri etici, essendo connotata da un interesse peripatetico sulle virtù. Smith sottolinea lo spazio dedicato da Nicolao alla discussione del carattere di Ottaviano in contrapposizione ai vizi altrui (Smith 2009, 79). 13 Cf. Cassio Dione 53, 19. 14 Cf. Welch 2009. 15 Indubbiamente molti storici erano stati schierati con la parte perdente o ne condividevano le motivazioni per ragioni politiche o ideologiche. Ad ogni
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Livio rappresenta quindi qualcosa di nuovo che è plausibile ritenere fosse in sintonia con il programma augusteo 16. Un’ulteriore questione riguarda le basi documentarie sulle quali lavorava 17. Livio doveva avere in programma di chiudere la sua opera con il libro CXXXIII, vale a dire con il trionfo aziaco e alessandrino del 31/30. Si tratta di nuovo di una data e di un evento che ci riportano al momento di svolta nella storiografia di cui dicevo. Q uando abbia raggiunto questo termine non è del tutto evidente: è verosimile una data vicina al 1 d.C. e che abbia poi aggiunto, pochi anni dopo (forse tra il 6 e il 10), i libri CXXXIVCXLII 18. La questione è delicata e di difficile spiegazione. Non è così ovvio immaginare i motivi che possono avere indotto Livio a proseguire nella sua opera iniziata, a quanto pare, in un anno molto vicino a quello del definitivo successo di Ottaviano. L’indicazione della Periocha del libro CXXI (a. 43 con Bruto e Cassio in Oriente) sembra da prendersi sul serio dal momento che non si capisce perché dovrebbe trattarsi di una invenzione, anche se è difficile giustificare la ragione di quanto vi si legge: vale a dire che il libro fu editus dopo la morte di Augusto 19. Interrompere un’opera dell’ampiezza e del significato di quella liviana in anno critico come il 43 pone seri interrogativi. Immaginare difficoltà tra lo storico e l’imperatore non è ovvio: soprattutto si deve spiegare come mai Livio abbia deciso di proseguire la propria opera dopo Azio senza però pubblicarla 20. E non è neppure modo le opinioni erano molto varie e Augusto non era intenzionato a sopprimerle anche perché sarebbe stato impossibile (cf. Gabba 1984, 77). Di qui anche la benevola accettazione del ‘pompeianismo’ di Livio, con cui voleva verosimilmente alludere all’accettazione di fondo dello storico dell’ideologia senatoria e dei suoi valori. 16 Di Livio va ricordato come, a differenza dei suoi predecessori, non appartenesse all’establishment politico (cf. Ogilvie – Drummond 19902, 2 e 9), cosa che rende il suo progetto storiografico ancora più peculiare. 17 «Di Livio non si può neanche provare che abbia mai usato direttamente un documento qualsiasi»: così De Sanctis 1983, 49. Sull’opinione limitativa che De Sanctis nutriva di Livio si veda Ridley 2014. 18 Si presuppone in genere, almeno per i libri dal 6 al 142, che Livio abbia lavorato regolarmente a una media di 3-4 libri l’anno (cf. Badian 1993, 18). Un quadro sintetico e chiaro della questione si può trovare in Zecchini 1987, 80 n. 98. È plausibile che abbia lavorato più lentamente alla prima pentade: cf. Luce 1971, 209-240; una sintesi delle varie opinioni in Mineo 2015b, XXXIV-XXXV. 19 Cf. Luce 1977, 15 n. 33, seguito da Zecchini 1987, loc. cit. 20 Secondo Badian, che ritiene che l’ultimo libro letto da Augusto, il 120,
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così scontato chi abbia provveduto all’edizione dei libri che non avevano avuto circolazione. Se la ragione della sospensione della pubblicazione fosse riconducibile alla delicatezza di raccontare gli eventi che avevano visto operare direttamente Ottaviano e, in particolare, quelli legati alle proscrizioni triumvirali se non, addirittura, al malumore di Augusto in persona per come Livio poteva sembrare intenzionato a narrarli, la cosa dovrebbe indurre a riconsiderare lo stesso programma culturale augusteo 21. O meglio, susciterebbe un interrogativo sull’evoluzione di tale progetto rispetto al quale l’anziano imperatore, privo ormai dei suoi consiglieri e amici più esperti, potrebbe aver smarrito le motivazioni e le prospettive dell’inizio del Principato. È plausibile ritenere che, a partire dal 27, con la definitiva chiusura della stagione degli arbitrî triumvirali e la ‘rimessa in piedi’ della res publica, una politica culturale avesse un significato del tutto particolare 22. Ed è del tutto plausibile che la storiografia vi dovesse trovar posto e un posto importante. In merito il giudizio di Canfora è radicale: parla di «politica culturale diretta dall’alto … di cui Augusto fu regista impareggiabile, in cui la “cultura” è oggetto ed è la politica che sceglie e decide, mette a frutto le personalità (viventi e non) utili al regime ma non le “sposa” integralmente» 23. Q uanto alla delicata questione del ‘controllo sulla storiografia’ (cosi si intitola il cap. 2 della sesta parte del suo libro) osserva: «una politica culturale ha bisogno di intellettuali organici», ricorrendo a una locuzione che ha assonanze evidenti con congiunture storiche che oggi appaiono assai
sia stato pubblicato nel 10 o nell’11 d.C., i pochi dati che abbiamo dei libri successivi sono sufficienti ad indurre a ritenere che il loro contenuto non avrebbe potuto essere apprezzato dal Principe (Badian 1993, 271). Si deve tener presente come possibile data di morte di Livio il 12 d.C., anziché il 17, presupponendo nello stesso tempo come data di nascita il 64 anziché il 59 a.C. (Mineo 2015b, XXXIII). 21 Syme 1959, 28 pone preliminarmente il problema di che cosa si debba intendere per ‘augusteo’. 22 Cf. Mineo 2009, 295-308; Mineo 2015c, 125-138; Marcone 2015, 96-98. Nel concetto di res publica restituta si vuole dare evidenza al ristabilimento dei principi di legalità repubblicana dopo gli arbitrî triumvirali, come risulta anche dalla legenda iscritta nell’aureus coniato nel 28 a.C.: leges et iura populo Romano restituit (cf. Rich – Williams 1999; Mantovani 2008, 5-54). 23 Cf. Canfora 2015, 417.
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remote 24. Canfora attribuisce molta importanza all’influenza dei Commentarii di Augusto che il Principe avrebbe utilizzato deliberatamente per condizionare la delicata versione degli eventi contemporanei. È in realtà da considerare come la cultura augustea non offra una soluzione semplice ai rapporti tra intellettuali e potere. La Penna ha sottolineato come essa sia complicata da analizzarsi dal momento che ci sono vari filoni, da quello del consenso entusiastico a quello di lirismo autentico sino a quello di una moderata protesta, che tendono a confondersi 25. Il progetto culturale augusteo è difficile da individuare anche perché in esso giocava un ruolo determinante una personalità originale e complessa come quella di Mecenate. La teoria della strumentalizzazione dei poeti, della poesia come vettore di un discorso politico nel complesso non appare accettabile. Erano necessarie forme di propaganda più sottili e più fini. Il messaggio di fondo, d’altra parte, era quello che Augusto aveva ‘rimesso in piedi’ lo Stato (questo è propriamente il senso di res publica restituta): di qui una logica «d’imprégnation, d’imbibition, destinée à se couler dans une moule afin d’en épouser les formes tout en modifiant, éventuellement, l’essence» 26. Il più compiuto omaggio di Orazio ad Augusto si può leggere nell’apertura della prima epistola del secondo libro (vv. 1-102), che contiene una rassegna della letteratura latina. Può sorprendere che non sia ravvisabile un’adesione uniforme al regime augusteo da parte dei letterati e della cultura in genere, un fattore da considerare rispetto alla questione del valore genericamente propagandistico attribuito alla letteratura del periodo. Che questa adesione ci sia stata e che sia stata anche convinta non può essere messo in discussione. Ma è altrettanto indiscutibile che non si manifestò in un modo univoco: la forza di tale adesione consiste proprio nella pluralità di forme da essa assunte, in una parola nella libertà delle sue manifestazioni, in termini di accettazione e prese di distanza, di entusiasmi e di nostalgie. L’introduzione del nuovo regime era avvenuta attraverso vicende sanguinose, Cf. Canfora 2015, 455. Cf. La Penna 1983, 366. 26 Cf. Le Doze 2014, 115 (in generale, 85-149). 24 25
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capaci di generare il cambiamento epocale destinato a condizionare, per necessità o per ideologia, il futuro del mondo romano. Si capisce come le esistenze personali dei protagonisti della vita culturale ne fossero state in molti casi pesantemente colpite e che tale esperienza potesse indurre a reazioni diverse. Augusto si assegna un ruolo centrale nella storia di Roma: «come un pivot attorno a cui tutto ruota» 27, egli si colloca al centro della sua memoria, tra passato e futuro: legibus novis me auctore latis multa exempla maiorum exolescentia iam ex nostro saeculo reduxi et ipse multarum rerum exempla imitanda posteris tradidi afferma in Res Gestae 8, 5. Non c’è di fatto soluzione di continuità tra le memorie del passato romano cadute in desuetudine che si preoccupa di rivitalizzare e quanto di memorabile da lui compiuto che affida ai posteri come oggetto di imitazione. Memoria pubblica e memoria privata quindi in Augusto si intrecciano, e la sua funzione di exemplum deriva dal fatto che egli rappresenta personalmente, con la sua persona e con il suo operato, la sintesi del passato migliore di Roma e, nel medesimo tempo, apre la strada a un grande destino: è la tendenza tipicamente romana, interpretata in modo peculiare da Livio, a vedere il passato come ‘figura’ del futuro. Q uello che appare peculiare delle scelte augustee risulta la volontà di riconsiderare l’esperienza accumulata nel tempo per ripensare la forma dello Stato e dell’organizzazione civile. Ne fornisce un riscontro la presenza, che si direbbe ubiqua, di Augusto, nella letteratura come nelle più diverse raffigurazioni artistiche, nel ciclo festivo come nel calendario. Si tratta di una indiscutibile innovazione rispetto alla vita pubblica romana tradizionale, ed è proprio questa novità che Augusto cerca di mascherare attraverso un articolato appello a un passato ricostruito non di rado attraverso eruditi recuperi antiquari. Ma non è solo questione di un deliberato color vetustatis di mera apparenza. È notevole la sostanziale stabilità che si riscontra nel vocabolario, nel lessico politico utilizzato nel Principato rispetto a quello repubblicano 28.
Cf. Labate – Rosati 2013, 4. Cf. Béranger 1955.
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Non è evidente valutare come la storiografia reagisse rispetto a questo tipo di progetto politico. Sfortunatamente niente sappiamo del carattere dell’opera storica di Mecenate 29. In un campo così delicato, se appare plausibile che i condizionamenti dovessero farsi sentire, non è scontato quali ne fossero gli esiti. L’ideologia del Principato rendeva ammissibile la lode della Repubblica e, soprattutto, dei suoi valori fondanti di cui si riproponeva la validità. Ma precluso era certamente l’apprezzamento per quei personaggi che si erano opposti ad Ottaviano nel conflitto decisivo. In particolare non era ammissibile un confronto con la sua opera e una critica al suo progetto di governo. Una via per tentare di capire come Livio abbia interpretato il progetto di Augusto può essere costituita dalla considerazione del valore paradigmatico da lui attribuito ad alcune personalità rappresentative di età repubblicana. Si tratta di una verifica che merita di essere fatta anche alla luce della propensione di Livio, che è stata valorizzata, ad affrontare le questioni politiche e sociali anche di età monarchica e arcaica come se fossero comparabili o analoghe a quella dell’età tardorepubblicana e augustea. Ovviamente Livio è ben consapevole della diversità delle epoche storiche, ma sembra ricorrere a questo genere di sovrapposizioni per mostrare come un esame attento del passato possa essere utile per trovare forme adeguate di approccio anche a problemi contemporanei 30. In proposito le questioni cronologiche non vanno sottovalutate. Marco Fucecchi, tra gli altri, ha sostenuto di recente che nella prima decade di Livio sono presenti alcune figure di Roma arcaica, come le coppie contrapposte di T. Q uinzio Capitolino e di Gaio Canuleio nei discorsi di 3, 67-68 e 4, 3-5, che possono considerarsi «prototipi augustei» 31. A suo modo di vedere è identificabile una dialettica tra conservatorismo ed innovazione che culmina nella concordia ordinum augustea. È un argomento che presenta significativi punti di contatto con quelli svolti
29 I pochi elementi a nostra disposizione sono utilmente ricapitolati in FRHist I 623-624 (A 28 Maecenas C.) e in Smith – Powell 2009 1-13. 30 Cf. Kraus – Woodman 1997, 71. 31 Cf. Fucecchi 2013.
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da Jane Chaplin 32 ma, appunto, pone questioni di varia natura a cominciare dalla cronologia 33. Ad esempio, datare con Fucecchi la prima decade all’epoca di Azio ha delle implicazioni non secondarie rispetto alla possibilità che Livio sia impegnato per «(ri)costruire le premesse del mito augusteo» 34. Livio, in buona sostanza, proporrebbe una concezione dell’evoluzione della storia romana in anticipo rispetto al momento in cui Ottaviano è proclamato Augusto e il nuovo regime assume caratteri evidenti e riconoscibili. Si riconsideri la prefazione agli Annali dove (§ 10) invita i suoi lettori, il suo pubblico a cercare exempla nella sua narrazione: Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites 35. La delicatezza di un’operazione storiografica di questo genere non può essere sottovalutata. La complessità della politica culturale di Augusto, delle sue origini, delle sue motivazioni di fondo, della sua evoluzione va attentamente presa in considerazione. Va tenuto nel debito conto, tra l’altro, il fatto che Livio era un grande ammiratore di Cicerone («completely Ciceronian» secondo Walsh 36). Egli appare in effetti rispecchiare idealità ciceroniane nei suoi orientamenti politici, a cominciare dal l’ideale della concordia e nel suo sostenere il governo della legge 37. Q uesta vicinanza al pensiero ciceroniano rende invero plausibile una maggiore consonanza di Livio rispetto al progetto augusteo così come sembrava delinearsi subito dopo Azio quando l’enfasi Cf. Chaplin 2000; Chaplin 2015, 102-113. Si vedano le osservazioni di Pandey 2014. 34 Cf. Fucecchi 2013, 112 e 123. Gabba data a sua volta la prefazione a una fase precoce di concezione e di elaborazione dell’opera, tra il 27 e il 25 a.C. (Gabba 1984, 79). 35 Sulla possibile tradizione autonoma degli exempla recepiti da Livio nella sua opera ha goduto una certa fortuna la tesi di Klotz 1909, di elenchi che circolavano indipendentemente dalla fonte in cui originariamente erano inseriti sino a costituire una sorta di epitome (cf. anche Klotz 1913 e Klotz 1936). 36 Walsh 1961, 272. 37 Gli ideali politici ciceroniani godevano ancora di particolare autorevolezza e dovevano risultare utili ad Augusto, in una fase di elaborazione del progetto del Principato, anche per promuovere la riconciliazione con la parte uscita sconfitta dalle guerre civili (cf. Mineo 2015c, 135). 32 33
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era posta nel ripudio degli abusi triumvirali e nel ripristino della legalità. Forse lo scrivere di storia recente o contemporanea doveva risultargli meno problematico allora che non quando il progredire dell’opera lo portò ad accostare i temi controversi del dopo Filippi, in un’epoca in cui il regime augusteo si era andato ormai assestando in forme più decisamente lontane da quelle proprie della tradizione magistratuale repubblicana. L’opinione secondo cui Livio avrebbe delineato le grandi figure del passato in modo tale da far sì che i lettori vi vedessero l’immagine di Augusto è sicuramente troppo semplicistica 38. Tuttavia almeno per quella di Camillo ci sono elementi che vanno presi in seria considerazione 39. Livio parla esplicitamente della vittoria sui Galli come di una secunda origo e di una cesura fondamentale nella storia dello Stato romano cui corrisponde una maggiore disponibilità e attendibilità delle fonti storiche. Camillo è il personaggio che, oltre a salvare Roma dall’invasione straniera, impedì l’abbandono della città a favore di Veio 40. Di qui il suo essere appellato Romolo, padre della patria, secondo fondatore della città (5, 49, 5 Romulus ac parens patriae, conditor alter urbis) 41. Elementi di contatto con Augusto si ritrovano anche sul piano religioso: Camillo è chiamato infatti diligentissimus religionum cultor per il suo impegno nella restaurazione dei templi distrutti a seguito del sacco gallico e per averne fatti costruire dei nuovi (si tratta di elementi che si possono peraltro rintracciare nella tradizione annalistica preliviana) 42. I templi fatti restaurare da Augusto furono ben 82 (cui si devono aggiungere quelli lasciati all’iniziativa privata): dunque si può dire che «l’edilizia templare di Roma viene rifatta nel nome di Augusto» 43. Nel caso del restauro e della costruzione di nuovi 38 Cf. Walsh 1961, 16. Mineo 2006, 41-42, valorizza, con quella di Cicerone, particolarmente evidente nella rappresentazione di una città come organismo vivente, quella di Posidonio. 39 Cf. Mineo 2006, 232-237. 40 Secondo Price 1996, 812 «Camillus’ re-establishment of the ancestrial rites neatly foreshadows the religious activity of Augustus himself». 41 Cf. Syme 2014, p. 338. 42 Cf. Gaertner 2008, 36. 43 De Caprariis – Zevi 2000, 279 con riferimento a 4, 20, 7. Su questo cf. anche il contributo di Mineo in questo stesso volume.
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templi sembra che sia stato lo stesso princeps a fissare le direttive di massima, decidendo di persona la loro collocazione e fissando il livello di spesa per le materie prime e per i costi di costruzione. Il principio generale era che tutti gli antichi templi dovevano essere restaurati ma in realtà le spese destinate a ciascuno variarono in modo notevole, in relazione alla divinità cui il tempio era consacrato. Il concetto della contemporaneità della storia ci è stato reso familiare dalla lezione di Benedetto Croce. Che dunque Livio, «come tutti gli storici, non possa mai dissociare completamente il passato dal presente» 44 non suona in sé come qualcosa di nuovo o di sorprendente. Si tratta tuttavia di accertare quanto espliciti e voluti, nella sua opera, siano i riferimenti al presente, che è altra cosa, ovviamente, della permanente contemporaneità della storia. Ma neppure si deve indulgere nella ricerca di presunti riferimenti criptici facendo così di Livio «a subtle salesman for the regime» 45. Non vi è dubbio, peraltro, che il regime augusteo sia molto indebitato nei confronti del sistema di valori tardorepubblicano: una figura storica come quella di Camillo si presta indubbiamente ad essere ridisegnata per legittimare leader politici successivi, se non addirittura a influenzarne l’autorappresentazione, come avrebbe potuto essere per lo stesso Augusto 46. Camillo sembra essere stato in effetti un paradigma politico ricercato ed importante in particolare a partire dagli anni ’60 del I secolo a.C. Sotto questo profilo il pensiero politico ciceroniano del dopo esilio giocò un ruolo non secondario. Cicerone sembra usare regolarmente la figura di Camillo come una sorta di termine di confronto e di verifica per il proprio ruolo all’interno della Repubblica. La svolta di Ottaviano dopo Azio che porta alle decisioni del 27 è ora generalmente riconosciuta: si parla di «metamorfosi» di Ottaviano a princeps rispetto alla fase monarchica iniziale 47. Di questa evoluzione il ‘ciceroniano’ Livio può essere stato un convinto estimatore. 46 47 44 45
Cf. Walsh 1961, 17. Cf. Walsh 1961, 18; da ultimo Mineo 2016. Cf. Gaertner 2008, 29. Cf. Sigmund 2014, 244-253.
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La prefazione agli Annali presenta una singolare tensione tra presente e passato di non semplice interpretazione 48. La questione della sua datazione assume una particolare importanza perché vi si coglie una nota di non gradimento di Livio per l’attesa che sente attorno a sé per la parte della sua opera dedicata alla storia più recente rispetto a quella più antica (e questa impazienza potrebbe riferirsi allo stesso Principe): praef. 1 haud dubito quin primae origines proximaque originibus minus praebitura voluptatis sint, festinantibus ad haec nova quibus iam pridem praevalentis populi vires se ipsae conficiunt 49. Una datazione a un’epoca successiva al 28 segnalerebbe verosimilmente una possibile disillusione dello storico nei confronti degli sviluppi del Principato e della politica augustea. Più problematico sarebbe trovare una giustificazione per una datazione vicina agli anni della conclusione delle guerre civili 50: la nota di pessimismo suona quasi come una presa di distanza dagli haec nova (non sono sicuro che con questo termine vengano indicate le guerre civili: le res novae presuppongono una situazione di rivolgimento, una rivoluzione, dunque potrebbe esserci allusione a un passaggio di regime), quando ormai ‘tanto il vizio quanto i suoi rimedi appaiono intollerabili’ (ad haec tempora quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus perventum est). Una nota dal sapore così tipicamente sallustiano, non a caso ripresa da Tacito e da lui utilizzata per segnalare la scelta monarchica (ann. 1, 9, 4 non aliud discordantis patriae remedium fuisse quam ut ab uno regeretur), appare poco conciliabile con l’ottimismo di inizio Principato. Si potrebbe immaginare un Livio 48 Cf. Chaplin 2000, 134-135; Miles 1995, 51-54. Syme 1959, 42, parla di «grave and gloomy tone, implying that the salvation of Rome is not yet assured». Proprio la peculiarità del tono della prefazione potrebbe suggerire la possibilità di una datazione alta della sua stesura. A una datazione alta propende, da ultimo, Vasaly 2015 in uno studio teso a valorizzare le implicazioni politiche della prima pentade liviana. 49 Cf. Mazza 2005, 56. Mazza ritorna in questo contributo a riconsiderare la praefatio liviana che era o stata oggetto della monografia pubblicata a Catania nel 1966 (Mazza 1966). Badian 1993, 18-19, sembra restringere l’alternativa a una pubblicazione della praefatio per la prima edizione del libro I o per l’edizione della pentade interpretando le considerazioni pessimistiche di Livio come un presagio della fragilità del remedium utilizzato per risollevare lo Stato romano. 50 Come fa Mazza 2005, 54. Per una datazione alta, al 32, propende anche Burton 2008, 70-91. Syme 1959, 37, pensa come data plausibile al 27.
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che, pur aderendo o continuando ad aderire al progetto augu steo, abbia riconsiderato in termini negativi la sua effettiva rea lizzabilità 51. Altro naturalmente è arrivare a ritenere, come pensa Mazza, che la prima pentade sia stata scritta a guerra civile ancora in corso, cioè prima di Azio 52. Vero è che, qualunque spiegazione si preferisca per dirimere questa questione, sembra difficile ridurre la relazione tra Livio e Augusto a un rapporto di tipo puramente strumentale. È altresì inevitabile mettere a confronto il carattere della prefazione generale dell’opera con quella al libro II che si apre con una formulazione che appare inequivocabile: ‘ d’ora in poi tratterò delle imprese compiute in pace e in guerra dal popolo romano libero, delle magistrature annuali e del potere delle leggi, più forte di quello degli uomini. A rendere gradita questa libertà aveva contribuito la superbia dell’ultimo re’. Il Livio antimonarchico fa qui un’evidente comparsa. Nel prosieguo del passo si evocano i rischi che lo Stato romano aveva corso all’indomani della cacciata dei re e, cioè, che la discordia avrebbe potuto avere effetti devastanti sulla compagine statale. Livio apprezza come ‘il potere esercitato con serenità e moderazione’ abbia potuto favorirne lo sviluppo così che ‘maturate ormai le sue forze, poté produrre il prezioso frutto della libertà’. Rimane da considerare la possibilità, sia pure nei limiti di quella che è una valutazione non suffragabile da sicuri elementi di riscontro, di quanto ipotizzato da Syme, vale a dire, che Livio credesse, fondamentalmente senza malafede, che davvero negli anni subito dopo Azio si preparasse un ritorno all’annualità repubblicana delle magistrature 53. Resta invero difficile da sintonizzare la repubblica che Livio ci presenta nei libri che sono sopravvissuti, con la prevista rotazione annuale delle cariche e il suo crescente potere, con quanto è adombrato nella prefazione dove si da riferimento a una Roma 51 A un atteggiamento nel complesso favorevole di Livio all’istaurazione del Principato così come si stava delineando nel 27 pensa ora Mineo (Mineo 2016, 128: «posture encourageante») che valorizza in questo senso gli exempla cui Livio fa ricorso. 52 Per la datazione della prima pentade cf., tra gli altri, Burton 2000, 429-446; Mineo 2015b, XXXVII; Zecchini, in questo volume. 53 Syme 1959, 62: «History itself, like the Roman State, had been brought back into the right and traditional path».
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che è sul punto di crollare 54. Sotto questo aspetto non appare da sottovalutare la circostanza che Augusto, che di fatto è la personalità che incarna il presente e le sue aspettative, compaia già, anche se brevemente, nei primi libri. Il primo riferimento è alla chiusura del tempio di Giano a 1, 19, 3 e a 4, 21, 7 a proposito della sua attività di costruttore e riedificatore di tutti i templi (templorum omnium conditor aut restitutor). È stata osservata l’importanza del discorso che Livio mette in bocca al console Tito Q uinzio Capitolino (3, 67-68) anche alla luce della contrapposizione con quello del tribuno della plebe Gaio Canuleio (4, 3-5), che pure recepisce le esigenze che il destino di grandezza di Roma comporta 55. Capitolino riscuote successo anche presso la plebe con i suoi severi argomenti con cui chiede al popolo di rispondere alla leva militare invocando la fine delle discordie e con l’appello ad abitare insieme la patria comune. Il discorso di Capitolino è tutto incentrato sulla concordia ordinum (il termine compare a 3, 69, 4), un concetto di chiara ascendenza ciceroniana, ovvero sull’interesse collettivo che deve essere anteposto a quello delle diverse parti sociali. La concordia è un tema indiscutibilmente ricorrente nella prima deca di Livio, cosa che appare tanto più notevole se si considera come non sia un ideale di riferimento di primo piano negli anni successivi ad Azio. Nella ricerca dei possibili Zeitbezüge, ricerca che appare tanto più opportuna proprio alla luce del ricorso a un concetto che vuole valorizzare, già nella prima età repubblicana, comportamenti utili da perseguire nell’interesse collettivo, è seducente porre in relazione l’armonia che regnava tra i due consoli del 446 a.C., Tito Q uinzio Capitolino e Agrippa Furio, basata fondamentalmente sulla disponibilità del secondo a riconoscere il primato di fatto del primo, con la condivisione della magistratura suprema tra Ottaviano e un altro Agrippa, il suo amico, genero e luogotenente Marco Vipsanio Agrippa. Q uanto all’appellativo di pater patriae, che è verosimile presupporre non sia stato conferito ad Augusto senza una sua pre Kraus-Woodman 1997, 71. Cf. supra, 146.
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ventiva approvazione, forse è eccessivo vedervi il segno di una ‘alleanza’ tra repubblicani ed augustei contro gli antoniani, non foss’altro perché è difficile identificare uno schieramento repubblicano nel 2 a.C. e così pure presupporre un vero fronte antoniano 56. Tuttavia è senz’altro vero che in tale appellativo rimaneva viva la memoria del precedente ciceroniano e dell’azione efficace dell’oratore per reprimere la congiura di Catilina. È plausibile che una scelta siffatta abbia incontrato l’approvazione di Livio, che può avervi visto un’estrema manifestazione di fedeltà da parte di Augusto a forme di tradizionalismo repubblicano. Siamo però ormai molto vicini a quella data del 1 d.C. che appare critica nel progresso dell’attività storiografica liviana. L’originale progetto culturale augusteo potrebbe essere giunto a esaurimento e la storia, quanto meno quella recente, tornare a essere un opus plenum aleae. La principale – forse inconsapevole – preoccupazione degli scrittori della prima età augustea che avevano conosciuto le guerre civili sembra essere stata quella di dar senso alla nuova realtà politica ricollocandola all’interno dei valori e delle tradizioni cui questi scrittori e il loro pubblico erano familiari 57. Se questa preoccupazione avesse ancora un senso negli anni finali del Principato può essere oggetto di discussione.
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TITO LIVIO: STORIOGRAFIA E POLITICA IN ETÀ AUGUSTEA
Abstracts This chapter proposes an evaluation of the role of Augustus’ Commentarii in the context of what is generally, and problematically, defined as his ‘cultural programme’, speculating as to how the first emperor’s work might have influenced a historiography which sought to free itself from tendentiousness. Livy’s project may plausibly be considered as expression of an independent perspective compatible with Augustus’ programme. What remains problematic, though, is his decision to interrupt the publication of the Annals in 43 bc (Periocha 121). Si intende mettere a fuoco la collocazione che i Commentarii di Augusto possono aver trovato rispetto a quella che problematicamente si suole definire ‘politica culturale’ del primo imperatore e in che misura abbiano condizionato una elaborazione storiografica che volesse sottrarsi alla tendenziosità. Il progetto liviano rappresenta una soluzione originale che è plausibile supporre in sintonia con il programma augusteo. Rimane da chiarire la ragione dell’interruzione della pubblicazione degli Annali con l’anno 43 a.C. (Periocha del libro CXXI).
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PARTE II
LIVIO FONTE PER L’ARCHEOLOGIA E LA STORIA DELL’ARTE ANTICA
JACOPO BONETTO
LA COLONIZZAZIONE REPUBBLICANA DELLA PIANURA PADANA TRA TRADIZIONE LIVIANA E DOCUMENTI ARCHEOLOGICI
Gli studi storici e archeologici degli ultimi vent’anni, radicati in una lunga storia di ricerca, hanno fatto conoscere in forme decisamente solide l’assetto delle comunità protourbane e urbane che popolavano nel corso della prima e della seconda età del Ferro la regione cisalpina. Le manifestazioni delle civiltà etrusco-padana, veneta e, pur in misura minore, celtica sono state infatti oggetto di indagini di diversa natura che hanno messo in evidenza sia i loro tratti connotanti di natura socio-economica sia i caratteri strutturali dei loro contesti insediativi, produttivi e necropolari. Non altrettanto si può dire per il paesaggio insediativo segnato da profonde trasformazioni che iniziano ad interessare gli stessi centri dal III sec. a.C., quando Roma si affacciò sulla pianura con interessi militari, territoriali, economici che innescarono evoluzioni profonde su ogni piano dell’esistenza delle comunità e, di conseguenza, dei loro abitati. Il periodo e le sue evidenze archeologiche sono stati anche oggetto di una recentissima puntuale rassegna espositiva incentrata sul tema Roma e le genti del Po che è apparsa di particolare utilità per focalizzare i tratti evolutivi della regione nel corso di uno stravolgimento che ne segnò stabilmente il volto 1. Si tratta di un processo straordinariamente complicato, semplicisticamente riassunto e descritto attraverso il discusso termine di romanizzazione 2, con il quale si è cercato di qualificare e descri Cf. Malnati – Manzelli 2015. Cf. Woolf 1998; Schörner 2005; Boatwright 2012; Bandelli 2015.
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A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 161-179 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117490
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vere i radicali interventi di diverso genere operati da Roma sulla regione 3. Non è possibile in questa sede soffermarsi sull’interezza di tale fenomeno storico, che giunse a rimodellare l’intero comparto nord-italico (e non solo), perché sarebbe in primo luogo necessario affrontare la cruciale questione delle profonde interazioni tra comunità indigene ed allogene, sottovalutate o valutate in forme non corrette in passato, e sarebbe altresì indispensabile prendere in esame uno spettro di problematiche troppo ampio per questa specifica sede. Il presente intervento si limiterà pertanto ad affrontare un aspetto specifico di questa delicata fase di passaggio costituito dal l’evoluzione degli abitati che vede la spinta innovatrice di Roma prendere le forme fisiche e giuridiche della colonizzazione. Dalla metà del III sec. alla metà del II sec. a.C. circa il Senato di Roma propose ed ottenne di dare corpo ad una serie di nuovi insediamenti che contribuirono a ridefinire il paesaggio poleografico della regione che qui si cercherà appunto di analizzare. Lo spunto per perseguire tale obiettivo deriva dalla possibilità di allineare una serie recente e recentissima di risultati di indagini archeologiche condotte in Italia settentrionale e di porle a confronto con i ben noti testi liviani sul tema e sul periodo, al fine di sperimentare ancora quella proficua contaminazione tra serie documentarie diverse che appare indispensabile per un’organica ricostruzione storica. Va premesso che l’epoca medio e tardo repubblicana è tra tutte quella più difficile da affrontare nella regione dell’Italia settentrionale per la modestia della documentazione archoelogica, particolarmente nel caso dei documenti di architettura e urbanistica. La citata grande esposizione bresciana ha allineato evidenze complessivamente molto significative per il periodo, ma ha infatti pure messo in luce, come si chiarirà anche di seguito, che il quadro archeologico delle trasformazioni generate dalle crescenti presenze allogene sugli abitati è particolarmente poco nitido per le fasi iniziali della romanizzazione. Si tratta spesso di documenti molto modesti, sepolti sotto la crescita delle stesse città tardo 3 Sui problemi metodologici, terminologici ed epistemologici del concetto di romanizzazione cf. alcune mie note in Bonetto 2016.
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LA COLONIZZAZIONE REPUBBLICANA DELLA PIANURA PADANA
repubblicane, imperiali e medievali fino a risultare anche fisicamente irraggiungibili. Anche la fonte liviana appare però non sempre di grande dettaglio per il periodo: nei libri dal 21 al 45 (corrispondenti agli anni dal 218 a.C. al 168-167 a.C.), che presentano la trattazione più completa di gran parte del periodo, si trovano riferimenti prevalenti alla guerra annibalica e ai conflitti orientali, mentre sono trattate in forme marginali le campagne militari contro le popolazioni del nord Italia 4. Nonostante questi limiti la lettura comparata della fonte e di alcuni significativi documenti archeologici riferibili al periodo compreso tra metà III e metà II sec. a.C. permetterà di presentare in sede di sintesi qualche nuova idea (da discutere) sulla natura e il significato delle politiche coloniali di Roma e sulla natura degli insediamenti che ne costitutivano il segno attuativo. Tra le più antiche testimonianze di cui disponiamo figura quella della colonia latina di Rimini, la cui fondazione nel 268 a.C. è naratta da Livio in parti perse del testo, ma riassunte nelle periochae 5. Allo sbocco delle piste provenienti dall’Italia centrale, il primo grande caposaldo sulla pianura rimase per decenni il punto nevralgico delle politiche espansionistiche oltre gli Appennini. Per la fase della fondazione appare di grande effetto la presenza di una grandiosa opera fortificatoria in «opera poligonale evoluta», la cui costruzione rimanda ad esperte maestranze italiche ed è preceduta da attenti riti di fondazione, rivelati da un particolarissimo deposito di fondazione 6. Si tratta di una cortina i cui caratteri architettonici appaiono di particolare rilevanza per l’uso massiccio della pietra da taglio secondo canoni strutturali e tecnico-architettonici tipici della grande architettura italica medio-repubblicana. È importante notare, qui come avverrà di seguito, che a fronte della realizzazione di un’opera così impegnativa sul piano tecnico e rituale, non siano documentati in forma articolata altri elementi del piano urbano di eguale antichità, Cf. Bandelli 2009, 183. Cf. perioch. 15, 5 per la fondazione: Picentibus victis pax data est. Coloniae deductae Ariminum in Piceno, Beneventum in Samnio; 27, 10, 7 per colonie latine esistenti al 209 a.C. 6 Cf. Ortalli 2000, 501 con rimandi bibliografici. 4 5
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come se la colonia in queste precoci fasi fosse materializzata e costituita dal suo perimetro difensivo come realtà identificativa ed essenziale. Seppure non compresa nel racconto liviano, un’altra fondazione fortificata riesce a illuminare i caratteri dell’avanzata romana nella regione nord-adriatica e padana. Ravenna non nasce come colonia latina o romana, ma è detta da Strabone colonia umbra che accolse coloni romani 7. Essa appare comunque una piazzaforte strategica di particolare rilievo per posizione e contatto con le rotte marittime. Anche in questo caso poco o nulla si sa del suo quadro insediativo e monumentale delle prime fasi di trasformazione che l’insediamento indigeno subisce, ma è ben nota la cinta fortificata che viene realizzata a protezione dello stesso già sul finire del III sec. a.C. Lo scavo stratigrafico condotto all’interno dell’edificio della Banca Popolare negli anni Ottanta del secolo scorso ha rimesso infatti in luce parti importanti (24 m ca.) di un torrione e di un muro difensivo dotato di uno spessore di 2,3 m 8. In questa cinta appare per la prima volta diffusamente impiegato il laterizio cotto per l’intera estensione del perimetro e l’intero corpo dell’opera difensiva. È il primo caso in cui viene introdotta nella regione la tecnologia produttiva della cottura dell’argilla per la produzione di elementi strutturali che diventerà nel corso del tempo il carattere dominante di gran parte dell’edilizia della regione 9. L’aspetto di maggiore rilevanza nel valutare questo dato riguarda non solo gli aspetti tecnologico-produttivi, ma pure gli aspetti dimensionali del prodotto laterizio; i mattoni misurano 0,49 × 0,49 × 0,05 m 10 e corrispondono quindi al tipo noto nel mondo greco come triemiplínthos, pari quindi ad un piede e mezzo dorico di 0,327 11. Presso altri tratti delle mura la cortina sembra costituita da mattoni di poco più grandi (0,50 × 0,50 × 0,05 m Cf. Strabo 5, 1, 7 e 5, 1, 11. Cf. Manzelli 2000; Manzelli 2010. 9 Sull’uso precoce del laterizio in questo caso e in altri della regione cf. Bonetto 2015 e Bonetto 2019. 10 Sulle misure di questi laterizi cf. Manzelli 2000, 12-13 e n. 22 che corregge, dopo più completo esame autoptico, le misure leggermente superiori date da Righini 1990, 279. 11 Sul piede dorico cf. la sintesi di Brooner 1971, 174-181. 7 8
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LA COLONIZZAZIONE REPUBBLICANA DELLA PIANURA PADANA
oppure 0,52 × 0,52 × 0,05-0,06 m) che sono stati ancora attribuiti, pur nell’oscillazione, al tipo del triemiplínthos dorico o, in alternativa, al tipo del triemiplínthos samio 12. Un altro particolare rilevante è costituito dalla presenza di alcune lettere probabilmente greche, di un numerale certamente greco (Phi = 500) e di alcune abbreviazioni tachigrafiche, ricorrenti in ambito ellenico, incise a crudo sui mattoni 13. Tutto lascia quindi pensare che a Ravenna gli ingegneri militari romani fossero affiancati e coadiuvati da maestranze greche. Va inoltre notato che nella stessa opera difensiva gli elementi fittili sono legati da malta tenacissima su cui è stata eseguita un’ana lisi tramite diffrattometria a raggi X e microscopia elettronica. I risultati indicano che le malte vennero «prodotte con un legante idraulico costituito da una miscela di calce aerea e di pozzolana “con minerali (augite) tipici dell’area laziale”» 14. È quindi ipotizzato che la costruzione delle mura ravennati vide l’eccezionale importazione dall’Italia centrale di materiali da costruzione ancora in fase di sperimentazione in ambito italico e utili a garantire la massima solidità delle opere realizzate. Altro caso di estremo interesse è quello di Piacenza che, come riferiscono Polibio e Livio, viene impiantata nel 219 a.C. con la gemella Cremona quali colonie di diritto latino a cavallo del grande fiume della pianura 15. Probabilmente fortificata all’inizio in forme non strutturate, la colonia subisce la discesa di Annibale in Italia e l’assedio di Asdrubale, finché, probabilmente alla sua rifondazione del 190 a.C., si dota di una imponente cinta muraria. Indagata solo per un breve tratto, essa risulta realizzata, come nel caso ravennate, in laterizi cotti a struttura piena con lo spessore considerevole di 2,6 m. I laterizi usati sono embrici Il piede samio di 0,349-340,35 m è diffuso prevalentemente da V sec. a.C. e si avvicina o coincide nel suo multiplo del cubito (0,525 m) con il cubito reale egiziano (cf. Segrè 1928, 78 e 138; Dinsmoor 1961, 360). 13 Cf. Manzelli 2000, 13-18; Manzelli 2015. 14 Cf. Costa et alii 2000, 28; Manzelli 2000, 74; Manzelli 2010, 158 e n. 4. Le analisi sono state condotte presso i laboratori dell’Italcementi di Bergamo. La genericità del dato fornito in seguito al percorso analitico rende non del tutto provata la provenienza laziale del materiale vulcanico presente in queste malte e ha spinto ad avviare un nuovo piano di analisi sui leganti di questo complesso architettonico (cf. Bonetto et alii 2016). 15 Polyb. 3, 40, 3; cf. perioch. 20, 18. 12
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e sesquipedali di un piede per un piede e mezzo (0,295 × 0,444 m), che fanno per la prima volta la loro comparsa sulla scena edilizia della regione per divenire di seguito lo standard assoluto in area cisalpina 16. Ancora una volta lo spazio intramuraneo della città non ha restituito documenti relativi ad altri significativi impianti architettonici o apparati urbanistici di eguale antichità e le mura appaiono l’unico indicatore e strumento dell’esistenza urbana più antica. Seguendo l’evoluzione dei processi di colonizzazione della pianura, un altro contesto urbano di grande interesse è quello di Modena, colonia di diritto romano fondata, come racconta Livio, nel 183 a.C., anno in cui venne costituito anche il caposaldo di Parma 17. Già alcuni decenni prima, però, il villaggio precoloniale di Mutina aveva accolto i triumviri deducendi di Placentia in fuga dall’insurrezione dei Boi e degli alleati, come raccontano Polibio e Livio 18. Forse già a questa precoce fase 19, ma certamente entro i tempi della fondazione del 183 a.C., sembrano dover risalire le opere fortificatorie rimesse in luce tra il 2006 e il 2007 per un breve ma ben conservato tratto in Piazza Roma 20. Indipendentemente dalla esatta collocazione cronologica, anche in questo caso l’assetto architettonico e strutturale appare particolarmente significativo per l’imponenza dell’opera. La poderosa struttura, conservata per ca. 4,5 m, di cui 1,5 m in fondazione e 3,5 m in alzato, è realizzata per l’intero suo corpo da laterizi che presentano misure piuttosto anomale, pari a 0,46-0,53 × 0,33 × 0,45 m e a 0,33 × 0,52-0,53 × 0,4-0,45 m; il modulo sembra anche qui avvicinabile ai riferimenti greci del piede dorico e suggerisce Cf. Locatelli 2015, 155. Cf. 39, 55, 7-8 eodem anno Mutina et Parma coloniae ciuium Romanorum sunt deductae. Bina milia hominum in agro qui proxime Boiorum, ante Tuscorum fuerat, octona iugera Parmae, quina Mutinae acceperunt. Deduxerunt triumuiri M. Aemilius Lepidus, T. Aebutius Parrus, L. Q uinctius Crispinus. 18 Cf. 21, 25, 3 itaque armis repente arreptis, in eum ipsum agrum impetu facto tantum terroris ac tumultus fecerunt ut non agrestis modo multitudo sed ipsi triumviri Romani, qui ad agrum venerant adsignandum, diffisi Placentiae moenibus Mutinam confugerint, C. Lutatius, C. Servilius, M. Annius; cf. Polyb. 3, 40, 3-14. 19 Ipotesi di Labate 2015. 20 Labate et alii 2012; Labate 2015 ; Labate et alii 2019. 16 17
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anche in questo caso la realistica presenza di maestranze greche a fianco di ingegneri civili o militari romani 21. È opportuno sottolineare anche in questo caso che l’eccezionale struttura in muratura piena appare, per l’epoca in cui fu realizzata, un documento architettonico isolato del quadro urbano in formazione, poiché il centro non ha restituito pressoché alcun altro complesso di simile imponenza e rilevanza. Appena due anni dopo la fondazione della romana Mutina abbbiamo notizia da Livio della fondazione della colonia di latina di Aquileia 22. La decisione, assunta nel 183 a.C. e materializzata nel 181 a.C., vide l’impianto di un nucleo coloniale sul sito di un insediamento indigeno di cui poco si sa. Gli studi che durano da oltre un secolo non hanno di fatto messo in luce alcuna costruzione o complesso riferibile alla fase di fondazione, che resta così, dal punto di vista dell’assetto architettonico-urbanistico, del tutto sconosciuta. Fa eccezione ancora una volta l’assetto delle fortificazioni, il cui perimetro è stato oggetto a più riprese di interventi 23, tra cui l’utlimo si deve al Dipartimento dei Beni Culturali nell’ambito del progetto dedicato alla studio e alla valorizzazione dell’area dei fondi Cossar 24. Lo scavo condotto tra il 2011 e il 2012 ha potuto rimettere in luce un pur breve tratto dell’angolo sud-est della cortina riferibile alla fase repubblicana e connotata da particolarissima struttura. Nonostante alcuni vincoli operativi, la cortina è stata messa in luce per un limitato tratto di ca. 4 m appartenente al lato orientale delle mura che fronteggiano la linea del porto fluviale presso l’angolo sud-orientale del perimetro. La vicinanza di questo tratto
Alcuni di questi laterizi, pur dotati di notevoli oscillazioni dimensionali, potrebbero rientrare nel tipo del sesquipedale rettangolare dorico (cf. Righini 1990, 272-273; Labate et alii 2012, 18) pari ad 1 piede × 1 piede e ½ di 0,326 cm. Il ricorrere della misura di 0,52-0,53 m potrebbe però anche richiamare il cubito (0,525 m) del piede samio di 0,35 m. È stato sottolienato da più autori (tra cui Dinsmoor 1961) come anche la misura standard del piede dorico subisce nelle varie regioni del mondo greco (e addirittura nei diversi cantieri), piccole ma significative variazioni che rendono necessaria una valutazione metrologica dotata di pur minima flessibilità. 22 Cf. 39, 55, 5-6; 40, 34, 2-3. Cf. anche Vell. 1, 15, 2. 23 Una sintesi in Bonetto 2005. 24 Sulle mura cf. Bonetto – Pajaro 2012; Bonetto 2015; Bonetto et alii 2016; Bonetto – Previato 2018. 21
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alla torre angolare determina un allargamento improvviso dello spessore della cortina da 2,38 m (8 piedi) a 4,76 m (16 piedi). Sono risultate visibili le parti appartenenti alla fascia di passaggio tra l’alzato e le fondazioni, distinti da una risega di pochi centimetri. In questa parte il muro è realizzato con struttura omogenea e l’intero spessore è costruito con vari filari di laterizi cotti, rilevati per 7 corsi appartenenti alla fondazione e all’alzato. I laterizi presentano nei livelli conservati misure prossime agli 0,36-0,37 m; questi elementi fittili richiamano in forma chiara il tipo dei pentadora menzionati da Vitruvio come propri delle opere pubbliche di ambito greco e basati sul piede ionico-attico di 0,295 m (palmo di 0,074 m) 25. Sempre lungo le mura repubblicane di Aquileia vennero recuperati negli scavi del secolo scorso 26 altri laterizi cotti le cui misure di 0,49-0,50 × 0,40-0,42 × 0,06-0,08 m non sembrano rientrare in alcuna tipologia ma sembrano comunque sempre realizzati sulla base metrologica greca del piede dorico. La più che probabile presenza ad Aquileia, come negli altri centri, di maestranze greche in grado di introdurre la nuova tecnologia del cotto sembra comprovata nel centro adriatico dai caratteri planimetrici di alcune torri (a pianta pentagonale) e di una porta (a cavedio circolare) che rimandano in modo certo ai precetti di trattatisti greco-ellenistici 27 d’Asia Minore come pure ad esempi della Grecia continentale e ancora dell’area ionica 28. Cf. Vitr. 2, 3, 3 fiunt autem laterum genera tria: unum, quod graece Lydium appellatur, id est quo nostri utuntur, longum sesquipede, latum pede. Ceteris duobus Graecorum aedificia struuntur; ex his unum pentadoron, alterum tetradoron dicitur. Doron autem Graeci appellant palmum, quod munerum datio graece doron appellatur, id autem semper geritur per manus palmum. Ita quod est quoquoversus quinque palmorum, pentadoron, quod quattuor, tetradoron dicitur, et quae sunt publica opera, pentadoros, quae privata tetradoros struuntur. 26 Cf. Brusin 1934, 59. 27 Phil., ed Garlan, A3. Sulle torri pentagonali si veda il commento di Garlan 1974, 331-338 dove viene anche presentata una serie di esempi di torri esagonali e pentagonali di età ellenistica. Anche altri autori greci di poliorcetica raccomandano le torri esagonali e pentagonali (cfr. Garlan 1974, 331-332). 28 Cf. Bonetto 1998, 62-63 e 78-79. Ma il quadro tecnico che riporta a tradizioni costruttive greche potrebbe ampliarsi a considerare anche altri dettagli costruttivi diffusi ad Aquileia (e nella regione altoadriatica). In questo senso è da citare il recente studio relativo alla diffusione di un sofisticato sistema di fondazione a sedimenti stratificati che trova i suoi antecedenti solo in ambito grecomediterraneo (Bonetto – Previato 2013). Sulle presenze greche nei cantieri della Pianura padana repubblicana vedi anche Bonetto 2019. 25
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Q uesta particolare cura per la realizzazione dell’impianto fortificato, che portò al coinvolgimento di esperti di tecniche edilizie e di architettura militare greca, sembra denotata anche dal rinvenimento alla base delle mura di Aquileia di alcune masse di calcestruzzo dotate di un’eccezionale resistenza meccanica funzionale al rinforzo costruttivo. Q uesti grandi blocchi di forma irregolare presentano dimensioni eccezionali con lunghezze superiori ad 1,5 m e sono costituite da calcestruzzo sottoposto ad indagini archeometriche di carattere petrografico, mineralogico, micro tessituriali e chimiche 29. Le analisi hanno evidenziato la presenza di minerali come la tobermorite e l’emicarbonato che si formano a seguito di reazioni idrauliche dovute all’interazione tra materiali pozzolanici e calci idrate. I risultati preliminari sull’area di provenienza di questi materiali idraulicizzanti avevano ipotizzato una provenienza dai depositi piroclastici dei Campi Flegrei, che per le loro proprietà chimico-fisiche risultavano adatti ad essere combinati alla calce aerea e produrre leganti e (con essi) malte o calcestruzzi idraulici di straordinaria tenacia. Le ultime analisi portano però a considerare anche altre possibilità di provenienza del materiale con il quale le miscele si trasformavano in malte idrauliche. Ciò prova, come già visto nel caso di Ravenna, che comunque i costruttori romani fecero ricorso ad approvvigionamento del miglior materiale costruttivo dislocato ad molti chilometri di distanza per conferire alle fortificazioni aquileiesi la massima solidità. I cinque casi di nuove o ricostituite realtà insediative stabilite da Roma tra gli Appennini e le Alpi, fino ad ora rapidamente esaminate, costituiscono un campione dall’alto valore documentario per alcuni tratti unificanti, che cerchiamo di riassumere: 1. In tutti i casi si assiste alla costruzione di una cinta fortificata negli anni che precedono o seguono di poco la deduzione coloniale. 2. La struttura presenta caratteri di inusitati robustezza e potenziale sul piano defensionale e simbolico per solidità strutturale, materiali e dimensioni. 29 Q uesti particolari espedienti tecnici sono studiati nel contributo di Bonetto et alii 2016.
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3. La messa in opera comporta un elevatissimo tasso di innovazione tecnologica e dall’altro il coinvolgimento di architetti e ingegneri afferenti alle più progredite scuole tecniche del mediterraneo ellenistico. 4. La volontà di realizzare le opere determina probabilmente l’importazione di materiali da costruzione da bacini centroitalici siti a centinaia di chilometri di distanza che comportano impegni logistici ed economici assolutamente straordinari. 5. Allo stato attuale della ricerca archeologica le eccezionali opere fortificatorie non sembrano trovare paralleli e riscontri nel restante panorama architettonico (pubblico e privato) e urbanistico dei medesimi centri, la cui articolazione sfugge o appare connotata da opere di ben più modesto impegno ed estensione. Prima di cercare di operare alcune considerazioni di sintesi su questo panorama di grandi opere fortificatorie appare utile ritornare più estesamente sui racconti liviani delle vicende politicomilitari che connotano la regione nel medesimo periodo compreso tra III e II sec. a.C., la cui lettura offre spunti importanti per comprendere in generale il clima geopolitico in cui tali vicende urbane si inseriscono. In un passo del libro 39 della sua opera, riferito al 187 a.C., Livio ben sintetizza il clima del periodo nella regione 30, illustrando come i nemici e i luoghi tenessero sempre viva l’attenzione del l’esercito romano in un clima profondamente ostile e difficile in cui le attività difensive e offensive rappresentavano la preoccupazione quotidiana dell’avanzata romana. I singoli fatti che determinano questa situazione sono peraltro ben noti nei dettagli fin dalla seconda metà del III sec. Così nel perduto libro 20 31 si coglie l’avvio di un conflitto con i Boi per gli anni 238, 237 e 236 a.C., che videro anche l’assedio posto ad Ariminum nel 237 a.C. da un esercito comprendente i Boi e un corpo di spedizione di Galli, secondo la narrazione polibiana 32. Cf. 39, 1, 5-8. Cf. perioch. 20, 3: Adversus Liguras tunc primum exercitus promotus est. 32 Cf. Polyb. 2, 21, 1-6. 30 31
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Ben note sono quindi le vicende della grande guerra del 225222 a.C., iniziata con l’ennesima invasione dell’Italia centrale tirrenica da parte di un esercito di Boi, Insubri e Gaesati della valle del Rodano; dopo la vittoria di Talamone (225 a.C.), la controffensiva romana portò alla resa dei Boi nel 224 a.C., e alla sconfitta degli Insubri nel 223 a.C. con definitiva vittoria di Clastidium del 222 a.C. Il racconto liviano ci fa capire però che le ostilità ripresero presto, all’approssimarsi della minaccia cartaginese, quando i Boi e gli Insubri insorsero nella primavera del 218 a.C., costringendo i triumviri e i coloni di Piacenza a rifugiarsi a Mutina e a Tannetum 33. Ma altri tratti del racconto liviano riportano continua tivamente le difficoltà: la narrazione 34 è ampia e drammatica per il 216 a.C., quando il pretore Lucio Postumio Albino e parte del suo esercito nel progredire dall’Adriatico verso la pianura ven nero trucidati nella silva Litana, posta tra Felsina-Bononia o presso Mutina. E ancora più emblematico è il racconto relativo all’anno 200 a.C., quando una nuova insurrezione guidata dai Boi, immediatamente contagiosa verso altre popolazioni finitime e capitanata addirittura dal cartaginese Amilcare, condusse all’espugnazione di Cremona e all’assedio di Piacenza 35. Il perdurare diffuso di contrasti, scontri e clima di terrore perdura anche oltre la soglia del II sec., come dimostra il fatto che ancora nel 196 a.C. si registrano scontri per la conquista di Comum (Como) da parte del console Marco Claudio Marcello; in anni vicini l’altro console Lucio Furio Purpurione conquista la piazzaforte di Felsina-Bononia 36. Ma, come apprendiamo sempre dal testo liviano 37, ancora nel 193 a.C. si registra l’insofferenza dei Boi e dei Liguri, giunti ad assalire gli agri di Luni e di Pisa e a devastare il territorio della colonia di Placentia. Un punto di svolta in queste continue schermaglie belliche fu costituito dagli eventi del 191 a.C. che videro l’intervento risolu 35 36 37 33 34
Cf. supra n. 4. Cf. 23, 24, 6-13. Cf. 31, 10, 1 - 11, 3. Cf. Bandelli 2009, 190-192. Cf. 34, 56.
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tivo del console Publio Cornelio Scipione Nasica giunto a sbaragliare i Boi e a celebrare su di loro il trionfo decretato dal Senato 38. Nemmeno tale vittoria tuttavia appare risolutiva per instaurare nella regione un clima sufficientemente scevro da contrasti e problemi di natura militare. È infatti molto interessante notare come tale stato di diffusa insicurezza fosse apertamente avvertito dalle stesse comunità anche immediatamente dopo la definitiva vittoria romana. Nel 190 a.C. è registrata da Livio 39 un’ambasceria a Roma di Placentini e Cremonenses, che, manifestando ‘la difficoltà a vivere con i vicini Galli’, ottenne un nuovo invio di 6.000 coloni. Ma forse più signficativa tra tutte appare la vicenda di Aqui leia, la cui stessa genesi è riconnessa dal testo liviano espressamente ai problemi di natura militare che l’area geografica di riferimento vive in questi cruciali decenni di inizio II sec. a.C. Il lungo racconto liviano illustra infatti come all’origine del l’idea della deduzione fosse proprio l’aggressività dei Galli Transalpini che, nel 186 a.C., erano transgressi in Venetiam con un contingente di 12.000 uomini spinti dalla ricerca di nuove terre e giunti ad occupare un settore della bassa pianura friulana e porvi un loro abitato stabile (oppidum) 40. L’arrivo del console e delle sue legioni produsse nel 183 a.C. la restituzione delle armi depredate, la resa dei Galli e il ritorno di questi nelle sedi d’oltralpe, ma appare evidente che il consolidamento delle posizioni acquisite fu sancito solo tramite la costituzione della colonia latina, divenuta realtà nel 181 a.C. Ma, anche dopo quest’atto di arroccamento territoriale, appare chiaro che il territorio non era sicuro e facilmente frequentabile, se nel 179 a.C. le genti galliche erano tornate a chiedere terre in cambio della sottomissione al dominio romano 41. A questo nuovo episodio intimidatorio fece seguito nel 171 a.C. un’esplicita richiesta di aiuto da parte dei cives latini di Aquileia che, descrivendo la loro città come coloniam suam novam et infirmam necdum satis munitam, prospet Cf. 36, 38-40. Cf. 37, 46, 10-11. 40 Cf. 39, 22, 6-7 (186 a.C.); 39, 45, 6-7 (183 a.C.); 39, 54, 2-13; 39, 55, 1-6. Sulla fondazione della città cf. Sartori 1960 e Buchi 1993, 16-17 con la bibl. citata alle nn. 38 e 43. 41 Cf. 40, 53, 5-6. 38 39
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tarono la necessità di rinforzi per il centro 42. Così due anni più tardi, nel 169 a.C., Roma deliberò una nuova deduzione di altre 1500 famiglie di fanti-coloni 43. Ma nello stesso torno di tempo le scorrerie e lo stato di allerta sono documentate in varie altre aree della regione, come ricorda sempre Livio a proposito delle vicende del 177-176 a.C. che interessano Modena, presa d’assalto e conquistata di sorpresa da un’improvvisa scorribanda dei Liguri 44. Pur se la città venne liberata e restituita ai coloni dal proconsole Gaio Claudio Pulcro, l’ennesimo racconto rivela situazioni di difficoltà che si protraggono fin ben all’interno del II secolo per venire meno quasi integralmente solo con la seconda parte di esso. Il cursorio richiamo fin qui operato al quadro storico-evenemenziale tratteggiato da Livio e da altri autori per i cent’anni intercorsi tra il 250 a.c. e il 150 a.C. sembra in sintesi fornire uno scenario geo-politico sufficientemente chiaro delle fasi iniziali della romanizzazione e della colonizzazione della regione; esso ci appare infatti inequivocabilmente segnato da un diffuso quanto persistente clima di bellicosità e aggressività generato dal contrasto insanabile, se non con la forza e addiruttura con il ricorso alla deportazione di massa 45, tra ingerenze romane e difesa del territorio da parte delle popolazioni celtiche. È con la netta percezione, generata dalle fonti, di questo stato di cose che si può in chiusura tornare a riconsiderare i dati archeologici sulle città e le loro fortificazioni per giungere ad una rilettura sulla natura e il significato di questi primi episodi di urbanizzazione, che costituisce l’obiettivo di questo contributo. Sembra così in sintesi che l’avanzata delle truppe romane e la loro ricorrente attività nella regione sia accompagnata dalla costruzione di opere fortificatorie che appaiono del tutto eccezio Cf. 43, 1, 5-6. Cf. 43, 17, 1 eo anno postulantibus Aquileiensium legatis ut numerus colonorum augeretur, mille et quingentae familiae ex senatus consulto scriptae triumvirique, qui eas deducerent, misi sunt T. Annius Luscus, P. Decius Subulo, M. Cornelius Cethegus. Sulle prime fasi di vita della colonia vedi il recente saggio di Zaccaria 2014. 44 Cf. 41, 14, 2 clam exercitu indicto, per transuersos limites superatis montibus in campos d egressi, agrum Mutinensem populati, repentino impetu coloniam ipsam ceperunt. 45 Cf. Bandelli 2009, 198-199. 42 43
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nali nel panorama dell’intero Mediterraneo e dell’Europa continentale per materiali d’importazione impiegati, profusione di innovazioni tecnologiche e coinvolgimento di eccelse maestranze allogene che affiancano gli ingegneri militari romani. L’attuazione di questo studiato e raffinato progetto edificato rio produce l’installazione di realtà insediative che appaiono, almeno nelle fasi iniziali, come pure piazzeforti in territorio nemico, conteso o da poco conquistato, tali da rispondere prima di tutto a esigenze di carattere strategico-militare, ben illustrate dalle fonti, per caposaldare aree di incerto controllo. Su queste primarie necessità si innestano anche istanze e presenze civili, che stentano però a decollare e a consolidarsi per molti decenni, almeno per quanto l’analisi delle realtà archeologiche rivela. Tale netta impressione di una valenza spiccatamente militare delle colonie repubblicane nelle loro prime fasi di vita e di un loro modesto ruolo di aggregatori demici deriva soprattutto dalla perdurante difficoltà di documentare – o dalla effettiva assenza – di alcuna realtà archeologica all’interno delle apparisceni e svettanti linee difensive turrite. Isolati in un territorio non popolato, i nuovi centri vennero nei primi decenni a coincidere con una realtà fisica costituita quasi esclusivamente dal circuito murario. Sembra così di essere quasi di fronte a realtà che tra il 250 e il 150 a.C. almeno – ma forse anche per qualche decennio oltre – preludono a quelli che saranno i centri urbani, ma non sono ancora classificabili e leggibili come vere città, quanto piuttosto fortissime sedi di guarnigioni in cui sparuti gruppi di avanguardie coloniali iniziavano timidamente a dotarsi delle articolazioni urbanistiche complete. Appare questo un paesaggio concretamente rispondente al ricchissimo repertorio letterario e iconografico antico che, dai miti di fondazione alle rappresentazioni musive, faceva del perimetro murato lo strumento costitutivo primo e il segno identificativo della città che anticipava e riassumeva in sé l’interezza della città in divenire. In generale queste considerazioni derivate dalla lettura com parata dei dati archeologici e letterari portano però anche a porre sul tappeto in termini problematici alcune questioni più radicali sul processo di colonizzazione della regione in queste più antiche fasi. 174
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Si è visto infatti come nel difficile clima del secolo compreso tra la fondazione di Rimini (268 a.C.) e il consolidamento di Aquileia (169 a.C.) l’assetto dei centri definiti «coloniali» mostra concrete preoccupazioni di ordine militare che appaiono ben superiori alle evanescenti tracce di una reale colonizzazione, intesa come progetto politico-demografico o di acquisizione delle risorse agrarie. Ad accrescere l’esigenza di riflessione su questo punto stanno i dati, che qui possono solo essere richiamati brevemente, sulle presenze nel territorio delle colonie, che dovette costituire la base agricola del processo di colonizzazione. Come dimostra da tempo la ricerca archeologica, il panorama dei documenti relativi all’occupazione delle campagne è desolatamente vuoto per tutti i decenni a cavallo tra III e II sec. a.C. e inizia a mostrare qualche presenza solo molti decenni dopo, mai prima della fine del II sec. a.C. e con buona intensità solo con l’ultimo secolo della Repubblica 46. La critica è divisa sulle ragioni di tali assenze: tendenzialmente si cerca di interpretare il dato alla luce della difficoltà di individuare sul territorio tracce di insediamenti iniziali a carattere strutturale «debole», ma presumiubilmente presenti; altrimenti è però anche stato proposto che, per un lungo periodo dopo la fondazione dei centri, i coloni non abbiano realmente vissuto il territorio e ne abbiano fruito solo a partire da residenze urbane ben più protette. Ma anche sulla eventuale presenza dei coloni nei centri fortificati emergono dubbi, come sottolineato brillantemente dal collega Ghiotto, che dimostra come la superficie delle più antiche colonie latine e romane poteva ospitare un numero percentualmente molto limitato delle teoriche deduzioni. Il percorso fin qui seguito di lettura degli insediamenti repubblicani stimola in chiusura alcune succinte considerazioni di metodo. Se l’interazione tra fonti letterarie e archeologiche sembra poter contribuire per molti aspetti a rileggere con profitto il quadro insediativo della regione nella fase repubblicana, è anche vero che la strada verso una lettura storica organica del fenomeno di colonizzazione e romanizzazione è ancora resa complessa per 46 Su questo problema e le interpretazioni in merito vedi l’importante saggio di Pelgrom 2008 e il più ampio lavoro di Pelgrom 2014.
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alcune incompatibilità tra dato materiale e tradizione testuale apparentemente non facili da risolvere. Su queste aporie appare decisamente necessario dare vita a nuovi progetti di ricerca volti a scandagliare i territori e le città alla ricerca di dati che illuminino un universo coloniale repubblicano ancora in buona parte sfuggente.
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J. BONETTO
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LA COLONIZZAZIONE REPUBBLICANA DELLA PIANURA PADANA
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Abstracts This paper aims to explore Livy’s contribution to the understanding of a crucial phase in the history of northern Italy, that is, the period which is commonly labelled with the much-debated term of ‘Romanization’, and which starts in the third century bc. In particular, a comparison between the most recent archaeological evidence and information provided by Livy’s account helps to highlight important aspects of the settlement of Roman colonies in northern Italy, which reflects Rome’s increasing political and economical influence on the region. Il capitolo mira a evidenziare il contributo dell’opera liviana nello studio di una fase storica fondamentale del nord Italia, vale a dire il complesso di fenomeni che interessa la regione a partire dal III sec. a.C. e che viene comunemente, e troppo semplicisticamente, definito «romanizzazione». In particolare, l’incrocio dei più recenti dati archeologici e delle informazioni fornite dal resoconto liviano aiutano a illuminare importanti aspetti del processo di fondazione di colonie romane, che riflette la crescente influenza politica ed economica di Roma nella regione.
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MONICA BAGGIO – MONICA SALVADORI
LIVIO COME FONTE PER LA STORIA DELL’ARTE ANTICA LINEE DI RICERCA «Erigere un monumento è un atto solenne e meditativo … le passioni andrebbero smorzate, le emozioni controllate» 1
Introduzione In occasione dell’istituzione del Centro Studi Liviani a Padova si è impostata una prima riflessione sulla possibilità di indagare il testo di Tito Livio dalla prospettiva dello storico dell’arte antica, allo scopo di evidenziare tracce di un rapporto con la cultura artistica romana. Q uesto intervento si pone sulla linea di un ricco filone di ricerca, da tempo maturato all’interno del Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Padova, che studia il repertorio figurativo greco-romano anche attraverso la documentazione letteraria. Ricordiamo brevemente che tale approccio alle fonti classiche è già stato adottato nell’edizione delle Immagini di Filostrato Minore 2 e in numerosi contributi all’interno del Progetto MArS. Mito Arte e Società nelle Metamorfosi di Ovidio 3. Lo scopo di queste operazioni non è certamente quello di «evidenziare i rapporti di forza che esistono fra narrazione e tradizione figurativa» 4, bensì di comprendere, grazie al supporto dei testi letterari, le dinamiche di creazione e diffusione del repertorio figurato in una determinata società 5.
1 W. Wordsworth, Upon Epitaphs, 1810 cit. in M. Strand, Il monumento, Roma 2010, 95 (trad. it. di D. Abeni e M. Egan). 2 Ghedini et alii 2004. 3 Numerosi contributi in Eidola 8, 2011; Colpo – Ghedini 2012; Salvo 2015. 4 Ghedini 2011, 180. 5 Ricca la letteratura sul rapporto tra testo narrato e testo rappresentato: si veda, tra gli altri, Ghedini 2006.
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M. BAGGIO – M. SALVADORI
In relazione al testo di Livio è bene tuttavia sottolineare sin da subito alcuni aspetti: – manca una parte consistente dell’opera dello storico e, in particolare, i libri dell’età a lui contemporanea: ne consegue che non è fattibile individuare quelle che possono essere delle «citazioni figurative», comprese all’interno del testo, derivate dall’appartenenza ad un medesimo ambiente culturale 6; – solo raramente si trovano riferimenti a determinati soggetti artistici, spesso comunque solo laconicamente indicati; – quand’anche Livio faccia riferimento a un prodotto artistico, si tratti di pittura o di scultura, non ci consegna mai una descrizione della composizione dell’opera nel suo complesso, comprensiva cioè dello schema iconografico relativo ai personaggi e ai loro attributi, delle modalità di impaginazione della scena, delle caratteristiche dell’ambientazione, elementi questi fondamentali al fine di istituire confronti iconografici pertinenti con il repertorio figurativo noto. Se dunque l’analisi delle possibili suggestioni iconografiche offerte da Livio nei suoi Ab urbe condita libri costituisce un aspetto di difficile trattazione all’interno dell’opera dello storico patavino, in linea con quelle che sono le finalità della sua produzione letteraria, tuttavia un qualche margine di intervento per lo storico dell’arte potrebbe aprirsi in alcuni particolari contesti che potremmo definire ‘culturali’. A questo proposito, vale la pena ricordare quanto scriveva Giovanni Becatti nella sua Premessa al denso saggio Arte e gusto negli scrittori latini edito oramai alla metà del secolo scorso (1951): l’archeologo e storico dell’arte sottoli neava 7 come anche «gli scarsi e occasionali accenni critici, i rari giudizi artistici presenti negli scrittori romani se offrono un limitato interesse quanto all’evoluzione del problema estetico in se stesso, rimangono documenti del gusto e di storia della critica
6 Ricordiamo che si è conservata la prima decade (libri 1-10, che arrivano alla terza guerra sannitica, 293 a.C.), i libri 21-45 (terza, quarta e parte della quinta decade) relativi agli avvenimenti della seconda guerra punica (218 a.C.) fino al termine della guerra contro la Macedonia (167 a.C.). Dei libri perduti si sono conservate le Períochae, brevi riassunti composti tra il III e il IV secolo d.C. 7 Becatti 1951, VI.
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d’arte e, come tali, servono anche a chiarire l’ambiente intellettuale in cui si attuò il linguaggio figurativo» 8. Per quanto riguarda Livio, ci par di capire, a una prima em brionale analisi, che i riferimenti ai manufatti artistici si inseriscono sempre all’interno di una sequenza di res gestae per la ricostruzione delle quali – come indica in maniera programmatica nella Praefatio agli Ab urbe condita libri – l’autore afferma che ciò che è salubre e fruttuoso (salubre ac frugiferum) è la possibilità di contemplare insegnamenti di ogni genere (omnis exempli documenta) sotto forma di immagini famose (in inlustri monumento) 9, dove – a nostro parere – il monumentum diventa lo strumento, l’oggetto materiale, attraverso cui si manifesta il documentum. M. B. – M. S.
Initium mirandi Graecorum artium opera Nei libri 1 e 2 Livio ci consegna alcune generalissime linee relative alla storia della produzione figurativa medio-repubblicana, avendo ben chiaro il fatto che in Italia e a Roma – citando Bianchi Bandinelli – «non vi fosse una elaborazione formale originale» 10, ma che la cultura artistica della città in questa fase attingesse a prodotti tanto etruschi quanto greci: nel libro 1, i capp. 53-56 sono dedicati al primo edificio monumentale abbastanza noto di Roma, il tempio di Iuppiter Optimus Maximus Capitolinus, espressione della componente etrusca dell’arte romana. Per quanto lo storico ometta qualsiasi dato informativo sull’edifico, 8 Id., VII: «fra i molti aspetti di una civiltà e di un momento storico l’arte è forse l’indice più sensibile, rivelatore della natura e della sostanza di questi fenomeni spirituali e sociali dell’umanità, sicché il suo studio non è passatempo erudito ma uno dei mezzi per comprendere il complesso problema della nostra stessa vita…»; mentre, poco oltre, lo studioso ribadisce: «possiamo rivolgerci [alle fonti letterarie] anche per cogliervi i riflessi del gusto, della cultura artistica, dell’interesse al problema estetico, della teoria e della critica d’arte nel mondo antico, onde poter meglio chiarire ed intendere l’ambiente in cui l’opera si concretò e da cui prese vita» (Becatti 1951, 1). 9 Cf. Praef. 10 hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri. Inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites. 10 Citazione da Bianchi Bandinelli 1970-1971, 214. Il contributo si rivela ancora fondamentale in relazione al problema dell’origine dell’arte figurativa a Roma.
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ne ricorda ampiamente il milieu etrusco col voto iniziale di Tarquinio Prisco 11 e la successiva attività di Tarquinio il Superbo, mentre di particolare rilievo appare il riferimento ai fabris undique ex Etruria accitis cioè a quegli ‘artefici fatti venire da ogni parte dell’Etruria’, indicativo della presenza in città di maestranze straniere. Poco oltre Livio aggiunge un dettaglio di natura sociale, rendendo noto il ricorso non solo al denaro pubblico ma anche al lavoro coatto della plebs, come atto di pietas verso la divinità: non pecunia solum ad id publica est usus sed operis etiam ex plebe 12. La componente eclettica delle maestranze operanti a Roma, foriera di quegli elementi formali di differente origine che diedero inizio all’arte romana, risulta a seguire da 2, 4, 10, dove Livio ci parla della statua fatta a Roma in onore della dea Cerere, collocabile cronologicamente nella prima metà del V secolo a.C. La statua fu eretta col denaro del console Spurio Cassio, ucciso forse dal padre perché accusato di aspirare alla tirannide: peculium filii Cereri consecravisse; signum inde factum esse et inscriptum: «Ex Cassia familia datum»; sappiamo da Plinio che in realtà questa fu la prima statua in bronzo di Roma. Il carattere greco del culto e l’impiego del bronzo, in rottura con la tradizione delle statue in terracotta, suggerisce a detta dei più il ricorso ad artigiani greci per la decorazione del tempio 13. Ma è soprattutto in Livio 25, 40, 1-3 che emerge il determinante peso culturale esercitato dalla cultura artistica greca su quella romana. Il passo, assai citato in letteratura, racconta la presa di Siracusa ad opera del console Marco Claudio Marcello nel 212 a.C., che si configura come un vero e proprio passaggio epocale nella storia della cultura artistica romana 14:
L’evento è ricordato a 1, 38, 7 et aream ad aedem in Capitolio Iovis, quam voverat bello Sabino, iam praesagiente animo futuram olim amplitudinem loci, occupat fundamentis. 12 1, 56, 1. Da Plinio il Vecchio (nat. 35, 12, 157) sappiamo che l’apparato scultoreo, composto da quadrighe fittili collocate sopra il tetto, e la statua di Giove in terracotta furono opera dell’artigiano Vulca. 13 Nel tempio della dea Cerere sull’Aventino, dove era custodito il tesoro della plebe, la statua era la più antica realizzata a Roma in questo materiale. 14 Come ci racconta anche Plut., Marc. 21; cf. Belloni 1996; Papini 2004. 11
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Dum haec in Hispania geruntur, Marcellus captis Syracusis, cum cetera in Sicilia tanta fide atque integritate composuisset, ut non modo suam gloriam sed etiam maiestatem populi Romani augeret, ornamenta urbis, signa tabulasque, quibus abundabant Syracusae, Romam devexit, hostium quidem illa spolia et parta belli iure; (2) ceterum inde primum initium mirandi Graecarum artium opera licentiaeque huius sacra profanaque omnia vulgo spoliandi factum est, quae postremo in Romanos deos, templum id ipsum primum, quod a Marcello eximie ornatum est, vertit. Visebantur enim ab externis ad portam Capenam dedicata a M. Marcello templa propter excellentia eius generis ornamenta, quorum perexigua pars comparet 15.
La conquista fruttò, come è noto, un bottino ricchissimo che egli fece sfilare durante la sua ovatio e, probabilmente, già durante il precedente trionfo sul Monte Albano 16. Vale subito la pena notare come il testo di Livio, al pari di altre fonti antiche a lui contemporanee 17, non scenda nei particolari della descrizione degli oggetti portati in trionfo (un atteggiamento questo spiegabile anche col fatto che del bottino siracusano doveva essersi già persa una precisa memoria e che buona parte degli oggetti doveva già essere stata rimossa dal tempio: quorum perexigua pars comparet) 18. Egli parla di ornamenta … signa tabulasque (25, 40, 1) 19 cui aggiunge, quando descrive l’ovatio, il simulacrum captarum Siracusarum, argenti aerisque fabrefacti vis, alia suppellex, pretiosa vestis e multa nobilia signa 20. Il passo si rivela interessante per più ordini di motivi a partire innanzitutto dal significato dell’impresa, che – come viene da più parti sottolineato – va ben oltre la con15 Sul bottino di Siracusa si veda anche 26, 31, 9 ego, patres conscripti, Syracusas spoliatas si negaturus essem, numquam spoliis earum urbem Romam exornarem. 16 Le opere vennero in seguito collocate nel tempio di Honos et Virtus, eretto ad portam Capenam. Si veda anche Cadario 2005, 149. Sull’ovatio, si veda Flower 2000. 17 Ad esempio, Cicerone (rep. 1, 21-22) ricorda solo una sphaera, opera di Archimede, posta da M. Claudio Marcello all’interno del tempio di Virtus. 18 Sul trionfo di Marcello e sull’analisi dei monumenti onorari e delle dediche di bottino da parte della gens dei Claudi Marcelli, si rimanda al denso contributo di Cadario 2005. 19 Plut., Marc. 21, 1 e 30, 4, che parla rispettivamente di κάλλιστα … ἀναθημάτων e ἀνδριάντες … καὶ πίνακες. 20 Cf. 26, 21, 7-8.
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quista militare: Livio con il termine primum (40, 2) non intende un termine cronologico assoluto 21 quanto piuttosto il primo importante contatto tra Roma e la realtà artistica degli originali greci 22; l’initium mirandi Graecorum artium opera è espressione di quella rivoluzione culturale ed artistica che investì il mondo romano grazie ai bottini giunti a Roma in seguito alle conquiste, che si tradusse in una capillare penetrazione di forme greche, in grado di dar vita ad un processo di ellenizzazione dell’arte ufficiale che vede costituirsi un solido intreccio tra forma, rappresentazione ed ideologia. Livio annota dunque una situazione nuova nella cultura romana: l’aspetto della preda come bene economico si integra con l’interesse estetico (40, 3 propter excellentia), rivelando un approccio completamente nuovo all’arte da parte dei Romani. Inoltre Livio stesso – potremmo dire – riconosce per la prima volta un uso intenzionale delle opere d’arte (40, 1 ut non modum suam gloriam sed etiam maiestate populi romani augeret) 23, vale a dire il valore politico di un bottino di guerra e la possibilità di sfruttarne il valore artistico sia sul piano della propaganda personale che sul piano dei cittadini, poiché le statue venivano ad ornare Roma 24. A posteriori, Livio sembra certificare che l’uso intenzionale delle opere d’arte ad ornamento della città, inaugurato da Marcello col bottino di Siracusa, ha dato il via a quella gara all’impiego di opere come segno di distinzione e di autorappresentazione che caratterizzeranno gli ultimi due secoli della Repubblica. Acutamente G. G. Belloni, cui dobbiamo un’interessante analisi sulle implicazioni culturali di questo passo, sottolinea come Livio veda molto bene la connessione tra arte e politica. Lo storico infatti, mentre annota con estrema attenzione le praedae, non cita quasi mai le opere che ne fanno parte, quasi che la conquista della cul21 Sappiamo, infatti, che già nel trionfo di Curio Dentato del 275 a.C. erano state mostrate per la prima volta opere d’arte e d’artigianato di Taranto. 22 Nonostante, come ha ben dimostrato Coarelli 1990, la cultura artistica greca fosse già da tempo ben rappresentata a Roma. Scrive lo studioso «la stessa formazione di una cultura artistica italico-romana è inseparabile, fin dalle sue prime origini, da modelli ellenistici» (159). 23 Come già ben messo in evidenza da Gruen 1992. 24 Cf. Cadario 2005.
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tura sia considerata alla stregua della conquista territoriale 25. Sempre in 25, 40 Livio annota la scelta di Marcello di esporre pubblicamente parte del tesoro siracusano nel tempio di Honos et Virtus 26, delineando così implicitamente da un lato una destinazione museale dell’edificio, che lo storico ricorda visitato anche da stranieri 27, dall’altra, in accordo col punto di vista del Gruen 28, una funzione di questo contenitore quale «medium artistico» funzionale ad esprimere carattere, religione e potere di Roma 29. Q uello di Siracusa è indubbiamente tra i più noti dell’incessante serie di trionfi che recano a Roma un numero impressionante di opere d’arte, di oggetti di pregio, di metalli preziosi, di stoffe che suggeriscono alla città un intero modello culturale 30, dove tuttavia totale è la mancanza di riferimenti formali, tematici e relativi ad artisti e produzioni. Ciò si registra in maniera analoga in molti altri passi. Ad esempio, in relazione al senatusconsultum del 210 a.C., che decretava la sorte della città di Capua e dei suoi abitanti, Livio (26, 34, 12) ricorda la presa di signa e statuae di bronzo durante il saccheggio (signas e statuas aeneas, quae capta de hostibus dicerentur, quae eorum sacra ac profana essent, ad pontificum collegium reiecerunt). Nel 209 a.C., due anni dopo la presa di Siracusa, Q uinto Fabio Massimo in occasione dell’occupazione romana di Taranto consente alle truppe di saccheggiare la città, all’epoca straordinariamente ricca di opere d’arte 31: … tum ab caede ad diripiendam Nel patto d’intesa tra Roma e la lega etolica del 215 a.C., sorto in opposizione all’asse che si era costituito tra Filippo V di Macedonia e Annibale, Livio annota nelle clausole l’attenzione romana rivolta alle prede di guerra (26, 24, 11 alia omnis praeda populi romani esset). 26 All’interno del sistema dei valori romano i concetti astratti di honos e virtus occupano un ruolo molto importante: il primo era una diretta conseguenza della seconda, che si presentava come una qualità personale indipendente dalla nascita: cf. Flower 2000, 41; Gros 1979, 105; Cadario 2005, 151. 27 Si veda anche Cadario 2005, 149. 28 Cf. Gruen 1992. 29 Tale destinazione si mantenne solida ancora sino ad Augusto, che in maniera significativa stabilì che gli oggetti d’arte scampati alle trafugazioni e ancora presenti nel tempio venissero ‘inventariati’ restituendo così a Roma uno dei suoi musei più antichi (Pape 1975, 6 n. 6). 30 Ciò è ben riassunto dal poe ta Orazio in un passo famoso delle Epistole (2, 1, 156): Graecia capta ferum victorem cepit. 31 27, 16, 7-8. 25
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urbem discursum. Triginta milia servilium capitum dicuntur capta, argenti vis ingens facti signatique, auri octoginta tria milia pondo, signa, tabualae, prope ut Syracusarum ornamenta aequaverint … Si tratta di quei signa ingentis magnitudinis, che solo grazie a Plinio riconosciamo – come vedremo in seguito – nell’Ercole meditante di Lisippo, collocato sull’acropoli, e nello Zeus, posto nell’agorà 32. Il trionfo di Tito Q uinzio Flaminino 33 su Filippo V di Macedonia (34, 52, 4-12) fu il primo in cui vennero mostrate opere provenienti dalla Grecia vera e propria; Livio afferma che la maggior parte di esse venivano dai possessi del re e in minor misura dai saccheggi di altre città: die primo arma tela signaque aerea et marmorea transtulit, plura Philippo adempta quam quae ex civitatibus ceperat; secundo … facti vasa multa omnis generis, caelata pleraque, quaedam eximiae artis; et ex aere multa fabrefacta; ad hoc clipea argentea decem. Come è noto, nello sviluppo dell’arte decorativa romana dovettero influire in maniera profonda i trionfi asiatici: nel 189 a.C. si colloca quello di Lucio Cornelio Scipione Asiageno su Antioco III di Siria 34. L’elenco traduce una lunga e colossale operazione culturale che raggiunge il punto più alto nella guerra culminata nella conquista dell’Asia minore ellenizzata, che riversò su Roma quanto di meglio era stato prodotto 35. Nel 187 a.C. M. Fulvio Nobiliore conquistò Aliarto: il passo relativo al bottino di guerra informa che tutte le opere d’arte che abbellivano la città furono trasportate a bordo delle navi, mentre la città fu distrutta dalle fondamenta: ornamenta urbis, statuae et tabulae pictae, et quidquid pretiosae praedae fuit, ad naves delatum: urbs diruta a fundamentis (42, 63, 11). Pur in maniera occasionale e discontinua, nei racconti dei trionfi Livio costituisce una testimonianza interessante, come da tempo ha ben evidenziato il Coarelli, anche dell’arrivo di arti Plin. nat. 34, 18, 40. Già protagonista del saccheggio di Eretria, come narra Livio in 32, 16, 15-17. 34 37, 59, 3-5 tulit in triumpho signa militaria ducenta viginti quattuor, oppidorum simulacra centum triginta quattuor, eburneus dentes mille ducentos triginta unum, aureas coronas ducentas triginta quattuor … vasorum argenteorum omnia caelata erant. Si veda in proposito anche Plinio (nat. 35, 7, 22 e 37, 26 12) e Valerio Massimo (3, 6, 2). 35 37, 49, 3-5; cf. anche Plin. nat. 34, 16, 34. 32 33
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sti greci a Roma nel corso del II secolo a.C. 36, affluiti dalla Grecia e dall’Oriente ellenizzato. In particolare, da 39, 22, 1-2 sappiamo che nel 186 a.C. M. Fulvio Nobiliore reca con sé a Roma multi artifices ex Graecia … honoris eius causa 37, in linea con quanto Livio certifica già per il 188 a.C. (39, 22, 9-10), quando in connessione col trionfo dell’Asiageno, arrivarono a Roma artifices microasiatici 38 rendendo così la città terra d’incontro tra artisti di tradizioni diverse, in grado di soddisfare le esigenze di una nobilitas sempre più ellenizzata 39. Un riflesso della temperie culturale che si andò delineando a Roma a partire dal secondo quarto del II secolo a.C. è quello relativo alle riflessioni moraleggianti indotte dall’incessante susseguirsi dei bottini di guerra, tema sul quale non ci soffermiamo. Nel passo relativo alla presa di Siracusa (25, 40, 2) lo storico sottolinea la negatività dell’evento, soprattutto per le modalità di acquisizione dei manufatti greci 40, duramente condannato nel fiero e strenuo discorso di Catone il Censore contro la proposta di abrogazione della lex Oppia (34, 4, 4): Infesta, mihi credite, signa ab Syracusis inlata sunt huic urbi. Iam nimis multos audio Corinthi et Athenarum ornamenta laudantes mirantesque et antefixa fictilia deorum Romanorum ridentes 41. Tuttavia è a seguito dei trionfi di Scipione Asiageno su Antioco nel 189 a.C. e di Manlio Vulsone sui Galati dell’Asia Minore nel 187 a.C. che Livio indica il diffondersi della luxuria asiatica (39, 6, 7): Luxuriae enim peregrinae origo ab exercitu Asiatico invecta in urbem, colpevole di aver determinato la rovina dei costumi. Durante quest’ultimo trionfo, a detta dello storico, i soldati furono i primi ad importare a Roma Fondamentale rimane Coarelli 1996. Altre fonti in Plin., nat. 35, 135 e Plut., Aem. 6, 9. 38 Si dibatte se si tratti di artisti veri e propri o di attori cf. Coarelli 1990, 640 ss. Nella prima metà del II a.C. un Marcus Plautius, pittore asiatico, doveva aver lavorato agli affreschi del tempio di Giunone Regina ad Ardea. 39 Coarelli 1990, 640. 40 Non dimentichiamo che Siracusa venne conquistata in quanto città nemica e le opere vennero acquisite in modo pienamente legittimo, belli iure (25, 40, 1). 41 In linea col pensiero del tempo: si veda, ad es., quanto scrive Virgilio nel l’Eneide (6, 847 ss.). Sull’inizio del lusso a Roma cf. anche Piso FRHist 9F36; Sall., Cat. 5, 8; Plin., nat. 34, 14; 37, 12; Aug., civ. 3, 21; Dio Cass. 19 fr. 64. Sulla veridicità o meno del discorso pronunciato da Catone si veda Papini 2004, 351 n. 24, con bibliografia. 36 37
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letti decorati in bronzo (lectos aeratos), coperte preziose (vestem stragulem praetiosam) 42, drappeggi (plagulas) e altri tessuti (alia textilia), mentre Plinio ricorda altri oggetti di suppellettile lussuosa, come tavole a un piede (monopodia) e abaci (abacos) 43. M. B.
Imagines – monumenta In questa fase assolutamente iniziale della ricerca abbiamo selezionato una serie di passi relativi a specifiche categorie di manufatti che Livio cita nella sua narrazione. In particolare ci concentreremo su due categorie: le pitture e le statue, onorarie e divine. Per quanto riguarda le pitture, in diverse circostanze Livio usa il sintagma tabulae pictae (38, 9, 13; 42, 63, 11; 45, 39, 5). Con tale definizione, nella letteratura critica 44, si intendono generalmente quelle pitture che venivano esibite nei cortei trionfali come preda, alla stregua di signa e statuae, oppure, più specificamente, pitture che illustravano le imprese dei vincitori sui vinti 45: con tali opere erano mostrate ai cittadini le imprese militari e le vittorie che Roma andava conducendo in paesi lontani, ottenendo il duplice risultato da un lato di esaltare le gesta dei condottieri romani dall’altro di informare il popolo sullo svolgimento degli eventi e sugli aspetti di natura geografica di territori non altrimenti noti. La conoscenza di questa classe di materiali, nella quale gli studiosi sono abbastanza concordi nel riconoscere i prototipi dell’arte storica romana, rimane tuttavia assai lacunosa per l’eterogeneità dei dati. Livio ricorre al sintagma tabula picta, nel senso generico di quadro, in diverse occasioni, tutte riferibili ad elencazioni descrittive di bottini: nel contesto della presa di Ambracia 46 a 38, 9, 13 signa aenea marmoreaque et tabulae pictae, quibus ornatior Ambracia, 44 45 46 2009. 42 43
Cf. 39, 6, 7-9. Plin., nat. 34, 8, 14; cf. anche 37, 6, 12. Cf. Tortorella 2010 con bibliografia precedente. Cf. ad es. Ioseph., Iud. 7, 143-152. Sull’intervento urbanistico di M. Fulvio Nobiliore, cf. da ultimo Gobbi
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quia regia ibi Pyrrhi fuerat, quam ceterae regionis eius urbes erant, sublata omnia auectaque… 47; in relazione alla presa di Aliarto, durante lo scontro con la Macedonia del re Perseo, a 42, 63, 11 ornamenta urbis, statuae et tabulae pictae, et quidquid pretiosae fuit, ad naves delatum 48; in occasione del bottino tolto a Perseo a 45, 39, 5 signa aurea marmorea eburnea, tabulae pictae textilia, tantum argenti caelati tantum auri, tanta pecunia regia 49. In altro contesto (43, 4, 7) si ricorda l’azione del pretore Lucrezio che tabulis quoque pictis ex praeda fanum Aesculapi exornavit. Un altro passo (24, 16, 16-19) offre invece una citazione di un’opera pittorica dedicata ad illustrare res gestae, quando Livio ricorda che nel 214 a.C. il console Tiberio Sempronio Gracco commissionò la realizzazione di una pittura sulle pareti del tempio di Libertas sull’Aventino (fatto costruire dal padre, console del 238 a.C. con i soldi delle multe): si tratta della scena del banchetto dei soldati vittoriosi a Benevento durante la seconda guerra punica. Come dice Livio, che in questa circostanza appare particolarmente descrittivo, i volontari (volones) banchettavano pubblicamente portando il pileo o col capo cinto di lana bianca, chi sdraiato, chi in piedi, nello stesso tempo impegnati a servirsi e a cibarsi. Lo stesso Gracco dedicò la raffigurazione del convivium come simulacrum celebrati eius diei (16, 19). Non sappiamo se il ricordo dell’avvenimento fosse affidato a una tabula o a una pittura parietale, il termine simulacrum rimane ambiguo, certo è che si tratta del riferimento a una pittura narrativa, pur piuttosto atipica in quanto non connessa esplicitamente a un trionfo, che mette in scena tuttavia i temi della virtus e della libertas 50 e si pone in linea con quanto sappiamo dell’esempio più antico di pittura trionfale esposta in pubblico e all’aperto, la cd. Tabula Valeria, ‘Le statue di bronzo e di marmo e le tavole dipinte, di cui Ambracia era più ornata che le altre città di quella regione, poiché era stata la sede della reggia di Pirro, furono tutti tolti e portati via’ (trad. dell’autore). Q ui Livio forse fraintende Polibio (21, 30, 9), che usa il temine βασίλειον con significato di capitale. 48 ‘Gli ornamenti delle città, statue e le tavole dipinte e tutto quanto c’era di prezioso nel bottino fu portato alle navi’ (trad. dell’autore), mentre la città venne distrutta sin dalle fondamenta. 49 ‘Le statue di oro, di marmo, di avorio, le tavole dipinte, le stoffe, così gran quantità di argento sbalzato e oro, così grande quantità di denaro appartenuto o destinato al re’ (trad. dell’autore). 50 Cf. Tortorella 2010 e già Koortbojian 2002. 47
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un quadro rappresentante la vittoria di Manio Valerio Massimo Messala su Ierone e i Cartaginesi, che il generale avrebbe collocato sul lato sinistro della Curia Hostilia, dopo il trionfo celebrato nel 264-263 a.C. 51. Il medesimo genere di rappresentazione pittorica a sfondo storico potrebbe trovare conferma in un altro passo di Livio (41, 28, 8-10), celebrativo del trionfo di Tiberio Sempronio Gracco sui Sardi: eodem anno tabula in aede matris Matutae cum indice hoc posita est … Cuius rei ergo hanc tabulam donum Iovi dedit. Sardiniae insulae forma erat, atque in ea simulacra pugnarum picta. Nessuna fonte ci informa sullo stile figurativo di queste tavole, in cui molto probabilmente elementi del paesaggio, visti dall’alto, potevano fondersi con raffigurazioni animate viste ad altezza occhio 52, con una modalità che già risponde forse ad una precisa volontà di lettura simbolica delle immagini. Si ipotizza che la tabula avesse l’aspetto di una carta geografica della Sardinia (la parola forma designa la carta, spesso a grande scala, in particolare presso gli agrimensores), in cui erano dipinti i simulacra pugnarum. Era anche dipinta un’iscrizione, che, come un index rerum prospere gestarum, sintetizzava che cosa era raffigurato, costituendo così una relazione sommaria delle operazioni. Come ben S. Tortorella sottolinea 53, il testo di Livio mette in luce una delle caratteristiche della pittura a sfondo storico narrativo, cioè la dimensione geografica, che si colloca sulla linea di altri esempi di cui abbiamo testimonianza però presso altri scrittori: Varrone ricorda che, quasi un secolo prima, nel 268 a.C., un altro Sempronio, Sofo, aveva fatto costruire dopo il suo trionfo un tempio alla Tellus, contestualmente o successivamente decorato da una Italia picta 54; mentre, come ricorda Plinio 55, nel 146 a.C. L. Ostilio Mancino fece apporre una grande tavola dipinta nel foro romano su cui era raffigurata la zona e l’assedio di Cartagine durante la terza guerra punica.
Cf. Plin., nat. 35, 22. La Rocca 2008, 20. 53 Sul rapporto fra imprese militari e carte geografiche cf. Tortorella 2008, 57-58. 54 Cf. Varr., rust. 1, 2, 1. 55 Cf. Plin., nat. 35, 23. 51 52
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Sul piano dei manufatti, un documento insostituibile e prezioso, che offre un riscontro concreto alle poche testimonianze letterarie relative a questo genere di pittura, è l’affresco che decorava la tomba di Fabius/Fannius, rinvenuta nella necropoli del l’Esquilino, con la rappresentazione di episodi delle guerre sannitiche 56. Due personaggi, indicati dalle didascalie dipinte con i nomi probabili di M. Fannius e di Q . Fabius, compaiono in scene diverse organizzate su più registri sovrapposti: davanti alle mura di una città e al cospetto dell’esercito, in una scena di dextrarum iunctio, in un combattimento. Diverse sono le ipotesi interpretative proposte: potrebbe trattarsi degli episodi conclusivi di una delle guerre sannitiche con la resa di Marco Fannio al generale Q uinto Fabio Rulliano, console per cinque volte tra il 322 e il 295 a.C., o al di lui omonimo figlio Q uinto Fabio Gurges, console nel 292 e nel 276 a.C. 57; o, sempre nel quadro delle guerre sannitiche, potrebbe essere riconosciuta la consegna di una hasta pura, da parte di Q . Fabius a M. Fannius, soldato valoroso che, appartenente a una gens plebea nota solo a partire dagli anni ottanta del II secolo a.C., si sarebbe distinto durante le campagne militari, meritando prima l’onore della massima onorificenza militare e poi quello della sepoltura pubblica 58. Sempre dalle vicinanze della Porta Esquilina vennero rinvenuti i lacerti di affreschi provenienti dalla cd. tomba Arieti, riferibile all’età medio repubblicana (ante fine III sec. a.C.), decorata da scene di soggetto storico, legate al trionfo di un magistrato 59: sulle pareti della tomba, oltre alla rappresentazione di un combattimento, era dipinta una processione trionfale, della quale rimangono solo esigui frammenti, che richiamano la riflessione di G. Becatti, secondo cui si tratta di un genere di espressione artistica «che, se informava i Romani di avvenimenti gloriosi e agiva
Sulla tomba e il programma decorativo, cf. Talamo 2008 con bibliografia precedente. 57 Cf. Coarelli 1973, 200-208. 58 Cf. La Rocca 1984, contra Coarelli 1996, 29. 59 Cf. Canali De Rossi 2008; già Coarelli 1976. Secondo Canali De Rossi 2008, 5 il beneficiario della Tomba Arieti doveva essere un uomo molto autorevole, che viene individuato in A. Atilio Calatino, due volte console, dittatore, censore e, secondo un aneddoto, nipote per discendenza diretta di Q . Fabio Rulliano. 56
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in senso culturale ed etico, non poteva certo rappresentare una elevata educazione artistica, perché scarso doveva essere il valore dei cartoni colorati» 60. Le pitture storiche dovevano contribuire dunque a fissare immagini di eventi importanti al fine di determinare una memoria collettiva, che, secondo Maurice Halbwachs, è essenzialmente un fenomeno di natura sociale, in cui tutto dipende dall’interazione fra rappresentazioni mentali e immagini materialmente sensibili 61. Il valore educativo della memoria costituisce senza dubbio uno dei caratteri costitutivi e più peculiari della antropologia romana e in tal senso è esaustiva – come già si è visto – la Praefatio di Tito Livio agli Ab urbe condita libri. La storia per Livio è percepita come un percorso di segni che indirizzano in un certo senso, che danno delle coordinate, che indicano il comportamento da tenere: in sintesi un monumentum. Se da un lato, per potersi fissare nella memoria del gruppo, un concetto, o una verità, deve essere tradotto in forme concrete (eventi, persone, luoghi), dall’altro, queste forme, per continuare a vivere nella memoria di quel gruppo, vengono trasformate a loro volta in nozioni, simboli e prodotti artistici, la cui realizzazione richiede inevitabilmente un processo di selezione e controllo dell’eccesso. Il testo liviano, lo abbiamo già sottolineato, è senza dubbio avaro di informazioni per la nostra curiosità archeologica, tuttavia in alcuni passi è richiamata la tipologia della statua onoraria, dedicata a rappresentare la memoria di personaggi che si sono distinti per eroismo e valore dimostrato in battaglia. Nel libro 2, al caso di Orazio Coclite (10, 1-13), le cui azioni vengono premiate dallo Stato con l’erezione di una stata in comitio posita (10, 12), segue il racconto del patriottismo della giovane Clelia (2, 13, 6-11), prigioniera tra gli ostaggi nell’accampamento etrusco, che – insieme ad un gruppo di coetanee – sfugge al controllo delle sentinelle e, attraversando il Tevere a nuoto, riporta a Roma le compagne. A questo punto, Porsenna richiede la restituzione della fanciulla che, una volta riconsegnata, viene liberata 60 Cf. Becatti 1951, 8. F. Coarelli (Coarelli 1976, 28) ha connesso lo stile sommario delle pitture alla tecnica del l’artista Theodotus, attivo a Roma nella seconda metà del III sec. a.C., ricordato dalle fonti in quanto dipingeva, con un nerbo di bue, figure di Lari danzanti sulle are per le feste Compitali. 61 Halbwachs 2001, 155-162.
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dal re, il quale ne ammira il coraggio. La fanciulla, inoltre, ottiene, la libertà per altri prigionieri e, a dimostrazione del suo spiccato senso civico, sceglie di portare con sé gli impuberes, ovvero gli adolescenti, che avrebbero fornito nuova linfa all’esercito e alla società romana. Lo storico conclude il racconto con una notazione: § 11 pace redintegrata Romani novam in femina virtutem novo genere honoris, statua equestri, donavere: in summa sacra via posita virgo insidens equo. Livio insiste dunque sulla novità della situazione: come l’atteggiamento virile dimostrato da Clelia è un fattore di eccezionalità nell’operato tradizionale del genere femminile, così la risposta concreta dello Stato introduce un elemento di novità nella celebrazione pubblica di un atto coraggioso: alla giovane donna è dedicata una statua posta in summa sacra via, all’inizio, cioè, del foro romano, in un luogo considerato di pertinenza esclusivamente maschile proprio perché legato alle attività politiche dell’Urbe, dalle quali l’elemento femminile è tradizionalmente escluso 62. Ugualmente concordi gli autori antichi si rivelano in relazione all’aspetto della statua: essa rappresentava, infatti, un personaggio insidens equo e proprio l’attribuzione di una statua equestre sarebbe stato motivo dell’interesse espresso dagli autori antichi in relazione alla concessione eccezionale attribuita a Clelia. Altre statue equestri sono citate nelle narrazione liviana, sulla cui rarità in età medio-repubblicana Livio ad es. puntualizza in relazione a quelle erette per Lucio Furio Camillo e Gaio Menio (citate in 8, 13, 9). Ai due consoli, eletti nel 338 a.C., che espugnarono ogni singola città latina del Lazio che si era ribellata, ottenendo la definitiva sconfitta dei Latini, fu concesso l’onore del trionfo e nel foro furono collocate statue che li raffiguravano a cavallo: additus triumpho honos ut statuae equestres eis, rara illa aetate res, in foro ponerentur. O, ancora, quella di Q uinto Marcio Tremulo (in 9, 43, 22), eletto console nel 306 a.C., che affrontò Come ricostruisce Alessandra Valentini (2011, 208), se la tradizione è concorde su questo particolare, con più precisione Plinio, che cita Annio Feziale, colloca la statua presso l’aedes Iovis Statoris, che si trovava nel vestibolo della dimora di Tarquinio il Superbo (la critica non è tuttavia concorde nell’identificazione del luogo del tempio di Giove Statore: in Coarelli 1996, 155-157, è sostenuta una localizzazione lungo la via Sacra, nel luogo di seguito occupato dall’arco di Tito. 62
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gli Ernici e gli abitanti di Anagni, sconfiggendoli facilmente e conquistando la città. Al suo ritorno a Roma, dopo le celebrazioni del suo trionfo sugli Ernici e Anagnini, gli fu dedicata una statua equestre, eretta sempre nel foro, davanti al tempio dei Castori 63. Lo schema dell’opera, molto probabilmente tramandatoci da un aureo di Silla dell’80 a.C. e da una moneta del 56 a.C. di Lucio Marcio Filippo 64, risulta già allineato ai monumenti equestri di Alessandro Magno. È chiaro che nei tre casi citati, il testo di Livio recepisce l’introduzione a Roma di un modello molto diffuso nel mondo greco, la cui fortuna va collegata alle molteplici possibilità che esso offriva alla componente maschile delle società antiche, al fine di un’esaltazione individuale e collettiva: dall’ostentazione di ricchezza alla celebrazione di capacità atletiche e belliche, «fino all’espressione di metafore più concettuali, quali la capacità di controllo degli istinti selvaggi dell’uomo, e quale mezzo, infine, di riconoscimento pubblico di virtù civiche» 65. È invece un tipo statuario diverso quello testimoniato in relazione alla figura del pretore Marco Anicio (23, 19, 18), uno dei protagonisti dell’assedio di Casilino nel 216 a.C., che riportò incolumi a Preneste circa trecento uomini. A testimonianza del valore di quest’uomo, che prima di essere pretore era stato uno scriba, nel foro di Preneste gli verrà dedicata una statua loricata, avvolta nella toga (amicta toga), con il capo velato; inoltre, un’iscrizione bronzea recitava il testo che M. Anicio aveva così sciolto un voto da parte di quei soldati che erano stati di guarnigione a Casilino. La stessa iscrizione venne posta su tre statue collocate nel tempio della Fortuna Primigenia. Possiamo osservare che la scelta di una statua loricata, prestito del mondo ellenistico, doveva conferire un carisma guerriero e un’aura sovrumana, ossia illustrare le qualità personali dell’onorato più che il suo ruolo sociale. In più, la statua di Marco Anicio condensa in una sola immagine altre «doti» dello scriba prenestino: la toga sovrapposta alla lorica, simbolo dell’habitus civile romano per eccellenza, Cf. Cic., Phil. 6, 13; Plin., nat. 34, 23. Il dittatore è raffigurato su di una statua equestre con la mano destra alzata, mentre nel denario di L. Marcius Philippus del 56 a.C. è visibile l’immagine a cavallo di Q . Marcius rex al di sopra delle arcate dell’Aqua Marcia (cf. Caccamo Caltabiano 1999, 71-72; Crawford 1972, 448-449, n. 425). 65 Calcani 1993, 32; cf. anche Calcani 1995. 63 64
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gli conferiva appieno una dignitas e, insieme al capo velato, ne sottolineava la pietas 66. Accanto ai passi degli Ab urbe condita che testimoniano la dedica di statue onorarie, che sigillano i fatti di personaggi di cui si tramanda la memoria, particolarmente importanti si rivelano alcuni passaggi celebri, in cui emergono riferimenti a statue di divinità 67. Anche in questo caso estranee alla prospettiva di Livio sono le descrizioni precise e altrettanto assenti sono riflessioni di tipo estetico, tuttavia si ricavano informazioni relativamente al materiale (terracotta, legno, bronzo, bronzo dorato, oro) alle dimensioni, alla collocazione. Le statue di divinità sono chiamate in causa quali immagini che danno visibile concretezza alla memoria di un evento; sono importanti in quanto sanciscono gli esiti di una sequenza di fatti. Significativo in tal senso è il passo in Livio 5, 22, 3-7, dedicato alla presa di Veio nel 396 a.C. sotto la guida di Camillo. Nella descrizione della conquista della città, è di notevole suggestione il momento in cui una truppa scelta di giovani uomini, purificati dalle abluzioni e vestiti di bianco, penetra nel tempio di Giunone, con il compito di prelevare la statua di Giunone Regina. Grande è la tensione, perché ci dice Livio, nessuna statua, secondo il rito etrusco, poteva essere toccata se non dalla mano di un sacerdote e nessuno dei giovani uomini osava agire. Narra Livio che, ad un certo punto, uno di loro prese coraggio e rivolse esplicitamente la domanda alla statua: 22, 5 vis ne Romam ire, Iuno? A quel punto, continua il racconto, tutti gli altri giovani esultarono perché la dea aveva inclinato la testa. Importante, per le nostre connessioni, è il passaggio in cui Livio offre un’ulteriore dettaglio, dicendo che la statua levem ac facilem translatu fuisse (22, 6). Tale precisazione suggerisce che la statua fosse opera di terracotta, secondo la tradizione etrusca, e la sua leggerezza materiale ne consentisse il trasporto, con l’implicito consenso della dea al rito dell’evocatio (22, 6-7 inde fabulae adiectum est vocem quoque dicentis velle auditam; motam certe sede sua parvi molimenti adminiculis, sequentis 66 Per un’analisi generale del valore dell’habitus nelle statue onorarie, cf. Cadario 2010. 67 Per questo ancora utile è Chevallier – Girod 1970; si veda inoltre Chevallier 1991.
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modo accepimus levem ac facilem translatu fuisse, integramque in Aventinum aeternam sedem suam quo vota Romani dictatoris vocaverant perlatam, ubi templum ei postea idem qui voverat Camillus dedicavit). Importante, nonostante la sua sinteticità, è anche il riferimento in Livio 9, 44, 16 alla statua di Ercole eretta dopo la conquista di Boviano e la ripresa di Sora, Arpino e Cesennia a conclusione della II guerra sannitica. Livio conclude il lungo racconto dei fatti del 305 a.C. richiamando le dimensioni e la collocazione della statua: Herculis magnum simulacrum in Capitolio positum dedicatumque (‘una grande statua di Ercole venne collocata in Campidoglio e lì consacrata’). Livio ci dice unicamente che la statua è di grande dimensioni, ma acquista un ruolo fondamentale nel determinare la memoria collettiva della lunga sequenza di eventi, che vedono la definitiva sconfitta dei Sanniti, attribuita ai consoli Lucio Postumio e Tiberio Minucio, morto in battaglia durante l’assedio di Boviano e sostituito da Marco Fulvio che riporterà la vittoria. In un altro celebre passo, Livio 27, 16, 8, in cui sono narrate le vicende della presa di Taranto (209 a.C.), troviamo un’ulteriore annotazione nei confronti di statue di divinità e delle loro dimensioni. Ci dice Livio che nel saccheggio della città erano stati presi trentamila schiavi, una grande abbondanza di argento coniato, e lavorato, ottantamila libbre d’oro; statue e pitture tante (signa et tabulae), che quasi uguagliarono gli ornamenti tratti da Siracusa. Ma, Livio aggiunge anche che Fabio Massimo si astenne da tale preda con più fermezza d’animo che Marcello (maiore animo generis eius praeda abstinuit Fabius quam Marcellus); infatti, interrogato da uno scriba di cosa volesse fosse fatto degli dèi che erano di colossale grandezza (ingentis magnitudinis), ciascuno raffigurato nell’atteggiamento (habitu) di combattenti, rispose ‘che si lasciassero pure ai Tarantini i loro dèi irati (iratos deos)’. Dunque Livio sembra insistere sugli scrupoli religiosi di Fabio Massimo, più che sulle difficoltà tecniche, che avrebbero impedito di esportare a Roma una statua come il famoso Zeus di Lisippo, la più grande statua dopo il colosso di Rodi secondo Strabone (6, 3, 1). Sappiamo da Plinio (34, 40) che lo Zeus era alto quaranta cubiti (ca. 18 metri) e, più concretamente, egli attribuisce alle sue dimensioni e alla difficoltà del suo trasporto, la scelta di lasciare 198
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la statua a Taranto. Collocato nell’agorà, sappiamo che il dio era rappresentato nell’atto di scagliare il fulmine; un pilastro, posto a breve distanza, garantiva la stabilità ai venti all’enorme simulacro, dotato inoltre di una base mobile 68. L’atteggiamento di rispetto nei confronti degli dèi da parte di Fabio Massimo, tramandataci da Livio, non è sentito in maniera univoca perché da Plinio (ma anche da Strabone 6, 3, 1 e da Plutarco, Fab. 22, 8) sappiamo che il Cunctator non mancò di trasportare a Roma e collocare sul Campidoglio la statua di Eracle, sempre opera di Lisippo, eretta originariamente sull’Acro poli di Taranto e alta più di cinque metri. È noto che l’artista sicionio lo ritrasse in atteggiamento malinconico, mentre si sosteneva il capo con la mano destra sotto il mento. Nel momento della traslazione dell’Eracle a Roma 69, già si trovavano nell’area del Campidoglio, almeno, la già citata statua colossale eretta a conclusione della II guerra sannitica e, stando a Plinio, la statua colossale di Iuppiter, commissionata da Sp. Carvilio Massimo nel 293 a.C., in seguito alla sconfitta dei Sanniti, per la cui realizzazione sarebbe stato impiegato il bronzo delle corazze, degli elmi e degli schinieri indossati dai guerrieri della legio linteata 70. Per le sue dimensioni la statua era visibile dal santuario ‘federale’ di Iuppiter Latiaris sul Mons Albanus (Monte Cavo); se ne deduce che essa doveva trovarsi sul versante orientale del colle capitolino, dove poi sarebbe stato collocato anche l’Eracle colossale di Lisippo. Inoltre, come riferisce Plinio, con il bronzo di risulta dello Iuppiter sarebbe stata eseguita anche una statua del trionfatore, collocata ai piedi del simulacro divino, quasi a porsi sotto la sua protezione. Statue come quelle appena menzionate, o come le altre note dalle fonti per questo periodo, dovevano essere realizzate nelle officine bronzistiche medio-repubblicane Moreno 1971, 289-290. Sulla base delle fonti si ricostruisce «l’avventura» della statua fino al momento della sua distruzione: trasferito da Costantino nel IV secolo d.C. a Costan tinopoli, l’Eracle vi rimase fino agli inizi del XIII secolo, quando andò fuso in occasione dell’assedio della città, avvenuto ad opera dei crociati nel 1204. Lo storico bizantino Niceta Coniate, testimone oculare del saccheggio di Costantinopoli, ci riferisce della distruzione del colosso lisippeo; il bronzo così ottenuto servì per battere moneta (Niceta Coniate, Storia, Sulle statue di Costantinopoli, 5). 70 Plin., nat. 34, 43. 68 69
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attive a Roma e dintorni. Come recentemente è stato ripreso da Gl. Tagliamonte, la loro erezione, all’epoca della prima grande espansione territoriale di Roma, rappresenta un momento importante di quel particolare fenomeno, definito come «lotta per immagini», attraverso il quale la competizione politica fra i principali esponenti delle più illustri gentes romane del periodo trova una delle sue forme di manifestazione. In tal senso, è stato giustamente notato come in questa prospettiva assuma rilievo non tanto la qualità dell’opera, ma il senso del grandioso che da essa promana; e che, nel caso dei bronzi colossali del Campidoglio, questi sembrino quasi gareggiare per dimensioni fra di loro, superandosi a vicenda 71.
Rimanendo nell’ambito della produzione in bronzo, si ricorda il passo 39, 7, 8-9 in cui citando i Ludi romani, celebrati da P. Cornelio Cetego e A. Postumio Albino, Livio ci attesta che un palo poco stabile, che era nel circo, cadde sulla statua della dea Pollenza e la gettò a terra. I senatori allora, per scrupolo religioso, fecero aggiungere un giorno ai ludi e ricollocare due statue invece di una, e un’altra nuova fecero fare dorata (al paragrafo 9 signa duo pro uno reponenda, et novum auratum faciendum). È interessante notare come poco oltre, in Livio 40, 34, 5 relativo agli avvenimenti del 181 a.C. (lo stesso anno della deduzione della colonia di Aquileia), viene ricordato il tempio della Pietà nel Foro olitorio, dedicato dal duumviro M. Acilio Glabrione, che per l’occasione fece erigere in ricordo di suo padre Glabrione una statua dorata, la prima fra quante se ne innalzarono in Italia. Ricorda Livio che era questi che propriamente aveva promesso in voto quel tempio il giorno che aveva concluso alle Termopili la guerra col re Antioco, e ne aveva pure data in appalto la costruzione secondo un senatuconsultus. M. S.
71 Tagliamonte 2009, 387. Accanto alle statue in bronzo, Livio ci tramanda anche la presenza di statue in legno: se in Livio 5, 52, 7 viene citato il Palladio portato in Italia da Enea, nel libro 27, 37, 11-13 lo storico ci parla di una processione in cui erano esposte due statue di Giunone Regina in legno di cipresso, che dovevano richiamare degli ξόανα, la cui forma lineare era condizionata da quella del tronco d’albero in cui era stata intagliata.
200
LIVIO COME FONTE PER LA STORIA DELL’ARTE ANTICA
Conclusioni In sintesi, abbiamo voluto tracciare delle primissime linee di ricerca che emergono dalla lettura di una selezione dei passi dell’opera di Livio in un’ottica storico-artistica. Siamo convinte che una lettura sistematica in questa prospettiva possa offrire numerosi spunti di ricerca, specie in relazione al valore politico ed ideologico che veicolano i manufatti artistici greci nel mondo romano. Gli innumerevoli elenchi di praedae relativi alle descrizioni di bottini riflettono nella prospettiva di Livio un prevalente interesse per il puro valore materiale degli oggetti; la paratattica struttura dell’elenco, ricorrente in molto passi dell’opera liviana, è un mezzo di cui lo storico si serve da un lato per dar conto del valore militare dell’azione di un singolo condottiero, dall’altro per visualizzare la ricaduta di questa in termini economici su Roma. Le res gestae attribuite a singoli personaggi storici vengono talvolta valorizzate introducendo il riferimento a specifici generi dell’arte romana, come le rappresentazioni storiche e le statue onorarie, per le quali le descrizioni rivelano un maggior grado di puntualità più per la forma che per lo stile. Dal punto di vista metodologico, la lettura dell’opera di Livio potrà dare ulteriori risultati se messa in sistema con altre fonti letterarie, ad integrare quegli aspetti sui quali lo scrittore patavino non si sofferma. In questa prospettiva la creazione del Centro Studi Liviani presso l’Università di Padova potrà certamente fornire stimoli di discussione e occasioni di approfondimento, grazie allo scambio proficuo tra studiosi di ambiti disciplinari diversi. M. B. – M. S.
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LIVIO COME FONTE PER LA STORIA DELL’ARTE ANTICA
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Abstracts This paper provides some preliminary observations about the role of figurative art in Livy’s history, an interesting but difficult field of research, because of the scarcity of references to pieces of art in the historian’s work. In Livy’s account, artistic references seem functional to the narrative of the res gestae, whose main avail – Livy says in his preface – is to provide useful examples through documenta in inlustri posita monumento, where the term monumentum may refer to historical exempla, but also to tangible artistic representations. Il capitolo offre alcune osservazioni preliminari a proposito del ruolo delle arti figurative nella storia liviana, un campo di ricerca interessante ma reso difficoltoso dalla scarsità dei riferimenti a opere d’arte determinate all’interno del resoconto. A una prima analisi, i riferimenti ai manufatti artistici si inseriscono sempre all’interno di una sequenza di res gestae per la ricostruzione delle quali, come indica in maniera programmatica nella Praefatio agli Ab Urbe condita libri, l’autore afferma che ciò che è salubre e fruttuoso (salubre ac frugiferum) è la possibilità di contemplare insegnamenti di ogni genere (omnis exempli documenta) sotto forma di immagini famose (in inlustri monumento), dove – a nostro parere – il monumentum può anche diventare lo strumento, l’oggetto materiale, attraverso cui si manifesta il documentum.
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ANDREA RAFFAELE GHIOTTO
IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO AGLI STUDI DEMOGRAFICI SULLE COLONIE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE TRA III E II SECOLO A.C.
Livio rappresenta senza dubbio la principale fonte antica di riferimento per lo studio del rilevantissimo fenomeno della colonizzazione messo in atto da Roma in Italia settentrionale nel quarantennio a cavaliere tra il III e il II secolo a.C., e più precisamente nel periodo compreso tra il 218 a.C. (fondazione delle coloniae Latinae di Placentia e Cremona) e il 177 a.C. (fondazione di Luna, colonia civium Romanorum) 1. Egli fornisce infatti importantissimi dati sul numero di coloni dedotti nei vari centri in via di costituzione, sulla loro classe di appartenenza e sull’entità dei terreni loro assegnati. Ciò permette, per quanto ci riguarda, di trarre preziose indicazioni storiche e demografiche relative a questi stessi centri nelle loro fasi iniziali di vita. Il presente contributo verte in modo mirato sul tema del popolamento in ambito urbano 2. Va da sé che, in altra sede, sarà necessario estendere lo studio anche all’ambito territoriale, allo scopo di delineare un quadro complessivo dell’assetto demograficoinsediativo che si venne a determinare con la presa di possesso del territorio cisalpino da parte di Roma. Q uesti sono i centri di nuova fondazione per i quali è possibile ricavare informazioni demografiche dall’opera di Livio e, limitatamente al caso piacentino-cremonese, anche da due passi di Poli1 Cf. Pelgrom 2013, 73: «By far the most informative source on the demographical aspects of the Roman colonization programme is Livy». Un’ottima esposizione degli avvenimenti sta in Bandelli 2009a, 187-204. 2 In occasione del Convegno A primordio Urbis l’argomento è stato oggetto di un intervento comune da parte di chi scrive e di Jeremia Pelgrom (Royal Netherlands Institute in Rome), con riferimento sia alle città di fondazione sia al loro territorio.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 205-217 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117492
205
A. R. GHIOTTO
bio e di Asconio Pediano: Placentia (Piacenza) e Cremona (Cremona), coloniae Latinae dedotte nel 218 a.C. e interessate da un supplementum di coloni nel 190 a.C.; Bononia (Bologna), colonia Latina del 189 a.C.; Mutina (Modena) e Parma (Parma), coloniae civium Romanorum del 183 a.C.; Aquileia (Aquileia), colonia Latina del 181 a.C., oggetto di un supplementum coloniario nel 169 a.C.; Luna (Luni), colonia civium Romanorum del 177 a.C. Ecco i loci in questione: 1) Perioch. 20: coloniae deductae sunt in agro ‹de› Gallis capto Placentia et Cremona [in Italia] 3. 2) 37, 46, 10-11: ex Gallia legatos Placentinorum et Cremonensium L. Aurunculeius praetor in senatum introduxit. Iis querentibus inopiam colonorum, aliis belli casibus aliis morbo absumptis, quosdam taedio accolarum Gallorum reliquisse colonias, decrevit senatus uti C. Laelius consul, si ei videretur, sex milia familiarum conscriberet quae in eas colonias dividerentur, et ut L. Aurunculeius praetor triumviros crearet ad eos colonos deducendos. Creati M. Atilius Serranus, L. Valerius P. f. Flaccus, L. Valerius C. f. Tappo. 3) 37, 57, 7-8: eodem anno, ante diem tertium kalendas Ianuarias Bononiam Latinam coloniam ex senatus consulto L. Valerius Flaccus, M. Atilius Serranus, L. Valerius Tappo triumviri deduxerunt. Tria milia hominum sunt deducta; equitibus septuagena iugera, ceteris colonis quinquagena sunt data. Ager captus de Gallis Boiis fuerat; Galli Tuscos expulerant. 4) 39, 55, 7-8: eodem anno Mutina et Parma coloniae civium Romanorum sunt deductae, bina milia hominum, in agrum qui proxime Boiorum ante Tuscorum fuerat; octona iugera Parmae, quina Mutinae acceperunt. Deduxerunt triumviri M. Aemilius Lepidus, T. Aebutius Parrus, L. Q uinctius Crispinus. Cf. Polyb. 3, 40, 3-5: «mentre i generali si occupavano dell’arruolamento degli eserciti e degli altri preparativi, i Romani si affrettarono a condurre a termine l’organizzazione delle colonie, che già prima avevano deciso di dedurre in Gallia. Fortificarono dunque energicamente le città e ordinarono che i coloni, in numero di circa seimila per ogni città, si trovassero sul luogo entro trenta giorni: fondarono una città di qua dal Po e la chiamarono Piacenza, un’altra sulla riva opposta e la chiamarono Cremona» (trad. Schick 1955); Ascon., Pis. p. 6, 1214 Cl.: Placentiam autem sex milia hominum novi coloni deducti sunt, in quibus equites ducenti. 3
206
IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO AGLI STUDI DEMOGRAFICI
5) 40, 34, 2-3: Aquileia colonia Latina eodem anno in agru‹m› Gallorum est deducta. Tria milia peditum quinquagena iugera, centuriones centena, centena quadragena equites acceperunt. Triumviri deduxerunt P. Cornelius Scipio Nasica, C. Flaminius, L. Manlius Acidinus. 6) 41, 13, 4-5: et Lunam colonia eodem anno duo milia civium Romanorum sunt deducta. Triumviri deduxerunt P. Aelius, ‹M. Aemilius› Lepidus, Cn. Sicinius; quinquagena et singula iugera et semisses agri in singulos dati sunt. De Liguribus is captus ager erat; Etruscorum ante quam Ligurum fuerat. 7) 43, 17, 1: eo anno postulantibus Aquileiensium legatis ut numerus colonorum augeretur, mille et quingentae familiae ex senatus consulto scriptae, triumvirique qui eas deducerent missi sunt T. Annius Luscus, P. Decius Subulo, M. Cornelius Cethegus. La seguente tabella riepiloga i dati tramandati dalle fonti scritte in merito al numero di coloni coinvolti in queste deduzioni; 4
Data
Città
Ordinamento
Coloni
Fonte
colonia Latina
ca. 6000 oikétores (coloni) = 6000 homines, di cui 200 equites
Polyb. 3, 40, 3-5; Liv., Perioch. 20; Ascon., Pis.
190 a.C. (supplementum)
3000? familiae
Liv. 37, 46, 10-11
218 a.C.
ca. 6000 oikétores (coloni)
Polyb. 3, 40, 3-5; Liv., Perioch. 20
3000? familiae
Liv. 37, 46, 10-11
218 a.C. Placentia
190 a.C. (supplementum)
Cremona
colonia Latina
Superficie urbana
38, 4 ha
30 ha
189 a.C.
Bononia
colonia Latina
3000 homines (equites e ceteri coloni)
Liv. 37, 57, 7-8
50 ha
183 a.C.
Mutina
colonia c. R.
2000 homines
Liv. 39, 55, 7-8
35 ha
183 a.C.
Parma
colonia c. R.
2000 homines
Liv. 39, 55, 7-8
25 ha
Liv. 40, 34, 2-3
colonia Latina
ca. 3300 (3000 pedites + ca. 300 tra equites e centuriones) 1500 familiae
Liv. 43, 17, 1
2000 cives Romani
Liv. 41, 13, 4-5
4
181 a.C. Aquileia 169 a.C. (supplementum) 177 a.C.
Luna
colonia c. R.
41 ha
24 ha
4 Il numero complessivo dei coloni aquileiesi sembra variare tra 3200-3300 (Bandelli 2009b, 39) e 3300-3400 unità (Bandelli 1999, 205; Bandelli 2003, 61).
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A. R. GHIOTTO
la superficie dei centri urbani è ricavata invece dalla recente lette ratura archeologica 5. Si tratta, com’è noto, di un fenomeno molto consistente che in Italia settentrionale interessò un totale di ca. 30000 uomini dedotti con le loro famiglie 6, alle quali vanno aggiunte le altre 7500 inviate in occasione dei tre supplementa di Piacenza, Cremona ed Aquileia. Non deve passare inosservato il fatto che questo ingente trasferimento di uomini avvenne in un periodo critico, quantunque vittorioso, per la storia di Roma 7, con comprensibili conseguenze anche in termini di perdite umane. Si trattò sotto questo aspetto di un’ulteriore dimostrazione della forza di Roma, che poteva contare non solo sulle sue straordinarie capacità logistiche, ma anche sulla disponibilità di un vasto potenziale umano. Né peraltro le prime colonie dedotte, Placentia e Cremona, restarono immuni dai gravi contraccolpi dell’avanzata annibalica e della ribellione dei Galli Boi, al punto che appena fondate dovettero essere quasi abbandonate; tuttavia nel 190 a.C. furono ripopolate mediante un supplementum di nuovi coloni. Un supplementum a distanza di dodici anni, per la verità meno consistente, si rese necessario nel 169 a.C. anche nel caso di Aquileia, che versava ancora in una condizione di grave e dichiarata instabilità. Nel complesso, la consistenza demografica di queste deduzioni contribuisce a chiarire il peso strategico della politica coloniaria attuata da Roma in questo specifico contesto storicogeografico, che si concretizzava anche attraverso la fondazione di nuovi centri urbani. Si tratta sia di coloniae Latinae, dotate dunque di una certa autonomia, sia di coloniae civium Romanorum, abitate cioè da cittadini con pieni diritti. Rispetto alla media età repubblicana, è stata più volte evidenziata in questi nuovi centri una progressiva tendenza all’equiparazione demografica rispetto alle due diverse 5 Le misure riportate sono tratte da Conventi 2004, ad eccezione di quelle di Mutina (Labate et alii 2012, 7) e di Parma (Catarsi 2009, 398). 6 Bandelli 1999, 207. Le fonti antiche non documentano purtroppo il numero di coloni coinvolti nella fondazione della colonia civium Romanorum di Pisaurum (Pesaro) nel 184 a.C. (39, 44, 10) e della colonia Latina di Luca (Lucca) nel 180 o nel 179 a.C. (40, 43, 1; cf. Coarelli 1985-1987, 28). 7 È appena il caso di rammentare a questo proposito la seconda guerra punica (218-202 a.C.), la seconda guerra macedonica (200-197 a.C.) e la guerra siriaca (192-189 a.C.).
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IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO AGLI STUDI DEMOGRAFICI
tipologie coloniarie. Dopo la seconda guerra punica, le coloniae Latinae di nuova fondazione ridussero infatti tendenzialmente il loro contingente iniziale a ca. 3000-3300 unità (Bononia, Aquileia), contro le 6000 di Placentia e Cremona, mentre quelle civium Romanorum lo innalzarono notevolmente da alcune centinaia fino a 2000 (Mutina, Parma, Luna), con superfici urbane attestate sui 40-50 ettari per le prime e sui 25 ettari per le seconde, ad eccezione di Mutina che copriva una superficie di 35 ettari 8. Per tornare a Livio, i dati offerti dallo storico patavino appaiono di straordinaria importanza vuoi per la definizione del numero di coloni coinvolti nella fondazione delle città sopra richiamate, vuoi per la conoscenza della ripartizione in classi su base censitaria di quelle dedotte come coloniae Latinae 9 e della quantità di iugera di terreno destinati agli appartenenti a ciascuna di tali classi (generalmente pedites ed equites, ma anche centuriones nel caso di Aquileia). Ma, oltre a costituire una testimonianza privilegiata – quantunque indiretta – sulla colonizzazione del l’Italia settentrionale tra gli ultimi decenni del III e i primi del II secolo a.C., la documentazione liviana si presta anche ad una serie di approfondimenti di notevole interesse per lo studio di questo fenomeno. In particolare, per limitarci all’ambito urbano, essa consente di proporre una stima indicativa, ancorché preliminare, del tasso di urbanizzazione dei coloni nei centri di recente fondazione, cioè della percentuale di coloni stabilitisi in città con le loro famiglie rispetto a quelli che si insediarono nel territorio circostante 10. A questo scopo innanzitutto è necessario disporre di una stima affidabile di quanti abitanti potevano risiedere stabilmente in queste colonie, ben inteso una volta superate quelle fasi ini8 Si ricorda che nel 218 a.C. nel centro precoloniario di Modena si erano rifugiati non agrestis modo multitudo sed ipsi triumviri Romani, qui ad agrum venerant adsignandum, diffisi Placentiae moenibus (21,25,3; cf. Polyb. 3,40,8-9). 9 Una suddivisione interna di tal genere era invece originariamente inesistente, almeno in linea teorica, nelle comunità delle coloniae civium Romanorum. 10 L’argomento è stato oggetto di una tesi di laurea magistrale discussa presso l’Università degli Studi di Padova (Fioratto 2013-2014). Colgo l’occasione per ringraziare Giulia Fioratto per le assidue e proficue occasioni di confronto sui temi demografici affrontati in questa e in altre sedi.
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ziali più critiche durante le quali la quasi totalità dei coloni era evidentemente costretta ad addensarsi compatta all’interno delle cinte urbiche 11. Se si considerano gli indici di densità della popolazione urbana più ricorrenti in letteratura a proposito dei centri di medie dimensioni di età repubblicana, è possibile proporre un ventaglio di stime degli abitanti residenti in città nelle fasi iniziali delle nostre colonie, considerando non solo i capifamiglia maschi adulti – ai quali si riferiscono con ogni probabilità i numeri di coloni riportati da Livio 12 – ma anche i componenti delle loro famiglie ed, eventualmente, gli indigeni integrati nelle nuove comunità e presto inurbatisi. Tali indici variano, a seconda dei contesti, tra 100-120 ab/ha (abitanti per ettaro) 13 e 150-250 ab/ha 14; applicati alle varie realtà coloniarie, essi determinano i seguenti risultati: Data
Città
Ordinamento
Superficie
Abitanti in città (100 ab/ha)
Abitanti in città (120 ab/ha)
Abitanti in città (150 ab/ha)
Abitanti in città (250 ab/ha)
218 a.C.
Placentia
colonia Latina
38, 4 ha
3840
4608
5760
9600
218 a.C.
Cremona
colonia Latina
30 ha
3000
3600
4500
7500
189 a.C.
Bononia
colonia Latina
50 ha
5000
6000
7500
12500
183 a.C.
Mutina
colonia c. R.
35 ha
3500
4200
5250
8750
183 a.C.
Parma
colonia c. R.
25 ha
2500
3000
3750
6250
181 a.C.
Aquileia
colonia Latina
41 ha
4100
4920
6150
10250
177 a.C.
Luna
colonia c. R.
24 ha
2400
2880
3600
6000
Si ottengono in tal modo valori che oscillano tra 2400-2880 e 5000-6000 abitanti per i due indici di densità più bassi (100 e 120 ab/ha), tra 3600 e 7500 abitanti per l’indice di 150 ab/ha e tra 6000 e 12500 abitanti per l’indice più alto (250 ab/ha). Le coloniae civium Romanorum di Luna e Parma, estese su una superficie pari a circa la metà di quella Latina di Bononia, offrono le stime più basse; Bononia al contrario offre le stime più elevate, Cf. Kron 2017, 64-65, nota 72. È appena il caso di ricordare che la costruzione delle mura di difesa rivestiva un’assoluta priorità nella gerarchia degli interventi edilizi attuati al momento della fondazione dei centri coloniari; su questo cf. Bonetto in questo volume. 12 Cf. Pelgrom 2013, 79-82. 13 Cf. de Ligt 2008, 151-152 («no more than 100 or 120 persons/ha»). 14 Cf. Wilson 2011, 176 («likely ranges of 150-250 people per hectare»). 11
210
IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO AGLI STUDI DEMOGRAFICI
pari al doppio delle precedenti. In questo ventaglio di stime piuttosto ampio, quelle basate su indici di 100-120 ab/ha o, al massimo, di 150 ab/ha sembrano essere le più plausibili per quanto concerne il contesto indagato 15, caratterizzato a quanto pare da un’edilizia domestica non particolarmente intensiva 16. Si consideri a questo proposito che gli indici di 100-120 ab/ha corrispondono a quelli ricavabili per la colonia Latina di Cosa 17, fondata nel 273 a.C. La popolazione complessiva delle stesse compagini coloniarie può essere invece calcolata a partire dai dati liviani sopra riportati, moltiplicando il numero di coloni, intesi generalmente come capifamiglia, per una costante relativa al numero medio di componenti per nucleo familiare. A questo proposito si deve però precisare che le informazioni desunte dall’opera di Livio non permettono di quantificare la componente indigena, la quale pure doveva essere presente 18, e si riferiscono al solo momento della deduzione (e del successivo supplementum nel caso di Placentia, Cremona e Aquileia); esse quindi non gettano luce sulle eventuali variazioni demografiche intervenute nel corso dei decenni seguenti, durante i quali sembra comunque ragionevole supporre un sostanziale equilibrio tra nascite e decessi, in linea con i parametri demografici dell’epoca. In assenza di altre fonti scritte al riguardo, è dunque necessario affidarsi alle indicazioni demografiche liviane per trarne risultati attendibili ma pur sempre approssimativi, senza alcuna pretesa di esattezza. Per quanto concerne il numero medio di componenti per nucleo familiare (schiavi esclusi), esso sembra essere compreso tra un limite inferiore di 3,5 19 15 Cf. de Ligt 2008, 153-154: «Although any attempt to put a figure on population densities in the North must remain to some extent speculative, I am inclined to opt for an average density of between 120 and 150 persons/ha for the areas covered by the towns of Cisalpine Gaul». 16 Ben nota è la «predilezione in ambito cisalpino per case unifamiliari organizzate in orizzontale piuttosto che in verticale» (Ghedini 2012, 316). 17 Cf. de Ligt 2008, 148-149; de Ligt 2012, 220 («between 101 and 121 persons/ha»). 18 La precoce cooptazione di famiglie indigene all’interno delle nuove comunità coloniarie è sempre meglio documentata grazie agli studi più recenti. Si veda, a titolo d’esempio, Chiabà 2009 per il caso aquileiese. 19 Cf. Russell 1958, 53. Una media di 3 o 4 persone per famiglia è applicata, ad esempio, in Foraboschi 1992, 100; Bandelli 1999, 192; cf. de Ligt 2008, 156.
211
A. R. GHIOTTO
e uno superiore di 5 o 6 individui 20, se non addirittura oltre 21. Se si moltiplicano per queste tre costanti i numeri di capifamiglia riportati da Livio (optando per i valori iniziali nel caso dei centri interessati da un supplementum più recente, finalizzato in gran parte a compensare defezioni e perdite umane), si ottengono i seguenti risultati: Data
Città
Ordinamento
Coloni
Popolazione totale (3,5 individui per famiglia)
Popolazione totale (5 individui per famiglia)
Popolazione totale (6 individui per famiglia)
218 a.C.
Placentia
colonia Latina
6000
21000
30000
36000
218 a.C.
Cremona
colonia Latina
6000
21000
30000
36000
189 a.C.
Bononia
colonia Latina
3000
10500
15000
18000
183 a.C.
Mutina
colonia c. R.
2000
7000
10000
12000
183 a.C.
Parma
colonia c. R.
2000
7000
10000
12000
181 a.C.
Aquileia
colonia Latina
ca. 3300
11550
16500
19800
177 a.C.
Luna
colonia c. R.
2000
7000
10000
12000
A questo punto la proporzione tra il numero di abitanti residenti in città e la popolazione complessiva costituita dalle famiglie dei coloni verrà ad esprimere la percentuale del tasso di urbanizzazione del corpo coloniario coinvolto nelle varie deduzioni. Le stime ottenute, sintetizzate nella tabella alla pagina seguente, sono oggettivamente molto variabili. Si deve però osservare che una stima alternativa del tasso di urbanizzazione dei coloni di Aquileia 22, condotta sulla base dell’ipotizzabile numero di lotti abitativi riferibili al piano urbanistico di dettaglio della colonia (prescindendo quindi da parametri più incerti, quali gli indici di densità e le costanti relative al numero di individui per famiglia), si attesta su valori confrontabili con quelli sopra ricavati applicando gli indici di densità urbana più bassi (100120 ab/ha), per famiglie composte da 5 o 6 individui. Ciò induce a ritenere meno probabili le stime basate da un lato sull’indice di densità di popolazione urbana più alto (250 ab/ha), dall’altro sul numero medio di individui per famiglia più basso (3,5). Cf. Storey 1997, 109-111 («in the range of three to five or six individuals»). Così, ad esempio, nel caso di Pompei (cf. Wallace-Hadrill 1994, 99). 22 Cf. Ghiotto – Fioratto 2015. 20 21
212
IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO AGLI STUDI DEMOGRAFICI
Data
Città
218 a.C.
218 a.C.
189 a.C.
183 a.C.
183 a.C.
181 a.C.
177 a.C.
Placentia
Cremona
Bononia
Mutina
Parma
Aquileia
Luna
Ordinamento
colonia Latina
colonia Latina
colonia Latina
colonia c. R.
colonia c. R.
colonia Latina
colonia c. R.
Popolazione totale (k = numero medio di individui per famiglia)
Tasso di urbanizzazione (100 ab/ha)
Tasso di urbanizzazione (120 ab/ha)
Tasso di urbanizzazione (150 ab/ha)
Tasso di urbanizzazione (250 ab/ha)
21000 (k = 3,5)
18,2%
21,9%
27,4%
45,7%
30000 (k = 5)
12,8%
15,3%
19,2%
32%
36000 (k = 6)
10,6%
12,8%
16%
26,6%
21000 (k = 3,5)
14,2%
17,1%
21,4%
35,7%
30000 (k = 5)
10%
12%
15%
25%
36000 (k = 6)
8,3%
10%
12,5%
20,8%
10500 (k = 3,5)
47,6%
57,1%
71,4%
119%
15000 (k = 5)
33,3%
40%
50%
83,3%
18000 (k = 6)
27,7%
33,3%
41,6%
69,4%
7000 (k = 3,5)
50%
60%
75%
125%
10000 (k = 5)
35%
42%
52,5%
87,5%
12000 (k = 6)
29,1%
35%
43,7%
72,9%
7000 (k = 3,5)
35,7%
42,8%
53,5%
89,2%
10000 (k = 5)
25%
30%
37,5%
62,5%
12000 (k = 6)
20,8%
25%
31,2%
52%
11550 (k = 3,5)
35,4%
42,5%
53,2%
88,7%
16500 (k = 5)
24,8%
29,8%
37,2%
62,1%
19800 (k = 6)
20,7%
24,8%
31%
51,7%
7000 (k = 3,5)
34,2%
41,1%
51,4%
85,7%
10000 (k = 5)
24%
28,8%
36%
60%
12000 (k = 6)
20%
24%
30%
50%
Di contro, se è vero che le stime più probabili sembrano compatibili con gli indici di densità più bassi (100-120 ab/ha) e con un numero medio di 5 o 6 individui per famiglia 23, non si può nemmeno escludere l’eventualità di indici di densità maggiori, vicini a 150 ab/ha, per tassi di urbanizzazione che stentano comunque a raggiungere il 50% del totale (i valori più alti si riscontrano per Bononia e Mutina). 23 Si tenga presente che le deduzioni coloniarie avevano anche la funzione di accrescere rapidamente la loro stessa popolazione (Càssola 1988, 14-15).
213
A. R. GHIOTTO
A questo proposito è bene ricordare che tra i soggetti residenti in città potevano esservi anche alcuni elementi indigeni estranei alle famiglie dei coloni, inurbatisi in misura purtroppo non quantificabile. Ciò porta a considerare che, a parità di spazi abitativi, una volta stabilizzatosi il controllo del territorio di pertinenza, l’entità della componente romana entro le mura urbiche potrebbe essere stata ancor più contenuta, determinando un ulteriore abbassamento nelle stime del suo tasso di urbanizzazione. Risultati di tal genere appaiono confrontabili con quanto prefigurato in recenti studi sul popolamento delle coloniae Latinae di età medio e tardorepubblicana 24 e, se corroborati da nuovi indizi archeologici relativi all’assetto e alla suddivisione interna dei settori urbani a destinazione abitativa 25, potranno offrire un contributo sempre più proficuo al dibattito sulla presenza stabile di coloni in città oppure, al contrario, in campagna, nei terreni loro attribuiti. Il tema è stato oggetto di vari interventi al riguardo 26 e, perlomeno nell’ambito dell’Italia settentrionale, necessita ora di essere affrontato alla luce di uno studio approfondito e integrato rivolto in particolare ai territori dei centri coloniari qui discussi, che miri a precisarne l’effettiva estensione, a stimarne la «capacità portante» (carrying capacity) e, soprattutto, a definirne le modalità, le forme e i tempi del popolamento.
Bibliografia Bandelli 1999 = G. Bandelli, La popolazione della Cisalpina dalle invasioni galliche alla guerra sociale, in D. Vera (a cura di), Demografia, sistemi agrari, regimi alimentari nel mondo antico. Atti del Convegno internazionale di studi (Parma, 17-19 ottobre 1997), Bari 1999, 189-215 Bandelli 2003 = G. Bandelli, Aquileia colonia Latina dal senatus consultum del 183 a.C. al supplementum del 169 a.C., in G. Cu24 Cf. Pelgrom 2013, 75: «These studies convincingly suggest that a maximum of 20 to 30 per cent of the colonial population could have lived in the colonial urban centres»; cf. de Ligt 2008, 156-157 per il tasso di urbanizzazione di Placentia e Cremona. 25 Dati recenti e molto interessanti in questo senso si devono, ad esempio, al progetto «Archeologia urbana a Senigallia» (Lepore et alii 2014). 26 Fondamentale al riguardo è Garnsey 1979. L’argomento è ripreso in Pelgrom 2008, 342-347; cf. anche Lo Cascio 2010.
214
IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO AGLI STUDI DEMOGRAFICI
scito (a cura di), Aquileia dalle origini alla costituzione del Ducato longobardo. Storia-amministrazione-società, (Antichità Altoadriatiche 54), Trieste 2003, 49-78 Bandelli 2009a = G. Bandelli, Parma durante la Repubblica. Dalla fondazione della colonia a Cesare, in Vera 2009, 181-217 Bandelli 2009b = G. Bandelli, Note sulla categoria di romanizzazione con riferimento alla Venetia e all’Histria, in Cuscito 2009, 29-69 Càssola 1988 = F. Càssola, Aspetti sociali e politici della colonizzazione, in La colonizzazione romana tra la guerra latina e la guerra annibalica. Atti del Convegno (Acquasparta, 29-30 maggio 1987), DArch 6 (2), 1988, 5-17 Catarsi 2009 = M. Catarsi, Storia di Parma. Il contributo dell’archeo logia, in Vera 2009, 367-499 Chiabà 2009 = M. Chiabà, Problemi e metodi nello studio dei rapporti tra incolae e coloni nella Venetia orientale. Il caso di Aquileia, in Cuscito 2009, 221-234 Coarelli 1985-1987 = F. Coarelli, La fondazione di Luni. Problemi storici ed archeologici, in Studi lunensi e prospettive sull’Occidente romano. Atti del Convegno (Lerici, 26-28 settembre 1985), vol. I, Q uaderni Centro Studi Lunensi 10-12, 1985-1987, 17-36 Conventi 2004 = M. Conventi, Città romane di fondazione, Roma 2004 Cuscito 2009 = G. Cuscito (a cura di), Aspetti e problemi della romanizzazione. Venetia, Histria e arco alpino orientale, (Antichità Altoadriatiche 68), Trieste 2009 de Ligt 2008 = L. de Ligt, The population of Cisalpine Gaul in the time of Augustus, in de Ligt – Northwood 2008, 139-183 de Ligt 2012 = L. de Ligt, Peasants, Citizens and Soldiers. Studies in the Demographic History of Roman Italy. 225 bc-ad 100, Cambridge 2012 de Ligt – Northwood 2008 = L. de Ligt – S. J. Northwood (edd.), People, Land and Politics. Demographic Developments and the Transformation of Roman Italy. 300 bc-ad 14, Leiden 2008 Fioratto 2013-2014 = G. Fioratto, Densità abitativa e tasso di urbanizzazione delle colonie latine e romane dell’Italia centro-settentrionale (III-metà II sec. a.C.), Tesi di laurea magistrale in Scienze archeo logiche, Università degli Studi di Padova, rel. prof. A. R. Ghiotto, a.a. 2013-2014 Foraboschi 1992 = D. Foraboschi, Lineamenti di storia della Cisalpina romana. Antropologia di una conquista, Roma 1992 215
A. R. GHIOTTO
Garnsey 1979 = P. D. A. Garnsey, Where did Italian peasants live?, PCPhS 205, 1979, 1-25 [= Id., Cities, peasants and food in classical antiquity. Essays in social and economic history, Cambridge 1998, 107-133] Ghedini 2012 = F. Ghedini, Soluzioni e modelli abitativi tra tarda Repubblica e tardo Impero, in F. Ghedini – M. Annibaletto (a cura di), Atria longa patescunt. Le forme dell’abitare nella Cisalpina romana, vol. I: Saggi, Roma 2012, 291-332 Ghiotto – Fioratto 2015 = A. R. Ghiotto – G. Fioratto, Sul tasso di urbanizzazione della colonia Latina di Aquileia, AN 86, 2015, 81-97 Kron 2017 = G. Kron, The population of Northern Italy and the Debate over the Augustan Census Figures: Weighing the Documentary, Literary and Archaeological Evidence, in E. Lo Cascio – M. Maiuro (a cura di), Popolazione e risorse nell’Italia del Nord dalla romanizzazione ai Longobardi, Bari 2017, 49-98 Labate et alii 2012 = D. Labate – L. Malnati – S. Pellegrini, Le mura repubblicane di Mutina. Gli scavi di Piazza Roma (2006-2007), Atlante tematico di Topografia antica 22, 2012, 7-20 Lepore et alii 2014 = G. Lepore – E. Mandolini – M. Silani – F. Belfiori – F. Galazzi, Archeologia urbana a Senigallia III: i nuovi dati dall’area archeologica “La Fenice”, Fasti Online Documents & Research 308, 2014, 1-32 (www.fastionline.org/docs/FOLDERit-2014-308.pdf) Lo Cascio 2010 = E. Lo Cascio, Aspetti demografici ed economici del rapporto città-territorio nell’Italia romana, in M. G. Angeli Ber tinelli – A. Donati (a cura di), Città e territorio. La Liguria e il mondo antico. Atti del IV Incontro internazionale di Storia antica (Genova, 19-20 febbraio 2009), Roma 2010, 89-100 Pelgrom 2008 = J. Pelgrom, Settlement organization and land distribution in Latin colonies before the second Punic war, in de Ligt – Northwood 2008, 333-372 Pelgrom 2013 = J. Pelgrom, Population density in mid-republican Latin colonies: a comparison between text-based population estimates and the results from survey archaeology, Atlante tematico di Topografia antica 23, 2013, 73-84 Russell 1958 = J. C. Russell, Late ancient and medieval population, Philadelphia 1958 Schick 1955 = C. Schick (a cura di), Polibio. Le storie, Milano 1955 Storey 1997 = G. R. Storey, Estimating the population of ancient Roman cities, in R. R. Paine (ed.), Integrating archaeological demography. 216
IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO AGLI STUDI DEMOGRAFICI
Multidisciplinary approaches to prehistoric population, Carbondale 1997, 101-130 Vera 2009 = D. Vera (a cura di), Storia di Parma, vol. II: Parma romana, Parma 2009 Wallace-Hadrill 1994 = A. Wallace-Hadrill, Houses and society in Pompeii and Herculaneum, Princeton 1994 Wilson 2011 = A. Wilson, City sizes and urbanization in the Roman Empire, in A. Bowman – A. Wilson (edd.), Settlement, urbanization, and population, Oxford 2011, 161-195
Abstracts This paper succinctly illustrates the importance of Livy’s work for demographic studies, focusing on the colonies founded by Rome between 218 bc (Placentia and Cremona) and 177 bc (Luna). The Livian passages presented here provide many helpful data, which would otherwise have been lost, about the number of settlers involved in the constitution of the new urban centres, enabling a series of detailed analyses of great interest in the study of this phenomenon. In particular they contribute to a preliminary assessment of the urbanization rate of the settlers, i.e. the percentage of those who settled, together with their families, in these urban centres, in comparison to those who settled in the nearby countryside, once the political control of the region had been secured. Il presente contributo illustra in forma sintetica l’importanza del l’opera di Livio per gli studi demografici sulle colonie dedotte da Roma in Italia settentrionale tra il 218 a.C. (Placentia e Cremona) e il 177 a.C. (Luna). Le fonti liviane qui raccolte offrono infatti molti dati utili, altrimenti non pervenuti, sul numero di coloni coinvolti nella fondazione dei nuovi centri urbani e si prestano ad una serie di approfondimenti di notevole interesse per lo studio di questo fenomeno. In particolare esse contribuiscono a formulare una stima preliminare sul tasso di urbanizzazione dei coloni, cioè sulla percentuale di coloni stabilitisi in città con le loro famiglie rispetto a quelli che si insediarono nel territorio circostante una volta consolidatosi il controllo politico dell’area.
217
PARTE III
LA FORTUNA DI LIVIO, FRA TRADIZIONE DEL TESTO E STORIA DELLA CULTURA
CLAUDIA VILLA
APPUNTI PER LA STORIA DELLA TRADIZIONE DI LIVIO IN ETÀ CAROLINGIA E OTTONIANA
La tradizione di Livio nei secoli IX e X, già ampiamente studiata e catalogata 1, con il repertorio dei manoscritti più antichi, impone allo storico della cultura alcune riflessioni poiché le decadi superstiti si collocano al vertice delle letture utili, quando si afferma un potere che nel passato e nell’idea di translatio trova le ragioni della renovatio imperii. Così è interessante ragionare sugli uomini e sugli ambienti sociali che garantirono la fortuna di Livio, quando fu necessario, per gli usi di un presente fondato sull’idea di una continuità con la tradizione rappresentata dall’impero di Roma, il ricupero della sua antica storia.
1. Il Livio reginense e i suoi copisti Il testo cardine della tradizione reale e imperiale, cioè le decadi di Livio, era già accessibile in biblioteche franche prima che la memoria dell’impero fosse rinnovata con la cerimonia del Natale dell’800. Sul finire del secolo VIII si trovavano, in Francia, due codici della terza decade imparentati fra di loro, l’antico e famoso Puteaneo, del sec. V, ora Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 5730, prodotto in Italia, riletto ad Avellino nel sec. V e conservato a Corbie, e una sua copia, ora Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 762 prodotto a Tours. Lo studio del rapporto di questi due manoscritti di Livio è assai interessante perché nel grande silenzio che circonda i pochi Cf. Reynolds 1983, 205-214; Munk Olsen II 1985, 1-16.
1
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 221-235 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117493
221
C. VILLA
codici superstiti dell’età precarolingia, dei quali è difficile stabilire esattamente avventure e vicende, i due esemplari, congiunti fra loro da un legame di parentela strettissimo, hanno invece reso possibile la ricostruzione del lavoro di trascrizione contemporanea ad opera di più copisti, in uno scriptorium monastico ben organizzato, dove il Puteaneo fu sfascicolato e poi ricomposto. Il Puteaneo fornisce così un esempio significativo del precoce passaggio in Francia di un codice molto antico e della rapida diffusione del testo in ambienti legati al disegno culturale di Carlo Magno: perché la terza decade di Livio fu subito copiata nel Vaticano Reg. lat. 762, eseguito verso la fine del secolo VIII nella Tours di Alcuino 2. I fascicoli di questo antico discendente del Puteaneo recano preziose indicazioni poiché furono trascritti da numerosi copisti che si divisero il lavoro di copiatura e di revisione; e esibiscono, nelle sottoscrizioni dei singoli fascicoli, una serie di nomi, rintracciabili in un elenco di personaggi collegati all’abbazia reale. Sarà da notare che la mano del sottoscrittore non coincide, in alcuni casi, con quella del copista: e perciò potremo pensare che il nome certifichi piuttosto un impegno di rilettura e di correzione delle sviste di alcuni amanuensi. Q uindi le annotazioni ci consegnano due nomi sui quali siamo costretti a discutere, perché ricuperano una tradizione onomastica collegata a imprese significative della storia longobarda: Ansoaldo (ff. 193v, 201v, 217v, 228v) è infatti omonimo del notaio citato nell’editto di Rotari insieme alla formula contro la falsificazione: Damus in mandatis, ne aliqua fraus per vicium scriptorum in hoc edictum adibeatur. Si aliqua fuerit intentio, nulla alia exemplaria credatur aut suscipiatur, nisi quod per manus Ansoald notario nostro scriptum aut recognitum seu requisitum fuerit 3. Aldo (ff. 16v. 32v, 40v, 52v) ripete un nome ricordato in Paolo Diacono e comune fra i Longobardi perché legato alle origini stesse della stirpe, imposto al comandante dei Winnili figlio di Gambara. Potremmo perciò sospettare che fra i fratres Turonenses, attivi a San Martino di Tours, in una comunità di chierici piuttosto che di monaci secondo l’autorevole Cf. Munk Olsen 1985, 10. Cf. Beyerle 1947, 158.
2 3
222
APPUNTI PER LA STORIA DELLA TRADIZIONE DI LIVIO IN ETÀ CAROLINGIA E OTTONIANA
parere di Wilmart, fossero presenti e attivi personaggi probabilmente legati al vecchio mondo italico 4? Aldo e Ansoald, titolari di nomi tradizionali presso la gens Longobarda, ripetuti per mantenere una memoria famigliare in ogni generazione, invitano a riflettere sulle abitudini onomastiche e, in particolare, riconoscendo in Ansoald un omonimo del notaio citato nell’editto di Rotari, potremo domandarci se il personaggio attivo nel Livio, possa essere identificato con il notaio che roga a Brescia, patria di Desiderio, nel 771. In tal caso l’episodio acquista una particolare rilevanza perché Ansoald che, come è già stato osservato, corregge il testo prestando speciale attenzione alla punteggiatura, svolge una funzione abituale per gli uomini di legge, professionalmente obbligati al controllo e alla revisione dei testi, secondo un principio già enunciato nell’Editto di Rotari che appunto investe un notaio Ansoaldo di questa funzione: nulla alia exemplaria credatur aut suscipiatur, nisi quod per manus Ansoald notario nostro scriptum aut recognitum seu requisitum fuerit 5. Il problema posto da questi nomi longobardi in rapporto con la revisione del Livio Reginense sull’antico modello, dove si presentavano alcuni dubbi di lettura, e il legame dei due manoscritti con abbazie coinvolte nel rinnovamento carolingio, suggeriscono l’ipotesi che per questo importante lavoro di trascrizione si sia dovuto ricorrere a personaggi in grado, per capacità professionali ed abilità tecniche, di compiere un lavoro per il quale il personale giuridico, nel mondo longobardo, era tradizionalmente preparato. In tal senso la testimonianza invita a valutare se i rapporti fra le biblioteche di Corbie e di Saint-Denis e il mondo italiano siano stati molto più complessi di quanto finora descritto: e se l’arrivo del re Desiderio e dei funzionari rimastigli fedeli abbia potuto provocare reazioni culturalmente significative. Infatti l’esilio forzato in una delle abbazie reali 6 dell’ultimo sovrano longo Cf. Wilmart 1931, 577. Cf. Villa 2003, 469; fra il 720 e il 774 il nome Ansoaldo compare nei documenti undici volte; e nel 771 un Ansoald notarius è attestato a Brescia (cf. Scardigli 1987, 57, n. 7); cf. anche l’osservazione sulla punteggiatura di Ansoald in McKitterick, 2004, 204. 6 Il re fu verosimilmente trasferito a Corbie, secondo Delogu 1991, 373-381; potrebbe essere stato a St-Denis (cf. Gasparri 1991, 297). 4 5
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bardo, accompagnato da un seguito di addetti alla sua cancelleria, fra i quali probabilmente Fardulfo, futuro amministratore di St-Denis, impone di ragionare ricordando che Carlo in Franciam revertitur, captivum ducens Desiderium regem…; e che il re fu trasferito, secondo gli Annales regni Francorum, con tutto il tesoro conservato a Pavia: Desiderium regem cum uxore et filia vel cum omni thesauro eius palatii 7. Non è dato conoscere l’entità, la consistenza e le qualità di quel tesoro la cui memoria lunghissima si mantenne fino alle Chansons de geste; peraltro deve essere sottolineato che nel dicembre di quell’anno fu necessario emanare un ordine relativo alla conservazione di un patrimonio librario certo cospicuo a Saint-Denis, l’abbazia più vicina alla dinastia franca, consacrata nel 775. È noto infatti che la prima menzione di libri a Saint-Denis corrisponde all’ordine impartito da Carlo Magno, con la concessione di una foresta e l’impegno ad usare le pelli degli animali per la copertura dei libri e la loro salvaguardia in ambienti umidi: cum utriusque sexus genera feraminum cervorum, capreolorum, ex quorum coriis libros ipsius sacri loci cooperiendos ordinamus… 8; Carlo Magno cominciò allora a preoccuparsi dell’approvvigionamento delle pelli destinate alla protezione dei manoscritti e destano soprattutto il nostro interesse il mese e l’anno (dicembre 774) in cui questo capitolare venne promulgato, perché coincidono con il tempo della conquista di Pavia, caduta nel mese di giugno: capta est Tisin, quae etiam Papia civitas, in mense Iunio a Francis 9. Allora i Franchi adduxerunt regem Desiderium captivum secum in Francia. Pure la regina Ansa, dopo essersi presentata il 5 giugno 774 a Carlo, fu esiliata a Liegi o a Corbie 10. La presenza a Saint-Denis di libri di lusso, provvisti di splendide illustrazioni come il sontuoso Virgilio «Romano», ora Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, lat. 3867, prodotto nell’ultima età romana 11, quando l’abbazia neppure esisteva 7 Cf. Annales regni Francorum (MGH, SS rer. Germ.), 38-39; per questo argomento cf. Story 1999, 4 e 15. 8 Cf. MGH, DD Kar. 1, 126-127. 9 Cf. Annales Mosellani, MGH, SS 16, 496. 10 Cf. Helbling 1961, 360-361. 11 Un elenco di manoscritti antichi conservati in Francia è fornito Munk Olsen – Petitmengin 1989, 415-417.
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e lì conservato per tempi lunghissimi, prospetta uno scenario di scambi e di influenze certo significative nella prospettiva di renovatio, pure libraria, voluta dalla corte franca. L’abbazia potrebbe essere stata coinvolta in queste vicende fin dal momento in cui vi fu abate l’arcicappellano imperiale Fulrado, (morto nel 784) 12; mentre più tardi, sul finire del secolo, ne divenne abate e guida un cortigiano di Desiderio, il longobardo Fardulfo 13. La presenza e gli impegni di Fardulfo aiutano a spiegare come a Saint-Denis sia approdato anche un codice scritto certamente in Italia, l’Ilario De trinitate ora Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 2630, esemplare in onciale, italiano, sui cui fogli di guardia si alternano mani documentarie attive fra VI e VII secolo e si ritrova perfino un rigo in minuscola greca a testimonianza degli usi di un’opera alla quale la corte longobarda, variamente impegnata in tempi diversi nelle dispute trinitarie, dovette probabilmente rivolgersi 14.
2. I testi storici e la biblioteca del duca Giovanni Il discorso sulla sopravvivenza di Livio nel secolo X, quando grandi monasteri – come Montecassino – furono saccheggiati e distrutti, obbligando i monaci a ricoverarsi altrove, sembra doversi appoggiare soprattutto agli interessi e alla elaborazione di modelli presso la nobiltà. In quel secolo, in aggiunta ai manoscritti delle decadi, per i quali, oltre la provincia scrittoria, non è stata ancora individuata una sicura origine, le sole testimonianze certe di una lettura di Livio si accumulano su due poli nobiliari, nel settentrione e nel meridione d’Italia; e si ricollegano al ruolo e ai significati politici della renovatio e dell’esercizio del potere poiché, nel meridione d’Italia, la tradizione dello storico dell’Impero, testimone e garante di una idea di romanità ben presente ai politici di quel secolo, ci riconduce alle collezioni delle grandi famiglie aristocra12 Il suo importante testamento, redatto ad Heristal è pubblicato in Tang 1907, 167-218. 13 Cf. Stoclet 1993; Chiesa 1994, 781-784. 14 Cf. Vezin 1979, 289-298; per le probationes e un rigo in greco cf. Petrucci 1999, 991.
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tiche di regioni dove era in uso la scrittura beneventana, talora associata alla carolina. Il duca Giovanni di Napoli ebbe infatti i libri descritti dal prete Leone nella sua traduzione dal greco del Romanzo di Alessandro, messi insieme soprattutto nei territori sui quali dominava: primum vero libros, quos in sua dominatione invenit, renovavit atque meliores effectus, deinde anxie inquirens sicut philosophus, quoscumque audire vel habere potuit, sive rogando seu precando multos et diversos libros accumulavit et diligenter scribere iussit 15. Q uindi è necessario ripensare ai rapporti e alle alleanze del duca con gli altri potenti della regione, in particolare con i principi di Benevento 16, dove furono conservati importanti esemplari fino all’età umanistica 17; in tal modo Giovanni III arrivò a radunare una ricca biblioteca entro cui si collocano le Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, il De celesti hierarchia dello Pseudo Dionigi e l’opera storica di Livio: maxime ecclesiasticos libros, Vetus scilicet atque Novum Testamentum, funditus renovavit atque composuit; inter quos historiographiam videlicet vel chronographiam, Joseppum vero et Titum Livium atque Dyonisium, caelestium virtutum optimum predicatorem, atque ceteros quam plurimos et diversos doctores, quos enumerare nobis longum esse videtur, instituit 18; e spedì fino a Costantinopoli il prete Leone che ne tornò con un’altra storia preziosa (Q uo pergente in eandem Constantinopolitanam urbem coepit inquirere libros ad legendum. Inter quos invenit historiam continentem certamina et victorias Alexandri regis Macedoniae) 19, subito tradotta dal greco in latino 20. La costituzione di questa biblioteca si colloca, come è noto, all’insegna della renovatio librorum, cioè della trascrizione di materiali antichi e della revisione di libri per la produzione di nuove copie. Der Alexanderroman des Archipresbyters Leo, 46. Cf. Berto 2001. 17 Per le scoperte di Lorenzo Valla cf. Villa 2006, 43-48. 18 Der Alexanderroman, 46. 19 Der Alexanderroman, 45. 20 La raccolta del duca Giovanni e suoi libri trasportati a Bamberg hanno attirato da tempo l’attenzione: Hartwig 1886, 7; quindi l’episodio è stata ampiamente studiato da Frugoni 1969, 161-171; poi, con particolare attenzione per i manoscritti riconducibili alla Napoli del sec. X da Cavallo 1975, 376-381; 2002, 235-283. 15 16
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Mentre è tradizionalmente assegnato alla raccolta del duca un foglio di Livio, relitto della prima decade, ora a Praga, Statni knihovna CSR, VII.A.16 (1224)-IX, cominciano a essere individuati altri esemplari che possono essere stati preparati nel suo entourage: e dobbiamo ricordare come l’attenzione fortissima per Virgilio si rivolga a un poeta responsabile di un’idea di impero fondato sulla Romanità. Gli studi virgiliani acquistano peso e importanza ricordando che nella biblioteca del duca era presente il fondamentale commento di Servio, trascritto in testo continuo, in scrittura beneventana, però con nota in carolina, ora Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, lat. 3317, ampiamente provvisto di richiami contemporanei, che permettono un più agile riconoscimento di passi utili all’interno del testo; e pure il Virgilio-Servio di Napoli, Biblioteca Nazionale, Vindob. lat. 5, con passi provvisti di notazione neumatica 21. Se ordiniamo per materia il gruppo di codici assegnabili alla Napoli del sec. X ritroviamo corrispondenze precise, segnate dal forte interesse per la storia antica narrata dagli storici di Roma; mentre appare notevole l’uso del commento di Servio a Virgilio, fonte prima di informazioni sui costumi e sugli antichi usi, anche giuridici. A Napoli, dunque, per ordine del duca Giovanni il prete Leone procedette alla traduzione, dopo il 951, della Historia de proeliis, versione dello Pseudo Callistene presto trascritta, in carolina, nell’importante collezione storica (con Giordane e Paolo Diacono, Historia Langobardorum) ora Bamberg, Staatsbibliothek, Hist. 3 (E III 4), dove al f. 351 la notizia di un assalto arabo a Taormina nel 902, quando era duca di Napoli Gregorio IV, sembra confermare l’origine napoletana di questa collezione 22. L’impegno nello studio della storia e delle antichità di Roma, dimostrato nella Napoli del duca, induce a riflettere sulle compli21 Cominciano ora ad essere elencati manoscritti che con buona probabilità possono rinviare alla Napoli e alla cerchia del duca; gli esemplari di Virgilio e di Servio sono descritti nelle schede di A. M. Adorisio in Dell’Omo 1996, 172-173, n° 40 (Napoli, Biblioteca Nazionale, Vindobonensis lat. 5); 178, n° 43 (Vaticano lat. 3317); quindi, con ampia e ricca bibliografia in Tarquini 2002, 62-65 e 98-100. 22 Secondo il catalogo la miscellanea storica fu dubitativamente esemplata ad Halberstadt (?) fra il 996 e il 1023, da collezione italiana, cf. SuckaleRedlefsen 2004, 147-148.
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cate avventure del celebre Orosio Laurenziano (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 65.1), prodotto della bottega di Viliaric, nella Ravenna gota di Teodorico. Il codice fu usato nel secolo X, quando il testo fu provvisto di punteggiatura – per una nuova edizione? – in un ambiente che praticava gli usi beneventani; e due brani della prima decade di Livio furono aggiunti, in carolina, negli spazi bianchi dei ff. 60v e 67v. Studiando a suo tempo questi pezzi, che gli avevo segnalato procedendo oltre l’ambigua descrizione dei CLA (III, 298), Billanovich si disse certo che l’operazione di trascrizione fosse avvenuta nella biblioteca papale, sulla base di un ragionamento che collocava in una koinè indifferenziata le troppo generiche caratteristiche della scrittura: «La scrittura è atipica … Ma appunto atipiche ci appaiono altre scritture distese per secoli nella capitale della cristianità, e perciò crocevia di dotti»; e riportava a Roma l’interesse per il brano di Livio con la leggenda di Romolo e Remo: «non saremo incoraggiati a pensare che questo libro era intanto passato da Ravenna a Roma?» 23. In verità gli interventi massicci di renovatio, nel sec. X, con sostituzione dei fogli caduti e l’uso di elementi beneventani associati alla carolina ci obbliga a considerare, in prima istanza, le aree di confine più compromesse con fenomeni ed interferenze; quindi, a sud di Roma, i territori di frontiera entro i quali è possibile rintracciare elementi misti di carolina e beneventana 24. Ne è notevole esempio, tra l’altro, la silloge di storia romana ora Bamberg, Staatsbibliothek, Msc.Hist.6, con l’Historia di Eutropio/Paolo Diacono, assegnata a Benevento, ca. 900 25; mentre marginalia in beneventana si rintracciano nella prima decade di Livio ora Bamberg, Staatsbibliothek, Class.34 (M IV 8), f. 15r, sec. IX ex. 26. Così occorre esaminare le testimonianze di un grande centro di cultura quale fu la Napoli del sec. X, e avanzare il sospetto che la «renovatio» dell’Orosio, con sostituzione di fogli e aggiunta 23 Cf. Billanovich 1986, 7-8; per quanto riguarda le sopravvivenze di classici antichi nella biblioteca papale, nel sec. X, condivido il punto interrogativo di Reeve 2011, 52-59. 24 Cf. Tristano 1978, 89-150. 25 Cf. Suckale-Redlefsen 2004, 13-14. 26 Cf. Bischoff 1998, 47.
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del brano di Livio, possa essere messa in rapporto con gli impegni di edizioni assunti nella corte del duca. Dovremo inoltre considerare quanto in quel secolo fossero ancora in circolazione, per essere letti e variamente glossati, codici molto antichi e straordinariamente autorevoli: perché non si può dimenticare la nota del «Maestro dell’Aceto» che, in scrittura beneventana, postilla, fornendo l’equivalente latino di un termine greco, le Pandette di Giustiniano, la littera Pisana-Fiorentina ora conservata nella Biblioteca Laurenziana (Pandette s.n.). In generale dovremo perciò constatare che la ricerca e il traf fico di manoscritti tardo-antichi, prodotti nell’ultima età romana, sembra indicare la vitalità e le necessità di una regione dove operava una società in cui questi codici, già vecchissimi, non erano affatto dimenticati ma continuavano ad essere in uso 27. In particolare dovremo ricordare che Paolo Diacono utilizzò ampiamente Orosio per la sua Historia Romana, composta fra il 766 e il 769 e dedicata alla prediletta Adelperga, moglie del duca di Benevento. I consistenti interessi per gli studi storici coltivati nella cerchia del duca Giovanni III sostengono l’ipotesi che l’antico Orosio laurenziano, restaurato in una regione di confine fra due aree scrittorie, possa essere associato al fervore di studi promosso a Napoli nel sec. X. Sarà poi importante ricordare come la biblioteca del duca Giovanni fosse dedicata al ricordo della moglie Teodora, la cui famiglia d’origine ci conduce nella Roma del senator Romanorum Teofilatto. Teodora era infatti cugina di Alberico, il grande princeps riformatore che, per il figlio, scelse il nome programmatico di Ottaviano. Il giovanissimo rampollo non fu un imperatore, come Augusto, ma entrò nella storia della chiesa come papa Giovanni XII, il pontefice deposto da Ottone I, in uno dei conflitti più feroci tra forze politiche sostenute da una stessa idea di Romanità. Per l’attività di Alberico, evidentemente impegnato a costruire un sistema di governo destinato a radicarsi in una serie di successori e tanto lucido da assicurare al figlio la suprema potestà ecclesiastica, possiamo ancora citare i giudizi di Gregorovius La nota del «Maestro dell’Aceto» è segnalata da Caprioli 1986, 49; non ancora riconosciuto il luogo in cui il codice fu conservato: cf. Villa 2000, 9-20 e 2009, 9-10; Belloni 2008, 1-16. 27
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e di Giorgio Falco: «Alberico non è soltanto in maniera generica l’erede conclusivo di una tradizione familiare, l’inflessibile fondatore di stato contro papato politico, impero ecclesiastico, ambizioni feudali, fazioni locali; egli è l’interprete della coscienza cittadina, il campione di una Romanità nutrita d’antico, rigermogliata dal profondo, affiorata nelle lettere di Giovanni VIII e nelle poesie di Eugenio Vulgario, nel senato e nel patriziato redivivi, radicata da lui in breve giro di terre, ma tradotta nell’azione e nella creazione politica»; come Cesare, Alberico fu un principe che «senza definizioni costituzionali, derivava il potere da se stesso» 28. Nella generazione di Alberico e del duca Giovanni sarà ormai necessario capire meglio quali libri e quali letture nutrissero progetti politici di una aristocrazia fermamente sorretta dal proposito di dare fondamento giuridico alla renovatio del passato di Roma.
3. I libri di Ottone III I progetti della renovatio acquistano nel sud un significativo rilievo, alimentando letture liviane destinate a suggerire e integrare programmi di potere ben radicati nel presente; mentre nell’Italia settentrionale, a Piacenza, dove sorgeva la fondazione imperiale di San Sisto, stabilita dall’imperatrice Angelberga e arricchita dai suoi lasciti testamentari, il vescovo Giovanni Filagato poté radunare per Ottone III una piccola collezione con un esemplare di Livio, che poi passò le Alpi per arricchire la biblioteca di Bamberg. Q uesto notevole «omaggio» di libri fu composto da manoscritti di importanti autori antichi poiché furono consegnati Orosio, Livio, Persio, l’Isagoge di Porfirio, Fulgenzio e il De orthographia di Isidoro (cioè Etym. I, 27), testi di leggi e di medicina, due glossari: «Isti sunt libri tercii imperatoris Ottonis, quos [Iohan: cancellato dal copista] Placentiae invenit sibi servatos: duos libros Orosii, Persium, Titi Livii [non minimam partem: cancellato] duos libros [aggiunto nell’interlinea], medicinalem unum, duos capitulares, Fulgentium unum, simul cum ortographia Isidori Cf. Falco 19542, 229-239; per la biografia del personaggio, che Liutprando presenta come testimone della dignitas Romanae urbis cf. Arnaldi 1960, 647656. 28
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episcopi, in Isagogas Porphyrii minus commentum Boecii, duos glossarios» 29. La raccolta appare organica e coerente se consideriamo la qualità di consultazione e soprattutto la possibile destinazione di questi libri: poiché la scelta corrisponde alle esigenze di una curia in movimento, quasi l’armamentario di lavoro di giuristi chiamati a elaborare e formalizzare quanto è necessario all’esercizio del potere legislativo e giudiziario; ed è notevole che siano ancora insieme Livio e Orosio, come nel manoscritto laurenziano dove, a futura memoria, furono inseriti i brani dedicati alla fondazione di Roma. Non solo i testi di storia conservano il ricordo di precedenti utili alla giurisprudenza ma gli stessi glossari o i trattati di ortografia sono quasi i ferri del mestiere per gli estensori di carte e documenti pubblici. In tal senso è importante citare l’interessante formula di un capitolare italico: «Comes vero secum habeat iudicem qui ibidem constitutus est iudicare, et librum legis, ut semper rectum iudicium iudicet» 30. Aggiungo che per l’attività di un cancelliere dell’impero, il vescovo di Colonia Bruno, zio di Ottone III, si è mantenuta la testimonianza di una biblioteca itinerante che l’altissimo funzionario recava sempre con sé: quocumque enim circumagebantur tabernacula aut castra regalia, bibliothecam suam sicut arcam dominicam circumduxit ferens secum et causam studii sui et instrumentum, causam in divinis, instrumentum in gentilibus libris, utputa doctus paterfamilias, qui novit de thesauro suo proferre nova et vetera 31. Perciò bisognerà ricordare in che misura una attività giudizia ria e gli impegni del potere richiedano la riflessione sul passato, esigano discussioni sulle consuetudini e sulla prassi, impongano l’uso di strumenti grammaticali e tecnici per sostenere una classe di dettatori capaci di interpretare e tradurre nelle forme dovute la volontà e l’impegno legislativo del sovrano; ma anche di organizzare ogni forma di consenso, perfino esaltando fasti e imprese 29 Cf. Billanovich 1986, 14, pubblica la breve nota che si trova nel manoscritto contenente testi medici ora Bamberg, Staatsbibliothek, Med. 1 (L III 8), f. 42v. Per la biblioteca di Ottone III cf. Mütherich 1986, 11-25; sul dono di Giovanni Filagato cf. anche Ferrari 1991, 109. 30 Cf. Bougard 1995, 48. 31 Cf. Ruotgeri Vita Brunonis Archiepiscopi Coloniansis, MGH, SS. rer. Germ. N.S., X, 9.
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del passato per costruire l’ideologia del presente. In tal senso la conoscenza delle procedure giuridiche e amministrative della società romana, che gli imperatori della dinastia sassone continuavano a rievocare per celebrare se stessi, può ben giustificare gli interessi per gli autori storici. Q uanti nel secolo X erano occupati a riflettere sul diritto 32 e sulle successioni dei re legislatori 33 furono costretti a conservare tutto quanto è utile alla pratica della giu risprudenza: glossari, testi grammaticali, letteratura funzionale agli usi amministrativi e legali 34, che garantiscono la persistenza e la continuità di una tradizione entro la quale riuscirono a sopravvivere anche le decadi di Tito Livio.
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APPUNTI PER LA STORIA DELLA TRADIZIONE DI LIVIO IN ETÀ CAROLINGIA E OTTONIANA
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Abstracts This paper highlights the Livian manuscript tradition in the ninth and the tenth century, analysing the relationship between the Reginensis and its model, the Puteaneus (fifth century), with special regard to the cultural milieu in which these two manuscripts circulated. Livy’s fortune seems to point to lay cultural centres, and notices about the usage of Livy’s decades confirm their circulation in juridical circles connected to royal and imperial courts. Il contributo prende in considerazione i manoscritti di Livio preparati nei secoli IX e X. Sono analizzati i rapporti del Livio Reginense con il suo modello, il codice Puteano del sec. V, con una particolare attenzione per gli ambienti nei quali circolarono i due manoscritti. La storia della fortuna dell’autore sembra indirizzare a centri di cultura laica e le notizie di uso delle Decadi ne conferma la circolazione in ambienti giuridici legati a corti reali e imperiali.
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RINO MODONUTTI
APPUNTI PER LA VITA LIVII TRA MEDIOEVO E UMANESIMO *
Nel 1944 Berthold Ullman tenne, presso l’University of North Carolina, una lezione dedicata alle «post-mortem adventures of Livy» 1. Si tratta di poco più di venti pagine, fittissime di aned doti sulla storia plurisecolare del fantasma liviano, sotto le due specie dei resti mortali del grande storico e di quello che lo studioso chiama «his spiritual self» 2, ossia la sua opera. Molte di queste avventure paiono quasi trasposte da un romanzo d’appendice (e qualcuna di esse passa in effetti dalla narrativa d’invenzione alla storia) e la loro ambientazione spazia dall’Europa del Nord a esotiche plaghe. Tanta è la vitalità del fantasma liviano lungo i secoli che Ullman potè concludere – certo sfiorando il paradosso – che quando il fantasma di Livio fosse sparito dai nostri orizzonti, questo sarebbe stato il segno della fine del Rinascimento e delle «classical humanities» e sarebbe stato allora necessario comporre un’epigrafe, che fissasse nella pietra l’epocale evento: Hic iacent studia humanitatis et spes librorum Livianorum reperiendorum; requiescant Livii manes in pace 3. Un così lungo clamore che, secondo le ricostruzioni di Ullman, comincia nel secolo XIV e continua fino agli inizi del XX, segue però a un’epoca in cui il fantasma di Tito Livio era rimasto in * Desidero ringraziare per i suggerimenti, i consigli, le letture e l’aiuto in ogni forma prestato Laura Banella, Luca Beltramini, Carla Maria Monti, Marco Petoletti. 1 Ullman 1955 (da cui si cita, mentre al 1944 risale la prima pubblicazione del saggio). 2 Ivi, 62. 3 Ivi, 79. A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 237-267 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117494
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dimensioni forse più adatte alla sua umbratile natura 4. La biografia del grande storico è invece fin dall’epoca antica e senza eccezioni avvolta in una dimensione di indeterminatezza che nemmeno la più moderna acribia filologica è riuscita a sciogliere: per quanto capillarmente si setaccino le fonti, della sua vita non emerge infatti quasi nulla e il regesto delle notizie che si possono spigolare dagli autori classici e post-classici si esaurisce in una paginetta o poco più 5. Si tratta di scarsissime informazioni biografiche a cui si possono associare due soli aneddoti: l’appellativo di Pompeianus affibbiatogli da un benevolo Augusto, di cui dice Tacito 6; e il racconto, riportato invero molto succintamente da Plinio il Giovane, dell’uomo di Cadice venuto a Roma non per ammirare la splendida città centro dell’impero, ma all’unico scopo di vedere lo storico degli Ab urbe condita libri 7; quest’ultimo aneddoto è poi ripreso e amplificato da Girolamo in una lettera a Paolino 8. Completano il misero quadro alcuni giudizi sull’opera liviana, presenti in Seneca, Q uintiliano e Pompeo Trogo (nell’epitome di Giustino) 9. Insomma, per usare un’espressione dello scrittore e sceneggiatore James Hilton (ma che devo sempre a Ullman), la vita di Livio è «lost like the lost books of Livy» 10. Q uesta povertà di notizie non prepara tuttavia alla sconfortante rivelazione che si presenta a chi cerchi nelle fonti medievali Cf. Ullman 1955, 55. Per un regesto delle notizie utili per tracciare la storia della fortuna di Livio nel Medioevo, cf. Munk Olsen 2014, ad indicem; e Munk Olsen 2009, 129. Si aggiungano anche, McDonald 1971; e gli studi di Giuseppe Billanovich, anzitutto Billanovich 1951; quindi Billanovich 1981; e anche Billanovich 1959. Cf. anche Matthews Sanford 1944. 5 Cf. Ogilvie 1965, 1-5. 6 Tac., ann. 4, 34, 3 Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit, ut Pompeianum eum Augustum appellaret; neque id amicitiae eorum offecit. 7 Plin., epist. 2, 3, 8 numquamne legisti Gaditanum quendam Titi Livi nomine gloriaque commotum ad visendum eum ab ultimo terrarum orbe venisse statimque ut viderat abisse? Cf. de Franchis 2012. 8 Hier., epist. 53, 1, 3 ad Titum Livium lacteo eloquentiae fonte manantem visendum de ultimo terrarum orbe venisse Gaditanum quendam legimus; et quem ad contemplationem sui Roma non traxerat, vel unius hominis fama perduxit. habuit illa aetas inauditum omnibus saeculis celebrandumque miraculum, ut orbem totum ingressus alium extra orbem quaereret. Cf. de Franchis 2012, 23-25. 9 Cf. Ogilvie 1965, 1-5. 10 Cf. Ullman 1955, 63. 4
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qualche traccia sulla biografia dell’autore degli Ab urbe condita libri. La summa più completa del sapere storico basso-medievale, lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais (n. 1190 ca., m. 1264 ca.) 11, a fronte di una decorosa messe di notizie e soprattutto di flosculi su e da Sallustio 12, ignora pressoché del tutto Tito Livio, il cui nome mi pare si trovi citato fugacemente soltanto in due punti. Al cap. 58 del libro 5, dove si sta narrando dei tempi di Tolomeo Epifane, Vincenzo così afferma: De Seleucho Philopatore et Heliodoro et Tito Livio et quibusdam preliis Romanorum … Eusebius in Chronicis. Eo tempore clarus habitus est Titus Livius historiarum scriptor, qui ob ingenii meritum a Livio Salinatore, cuius libertos erudiebat, libertate donatus est 13.
La fonte dichiarata è il Chronicon di Eusebio nella rielaborazione latina di Girolamo, di cui si cita alla lettera una notizia ivi collocata al 188 a.C.: l’unica differenza è che nel Chronicon si legge non Titus Livius historiarum scriptor, bensì Titus Livius tragoediarum scriptor, riferendosi la notizia al tragediografo Livio Andronico, sebbene già Girolamo sovrapponga le forme del nome dei due autori 14. Lo storico Livio ritorna poi confusamente per due volte al cap. 116 dello stesso libro 5, De fuga Aristobuli e carcere et quibusdam Siriae praesidibus illius temporis et scriptoribus: Eusebius. His temporibus Horatius Flaccus poeta satyricus Venusii nascitur. Apollodorus Pergamenus Graecus orator Callidii et Augusti praeceptor clarus habetur. Ea quoque quae de Catilina et Lentulo consule et Cicerone Salustius scribit et Livius, hoc tempore gesta sunt. Cicero annum facit in exilio, honorifice susceptus a Plaucio. Catullus anno aetatis suae 30. Romae moritur. Messalla Corvinus orator nascitur. Virgilius Cremonae studiis eruditur. Deinde sumpta toga Mediolanum transgreditur et post breve tempus Romam proficiscitur. Le considerazioni sullo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais sono condotte sulla base dell’edizione seicentesca (Speculum historiale 1624). Su Vincenzo di Beauvais si veda almeno Lusignan 1979; Lusignan et alii 1990; Lusignan – Paulmier-Foucart 1997; Paulmier-Foucart – Duchenne 2004. 12 Per Sallustio in Vincenzo, Speculum historiale 1624, 185 (6, 32-34). 13 Cf. Speculum historiale 1624, 153. 14 Cf. Helm 1984, 219; Brugnoli 1962, 61. 11
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Praeterea Titus Livius historicus, et Marcus Callidius orator, Diodorus quoque Graecae scriptor historiae clari habentur 15.
Anche qui la fonte è il Chronicon, di cui vengono fuse insieme diverse voci concernenti più anni (almeno dal 65 al 49 a.C.), tra cui due con un rimando a Tito Livio. Viene infatti verbatim da Eusebio-Girolamo la non chiara affermazione ea quoque quae de Catilina et Lentulo consule et Cicerone Salustius scribit et Livius hoc tempore gesta sunt, che è tutto quello che lo Speculum dice del contenuto degli annali liviani (anche se, sulla base di quel che oggi sopravvive, parrebbe riferirsi al solo De coniuratione Catilinae di Sallustio) 16. L’asserzione Titus Livius … clari habentur, letta insieme alle altre con cui è riportata, va poi ricondotta alla notizia girolamiana sulla nascita dello storico augusteo, fissata all’anno 59 a.C., congiuntamente con quella di Messalla Corvino, non fosse che il Bellovacense separa Livio e Messalla, inserendo tra di essi due tessere biografiche su Virgilio (una dello stesso 59 a.C., la seconda del 53 a.C.) 17. Non pare invece possibile ritrovare alcuna traccia della notizia sulla morte di Livio, registrata nel Chronicon per il 17 d.C. 18. Una tale penuria di informazioni implica per altro quasi di necessità l’ignoranza totale degli Ab urbe condita libri in qualsiasi forma da parte di Vincenzo, che si limita a riportare in maniera confusa e solo in parte le già scarse e frammentarie righe del Chronicon; ed è senza ombra di dubbio questa la chiave per interpretare più in generale il totale silenzio alto-medievale e la confusa e desolante situazione bassomedievale di cui il vescovo di Beauvais è autorevole, quanto miserando, testimone. Ne offre una controprova il molto diffuso De vita et moribus philosophorum, a lungo attribuito a Walter Burley (sec. XIV in.) 19. L’unico Tito Livio lì presente viene correttamente collocato tra l’età di Cesare e l’inizio del principato di Tiberio, come consentiva di fare proprio il Chronicon; ma si Cf. Speculum historiale 1624, 172. Cf. Helm 1984, 236. 17 Cf. Helm 1984, 236-237; e anche Brugnoli 1962, 66. Per una sintesi del dibattito sull’attendibilità delle notizie liviane del Chronicon, in particolare quella relativa alla nascita, basti rimandare a Ogilvie 1965, 1. 18 Cf. Helm 1984, 253; e anche Brugnoli 1962, 73. 19 Cf. Petoletti 2006b, 338-339. 15 16
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continua a confondere la sua figura con quella di Livio Andronico, visto che si afferma che fu anche tragediarum scriptor. Lo Pseudo Walter Burley (o le sue fonti) ha, però, evidentemente qualche informazione sull’opera storica di Livio, visto che può affermare: Hic scripsit egregie de bellis Romanorum cum Hannibale in libris centum 20. La frase rivela infatti la conoscenza quantomeno del l’esistenza della terza decade degli Ab urbe condita libri (de bellis Romanorum cum Hannibale), ma anche una qualche imprecisa nozione sull’estensione complessiva dell’opera liviana 21. La sovrapposizione tra Livio Andronico e Tito Livio è attestata anche prima dello Speculum di Vincenzo di Beauvais. Basti a esempio il commento all’Ecloga di Teodulo a opera di Bernardo di Utrecht (fl. 1076-1099 ca.) 22, dove Livio è menzionato nel singolare ruolo di modello di Sallustio, con un’inversione cronologica che dipenderà ancora dalla sua fusione con l’omonimo tragediografo. Il commento di Bernardo è poi tra le fonti massicciamente saccheggiate da Corrado d’Hirsau (n. 1070 ca., m. 1150 ca.) per comporre il suo Dialogus super auctores 23: Denique plurimi poe tarum poe tas precedentes in carmine suo secuti sunt, ut Terentius Menandrum, Oratius Lucilium, Salustius Livium … 24
Parlando del fatto che i poeti sono soliti imitare poeti precedenti, Corrado porta alcuni esempi, tra cui Sallustio “imitatore” di Livio. Le singolarità della precedenza cronologica di Livio rispetto a Sallustio e quella relativa a un Tito Livio poeta si possono facilmente motivare, pensando ancora alla sovrapposizione tra lo storico augusteo e Livio Andronico, mentre più difficile parrebbe dare conto di un Sallustio poeta. La stranezza nasce, però, in questo caso senza dubbio da una “parafrasi” piuttosto disinvolta della certa fonte del dialogo di Corrado, ossia l’appena Ed. Knust 1886, 310. Prima di congedare il De vita et moribus philosophorum, sarà tangenzialmente interessante registrare la caotica deriva di una sua versione spagnola, secondo la quale lo storico e tragedo Tito Livio sarebbe vissuto ai tempi di Annibale, nove anni prima di Cesare. Cf. Knust 1886, 311. 22 Cf. Lockett 2006. 23 Cf. Bisanti-Donati 2008. 24 Cf. Huygens 1970, 78; e anche Marchionni 2008, 44-45. 20 21
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citato commento a Teodulo di Bernardo, dove si parla non di poeti, ma, in termini più generali, di auctores 25. Il Dialogus super auctores permette di istruire ancora una volta un fruttuoso raffronto tra Tito Livio e Sallustio. Non suscita infatti particolare stupore che Livio non trovi posto tra gli autori discussi, se non per il confuso accenno ripreso maldestramente dall’opera di Bernardo di Utrecht. Nel Dialogus vi è invece un articolato accessus di Sallustio, in cui tutto quello che si dice della sua vita pare dipendere dalle praefationes delle sue due monografie. D’altra parte la voce Sallustius nel Catalogus translationum et commentariorum registra almeno sette apparati esegetici al De coniuratione Catilinae trasmessi da codici composti entro il XIII sec. e in ognuno di essi è presente un accessus, mentre nulla di simile si riscontra per Livio 26. Q uesto secondo caso conferma che la differenza nella considerazione dei due storici romani da parte dell’erudizione medievale riposa proprio sull’affatto diversa circolazione delle relative opere. Come ebbe a dire Beryl Smalley, Sallustio e Orosio sono infatti le «twin keys to medieval historiography», mentre fino quantomeno al tardo Duecento Livio resta una lettura non usuale, riservata a circoli quantomai ristretti 27. Da un certo punto di vista si potrebbe prendere proprio lo Speculum di Vincenzo come un momento di frattura, il punto dopo il quale sembra iniziare per Livio una “nuova vita”, anche in senso propriamente biografico. La confusione tra i due Livi, che risulta per lo più superata nelle vite trecentesche di cui si andrà a dire, emerge però sporadicamente anche in testimonianze del tardo sec. XIV, se non di primo Q uattrocento. È il caso della Vita Livii premessa al testo degli Ab urbe condita libri nel ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1859, maestoso codice membranaceo di grande formato (437 × 300 mm), scritto su due colonne da una sola mano, tra la fine del sec. XIV e l’inizio del XV, probabilmente in ambiente bolognese 28. Anche lì Livio è historiographus Cf. Huygens 1970, 64-65. Cf. Osmond – Ulery 2003, 225-233. 27 Cf. Smalley 1971, 165-175 e la bibliografia ivi citata; nonché Munk Olsen 1995, passim. 28 Gli accessus liviani presenti in questo codice sono editi da Billanovich 1981, 327-330. Cf. anche Pellegrin et alii 1991, 435-437; Manfredi 1991, 288; 25 26
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et tragediarum scriptor; il che pare sorprendente visto che il codice costituisce una ricchissima edizione di “tutto Livio” in un senso quantomai estensivo, poiché raccoglie non solo le tre decadi allora note (prima, terza e quarta), ma anche l’epitome di Floro e le Periochae complete. Ma questa è solo una delle peculiarità di un codice, che, nonostante gli auspici di Giuseppe Billanovich, resta ancora per molti aspetti misterioso 29. Per trovare qualcosa di simile a un canonico accessus dedicato a Tito Livio bisogna attendere il secondo decennio del Trecento, quando il frate predicatore Nicola Trevet (n. 1258 ca., m. 1334 ca.) compose, su commissione di Giovanni XXII, quello che è l’unico commento organico al testo degli Ab urbe condita libri prodotto, a quel che è noto, lungo il Millennio medievale 30. Si tratta di un’opera che, a parte qualche recentissimo sondaggio (Crevatin 2012), risulta del tutto negletta dagli studiosi. Se guardato dalla specola delle periodizzazioni storico-letterarie moderne, il commento del Trevet sembra paradigmatico del passaggio dal Medioevo all’Umanesimo, passaggio che l’opera del domenicano guarda, per così dire, dalla riva medievale: si tratta infatti di un commento tipicamente scolastico nelle finalità e nella struttura, ma realizzato per un testo senza dubbio nodale per la genesi del sistema di valori umanistico. Nell’allestire su mandato di uno dei centri culturali più avanzati dell’epoca, ossia Avignone, un commento a questo autore in qualche misura nuovo il Trevet non si discosta dalla struttura tradizionale dei suoi altri commentari (come quello a Boezio), quasi che davanti agli occhi avesse sempre lo stesso pubblico della scuola inglese di cui era maestro 31. Il prologus super apparatum libri Titi Livi ab urbe condita del Trevet, pur non essendo un accessus in senso stretto, condivide molte delle caratteristiche canoniche di tale genere. La parte Modonutti 2017a, 273-275; nonché il contributo di Nicoletta Giovè Marchioli in questo volume. 29 Cf. Billanovich 1981, 330. 30 Cf. McDonald 1971, 340-342; Dean 1945, 86-98; e Crevatin 2012, a cui segue, sempre per cura di Giuliana Crevatin, l’edizione di brani scelti delle sezioni del commento del Trevet che Landolfo Colonna (v. 1269, m. 1331) copiò nel ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 5690, poi appartenuto a Francesco Petrarca (119-173). 31 Cf. Dean 1945, 94-95.
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biografica (poetae vita, avrebbe detto Servio) è asciutta e sotto molti aspetti lacunosa, ma straordinariamente avanzata sotto altri punti di vista: Titum Livium virum eloquentissimum fuisse beatus Ieronimus in epistola ad Paulinum testatur, de eo sic scribens: «Ad Titum Livium lacteo eloquentie fonte emanantem de ultimis Hyspanie Galliarumque finibus quosdam venisse nobiles 32 legimus et quos ad contemplationem sui Roma non traxerat, unius hominis fama perduxit». Hunc et Seneca in ultimo declarationum libri prologo commendat, dum asserit Lucium Magium eiusdem generum nominis sui laudem scripsisse 33.
Essa si limita ad accostare due passi: il primo è quello della lettera di Girolamo a Paolino con l’aneddoto che possiamo chiamare, per brevità, dello “Spagnolo a Roma”; il secondo è invece estratto dalle Declamationes di Seneca (Sen., contr. 10 praef. 2) e in esso si parla del genero di Livio, Lucio Magio. Il richiamo al passo di Girolamo diventerà una costante nei profili biografici liviani, costituendone una pressoché irrinunciabile chiave di volta; ma il richiamo al passo delle Declamationes senecane resta, a quel che ho visto, un unicum nella biografia liviana almeno fino al Q uattrocento avanzato. Sotto questo aspetto, i cenni biografici su Livio del commento trevetiano sono, sebbene concisi, in qualche modo emblematici delle vite liviane, anche molto più strutturate, che si susseguono lungo il Trecento. Operando in un ambito per il quale non vi era una consolidata tradizione, i biografi di Tito Livio da un lato ripetono infatti pochi elementi di sicuro effetto che diventano canonici, ma a essi quasi sempre tendono ad accostare contributi legati alle loro personali letture, liviane e non, e Seneca era certo un autore bene noto e caro al frate domenicano. Q ualche anno prima del commento del Trevet, al volgere del Trecento, una più articolata ricostruzione del profilo biografico 32 Il testo critico dell’ep. di Girolamo, allestito da Hilberg, legge venisse Gaditanum quendam (in perfetto parallelo con Plinio), ma quosdam venisse nobiles è lezione testimoniata nella tradizione, che, negli stessi codici, reca Galliarumque finibus per terrarum orbe. Cf. Hilberg 19962, I 444, e de Franchis 2012, 23-25. 33 Trascrivo dal ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 5745, f. 1ra. Cf. McDonald 1971, 340-341.
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e dell’opera di Tito Livio si legge nelle opere di Riccobaldo da Ferrara (n. 1245 ca., m. 1318 ca.), fin dal Pomerium, composto tra il 1297 il 1303 34. Il Ferrarese conosceva e usò in questa sua prima fatica storiografica sia la prima che la terza decade degli Ab urbe condita libri. Nel Pomerium sono dedicate a Livio due diverse notizie, che vanno messe in relazione a due delle già ricordate presenti nel Chronicon di Eusebio-Girolamo. Parlando di Cesare, si dà conto della sua nascita, mentre al quarto anno del principato di Tiberio se ne riferisce la morte a Padova, con l’aggiunta, però, di alcune importanti affermazioni sugli Ab urbe condita libri: ab urbe condita usque ad tempora Augusti Romanam transcripsit historiam per decadas dirigens, cui in scribendo historiam nemo conferri potuit. Ipsius quidem meminit beatus Ieronimus in prohemio Biblie, dicens: «Ad Titum Livium lacteo eloquentie fonte manantem» et cetera 35.
Le osservazioni sull’opera liviana sono del tutto incomparabili rispetto alla tradizione precedente. Se ne osserva infatti l’articolazione in decadi, basata su una conoscenza diretta (elemento che si riscontra già nel Trevet); ma soprattutto viene indicata con una certa precisizione l’estensione cronologica del racconto storiografico liviano: quest’informazione potrebbe derivare dalla lettura dell’Epitome di Floro che già nel prologo propone gli estremi cronologici dell’opera in termini analoghi (a rege Romulo in Caesarem Augustum) e il cui legame con gli Ab urbe condita libri è affermato con chiarezza dalla maggior parte delle forme del titolo attestate nella tradizione manoscritta, almeno a quel che si ricava dall’edizione Jal 36. In questo modo Riccobaldo prende anche atto del punto centrale a cui non può sfuggire nessuna analisi dell’opera liviana, medievale o moderna che sia, ovvero la dimensione della perdita, così ben descritta dal Petrarca 37.
Cf. Zanella 1989. Cf. Zanella 1989, 56. 36 Jal 1967, 3. 37 Si fa riferimento soprattutto alla lettera che Francesco Petrarca indirizzò allo storico romano, la fam. 24, 8, per la quale si rimanda al saggio di Carla Maria Monti in questo stesso volume. 34 35
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Il profilo presente nel Pomerium ritorna sostanzialmente uguale in altre due opere di Riccobaldo, le Historie e il Compendium historie Romane, con un’unica decisiva aggiunta, ossia il testo della presunta epigrafe funeraria di Tito Livio, ritrovata a Padova e che in realtà va assegnata al liberto Livius Halys 38. La riscoperta di questa lapide risulta nodale per qualsiasi discorso sulla Vita Livii tra Medioevo e Umanesimo: con il già più volte citato passo di Girolamo sullo “Spagnolo a Roma”, essa diviene infatti l’altro elemento qualificante di buona parte dei profili biografici dello storico romano composti nel Trecento e nel primo Q uattrocento. Ritengo che le conclusioni di Giuseppe Billanovich sul ritrovamento di questa epigrafe e sulla genesi e la storia di una delle fortunate vite che la riportano vadano riviste in maniera radicale, ma non è questa la sede per dimostrare compiutamente tale assunto. Mi limiterò quindi a enunciare in modo cursorio i termini generali della questione. Secondo Billanovich, l’epigrafe fu trovata a Padova nella seconda metà del Duecento e la sua prima valorizzazione monumentale nell’ambito del complesso monastico di Santa Giustina si dovrebbe attribuire a Lovato Lovati, il padre dell’Umanesimo padovano 39. A confermarlo sarebbe una vita di Livio, che, dal suo incipit, chiamerò Titus Livius auctor, la quale si chiude con il testo dell’iscrizione funebre di Livius Halys e che, sempre secondo Billanovich, andrebbe attribuita allo stesso Lovato Lovati 40. La Titus Livius auctor è testimoniata in via diretta a partire da codici della seconda metà del Trecento 41, mentre la più antica attestazione databile finora nota della lapide pseudo-liviana è quella offerta da Riccobaldo nelle Historie e nel Compendium: le prime furono composte proprio a Padova attorno al 1313, il secondo vide la luce intorno al 1318 42. Che non si possa dimostrare la dipendenza di Riccobaldo dalla vita Titus Livius auctor è già stato sostenuto da Gabriele Zanella sulla base di solidi dati che paiono difficilmente smentibili 43. Q uesti 40 41 42 43 38 39
Cf. Zanella 1989, 67-68; Billanovich 1981, 319-320. Cf. Billanovich 1981, 5-6; Billanovich 1976, 100. Cf. Billanovich 1981, 316-319; Billanovich 1976, 60-61. Cf. Billanovich 1981, 311-312. Cf. Zanella 1989. Ivi, 67-68.
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stessi elementi danno forza anche all’ipotesi inversa, ossia l’auto nomia della Titus Livius auctor da Riccobaldo. Se però sfuma in entrambe le direzioni il legame tra Riccobaldo e la vita Titus Livius auctor, allora la genesi di quest’ultima va indagata su altre basi. La presenza in essa del testo della lapide sembra confermare la sua pertinenza padovana, così come verso Padova sembrano spingere alcuni elementi che la avvicinano a una Vita di Seneca trasmessa dal ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1769 44, edizione degli opera omnia di Seneca (e non solo), su cui è possibile individuare la mano del nipote di Lovato Lovati, Rolando da Piazzola che ne fu il committente 45. Dalla mano di Rolando nel Seneca dei Padovani, è necessario qui saltare molti e decisivi passaggi per arrivare a quella che mi pare una nuova ragionevole ipotesi interpretativa del ritrovamento della lapide di Livius Halys e quindi della genesi della Titus Livius auctor, ipotesi che ha come protagonista proprio Rolando. Sulla base di dati che ritengo solidi, già Cesira Gasparotto pensava che proprio al da Piazzola si dovesse la prima valorizzazione dell’epigrafe di Livius Halys, il cui ritrovamento andava secondo lei collocato nel secondo decennio del Trecento 46. Alla luce di un riesame della questione, le sue conclusioni mi trovano d’accordo. Se ciò è vero, allora Lovato Lovati, morto nel 1309, non può essere stato l’autore della Titus Livius auctor, quantomeno nella sua forma completa 47. A mio giudizio vi sono invece indizi che permettono di pensare a Rolando non solo come all’inventor del l’iscrizione, ma anche come all’auctor (o quantomeno all’ispiratore) della vita padovana. Q uale che ne sia stata la genesi e quale ne sia stato l’autore, Billanovich ben valutò l’importanza di questo testo nella storia trecentesca e quattrocentesca della fortuna liviana: ne è prova tangibile la non esigua tradizione manoscritta. Certo fin dalle sue prime attestazioni, la vita Titus Livius auctor risulta soggetta a rimaneggiamenti, aggiunte o sottrazioni di diversa natura, ma questo non stupisce per un paratesto pensato per introdurre l’edi 2017. 46 47 44 45
Cf. Billanovich 1981, 317-319. Cf. Monti 2009; Mariani Canova 2009; e, in estrema sintesi, Modonutti Cf. Gasparotto 1975-1976. Cf. Kohl 2006, 218.
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zione di un autore, funzione desumibile con chiarezza dalle sue prime parole: Livius auctor presentis operis 48. Inoltre questa vita padovana è tra le fonti di altri importanti profili biografici liviani tra XIV e XV secolo 49. In un embrionale discorso sui modelli biografici liviani, è interessante rilevare che essa è, tra le vite trecentesche di Livio, l’unica in cui manchi l’aneddoto girolamiano dello “Spagnolo a Roma”. Il che potrebbe corroborare una sua datazione all’inizio del revival preumanistico di Livio, quando appunto non si era ancora costituito alcun modello biografico per lo storico antico. Come la vita Titus Livius auctor, anche i Pauca de Tito Livio di Giovanni Boccaccio nacquero con ogni probabilità per aprire un codice contenente gli annali liviani, o almeno la prima decade, in un’edizione del tutto peculiare, che vedeva una stretta integrazione del testo di Tito Livio con le cosiddette Periochae 50. Proprio le Periochae, ubi te totum, sed in angustiis video, come scrisse Petrarca a Livio (fam. 24, 8, 5), consentono al Certaldese di dichiarare finalmente con chiarezza dove finivano gli Ab urbe condita libri, ossia col racconto della morte di Druso Maggiore, forse non senza una leggera vena polemica (gestum creditur) verso altri più anziani amici del Petrarca, ossia Giovanni Colonna e Guglielmo da Pastrengo 51, che facevano finire il racconto di Livio col principato di Tiberio, forse spinti a ciò dalla rubrica che in alcuni codici delle Periochae si legge per il libro 121 (editus est post excessum divi Augusti) 52: Cf. Billanovich 1981, 313-316. Ivi, 319-331. 50 Cf. Modonutti 2014. Le edizioni dell’operetta sono Massèra 1928 e Fabbri 1992, che andrà considerata l’edizione di riferimento; ma il testo è edito e commentato, con considerazioni non sempre del tutto convincenti, anche in Billanovich 1981, 320-323. Cf. anche Hortis 1877 e Hortis 1879, 317-323. 51 Guglielmo da Pastrengo (n. 1290 ca., m. 30-38-1362) dedica a Livio una delle schede del suo De viris illustribus et de originibus (ed. Bottari 1991, 224); mentre Giovanni Colonna di Gallicano (per il quale cf. infra) inserisce un profilo dello storico sia nel De viris illustribus sia nel Mare historiarum (editi con qualche omissione in Billanovich 1981, 123-125). Su Guglielmo da Pastrengo cf., da ultimo, Cerroni 2004, Fiorilla 2008 e Morelli 2013. 52 Cf. Jal 2003, cxx-cxxi. È questa un’ipotesi che richiederebbe più puntuali riscontri, dal momento che tale rubrica non risulta diffusa in maniera particolarmente massiccia nella tradizione manoscritta, almeno per quel che concerne i codici usati da Jal, che ne riscontra la presenza in tre codici conservati (tra i testimoni più antichi e contenenti il testo completo) e uno ora perduto. Tanto più 48 49
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Sumpsit enim initium ab urbe condita et in id usque tempus protraxit hystoriam, in quo Drusus Tiberii Cesaris frater, bellum adversus Germanos gerens, cruris fractura mortuus est, quod circa olympiadem clxxxxiii Octaviano Augusto imperante gestum creditur 53.
Dalla generazione petrarchesca in avanti la lettura delle Periochae costituisce un elemento di non secondaria importanza negli studi filologici ed eruditi su Livio: come dimostra già la summenzionata lettera del Petrarca allo storico antico, le Periochae danno una dimensione concreta alla perdita che caratterizza la tradizione della storia liviana, la misurano, e allo stesso tempo offrono l’unica arida, amara e inadeguata medicina per sanarla 54. Vorrei evidenziare un altro aspetto a mio giudizio interessante dei Pauca de Tito Livio del Boccaccio. Il Certaldese dedica infatti un certo spazio a una discussione che avrà larga risonanza nel Q uattrocento nel profilo liviano di Sicco Polenton e che si potrebbe classificare come relativa alla condizione ideale per svolgere l’attività di scrittore. Si tratta per altro di una discussione che trova ancora oggi spazio nella riflessione storico-letteraria su Livio. La questione è dove debbano collocarsi la genesi e la composizione degli Ab urbe condita libri: Et sunt qui existiment eum Patavi tantum scripsisse ac Romam librariis seu bibliotecarum custodibus decadas misisse, nec quenquam eo scribente secum conferre potuisse; alii vero non Patavi tantum, sed Rome aliquando seu ruri, apud quod haud longe Roma sibi solitariam mansionem delegerat 55.
sarebbe necessario qualche approfondimento perché il raffronto tra la vita di Livio presente nel De viris illustribus del Colonna e quella nel suo Mare historiarum, di qualche anno successivo, permette di affermare che la questione era dibattuta: se infatti nel De viris Giovanni scrive usque ad tempora Tiberii Cesaris, nel Mare l’affermazione è modificata in usque ad Augustum, con quella che potrebbe configurarsi quasi come una correzione, come se ne riscontrano altre tra le due opere del domenicano (cfr. Billanovich 1981, 124 e 133-135). 53 Cf. Fabbri 1992, 938; Billanovich 1981, 321. 54 Emblematici a questo riguardo mi paiono la struttura dell’appena citata edizione liviana legata a Giovanni Boccaccio, che usa le Periochae nella duplice funzione di introduzione ai libri liviani conservati e in sostituzione di quelli mancanti (Modonutti 2014, 235-237, e 242-244); ma anche il già menzionato ms. Vat. lat. 1859 che unisce al Livio superstite le stesse Periochae (cf. supra). 55 Fabbri 1992, 938; Billanovich 1981, 321.
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Il problema è indotto dalle due lapidarie notizie del Chronicon di Eusebio-Girolamo, che localizzano a Padova i momenti estremi della vita di Livio, ossia nascita e morte. Ora Boccaccio riferisce che alcuni ritenevano che la vita dello storico si fosse svolta solo a Padova, da dove egli avrebbe inviato a Roma le sue decadi, composte in solitudine. Altri pensavano invece che Livio fosse vissuto a Roma, o nella campagna limitrofa, forse perché ritenevano che la provincia non potesse sostenere dal punto di vista intellettuale una simile impresa storiografica, ma credevano anche che il cao tico caput mundi non fosse adatto all’otium letterario, non fosse il luogo ideale per comporre un tale capolavoro di eloquenza. Si tratta di una discussione che ben si ambienterebbe in casa e tra gli amici di Francesco Petrarca, al quale – e non solo sotto questo aspetto – molto deve la vita di Livio del Certaldese. Da parte sua, Boccaccio ha già espresso all’inizio dei Pauca de Tito Livio la sua posizione, ossia che lo storico antico si sarebbe a un certo punto trasferito a Roma, dove sarebbe stato ascritto all’ordine equestre, informazione quest’ultima piuttosto singolare, perché non pare trovar riscontro nelle fonti note: T. Livius … Patavi ex clara familia honestisque parentibus natus est. Q ui, cum iam doctrinis eruditus et etate provectus esset, Romam se conferens et equestri ascriptus ordini, ad scribendas romanorum hystorias animum apposuit … 56
Che Livio fosse stato a Roma, oltre che dalle valutazioni sull’ambiente culturale in cui gli Ab urbe condita libri avrebbero potuto vedere la luce, lo si poteva desumere da un passo della vita di Claudio di Svetonio, dove si dice che lo storico avrebbe esortato il futuro imperatore a comporre opere storiche 57. Ma l’ordine equestre? Non è possibile chiamare in causa il passo degli Annales di Tacito ricordato all’inizio, che testimonia la familiarità di Livio con Augusto e il favore di questi per lo storico, dal momento che al Certaldese poteva essere nota solo l’ultima parte di quest’opera tacitiana (ossia i libri 11-16), restando la prima sommersa fino al primo Cinquecento 58. Può però venire in soccorso Fabbri 1992, 938; Billanovich 1981, 320-321. Suet. Claud. 41, 1. 58 Cfr. Tarrant – Winterbottom 1986, 406-409. Su Boccaccio e Tacito si rimanda, anche per un completo regesto bibliografico, a Monti 2010. 56 57
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proprio un passo liviano, ossia la celebre discussione sugli spolia opima e in particolare le righe in cui lo storico afferma (4, 20, 7): Hoc ego cum Augustum Caesarem, templorum omnium conditorem aut restitutorem, ingressum aedem Feretri Iovis quam vetustate dilapsam refecit, se ipsum in thorace linteo scriptum legisse audissem, prope sacrilegium ratus sum Cosso spoliorum suorum Caesarem, ipsius templi auctorem, subtrahere testem.
Livio si mette qui in relazione diretta con Augusto, di cui afferma di aver ascoltato la testimonianza, che viene da lui accolta per la sua autorevolezza: in mancanza di più solidi appigli non pare irragionevole fondare il racconto dei Pauca de Tito Livio su questa memoria liviana, che sembra implicare la conoscenza e una certa familiarità tra i due; il che potrebbe aver spinto il Certaldese a dare forma alla notizia dell’assunzione dell’ordine equestre, da intendere quasi come segno tangibile del favore imperiale; oppure, in una diversa prospettiva, si potrebbe anche ipotizzare che, provata una diretta relazione con l’imperatore, Boccaccio reputasse necessario pensare a un Livio quantomeno cavaliere e non ritenesse ragionevole che lo storico fosse stato di rango inferiore 59. Q uella sul luogo di composizione degli Ab urbe condita libri è una riflessione che non può non richiamare alla mente il cele berrimo passo dell’Institutio oratoria di Q uintiliano sulla Patavinitas di Tito Livio (inst. 1, 5, 55-57 e 1, 7, 24), ma Q uinti liano non è finora emerso in alcun modo nelle vite e nelle notizie biografiche di cui si è parlato (né vi emergerà, almeno in forma diretta). Un controllo sulla fisionomia del codice dell’Institutio oratoria posseduto da Petrarca, il ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, latin 7720 (K nell’ed. Winterbottom), può aiutare a comprendere almeno in parte le ragioni dell’assenza di un autore che più volte esprime giudizi e valutazioni su Livio, fornendo tal59 Su questo argomento quella che è forse ancor meno di una suggestione viene da alcuni versi di Albertino Mussato. Nell’Epistola II (vv. 25-26, Mussato 1636, 42 della sezione che comincia con l’Ecerinis), il Padovano istituisce un paragone tra sé e lo storico antico, chiamato – lì come nel prologo del De gestis Henrici VII Cesaris – archigraphus: come Livio è miles, così egli è invece pedes, ma i due termini sono usati in senso metaforico (che anzi Mussato era ben fiero di essere miles del comune). Sull’Epistola II, Gianola 2017; una discussione sul significato di archigraphus in relazione a Livio in questi due passi, in Gianola 2015, 343-346.
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volta anche qualche interessante annotazione biografica. Il primo passo da considerare è proprio quello sulla Patavinitas, che però nel Par. lat. 7720 non c’è. Q uesto infatti il testo tràdito da K per inst. 1, 5, 56: Nam ut eorum sermone utentem Vectium Lucilius insectatur, quemadmodum palio [Pollio ed.] deprendit in Livio puta unitatem [Patavinitatem ed.] 60.
L’attenzione del Petrarca fu attirata da questo passo, al margine del quale pose un’annotazione: Lucilius Vectium insectatur, Pollio Livium. Nota 61. Se dietro a palio l’acume filologico petrarchesco non ebbe difficoltà a decifrare il nome di Asinio Pollione e a correggere di conseguenza la lezione tràdita nell’interlinea, certo era ben più arduo comprendere che cosa nascondesse puta unitatem 62. Nessuna nota d’attenzione si legge poi in K a margine di inst. 1, 7, 24, dove Q uintiliano si sofferma sull’uso da parte di Livio delle forme sibe e quase, passo che secondo gli studiosi moderni andrebbe forse connesso coi tratti della Patavinitas. Q uanto poi alle menzioni di Livio a inst. 10, 1, 32 (il passo della lactea ubertas) 63 e inst. 10, 1, 39 (dove si parla di una lettera liviana al figlio su questioni di retorica) 64, essi cadono in una delle molte ed estese lacune che caratterizzano K e tutta la famiglia quintilianea degli Itali, a partire dal loro capostipite Bernensis (Bern, Burgerbibliothek, 351) 65. Come si è già visto, la lactea ubertas fluì comunque nella tradizione biografica trecentesca su Livio, grazie alla mediazione di Girolamo 66. Cf. Accame Lanzillotta 1988, 40-41. Ivi. 62 Il ms. Bernensis 351 (B), capostipite della tradizione quintilianea dei mutili, da cui anche K deriva, presenta invece per questo passo le corrette lezioni Pollio e Patavinitatem. Cf. Winterbottom 1970, I 38. 63 Cf. Q uint., inst. 10, 1, 32: Itaque, ut dixi, neque illa Sallustiana brevitas, qua nihil apud aures vacuas atque eruditas potest esse perfectius, apud accupatum variis cogitationibus iudicem et saepius ineruditum captanda nobis est, neque illa Livi lactea ubertas satis docebit eum qui non speciem expositionis sed fidem quaerit. 64 Cf. Q uint., inst. 10, 1, 39: Fuit igitur brevitas illa tutissima quae est apud Livium in epistula ad filium scripta, legendos Demosthenen atque Ciceronem, tum ita ut quisque esset Demostheni et Ciceroni simillimus. 65 Cf. Winterbottom 1970, I ix-x; Winterbottom 1986, 332-334. 66 Cf. Hier., epist. 53, 1, 3: Ad Titum Livium lacteo eloquentiae fonte manantem. 60 61
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Nel Q uintiliano petrarchesco due soli altri passi relativi a Tito Livio erano accessibili. A inst. 2, 5, 18-20, lo storiografo è chiamato in causa a proposito della quaestio qui legendi sint incipientibus e messo in relazione con Sallustio e Cicerone 67: sul margine di K, Petrarca annota Livius 68. A inst. 10, 1, 101, non colpì invece il Petrarca l’articolato parallelo istituito tra Livio ed Erodoto 69. Si deve infine aggiungere che, quando il cantore di Laura potè leggere l’Institutio oratoria, seppure nella sciagurata forma di cui si lamenta nella lettera rivolta al retore antico (fam. 24, 7), ossia nel 1350, Giovanni Colonna era certo già morto (1343); e inoltre anche Guglielmo da Pastrengo e Boccaccio dovevano avere già elaborato – o stavano elaborando proprio in quel periodo – rispettivamente il De viris illustribus e i Pauca de Tito Livio, cosicché non stupisce che le poche tracce dello storico romano riscontrabili nel Par. lat. 7720 non emergano in alcun modo nelle loro vite dello storico romano. Q ualche spunto interessante, oltre a quelli già discussi da Giuseppe Billanovich, può offrire anche il profilo di Livio presente nel De viris illustribus del già citato Giovanni Colonna di Gallicano (n. 1298, m. 1343) 70. Mi soffermerò brevemente soltanto su due di essi. Il primo è l’utilizzo di Seneca come fonte per la biografia liviana. Giovanni ricorre nello specifico alle Epistolae ad Lucilium (100, 7-9): Scripsit preterea dyalogos, ut dicit Seneca, xcv [sic] epistola, quos non magis philosophie adnumerare possis quam historie et ex profexo [sic] philosophiam continentes. In qua epistola Seneca Q uint., inst. 2, 5, 19-20: Ego optimos quidem et statim et semper, sed tamen eorum candidissimum quemque et maxime expositum velim, ut Livium a pueris magis quam Sallustium (et hic historiae maior est auctor, ad quem tamen intellegendum iam profectu opus sit). Cicero, ut mihi quidem videtur, et iucundus incipientibus quoque et apertus est satis, nec prodesse tantum sed etiam amari potest: tum, quem ad modum Livius praecipit, ut quisque erit Ciceroni simillimus. 68 Cf. Accame Lanzillotta 1988, 48. 69 Cf. Q uint., inst. 10, 1, 101: At non historia cesserit Graecis. Nec opponere Thucydidi Sallustium verear, nec indignetur sibi Herodotus aequari Titum Livium, cum in narrando mirae iucunditatis clarissimique candoris, tum in contionibus supra quam enarrari potest eloquentem, ita quae dicuntur omnia cum rebus tum personis accomodata sunt: adfectus quidem, praecipueque eos qui sunt dulciores, ut parcissime dicam, nemo historicorum commendavit magis. 70 Per Giovanni Colonna cf. Modonutti 2013; Modonutti 2015; e Modonutti i.c.s. 67
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hunc Titum inter tres Romanos oratores secundum nominat. Nam primo loco ponit Ciceronem Tullium qui onnibus aliis prefert, secundo ponit hunc qui pre manibus habemus Titum Livium, tertio Asinium Pollionem 71.
È certo importante che sia riferita la notizia della composizione di dialoghi filosofici; ma mi pare più significativo che da quel passo senecano venga al Colonna una gerarchia degli oratores Romani in cui Livio è secondo dopo Cicerone e prima di Asinio Pollione 72. La questione doveva per altro interessare particolarmente il Colonna che annota sul margine del suo autografo del De viris illustribus: Opinio Senece de Tito Livio 73. Con Nicola Trevet, Giovanni è quindi l’unico autore tra quelli finora considerati a uscire dal canone delle fonti biografiche su Livio che sembra vulgato tra Duecento e Trecento, ossia il Chronicon di EusebioGirolamo, la lettera a Paolino dello stesso Girolamo ed eventualmente l’epigrafe padovana di Livius Halys: i due fanno infatti ricorso a Seneca (che per loro era uno solo), le Controversiae per il Trevet, le Epistolae ad Lucilium per Giovanni 74. Il passo è omesso nell’edizione presente in Billanovich 1981, 125; lo trascrivo, aggiungendo la punteggiatura e la distinzione u/v, ma mantenendo la grafia, dal codice autografo Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Conv. Soppr. G 4 1111, f. 108v. Cf. Ross 1985. 72 Sen., epist. 100, 7-9: Lege Ciceronem: compositio eius una est, pedem curvat lenta et sine infamia mollis. At contra Pollionis Asinii salebrosa et exiliens et ubi minime expectes relictura. Denique omnia apud Ciceronem desinunt, apud Pollionem cadunt, exceptis paucissimis quae ad certum modum et ad unum exemplar adstricta sunt. Humilia praeterea tibi videri dicis omnia et parum erecta: quo vitio carere eum iudico. Non sunt enim illa humilia sed placida et ad animi tenorem quietum compositumque formata, nec depressa sed plana. Deest illis oratorius vigor stimulique quos quaeris et subiti ictus sententiarum; sed totum corpus, videris quam sit comptum, honestum est. Non habet oratio eius sed dabit dignitatem. Adfer quem Fabiano possis praeponere. Dic Ciceronem, cuius libri ad philosophiam pertinentes paene totidem sunt quot Fabiani: cedam, sed non statim pusillum est si quid maximo minus est. Dic Asinium Pollionem: cedam, et respondeamus: in re tanta eminere est post duos esse. Nomina adhuc T. Livium; scripsit enim et dialogos, quos non magis philosophiae adnumerare possis quam historiae, et ex professo philosophiam continentis libros: huic quoque dabo locum. Vide tamen quam multos antecedat qui a tribus vincitur et tribus eloquentissimis. 73 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Conv. Soppr. G 4 1111, f. 108v. 74 Seneca fu tra gli autori prediletti di Giovanni Colonna, il quale accolse senza esitazione la convinzione che il filosofo si fosse convertito al cristianesimo (opinione già esposta da Albertino Mussato nella sua vita senecana). Cf. Momigliano 1950; Sottili 2004; Megas 1967, 154-161; Ross 1970; Garfagnini 1980. 71
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Ma il passo più singolare della Vita Livii di Giovanni Colonna è però senza dubbio quello in cui il frate domenicano esprime un’articolata ipotesi sulle ragioni della perdita di buona parte degli Ab urbe condita libri: Q uare autem residuum huius oratoris librorum non reperiantur, nullam aliam causam credo nisi illam quam Svetonius ponit, qui de Gaio Galicula inperatore sic dicit: «Cogitavit de Homeri carminibus abolendis, sed et Virgilii ac Titi Livii scripta paulum abfuit quin ex onnibus bibliotecis anmoveret, quorum alterum ut nullius ingenii minimeque doctrine, alterum ut verbosum et in historia negligentem carpebat». Recolo autem me in quadam non infime auctoritatis historia legisse horum libros ab eo fuisse crematos. Unde et xl qui ab origine et conditione urbis usque ad bella Asiatica, qui iam toto orbe dispersi erant, minime a Gaio penitus potuerunt aboleri. Reliqui [sic] vero quos nondum extra urbem et Ytaliam communicaverat ab hoc scelesto tyrampno credo fuisse conbustos et ob hanc causam minime reperiri 75.
Il punto di partenza è la notizia svetoniana dell’avversione di Caligola verso Omero, Virgilio e, appunto, Tito Livio, che avrebbe portato il principe a progettare la rimozione delle loro opere dalle biblioteche 76. A questo punto il Colonna chiama in causa una non infime autoritatis historia, che né al Billanovich né ad altri è stato possibile identificare: in essa si affermerebbe che il progetto di Caligola si sarebbe realizzato, portando al rogo delle copie degli Ab urbe condita libri 77. La contraddizione che deriverebbe a questo punto dalla conservazione di parte dell’opera è risolta con un’acuta osservazione di storia della trasmissione, che pare frutto del ragionamento dello stesso Giovanni e non presente nella sua misteriosa fonte: i libri sopravvissuti Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Conv. Soppr. G 4 1111, f. 108v. Cf. Suet., Cal. 34 Cogitavit etiam de Homeri carminibus abolendis, cur enim sibi non licere dicens, quod Platoni licuisset, qui eum e civitate quam constituebat eiecerit? Sed et Vergili ac Titi Livi scripta et imagines paulum afuit quin ex omnibus bibliothecis amoveret, quorum alterum ut nullius ingenii minimaeque doctrinae, alterum ut verbosum in historia neglegentemque carpebat. 77 Anche nei Rerum memorandarum libri di Francesco Petrarca il passo svetoniano è citato, ma ivi però non si indulge a così articolate e fantasiose ricostruzioni, limitandosi l’autore ad affermare che il tempo ha quasi realizzato il nefasto progetto del folle imperatore romano. 75 76
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erano già circolati più diffusamente fuori dall’Urbe e quindi il provvedimento caligoliano non sarebbe riuscito a cancellare del tutto il poderoso monumento storiografico liviano; ma per i libri successivi al quarantesimo non vi sarebbe stato scampo al rogo iconoclasta dell’imperatore. Tra Medioevo e Umanesimo vi è, oltre a Caligola, un altro incendiario dell’opera liviana, la cui fortuna dura ancora oggi, visto che lo si ritrova ancora menzionato in questo ruolo nel Companion to Livy Blackwell, pubblicato nel 2015, senza che mai ci si chieda dove e perché nasca una simile grave accusa 78: l’imputato è papa Gregorio Magno. A parlare diffusamente di quest’accusa è Sicco Polenton (n. 1375/1376, m. 1447/1448) negli Scriptorum illustrium Latinae linguae libri, ed è ragionevole ipotesi che per quella via la leggenda entri nella tradizione erudita moderna. Secondo Sicco, se l’accusa potrebbe avere una qualche superficiale parvenza di verità, essa è però destituita di ogni fondamento: Delendi autem operis huius, quod, ut dixi, tanta eloquentia, tanta rerum copia et magnitudine resplenderet ac virtutis Romanae testis esset, honestus auctor quibusdam est visus Gregorius papa. Is quidem est ille ipse qui nominis eius primus pontifex Romae fuit. Hunc enim ad perdendum id opus commotum putant quod lectio eius summam ob eloquentiam adeo dulcis atque suavis esset quod plus nimio ac supra modum mentes legentium oblectaret easdemque ita pelliceret atque obcecaret ut capti hoc quasi lenocinio quodam sacris litteris non studerent. Q uod etsi aspectu primo habere veri umbram quandam ac speciem videatur, id tamen credendum esse minime putant qui docti sunt viri et ista de re loqui sane ac considerate solent, quod rationem esse nullam intelligant quae pontificem maximum, qui, uti summa in dignitate honoris et gradu constitutus esset, ita singulari prudentia, consilio, gravitate praestaret, in eum errorem atque dementiam adduxisset ut eos libros delendos esse statueret qui nihil Christianum in nomen, nihil Christianam in religionem, nihil ad voluptatem et vitia nihil ullam ad vitae turpitudinem sed, ut dixi, Romanae virtutis monumenta Cf. Maréchaux 2015, 439: «The primary responsability for this disappearance lies with Pope Gregory the Great (590-604), the enemy of secular literature who fought paganism with stubborn relentlessness». 78
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ad documentum posteritatis aeternam ad memoriam continerent. At vero qui pontifici summo hoc crimen attribuunt velim interogati respondeant, si vel ob splendidam lacteamque ac suavem eloquentiam vel ob magnitudinem seu turpitudinem rerum opus id pastori optimo delere, ut aiunt, penitus placuit, cur potius quae habentur decades illae modo tres quam aliae conservatae, cur potius secunda quam prima et tertia laniata, cum in omnibus idem et rerum tenor et verborum splendor ac summa eloquentia haberetur. Nempe qui haec plane considerant vident nihil cur non vano ac levi ab auctore profectam existiment eam famam quae opus id summo a pontifice deletum putet in quo nihil esset criminis, nihil turpitudinis quo deleri aliquo iure posset 79.
Il Polenton è una testimonianza abbastanza tarda, ma non è possibile allo stato attuale portare attestazioni molto più alte. In due codici che trasmettono una rielaborazione della vita Titus Livius auctor (Lisboa, Biblioteca Nacional, Mss. Ill. 13, testimone del commento liviano del Trevet; e Tours, Bibliothèque Municipale, 985, codice liviano) Gregorio è accusato di aver dato alle fiamme ben cento libri di Livio 80: Scripsit autem cxl libros; ex quibus precepto beati Gregorii pape c sunt deleti et remanserunt xl, quorum neglicencia librariorum xi perierunt: et hic solum extant xxix libri. Franciscus tamen Patriarcha, rerum huiusmodi diligentissimus inquisitor, in eo libro quem Rerum familiarium titulavit, ipsum Livium cxliiii [sic] Romane hystorie conscripsisse commemorat, in ea scilicet epistola quam ad eum, tanquam viveret, tanto operi diminuto compatiendo scribit, asserens tantum xxix eiusdem hystorie libros se vidisse 81.
I due manoscritti sono entrambi del sec. XV, mentre la rielaborazione della Titus Livius auctor che tramandano è da collocare dopo la metà del Trecento, visto che in essa è esplicitamente citata la lettera di Petrarca a Livio. Gregorio Magno è ricordato come responsabile del rogo di una biblioteca sul Campidoglio nel Poli79 Q ui e più oltre si citano gli Scriptorum illustrum Latinae linguae nell’edizione Ullman 1928, 181-182. 80 Cf. Billanovich 1981, 311. 81 Ivi, 313.
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craticus di Giovanni di Salisbury (n. 1110/1120, m. 1182 ca.) 82 ed è accusato di aver distrutto, anche col fuoco, monumenti antichi nella Narracio de mirabilibus urbis Rome di maestro Gregorio, databile tra XII e XIII sec. 83. Ma quando sia scattato l’accostamento specifico tra Gregorio e Livio non è possibile allo stato attuale stabilirlo. L’impressione è che la leggenda nasca da un corto circuito tra la storia raccontata da Giovanni Colonna su Caligola e le fole del Policraticus, ed è ragionevole ipotizzare che non possa essere datata molto più indietro del Trecento, visto che, pur nella sua stranezza, denuncia un interesse non superficiale, e in qualche bizzarra maniera filologico, per gli Ab urbe condita libri. Arrivati a questo punto sarebbe necessaria una ricapitolazione e a offrirla è il Fons memorabilium universi di Domenico Bandini (n. 1355 ca., m. 1418), che, in fuga dalla peste che funestava la Toscana, fu nel 1374 a Padova dove visitò il vecchio Petrarca poco prima che questi morisse e dove rese anche reverente omaggio alla lapide liviana murata nel vestibolo del monastero di Santa Giu-
82 Cf. Ioh. Sal., Policr. 9, 19: Fertur tamen beatus Gregorius bibliothecam combussisse gentilem, quo divinae paginae gratior esset locus et maior auctoritas et diligentia studiosior. Sed haec sibi nequaquam obviant, cum diversis temporibus potuerint accidisse. Vi è poi un secondo passo del Policraticus in cui si fa riferimento, per quanto in maniera meno esplicita, a Gregorio come distruttore dei libri pagani, in questo secondo caso dei libri riguardanti la mathesis, ossia l’astrologia: Ioh. Sal., Policr. 2, 26: Ab haec doctor sanctissimus ille Gregorius, qui melleo predicationis ymbre totam rigavit et debriavit ecclesiam, non modo methesin iussit ab aula, sed ut traditur a maioribus, incendio dedit reprobatae lectionis «scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo» [Hor. epist. 1, 3, 17], in quibus erant precipua, quae celestium mentem et superum oracula videbantur hominibus revelare. 83 Il papa viene accusato di aver scalzato dalle quattro colonne che la sostenevano la statua equestre di Marco Aurelio, ora al Campidoglio, trasferendo le dette colonne al Laterano; gli è imputato anche di aver fatto a pezzi altre statue; ma il racconto più circostanziato riguarda la demolizione del colosso di Nerone, l’imago Colosei, quam quidam statuam solis existimant: Hanc autem statuam post destructionem omnium statuarum que Rome fuerunt et detupacionem beatus Gregorius hoc modo destruxit. Cum tantam molem multa vi et gravi conamine non posset evertere, copiosum ignem idolo supponi iussit et sic immensum illud simulacrum in antiquum chaos et rudem materiam redegit. Tuttavia il fuoco – come parallelamente si narra nelle leggende su Livio – non sarebbe comunque riuscito ad annichilire completamente l’immenso cimelio pagano, del quale sarebbero sopravvissuti la testa e la mano destra recante un globo, presumibilmente i frammenti di statua colossale di età costantiniana ora conservati ai Musei Capitolini. Cf. Nardella 1997, 36-39, 146-147, 152-153, 156-157.
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stina 84. I due profili biografici di Tito Livio presenti nella sezione De viris claris della proteiforme e sfuggente mastodontica enciclopedia di Domenico mettono a frutto i più importanti contributi alla ricostruzione della vita di Livio a cui si è fatto cenno 85. È senza dubbio nota al Bandini la vita Titus Livius auctor, di cui ricorrono alcuni peculiari passaggi. Vengono accolti il magistero petrarchesco e le sue rigorose conquiste sulla struttura, l’estensione e la sopravvivenza della storia di Livio, così come sono ben presenti i Pauca de Tito Livio del Boccaccio. Dallo scrittoio del Boccaccio non si distanzia molto anche una delle novità presenti in Domenico, ossia la presenza di Mart. 1, 61, dove l’origine di Livio è legata ad Abano (censetur Aponi Livio suo tellus) 86. Stupisce di primo acchito che Domenico si senta in dovere di difendere l’affermazione che gli Ab urbe condita libri erano organizzati in più di 140 libri: Ipse quidem iussu senatorio hystorias sparsas per annalia in 13 decas propria latinitate contraxit. Nec potest dici non esse verum, quamvis tantum tres legantur ubique: nam et ego epythoma, seu mavis omnium dictarum decarum abreviationes, habeo, quarum multis exempla dedi 87.
Se però si torna indietro di quasi un secolo al commento di Nicola Trevet se ne può forse trovare la ragione: Distrinxit autem hunc librum in duas partes, quarum prima dicitur ab urbe condita ut ex titulo, pars secunda de bello Punico. Utraque vero pars in x libros distenditur 88. 84 Su Domenico Bandini, cf. Hankey 1963; Bisanti 2009; Monti 2010; Schrürer 2017; e Modonutti 2017b. 85 Cf. Billanovich 1981, 325-327. 86 Ivi, 326 Livius … fuit genere Pactavinus, patria vero fuit Apona villa propinqua Patavio, prout scripsi eodem libro agendo de Oratio poeta. Si tratta dello stesso epigramma da cui il Certaldese trasse una delle prove decisive per affermare l’esistenza di due distinti Seneca (Martellotti 1972). Si deve a Marco Petoletti il ritrovamento del codice degli Epigrammata di mano di Giovanni Boccaccio, il ms. Milano, Biblioteca Ambrosiana, c 67 sup. (cf. Petoletti 2005). A margine di epigr. 1, 61 (f. 10r-v del ms. Ambrosiano), il Certaldese annotò i nomi degli scrittori ivi citati, tra cui anche Titus Livius (Petoletti 2006a, 124-125). Si deve sottolineare che Bandini segue la lezione Apona che si legge anche nel codice del Boccaccio (Petoletti 2006a, 124). 87 Cf. Billanovich 1981, 326-327. 88 Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 5745, f. 1ra. Cf. supra nota 30.
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Il domenicano inglese descrive infatti le due deche che conosceva come il corpo di un’opera divisa in due parti, seguendo un paradigma interpretativo che ritroviamo riproposto da Corrado di Hirsau per il De coniuratione Catilinae e il Bellum Iugurthinum di Sallustio, anch’essi ritenuti due metà di una sola opera 89. La conquista di un’immagine complessa e articolata degli Ab urbe condita libri doveva essere stato poi, da Trevet in avanti, un processo lungo e certo non semplice da raggiungere. Lo testimonia per esempio una postilla che si legge in più codici trecenteschi e quattrocenteschi in coda alla prima decade e che vuole dimostrare l’esistenza di un secondo blocco di dieci libri tra prima e terza decade: Inter decem namque precedentes decemque sequentes libros [i.e. tra prima e terza decade] debent essent [sic] alii libri decem, fortassisque xx, de hoc eodem bello Samnitico, quod fere centum annis viguit, ex quibus post predicatam Decadem [i.e. la prima] restant adhuc prope quinquaginta. Item de primo bello Punico … Similiter de gestis aliorum xxiii annorum qui fluxerunt inter primum bellum Punicum et secundum, de quo agitur in Decade subsequenti … Q uasobres liquido apparet quod inter decem precedentes totidemque sequentes libros desunt historie lxxxx sex annorum aut circa 90 …
Le conquiste del Petrarca costruite sulle Periochae, note anche a Domenico, non dovevano essere evidentemente ancora del tutto diffuse e condivise alla sua morte. Se Domenico può essere considerato il punto di arrivo delle conquiste compiute dall’erudizione medievale, ma soprattutto trecentesca, su Tito Livio, i già menzionati Scriptorum illustrium Latinae linguae libri di Sicco Polenton possono essere assunti come una compiuta e organica sintesi degli studi dell’Umanesimo più maturo. Non possiamo purtroppo concedere loro lo Cf. Huygens 1970, 104-105. Trascrivo da Billanovich 1981, 329-330 una sezione di questa nota per come tràdita dal ms. Vat. lat. 1859 (25ra). Con qualche variante, ma uguale nella sostanza quest’annotazione di legge anche in Oxford, New College, 277; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 878; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 19 sin. 7; ivi, Conv. Soppr., 263; Valencia, Biblioteca della Cattedrale 149; e Trento, Biblioteca Comunale, 1658. Cfr. Billanovich 1958, 266-267. 89 90
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spazio che meriterebbero. Q uel che si può dire è che Sicco conosce e cita pressoché tutte le fonti note e le organizza a formare un ritratto biografico, ma anche letterario, che ancora oggi è in fondo in buona parte valido. Certo non ha la finezza di interrogarsi sulle valenze linguistiche o stilistiche della Patavinitas, forse anche perché la Patavinitas di Tito Livio ha per lui la concretezza reliquiaria delle ossa che è convinto siano state infine trovate nel 1413, una scoperta che, proprio grazie a lui, ebbe vasta risonanza, tanto che Sicco fu chiamato a darne conferma e prova al Niccoli e al Bruni, che ne discusse con altri umanisti e col papa in curia 91. L’età gloriosa delle scoperte poggiane, di cui parla anche nel suo profilo di Livio, rendeva Sicco ancora moderatamente fiducioso sulla possibilità del ritorno, oltre che del corpo, anche dello «spiritual self» del grande storico, ovvero i suoi libri 92, che noi, pronipoti disillusi dell’Umanesimo, non cerchiamo più. E speriamo che questo non ci renda, secondo la profezia di Ullman ricordata all’inizio, «lost like the lost books of Livy».
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Abstracts Thanks to the acquisition of new sources, in the course of the thirteenth and fourteenth century, Livy’s biographical profile becomes better and better defined. In medieval times Livy’s life and personality seem undeniably obscure: following the conflation with Livius Andronicus, attested by Vincent of Beauvais’ Speculum historiale, information about the historian’s personality is gathered, sifted through, and enriched by illustrious scholars, such as Nicholas Trevet and the Paduan pre-Humanists, down to Petrarch, Boccaccio and Sicco Polenton, who in the early fifteenth century wrote the first history of Latin literature. Fra Duecento e Trecento inizia a delinearsi, con una lenta acquisizione delle fonti disponibili, il profilo biografico di Tito Livio, la cui figura risulta sotto tutti i punti di vista abbastanza indistinta lungo i secoli del Medioevo. Dalla confusione con Livio Andronico, emblematicamente testimoniata dallo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, si procede verso quadri sempre più informati e strutturati, passando attraverso alcuni protagonisti della scena culturale trecentesca da Nicola Trevet ai preumanisti padovani, da Petrarca a Giovanni Boccaccio, fino a Sicco Polenton che all’inizio del Q uattrocento scrisse la prima storia della letteratura latina.
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MARCO PETOLETTI
EPISODI PER LA FORTUNA DI LIVIO NEL TRECENTO
Il 3 dicembre 1337 morì Amelio di Lautrec, vescovo di Castres: nel 1318 era stato in Italia come rettore della Marca Anconitana. Ritornato in Francia, prima di accedere al soglio episcopale di Castres nel 1327, aveva ricoperto la carica di abate di S. Saturnino di Tolosa. L’inventario dei suoi libri, stilato in occasione della morte, è impressionante: comprende un numero imponente di volumi, tra i quali emerge una collezione vasta ed eletta di classici latini 1. Amelio aveva conquistato testi che per altri letterati del tempo furono inaccessibili: per esempio la Naturalis historia di Plinio il Vecchio e, soprattutto, le opere narrative di Apuleio, che ben prima delle note avventure erudite di Boccaccio e di Zanobi da Strada in Italia meridionale, tra la corte angioina e le volte dell’abbazia di Montecassino, avevano evidentemente cominciato a circolare, come manifestano le riprese dai Florida nel Chronicon di Benzo d’Alessandria, composto tra Lombardia e Verona intorno al 1320 2. Pochi dei manoscritti transitati sul leggio del dotto prelato sono stati identificati, molti – con grande probabilità – restano da rintracciare: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 811, scritto a Tolosa nel 1303 da Giacomo de Castello de Organiano, con il De eruditione principum di Guglielmo Peraldo e il Moralium Ringrazio Vincenzo Fera e Michael D. Reeve per la lettura e i suggerimenti. 1 Cf. Munk Olsen 1997, 15; Jullien de Pommerol – Monfrin 2001, 132-140; Petoletti 2013b, 273-274. 2 Cf. Petoletti 1999; Petoletti 2000, 49-66.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 269-294 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117495
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dogma philosophorum 3; Vat. lat. 1928, sec. XIV, con i Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo, posseduto in seguito da Coluccio Salutati 4; El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo, R.I.5, sec. XIV, di origine italiana, con la Naturalis historia di Plinio 5. L’inventario della sua biblioteca comprendeva varie copie di Tito Livio, due esemplari della prima decade, uno rispettivamente della terza e della quarta 6: 9. Item liber qui dicitur Titi Lilii De bello punico secunda pars, qui incipit in prima linea secunde pagine litteris (21, 3, 2). 10. Item liber Titi Lilii Ab urbe condita prima pars qui incipit accusatus (sic). 11. Item liber qui dicitur Titi Lilii De bello Massodonico tercia pars, et incipit me quoque (31, 1, 1). 12. Item liber qui dicitur Titillii qui incipit in prima columpna primi folii driatici (1, 1, 1: maris Hadriatici sinu).
Tutti questi libri, raccolti in uno volumine furono venduti al successore di Amelio, Giovanni di Castres, per sessanta soldi. Livio era presente nelle biblioteche di altri vescovi e cardinali che frequentarono Avignone, divenuta la nuova Roma dopo il trasferimento della sede papale in Francia con papa Clemente V. Riccardo Petroni, senese, cardinale diacono di S. Eustachio dal 1298, morì a Genova il 10 febbraio 1314; nel suo testamento si parla di libri, tra cui svetta un Tito Livio (o meglio una «pentade» degli Ab urbe condita), da lui lasciato agli eredi del fu Giovanni de Porta, vescovo di Carpaccio, dal quale aveva ottenuto quel codice in prestito 7. Il francescano Federico di Pernstein, arcivescovo di Riga, possedeva più manoscritti con Livio, come dimostrano gli inventari dei suoi libri, stesi tra 1323 e 1325: una terza decade con in coda il Breviarium di Rufio Festo e la coppia preziosa prima e terza decade in un solo volume 8. Cf. Williman – Corsano 2003, 17. Cf. Williman – Corsano 2003, 33-34; De Robertis 2008. 5 Cf. Reeve 2006, 158-161. 6 Cf. Jullien de Pommerol – Monfrin 2001, 135. 7 Cf. Bignami Odier 1956; Paravicini Bagliani 1980, 402-409. 8 Cf. Valenti 1933; Billanovich 1986, 29-30. Tra i manoscritti più antichi che trasmettono prima e terza decade insieme sono da menzionare i codici El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo, g.I.8 (cf. Reeve 1986, 141; Reeve 1987a, 141; Oakley 1997-2005, I 249-253); l’importantissimo Leiden, Bibliotheek 3 4
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Ripercorrere la fortuna di Tito Livio nel sec. XIV significa inevitabilmente incontrarsi con l’ingombrante presenza di Francesco Petrarca e del suo «restauro» operato sulle superstiti Historiae antiche. Nel contempo non si possono trascurare gli altri intellettuali, di maggiore o minor fama, che ebbero la possibilità di leggere Livio con intelligenza, prima che il magistero petrarchesco imponesse nuove consuetudini nell’accesso alla letteratura classica. Il domenicano Tolomeo da Lucca, fin dall’ultimo quarto del sec. XIII, prima ancora di frequentare la corte avignonese dei papi, spigolò la terza decade e ne accolse qualche passo nella sua Determinatio compendiosa de iurisdictione et auctoritate summi pontificis e più tardi nel De regno 9. Il cronista Riccobaldo, attivo tra Duecento e Trecento in Italia settentrionale, tra Ferrara, sua città nativa, Padova, e Ravenna, manifestò nelle sue molte opere di storia e geografia di conoscere tutte e tre le decadi liviane e ne lasciò in eredità il tesoro di illustri storie ai suoi epigoni. Benzo d’Alessandria, cancelliere di Cangrande della Scala, colmò di molte citazioni di classici latini, attinti di prima mano, il proprio Chronicon, che dai tempi remoti della creazione avrebbe dovuto spingersi fino ai suoi giorni (ma solo una parte della macchina immensa è giunta). Oltre a Catullo e Ausonio, che lesse in archivo ecclesie Veronensis, ubi sunt libri innumeri et vetustissimi, come ricordò orgogliosamente 10, consumò le sue ore sulle pergamene della prima, della terza e della quarta decade e se ne giovò per il Chronicon. Manca, purtroppo, la sezione romana della sua enciclopedia, ma quanto è pervenuto mostra che Benzo, oltre a rinnovare le fonti già messe a profitto da Riccobaldo, auctoritas dichiarata e ammirata, ebbe agio di consultare direttamente le storie di Livio 11. Nuove prospettive nel contempo si aprirono quando la Francia meridionale accolse la corte dei papi: ancora prima che sorgesse il grandioso palazzo pontificio, Avignone divenne polo der Rijksuniversiteit, Voss. Lat. F.21, che ora si tende a datare al sec. XIII ex. e non al XIV (Reeve 1987a, 145-146; Reeve 1996b, con attenta discussione; Oakley 1997-2005, I 158 e 191-198); Valencia, Biblioteca de la Catedral, 173 (Billanovich 1958; Oakley 1997-2005, I 159 e 191-215). 9 Cf. Panella 1989. 10 Cf. Petoletti 2000, 45; Petoletti 2004, 34. 11 Cf. Petoletti 2000, 80-81; Petoletti 2004, XXXIX-XL.
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d’attrazione di uomini e di intelligenze e, di conseguenza, di vivaci scambi intellettuali. Non deve dunque stupire quanto si legge in una lettera del vecchio Petrarca che nella Senile 16, 1, indirizzata nel 1374 al giurista Luca da Penne, per rifiutare la concessione in prestito di manoscritti ciceroniani che avrebbero potuto essere utili in curia, ricordò le proprie avventure culturali della giovinezza: l’amore per Cicerone fin dai banchi di scuola, le ricerche bibliografiche a Liegi del 1333 che gli aprirono la strada alla conoscenza della Pro Archia, e le proprie consulenze liviane 12. Nei suoi primi anni avignonesi Petrarca conobbe infatti il giu rista Raimondo Subirani, destinatario della Fam., 1, 3, amante dei libri, ma poco avvezzo alla lettura dei classici, con l’eccezione di Tito Livio: perciò il giovane toscano lo aiutò ad accedere alle bellezze delle antiche storie. Addirittura il Subirani, che per i suoi uffici frequentò la curia e l’aula di re Edoardo d’Inghilterra e morì ad Avignone nel 1330, avrebbe donato a Petrarca un volume con opere di Cicerone, impreziosito dalla presenza eccezionale di un testo che è perduto ai nostri giorni, il De gloria: qui evidentemente lo scrittore gioca, mescolando le carte, con il suo interlocutore, evocando il passaggio nella sua biblioteca di un ectoplasma blasonato ed esotico. Il regalo proveniva da un uomo copiosissimus librorum (Sen. 16, 1, 54), rappresentante di quel mondo culturale che fiorì ad Avignone nei primi anni del sec. XIV e alle cui fonti si nutrì Petrarca ragazzo 13. Proprio ad Avignone il domenicano Nicola Trevet, già commentatore delle Tragedie di Seneca, dedicò la propria esegesi alla prima e alla terza decade a papa Giovanni XXII, eletto il 7 agosto 1314 e timoniere della barca di Pietro per vent’anni, fino al 4 dicembre 1334 14. Il canonico Landolfo Colonna, primo proprietario dello strepitoso Parigi, Bibliothèque nationale de France, lat. 5690, il miniatissimo libro con storie di Troia e di Roma, Ditti Cretese, il compendio di Floro e finalmente prima, terza e quarta decade, che Petrarca riuscì a conquistare soltanto nel 1351, ma che, come affermò in una nota autografa, possedette a lungo 12 Cf. Petoletti 2013b, 257-259. È ora finalmente disponibile l’edizione completa, con traduzione italiana, delle Senili di Petrarca: Rizzo 2006-2017. 13 Cf. Petoletti 2013b, 257-259. 14 Cf. Dean 1945; van Acker 1962; Wittlin 1970; Crevatin 2006-2007; Crevatin 2012.
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già in precedenza, attinse a quel commento di fresca produzione nelle sue postille depositate sui margini del proprio monumento di storia antica. Landolfo, che si dilettò di politica ed enciclopedismo – scrisse infatti trattati sul primato del papa e un Breviarium historiarum, ambiziosa cronaca legata al modello dello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais – entra a buon diritto nella storia della fortuna di Livio, non soltanto perché gli appartenne uno splendido manoscritto. Canonico a Chartres, Landolfo sollecitò a più riprese gli armaria della cattedrale, traendone a prestito molti manoscritti: Boezio, Paolo Orosio, un salterio con glosse, le lettere di Ivo di Chartres, Fulberto, il Policraticus di Giovanni di Salisbury, altri testi mediolatini, ma soprattutto classici, Tito Livio, in un codice di grande antichità, secondo la testimonianza del nipote domenicano Giovanni 15, Giustino, le Catilinarie e le Filippiche di Cicerone 16. Ma il ruolo del misterioso Livio di Chartres nell’ambito della trasmissione delle Historiae, enfatizzato da Billanovich, è stato vigorosamente ridimensionato dagli studi di Michael D. Reeve 17. Landolfo finì i suoi giorni a Roma nel 1331, dopo aver lasciato tre anni prima Avignone. Negli stessi anni agiva tra Roma e Avignone un altro romano di forte erudizione e di vaste letture: Giovanni Cavallini. Nato 15 Per Giovanni Colonna cf. Forte 1950; Ross 1970; Ross 1985 (che ha individuato nei mss. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, conv. soppr. G.4.1111 e Firenze, Biblioteca Laurenziana, Edili 173 gli autografi rispettivamente del De viris illustribus e del Mare historiarum del domenicano); Petoletti, 2002, 380399; Modonutti 2011; Modonutti 2013; Modonutti 2015. Giovanni Colonna possedette il ms. di Lattanzio Oxford, Bodleian Library, Canon. Pat. Lat. 131, appartenuto allo zio Landolfo. Spero, prima o poi, di pubblicare l’edizione critica del De viris illustribus di Giovanni Colonna, ormai pronta, portando a compimento il lavoro intrapreso da B. Ross. Q ui il Colonna si riferisce a un antico codice di Livio visto a Chartres: vidi tamen ego quartam decadam in archivis ecclesie Carnotensis, sed litera adeo erat antiqua quod vix ab aliquo legi poterat (Billanovich 1951, 151-152; Billanovich 1981, 123-125; nel ms. conv. soppr. G.4.1111, il passo si trova f. 108v). Per Giovanni Colonna e Livio vedi Ross 1989. 16 Cf. Petoletti 2013b, 270-272, con bibliografia. 17 Cf. Reeve 1986; Reeve 1987a e 1987b; Reeve 1989, con utilissima sintesi dei risultati conseguiti (in relazione specialmente alla dipendenza del Par. lat. 5690 da un manoscritto, ora ridotto in stato frammentario, libri 27, 29-30, conservato a Nancy, Archives départementales de Meurthe-et-Moselle, 1 F 342 n.° 3, sec. XI [= O]: Billanovich 1986, 89-95 e tav. XIII). Vedi anche de Franchis 2000, in part. 31 e 37 per l’attuale segnatura del frammento di Nancy. Si legga inoltre la ‘replica’ di Billanovich 1988 a Reeve 1987b.
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a Roma, fu canonico di S. Maria Rotonda (il Pantheon). A partire almeno dal 1325 è presente ad Avignone, con la qualifica di scrittore papale. Tra Roma e Avignone trascorse il resto della sua vita: dettò il proprio testamento il 23 luglio 1348. Morì prima del 9 settembre 1349, quando papa Clemente VI concesse il suo canonicato di S. Maria Rotonda, ormai vacante, a un tal Giovanni 18. La sua fama è legata a un’unica opera, la Polistoria de virtutibus et dotibus Romanorum, in dieci libri, una sorta di rifacimento erudito dei vulgati Mirabilia urbis Romae 19. Q ui il Cavallini mostra tutte le proprie ampie conoscenze, riversando nel testo numerose citazioni dai classici latini, in particolare Livio e Valerio Massimo. Lo scopo è quello di esaltare la grandezza di Roma, di cui è offerta nei libri VI-VIII una precisa descrizione topografica con attenzione specifica rivolta agli antichi monumenti. La cultura, ampia e aperta a opere allora peregrine, traspare nella Polistoria e nelle fittissime postille marginali lasciate sui manoscritti da lui posseduti e consultati. Le note al suo Valerio Massimo, Vat. lat. 1927, impreziosite da particolari autobiografici e da continui confronti tra gli aneddoti antichi e le vicende contemporanee, costituiscono una sorta di commento perpetuo ai Factorum et dictorum memorabilium libri 20. Sui margini del Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1927, una postilla a f. 88v, già da tempo cono sciuta, richiamava voci che addirittura attestavano la presenza a Montecassino di un esemplare di Livio, de bello Punico primo, ovvero la perduta seconda decade, che communiter non habetur: il cenobio, arca di salvezza di molti classici latini, avrebbe custodito anche un manoscritto con il De re publica ciceroniano 21. Solo recentemente è stata letta un’altra nota sorprendente a margine di Valerio Massimo (a f. 2r), dove il Cavallini, a proposito della quinta e seconda decade di Livio (de bello Punico tertio e primo), riferisce quello che gli era stato comunicato dal domenicano Giovanni Colonna, nipote di Landolfo: i libri erano a Montecassino, ubi inhabitat liber Tulii de re publica 22. Il Colonna, 20 21 22 18 19
Petoletti 2013a, con bibliografia. Il testo di Cavallini è citato dall’ed. Laureys 1995. Cf. Miglio 1991. Cf. Sabbadini 1914, 49 n. 29. Cf. Internullo 2015.
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varcando i limiti della prudenza, gli aveva addirittura fatto credere di aver letto quei volumi, perduti allora e – almeno in parte – anche oggi (solo una pentade della quinta decade è scampata, sepolta in un codice di venerabile antichità, Wien, Österreichische Nationalbibliothek, lat. 15, sec. V, dal sec. IX a Lorsch, riscoperto nel 1527 da Simon Grynaeus) 23. Il domenicano erudito, che già evocò nel suo De viris illustribus l’antichissimo Livio di Chartres, millantò ed esibì al dotto romano Cavallini letture così straordinarie da suscitare invidia (e senza onere di prova) 24. Q ui importano, più concretamente, soprattutto le frequenti postille lasciate su un esemplare della prima decade di Tito Livio, con rimandi costanti ad altri auctores, con predilezione speciale riservata a Valerio Massimo. L’originale è perduto, ma a qualche tempo dalla morte del Cavallini, nella seconda metà del sec. XIV, fu copiato integralmente, nel testo e nei marginalia: si tratta dell’attuale Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1846, ms. cartaceo che trasmette, dopo qualche estratto di Sallustio e un frammento della lettera di dedica del commento a Valerio Massimo di Dionigi da Borgo San Sepolcro, l’intera prima decade di Livio 25. È possibile così ricostruire la lectura Livii del Cavallini, fondamentale per composizione della Polistoria. Lo studio del trattato di Cavallini in unione con le postille che accompagnano Livio manifesta con evidenza la forte componente polemica della Polistoria nei confronti della scelta di trasferire la sede papale ad Avignone, abbandonando Roma. Come si legge nel prologo (§ 3): Verum et si omnium gentium istorie revolvantur, nullarum gentium gesta clarius elucescunt quam gesta magnifica Romanorum. Poco oltre (§ 4) è introdotta per la prima volta l’autorità di Livio: Set quinam est hodie civium eorundem quem non pigeat hodie longinquitates bellorum non solum scribere, sed etiam perlegere ea que maiores ipsorum gerere Reynolds 1983, 214. Q uesta postilla porta a riflettere sull’effettiva veridicità dell’affermazione consegnata alle pagine del De viris illustribus, dove il Colonna sostiene di avere visto un codice della quarta decade a Chartres praticamente illeggibile a causa dell’antichità della scrittura. Cf. Billanovich 1986, 96, che per litera adeo erat antiqua parla di «formula abusatissima», e Reeve 1989, 102. 25 Petoletti 1996; Petoletti 2002, 371-379. 23 24
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non fastidierunt, secundum Livium .X. Ab urbe condita c. XVII (10, 31, 15). Nel Vat. lat. 1846, f. 115v, il passo è posto in rilievo da una manicula. Roma è urbs invicta, beata et eterna (Polistoria, 1, 2, 1), come Cavallini scrive riprendendo le parole di Livio: Deinceps Roma est urbs invicta, beata et eterna (5, 7, 10), et rerum omnium caput, secundum Livium .V. Ab urbe condita c. II § Non enim sicut equites, et eadem decada libro IIII c. II, ibi: Q uis dubitat quin in eternum urbs sit condita (4, 4, 4), cuius cives fuerunt omnium populorum victores (1, 59, 9), secundum Livium .I. Ab urbe condita c. ultimo § coniciunt (conicient con. Laureys) 26.
Il passo di Livio (5, 7, 10) nel ms. Vaticano, f. 46r, è accompagnato da una complessa postilla: Nota et bene urbem Romanam invictam et eternam concordia dicere. Concordat supra l(ibro) [est ut vid. ms.] IIIIto, c(apitulo) II°, titulo De oratione Cassilii tribuni plebis, versu Q uis dubitat quin in eternum urbe condita (4, 4, 4) 27.
Roma soprattutto è regalis sedes sacerdotii (Polistoria, 1, 3, 2-3); lo confermano il diritto, civile e canonico, e Livio nel primo libro degli Ab urbe condita: Livius .I. Ab urbe condita c. VIIII, ibi: Romulus orans dicit: Iuppiter, omnium deorum pater, hic .i. in hac urbe tuis iussus avibus a te missis prima urbi fundamenta tibi ieci (1, 12, 4); et c. XIIII § pontificem (1, 20, 5) 28; et ibi rursus habetur etiam argumentum quod papa sit eligendus ex patribus .i. dominis cardinalibus. Extra quam per noctem unam permanere nephas est summo pontifici, et flamen .i. summus sacerdos pere26 La correzione ex fonte proposta da Laureys 1995, che suggerisce di emendare il tràdito conviciunt (ma sarà qui – credo – errore di trascrizione per coniciunt o conniciunt con raddoppiamento abusivo) in conicient, sulla base delle moderne edizioni liviane, non può essere accolta, poiché a f. 14v del Vat. lat. 1846 si legge la lezione coniciunt (con la glossa idest extimant seu perpendunt), che va dunque restaurata nel testo del Cavallini. 27 4, 4, 4 nel Vat. lat. 1846, f. 36v, è messo in risalto da una manicula e dalla postilla: nota urbem Romanam eternaliter conditam ut hic. 28 Il passo nel Vat. Lat. 1846, f. 8r, è accompagnato dalla nota: nota reges vocari pontifices.
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gre habitando quantum 29 sibi piaculi .i. culpe reique publice [mortem] 30 contrahet (5, 52, 13-14)! Et si virtus sua transire alio possit, forma tamen loci huius alibi transferri non potest, secundum Livium .V. Ab urbe condita c. ultimo (5, 54, 6).
La sovrapposizione tra le antiche cariche sacerdotali e le nuova realtà ecclesiastica è totale: le parole di Livio sono un duro monito contro la scelta infausta di abitare lontano dall’Urbe. Accostare questo passo della Polistoria ai margini del Vat. lat. 1846 consente di verificare in presa diretta come quelle pagine di Livio abbiano infiammato il Cavallini, che ne riprodusse il testo e le proprie osservazioni marginali nel suo trattato: Vat. lat. 1846, f. 7r (1, 12, 4): Iuppiter tuis – inquit – iussus avibus [mg. scilicet a te missis vulturibus; et dicuntur a volatu tardo] hic [mg. Puto istud templum esse hedificatum ubi nunc dicitur Salvatore de la Statera corrupto vocabulo in pede Capitolii] in palatio [mg. Nota quod in loco ubi dicitur nunc Palatium fuit prima cepta urbs edificari per Romulum, ut supra est capitulo VI°, titulo De Romulo et eius regno, in principio, ut hic] prima urbi fundamenta ieci. Vat. lat. 1846, f. 54r (5, 52, 13-14): flamini [interl. sacerdoti vel episcopo] Diali noctem unam manere extra urbem [interl. idest sedem suam] nefas est […] et flamen [interl. idest sacerdos vel summus pontifex] peregre habitando non in singulas noctes quantum sibi reique publice piaculi [interl. peccati] contrahet 31. Vat. lat. 1846, f. 54r (5, 54, 6): Q uod cum ita sit, que malum ratio est expertis alia iterum experiri, iam ut virtus vestra transire alio possit, fortuna [interl. al. forma] certe loci huius transferri non possit? 29 Q uantum e poi forma (nella ripresa di Liv. 5, 54, 6) sono stampati da Laureys 1995 in tondo, perché nell’edizione critica di Livio l’avverbio è assente e la lezione corretta è fortuna: tuttavia nel Vat. lat. 1846 quantum è presente e fortuna è testo con la variante interlineare al. forma (cf. infra). 30 La parola mortem è espunta dall’editore ex fonte. Non credo però che questo intervento sia necessario (anzi nel discorso polemico l’inserimento del sostantivo è importante). Si interpreti così il passo: ‘È un’empietà per il sommo pontefice abitare fuori dall’Urbe anche per una sola notte e il flamine, ovvero il sommo sacerdote, nell’abitare in terra straniera, quanto sacrilegio, ovvero colpa, contrarrà in sé e morte allo stato!’. 31 Nel margine si trova la nota: Nota papam peccare pernoctando extra urbem.
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Il Cavallini aveva manifestato altrettanta forza polemica postillando la magnifica Bibbia del Pantheon (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 12958), capolavoro del sec. XII, i cui margini sono violati da sue note di lettura. Le proteste di san Paolo in casa di Filippo a Cesarea di fronte alle preghiere di amici e discepoli che lo spronavano a non salire a Gerusalemme (Act 21, 13) lo portano all’amara considerazione: Nota contra cardinales ultramontanos suadentes pape ne Romam veniat 32. Livio così è il baluardo della gloria di Roma antica che si riverbera nei tempi nuovi: non solo una miniera di storie del passato, ma un concreto strumento di affermazione politica. Non è un caso che il progetto grandioso sotteso alla realizzazione del già ricordato Par. lat. 5690, splendidamente miniato, sia stato ricondotto non soltanto alla voluttà di ostentare una conquistata ricchezza, ma alla volontà di affermare sul piano della pubblicistica culturale il primato dell’Urbe da parte di quello che potremmo chiamare il partito romano in curia, capeggiato dai Colonna riscattati e di nuovo potenti dopo le purghe bonifaciane 33. Q ueste considerazioni impongono dunque di riflettere nuovamente su un monumento librario su cui si è costruita la fama di Petrarca sospitator Livii: è il ms. London, British Library, Harley 2493 (A), che nel 1951 in un articolo di smagliante bellezza Giuseppe Billanovich ha rivelato essere costruito dal giovanissimo Petrarca, impegnato a restaurare il testo delle Historiae in casa Colonna tra 1326 e 1328-1330, una volta ritornato in terra di Francia, dopo la parentesi universitaria, a seguito della morte del padre Petracco 34. Q ui intorno a un nucleo antico, la trascrizione della terza decade, copiata in Italia nel sec. XII, si sarebbe sviluppato il progetto di riunire in un unico corpus quello che di Livio era scampato agli insulti del tempo e degli uomini. Anni dopo, tra 1343 e 1345, nei Rerum memorandarum libri (1, 18, 2), Petrarca scrisse con sdegno che dei centoquarantadue libri soltanto una parte era pervenuta ai suoi tempi, per poi ricor Cf. Petoletti 2010, 103-104 n. 27; Petoletti 2013a, 114-115. Cf. Ciccuto 2012. 34 Cf. Billanovich 1951. Il manoscritto è stato completamente riprodotto in Billanovich 1981b. Si vedano inoltre Billanovich 1959; Billanovich 1981, 97-122; Billanovich 1986, 30-65. 32 33
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dare come per incarico di re Roberto si fosse messo in cerca della seconda decade, ma senza successo: Sed o quantam etatis nostre maculam! huius tam ingentis tamque egregii operis vix portio superest exigua; quod cum in decadas vel ab ipso conditore vel, quod magis reor, a fastidiosis postmodum lectoribus sectum foret, ex quatuordecim non nisi tres decade supersunt: prima scilicet, tertia et quarta. Secundam quidem ipse ego, hortante quondam sacre memorie Roberto Sicilie rege, summa sed hactenus inefficaci diligentia quesivi.
Dunque al codice antico, completato dalla mano stessa di Petrarca per sanare le lacune del libro 30 (f. 213r-v, 30, 12, 6-15, 12; ff. 219v-220v, 30, 41, 9-45, 7), se ne sommarono altri due, copiati nel Trecento per committenza di Petrarca e dei suoi patroni, l’uno in testa con la prima decade, dove il giovane Francesco avrebbe copiato un’ampia sezione, ff. 65v-92r, con gran parte del libro 9 e l’intero libro 10 (9, 9, 8-10, 48, 7), e in coda la quarta. Sugli opera omnia 35 si esercitò l’azione di collazione e di congettura di Petrarca, prima che nel sec. XV, alla corte aragonese di Napoli, Lorenzo Valla si impegnasse nel personale restauro di Livio in polemica con altri dotti del tempo. Ad Avignone Petrarca poté disporre della rara tradizione ‘spirense’ di Livio per la terza e la quarta decade, che Billanovich ricollega al codice antico letto a Chartres da Landolfo Colonna, nonché per la quarta al testo ‘padovano’, legato all’ambiente del così detto primo umanesimo locale, e per la prima dell’altrettanto riposta tradizione veronese, consegnata nel sec. X alle pergamene dell’attuale ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 63, 19, copiato ai tempi del pugnace vescovo Raterio e custodito negli armaria della cattedrale di Verona, prima che, durante il tormentato crepuscolo degli Scaligeri, il funzionario bibliofilo Antonio da Legnago 35 O quasi: soltanto nel sec. XVI, come si è detto, sarebbero stati rintracciati i primi cinque libri della quinta decade; lo stesso vale per il libro 33 e per parte del libro 40, riemersi con le edizioni del 1519 e del 1616, a seguito del recupero dell’antico codice della cattedrale di Mainz, ora perduto, e soprattutto del ms. Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 35, sec. XI, derivato dall’illustre testimone in onciale del sec. V, anch’esso custodito, in stato estremamente frammentario, a Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 35a (cf. Reynolds 1983, 211-213; de Franchis 2015, 14-15).
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se ne impossessasse 36. Per le tradizioni italiane (padovana e veronese) della quarta e prima decade il tramite sarebbe stato Simone d’Arezzo, canonico a Verona e fido segretario del potente cardinale toscano Niccolò da Prato, di dantesca memoria 37. Q uesta ricostruzione, così affascinante per i perfetti accordi tra rapporti personali e scambi culturali, è stata messa in discussione sul piano della trasmissione testuale: in particolare Michael D. Reeve ha segnalato, varianti alla mano, le incongruenze della ricostruzione di Billanovich 38. Non entro nella complicata storia delle relazioni tra i codici liviani, teterrimum pelagus, che è stato percorso con rotta sicura da Reeve stesso e per la prima decade da Stephen Oakley (resta ancora aperto il campo di indagine sul fronte della produzione e della storia di molti manoscritti, soprattutto per la terza, che almeno per i libri 21-25 si fonda su un archetipo conservato, e per la quarta) 39; ma affronto alcune questioni ancora irrisolte relative ad A. Come è noto, il riconoscimento della mano di Petrarca nel codice non si fonda tanto su considerazioni di ordine paleografico e sulla presenza di note di possesso, quanto sulla «prova» indiretta della dichiarazione di Lorenzo Valla, altro lettore del manoscritto, che alla prosa polemica e geniale dell’Antidotum in Facium, in replica velenosa alle Invective in Laurentium Vallam di Bartolomeo Facio e contro gli altri umanisti della corte aragonese, allegò le emendationes ai libri 21-26 di Livio 40. Q ui citò un testimone, allora a Napoli, che sia il Facio sia il Panormita avevano visto, dove Petrarca stesso tentò di correggere Livio. L’identificazione con A di questo codex, secondo Valla diligentissimamente emendato da Petrarca, è sicura: di conseguenza 36 Cf. Billanovich 1959; vedi anche Reeve 1996a. Per Antonio da Legnago, cf. da ultimo Avesani 2014; Petoletti 2015. Per la così detta tradizione spirense di Livio cf. Reeve 1987b; Reeve 1995; de Franchis 2000, 27-33. Per i frammenti superstiti del codice liviano di Spira (sec. XI) cf. Testroet 1975-1976; Munk Olsen 1985, 12; Billanovich 1986, 87-89 e tavv. X-XI. 37 Cf. Billanovich 1986, 36-41; vedi anche Petoletti 2013b, 263-266, con bibliografia. 38 Cf. Reeve 1986; Reeve 1987a e 1987b; Reeve 1989; Reeve 1993; Reeve 1995; Reeve 1996a e Reeve 1996b. 39 Cf. Oakley 1997-2005, I 152-357. 40 Cf. Billanovich 1951, 137-145. Per la presenza del Valla in A sono fondamentali: Regoliosi 1981a, 1981b e 1986.
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il diluvio di varianti e postille trecentesche che segnano i margini di questo Livio complesso è stato assegnato da Billanovich a Petrarca, e a un Petrarca giovane e incerto, anteriormente alle prime testimonianze datate della sua scrittura (intorno al 1335 nel Par. lat. 2201, il codice con Agostino e Cassiodoro, che porta la celeberrima lista dei libri mei peculiares) 41. Si spiegherebbero così le difficoltà di riconoscere per via paleografica la mano di Petrarca nei margini di A: meglio si presta al confronto la textualis impiegata nel corpo del testo 42. Insomma la testimonianza di Valla, che avrebbe potuto vedere una qualche nota esplicita di proprietà sui fogli di guardia anteriori o in fine al codice, oggi mutilo, nella prospettiva di Billanovich deve essere accolta 43: così il ms. Harley 2493 sarebbe la fulgida prova del l’impegno di Petrarca, poco più che ventenne, riservato a un classico nel tentativo di emendarne il testo corrotto per meglio comprenderne il contenuto. Certo è che il volume, così amorosamente corretto, successivamente non è più presente sul suo scrittoio. Nessuna traccia della scrittura di Petrarca più maturo occorre nei margini del volume, né di esso si avvalse quando, verso la fine degli anni Trenta, egli elaborò i progetti del De viris illustribus in prosa, dove Livio è fonte strutturale (almeno nel piano originario), e dell’Africa in poesia, che si fonda per la materia trattata sulle Historiae. Il problema di quale Livio Petrarca avesse a disposizione prima del 1351, anno di acquisizione del Par. lat. 5690, diu ante possessus – non dimentichiamo – è ancora aperto: Billanovich introduce un terzo Livio, poi anch’esso sparito, copia in bella di A, ammalorato da troppi interventi che lo rendevano ormai anche esteticamente rude 44. Nell’elaborazione dei Rerum memorandarum libri, iniziati ad Avignone nell’estate del 1343, dopo la morte di re Roberto, Cf. Bellieni 2010. Per i libri peculiares di Petrarca cf. Ullmann 1973; Fera 2012. 42 Alcuni dubbi sull’effettiva presenza di Petrarca in A sono già in Fiorilla 2012, 106-122, con il quale è ormai da anni che discuto del problema, ripreso da de Franchis 2015, 11. Cf. ora anche Fera 2018, 54-55. 43 Cf. Billanovich 1951, 142: «We can also surmise that he [Valla] read, on the first or the last page of the codex, Petrarch’s usual note of ownership»; Billanovich 1981a, 106. 44 Cf. Billanovich 1986, 58-60. 41
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e proseguiti in Italia, tra Napoli e Parma, fino all’inizio del 1345, quando vennero bruscamente e irrimediabilmente interrotti, Livio è fonte meno adoperata di quanto ci si potrebbe aspettare 45. Una postilla risalente a quegli anni, vergata sui margini del Cicerone di Troyes (Mediathèque du Grand Troyes, 552, f. 281r), che Petrarca abbondantemente studiò e usò per la costruzione dei Rerum memorandarum libri, è piuttosto eloquente. Accanto a de orat. 2, 154 si legge infatti: Nota de Numa et Pithagora, de quibus apud Livium, si memini 46. La memoria prodigiosa non lo tradiva (perché di Numa e Pitagora si parla in 1, 18, 2-4), ma la possibilità di un controllo diretto sembra esclusa dalla dichiarazione si memini. Si aggiungano altre osservazioni più gravi, al di là dell’assenza di questo volume liviano dalla biblioteca petrarchesca. Q uest’ultima difficoltà si potrebbe forse risolvere invocando il fatto che Petrarca, «squattrinato apprendista» 47, non lavorò per sé, ma a servizio della casa e della causa dei Colonna suoi patroni in quegli anni crudi dopo la morte del padre Petracco nel 1326. Ma questo renderebbe più difficile pensare che Valla abbia potuto vedere nelle pagine cadute del nostro Livio una nota di possesso petrarchesca, se questo volume, come tutto lascia supporre, non appartenne di fatto alla biblioteca del grande Francesco. Resta la grave soma del problema paleografico che non può essere ormai più aggirato invocando la sfuggente categoria del ‘giovane Petrarca’ che scrive nei margine dei suoi codici. La presenza precoce della sua mano nell’Isidoro Par. lat. 7595, acquistato dal padre sul mercato librario di Parigi e da lui postillato sicuramente dopo il 1348, quando lo riebbe, e nell’Agostino dell’Universitaria di Padova, 1490, è stata annullata dal riconoscimento indubitabile che le postille assegnate da Giuseppe Billanovich al giovane Petrarca appartengono in realtà al vescovo Ildebrandino Conti 48. Insomma non ci sono, prima del 1335, possibilità di confronto diretto e il paragone tra le scritture Cf. Billanovich 1943-1945, CXVII-CXX. Cf. Billanovich 1943-1945, CXVIII-CXIX; Blanc 1978, 147; Petoletti 2014, 210. 47 Cf. Billanovich 1981a, 113. 48 Cf. Billanovich M. C. 1994. Per il Par. lat. 7595 cf. Petoletti 2003. Nel ms. di Padova la presenza di Petrarca è limitata alla sola epigrafe libraria, dove 45 46
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‘petrarchesche’ nel Livio Harley 2493 (la textualis impiegata per copiare parte del testo e la corsiva delle note di collazione e delle postille) e i numerosissimi altri suoi autografi creano qualche difficoltà; lo studio dell’abbondante eredità grafica di Petrarca sembra mettere in seria discussione l’effettiva compatibilità tra il postillatore di A che si suole identificare con lui e il resto delle molte prove di sua mano. Su un piano più propriamente culturale si possono fare alcune osservazioni: innanzitutto occorre sottolineare come, oltre al ‘giovane Petrarca’ e al Valla, i margini del codice manifestino la presenza di altre mani, ancora del sec. XIV e non solo del XV 49. Il lettore trecentesco principale di A, identificato con Petrarca, nelle sue postille esibisce conoscenze ancora limitate: tra i poeti Virgilio (una citazione rispettivamente dalle Bucoliche, con grafia abusiva in Buccolicis 50, e dalle Georgiche 51, quattro dall’Eneide 52), in poesia si magnifica l’impresa erudita del De civitate Dei. Le postille di queste codice, che si devono a Ildebrandino, sono pubblicate da Zuccollo 2006. 49 Cf. Regoliosi 1986, 64-68, già individua una ‘terza mano’ quattrocentesca, oltre a quella del Valla, nei margini di A sul fondamento di considerazioni paleo grafiche e ortografiche. Cf. anche Briscoe 1980, 312-316. Billanovich 1994, 2-4, 24-27, identifica un altro postillatore trecentesco di A con il poeta Sennuccio del Bene, che avrebbe annotato anche il mirabile Virgilio di Petrarca (Milano, Biblioteca Ambrosiana, A 79 inf.) e l’Apuleio narrativo ora London, British Library, Add. 24893, sec. XIV. 50 A, f. 108va (compellabat corr. ex compellebant 22, 12, 12): ut Virgilius in Buccol(icis): «Compulerantque gregem Coridon et Tyrsis in unum» (Verg., ecl. 7, 2). 51 A, f. 99vb (pedica 21, 36, 8): Pedica laqueus cum quo captarum ferarum pedes constringuntur. Virgilius in primo Geor(gicorum): «Et gruibus pedicas et recia ponere cervis» (Verg., Georg. 1, 308). 52 A, f. 135rb (obtamus 24, 8, 6): Optare pro eligere ponitur, ut Virgilius in primo Eneid(os): «Tuus, o regina, quod optes / explorare labor» (Verg., Aen. 1, 76-77). Idem in eodem: «Pars optare locum tecto» (Verg., Aen. 1, 425); f. 263ra (34, 62, 12): Virgilius in primo Eneyd(os): «Devenere loco [sic], ubi nunc ingentia cernis / menia surgentemque nove Cartaginis arcem / mercati [sic] solum facti de nomine Birsan / taurino quantum possent circumdare tergo» (Verg., Aen. 1, 365368). Nella nota di f. 263ra le due lezioni loco per locos e mercati per mercatique (rispettivamente Aen. 1, 365 e 367) incrinano profondamente la correttezza metrica degli esametri virgiliani e non possono essere semplicimente venire liquidate come semplici errori di memoria (o guasti testuali di tradizione). Un po’ più complesso il quarto esempio. In A, f. 108va, a 22, 12, 12 (pro cunctatore segnem), si trova la lunga postilla: Cunctari est quando prudens belli dux hostibus ferociter insultantibus et pugnam poscentibus milites suos continet occasionem expectans, sicut ipse Fabius faciebat Hannibali. Unde et ipse Fabius ab Ennio et a Virgilio hoc versu comendatur: «Unus qui nobis cunctando restituit rem». De quo Minucius eum culpabat «pro cunctatore segnem» appellans. Il famoso verso di Ennio (Ann. 370 V2.)
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Orazio satiro (dal secondo libro delle Epistulae) 53, Ovidio (Metamorfosi) 54, un versus memorialis sulla differenza prosodica tra irrīto («incitare») e irrĭto («annullare»: di tradizione giuridica) 55; tra i prosatori Cicerone (una ripresa dal De inventione) 56 e Servio (con due citazioni, una delle quali non proprio alla lettera) 57. Alcune note sono poi abbastanza curiose: con difficoltà si può credere che Petrarca per quanto giovane potesse accompagnare 5, 33, 7 (quibus Ytalia insule modo cingunt quamtum [sic] potuerint [corr. interl. in patuerint] nomina sunt argumento quod alterum Tuscum communi vocabulo gentis, alterum Adria ticum mare), f. 25va, con una nota violentata da un evidente raddoppiamento abusivo di consonante 58: Tirrenum etiam iddem [sic] quod Tuscum. Allo stesso modo la postilla Corcira insula que nunc vulgariter appellatur Corphoy, f. 129va, a margine di 23, 34, 3, non sorè citato da molti autori latini (Cic., off. 1, 84; sen. 10; Macr., Saturn. 6, 1, 23; Serv., Aen. 6, 845) e ripreso alla lettera da Verg., Aen. 6, 846. 53 A, f. 133ra (redempturis 23, 48, 10): Redemptura mercatura dicitur, ut redemptor mercator. Horacius in secundo Epistolarum: «Festinat calidus mulis gerulisque redemptor» (Hor., epist. 2, 2, 72). 54 A, f. 143va (rapte quondam Proserpine 24, 38, 8): Apud Hethnam enim Pluto deus inferorum Proserpinam, Cereris filiam, rapuisse dicitur, ut Ovidius in V° Metamorfoseos plene exequitur (Ov., met. 5, 341-408). 55 A, f. 94rb (animos irritat 21, 8, 8): Hec diccio «irrītat» debet proferri et significat inducere (?), accendere vel animare, sed, si profertur correpte, significat annullare. Unde versus: «Irritet hunc dominus qui nos irritat ad iram» (il verso è in Uguccione (Cecchini et alii 2004, 1025 [R 26, 20]): Item ratus componitur, media correpta, irrito -as, idest evacuare, vanum facere, debilitare, destruere; unde illud «irritet hunc dominus qui nos irritat ad iram»). 56 A, f. 134ra (24, 3, 7): De huius templi nobilitate mencionem facit Cicero in primo Rethoricorum (Cic., inv. 2, 1, 1). 57 Di una di queste due note serviane in A, f. 96vb (a 21, 21, 12), solo parzialmente riconducibile all’esegeta antico, ho discusso in Petoletti 2006, 95. L’altra si trova in A, f. 106ra, in relazione a 22, 1, 17: Feronia fons fuit teste Servio iuxta Terracinam, ubi colebatur Iuno virgo, que, ut ipse ait, «Feronia dicebatur» (Serv., Aen. 7, 799). 58 Già Billanovich 1951, 146-147, notava alcuni problemi ortografici, ma li giustificava come sintomo di giovane età: «he had not yet had time to formulate those rules of orthography (consistent and strict rules, even though frequently founded on traditional canons) which he later invariably followed». Un conto però sono le oscillazioni ci/ti, l’uso della p epentetica (nel gruppo mpn), qualche incertezza per h e y, un altro sono i violenti raddoppiamenti o scempiamenti abusivi e le forme palatalizzate sc per c. Vedi anche Billanovich 1981a, 113-115.
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prendente per molti altri lettori trecenteschi, è più lontana dalle consuetudini di Petrarca annotatore dei propri libri 59. Al di là delle note propriamente marginali, che talvolta si limitano a semplici didascalie contenutistiche e in generale non presentano nessuno di quei caratteri distintivi che siamo abituati a riconoscere nei codici petrarcheschi (ma questo in sé non costituisce una prova assoluta), è da sottolineare come siano moltissimi gli interventi interlineari deputati a interpretare in maniera scolastica il testo di Livio per conquistarne la difficile lettera con l’indicazione esplicita dei soggetti sottintesi o la spiegazione dei termini reperiti nello scorrere della prosa con sinonimi di più semplice intelligibilità. Q uesta lenta operazione esegetica è condotta con particolare impegno sui libri della terza decade. Offro qui di seguito qualche esempio: f. 94va (21, 10, 2): non manes [interl. scilicet animas], non stirpem eius conquiescere viri [interl. scilicet Hamilcaris] nec umquam, donec sanguinis nominisque Brachini quisquam supersit quietura Romana foedera iuvenem [interl. scilicet Hannibalem] flagrantem cupidine regni. f. 99va-b (21, 36, 7-37, 3): ita in levi [interl. lubrica, plana] tantum glacie tabidaque [interl. liquante] nive volutabantur iumenta 60, secabantur [interl. dilacelabantur] interdum etiam infimam [ante del. tamen] 61 ingredientia 62 nivem et prolapsa iactandis gravius in continendo ungulis penitus perfringebant, ut pleraque velut pedica 63 capta hererent in dura et alta concta [corr. in concreta] glacie. Tandem necquiquam [corr. in nequiquam] iumentis atque hominibus fatigatis castra in iugo posita, egerrime [interl. difficillime] ad idipsum loco purgato tantum nivis fodientum atque egerendum fuit. Inde ad rupem muniendam [corr. in minuendam; interl. concidendam], per 59 Si veda anche la nota di A, f. 103va a 21, 55, 6 (a Balearibus coniecta): Baleares insule due sunt, que dicuntur nunc Maiorica et Minorica, in quibus fundarum usus inventus dicitur. 60 Mantengo qui la punteggiatura del manoscritto, dove si vede un punto immediatamente dopo iumenta. 61 Sopra infimam si scorge un segno di richiamo, cui corrisponde nel margine destro un intervento eraso. Prima di infimam l’avverbio Tam(en), trascritto dal copista, è espunto con il normale sistema dei puntini sottoposti. 62 Nell’interlinea sopra ingredientia si scorge una parola erasa. 63 Nel margine destro si legge la postilla con citazione dalle Georgiche qui trascritta a n. 51.
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quam via una esse poterat, milites ducti, cum cedendum esset saxum, arboribus circa inmanibus [interl. grandibus] deiectis detruncatisque struem ingentem lignorum faciunt eamque, cum et vis venti septa faciendo igni coorta esset, succendunt ardentiaque saxa infuso aceto putrefaciunt [interl. dissolvunt] 64. Ita torridam [interl. exustam] incendio rupem ferro pandunt molliuntque [interl. planos faciunt] anfractibus [interl. circuicionibus] modicis clivos [interl. arduitates], ut non iumenta solum sed elefanti etiam deduci possent.
Alcune puntualizzazioni minime lasciano un po’ sorpresi, per esempio le note interlineari abbastanza semplici del tipo expellendum a glossa di arcendum (21, 17, 6, f. 95vb), trepide concitati sopra consternati (21, 24, 2, f. 97r), repentinus a spiegazione di repens (21, 26, 1, f. 97va), o addirittura un idest non a esegesi di un non certo misterioso haud procul Therragone (21, 61, 2, f. 104vb). Sconcertante per l’ortografia esibita la nota interlineare a 21, 19, 8, Poenus hostis perdidit, f. 96rb, dove perdidit è accom pagnato dallo sbilenco dextruxit. Ancora sul fronte ortografico poi – mi trasferisco direttamente alla sezione di Livio copiata dalla mano attribuita a Petrarca – stupiscono i numerosissimi raddoppiamenti e gli scempiamenti abusivi delle consonanti, anche se spesso raddrizzati in sede di revisione con provvidenziali espunzioni, realizzate con puntino sottoposto, e integrazioni interlineari. Addirittura incredibile quanto si legge a f. 219va, e non mi riferisco tanto al clasibus per classibus a 30, 41, 6, quanto alla forma Scicillie per Sicilie, dove è pur vero che un pietoso intervento successivo riduce la doppia l a semplice l, ma senza preoccupazioni per la forma «settentrionale» sci- per si-. Lo stesso primato di A che per la prima volta nella storia culturale dell’Occidente vedrebbe riunite in un solo volume le superstiti decadi che allora avevano ora maggiore ora minore circolazione, è disputato: non parlo dei molti dubbi sulla possibilità che il più volte evocato Par. lat. 5690 sia più antico di quanto volesse Billanovich, che ne vede la confezione in contemporanea con Nel margine destro si trova la nota: Hannibal ardentibus saxis infuso aceto rupem perviam fecit. Nel Par. lat. 5690 il passo è accompagnato dalla postilla di Petrarca: Ignis et acetum (cf. Fenzi 2012, 280, che trascrive però acetus). 64
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quella del Livio Harleyano (e dunque tra 1326 e 1330), contraddetto dagli storici della miniatura che tendono a considerare la decorazione e di conseguenza la confezione del libro una generazione prima (intorno al 1310 al massimo) 65. Credo che occorra ancora un supplemento di indagine, paleografica e codicologica, che consenta non dico di arrivare a risultati incontrovertibili, ma almeno a sgombrare il campo da ipotesi disancorate da uno studio diretto del manufatto (di cui è stata sospettata la realizzazione a più riprese: prima l’entrée con Ditti, Floro e la prima decade, poi il piatto forte con terza e quarta decade all’ombra delle vestigia di Roma antica, dove infine nel 1328 Landolfo Colonna, gravato dagli anni, approdò per trovare l’ultima dimora in quella terra tanto amata e ammirata quando era lontano) 66. Ma la concreta possibilità che almeno l’imponente Livio Holkham Hall, Library of the Earl of Leicester, 344, in bella textualis bolognese, con tutte e tre le decadi, risalga ai primi anni del Trecento, se non al declinare del secolo precedente, come la decorazione sembra suggerire, sottrarrebbe il gradino più alto nell’immaginario podio ad A, se pure l’assemblamento di quest’ultimo complesso e affascinante manoscritto è da collocare poco dopo il 1326 e sotto la regia del giovane Petrarca 67. Evidentemente escludere Petrarca dal progetto e dal concreto intervento materiale sulle pagine del Livio Harleyano porta con sé conseguenze importanti sul piano della cultura e della storia della filologia: agli incunaboli di un percorso di studio che si prospetta lungo e duro, è però giunto il tempo di mettere in discussione alcune certezze apparentemente acquisite 68. Allora, lo dico con la devozione che provo nei confronti di un grande maestro, posteri permutare valebunt. Cf. Reeve 1987b, 421-422; Ciccuto 2012. Vedi ancora Ciccuto 2012. 67 Cf. Reeve 1987a, 146: «Holk. 344 cannot be as late as s. XIV2: the illumination suits the period 1295-1315. That perhaps makes it the earliest manuscript to combine all three decades in one volume». Cf. anche Reeve 1996b, 106-107; de Franchis 2015, 18 n. 8. Per un’ottima descrizione del ms. Holk. 344 e della sua decorazione, con bibliografia pregressa, Reynolds 2015, 211-221. 68 Sottoscrivo l’osservazione di Regoliosi 1986, 52: «Ma molto occorre ancora lavorare: ad esempio, per precisare meglio all’interno di tutte e tre le Decadi presenti in A la consistenza delle emendazioni effettivamente valliane, distinguendole puntualmente da quelle del Petrarca ed eventualmente di altri». 65 66
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Bibliografia Avesani 2014 = R. Avesani, Un documento della cultura veronese nel Vat. lat. 3134: gli Epigrammata di Antonio da Legnago, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XX, (Studi e testi 484), Città del Vaticano 2014, 47-87 Bellieni 2010 = A. Bellieni, Le postille del Petrarca a Cassiodoro, De anima (Par. lat. 2201), Studi petrarcheschi n.s. 23, 2010, 1-43 Bignami Odier = J. Bignami Odier, Le testament du cardinal Richard Petroni (13 janvier 1314), PBSR 24 (n.s. 11), 1956, 142-157 Billanovich 1943-1945 = G. Billanovich (ed.), Francesco Petrarca, Rerum memorandarum libri, Firenze 1943-1945 Billanovich 1951 = G. Billanovich, Petrarch and the textual tradition of Livy, JWI 14, 1951, 137-208 Billanovich 1958 = G. Billanovich, Un altro Livio corretto dal Valla (Valenza, Biblioteca della Cattedrale, 173), IMU 1, 1958, 265-275 Billanovich 1959 = G. Billanovich, Dal Livio di Raterio (Laur. 63, 19) al Livio del Petrarca (B.M., Harl. 2493), IMU 2, 1959, 103-178 Billanovich 1981a = G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, vol. I: Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo, (Studi sul Petrarca 9), Padova 1981 Billanovich 1981b = G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, vol. II: Il Livio del Petrarca e del Valla, British Library, Harleian 2493 riprodotto integralmente, (Studi sul Petrarca 11), Padova 1981 Billanovich 1986 = G. Billanovich, La biblioteca papale salvò le storie di Livio, Studi petrarcheschi n.s. 3, 1986, 1-115 Billanovich 1988 = G. Billanovich, rec. Reeve 1987b, Studi petrarcheschi n.s. 5, 1988, 317-325 Billanovich 1994 = G. Billanovich, L’altro stil nuovo. Da Dante teologo a Petrarca filologo, Studi petrarcheschi n.s. 11, 1994, 1-98 Billanovich – Ferraris 1958 = G. Billanovich – M. Ferraris, Le «Emendationes in T. Livium» del Valla e il Codex Regius di Livio, IMU 1, 1958, 245-264 Billanovich 1994 = M. C. Billanovich, Il vescovo Ildebrandino Conti e il De civitate Dei della Biblioteca Universitaria di Padova. Nuova attribuzione, Studi petrarcheschi n.s. 11, 1994, 99-127 Blanc 1978 = P. Blanc, Pétrarque lecteur de Cicéron. Les scolies pétrarquiennes du ‘De oratore’ et de l’‘Orator’, Studi petrarcheschi 9, 1978, 109-166 288
EPISODI PER LA FORTUNA DI LIVIO NEL TRECENTO
Briscoe 1980 = J. Briscoe, Notes on the manuscripts of Livy’s fourth decade, Bulletin of the John Rylands Library 62, 1980, 311-327 Cecchini et alii 2004 = E. Cecchini – G. Arbizzoni – S. Lanciotti – G. Nonni – M. G. Sassi – A. Tontini, Uguccione da Pisa, Derivationes, vol. I, (Edizioni Nazionale dei Testi Mediolatini 11), Firenze 2004 Ciccuto 2012 = M. Ciccuto, Fatti romani del Tito Livio Colonna, in Ciccuto et alii 2012, 11-58 Ciccuto et alii 2012 = M. Ciccuto – G. Crevatin – E. Fenzi (a cura di), Reliquiarum servator. Il manoscritto Parigino latino 5690 e la storia di Roma nel Livio dei Colonna e di Francesco Petrarca, Pisa 2012 Crevatin 2006-2007 = G. Crevatin, Leggere Tito Livio: Nicola Trevet, Landolfo Colonna, Francesco Petrarca, Incontri triestini di filologia classica 6, 2006-2007, 67-79 Crevatin 2012 = G. Crevatin, Dalle fabulae alle historiae: Nicola Trevet espone le Decadi liviane, in Ciccuto et alii 2012, 59-116 de Franchis 2000 = M. de Franchis, Le livre 30 de Tite-Live et la double tradition des livres 26 à 30, RPh 74, 2000, 17-41 de Franchis 2015 = M. de Franchis, Livian Manuscript Tradition, in B. Mineo (ed.), A Companion to Livy, Chichester 2015, 3-23 De Robertis 2008 = T. De Robertis, scheda Valerio Massimo, Dictorum et factorum memorabilium libri, in T. De Robertis – G. Tanturli – S. Tanturli (a cura di), Coluccio Salutati e l’invenzione del l’umanesimo, Firenze 2008, 261-262 Dean 1945 = R. J. Dean, The Earliest Known Commentary on Livy is by Nicholas Trevet, M&H 3, 1945, 86-98 Fenzi 2012 = E. Fenzi, Le postille al Livio Parigino e la revisione del De viris, in Ciccuto et alii 2012, 175-546 Fera 2012 = V. Fera, I libri peculiares, in D. Coppini – M. Feo (a cura di), Petrarca, l’Umanesimo e la civiltà europea. Atti del Convegno Internazionale (Firenze, 5-10 dicembre 2004), Q uaderni petrar cheschi 15-18, 2005-2008, Firenze 2012, 1077-1100 Fera 2018 = V. Fera, Petrarca e Livio. La Fam. XXIV 8 e il De viris illustribus, in S. Costa – F. Gallo (a cura di), Miscellanea Graecolatina V, Milano 2018 (Ambrosiana Graecolatina 7), 41-69 Forte 1950 = S. L. Forte, John Colonna o.p. Life and Writings, Archivum Fratrum Praedicatorum 20, 1950, 369-414 Fiorilla 2012 = M. Fiorilla, I classici nel Canzoniere. Note di lettura e scrittura poetica in Petrarca, (Studi sul Petrarca 40), Roma – Padova 2012 289
M. PETOLETTI
Internullo 2015 = D. Internullo, Due romani e la riscoperta dei classici a Montecassino nel Trecento. Nuovi spunti da un marginale del ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1927, in M. Capasso – M. De Nonno (a cura di), Studi paleografici e papirologici in ricordo di Paolo Radiciotti, Lecce 2015, 275294 Jullien de Pommerol – Monfrin 2001 = M.-H. Jullien de Pommerol – J. Monfrin, Bibliothèques ecclésiastiques au temps de la papauté d’Avignon, vol. II, Paris 2001 Laureys 1995 = M. Laureys (ed.) Ioannes Caballinus, Polistoria de virtutibus et dotibus Romanorum, Stutgardiae – Lipsiae 1995 Laureys 1997 = M. Laureys, Between ‘Mirabilia’ and ‘Roma Instaurata’. Giovanni Cavallini’s ‘Polistoria’, in Pade – Regn Jensen – Waage Petersen 1997, 101-115 Miglio 1991 = M. Miglio, «Et rerum facta est pulcherrima Rome»: attualità della tradizione e proposte di innovazione, in Id., Scritture, scrittori e storia, vol. I: Per la storia del Trecento a Roma, Manziana 1991, 11-53 [già in Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese. Atti del XIX Convegno storico internazionale (Todi, 15-18 ottobre 1978), Todi 1981, 313-369] Modonutti 2011 = R. Modonutti, Memorie e rovine di Roma imperiale nel ‘Mare historiarum’ di fra Giovanni Colonna, IMU 52, 2011, 27-70 Modonutti 2013 = R. Modonutti, Fra Giovanni Colonna e la storia antica da Adriano ai Severi, Padova 2013 Modonutti 2015 = R. Modonutti, «In quadam antiquissima historia»: l’Historia Augusta nel Mare historiarum di fra Giovanni Colonna, in G. Albanese – C. Ciociola – M. Cortesi – C. Villa (a cura di), Il ritorno dei classici nell’Umanesimo. Studi in memoria di Gianvito Resta, Firenze 2015, 449-474 Munk Olsen 1985 = B. Munk Olsen, L’étude des auteurs classiques latins aux XIe et XIIe siècles, vol. II, Paris 1985 Munk Olsen 1997 = B. Munk Olsen, L’étude des classiques à Avignon au XIVe siècle, in Pade – Regn Jensen – Waage Petersen 1997, 13-25 Oakley 1997-2005 = S. P. Oakley, A Commentary on Livy, books vi-x, voll. I-IV, Oxford 1997-2005 Pade – Regn Jensen – Waage Petersen 1997 = M. Pade – H. Regn Jensen – L. Waage Petersen (edd.), Avignon & Naples. Italy in France – France in Italy in the Fourteenth Century, Rome 1997 290
EPISODI PER LA FORTUNA DI LIVIO NEL TRECENTO
Panella 1989 = E. Panella, Livio in Tolomeo da Lucca, Studi petrarcheschi n.s. 6, 1989, 43-52 Paravicini Bagliani 1980 = A. Paravicini Bagliani, I testamenti dei cardinali del Duecento, Roma 1980 Petoletti 1996 = M. Petoletti, «Nota pro consilio Polistorie mee orationem predictam»: Giovanni Cavallini lettore di Tito Livio, IMU 39, 1996, 47-76 Petoletti 1999 = M. Petoletti, I Florida di Apuleio in Benzo d’Alessandria, in G. Avarucci – R. M. Borraccini Verducci – G. Borri (a cura di), Libro, scrittura, documento della civiltà monastica e conventuale nel basso Medioevo (secoli XIII-XV). Atti del Convegno di studio (Fermo 17-19 settembre 1997), Spoleto 1999, 224-238 Petoletti 2000 = M. Petoletti (a cura di), Il «Chronicon» di Benzo d’Alessandria e i classici latini all’inizio del XIV secolo. Edizione critica del libro XXIV: «De moribus et vita philosophorum», (Bibliotheca erudita 15), Milano 2000 Petoletti 2002 = M. Petoletti, «Nota valde et commenda hoc exemplum»: il colloquio con i testi nella Roma del primo Trecento, in V. Fera – G. Ferraù – S. Rizzo (a cura di), Talking to the Texts: Marginalia from Papyri to Print. Proceedings of a Conference held at Erice, 26 September – 3 October 1998, as the 12th Course of International School for the Study of Written Records, vol. I, Messina 2002, 359-399 Petoletti 2003 = M. Petoletti, Petrarca, Isidoro e il Virgilio Ambrosiano. Note sul Par. lat. 7595, Studi petrarcheschi n.s. 20, 2003, 1-48 Petoletti 2004 = M. Petoletti, Milano e i suoi monumenti. La descrizione trecentesca di Benzo d’Alessandria, Alessandria 2004 Petoletti 2006 = M. Petoletti, «Servius altiloqui retegens archana Maronis»: le postille a Servio, in A. Nebuloni Testa – M. Baglio – M. Petoletti (a cura di) Francesco Petrarca, Le postille del Virgilio Ambrosiano, (Studi sul Petrarca 33-34), Padova – Roma 2006, 93-143 Petoletti 2010 = M. Petoletti, Francesco Petrarca e i margini dei suoi libri, in G. Baldassarri – M. Motolese – P. Procaccioli – E. Russo (a cura di), «Di mano propria». Gli autografi dei letterati italiani. Atti del Convegno (Forlì, 24-27 novembre 2008), Roma 2010, 93-121 Petoletti 2013a = M. Petoletti, Giovanni Cavallini, in G. Brunetti – M. Fiorilla – M. Petoletti (a cura di), Autografi dei letterati italiani. Le Origini e il Trecento, vol. I, Roma 2013, 113-124 291
M. PETOLETTI
Petoletti 2013b = M. Petoletti, Libri e letteratura ad Avignone ai tempi di Niccolò da Prato, in M. Benedetti – L. Cinelli (a cura di), Niccolò da Prato e i frati Predicatori tra Roma e Avignone, Memorie domenicane n.s. 44, 2013, 257-279 Petoletti 2014 = M. Petoletti (a cura di), F. Petrarca, Rerum memorandarum libri, Firenze 2014 Petoletti 2015 = M. Petoletti, La lettera del veronese Antonio da Legnago a Pietro da Ravenna (1378) e il sepolcro di Dante, in M. Peto letti (a cura di), Dante e la sua eredità a Ravenna nel Trecento, Ravenna 2015, 71-86 Reeve 1986 = M. D. Reeve, The Transmission of Livy 26-40, RFIC 114, 1986, 129-172 Reeve 1987a = M. D. Reeve, The Third Decade of Livy in Italy: the family of the Puteaneus, RFIC 115, 1987, 129-164 Reeve 1987b = M. D. Reeve, The Third Decade of Livy in Italy: the Spirensian tradition, RFIC 115, 1987, 405-440 Reeve 1989 = M. D. Reeve, The ‘Vetus Carnotensis’ of Livy unmasked, in J. Diggle – J. B. Hall – H. D. Jocelyn (edd.), Studies in Latin Literature and its Tradition in Honour of C. O. Brink, Cambridge 1989, 97-112 Reeve 1993 = M. D. Reeve, The Place of P in the Stemma of Livy 1-10, in C. A. Chavannes-Mazel – M. M. Smith (edd.), Medieval Manuscripts of the Latin Classics: Production and Use. Proceedings of the Seminar in the History of Book to 1500, Los Altos Hills 1996, 75-90 Reeve 1995 = M. D. Reeve, Beatus Rhenanus and the lost Vormacensis of Livy, RHT 25, 1995, 217-254 Reeve 1996a = M. D. Reeve, Italian Relatives of M in Livy 1-10, Aevum 70, 1996, 113-127 Reeve 1996b = M. D. Reeve, A Misdated Manuscript of Livy, Philologus 140, 1996, 100-113 Reeve 2006 = M. D. Reeve, Manuscripts of Pliny’s Natural History in Spain, ExClass n.s. 10, 2006, 151-186 Regoliosi 1981a = M. Regoliosi, Lorenzo Valla, Antonio Panormita, Giacomo Curlo e le emendazioni a Livio, IMU 24, 1981, 287-316 Regoliosi 1981b = M. Regoliosi (a cura di), Laurentii Valle Antidotum in Facium, (Thesaurus mundi 20), Patavii 1981 Regoliosi 1986 = M. Regoliosi, Le congetture a Livio del Valla. Metodo e problemi, in O. Besomi – M. Regoliosi (a cura di), Lorenzo Valla 292
EPISODI PER LA FORTUNA DI LIVIO NEL TRECENTO
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M. PETOLETTI
Abstracts This paper offers an overview of Livy’s fortune in the fourteenth century and of his importance in the birth of pre-Humanism, tracing the presence of the Ab urbe condita libri in the works of some of the most distinguished intellectuals of the time. Among them, an important position is held by Petrarch, whose interest in Livy is undeniable but needs further consideration, especially with regards to his role in Livy’s manuscript tradition. Il contributo offre una panoramica della fortuna di Livio nel Trecento e della sua importanza nella nascita del cosiddetto pre-umanesimo, rintracciando la presenza degli Ab urbe condita libri nelle opere di alcuni dei più importanti intellettuali del tempo. Tra di essi, una posizione di rilievo è occupata da Petrarca, il cui interesse per Livio è innegabile ma merita ulteriore approfondimento, in particolar modo per quanto riguarda il suo ruolo nella tradizione manoscritta di Livio.
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CARLA MARIA MONTI
LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
Il libro 24 delle Familiari di Francesco Petrarca raccoglie, come è noto, le dieci lettere da lui rivolte agli antichi illustri: Cicerone (due lettere), Seneca, Varrone, Q uintiliano, Livio, Asinio Pollione, Orazio, Virgilio e Omero (Fam. 24, 3-12). La lettera a Livio è posta al centro: la precedono lettere a quattro destinatari, quattro la seguono. È anche la più breve (solo 48 righe), come la prima a Cicerone, che però è destinatario di una seconda di ben 114 1. Una sequenza simile, quasi un canone di autori esemplari per le varie discipline, era già presente in Rer. mem. 1, 11-23, De studio et doctrina, che ha la seguente struttura: 11 premessa, 12 Cesare, 13 Augusto, 14 Varrone, 15 Cicerone + 16 il suo liberto Tirone (Titone per Petrarca), 17 Sallustio, 18 Livio, 19 Plinio, 20 Catone il Vecchio, 21 l’attore Roscio, 22 l’attore Esopo, 23 Archimede. Ancora più precisa la somiglianza con l’elenco degli ingegni più grandi che fiorirono al tempo di Augusto: Varrone, Cicerone, Sallustio, Livio, Seneca, Asinio Pollione, Virgilio, Orazio, Ovidio (Rer. mem. 1, 13, 7) 2. Le lettere agli antichi hanno caratteristiche proprie e distintive rispetto al resto delle Familiari e al loro interno seguono uno schema peculiare: 1 Le Fam. 24, 1-2 fungono da prefazione alle lettere agli antichi illustri, la Fam. 24, 13 chiude tutta l’opera ed è rivolta a Socrate, che ne è il dedicatario (Fam. 1, 1). Per la struttura del libro cf. Monti 2003, 189-228; Antognini 2008, 295-309. Ha aperto la strada a questo tipo di studio Billanovich 1947, 3-55. 2 Su questa sequenza cf. Schmidt 1983, 424 e Zucchelli 1990, 215-216.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 295-321 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117496
295
C. M. MONTI
– L’indirizzo al destinatario è secondo il sistema classico al dativo. – Il destinatario è prescelto in quanto detentore del primato nella propria disciplina. – Viene fatto il punto sulla sua produzione nota e sopravvissuta. – È prestata grande attenzione al rapporto tra oratio e vita e quindi ai mores dell’auctor. – Viene offerta qualche indicazione biografica. – Ogni lettera è chiusa da un’ampia nota topica e cronica. – Q uest’ultima è costruita in relazione all’incontro di Petrarca con gli autori in forma di libro. – La nota cronica è giocata sulla distanza vivi/morti, cristiani/ pagani ed è connessa con la nascita di Cristo che questi uomini non hanno conosciuto. Q uesto schema ha il seguente sviluppo nella lettera a Livio 3: – Petrarca manifesta il desiderio di essere contemporaneo a Livio per essere migliore (§ 1). – Livio ha goduto di grande fama (è l’unico appiglio biografico presente nella lettera, se si esclude quanto indicato nella nota topica) (§ 1). – L’opera di Livio è andata perduta per l’incuria del tempo (§ 1). – Lo storico infatti aveva scritto 142 libri ma ne rimangono a malapena 30 (§ 2). – In realtà egli ha davanti un codice con soli 29 libri (§ 2). – La lettura di Livio fa dimenticare a Petrarca i mali presenti (§ 3). – Gli uomini del suo tempo tengono in conto solo oro argento e piacere, cose degne dei bruti, anzi dei minerali, e spregiano le lettere (§ 3). – La lettura di Livio lo trasporta in un tempo felice (§ 4). – Elenca nominalmente ventuno uomini del tempo antico ricordati nell’opera liviana, che contrappone ai moderni, chia mati fures (§ 4). Cf. Schmidt 1983, 421-433.
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LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
– Se avesse tutto Livio dimenticherebbe l’iniquo tempo pre sente (§ 5). – Ciò che manca in Livio lo legge nei suoi epitomatori, che riportano il numero di tutti i libri ma non il loro contenuto, che è ridotto quasi a nulla (§ 5). – Livio è posto al centro di una sequenza di storici: gli antiquiores e i novi Plinio e Sallustio (§ 6). – Definizione sintetica di Livio quale rerum gestarum memorie consultor optimus (§ 6). – La lettera è scritta nel 1351 da Padova, nel chiostro di S. Giustina, dove c’è il sepolcro di Livio. Q uesta Familiare rispecchia lo schema generale adottato per le lettere del libro 24, ma con alcuni tratti peculiari: il desiderio di Petrarca di essere contemporaneo degli auctores antichi, perché essi rendono migliori gli uomini e il loro tempo e fanno dimenticare i mali del tempo presente; l’insistenza sull’eccezionale fama di Livio; il rammarico per la seculi nostri desidia che ha fatto perdere i libri degli antichi; l’analisi dettagliata della trasmissione dell’opera liviana nei manoscritti e negli abbreviatori. Ripropongo il testo sulla base dell’edizione di Vittorio Rossi, prima di procedere a un’analisi puntuale. Ad Titum Livium historicum. [1] Franciscus Tito Livio salutem. Optarem, si ex alto datum esset, vel me in tuam vel te in nostram etatem incidisse, ut vel etas ipsa vel ego per te melior fierem et visitatorum unus ex numero tuorum, profecto non Romam modo te videndi gratia, sed Indiam ex Galliis aut Hispania petiturus. Nunc vero qua datur te in libris tuis video, non equidem totum sed quatenus nondum seculi nostri desidia periisti. [2] Centum quadraginta duos rerum romanarum libros edidisse te novimus, heu quanto studio quantisque laboribus! Vix triginta ex omnibus supersunt. O mos pessimus nosmet ipsos de industria fallendi! Triginta dixi quia omnes vulgo id dicunt, ego autem deesse unum his ipsis invenio: novem et viginti sunt, plane tres decades, prima tertia et quarta, cui librorum numerus non constat. [3] In his tam parvis tuis reliquiis exerceor quotiens hec loca vel tempora et hos mores oblivisci volo, et semper acri cum indignatione animi adversus studia hominum nostrorum, quibus nichil 297
C. M. MONTI
in precio est nisi aurum et argentum et voluptas, que si in bonis habenda sunt, multo plenius multoque perfectius non tantum mute pecudis sed immobilis etiam et insensibilis elementi quam rationalis hominis bonum erit. [4] Verum hec et longa et nota materia est; nunc vero tibi potius tempus est ut gratias agam cum pro multis tum pro eo nominatim, quod immemorem sepe presentium malorum seculis me felicioribus inseris, ut inter legendum saltem cum Corneliis, Scipionibus Africanis, Leliis, Fabiis Maximis, Metellis, Brutis, Deciis, Catonibus, Regulis, Cursoribus, Torquatis, Valeriis Corvinis, Salinatoribus, Claudiis Marcellis, Neronibus, Emiliis, Fulviis, Flaminiis, Atiliis, Q uintiis ac Camillis, et non cum his extremis furibus, inter quos adverso sidere natus sum, michi videar etatem agere. [5] Et o si totus michi contingeres, quibus aliis quantisque nominibus et vite solatium et iniqui temporis oblivio quereretur! Q ue quoniam simul apud te nequeo, apud alios sparsim lego, presertim in eo libro ubi te totum sed in angustias sic coactum video ut librorum numero nichil, rebus ipsis infinitum desit. [6] Tu velim de antiquioribus Polibium et Q uintum Claudium et Valerium Antiatem reliquosque quorum glorie splendor tuus officit; de novis autem Plinium Secundum veronensem vicinum tuum, atque emulum quondam tuum Crispum Salustium salutes, quibus nuntia nichilo feliciores eorum vigilias fuisse quam tuas. Eternum vale, rerum gestarum memorie consultor optime. Apud superos, in ea parte Italie et in ea urbe in qua natus et sepultus es, in vestibulo Iustine virginis et ante ipsum sepulcri tui lapidem, VIII Kalendas Martias, anno ab Illius ortu quem paulo amplius tibi vivendum erat ut cerneres vel audires natum, MCCCLI.
La Fam. 24, 8 è conservata anche nella redazione anteriore, denominata γ dall’editore: la prenderò in considerazione tutte le volte che possa essere utile per meglio valutare le scelte compositive dell’autore 4. Il caso si presenta già nella rubrica: Ad Titum Livium historicum, nella redazione definitiva, α; Tito Livio historico patavino, viro clarissimo, de simili materia qua Marco Varroni, in alcuni codici della redazione anteriore, γ. Q uest’ultima formulazione ci fornisce un elemento nuovo, cioè l’esistenza di un Rossi – Bosco 1933-1943, IV 243-245. Cf. Schmidt 1983, 426-428.
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LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
forte legame tematico tra la lettera a Livio e quella a Varrone, come conferma il contenuto della Fam. 24, 6: – Varrone è indicato tra coloro che giovano con la dottrina e con l’esempio. – Il tempo ha fatto perdere (evi culpa) la sua immensa produzione, ma la fama della sua dottrina ha resistito presso i dotti, come testimoniano Cicerone, Lattanzio e Agostino. – Petrarca ha una conoscenza minima delle sue opere, ma ritiene che altre potranno essere recuperate anche se ancora sono celate. – Vengono elencati i nomi di altri 17 dotti le cui opere, al pari di quelle di Varrone, sono andate perdute, cui vanno aggiunti i più famosi Cesare e Augusto. (§ 1) La lettera si apre manifestando il desiderio di Petrarca di essere contemporaneo a Livio, poiché i grandi antichi hanno reso migliore il loro tempo e fanno dimenticare i mali del tempo presente, come ribadirà con alcune variazioni ai paragrafi 3, 4 e 5. Inoltre gli antichi rendono migliori (vel etas ipsa vel ego per te melior): la loro non è solo superiorità letteraria e retorica ma anche morale, poiché per Petrarca la sapienza degli antichi può contribuire al progresso etico dell’uomo ponendosi in sinergia con il messaggio cristiano. Considerarsi contemporaneo degli antichi e desiderare di vivere nel loro tempo è tratto costitutivo dell’immagine che Petrarca fornisce di sé, tanto è vero che si trova nell’epistola autobiografica Ad posteritatem, 22: Incubui unice inter multa ad notitiam vetustatis quoniam michi semper etas ista displicuit ut, nisi me amor carorum in diversum traheret, alia qualibet etate natus esse semper optaverim et hanc oblivisci, nisus animo me aliis semper inserere. Historicis itaque delectatus sum 5. Interessante che Petrarca passi nella lettera a Livio dal si fato datum esset della redazione γ di impronta classica al si ex alto datum esset di α, che indirizza piuttosto verso il linguaggio cristiano. Si veda in proposito oriens ex alto (Lc 1, 78) e induamini virtute ex alto (Lc 24, 49), ma soprattutto, seppur con variatio,
Refe 2014, 6-7. Cf. Monti 2011, 79-101.
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non potest homo accipere quicquam nisi fuerit ei datum de coelo (Io 3, 27). Petrarca vorrebbe essere visitatorum unus ex numero tuorum, profecto non Romam modo te videndi gratia, sed Indiam ex Galliis aut Hispania petiturus. Nunc vero qua datur te in libris tuis video, non equidem totum sed quatenus nondum seculi nostri desidia periisti (Fam. 24, 8, 1). Il riferimento è al famoso aneddoto che nobili personaggi fossero andati dagli estremi confini del mondo fino a Roma non per vedere la città ma per vedere Livio. Esso era stato originariamente raccontato da Plinio il Giovane, epist. 2, 3, 8 (Numquamne legisti Gaditanum quendam Titi Livi nomine gloriaque commotum ad visendum eum ab ultimo terrarum orbe venisse statimque, ut viderat, abisse?), ma si era diffuso grazie alla menzione fattane da san Girolamo nella lettera 53 a Paolino. Si tratta di una lettera che ebbe un’ampia circolazione al di fuori delle raccolte epistolari dello stridonita, in quanto fu collocata all’inizio della Bibbia con la funzione di prologo. In questa forma vulgata fu caratterizzata da consistenti varianti, che segnalo tra parentesi quadre (Hier., epist. 53, 1, 3) 6: Ad Titum Livium lacteo eloquentiae fonte manantem visen dum de ultimo terrarum orbe [ultimis Hispaniae Gallia rumque finibus] venisse Gaditanum quendam legimus; et quem ad contemplationem sui Roma non traxerat, vel unius hominis fama perduxit. Habuit illa aetas inauditum omnibus saeculis celebrandumque miraculum, ut orbem totum ingressus alium extra orbem quaereret [ut urbem tantam ingressi aliud extra urbem quaererent].
Con tutta evidenza Petrarca utilizza questo passo secondo la redazione della lettera che accompagna la Bibbia, come prova la lezione ultimis Hispaniae Galliarumque finibus contro de ultimo terrarum orbe del testo critico. In Fam. 24, 8, 1 abbiamo infatti ex Galliis aut Hispania. Così anche in Res mem. 2, 19, 1 dove, sempre parlando di Livio, dichiara esplicitamente di servirsi del prologo della Bibbia non dell’epistolario geronimiano: Q ua in sede preterea Titum Livium locabunt? Cuius eloquentie fama de ultimis mundi regionibus admirantes claros viros Romam usque Hilberg 1996, I 443-444.
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perduxit. Q uod et Plinius scribit et post illum Ieronimus in principio Geneseos, nequis ignorare valeat, testatus est 7. Ma il testo di Girolamo anche nella forma vulgata manca della menzione dell’India, presente invece nella lettera di Petrarca: sarà dunque una sua invenzione, congeniata allo scopo di enfatizzare ancora di più la distanza spaziale che si è disposti a percorrere pur di vedere Livio, creando un arco che va dall’estremo Occidente all’estremo Oriente 8. Troviamo lo stesso racconto, con l’ampliamento fino all’India, nella Sen. 16, 7, ai paragrafi 9-10 e 12. In questo caso è Petrarca stesso che dichiara di nuovo di essere disposto ad andare fino in India pur di vedere Livio 9: Pro re magna atque in eternum memorabili scribit Ieronimus se legisse ad Titum Livium venisse quosdam nobiles de extremis Hispanie Galliarumque finibus. An autem parum cause erat cur ad eum visendum audiendumque non nobiles quidam tantum sed mundus ipse conflueret? … Credo equidem, si Titus Livius ipse nunc viveret, non quosdam ad eum sed plurimos profecturus; certe ego, ut est animus, foret modo que nuper erat valitudo prosperior et securum iter, nedum usque Romam, sed usque ad Indos eum querere non gravarer ex hac ipsa urbe Patavi unde illi origo fuerat, ubi michi multos iam per annos est mora.
Da notare una piccola ma significativa differenza rispetto agli altri racconti: i nobili ammiratori di Livio qui si muovono dagli estremi confini del mondo non solo per vederlo ma anche per ascoltarlo. Nella stessa Senile al paragrafo 15 avviene l’identificazione tra Petrarca e Livio. Petrarca stesso è oggetto delle attenzioni riservate a Livio, sebbene gli ammiratori per vederlo e parlare con lui muovano alla volta di Avignone solo dalla Gallia ulteriore e dall’Italia: Nonne igitur audisti ut ego ipse, qui si non dicam cum 7 Si veda anche De remediis 2, 88, 8: Nunquid non Titum Livium ab ultimis Galliarum extremaque procul Hispania usque ad urbem Romam? 8 Monti 2011, 95-98. Anche in altri casi gli Indi sono chiamati in causa da Petrarca proprio per indicare popolazioni lontanissime: cfr. Sen. 10, 2, 126 e Contra eum, 301, dove fa riferimento a Hor., carm. 1, 12, 56: Ille seu Parthos Latio imminentis / egerit iusto domitos triumpho / sive subiectos Orientis orae / Seras et Indos. Si veda anche Hor., epist. 1, 1, 45: impiger extremos curris mercator ad Indos. 9 Cf. Rizzo 2017, 382-393.
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antiquis sed cum coetaneis meis conferar, nichil sim, dum in Galliis agerem admodum adolescens nobiles quosdam et ingeniosos viros tam de ulteriore Gallia quam de Italia venientes ad me vidi admirans, nullo alio negotio tractos quam ut me viderent mecumque colloquerentur? (Sen. 16, 7, 15). Petrarca è dunque il nuovo Livio, la cui fama surclassa quella di Avignone nuova Roma: non se aliud quam me unum querere et verbo et rebus ipsis fatebantur (Sen. 16, 7, 18). I chiari richiami verbali al testo dell’epistola geronimiana (ut urbem tantam ingressi aliud extra urbem quaereret) confermano questo parallelismo. Per di più anche Petrarca è «straniero» ad Avignone come Livio lo era a Roma. Nella stessa Senile si ricorda che un maestro anziano e cieco l’avrebbe cercato anche in India pur di vederlo: «Ego vero» inquit «homuncio, nisi me vita destituat, ipsum, si oporteat, apud Indos queram» (Sen. 16, 7, 23). La «visione» di un autore del resto non è necessariamente personale, può avvenire tramite i libri, come dice Petrarca stesso in apertura della lettera a Livio: te in libris tuis video (Fam. 24, 8, 1) o nascere dalla consonanza d’ingegno, come ha affermato a proposito del proprio rapporto con Cicerone. Vedere Livio in forma di libro è come ascoltarlo, conoscendone la lingua. Il codice con Omero in greco è infatti muto per Petrarca, anzi lui è sordo e non lo sa ascoltare 10. La fama universale di Petrarca è presentata con gli stessi termini da Boccaccio nella lettera a Francescuolo da Brossano per la morte del poeta, in cui giunge a dire che i popoli dagli estremi confini del mondo si recheranno ad Arquà per venerare almeno il suo sepolcro, rammaricandosi di non averlo conosciuto vivo (epist. 24, 14-15): Nec dubito quin ab extremis aliquando Occeani litoribus rediens onustus divitiis et mare Hadriacum sulcans navita, a longe venerabundus sublimes prospectans Euganei vertices, secum aut cum amicis inquiat: «Ecce videmus colles suis in visceri Cf. Cic., Tusc. 5, 40, 116: Omnesque item nos in iis linguis quas non intellegimus, quae sunt innumerabiles, surdi profecto sumus, ripreso da Petrarca in Fam. 1, 5, 4: Vix usquam clarius intellexi quod Ciceroni placet et veteri proverbio dici solet, inter linguas incognitas propemodum surdos ac mutos esse e 18, 2, 10: Homerus tuus apud me mutus, imo vero ego apud illum surdus sum. Gaudeo tamen vel aspectu solo et sepe illum amplexus ac suspirans dico: «O magne vir, quam cupide te audirem». 10
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bus servantes orbis decus et olim dogmatum omnium templum Petrarcam vatem dulciloquum, iamdudum ex senatusconsulto in alma Urbe triumphali insignitum laurea, cuius tot extant laudanda volumina, tam clara sanctissime fame preconia!». Venient et forsan aliquando niger Yndus aut ferox Hispanus vel Sauromata, sacri nominis admiratione tracti, et tam egregii hominis tumulum spectantes pia cum reverentia conditas salutabunt reliquias, suum infortunium execrantes quod vivum non viderint quem defunctum visitassent 11.
Il primo paragrafo della Fam. 24, 8 si chiude su un altro tema tipicamente petrarchesco, quello della perdita dei libri degli antichi, che ricorre anche nelle lettere a Cicerone, a Varrone, a Q uintiliano e a Asinio Pollione: Fam. 24, 4, 11-12 perrari autem studiosi, seu temporum adversitas seu ingeniorum hebetudo ac segnities seu, quod magis arbitror, alio cogens animos cupiditas causa est. Itaque librorum aliqui, nescio quidem an irreparabiliter, nobis tamen qui nunc vivimus, nisi fallor, periere: magnus dolor meus, magnus seculi nostri pudor, magna posteritatis iniuria. Fam. 24, 6, 2 e 4 Tu nichil aut modicum prodes, non tua quidem sed omnia corrumpentis evi culpa. Etas nostra libros tuos perdidit: quidni autem, unius numorum custodie studiosa? Q uis usquam invise rei custos bonus fuit? … Hi tanto studio elaborati libri digni non sunt habiti qui per manus nostras ad posteros pervenirent; ardorem tuum nostra vicit ignavia. Fam. 24, 7, 1 Agnovi etatem vastatricem omnium et dixi mecum: «Facis ut solita es; nil bona fide custodis, nisi quod perdere lucrum erat. O etas segnis et insolens, tales michi remittis insignes viros cum ignavissimos colas! O sterilis et feda pars temporum …». Fam. 24, 9, 1 sed quoniam pene nuda rerum ad nos tuarum fama pervenerat magisque aliorum scriptis adiuta quam tuis – quod ipsum merito inter evi nostri pudores ac damna quis numeret –, breve fuerit quod tecum loqui habui. Auzzas 1992, 728 e 843.
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Esso è trattato incisivamente in Res mem. 1, 18, 2: Sed o quantam etatis nostre maculam! ; 1, 19, 2: Sed quot preclaros vetustatis auctores, tot posteritatis pudores ac delicta commemoro; e De rem. 1, 43, 12: id patitur ignavissima etas hec, culine sollicita, literarum negligens et coquos examinans, non scriptores 12. (§ 2) Q uesto paragrafo si apre con il resoconto dei pochi libri sopravvissuti dei monumentali Ab urbe condita, che in origine ne contavano ben 142. Q uesta informazione poteva venire a Petrarca dalle Periochae, opera rara che però egli mostra di conoscere. Infatti il ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 895 (a. 1396, Veneto) con Floro e le Periochae è stato identificato come copia del codice passato per le mani di Petrarca 13. Sulle dimensioni dell’opera liviana Petrarca interviene anche in Fam., 18, 3, 8: vel Titi Livii romanorum rerum liber ingens, quem in partes quas decades vocant, non ipse qui scripsit sed fastidiosa legentium scidit ignavia; Sen., 16, 7, 11: opus illud immensum totius ab origine romane historie centum quadraginta duobus voluminibus explicasset, miraculo proximum, ad quod ne dicam imitandum sed vel transcribendum vix unius hominis vita sufficiat. Al magnifico codice con le Enarrationes in Psalmos di Agostino donato dal Boccaccio nel 1355 Petrarca aggiunse la seguente nota di possesso, che riprende la definizione di opus immensus usata per Livio nella Senile: «Hoc immensum opus donavit michi vir egregius dominus Iohannes Boccaccii de Certaldo poeta nostri temporis …» (Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 19891-2, f. 1r) 14. Il paragrafo 2 è interessato da una consistente aggiunta nel passaggio da γ ad α, che si inserisce dopo ex omnibus supersunt e si estende alle prime righe del paragrafo 3 15: 12 La trascuratezza dei copisti ha distolto molti chiari ingegni dall’impegnarsi in grandi opere: que [posteritas], quasi non contenta proprie sterilitatis infamia, alieni fructus ingenii ac maiorum studiis vigiliisque elaboratos codices intolerabili negligentia perire passa est, cumque nichil ex proprio venturis daret, avitam hereditatem abstulit (Res mem., I 19, 2). Inoltre ha fatto sì che molte opere degli antichi stiano morendo, anzi in gran parte siano già defunte e non vi sia rimedio perché non se ne ha consapevolezza: nobilissime pereunt et iam magna ex parte periere: sic ingentis damni nullum est remedium quia nullus est sensus (De rem. I 43, 12). 13 Cf. Reeve 1991b, 335-336. 14 Cf. Billanovich 1960 (= Billanovich 1996, 85); Ceccherini 2013, 372-373. 15 L’incipit dell’aggiunta α (O mos pessimus nosmet ipsos de industria fallendi) è di stampo proverbiale, si vedano per un confronto i versi: Q ui bona perpetua
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γ Vix triginta ex omnibus supersunt. In illis exerceor acri cum indignatione animi adversus studia hominum nostrorum.
α Vix triginta ex omnibus supersunt. O mos pessimus nosmet ipsos de industria fallendi! Triginta dixi quia omnes vulgo id dicunt, ego autem deesse unum his ipsis invenio: novem et viginti sunt, plane tres decades, prima tertia et quarta, cui librorum numerus non constat. [3] In his tam parvis tuis reliquiis exerceor quotiens hec loca vel tempora et hos mores oblivisci volo, et semper acri cum indignatione animi adversus studia hominum nostrorum.
L’aggiunta presuppone la conoscenza della tradizione testuale degli Ab urbe condita, quale si ritrova nei suoi due Livi noti: London, British Library, Harley 2493 e Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 5690. Q uando Petrarca affronta lo stesso argomento in Res mem., 1, 18, 1-2 è assai più generico e non specifica che i libri rimasti sono 29 e non 30: quo studio putandus est arsisse Titus Livius patavinus, qui omnem romanam historiam ab urbe condita in Cesarem Augustum, cuius ipse claruit temporibus, centum quadraginta duobus voluminibus descripsit? Opus ipsa mole mirabile stupendumque … Sed o quantam etatis nostre maculam! Huius tam ingentis tamque egregii operis vix portio superest exigua; quod cum in decades vel ab ipso conditore vel, quod magis reor, a fastidiosis postmodum lectoribus sectum foret, ex quatuordecim non nisi tres decades supersunt: prima scilicet, tertia et quarta. Secundam quidem ipse ego, hortante quondam sacre memorie Roberto Sicilie rege, summa sed hactenus inefficaci diligentia quesivi 16.
Il passo è stato scritto evidentemente dopo il 19 gennaio 1343, data di morte di re Roberto, in un periodo in cui Petrarca non pare avere sottomano Livio. In una postilla del Cicerone di perdit propter peritura, / Ipsum se fallit et se demonibus addit (cf. Walther 19631967, 23874). 16 Il verbo quaero con i suoi composti è usato specificamente da Petrarca per la ricerca dei libri (ampia esemplificazione in Monti 2011, 79-82).
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Troyes a De or., 2, 154 (f. 281r), stesa negli stessi anni, afferma a proposito di Numa e Pitagora che la stessa notizia dovrebbe essere presente anche in Livio, ma non se ne ricorda, dunque anche in questo caso non può disporre di un codice di questo autore per poter controllare 17. La mancanza nei suoi due Livi noti, l’Harleiano 2493 e il Par lat. 5690, del libro 33 giustifica il conteggio di 29 libri e non di 30 18. Si tratta del resto di una situazione normale nel DueTrecento, epoca di riemersione della quarta decade, poiché questo libro tornerà in circolazione solo tra Cinquecento e Seicento 19. Ben si capiscono dunque le parole della lettera: tutti bonariamente, vulgo, dicono che ci sono trenta libri, in realtà lui ha trovato che ne manca uno: ego autem deesse unum his ipsis inveni (invenio è il verbo della scoperta e ego ne enfatizza orgogliosamente la paternità). Nel gruppo di codici φ (Par. lat. 5690, Harleiano 2493 e El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo, R.I.4), derivati secondo Billanovich dal vetus Carnotensis (χ), per quanto la sua ricostruzione sia stata rivista da Reeve 20, vi è la seguente rubrica alla fine del libro 32: «Titilivii ab urbe condita liber XXXII explicit. Incipit liber XXXIII», ma il libro 33 manca. Nell’Harleiano l’assenza è segnalata nel margine inferiore da una mano quattrocentesca. (§ 3) Il paragrafo 3 riprende il tema enunciato al paragrafo 1: lo studio delle poche reliquie rimaste dell’opera liviana consente a Petrarca di dimenticare i luoghi, i tempi e i costumi La nota è trascritta a commento di Res mem., 3, 3, 3 (Numa): «Nota de Numa et Phytagora, de quibus apud Livium, si memini». Si veda in questo stesso volume l’intervento di Petoletti, 282. 18 Per una panoramica generale rimando a Reynolds 1983, 205-214. Per la tradizione di Livio e Petrarca: Billanovich 1981; 1986, 1-115, la cui ricostruzione è stata contestata da Reeve 1987a, 129-164; 1987b, 405-440; 1989, 97-112. Billanovich è intervenuto sulle obiezioni di Reeve in Billanovich 1988, 317-325. Per la ricostruzione del dibattito. in particolare riguardo alla presenza della mano di Petraca nell’Harleiano, rimando in questo stesso volume all’articolo di Petoletti, 269-294. Sul Par. lat. 5690 ricordo solo le pionieristiche pagine di Nolhac 19072, II 14-17 e il recente e monografico Ciccuto et alii 2012. Il punto sui Livi del Petrarca, in particolare in relazione al sonetto Rvf 40 S’Amore o Morte, in Fiorilla 2012, 106-122. 19 Cf. McDonald 1965, XIX-XXI. 20 Reeve 1989, 97-112. 17
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dei contemporanei, a cui è fieramente avverso, per essere trasportato in secoli più felici. Il tratto, che abbiamo visto essere tipicamente petrarchesco, di trovare ristoro immergendosi nelle memorie degli antichi, è qui declinato in modo peculiare con richiami sicuri, seppur «mellificati», al prologo degli Ab urbe condita: anche Livio dichiara di studiare il passato per dimenticare i mali presenti. Con grande finezza letteraria Petrarca parla di sé a Livio usando le parole di Livio stesso, e così facendo anche si identifica con lui. Fam. 24, 8, 3-4 In his tam parvis tuis reliquiis exerceor quotiens hec loca vel tempora et hos mores oblivisci volo, et semper acri cum indignatione animi adversus studia hominum nostrorum, … nunc vero tibi potius tempus est ut gratias agam cum pro multis tum pro eo nominatim 21, quod immemorem sepe presentium malorum seculis me felicioribus inseris ut inter legendum saltem cum Corneliis, Scipionibus Africanis, Leliis, … michi videar etatem agere 22.
Liv., praef. 5 e 9 Ego contra hoc quoque laboris praemium petam, ut me a conspectu malorum quae nostra tot per annos vidit aetas, tantisper certe dum prisca illa tota mente repeto, avertam. Ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint … donec ad haec tempora quibus nec vitia nostra nec rimedia pati possumus perventum est.
Egli è avverso a ciò che desiderano gli uomini del suo tempo, che danno valore a oro, argento e piacere, beni indegni dell’uomo e perfino dell’animale: § 3 adversus studia hominum nostrorum, quibus nichil in precio est nisi aurum et argentum et voluptas 23, que si in bonis habenda sunt, multo plenius multoque perfectius non tantum mute pecudis 24 sed immobilis etiam et insensibilis ele Cf. Contra medicum 4, 208: Libet enim gloriari, sed in Domino, cui semper tum pro multis, tum pro hoc nominatim gratias agam: quod me valde dissimilem tui fecit. 22 Cf. Monti 2011, 89-90. 23 Nella redazione α Petrarca ha smorzato la formulazione di γ: atque obscena corporum voluptas, debitrice della iunctura ciceroniana obscena voluptas (fin. 2, 7 e 68; nat., 1, 11; Tusc. 5, 94). 24 Cf. Cic., ad Q . fr. 1, 1, 24 sed etiam eius qui servis, qui mutis pecudibus praesit. 21
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menti quam rationalis hominis bonum erit. Lo stesso concetto, con una sottile ripresa lessicale, è applicato ai libri nella Fam. 3, 18, 3: Q uinimo singulare quiddam in libris est: aurum, argentum, gemme, purpurea vestis, marmorea domus, cultus ager, picte tabule, phaleratus sonipes ceteraque id genus mutam habent et superficiariam voluptatem; libri medullitus delectant, colloquuntur, consulunt et viva quadam nobis atque arguta familiaritate iunguntur. (§ 4) Petrarca ringrazia Livio perché lo sottrae ai mali presenti e lo colloca in tempi assai più felici, quelli dei grandi personaggi della storia romana, ricordati nominalmente in numero di ventuno. Egli lo conduce lontano dal suo tempo, definito età di ladri, tra i quali per avversa sorte è costretto a vivere: et non cum his extremis furibus, inter quos adverso sidere natus sum, michi videar etatem agere. Infatti l’amicizia con gli antichi è più reale e profittevole di quella con i contemporanei, come dice per esempio in Fam. 15, 3, 14: Interea equidem hic michi Romam, hic Athenas, hic patriam ipsam mente constituo; hic omnes quos habeo amicos vel quos habui, nec tantum familiari convictu probatos et qui mecum vixerunt, sed qui multis ante me seculis obierunt, solo michi cognitos beneficio literarum, quorum sive res gestas atque animum sive mores vitamque sive linguam et ingenium miror, ex omnibus locis atque omni evo in hanc exiguam vallem sepe contraho cupidiusque cum illis versor quam cum his qui sibi vivere videntur, quotiens rancidum nescio quid spirantes, gelido in aere sui halitus videre vestigium.
A proposito dei personaggi elencati in questo paragrafo rimando a un recentissimo intervento di Vincenzo Fera, che ne ha operato il sicuro riconoscimento, giungendo a risolvere alcuni nodi ecdotici ed esegetici. Dopo aver osservato che la tecnica di usare il plurale per il singolare era cara a Petrarca, ritiene a ragione che andrà soppressa la virgola dopo Corneliis (Corneliis, Scipionibus Africanis), essendo il personaggio senz’altro da riconoscere in Cornelio Scipione Africano e che Atiliis, non potendo riferirsi ad Attilio Regolo, già ricordato come Regulus, sia in realtà un facile errore per Aciliis, con riferimento a Manio Acilio Glabrione. Inoltre avanza una buona spiegazione dell’eliminazione nella 308
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versione definitiva della coppia presente in γ Curiis, Fabritiis 25, che senza equivoci riporta verso Marco Curio Dentato e Fabrizio Luscino: le loro vicende erano raccontate nella perduta seconda Decade e dunque la loro inserzione veniva a confliggere con l’inciso «Et o si totus michi contingeres … quereretur!», posto all’inizio del paragrafo successivo 26. Fera è il primo a cogliere l’esistenza di un forte rapporto tra i nomi di questo piccolo catalogo e le biografie del De viris illustribus: su 22 nomi originari (compresi Curiis e Fabritiis), 15 coincidono. Sono tutti personaggi di caratura esemplare e rispondono all’identikit di eroismo che è la marca storiografica del De viris. Il corteo tutto scipionico presentato nella lettera a Livio si intreccia dunque con il disegno delle biografie, che nel 1351 è ancora essenzialmente racchiuso nell’ambito di Roma repubblicana 27. (§ 5) Il paragrafo 5 è totalmente assente nella redazione γ. Ciò che non può avere da Livio – è dunque ormai sicuro di non riuscire a recuperare altro (vedi la richiesta della seconda decade fatta da re Roberto in Res mem. 1, 18, 2: Secundam quidem ipse ego, hortante quondam sacre memorie Roberto Sicilie rege, summa sed hactenus inefficaci diligentia quesivi) – lo trova sparsim apud alios. Chi sono questi alii? Senz’altro l’Epitome di Anneo Floro, opera che Petrarca poteva leggere nei suoi codici Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 5802, ff. 69r-93v e lat. 5690, ff. 20v-42v (ma ne possedette o consultò almeno altri due, come è stato provato da Reeve 28). Egli apprezza l’elegantissima brevitas di Floro, come dice in più luoghi: Annei Flori florentissima brevitas ad inquirendas Titi Livii reliquias animavit (Fam. 3, 18, 5); eleganter ait Florus (Vir. ill., Scipio 10, 80); elegans ac succincta Flori brevitas huic se loco inserat historie, te, o lector, non solum patiente, sed plaudente (De gestis Ces. 15, 14); Florus, brevis et comptus historicus (De gestis Ces. 18, 52); Annei quidem Flori, qui hanc rem elegantissima brevitate perstrinxit, ac Camillis] Curiis, Fabritiis ac Camillis γ. Si veda il passo qui a 298. 27 Fera 2018, 58-69. Si tratta degli Atti del Convegno «Livio: le Storie e la loro fortuna», tenutosi presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano il 23 e il 24 febbraio 2017. 28 Cf. Reeve 1991a, 453-483; Berté 2000, 83-84. 25 26
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verba sunt hec (De gestis Ces. 21, 31). Floro dunque sa riassumere con eleganza, ma pur sempre riassume. Gli altri epitomatori degli storici romani cui si riferisce sono senz’altro Giustino e Rufio Festo, che nomina tra gli storici già nella prima lista dei Libri mei peculiares del 1335 29. Il codice Milano, Biblioteca Ambrosiana, F 138 sup. contiene una raccolta di storiografi antichi di Roma organizzata nel 1335 da Ludovico Santo di Beringen, il cantore compagno e amico di Petrarca nella famiglia del cardinale Colonna, con appunto Valerio Massimo, Giustino, Floro, Sallustio, Rufio Festo, più un’anonima Cronica imperatorum medievale. La raccolta è preceduta da una introduzione, che a proposito di Rufio Festo sintetizza con terminologia petrarchesca la caratteristica di questi epitomatori: numerandum pocius quam narrando mira brevitate perstrinxit 30, dove mira brevitate perstrinxit deriva, come ha provato Mirella Ferrari, dal Decretum Gelasianum, IV, 5. 5: item Orosium virum eruditissimum conlaudamus, quia valde necessariam nobis adversus paganorum calumnias ordinavit historiam miraque brevitate contexuit 31. Il corteo composto da Livio e dai suoi epitomatori è descritto anche in Triumphus Fame, IIIa, 91-99: Livio il gran padoan, da’ fondamenti il qual di Roma così passo passo venne col tempo alle famose genti, era il primo tra questi e questi lasso parea del gran viaggio e poi il secondo, Crispo Sallustio che non parla in casso. Trogo che col suo stile abbraccia il mondo, non stringe, e Iustin seco e Festo e Floro toccar la superficie ma no ’l fondo.
Da Floro e dagli altri epitomatori Petrarca non poteva ricavare il numero preciso dei libri di Livio, come da lui ricordato al paragrafo 2, che invece poteva trovare, accompagnato da un succinto contenuto, nelle Periochae. Il già citato ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 895 con Floro e Perio29 Su queste liste e la loro datazione rimando agli interventi più recenti: Ullman 1973, 113-133; Rico 2010, 229-234; Fera 2012, 1077-1100. 30 Cf. Billanovich 1974 (= Billanovich 1996, 377-388). 31 Cf. Ferrari 1998, 226.
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LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
chae è stato riconosciuto come copia del codice di Petrarca sulla base dell’attribuzione a lui da parte di Augusto Campana del l’anonimo carme di 8 esametri rimati che lo chiude, edito ora da Reeve 32. I due versi finali ben descrivono il carattere di questi testi: O utinam moveant animum valeantque placere / Eloquiumque probent inopi sub veste latere! Solo alle Periochae si addice la definizione del § 5: librorum numero nichil, rebus ipsis infinitum desit (si noti la contrapposizione tra nichil e infinitum). (§ 6) Petrarca chiede a Livio di salutargli gli storici antiquiores: Polibio, Q uinto Claudio e Valerio Anziate, i cui nomi ricavava dagli Ab urbe condita, e gli altri, il cui ricordo è stato offuscato dallo splendore della sua gloria 33. Q ui Petrarca sta capovolgendo le parole di Livio stesso al § 3 del prologo, quando dice di consolarsi se la sua fama sarà oscura, perché tale è stata la grandezza e la nobiltà degli storici che lo hanno preceduto nel raccontare la storia romana da non poterli eguagliare: et si in tanta scriptorum turba mea fama in obscuro sit, nobilitate ac magnitudine eorum me qui nomini officient meo consoler. L’uso in Petrarca e in Livio del verbo officio in identico contesto ci rende sicuri della ripresa. Fam. 24, 8, 6 Tu velim de antiquioribus Polibium et Q uintum Claudium et Valerium Antiatem reliquosque quorum glorie splendor tuus officit.
Liv., praef. 3 et si in tanta scriptorum turba mea fama in obscuro sit, nobilitate ac magnitudine eorum me qui nomini officient meo consoler.
Merita un approfondimento l’espressione glorie splendor: essa non è classica ma biblica ed è applicata a Dio (Ez 10, 4 et atrium repletum est splendore gloriae Domini) e poi a Cristo (Hbr 1, 3 qui cum sit splendor gloriae et figura substantiae eius). In seguito è stata ampiamente ripresa dai Padri e dagli autori medioevali, ricordo in particolare un famoso inno di s. Ambrogio, che comincia appunto Splendor paternae gloriae. Campana 1992-1993, 440; Reeve 1991b, 335-336. A proposito di glorie splendor cfr. Fam. 24, 3, 2: Q uis te falsus glorie splendor senem adolescentium bellis implicuit. 32 33
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Petrarca chiede poi a Livio di salutare gli storici nuovi: Plinio Secondo veronese, vicinum tuum e Crispo Sallustio, emulum tuum. Che Plinio fosse autore di una storia romana è detto da Petrarca anche in Res mem. 1, 19, 1: Nec te, Plini Secunde veronensis, a Tito Livio disiungam, a quo nec etate nec patria longinquus es … Ut enim minutiora sileam, triginta septem romane totidemque naturalis historie libros ad Vespasianum principem uberrima florentissimaque sermonis elegantia descripsisti.
Egli traeva questa informazione da un errore della tradizione manoscritta della Vita Plinii di Svetonio, che reca la lezione Romanis per Germanis. In realtà Plinio scrisse dei Bellorum Germaniae libri viginti, perduti, non una storia di Roma 34. Petrarca ribadisce questa errata convinzione in un frammento del Triumphus Fame (Plinio con libri suoi quattro e settanta / di sua romana e natural istoria) e in Fam. 3, 18, 5: et Romanam Plinii Tranquillus Historiam. Per l’uso dello stesso termine vicinus, ma in volgare vicino, si veda Triumphus Fame III, 43-45: Mentr’io ’l mirava, subito ebbi scorto / quel Plinio veronese suo vicino, / a scriver molto, a morir poco accorto. Da notare che anche Triumphus Fame IIIa dà un elenco di antichi autori, più ampio rispetto a Res mem. 1, 11-23, poiché vi compaiono oltre ai romani anche gli externi. Il libro 24 delle Familiares è ancora più selettivo e esclude dal canone autori quali Plinio e Sallustio, che significativamente compaiono nella Fam. 24, 8 solo in relazione a Livio. Veniamo ora a Sallustio, rivale di Livio. In Res mem. 1, 17, 1-2 Petrarca ricorda esplicitamente la sua opera di storia romana, le Historiae, che è perduta: Crispus Sallustius, nobilitate veritatis historicus … Sed nullo famosior quam «Historiarum» libro, qui etate quoque nostre – ne tertium eius sileam dedecus [in riferimento alla perdita dei libri di Varrone e di Cicerone] – amissus est: veterum quidem testimonio illustris et apud nos solo iam nomine superstes.
Egli poteva ricavare la menzione delle Historiae di Sallustio da vari autori (Gellio, Girolamo, Servio, Mario Vittorino, Prisciano), 34 Cf. la dettagliata nota relativa al passo sopra riportato in Petoletti 2014, 52-55.
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LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
ricordo solo Agostino, civ. 2, 18: idem tamen in primo historiae suae libro. Vale la pena di chiedersi perché Sallustio sia definito emulus, cioè rivale di Livio. Il concetto se non il termine è presente anche in Triumphus Fame III, 40-42: Crispo Sallustio, e seco a mano a mano un che già l’ebbe a schifo e ’l vide torto: ciò è ’l gran Tito Livio padovano.
La fonte sarebbe Sen., contr. 9, 1: Titus autem Livius tam iniquus Sallustio fuit; ma si veda anche Q uint., inst. 2, 5, 19: [Sallustius] historiae maior est auctor [quam Livius], ad quem tamen intelligendum iam profectu opus sit 35. Q uest’ultimo invita a far leggere ai giovani gli autori più chiari, come Livio, da preferire rispetto a Sallustio, perché per essere compreso esige una cultura più avanzata, benché offra una maggiore garanzia storica. Si veda a questo proposito il già citato giudizio di Agostino, ripreso da Petrarca in Res mem. 1, 17, 1, secondo il quale Sallustio sarebbe storico dotato della nobiltà della verità. Da notare che Sallustio è presente nel canone di Res mem. 1, 11-23, mentre nel libro 24 a rappresentare gli storici gli è preferito Livio. L’uso di salutare i «colleghi» dei destinatari delle lettere agli antichi è osservato anche in quelle a Varrone (24, 6, 10-11, gli eruditi) e ad Asinio Pollione (24, 9, 10, gli oratori famosi). Q uesto motivo è ripreso nelle lettere a Virgilio e ad Omero, dove sono salutati i poeti (24, 11, 64-65 e 24, 12, 43). Petrarca infine nota che anche le opere di Plinio e di Sallustio non hanno avuto più felice sorte di quelle di Livio. Il saluto finale offre una definizione sintetica di Livio quale rerum gestarum memorie consultor optimus. Si tratta anche in questo caso di una ripresa da Livio, prologo 3: Fam. 24, 8, 6 Eternum vale, rerum gestarum memorie consultor optime.
Liv., praef. 3 Utcumque erit, iuvabit tamen rerum gestarum memoriae principis terrarum populi pro virili parte et ipsum consuluisse.
35 A fianco di questo passo Petrarca pone il notabile «Livius» nel suo codice Paris, Bibl. nationale de France, lat. 7720, f. 20rb (Accame Lanzillotta 1988, 48).
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Tra parentesi noto, a proposito di Sallustio emulus di Livio, che l’espressione memoria rerum gestarum è presente in Iug. 4, 1 e 5: Ceterum ex aliis negotiis quae ingenio exercentur, inprimis magno usui est memoria rerum gestarum. Nam saepe ego audivi Q . Maxumum, P. Scipionem, praeterea civitatis nostrae praeclaros viros solitos ita dicere, cum maiorum imagines intuerentur, vehementissume sibi animum ad virtutem accendi. Scilicet non ceram illam neque figuram tantam vim in sese habere, sed memoria rerum gestarum eam flammam egregiis viris in pectore crescere neque prius sedari, quam virtus eorum famam atque gloriam adaequaverit.
Nota topica e cronica. La lettera è scritta da Padova, patria di Livio e luogo della sua sepoltura, come Petrarca sapeva dal Chronicon di Eusebio-Girolamo: Livius historiographus Patavii moritur 36. Per aver dato i natali a Livio Padova è chiamata madre della storia in Epyst. 3, 9, 22: Historieque parens Patavum. A Padova era poi stato restituito il corpo perché vi fosse sepolto (De rem., 2, 125, 14: et mille alios Roma retinuit, ac magna ex parte humo condidit, Tito Livio Patavino vix serum velut ad sepulturam patrie restituto), come attesta la sopravvivenza ancora al suo tempo di quella che era considerata l’epigrafe sepolcrale di Livio (CIL, V 2865). Nella Vita di Livio di Lovato è detto che essa era collocata nel monastero di S. Giustina: Et hodie Patavi cernitur eius saxeus tumulus in monasterio Sancte Iustine cum huiusmodi saxo incisis litteris .V. F. / T. LIVIVS / LIVIAE T. F. / Q UARTAE L. / HALYS / CONCORDIALIS / PATAVI / SIBI ET SVIS / OMNIBUS 37. Q uesta vita ebbe una certa diffusione manoscritta e fu ripresa da Riccobaldo da Ferrara e, dopo Petrarca, anche da Boccaccio nella sua notizia su Livio: Is autem lapis, vetusta purgatus carie et litteris in primam formositatem redactis, iussu incliti viri Iacobi de Carraria tunc Patavi imperantis, apud monasterium Sancte Iustine vir36 Helm 1984, 171. Billanovich 1954, 187-236, trascrive le postille di Petrarca, che pone un segno di attenzione al passo relativo alla morte patavina di Livio (227). 37 Cf. Billanovich 1981, 318-319.
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LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
ginis in pariete vestibuli ecclesie affixus in hodiernum usque videtur [5] 38.
Giuseppe Billanovich ha ipotizzato che prima l’epigrafe fosse collocata all’interno del monastero, come appunto dice Lovato, e che poi, proprio per suggerimento di Petrarca, che a Padova aveva un canonicato dal 1349, e per volontà di Giacomo II da Carrara, fosse portata presso il portale della chiesa nel 1350, dove dicono di averla vista Petrarca e Boccaccio 39. Sempre secondo Billanovich fu proprio in occasione di questo spostamento che Petrarca compose la lettera a Livio, datandola nella redazione γ VIII Kalendas Martias […] MCCCL, cioè il 22 febbraio 1350. È significativo che in questa redazione della Familiare fosse presente anche la menzione della residenza di Petrarca in città: in qua et ego nunc habito et tu olim natus ac sepultus es. L’anno dopo, tra marzo e aprile del 1351 Petrarca ospitò nella sua casa canonica di Padova l’amico Boccaccio e gli mostrò l’epigrafe di Livio. E dopo questa visita Boccaccio formò o completò la sua notizia su Livio, unendo a quanto leggeva in Lovato e Riccobaldo quanto aveva ricavato dai colloqui con l’amico, dalla visione diretta dell’epigrafe e probabilmente dalla lettura della Fam., XXIV 8 in redazione γ. Va notato che nel testo di Boccaccio è presente la citazione diretta della lettera geronimiana, cui invece Petrarca solo allude ad apertura della Fam. 24, 8: Huius tam celebris splendidaque longe lateque fama fuit, ut ab extremis orbis partibus nonnullos ad se tanquam divinum hominem visendum adeo ardenti desiderio pellexerit, ut venientes neglecta Roma tunc rerum domina, si abesset, illum extra perquirerent, ut liquido vir sanctissimus atque doctissimus Ieronimus romane Ecclesie presbiter cardinalis in proemio Biblie in eius eximiam laudem testatur dicens: «Ad T. Livium lacteo eloquentie fonte manantem ex ultimis Hispanie Galliarumque finibus quosdam venisse nobiles legimus, et quos ad contemplationem sui Roma non traxerat, unius hominis fama perduxit. Cf. Billanovich 1981, 320-321; Fabbri 1992, 938-941. Cf. Billanovich 1981, 322: «Subito il Petrarca esortò questo suo mecenate a restaurare l’epitafio di Livio e gli insegnò, come aveva appreso dai suoi autori – Svetonio e Plinio –, a riprendere il costume classico di colorire in oro le lettere; e lo animò, mi pare, a trasferire la pietra dall’interno del monastero, a pubblica ammirazione presso lo splendido portale della basilica». 38 39
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Habuit illa etas inauditum omnibus seculis celebrandumque miraculum, ut urbem tantam ingressi, aliud extra urbem quererent» [3-4].
Non credo si tratti di una innovazione di Boccaccio, magari sulla base dello svelamento dell’allusione petrarchesca, ma piuttosto il recupero di un’aggiunta alla vita di Livio di Lovato presente in alcuni manoscritti o più probabilmente il rinvenimento del passo nelle Historie di Riccobaldo da Ferrara, poi trascritto nei sui Zibaldoni 40. Il più evidente rapporto con le fonti da parte di Boccaccio ci indirizza a ipotizzare che anche Petrarca scrivesse la sua Familiare a Livio avendo sotto gli occhi la vita di Lovato e di Riccobaldo, per quanto egli abbia cercato di cancellarne le tracce. Nel passaggio alla redazione α l’indicazione dell’anno cambia da 1350 a 1351 41. Q uest’ultima datazione non è casuale, in quanto nel 1351 Petrarca acquista il Par. lat. 5690: «Emptus Avinione 1351, diu ante possessus». Poiché nelle lettere agli illustri antichi la data fissa per lo più l’incontro con loro in forma di libro, credo che la datazione della Fam. 24, 8 sia la testimonianza dell’avvenuto esaudimento di un desiderio antico, entrare in possesso di un Livio fondamentale per la sua formazione e da lui molto amato e studiato 42. Identica la situazione anche per la datazione della lettera a Seneca (Fam. 24, 5), fissata al 1348, che coincide con il periodo in cui rilesse le Tragedie, e in particolare l’Octavia, probabilmente nel magnifico codice El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo, T.III.11, di origine padovana, da lui acquisito proprio in quegli anni 43. Vediamo come la datazione delle lettere agli antichi prosatori abbia subito variazioni nel passaggio da γ ad α, pur non mutando la disposizione in ordine cronologico 44:
Cf. Billanovich 1981, 313 e 323; Petoletti 2013, 307. Ma Fera 2018, 47-50, osserva che la data «MCCCL» è presente solo in pochi testimoni γ, mentre gli altri, alcuni dei quali molto autorevoli, hanno «MCCCLI», e ipotizza che si tratti solo di un errore e non di un mutamento redazionale. 42 Fera 2018, 56 sul termine possessus. 43 Monti 2012a, 707-739; Monti 2012b, 547-577. 44 Billanovich 1947, 26-47. 40 41
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LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
Fam. 24, 3 Fam. 24, 5 Fam. 24, 6 Fam. 24, 7 Fam. 24, 8 Fam. 24, 9
γ MCCCXL om.; MCCCXLI; MCCCL MCCCXLIII MCCCL MCCCLVI; MCCCLVII
α MCCCXLV MCCCXLVIII MCCCL MCCCL MCCCLI MCCCLIII
Il mutamento, almeno in alcuni casi, sembra da porre in relazione proprio con il recupero di un volume prezioso dell’opera dell’autore destinatario della lettera: non solo nel caso della Familiare a Cicerone in seguito alla scoperta delle Ad Atticum nel 1345, ma anche per quelle a Seneca e a Livio. Significativo il riferimento nella nota cronica alla nascita di Cristo che Livio, se fosse vissuto appena poco di più, avrebbe potuto vedere e ascoltare: anno ab Illius ortu quem paulo amplius tibi vivendum erat ut cerneres vel audires natum 45. L’incontro mancato con Cristo e il suo messaggio scandisce anche le note croniche delle lettere rivolte ai quattro antichi illustri precedenti all’interno del libro: Cicerone, Seneca, Varrone, Q uintiliano 46. Troviamo toni del tutto coincidenti, in relazione a Cicerone, in Fam. 21, 10, 13: Cristum, fateor, nosse non potuit, paulo ante rebus humanis exemptus quam Cristus Deus homo fieret. Flenda nempe viri sors; nam ut altissimi et divini prorsus ingenii fuerat, si vidisset Cristum aut nomen eius audivisset, quantum ego opinor, non modo credidisset in eum sed eloquio illo incomparabili Cristi preco maximus fuisset, e in De ignorantia 4, 75: ipse mecum tacitus dolensque suspirem quod verum Deum vir ille non noverit; paucis enim ante Cristi ortum annis obierat oculosque mors clauserat, heu! 47. Il processo conoscitivo di Cristo e degli antichi avviene attraverso 45 Nella redazione γ anno ab ortu Eius quem si paulo vixisses diutius cernere potuisses. 46 anno ab ortu Dei illius (Eius γ) quem tu non noveras (24, 3); anno ab ortu Eius quem an tu rite noveris incertum habeo (incertus sum γ) (24, 5); anno ab ortu Eius quem utinam novisses (24, 6); Anno Eius quem dominus tuus persequi maluit quam nosse (24, 7). La nota cronica della lettera a Cicerone è impreziosita da una eco dantesca: «Per quello Dio che tu non conoscesti» (Inf. 1, 131); cf. Monti 2003, 194. 47 Fenzi 1999, 226.
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lo stesso percorso, quello di vedere e udire. Anche per l’incontro con Cristo valgono i parametri e la terminologia usati da Petrarca per Livio all’inizio della lettera: vedere e ascoltare, che sono del resto i parametri biblici ed evangelici: quod vidimus et audivimus adnuntiamus (1 Io 1, 3); non enim possumus quae vidimus et audivimus non loqui (Act 4, 20); ne forte videant oculis et auribus audiant et corde intelligant (Act 28, 27).
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LA LETTERA DI PETRARCA A LIVIO (FAM. 24, 8)
Rizzo 2017 = S. Rizzo (a cura di), F. Petrarca, Res seniles. Libri XIIIXVII, con la collaborazione di M. Berté, Firenze 2017 Rossi – Bosco 1933-1943 = V. Rossi – U. Bosco (a cura di) Francesco Petrarca, Le Familiari, voll. I-IV, Firenze 1933-1943 Schmidt 1983 = P. L. Schmidt, Petrarca an Livius (fam. 24, 8), in E. Lefèvre – E. Olshausen (Hrsgg.), Livius. Werk und Rezeption. Festschrift für Erich Burck zum 80. Geburtstag, München 1983, 421-433 Ullman 1973 = B. L. Ullman, Petrarch’s Favorite Books, in Id., Studies in the Italian Renaissance, (Storia e letteratura, 51), Roma 1973, 111-133 Walther 1963-1967 = H. Walther, Proverbia sententiaeque Latinitatis Medii Aevi. Lateinische Sprichwörter und Sentenzen des Mittelalters in alphabetischer Anordung, voll. I-V, Göttingen 1963-1967 Zucchelli 1990 = B. Zucchelli, L’epistola di Petrarca ad Asinio Pollione (fam. 24, 9), in Tradizione dell’antico nelle letterature e nelle arti d’Occidente. Studi in memoria di Maria Bellincioni Scarpat, Roma 1990, 213-234
Abstracts This chapter offers a detailed analysis of Petrarch’s epistle to Livy, inserted in the middle of book 24 in the Familiari addressed antiquis illustrioribus. The analysis aims to identify the sources used by Petrarch, especially the preface of the Ab urbe condita libri, and highlights the relationship between the epistle and Livian manuscripts owned and annotated by Petrarch himself, such as Par. lat. 5690. This manuscript seems particularly significant, since it was purchased the same year as the epistle was composed. Il contributo offre un’analisi dettagliata della lettera di Petrarca a Livio, che è posta al centro del libro XXIV delle Familiari rivolte antiquis illustrioribus. Vengono riconosciute le fonti in essa sottese, in particolare il prologo agli Ab urbe condita, e si chiarisce il rapporto che intrattiene con i manoscritti liviani e degli storici antichi posseduti e postillati dal poeta, come il Par. lat. 5690. L’anno di datazione della lettera coincide addirittura con l’anno di acquisto di quest’ultimo codice.
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COSIMO BURGASSI
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE SONDAGGI PER LA TERZA DECADE
Chi provi a interpretare un volgarizzamento, salvo casi fortunati e rarissimi, è sprovvisto della bussola che indichi con sicurezza la fisionomia della fonte da cui il traduttore ha attinto e alla quale si è adeguato. Il fatto è tanto più d’ostacolo quando ci si rivolga alle traduzioni che – in modo, comunque, non del tutto appropriato – si possono definire ‘fedeli’, ossia aderenti alla sostanza (se non, talvolta, alla forma) del modello originale, tendenzialmente aliene da tagli, aggiunte, riscritture testuali, da ogni intervento, insomma, che trasfiguri i contenuti del testo che si intende volgarizzare. Così, per mancanza di lumi, è inevitabile che l’interprete sia costretto a confrontarsi con il dubbio che sorge ad ogni disaccordo significativo tra versione volgare e edizione critica del testo classico, là dove risulti incerto, e spesso indecidibile, se tale discrepanza sia da imputare all’imperizia del traduttore o alla conformazione corrotta del dettato di partenza, che al massimo si può solo intuire e ipotizzare. Le moderne edizioni critiche dei classici, che spesso costituiscono i soli strumenti a disposizione in assenza di altri sostegni, in genere non rischiarano, se non in misura assai limitata, il testo dei volgarizzamenti, perché si concentrano sull’escussione dei testimoni antiquiores, normalemente lontani, nel tempo e nella qualità dei referti, dai loro discendenti recentiores, ai quali è presumibile che i traduttori abbiano fatto riferimento. Nel caso dei volgarizzamenti di Livio – della terza e quarta decade soprattutto –, oltre che per meglio comprendere i modi traduttivi e le specificità linguistiche del testo volgare, l’inchiesta sulla tradizione latina soggiacente è sorretta e incoraggiata A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 323-354 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117497
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dal rilievo storico-culturale delle vicende che interessano il recupero prima (a partire dal circolo umanistico padovano), il vaglio critico-testuale poi, dei libri Ab Urbe condita 1. L’attività volta a emendare e correggere il testo di Livio, ispirata dal culto per il grande storico di Roma e dal desiderio di conseguire il mes saggio originale e autentico della sua opera (e che si fece anche guanto di sfida lanciato per il primato intellettuale), rappresenta – secondo sicura acquisizione critica – un passaggio determi nante per la fondazione della filologia umanistica. Nomi insigni sono coinvolti, anche solo per via indiziaria (su un terreno, invero, sempre più malfermo), nel lavoro di revisione del testo liviano, che, nella sua espressione più autorevole e culturalmente alta, ruota intorno a due personalità celebri, Francesco Petrarca (?) e Lorenzo Valla, e a un codice altrettanto celebrato, il London, British Library, Harley 2493 2. Grandi nomi ai quali, quasi a complemento dialettico, nella stagione della riscoperta e diffusione dei classici, sul versante volgare della traduzione è stato affiancato, a più riprese e con varie prove (mai decisive), il nome di Giovanni Boccaccio, in quanto autore (presunto) dei volgarizzamenti della terza e/o della quarta decade 3. L’impresa delle traduzioni di Livio è figlia legittima del nuovo clima culturale che si respira nei primi decenni del Trecento e che investe tutta la prima metà del secolo, fino almeno alla rinascita dell’Umanesimo latino patrocinata da Petrarca 4. In questo periodo, a Firenze, i volgarizzamenti delle opere storiche occupano un posto di primo piano nel panorama letterario e culturale. La storia di Roma antica è ora recuperata direttamente dai testi originali latini di Sallustio, di Valerio Massimo e – appunto – di Livio, quindi «senza l’orpello di interpolazioni, rimaneg Cf. Billanovich 1981 e i saggi raccolti in Billanovich 2004. Cf. Billanovich 1981, 97-122 e, per le emendazioni del Valla (testo, metodi e problemi, rapporti con i predecessori e con i contemporanei), Regoliosi 1981a; 1981b; 1986; 1995; 2001; 2005. Sull’identità problematica di Petrarca con uno dei correttori del Livio Harleiano, cf. da ultimo il consuntivo del dibattito in Fio rilla 2012, 106-122 e il contributo di M. Petoletti in questo volume 269-294. 3 Per la questione attributiva, espressa da due posizioni divergenti, basterà il rimando a Casella 1982 e Tanturli 1986. 4 Un quadro d’insieme aggiornato e completo per questa stagione dei volgarizzamenti è in Zaggia 2009, 3-48, sul quale sostanzialmente si fondano le considerazioni che seguono (ma si vedrà pure il lavoro complessivo di Vaccaro c.d.s.). 1 2
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giamenti, riduzioni o magari ancora mediazioni dal francese» 5, come nel recente passato, ma con una nuovo impegno, non scevro da scrupoli filologici, rivolto a sondare e a far propria la materia e la forma dei classici (per istanze di interesse storico o di edificazione morale) 6. Gli scritti dei grandi storici latini sono ora affrontati in tutta la loro estensione, non più per compendi o per spezzoni di provenienza eterogenea, all’occorenza assemblati insieme in un vasto mosaico polifonico: si pensi, a questo proposito, ai cosiddetti Fatti dei Romani, versione italiana degli oitanici Faits des Romains, che compongono insieme brani desunti, fra gli altri, da Svetonio, Sallustio, Lucano, con l’intento di intrattenere narrando le grandi imprese dei cavalieri antichi piuttosto che di insegnarne le vicende e di darne ammaestramento. Sul piano dello stile, da una parte il confronto diretto col dettato latino originario, dall’altra la tendenza alla mimesi delle strutture linguistiche antiche, in parallelo con il principio di rigorosa fedeltà nei confronti del modello che impronta la traduzione, definiscono quell’«esperienza formale» che Gianfranco Folena ha chiamato (secondo l’ormai nota formulazione, desunta dalla storia dell’arte) di «classicismo medievale» 7. Dentro questa cornice, anche solo in considerazione della mole del testo e a prescindere da altri valori, non c’è alcun dubbio che alle traduzioni di Livio sia riservata una posizione di prim’ordine nel circuito dei volgarizzamenti della prima metà del Trecento. L’impegno richiesto per trasferire in volgare anche solo una decade non trova infatti nessun paragone: non nell’impresa coeva di volgere Valerio Massimo né, tanto meno, in quella di volgere Sallustio. Almeno in termini cronologici, il primato spetta alla traduzione della prima decade: è con questa trasposizione, infatti, che si apre la stagione dei volgarizzamenti della storia di Roma antica. Datata 1323, opera del notaio Filippo da Santa Croce, la versione della prima decade fu compiuta non direttamente sul testo latino, ma ancora su di un intermediario francese. Sappiamo però che esisteva anche un’altra versione, condotta Zaggia 2009, 15. Senz’altro al secondo tipo di istanze rispondono le versioni dei due trattati sallustiani, realizzate dal domenicano Bartolomeo da San Concordio. 7 Cf. Folena 1956, xxxvii. 5 6
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questa sì sul latino, non si sa quanto estesa, testimoniata da un frammento conservato nel ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 4086 del terzo-quarto decennio del Trecento (è questo, fra l’altro, il più antico testimone del Convivio di Dante) 8. Ad anni successivi, comunque entro la prima metà del secolo, sono databili le traduzioni della terza e della quarta decade 9. Q uest’ultima sembrerebbe essere stata composta prima del 1346, anno della morte di Ostasio I da Polenta, signore di Ravenna, se è vero che fu questi colui che ne patrocinò la realizzazione, come si legge nell’importante prologo: E conciossiacosaché io medesimo sia di questi cotali estremi, a’ quali di necessità è lo studio pervenuto alle mani, volendo alcuna cosa con lunga fatica fare di utilità al mondo corrotto, e specialmente a’ presidenti; considerato, che, secondo che Aristotele vuole nel primo della rettorica sua, il sapere le antiche storie è utilissimo nelle cose civili; ho proposto di riducere di latino in volgare X libri di Tito Livio Patavino, composti delle storie Romane sotto titolo de bello Macedonico; acciò che da quello, il quale d’alta grammatica e di forte construtto molto è alli più ad intendere difficile, possano li non letterati prendere e delle storie diletto, e delle magnifiche opere e virtuose grazioso frutto. […] Le quali cose tutte insieme, e ciascuna per sé considerate dirittamente, non dubito, che non possano e in molte cose le lascivie de’ nobili leggenti qui rifrenare, e l’animo loro erigere a maggiori cose, e ne’ necessarii bisogni porgere consigli utilissimi. […] E se di cotanto e tale affanno, quale colui che già vide T. Livio conoscerà meglio che alcun altro, onore alcuno o laude mi s’avviene; non a me siano rendute, ma a colui che a ciò m’indusse, cioè al nobile cavaliere Messere Ostagio da Polenta spezialissimo mio Signore, ad instanza del quale ad opera così grande io mi disposi […] 10
8 Cf. Azzetta 1992. Allo stesso studioso si deve anche un’approfondita analisi dei rapporti fra tradizione latina e volgarizzamento della prima decade; cf. Azzetta 1993. 9 Zaggia 2009, 24, pensa che questi siano da far risalire al quarto o al quinto decennio del Trecento, «anche per una certa maggiore complessità linguistica e culturale rispetto ad altri meno dotti volgarizzamenti». Per la datazione dei più antichi mss. della terza decade, cf. infra n. 16. 10 Cf. Pizzorno 1845, 9-11.
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Se trasporre in volgare le decadi liviane è stato causa di tanto «affanno» (secondo l’espressione nel prologo appena citato: «cotanto e tale affanno, quale colui che già vide T. Livio conoscerà meglio che alcun altro»), il risultato ripaga ampiamente gli sforzi ed è senz’altro destinato ad acquisire un eminente valore storico, in quanto (come abbiamo già accennato) tale frutto dipende geneticamente dalla tradizione di quel testo classico che, per riprendere uno dei titoli maggiori di Giuseppe Billanovich, si pone alle origini dell’Umanesimo 11. Q uesto è tanto più vero quando si pensi alla terza e alla quarta decade, e ai rapporti che tali versioni stabiliscono con gli interventi rispecchiati nel prestigioso ms. Harleiano 2493 (siglato A dagli editori), variamente condivisi dai rami bassi dei codici recenziori, codici che, per lo più trascurati dalla critica classica (con numerate e decisive eccezioni), sono nondimento ricchi di implicazioni culturali e rappresentano le fonti primarie per descrivere la storia, la diffusione dell’opera e la forma del testo liviano nel basso Medioevo e nella prima Età moderna 12. I volgarizzamenti, in questo senso, danno indicazioni preziose sulla consistenza e la conformazione del dettato latino, letto, studiato e interpretato in quell’epoca. In questa prospettiva, intendiamo tracciare alcune linee di ricerca per l’analisi delle relazioni testuali instaurate dalle traduzioni volgari con la tradizione latina del testo classico. Messi in luce dagli studi di Billanovich già a partire dagli anni ’50 del secolo scorso 13, con riferimento alle lezioni caratteristiche di A2 (la mano tradizionalmente attribuita a Petrarca) e di Θ (= R nel l’ed. Luchs 1879, che designa una famiglia di codd. attestata a partire dal 1389), tali rapporti sono ancora da esplorare nel dettaglio, segnatamente alla luce delle analisi condotte da Michael
Cf. Billanovich 1981; cf. anche Regoliosi 1995, 1299. L’ultimo catalogo dei codd. della terza decade, che aggiorna il regesto stilato da Mommsen e Studemund nel 1873, conta più di centosettanta testimoni, fra mss. completi e frammenti. Di questi, solo quattordici sono anteriori al XIII secolo, la stragrande maggioranza essendo costituita da mss. italiani del XIV-XV secolo; cf. De Franchis 2000. Ancora imprescindibile, vista la mole delle allegazioni dai codd. tardi (desunte di prima mano o da fonti precedenti), resta ovviamente la monumentale ed. Drakenborch 1738-1746 (su cui cf. ora Vagenheim 2014). 13 Cf. Billanovich 1951; 1953; 1981. 11 12
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Reeve sulla tradizione della terza decade in Italia 14. In particolare, i lavori di Reeve hanno fornito nuovi importanti elementi per la comprensione della variegata galassia dei codici seriori e hanno rivalutato il ruolo del (supposto) Petrarca nell’ambito tanto della trasmissione quanto dell’emendazione del testo di Livio, là dove sono state addotte prove convincenti per postulare una fonte comune a cui risalirebbe A2 insieme a Θ e ad L (il cod. Landulfianus, Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 5690, appartenuto prima a Landolfo Colonna e poi, dal 1351, allo stesso Petrarca) 15, contro la trafila genetica, proposta da Billanovich, che fa discendere Θ direttamente da A + A2. La campionatura degli esempi è limitata ai primi libri della terza decade, là dove il versante latino e quello volgare cooperano nel l’offrire condizioni particolarmente favorevoli all’indagine. Alla dipendenza esclusiva del testo classico dalla tradizione del tanto venerabile quanto scorretto cod. Puteaneus (Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 5730, del V sec.) per questa porzione dell’opera, fa risconto – com’è noto soprattutto per i casi celeberrimi già menzionati – il ricorso continuo alla congettura e all’emendazione del testo, con conseguente proliferare di lezioni distintive che la traduzione può riflettere e trasmettere indirettamente. Sul versante volgare, poi, dei libri 21-24 si hanno due traduzioni indipendenti (qui indicate, per praticità, con TRADa e TRADb) 16: tale circostanza, per cui si dispone di più versioni Cf. Reeve 1987a; 1987b. Su questo cod. si veda da ultimo Ciccuto et alii 2012. 16 Più precisamente, due sono i volgarizzamenti per la porzione di testo corrispondente ad Ab Urbe condita 21-25, 7; da 25, 7 in poi la traduzione è unica ed è trasmessa da tutti i mss., tanto della TRADa quanto della TRADb (salvo un solo caso, in cui da 25, 7 è stato copiato il testo latino e non quello volgare). Per l’indipendenza delle due versioni (non si tratta, quindi, di due redazioni dello stesso testo), cf. Tanturli 1986, 811-839. I due codd. più antichi di TRADb risalirebbero alla metà del Trecento: Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano XXIII 91 e Palatino E. B. 9. 2 (Striscia 1375). Per il primo cod. si veda Bertelli 2002, 137-138 n. 85 e per il secondo Tanturli 2010, 118-119. Gli altri testimoni di questo volgarizzamento sono descritti in Lippi 1979, 125132. I primi due libri della TRADb sono citati secondo l’ed. Baudi di Vesme 1875 (= BV), che riproduce la lezione del ms. 1707 della Biblioteca Nazionale Uni versitaria di Torino (fortemente danneggiato dall’incendio del 1904 e in gran parte ora non più leggibile). A proposito del criterio che presiede alla costitu14 15
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dello stesso testo, è senz’altro privilegiata rispetto all’analisi che si intende condurre, in ragione dell’ampiezza della documentazione fruibile e, presumibilmente (ma non necessariamente), della sua varietà. Lo spoglio si concentra sui libri 21-22 e registra soltanto gli esempi più ragguardevoli; i casi sono riuniti in classi tipologicamente affini, secondo un sistema di griglie tutt’altro che ermetico, da intendere più come strumento per razionalizzare il materiale che come specchio fedele della realtà del dato, là dove i confini tipologici spesso si sovrappongono e le classi, di conseguenza, risultano ibride. Senza considerare le corruttele e i guasti che intervengono nei rami alti della tradizione latina (e che sono poco notevoli ai nostri fini, in quanto non «caratterizzanti»), il sondaggio prende avvio dai nessi testuali che i volgarizzamenti stabiliscono con le innovazioni e le correzioni, di provenienza eterogenea o di coniazione illustre (siano esse state accolte o respinte dalle moderne edd. critiche), depositate in A e isolabili come tratti specifici nella trasmissione dell’opera classica. La stratificazione di più livelli testuali nel cod. Harleiano, cui si unisce l’altissimo valore storico-culturale del libro, ne fa un punto di osservazione privilegiato per valutare la complessità della tradizione latina e delle emendazioni annesse 17. Da questo punto di partenza la ricerca si allarga ad altri testimoni affini, in modo sia da collocare le attestazioni significative di A e dei suoi correttori nel quadro dei rispettivi alvei di appartenenza, sia da saggiare la consistenza testuale delle aree geneticamente limitrofe. Nel dettaglio, le lezioni latine zione di BV, Lippi 1979, 145 n. 20 osserva: «Il curatore talora interviene senza avvisare sul testo, con congetture personali e con prestiti dall’editio princeps romana [scil. l’incunabolo del 1476]»; i riscontri testuali da tale ed. sono dunque da valutare, volta per volta, con debita cautela. Per i codd. della TRADa, cf. Lippi 1977-1978, 27-30, a cui si aggiunga Venezia, Museo Correr, Cicogna, 3737, di fine XIV sec. (è il più antico testimone conosciuto di questa versione), per cui cf. Vanin 2013, 198-200. La TRADa è inedita (ne sono testimoni inattendibili le prime edd. a stampa, perché la loro lezione risulta sistematicamente ortopedizzata in base al testo latino); questa traduzione è citata secondo l’ed. critica in corso di allestimento per cura di chi scrive, che si fonda per la forma sul ms. London, British Library, Additional, 15286 (= LO), di colorito linguistico veneto; alle citazioni della TRADa segue appunto l’indicazione della carta corrispondente in LO. 17 Il cod. è infatti una sorta di «cattedrale, costruita con materiali tratti da tutti i filoni a cui era possibile attingere» (Regoliosi 2001, 210).
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così selezionate, da confrontare con il testo dei volgarizzamenti, si possono ripartire in quattro classi: I) Lezioni caratteristiche di A o del suo antecedente Λ (il capostipite della famiglia italiana nella tradizione del Puteaneus): la verifica è effettuata interrogando il cod. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 63.21 (= N), dal quale, insieme ad A, si ricostruisce il testo di Λ 18. II) Interventi di correzione in A esterni a Λ. III) Innovazioni riscontrabili nei testimoni di Θ che non coincidono con A2. IV) Emendazioni di Valla 19. Non solo per la classe III (com’è ovvio), ma anche per le altri classi si è di norma ritenuto opportuno allegare (quando il dato non sia già espresso) la lezione dell’uno, dell’altro o di entrambi i testimoni selezionati come rappresentanti del subarchetipo Θ: si tratta del cod. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. Z 364 (= X), del 1389 (il più antico testimone di Θ), e del cod. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conv. Soppr. 263 (= Z), trascritto nel 1439 da Angelo Decembrio 20. Il raccordo più evidente 18 Cf. Reeve 1987a, 139: «Λ can be reconstructed with little difficulty from N and A, both accurate manuscripts. Correction, heavy in A but light in N, seldom obscures the reading of Λ». Cf. anche De Franchis 2015, 10 (con lo stemma della terza decade). 19 A proposito delle classi II e IV, va da sé che il riconoscimento delle varie mani non è affatto univoco e immediato (soprattutto per gli interventi minimi, come espunzioni, rasure, lettere singole, ecc.): l’ispezione del codice e la bibliografia aiutano, ma spesso l’interpretazione resta irrimediabilmente ambigua; si è pertanto fatto largo uso (certo oltre il necessario) della «x» in apice (Ax) per sottolineare tale ambiguità. Il dato che qui interessa, comunque, al di là di quale mano abbia apportato l’innovazione, è che questa si rispecchi nell’una, nell’altra o in entrambe le traduzioni (o in nessuna delle due, qualora il fatto costituisca un’indicazione rilevante sul piano storico o filologico). 20 Q uest’ultimo cod. (acquistato nel 1495 dalla Badia fiorentina, da cui proviene; cf. Blum 1951, 21 n. 32), per quanto tardo (comunque precedente l’Antidotum in Facium del Valla) e per quanto culturalmente aggiornato fosse il suo copista (il fratello di Angelo Decembio, Pier Candido, contribuì a emendare il testo di Livio, come ricorda lo stesso Valla), non sembra contaminato da eventuali correzioni. Appena un riflesso del restauro testuale si può forse scorgere a proposito di 22, 1, 1 (ma si tratta di un luogo liminare e ben ‘in vista’), dove si legge ancora la lezione tradizionale Iam vero apparebant que hannibal ex hibernis metuit: le alternative Iam ver appetebat quom (-m espunto?) Hannibal e movit
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tra le innovazioni della famiglia Θ e i volgarizzamenti è rappresentato senza dubbio dal cosiddetto «additamentum allifanum» (trasmesso da alcuni codd. di Θ, compresi X e Z), ossia il racconto eziologico che spiega il nome della cittadina di Alife, inter polato dopo 22, 18, 5 consedit e tradotto in entrambe le versioni volgari 21. Infine, per i luoghi trattati sotto più classi o per quelli di natura irriducibilmente ibrida, che quindi potrebbero appar tenere a classi diverse, i rimandi interni sono segnalati dalla freccia (→) 22.
Classe I: A e Λ 21, 39, 10 Occupavit tamen Scipio Padum traicere] occupavit. Tamen… traicere A 100ra + N 10v. TRADa «aveva Italia occupata. Non pertanto Scipione trapassò il Po» (Lo 32ra), TRADb «aveva la oppinione occupata. Non pertanto Scipione trapassò il Po» (BV I, 131). Sia TRADa che TRADb si adeguano alla scansione sintattica di Λ. Inoltre, TRADa integra il complemento «Ittalia», mentre TRADb ha «opinione», che riflette opinionem (Scipionis) scritto da A2 sopra occupavit (→ Classe II).
per metuit (proposte dal circolo fiorentino di – fra gli altri – Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, e poi dal Valla: cf. Regoliosi 1981a, 336) sono registrate rispettivamente nel margine superiore (qui con inchiostro più scuro) e nell’in terlinea (c. 100vb). 21 Cf. Reeve 1987b, 426 e (si parva licet) Burgassi 2015, 145-147. 22 Il testo critico degli Ab Urbe condita fa riferimento all’ed. oxoniense Walters – Conway 1967. Come è stato più volte notato, questa ed., pur meritoria, non descrive con accuratezza il testo di A e, soprattutto, di N: ciò pertanto la rende inaffidabile (almeno) per i dati relativi a Λ. Cf. Reeve 1987a, 139: «Λ had numerous omissions and transpositions, far more than anyone has troubled to report from NA». Ovviamente, se l’ordine delle parole non ha conseguenze apprezzabili sulle traduzioni, tutt’altra incidenza hanno invece le omissioni. Per non appesantire la lettura dello spoglio, non si segnala in alcun modo quando i dati da noi addotti non sono registrati nell’apparato dell’ed. oxoniense o non sono conformi con questo. Si demanda alla pazienza del lettore l’eventuale verifica. Inoltre, alla sigla del ms. citato fa seguito (quando la fonte non sia desunta dalla bibliografia) l’indicazione della carta e della colonna (con l’eccezione ovvia di N, là dove la scrittura è disposta a tutta pagina). Infine, le citazioni dei due volgarizzamenti sono accompagnate dalle sigle Lo per TRADa e BV per TRADb (cf. n. 16); i brani allegati si limitano a far emergere (ed è ciò che più preme) i rapporti lessicali con le pericopi latine corrispondenti (pur a detrimento, talvolta, del senso compiuto del passo volgare e dell’architettura sintattica, che richiederebbero allegazioni troppo e – lo si ripete – inutilmente estese ai fini dell’esame qui condotto).
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Da notare che in Z 97vb traicere compare al perfetto, traiecit, come nei volgarizzamenti «trapassò» (→ Classe III). 21, 41, 9 decedens N 11r] decedere A 100va. L’infinito decedere spiega TRADa e TRADb «di partirsi» (rispettivamente Lo 33va e BV I, 137). Anche in Z 98ra decedere. 21, 47, 4 tranasse] transnatasse A 101vb + N 13r. TRADa «avere transnatato» (Lo 35va). Non dà informazioni sulla fonte la versione di TRADb «trapassasse» (BV I, 158). Z 98vb reca tranasse. 21, 60, 5 Hannoni cis] anno non inscius A 104vb + N 16v. TRADa «Hannone, di queste cosse consappevele» (Lo 40ra), TRADb «Hannone, il quale ciò che Scipion faceva sapeva» (BV I, 206). Anche in X 7va e Z 100rb hanno non inscius. 21, 60, 7 principibus] praesidiis A 104vb + N 16v. TRADa e TRADb «presidi» (risp. Lo 40ra e BV I, 207). Anche in X 7va e Z 100rb presidiis. 21, 62, 11 Haec procurata votaque] haec procurata vota . que A 105rb + N 17r. Dalla posizione del punctus planus tra vota e que si spiega l’interpretazione della TRADa, che legge il clitico que come pronome quae: «Procurati questi desideri, quelle cose che…» (Lo 40vb). Diversamente nella TRADb «Procurati i boti» (BV I, 215). 21, 63, 8 Iovis optimi maximi templum] Iovis omne templum A 105va + N 17v. TRADa «in omni templo di Giove» (Lo 41ra), stessa versione nella TRADb (BV I, 218). Anche in X 8ra e Z 100va Iovis omne templum. 22, 1, 9 parmas] palmas Λ (Reeve 1987b, 160). TRADa e TRADb «palme» (risp. Lo 41vb e BV II, 6). 22, 1, 12 ac simulacra] ad s. A 105vb + N 18r. TRADa e TRADb «al simulacro» (risp. Lo 41vb e BV II, 7). Anche in Z 100vb ad simulacra. 22, 1, 17 ex argento dona darentur] om. dona Λ (Reeve 1987b, 160). TRADb «se desse d’argento» (BV II, 8), mentre TRADa «si donasse d’ariento» (Lo 41vb), se non è traduzione contestuale, potrebbe forse dipendere da una fonte esterna a Λ con dona. 22, 19, 8 eques alius super alium ab Hasdrubale missus] om. eques 332
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
A 110ra + N 23v. L’omissione di eques è riflessa dalla mancanza del soggetto in TRADa «da Hasdrubale mandati più l’uno dietro all’altro» (Lo 48rb) e TRADb (BV II, 79). Omettono eques anche X 10va e Z 103ra. 22, 24, 1 Larinati A 111rb + N 25r. TRADa «Larinati» (Lo 50ra) e TRADb «Larenati» (BV II, 98). Anche in X 31rb e Z 103vb Larinati. 22, 25, 10 de abrogando] om. A 111vb (de aggiunto sopra il rigo) + N 25v. Non c’è traccia di de abrogando né in TRADa (Lo 50vb) né in TRADb (BV II, 104). L’omissione è anche in X 31rb e Z 104ra. 22, 26, 5 rogationem] gratia sive rogationem A 112ra + N 26r. TRADa «gratia overo rogatione» (Lo 51ra), stessa versione in TRADb (BV II, 108). Anche in X 31ra e Z 104ra gratiam sive rogationem. 22, 27, 9 cum eo, exercitum divisurum] cum quo exercitu d. A 112ra + N 26r. TRADa «con quello exercito dividerebbe» (Lo 51rb), mentre TRADb «co· llui [ed. collui] dividerebbe l’essercito» (BV II, 111) sembra rimandare a cum eo exercitum all’esterno di Λ. 22, 34, 6 ad caedem] ad eodem A 113va + N 28r. TRADa «da questo medesimo» (Lo 53va), TRADb «da llui» (BV II, 135). Anche in Z 105ra ab eodem. 22, 37, 1 Ostia] hosticam A 114ra + N 28v. TRADa «hostica» (Lo 54ra), mentre TRADb «ad Hostia» (BV II, 141) deriva dal l’esterno di Λ. In X 32va e Z 105rb hostiam. 22, 37, 2 exercitusque allatam] exercitusque. Q ue allata A 114ra + N 28v. TRADa «del suo exercito; la quale racontata», TRADb «del suo essercito. La quale così apportata» (BV II, 142). Anche in Z 105rb exercitusque que adlata. 22, 37, 8 missili telo] om. A 114ra + N 28v. Di missili telo non c’è traccia né in TRADa (Lo 54rb) né in TRADb (BV II, 143). L’omissione è anche in X 32va e Z 105rb. 22, 37, 10 fidem coluisse] f. tenuisse A 114ra + N 28v. TRADa «aveva la fede servata» (Lo 54rb), stessa versione in TRADb (BV II, 144). Anche in X 32vb e Z 105rb tenuisse. 22, 37, 11 gratia rei] g. regis A 114ra + N 28v. TRADa «la gratia del re» (Lo 54rb) e TRADb «per grazia del re» (BV II, 144). Anche in X 32vb e Z 105rb gratia regis. 333
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22, 39, 7 iactando] om. A 114va + N 29v. Manca il traducente di iactando sia in TRADa (Lo 54vb) sia in TRADb (BV II, 151). Anche Z 105va omette iactando. 22, 42, 7 haudquaquam dux defuit] om. dux A 115rb + N 30r. TRADa «ma questo non mancò loro» (Lo 56ra) rispecchia l’omis sione di Λ e così in TRADb «e non manchò» (BV II, 163). Anche Z 106ra omette dux. 22, 44, 5 discordia consulum] d. militum sive consulum A 115va + N 30v. TRADa «per la discordia delli huomini d’arme o per quella de’ consoli» (Lo 56va), TRADb «dalla discordia de’ militi o vero di consoli» (BV II, 171). Anche in Z 106rb militum sive consulum. 22, 45, 5 cui sors N 31r] cuius sors A 115vb. Dal genitivo cuius sembra discendere TRADa «del quale per sorte» (Lo 56vb); non dà informazioni sulla fonte TRADb «appo il quale era… la sorte» (BV II, 174). Anche in Z 106rb cuius sors. 22, 45, 6 equites] milites A 115vb + N 31r. Sia TRADa che TRADb recano «cavalieri» (risp. Lo 56vb e BV II, 175) che pare volgere equites (esterno a Λ) piuttosto che milites (quest’ultimo termine è reso spesso con «uomini d’arme»). In Z 106va equites. 22, 47, 3 turba equis] turbatis e. A 116ra + N 31v. TRADa «turbati li cavalli» (Lo 57ra), stessa versione in TRADb (BV II, 179). Anche in Z 106va turbatis equis. 22, 47, 5 impulere] inpulvere A 116ra + N 31v. TRADa «dalla polvere» (Lo 57rb) e TRADb «nella polvere» (BV II, 180). Similmente in Z 106va in pulverem. 22, 49, 3-4 vinctos mihi traderet.’ Equitum] v. m. traderet equites. Tum A 116va + N 31v. TRADa «mi dessero li vinti cavalieri» (Lo 57va), TRADb «me dessero legati i cavalieri» (BV II, 184). Similmente in Z 106vb mihi vinctos traderent equites cum. 22, 49, 11 reus… e consulatu] reus… causaque consulatus A 116va + N 32r. TRADa «reo… e per cagione del consulato» (Lo 57vb). TRADb «come colpevole del consolato» (BV II, 186) potrebbe invece attingere da e consulatu all’esterno di Λ (→ Classe II e III). Anche in Z 106vb causaque consulatus. 22, 49, 16 ‹consul› aliquot annis ante fuerat] aliquot diebus a. f. A 116vb + N 32r. TRADa «alquanti dì innanci era stato» (Lo 58ra), 334
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TRADb «ed alquanti dì’nanzi [ed. dinanzi] consolo era stato» (BV II, 187). Notevole il fatto che la TRADb (sempre che il referto di BV sia genuino) riflette consul, in coincidenza con l’integrazione del Gronovius. Anche in Z 106vb aliquot diebus ante fuerat. 22, 50, 3 fuit] fugit A 116vb + N 32r. TRADa «si fugì» (Lo 58ra) e così in TRADb (BV II, 188). Anche in Z 107ra fugit. 22, 50, 4 semiermis] sine armis A 116vb (semiermis è scritto sopra il rigo). TRADa «disarmata» (Lo 58ra) sembra congruente con sine armis, mentre l’avverbio in TRADb «quasi disarmati» (BV II, 189) rimanda piuttosto a semiermis. In Z 107ra semiermis. 22, 50, 9 fit] fiat A 116vb + N 32v. TRADa «facciasi» (Lo 58rb), TRADb «si faccia» (BV II, 190). Anche in Z 107ra fiat. 22, 51, 2 venisse] te v. A 117ra + N 32v. TRADa «te essere venuto» (Lo 58rb) e così in TRADb (BV II, 193). Anche in Z 107ra te venisse. 22, 51, 2-3 praecedam.’ Hannibali nimis laeta res] Precedant Hannibal inimici letales A 117ra + N 32v. TRADa «Precedano, Hanibale, li mortali nemici» (Lo 58rb), TRADb «Allora disse Hanibale: “Vadano davanti i mortali nimici”» (BV II, 193). Non è quindi espressa la correzione leta est per letales scritta in margine da Ax (→ Classe II). Anche in Z 107ra precedant hannibal inimici letales. 22, 53, 11 pessimo leto] pessimus leo A 117va (corregge in pessimo leto Ax) + N 33r. TRADa «uno pessimo leone» (Lo 59ra), ma TRADb «uno leto pessimo» (BV II, 202) attinge (se genuino) all’esterno di Λ. Anche in Z 107rb pessimus leo. 22, 53, 13 Scipioni] hannibalem contra scipioni A 117va + N 33r. TRADa «ad Scipione… contra Hanibale» (Lo 59rb), TRADb «da Hanibale… a Scipione» (II, 202). Anche in Z 107rb hannibalem contra scipioni. 22, 54, 11 compares cladem] comparem c. A 117vb + N 33v. TRADa «la simigliante sconfitta» (Lo 59va), TRADb «Simile sconfitta» (BV II, 206). Anche in Z 107va comparem cladem. 22, 56, 2 sese Canusi esse] evasum se esse A 118ra + N 33v. TRADa «esso essere scampato» (Lo 59vb), TRADb «sé essere scampato» (BV II, 209). Anche in Z 107va evasum se esse. 335
C. BURGASSI
22, 58, 3 internecivum] internicione civum A 118va + N 34r. TRADa «per mortale volontà di mei cittadini» (Lo 60rb), TRADb «affine d’uccidere i cittadini» (BV II, 217). Anche in Z 108ra internitione civium.
Classe II: correzioni e interventi in A 21, 5, 9 quies] q. somni A2 93vb, L, Θ (cf. Reeve 1987b, 425). TRADa «per lo somno… quiete» (Lo 22rb), TRADb «quiete del sonno» (BV I, 14). ~ 21, 16, 5 victorem] aggiungono la glossa primum Hamilcare deinde Hasdrubale nunc Hannibale duce A2 95vb (poi cancellata), L, Θ (cf. Reeve 1987b, ibid.). Sia TRADa che TRADb traducono l’aggiunta con i nomi dei condottieri cartaginesi (risp. Lo 25va e BV I, 50). 21, 17, 7 Cornelio] C. Scipioni A2 95vb, L, Θ (cf. Reeve 1987b, ibid.). TRADa «Ad Cornelio Scipione» (Lo 25vb) e così TRADb (BV II, 52). 21, 26, 7 hominum] scritto sopra omnium espunto A2 97va. TRADa «d’huomini» (Lo 28vb) e così TRADb (BV I, 85). Anche in Z 96va hominum. Valla, dunque, ha desunto dal cod. Harleiano la correzione hominum per omnium registrata in Antidotum in Facium IV 4, 9 (cf. Regoliosi 1981a, 329; 1986, 69; 2001, 202-203). (→ Classe IV). 21, 27, 8 Navium agmen] scrive maiorum sopra navium A2 97vb. TRADb «la moltitudine delle navi maggiori» (BV II, 89): non si può escludere, a rigore, che l’aggettivo sia stato aggiunto dal volgarizzatore stesso per distinguere le navi maggiori dalle minori citate nel passo (le lintres, tradotte «navicelle»). Diversamente TRADa «la schiera delle navi» (Lo 29ra). In X 3vb e Z 96va navium agmen. 21, 35, 11 lubrica A2 99va (scritto sopra publica espunto). TRADa e TRADb «sdrucciolente» (risp. Lo 31vb e BV II, 119). Anche in Z 97ra lubrica. 21, 36, 1 ita rectis saxis ut aegre] ita rectis ac si istud egre A 99va (con altri codd.), scrive erectam ut vix nel margine A2. TRADb «sì diritta, che malagevolmente… appena…» (BV II, 119) rispecchia perfettamente A2, con vix reso «appena» che rafforza aegre reso «malagevolmente». TRADa «in tanto diritto che quello mallagevolmente…» 336
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
(Lo 31vb) sembra adeguarsi a un modello ibrido, del tipo ita rectis (o erectam) ut istud aegre, là dove sono rappresentati sia ut («che» congiunzione) sia istud («quello»). In X 4vb atque ita rectis ac si istud (om. aegre); in Z 97va atque ita rectam ac si istud egre. Per la ricostruzione del Valla e per la mano di A2, cf. Regoliosi 1981a, 331 (22); 1986, 69; 2001, 195-196. 21, 36, 2 in pedum mille admodum altitudinem] impeditus dum ille ad. al. A 99va (con altri codd.), impeditus in miram ad. al. A2. TRADa «impedito, perciò che in maravigliosa alteza» (Lo 31vb) e TRADb «impedito, in maravigliosa altezza» (BV II, 119) riflettono A2. Anche in X 4vb e Z 97va impeditus in miram admodum altitudinem. 21, 39, 10 → Classe I. 21, 42, 1 Haec apud Romanos consul] aggiunge loqutus est sopra consul A2 100vb. TRADa «Q ueste parole dixe Cornellio consulo appo li Romani» (Lo 33vb), TRADb «Q ueste parole appo li Romani disse il roman consolo» (BV I, 139); a rigore, «disse (dixe)» potrebbe essere integrazione contestuale dei volgarizzatori, visto che altrimenti mancherebbe il verbo principale. In X 5rb e Z 98ra hec apud romanos consul. 21, 44, 8 tuta da correzione per rasura di tucta Ax 101rb. TRADa «sicuri» (Lo 34va), TRADb «sicura» (BV I, 148). Anche in X 5vb e Z 98rb tuta. 21, 44, 9 conceptu] conceptum da correzione di (dubbio) contemptum Ax 101rb. TRADa «concepto» (Lo 34vb) e così TRADb (BV I, 149). Anche in X 5vb e Z 98va conceptum. 21, 46, 3 exque propinquo] ex loco p. A2 101va. TRADa «im più propinquo luoco» (Lo 35ra), TRADb «di luogo più prossimano» (BV I, 154), cf. Billanovich 1953, 315. Anche in Z 98va ex loco propinquo. Per l’emendamento del Valla, cf. Regoliosi 2001, 196-197. 21, 50, 3 adfatim] da correzione per espunzione di affatim minus Ax 102va. Dell’avverbio minus, saldamente affermato nella tradizione, non c’è traccia né in TRADa «a chiedere a lingua» ‘in abbondanza’ (Lo 36va), né in TRADb «copiosamente» (BV I, 168). Anche in X 6ra e Z 99ra affatim. 21, 51, 5 escensio] excursio da correzione su rasura di (dubbio) excensio Ax 102vb. TRADa «excursione» (Lo 37ra), TRADb, coerente337
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mente con excursio, «essere… discorso» (BV I, 173). Anche in X 6va e Z 99ra excursio. 21, 55, 4 auxilia praeterea Cenomanorum] a. prece romanorum A2 103va su rasura. TRADa «auxilli ad preghiera de’ Romani» (Lo 38rb), mentre TRADb «ed oltre a questi erano gli ausilii de’ Cenomani» (BV I, 187) segue la lezione con praeterea. Anche in X 7ra auxilia prece romanorum; diversamente in Z 99va auxilia preterea cenomanorum. 21, 55, 5 Baliaribus] scrive equitibus sopra alpibus espunto A2 103va. TRADa «cavallieri» (Lo 38rb) e così TRADb (BV I, 188). Anche in X 7ra e Z 99va equitibus. 21, 63, 5 ementiendis] petendis da correzione interlineare di emendis A2 105rb. TRADa «a cercare» (Lo 41ra), TRADb «nel cercar» (BV I, 216), in linea con petendis. Anche in X 8ra petendis, non in Z 100va ementiendis. 21, 63, 8 Latinas] aggiunge ferias nell’interlinea A2 105va. TRADa «le latine ferie» (Lo 41ra) e così TRADb (BV I, 218). In X 8ra e Z 100va solo latinas. 22, 1, 1a et nequiquam] ut neque eo qui iam da correzione di et neque… A2 105va. TRADa «in maniera che…» (Lo 41rb), TRADb «in guisa che…» (BV II, 3), cf. Billanovich 1953, 315. Anche in X 8ra e Z 100vb ut neque eo qui iam. 22, 1, 1b moratus] moraturum (glossato esse) A2 105va. TRADa «[pensò che] dovessero ritenere» (Lo 41rb), TRADb «dimorar farebbono» (BV II.3). Anche in X 8ra e Z 100vb moraturum. 22, 1, 2 conciverat spes] da correzione di consciverat s. Ax 105va. TRADa «incitati dalla speranza» (Lo 41rb), TRADb «la speranza… aveva concitati» (BV II, 3). Anche in X 8ra conciverat spes. 22, 1, 19 Decembri iam mense] decimo iam m. A2 106ra (decimo scritto sopra libri decem espunto; è poi a sua volta espunto dal Valla – come sembra – a favore di decembri, aggiunto con segno di inserzione e preceduto dalla sigla ał). TRADa «nel decimo [scil. mese]» e così TRADb (BV II, 9). Anche in X 8rb .x. e in Z 101ra decimo. 22, 3, 9 ‹iussisset pronuntiari›] aggiunge proposuit nell’interlinea A2 106va. TRADa «propose» (Lo 42vb) e così TRADb (BV II, 16). Anche in X 8va e Z 101ra proposuit. 338
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22, 4, 4 deceptae insidiae] detecte i. Ax 106vb (detecte in margine, dove si legge anche tecte, forse del Valla; inoltre sunt è aggiunto nell’interlinea da A2). TRADa «li si scopersero li aguati» (Lo 43ra), TRADb «loro si scopersono gli aguati» (BV II, 20). Anche in X 8va e Z 101rb detecte. 22, 9, 2 minus] haud nimis A2 107vb (nimis è scritto sopra minue espunto e precedentemente corretto – come sembra – in minus). TRADa «non troppo» (Lo 44va) e così TRADb (BV II, 37). Anche in Z 101vb haud nimis e similmente X 9rb aut nimis. 22, 12, 4 illos Martios animos] quo m. a. A2 108rb (quo da quos per rasura); la lezione quo marcios animos è confermata dall’annotazione marginale, cf. Regoliosi 2001, 204. TRADa «dove erano stati combatuti… li marciali animi de’ Romani» (Lo 45va), con «dove» che rimanda senz’altro a quo di A2. Divesamente TRADb «domandando che animi marziali fossero a’ Romani» (BV II, 49) risente di quos (‘quali’ = «che»), attestato anche in Θ: in X 9va e Z 102ra quos martios animos. 22, 18, 8-9 etiam… consilio] om. Λ, integrano A2 110ra in margine, L, Θ (cf. Reeve 1987a, 152). Il brano è regolarmente tradotto in TRADa e TRADb (risp. Lo 48ra, BV II, 75-76). 22, 20, 12 scrive saltum sopra factum espunto A2 110va. TRADa e TRADb «salto» (risp. Lo 48vb e BV II, 84). Anche in Z 103rb saltum. 22, 23, 9 moenibus da correzione di montibus Ax 111rb. Sia TRADa (Lo 50ra) che TRADb (BV II, 97) recano «monti» e montibus si trova anche in Θ: X 31ra e Z 103vb montibus. Q uesti elementi fanno sospettare che la correzione non risalga a A2 (così l’ed. oxoniense). 22, 26, 1 animos… fecit] animos… adiecit Ax 112ra (adiecit da correzione di iecit). TRADa «adgiunse l’animo» (Lo 51ra); non dà invece informazioni sulla fonte TRADb «pose l’animo» (BV II, 107). Anche in X 31va e Z 104ra adiecit. 22, 27, 8 Q . Fabio… habuisset] om. Λ, integrano A2 112ra in margine, L, Θ (cf. Reeve 1987a, 152). Il brano è regolarmente tradotto in TRADa e TRADb (risp. Lo 51rb, BV II, 110-111). 22, 28, 9 vanis minis A2 112rb (minis scritto sopra animis espunto). TRADa «vane minazze» (Lo 51va) e così TRADb (BV II, 114). Anche in X 31vb e Z 104rb vanis minis. 339
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22, 29, 11 arma dexterae] corregge in arma dextereque A2 112vb. TRADa «arme non solamente ma ancora li dextre mani» (Lo 52ra), TRADb «l’arme… e le destre mani» (BV II, 119). Anche in X 31vb e Z 104va arma dextreque. 22, 34, 5 cum quattuor legionibus universis] cum q. militum l. u. A2 113va (militum scritto in margine per milia a testo). TRADa «con quattromilia huomini d’arme e con tutte le legioni» (Lo 53rb-va), TRADb «con quattro leggioni» (BV II, 135). Come si vede, TRADa esprime sia milia («quattromilia») che militum («huomini d’arme»), mentre nessuna delle due lezioni alternative è riflessa da TRADb. Si noti che X 32rb reca cum .iiii. milia legionibus, ma Z 105ra cum quattuor militum legionibus. 22, 36, 7 Caeretes] scrive sudasse in margine per cedes espunto A2 114ra. TRADa «erano… sodate», mentre TRADb non rende né caedes né sudasse (BV II, 141) e quindi pare dipendere da una fonte che avesse soltanto eliminato caedes, senza sostituirlo con alcunché. X 32va e Z 105rb recano cedes. 22, 37, 1 commeatu] om. Λ (cf. N 28v), integra apparatu nell’in terlinea A2 114ra. TRADa «apparato» (Lo 54ra); TRADb «apparecchiamento» (BV II, 142) dipende ancora da apparatu (ne è il traducente consueto). Anche in X 32va e Z 105rb apparatu. 22, 39, 2 etiam me indicente] etiam me indignantes A2 114rb (indignantes è lezione dubbia, da correzione di indigentes). TRADa «e me sdegnanti» (Lo 54vb), TRADb «e me ancora sdegnanti» (BV II, 149). Anche in X 32vb indignantes, ma in Z 105va indigentes. 22, 39, 10 stultorum iste magister est] scrive eventus sopra iste A2 114va. TRADa «ll’avenimento è maestro delli sciocchi» (Lo 55ra), TRADb «il quale avvenimento è maestro degli sciocchi» (BV II, 152); «avvenimento» è il traducente consueto di eventus. Anche in Z 105va eventus è scritto sopra iste. 22, 39, 13 rapto da correzione di capto A2 114va. TRADa «di rapto» (Lo 55ra) e così TRADb (BV II, 153). Anche in Z 105vb rapto. 22, 39, 16 moenibus] aggiunge pugnatum est nell’interlinea A2 114vb. TRADa «combatté» (Lo 55ra), TRADb «è stato combattuto» (BV II, 153), cf. Billanovich 1953, 315. Per la ristrutturazione del Valla, cf. Regoliosi 2001, 199. 340
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22, 39, 21 ‹hortor›] scrive moneo (poi eraso) nell’interlinea A2 114vb (la lezione, non più leggibile, è citata da Valla in Antidotum in Facium IV 5, 28; cf. Regoliosi 1981a, 343). TRADa «ammonisco» (Lo 55rb) e così TRADb (BV II, 155), cf. Billanovich 1953, 315. Anche in Z 105vb moneo. 22, 40, 1 fatentis da correzione di petentis A2 114vb. TRADa «confexante» (Lo 55rb), TRADb «confessò» (BV II, 156). Anche in Z 105vb fatentis. 22, 41, 1 praepropero] propero da correzione di prospero A2 115ra (glossato praecipiti, festino nell’interlinea). TRADa «strabochevole» ‘precipitoso’ (Lo 55va), TRADb «frettoloso» (BV II, 159). Anche in Z 105vb propero. 22, 45, 5 signum] aggiunge pugnae nell’interlinea A2 115vb. TRADa «il segno della battaglia» (Lo 56va) e così TRADb (BV II, 174). Anche in Z 106rb signum pugnae. 22, 46, 5 formae da correzione di romae Ax 116ra. TRADa e TRADb «forma» (risp. Lo 57ra e BV II, 177). Anche in Z 106va forme. 22, 46, 6 quadraginta, decem equitum] q. d. milia e. Λ (cf. N 31r), aggiunge milia peditum sopra decem espunto A2 116ra. TRADa «quarantamilia pedoni e diecemillia cavallieri» (Lo 57ra), TRADb «XL milia pedoni e Xm. cavalieri» (BV II, 177), che riflettono sia milia peditum sia decem, secondo la forma attestata in Θ (→ Classe III): in Z 106va si legge infatti XL milia peditum et X milia equitum. 22, 46, 8 Sol] solus A (con altri codd.), espunge Ax 116ra. Né in TRADa (Lo 57ra) né in TRADb (BV II, 177) è tradotto solus. Omette solus anche Z 106va. 22, 47, 1 sublato] om. Λ (cf. N 31r), integra A2 116ra. TRADa «levato» (Lo 57ra) e così TRADb (BV II, 178). Anche in Z 106va sublato. 22, 47, 10 adversus circumfusos] a. numidas c. da correzione di a. circumfessos espunto A2 116rb (-sus numidas circumfusos è aggiunto in margine dopo adver- a fine rigo). TRADa «incontro alli circunfusi Numidi» (Lo 57rb), TRADb «incontro a’ Numidi stanti d’atorno» (BV II, 181). Anche in Z 106va adversus numidas circumfusos. 341
C. BURGASSI
22, 49, 8 etiam sine hoc da correzione di e. si hoc A2 116va (sine nell’interlinea è poi stato eraso; si a testo – come sembra – era stato espunto). TRADa «ancora senza questa» (Lo 57vb), TRADb «Ancora senza questo» (BV II, 185). Anche in Z 106vb etiam sine hoc (l’ed. oxoniense ricava la lezione etiam sine hoc dall’ed. romana del 1469). 22, 49, 11a ne aut reus] ne tu ut reus Λ (cf. N 32r), espunge tu Ax 116va. TRADa «acciò che né reo… io…» (Lo 57rb) e TRADb «acciò che io non sia… come colpevole» (BV II, 185-186) non riflettono tu. Anche in Z 106vb ne ut reus. 22, 49, 11b iterum] inter eos da correzione di inter eas Ax 116va. TRADa «intra lloro» (Lo 57rb). TRADb «un’altra volta» (BV II, 185-186) rispecchia invece – se è autentica la lezione di BV – il corretto iterum (che l’ed. oxoniense registra come lezione unica del cod. Colbertinus, Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 5731, contro interum di altri codd.). Anche in Z 106vb inter eos. (→ Classe I). 22, 50, 1-3 Haec est pugna ‹Cannensis›… servavit. Q uesta è la forma del brano in A 116vb (verificabile con il confronto di N 32r), prima delle correzioni (di varia provenienza, come sembra): Hec ex pugna cannensi clade nobilitata, par cetera utilis que post pugnam accidere leviora quia ab hoste cessatum est, sic strage exercitus gravior foediorque fuga. Namque ad alia fuit sicut urbem perdidit, ita exercitum servavit. Alcune delle rettifiche apportate al testo lo allienano (con minimi scarti) a Θ e giustificano perfettamente il dettato dei volgarizzamenti: ex corretto in est; cetera corretto per rasura in ceteris; utilis espunto e corretto nell’interlinea in (dubbio) ut illa (poi eraso); fuga aggiunto sopra fuit espunto (come sembra). Si veda la lezione di Z 107ra (coincidente con X 34ra): Hec est pugna canensi clade nobilitata, par ceteris, ut illis que post pugnam accidere leviora, quia ab oste cessatum est, sic strage exercitus gravior fediorque fuga. Namque ad Aliam fuga sicut urbem prodidit ita exercitum servavit. TRADb «Q uesta è la battaglia nobilitata dalla sconfitta Cannense, pari a tutte l’altre, acciò che più lieve sia di quelle cose che doppo la battaglia avvennero, perciò che dal nemico si cessò, così per lo abattimento dello essercito più grave e più sozza di fuga; perciò che ad Allia, sì come la fuga diede la città, così servò l’essercito» (BV II, 187-188; il testo di TRADa è sostanzialmente identico [Lo 58ra]). Difficile stabilire quanto in A sia intervenuta la mano 342
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
del Valla, in rapporto alla proposta di restauro depositata in Antidotum in Facium IV 5, 31 (cf. Regoliosi 1981a, 343; 2001, 200). Certo è che (almeno) la lezione ut illis per utilis era già presente nel ramo Θ (non lontano A2, che forse aveva scritto ut illa) ed è riverberata dalle traduzioni (→ Classe IV). 22, 50, 9 disicias] scrive transeamus sopra visscias espunto A2 116vb. TRADa «possiamo trapassare» (Lo 58rb), TRADb «trapassiamo» (BV II, 190). Anche in Z 107ra transeamus. 22, 50, 11 ad sescenti] ad tria milia sexcentos da correzione interlineare di ad DCta hominum A2 116vb. TRADa «ad li tremilasecento» (Lo 58rb), TRADb «da IIIm. DC.» (BV II, 191). Anche in Z 107ra ad tria milia sexcentos. 22, 51, 3 capere animo da correzione di capite a. Ax 117ra (capere è in margine sotto leta est che corregge letales). TRADa «co l’animo prendere» (Lo 58va), TRADb «prender coll’animo» (BV II, 193). Anche in Z 107ra capere animo. Delle due correzioni annotate sul margine di A (cf. Regoliosi 2001, 205) i volgarizzamenti ne riflettono solo una, cioè capere, appunto, ma non leta res (→ Classe I). 22, 53, 4 nequiquam eos] aggiunge consultare in interlinea A2 117rb. TRADa «invano consigliare» (Lo 59ra), TRADb «invano consigliava» (BV II, 200). Anche Z 107rb consultare. 22, 53, 8 nulla] nullo in loco A2 117va (in loco aggiunto in interlinea). TRADa «in niuno luogo» (Lo 59ra), TRADb «in alcun luogo» (BV II, 201). Anche in Z 107rb nullo in loco. 22, 54, 4 Busae] aggiunge in se in interlinea A2 117va. TRADb «Busa… in lei» (BV II, 203). Non è chiaro se TRADa (Lo 59rb) abbia tradotto in se. Anche in Z 107va buse in se. 22, 56, 3 nundinantem] scrive morantem sopra nuntiantem espunto A2 118ra. TRADb «dimorava» (BV II, 209). Non è chiaro, invece, cosa renda TRADa «riccogliendo» (Lo 59vb). In Z 107vb nunciantem. 22, 57, 3 scrive nunc sopra non espunto A2 118rb. TRADa «hora» (Lo 60ra) e così TRADb (BV II, 212). Anche in Z 107vb nunc. 22, 59, 7 maiores] aggiunge nostrum in margine A2 118vb. TRADa «li magiori nostri» (Lo 60vb) e così TRADb (BV II, 220). Anche in Z 108ra maiores quoque nostros. 343
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22, 60, 13 demonstrat; reduces… facit] demonstraret. ducem se… f. da correzione di demonstraret. duces… f. A2 119rb (se aggiunto in interlinea). TRADa «dimostrerebbe; elli si fece duca» (Lo 61va), TRADb «mostrata v’avesse: e sé duca… si fece» (BV II, 229-230). Anche in Z 108va demostraret ducem se.
Classe III: testimoni di Θ 21, 25, 10 quamquam ad ‹quingentos› cecidisse satis constabat. X 3va reca accidisse per ad cecidisse: la prima lezione è alla base di TRADa «advegnadio che assai apparisse quello che advenuto era» (Lo 28rb); diversamente TRADb «quantunque manifesto fosse molti esserne caduti» (BV I, 81) si fonda su cecidisse. 21, 35, 9 uno aut summum altero proelio. X 4va e Z 97ra leggono uno haud summo, che giustifica la negazione in TRADa «con un’altra non perciò delle somme battaglie» (Lo 31vb) e in TRADb «con uno altro e non di quei sommi conbattimenti» (BV I, 118). 21, 40, 2 egregie vicissent] eque v. X 5ra Z 97vb. TRADa «ingualmente [‘ugualmente’] avessero vinti» (Lo 33ra) e TRADb «similmente vinti avessono» (BV I, 132) dipendono da aeque ‘allo stesso modo’. 21, 52, 9 Tum collega cunctante] cum collegam cunctantem videret Z 99rb, tum collegam cuntantem (segue spazio bianco) X 6va. La lezione di Z (X lascia lo spazio) spiega la presenza di «vedesse» in TRADb: «E con ciò fosse cosa che egli vedesse, il suo compagno trarre in lungo la bisogna» (BV I, 176). TRADa «Alora, indugiante il suo compagno» (Lo, 37rb) dipende invece da Tum collega cunctante. 21, 52, 10 ad hoc graves praeda] oneratosque p. Ax 103ra su rasura, ad hoc caravis p. N 14r, ad hoc cara vix p. X 6va Z 99rb. Sulla lezione dei testimoni di Θ (vicina a Λ, se A aveva la stessa forma di N prima della rasura) si fonda TRADa «Ad questa adpena cara preda» (Lo 37rb); mentre TRADb «carichi della preda» (BV I, 176) può dipendere tanto da graves quanto da oneratos. 22, 1, 15 partim lactentibus] p. latentibus Z 100vb. TRADa «parte nascosamente» (Lo 41vb). Viceversa TRADb «parte con ostie lattenti» (BV II, 8) procede dal corretto lactentibus. 344
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
22, 12, 2 transversis limitibus] aversis militibus Ax 108rb su rasura, adversis militibus X 9va, transversis militibus Z 102ra. TRADa «rivolti… la sua gente» (Lo 45 va) risponde a adversis militibus di X (lezione vicina a Ax), mentre TRADb «traversando i militi» (BV II, 48) pare riflettere transversis militibus (di cui manterrebbe il prefisso). 22, 15, 2 consita] concilia da correzione di (dubbio) consilia Ax 109rb, conciliata X 10ra Z 102va (poi corretto in consiliata). Da conciliata procedono TRADa «concilliata» (Lo 46rb), TRADb «era conciliata» (BV II, 63). 22, 16, 3 Ducenti… cecidere] om. A A2, il brano è presente in Θ e L (cf. Reeve 1987a, 152). In TRADa il brano non è tradotto (Lo 47rb), perciò mancava nell’esemplare latino (come in A A2); mentre compare regolarmente tradotto in TRADb «ed in quella morirono CC.° Romani, e de’ nemici morirono VII.C.°», secondo la lezione di BV II, 67. 22, 19, 12 adversi amnis os] a. adnisos codd. antiquiores, a. ad visos Z 103rb. TRADa «li visi avessero in contrario rivolti» (Lo 48va) presuppone visos, mentre TRADb «accostatisi» (BV II, 81) si fonda su adnisos. 22, 24, 12 speciem] spem X 31rb Z 103vb. TRADa «speranza» (Lo 50rb) e così TRADb (BV II, 101). 22, 31, 4 a frequentibus] a sequentibus X 32ra Z 104va. TRADa «da quelli che lli seguivano» (Lo 52va), TRADb «da quelli li quali gli seguitavano» (BV II, 124). 22, 32, 7 duxissent] dixissent X 32rb (forse corretto in duxissent) Z 104vb. TRADa «dicessero» (Lo 53ra) e così TRADb (BV II, 129). 22, 37, 2 Legati in senatum introducti] L. in syracusanum senatum i. Z 105rb. TRADa «li legati, introducti nel senato siragusano» (Lo 54ra), TRADb «Essendo introdotti gli ambasciadori Romani nel senato Siracusano» (BV II, 142). Così gli ambasciatori siracusani, ricevuti dal senato romano nell’originale di Livio, diventano ambasciatori romani ricevuti dal senato siracusano negli epigoni. L’aggiunta syracusanum (come in Z) è suggerita dalla forma che il testo latino assume in Λ (cf. A 114ra N 28v), dove il rovesciamento delle parti siracusani / romani è implicito nella scansione sintattica: «Legati in senatum introducti nun345
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tiarunt caedem C. Flamini consulis exercitusque. Q ue allata ita affecit regem Hieronem…». Da questa lezione, in effetti, emerge che gli ambasciatori riportano la notizia della sconfitta di Flaminio al re Gerone, il quale se ne dispera: pertanto gli ambasciatori siracusani diventano romani e il senato romano diventa siracusano. 22, 42, 8 auspicio non addixissent] a. non addixissent Ax 115ra (lezione dubbia, da correzione di adduxissent), a. non addidissent (come sembra) X 33rb, a. non adduxissent Z 106ra. TRADa «non avevano li auspiti accresciuti» (Lo 56ra) richiede addidissent (da addo ‘accrescere’), mentre TRADb «non apportarono auspizii» (BV II, 164) postula adduxissent. 22, 49, 11 in hac strage militum meorum patere] in hac s. m. m. patrieque Z 106vb. TRADa «e ancora in questa strage di mei cavallieri e della patria» (Lo 57vb), TRADb «in questo abattimento de’ miei militi e della patria» (BV II, 185). 22, 52, 3 seorsum cives] se eorum c. codd. antiquiores, sed eorum c. X 34rb Z 107rb. TRADa «Ma li costoro cittadini» (Lo 58vb), TRADb «Ma i loro cittadini» (BV II, 197). 22, 57, 7 Placatis satis, ut rebantur, deis] p. satis verebantur deis codd. antiquiores, p. sacris verebantur deis X 35ra Z 107vb. TRADa «placati li sacriffitii, temevano l’idii» (Lo 60ra) e TRADb «placati gli dii con sacrifici onoravano» (BV II, 213) discendono da placatis sacris («sacrifici»).
Classe IV: emendazioni di Valla 21, 4, 2 minimum momentum. L’emendazione momentum, contro monumentum, è annotata dal Valla nel margine di A 93rb ed è registrata in Antidotum in Facium IV 4, 2 (cf. Regoliosi 1981a, 328). TRADa «picciolo momento» (Lo 21vb), TRADb «minimo movimento» (BV I, 9). La presenza di momento in TRADa indica che la lezione momentum circolava già (almeno) all’epoca della composizione del testo volgare. Anche la versione della TRADb pare riconducibile alla stessa fonte, poiché ‘movimento’ è appunto il significato principale di momentum (che deriva, per sincope, da movimentum). In Z 94rb e in X 1rb si legge monimentum. Per la diffusione della lezione momentum in alcuni codd. recenziori, cf. Regoliosi 1981a, 300. 346
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
21, 31, 6 qui iure minus, vi plus poterant, pellebatur. Il passo è emendato dal Valla, sia sul margine di A 98va che in Antidotum in Facium V 4, 14 (cf. Regoliosi 1981a, 329-330). In particolare, la correzione vi sana qui della tradizione latina, che trasmette qui iure minus qui plus poterat pellebatur (poterant è restauro del Gronovius): questa forma è rispecchiata da TRADa «il qualle… con meno ragione da chi più potteva era cacciato» (Lo 30rb). Diversamente TRADb «da colui che meno aveva di ragione e più di forza era cacciato colui che non poteva» (BV I, 101-102) postula un esemplare latino fornito sia della lezione difesa dal Valla vi («forza») sia dell’erroneo qui («colui che»). In X 4ra si legge qui iure minus (om. qui) plus poterat pellebatur e in Z 97ra qui iure minus qui plus poterat pellebatur. 21, 54, 2 cum quibus. L’emendazione, registrata in Antidotum in Facium IV 4, 34 (cf. Regoliosi 1981a, 333), corregge cum viribus della tradizione. TRADa «colli qualli» (Lo 37vb), e così TRADb (BV I, 182): entrambi i volgarizzamenti, quindi, leggevano un testo latino che recava cum quibus. Inoltre la mano che corregge viribus con quibus in A 103rb non sembra quella di Valla. Q uesti elementi fanno ritenere che Valla abbia fatto propria la lezione buona che trovava in A: il caso non è certo isolato (cf. le considerazioni di Regoliosi 2001, 202 sgg.). Infine, anche in X 6vb e Z 99va cum quibus; questa lezione è attestata, inoltre, nel cod. Ambrosiano A 232 inf. (sec. XV, prima metà), c. 19v (cf. Regoliosi 1981b, 301). 22, 22, 6 exsolvit. Abelux erat. L’emendamento corregge la forma ex societate duxerat: nel margine di A 110vb si leggono i due restauri exolvit e Abelox (la prima parola è ricostruita anche a fine rigo, completando il segmento exol- con l’aggiunta di -uit) che sono ribaditi in Antidotum in Facium IV 5, 14 (cf. Regoliosi 1981a, 339; 2005, 3334). TRADa «Sciolse… Era stato… menato» (Lo 49rb), TRADa «sciolse… Egli era ducha…» (BV II, 89); la prima versione interpreta duxerat univerbato come forma del verbo duco ‘menare’; la seconda rende dux erat. Entrambe, comunque, riflettono exsolvit («sciolse»), che d’altra parte è presente nella famiglia Θ: in X 10vb exolvit. Dux erat e in Z 103va exsolvit. Duxerat (univerbato, come nel modello di TRADa). 22, 23, 9 pauca reliquerat tecta. L’emendazione reliquerat annotata dal Valla sul margine di A 111rb, contro legi qua erat diffusa nella 347
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tradizione, corrisponde alla proposta dei suoi avversari Facio e Panormita, che l’avrebbero senz’altro attinta da qualche fonte: «id si vos non conceditis, nec ipse concedam vobis istud vos invenisse, sed aut e libro, aut ex homine didicisse»; così Valla in Antidotum in Facium IV 5, 16 (cf. Regoliosi 1981a, 340; 1981b, 291; 2001, 207; 2005, 36-37), là dove è ricordata anche l’altra ipotesi di restauro, parimenti trascritta in A, cioè siqua reliqua erant tecta. In tutti i casi, si tratterebbe di ripristinare un elemento della famiglia lessicale di relinquo. Tale elemento è presupposto dalle versioni di TRADa «scelti alquanti tecti li qualli rimassi v’erano» (Lo 50ra) e TRADb «poche case di quella… lasciate» (BV II, 97): «rimassi [‘rimasti’] v’erano» e «lasciate», infatti, derivano necessariamente da una forma di relinquo, non certo da legi qua erat. Semmai sarà da notare che le due lezioni alternative sembrerebbero compresenti nel l’esemplare di TRADa, giacché, oltre a «rimassi v’erano», qui si trova anche «scelti», che postula legi (da lego ‘scegliere’). Conferme giungono dal ramo Θ: se X 31ra reca ancora pauca legi qua erat tecta, in Z 103vb si legge invece pauca reliquerat tecta. E si tenga presente che la lezione reliquerat è trasmessa anche dal cod. Valencia, Biblioteca de la Catedral, 173, c. 118ra (come indica Regoliosi 1981b, 293) e da altri codd. recenziori (per cui cf. Reeve 1987a, 158). 22, 30, 3 parentibus… meis. L’aggettivo meis aggiusta mediis nel l’interlinea di A 112vb e in Antidotum in Facium IV 5, 20 (cf. Regoliosi 1981a, 341). Per quanto possa essere scontato – anche per un traduttore non particolarmente avveduto – restituire il senso corretto del dettato originario (parentibus richiama meis, non mediis), meis è presupposto sia da TRADa «alli mei parenti» (Lo 52rb) sia da TRADb «a’ miei parenti» (BV II, 120). Anche in X 32ra parentibus… mĩs e distintamente in Z 104va parentibus… meis. Per un altro cod. Ambrosiano latore della lezione meis, cf. Regoliosi 1981b, 301.
Si dovrà aggiungere che altri casi notevoli non confluiscono in alcuna delle classi proposte. Uno fra questi, per esempio, è documentato in 21, 60, 3 omnem oram: il segmento è omesso da Λ A2 L Θ ma è presente nel ms. (già ricordato) di Valencia, Biblioteca de la Catedral, 173, uno dei discendenti contaminati 348
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
di Λ, databile intorno al 1290 23. TRADa non rende la pericope: «cominciato da’ Lacetani, […] infine al fiume Ibero» (Lo 40va); al contrario TRADb rifletterebbe omnem oram, «cominciatosi da’ Lacetani, tutta quella marina infino al fiume Hybero» (BV I, 205), per cui quest’ultima versione farebbe riferimento a un testo latino affine al ms. Valenciano o con la stessa tendenza alla contaminazione (il caso è simile a quello descritto in Classe III 22, 16, 3) 24. Altre volte risulta dubbio se la lezione latina a monte della traduzione attestata converga con una delle ipotesi di restauro eccellenti e recepite dalla critica come frutto esclusivo dell’ingenium del correttore (fermo restando che l’ingenium può sposarsi con i riscontri documentari per via francamente poligenetica): per es. 22, 18, 9 medicos quoque plus interdum quiete quam movendo atque agendo proficere. Il restauro medicos… quiete del Valla (cf. A 110ra e Antidotum in Facium V 5, 10, Regoliosi 1981a, 338) sana media… quippe (così A, mentre medico… quippe si trova in altri codd.; l’ed. oxoniense registra medico… quiete in un tardo correttore del cod. Mediceus, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 63.20). TRADa rende: «alcuna volta con la pigritia e con lo starsi si fa più che movendossi e facendo» (Lo 48ra) e TRADb «e per certo alcuna volta molto più dimorando di profitto farsi che muovendosi e sforzandosi» (BV II, 76). Ora, è pensabile che media… quippe giustifichi tali versioni (risp. «con la pigritia e con lo starsi» e «dimorando», sorte eventualmente per attrazione contestuale, attribuendo cioè a media il valore di ‘requie, tregua’ da opporre a movendo atque agendo), oppure – e più plausibilmente – si dovrà postulare una fonte latina con media (certamente non medico)… quiete? Nei codd. intervistati di Θ non c’è traccia di quiete (X 10va, Z 103ra), che pure compare nel cod. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 63.20 (lo conferma l’apparato dell’ed. Drakenborch 1738-1746 ad locum). A proposito di Θ, un’indagine meno cursoria fra i suoi rappresentanti potrebbe fornire risultati in parte diversi; ciò 23 Cf. Reeve 1987a, 156-157. Sul codice cf. anche Billanovich et alii 1958, 265-275 (con datazione più bassa, alla metà del sec. XIV). 24 Tenendo sempre in considerazione – lo si ripete ancora – le cautele espresse alla n. 16 e in taluni loci dello spoglio circa l’affidabilità di BV in quanto testimone della TRADb.
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detto, appare evidente che quasi tutte le lezioni presupposte dai volgarizzamenti sono partecipate da almeno uno dei testimoni di questa famiglia (con qualche eccezione significativa – comunque ancora provvisoria – come in Classe II 22, 36, 7 sudasse, limitatamente a TRADa), che conferma pertanto la sua pertinenza genetica con la scrittura delle traduzioni 25. All’interno di questa pur limitata campionatura, risultano piuttosto frequenti i casi di difformità tra le due versioni che non sono da imputare a motivi endogeni al processo di traduzione (motivi stilistici, espressivi, legati alla maggiore o minore comprensione dell’originale, ecc.), ma sono da riferire alla presenza di fonti latine divergenti. Includendo anche i casi dubbi, questa circostanza si riscontra in: Classe I 21, 39, 10; 22, 1, 17; 22, 27, 9; 22, 37, 1; 22, 49, 11; 22, 49, 16; 22, 50, 4; 22, 53, 11; Classe II 21, 27, 8; 21, 36, 1; 22, 12, 4; 22, 34, 5; 22, 36, 7; 22, 49, 11; 22, 54, 4; 22, 56, 3; Classe III 21, 25, 10; 21, 52, 9; 21, 52, 10; 22, 1, 15; 22, 12, 2; 22, 16, 3; 22, 19, 12; 22, 42, 8; Classe IV 21, 31, 6; 22, 22, 6; 22, 23, 9. Q uesto gruppo può essere ulteriormente dettagliato: vi si può isolare, per esempio, un sottoinsieme individuato da quelle versioni che sembrano rinviare alla coesistenza, nel modello latino, di forme che la tradizione trasmette come alternative. Appartengono a questa tipologia: Classe II 21, 36, 1; 22, 34, 5; Classe IV 21, 31, 6; 22, 23, 9. Inoltre, è da menziare il caso in cui (almeno) un volgarizzamento esprime una lezione buona attestata nei rami alti della tradizione, a fronte dello scadimento di tale lezione nei rami più bassi (per cui si dovrà pensare o alla dipendenza da un esemplare latino contaminato o, quando possibile, a un felice restauro testuale di qualche codd. recenziore): la circostanza si verifica in Classe II 22, 49, 11b iterum (solo per TRADb). Infine, è pos sibile che almeno una versione rispecchi una congettura mo Billanovich 1953, 323 n. 3 sosteneva che i volgarizzamenti di fatto rappresentino i testimoni (per quanto indiretti) più antichi di Θ (il primo rappresentante latino risale, come detto, al 1389). In mancanza di una solida ricognizione della consistenza testuale dei tanti e multiformi codici recentiores, dediti alla contaminazione, risulta difficile collocare con sicurezza i testi volgari in una linea precisa della tradizione; il caso appena descritto di 21, 60, 3 omnem oram, insieme ad altri che abbiamo visto (talvolta sembra persino che si debba risalire a una fonte latina con più lezioni alternative compresenti), invitano quanto meno alla cautela nell’interpretazione delle parentele. 25
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VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
derna promossa dagli editori o una lezione buona di un testimone successivo: così, rispettivamente, in Classe I 22, 49, 16 ‹consul› suggerito da Gronovius (solo TRADb) e in Classe II 22, 49, 8 etiam sine hoc (TRADa e TRADb) 26. L’interesse che esercitano casi come gli ultimi appena ricordati è prettamente storico, non certo critico-testuale; sapere se una lezione buona si trovi attestata già prima di quello che tradizionalmente si crede (sulla base delle edizioni) fa parte della ricostruzione della storia, che non altera in alcun modo la materia del testo critico e, in linea teorica, non inficia la perspicacia del proponente famoso, di cui, ad ogni modo, si apprezza la competenza, non la fama: «As editors must judge conjectures on their merits and not on their authorship, it is a matter of historical and not textual interest if a conjecture assigned by the O.C.T. [Oxford Classical Texts] to the editio princeps already occurs in a manuscript of 1464 or s. XIII2. Certainly Valla, Gronovius, and Madvig, knew more Latin than most of us and on average are more likely than most of us to have had good reasons for making a conjecture; but if we accept the conjecture, we accept it because their reasons sway us, not because we revere their names» 27. La storia e le forme dei testi latini si specchiano nelle traduzioni, che così possono contribuire, da testimoni accreditati, allo studio della tradizione dei classici: non per contestare l’originalità di una congettura buona, che tale rimane, ma per allargare il quadro di riferimento, offrendo nuovo materiale da vagliare e da far reagire con le vicende (illustri nel caso di Livio) che vedono protagoniste le opere antiche nel Medioevo e nell’Umanesimo.
Bibliografia Azzetta 1992 = L. Azzetta, Un’antologia esemplare per la prosa trecentesca e un’ignorata traduzione da Tito Livio: il Vaticano Barberiniano lat. 4086, IMU 35, 1992, 31-85 Azzetta 1993 = L. Azzetta, Tradizione latina e volgarizzamento della prima Deca di Tito Livio, IMU 36, 1993, 175-197
Cf. quanto detto supra alla n. 24. Reeve 1987b, 437; considerazioni analoghe in Regoliosi 1995, 1310.
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Baudi di Vesme 1875 = C. Baudi di Vesme (ed.), I primi quattro libri del volgarizz. della Terza Deca di Tito Livio attribuito a Giovanni Boccaccio, voll. I-II, Bologna 1875 (rist. anast. Bologna 1968) Bertelli 2002 = S. Bertelli, I manoscritti della letteratura italiana delle origini. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze 2002 Billanovich 1951 = G. Billanovich, Petrarch and the textual tradition of Livy, JWI 14, 1951, 137-208 [= Billanovich 2004, 1-101] Billanovich 1953 = G. Billanovich, Il Boccaccio, il Petrarca e le più antiche traduzioni in italiano delle Decadi di Tito Livio, GSLI 130, 1953, 311-337 Billanovich 1981 = G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, vol. I: Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo, (Studi sul Petrarca 9), Padova 1981 Billanovich 2004 = G. Billanovich, Itinera. Vicende di libri e di testi, a cura di M. Cortesi, vol. I, Roma 2004 Billanovich et alii 1958 = G. Billanovich – M. Ferraris – P. Sambin, Per la fortuna di Tito Livio nel Rinascimento italiano, IMU 1, 1958, 245-281. Blum 1951 = R. Blum, La Biblioteca della Badia fiorentina e i codici di Antonio Corbinelli, Città Del Vaticano 1951 Burgassi 2015 = C. Burgassi, I volgarizzamenti di Livio (già attribuiti a Boccaccio): appunti sul testo e sulla tradizione, in F. Ciabattoni – E. Filosa – K. Olson (a cura di), Boccaccio 1303-2013, Ravenna 2015, 139-147 Casella 1982 = M. T. Casella, Tra Boccaccio e Petrarca. I volgarizzamenti di Tito Livio e di Valerio Massimo, Padova 1982 Ciccuto et alii 2012 = M. Ciccuto – G. Crevatin – E. Fenzi, Reliquiarum servator. Il manoscritto Parigino latino 5690 e la storia di Roma nel Livio dei Colonna e di Francesco Petrarca, Pisa 2012 De Franchis 2000 = M. De Franchis, Le livre 30 de Tite-Live et la double tradition des livres 26 à 30 = Livy’s Book 30 and the Double Tradition of Books 26-30, RPh 74, 2000, 17-41 De Franchis 2015 = M. De Franchis, Livian Manuscript Tradition, in B. Mineo (ed.), A Companion to Livy, Chichester 2015, 3-23 Drakenborch 1738-1746 = A. Drakenborch (ed.), T. Livii patavini Historiarum ab Urbe condita libri qui supersunt omnes, Amstelaedami – Lugduni Batavorum 1738-1746 Fiorilla 2012 = M. Fiorilla, I classici nel “Canzoniere”. Note di lettura e scrittura poetica in Petrarca, Roma – Padova 2012 Folena 1956 = G. Folena (ed.), La Istoria di Eneas vulgarizata per Angilu di Capua, Palermo 1956 352
VOLGARIZZAMENTI LIVIANI E FONTI LATINE
Lippi 1977-1978 = E. Lippi, Una redazione particolare del volgariz zamento liviano, Studi sul Boccaccio 10, 1977-1978, 27-40 Lippi 1979 = E. Lippi, Per l’edizione critica del volgarizzamento li viano, Studi sul Boccaccio 11, 1979, 125-198 Luchs 1879 = A. Luchs (ed.), T. Livi Ab Urbe condita libri, a vicesimo sexto ad tricesimum, Berlin 1879 Pizzorno 1845 = F. Pizzorno (ed.), Le Deche di T. Livio, vol. V, Savona 1845 Reeve 1987a = M. D. Reeve, The Third Decade of Livy in Italy: the Family of the Puteaneus, RFIC 115, 1987, 129-164 Reeve 1987b = M. D. Reeve, The Third Decade of Livy in Italy: the Spirensian Tradition, RFIC 115, 1987, 405-440 Regoliosi 1981a = M. Regoliosi (a cura di), Laurentii Valle Antidotum in Facium, (Thesaurus mundi 20), Patavii 1981 Regoliosi 1981b = M. Regoliosi, Lorenzo Valla, Antonio Panormita, Giacomo Curlo e le emendazioni a Livio, IMU 24, 1981, 287-316 Regoliosi 1986 = M. Regoliosi, Le congetture a Livio del Valla: metodi e problemi, in O. Besomi – M. Regoliosi (a cura di), Lorenzo Valla e l’Umanesimo italiano. Atti del Convegno internazionale di studi umanistici (Parma, 18-19 ottobre 1984), (Medioevo e Umanesimo 59), Padova 1986, 51-71 Regoliosi 1995 = M. Regoliosi, ‘Divinatio’ e ‘Collatio’: il restauro di Livio operato dal Valla, in L. Belloni – G. Milanese – A. Porro (a cura di), Studia classica Iohanni Tarditi oblata, vol. II, Milano 1995, 1299-1310 Regoliosi 2001 = M. Regoliosi, La filologia testuale tra Petrarca e Valla, in L. Chines – P. Vecchi Galli (a cura di), Verso il Centenario. Atti del Seminario di Bologna, 24-25 settembre 2001, Q uaderni petrarcheschi, 11, 2001, 189-214 Regoliosi 2005 = M. Regoliosi, Il metodo filologico del Valla: tra teoria e prassi, in P. Galand-Hallyn – F. Hallyn – G. Tournoy (édd.), La Philologie humaniste et ses représentations dans la théorie et dans la fiction. Actes du Colloque international de l’université de Gand (6 au 9 novembre 2002), vol. I, Genève 2005, 23-46 Tanturli 1986 = G. Tanturli, Volgarizzamenti e ricostruzione dell’antico. I casi della terza e quarta Deca di Livio e di Valerio Massimo, la parte del Boccaccio (a proposito di un’attribuzione), Studi medievali n.s. 27, 1986, 811-888 Tanturli 2010 = G. Tanturli, Filologia del volgare intorno a Salutati, in C. Bianca (a cura di), Coluccio Salutati e l’invenzione dell’Uma nesimo. Atti del Convegno internazionale di Studi (Firenze, 29-31 ottobre 2008), Roma 2010, 83-144 353
C. BURGASSI
Vaccaro c.d.s. = G. Vaccaro, Tradizione e fortuna dei volgarizzamenti italiani, Pisa in c.d.s. Vagenheim 2014 = G. Vagenheim, Le Emendationes in Titum Livium di Lorenzo Valla nell’edizione di Arnold Drakenborch (1738-1746). Fonti per lo studio della filologia classica nel Settecento, in L. Bertolini – D. Coppini – C. Marsico (a cura di), Nel cantiere degli umanisti. Per Mariangela Regoliosi, vol. III, Firenze 2014, 1317-1324 Vanin 2013 = B. Vanin, I manoscritti medievali in lingua volgare della biblioteca del Museo Correr, Padova 2013 Walters – Conway 1967 = C. F. Walters – R. S. Conway (edd.), Titi Livi Ab Urbe condita, vol. III: libri XXI-XXV, Oxford 1967 Zaggia 2009 = M. Zaggia (ed.), Ovidio, Heroides. Volgarizzamento fiorentino trecentesco di Filippo Ceffi, vol. I: Introduzione, testo secondo l’autografo e glossario, Firenze 2009
Abstracts This chapter deals with Livy’s vernacular translations from both a linguistic and philological point of view. The analyses seek to highlight important aspects of the tradition of Livy’s text, and demonstrate that vernacular translations can provide useful information about the correction process of the Ab Urbe condita libri, with special regard to the interventions found in the codex Harleianus (London, British Library, Harley 2493), traditionally ascribed to Petrarch and Valla. L’intervento ha preso in considerazione alcuni aspetti dei volgarizzamenti liviani che riguardano sia la lingua della traduzione sia la tradizione del testo latino degli Ab Urbe condita che vi si rispecchia. A questo proposito, in particolare, si sono presentati alcuni casi che mostrano come i volgarizzamenti possano dare informazioni sul processo di correzione e di revisione del testo classico, con riferimento agli interventi critici tradizionalmente attribuiti a Petrarca e al Valla sullo stesso manoscritto (Londra, British Library, Harley 2493).
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NICOLETTA GIOVÈ MARCHIOLI – MARCO PALMA
LIVIO NEL Q UATTROCENTO FRA MANOSCRITTI E STAMPA STRUTTURE MATERIALI E GRAFICHE
1. Bisogna essere un po’ sconsiderati, oppure, in positivo e meno autocriticamente, bisogna avere molto coraggio se si pensa di voler affrontare e definire più o meno compiutamente la questione della facies dei codici (e, aggiungerei, degli incunaboli) liviani del Q uattrocento. Ma da sconsiderata, o da coraggiosa, avevo comunque questa ambizione. I casi della vita, almeno quelli della mia vita recente, me lo hanno impedito. E questo forse è stato un bene, perché, da una prima esplorazione avviata, ciò avrebbe significato entrare in un vasto mare, anzi in un oceano, con approdi certo talora anche ben conosciuti, comunque seguendo rotte lunghe, se non difficili, da ricostruire, verso una meta ultima lontana e apparentemente irraggiungibile. La scelta forzata cui sono stata costretta e della cui bontà sono tuttavia, e non forzatamente, convinta è stata allora quella di allettarvi. Allettarvi con una serie di dati che tenteranno di mostrare non solo le straordinarie ricchezza e diversità formale dei codici liviani quattrocenteschi, ma anche l’altrettanto grande varietà delle persone che quei libri hanno scritto, hanno voluto far confezionare, hanno letto, hanno scambiato, hanno comperato. Dunque una lunga e vivace schiera di copisti, magari conosciuti o riconoscibili, di committenti importanti, di lettori famosi, di acquirenti interessati, di bibliofili curiosi. In altre parole, mi limiterò necessariamente quasi solo a citare una serie di codici talora noti e a illustrare un elenco di nomi nel complesso abbastanza celebri, cercando nel contempo di sottolineare – con la prospettiva, o la speranza, futura di ricostruirli in maniera più distesa e completa – anche la complessità e gli intrecci A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 355-388 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117498
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dei meccanismi di circolazione di questi codici, di delineare insomma quella rete di scambi dei manoscritti liviani che già mi appare fitta e continua. Con tre necessarie precisazioni, che sono anche delle limitazioni che voglio imporre al mio discorso. La prima. Non entrerò, cautamente, neppure per un momento nelle questioni filologiche relative alla tradizione e alla diffusione del testo liviano, in particolare nel XV secolo, e ai rapporti fra i singoli codici o fra famiglie di manoscritti 1: si tratta di questioni evidentemente di grande spessore e di cui è opportuno essere almeno consapevoli, ma che esulano altrettanto evidentemente dai miei interessi e dalle mie competenze. Seconda precisazione. Farò considerazioni che tengono conto in particolare dei testimoni del testo originale di Livio, ma con uno sguardo rivolto anche verso i volgarizzamenti, peraltro molto diffusi, i quali, riguardando un altro pubblico e altri circuiti produttivi, presentano una struttura materiale e delle caratteristiche grafiche tutt’affatto diverse e dunque originali 2. Non mi sarà possibile invece osservare nel dettaglio la compresenza, molto frequente, delle decadi con altri testi, a partire dalla Vita Livii e dall’opera di Floro – mentre accanto ai volgarizzamenti liviani compare spesso l’operetta Degli ufficiali e degli uffici di Roma – e neppure le epitomi liviane, composizioni altrettanto diffuse e dalla fisionomia altrettanto cangiante. Non ho, infine, la pretesa di presentare una ricerca organica e dunque risultati del tutto nuovi. Sarò al contrario di molto debitrice nei confronti di chi, pur non studiando nello specifico la fisionomia grafica e codicologica dei codici liviani quattroGli autori hanno discusso e deciso insieme il testo, ma ciascuno si è occupato e ha trattato autonomamente di una questione diversa: Nicoletta Giovè Marchioli dei manoscritti liviani, Marco Palma degli incunaboli liviani. 1 Sulla tradizione liviana gli interventi più significativi, per quanto incentrati soprattutto sulla terza e sulla quarta decade, sono naturalmente quelli di Reeve 1986; 1987a; 1987b. Indicazioni utili, per quanto sommarie, arrivano poi da Reynolds 1983, ma soprattutto dalla serie dei fondamentali studi di Giuseppe Billanovich, in particolare Billanovich 1963; 1981a; 1981b; 1986; 1989. 2 Dei volgarizzamenti liviani, che si attribuiscono anche a interventi di grandi letterati, come nel caso di quello della quarta decade, da ascriversi ragionevolmente a Giovanni Boccaccio, dà un quadro abbastanza completo per quanto inevitabilmente invecchiato il volume di Casella 1982, preceduto in parte da Billanovich 1953 e Lippi 1979, cui si possono accostare anche i lavori di Tanturli 1986; 2013.
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centeschi, ha almeno individuato e raccolto moltissimi di questi stessi codici. Penso naturalmente al già ricordato Michael Reeve e anche ad Albinia de la Mare, per menzionare solo due studiosi fra coloro che, anche in anni relativamente recenti, hanno prodotto lavori, talora di ampio respiro, che sono stati per me importante punto di partenza e testi di continuo riferimento e confronto 3. Dunque non ho l’ambizione di proporre un quadro del tutto nuovo e completo, bensì quella, più modesta, di farvi conoscere i manoscritti di Livio e le persone che li hanno scritti e sfogliati. In esordio una notazione di ordine vagamente quantitativo. Ho tentato di raccogliere tutti i testimoni delle decadi liviane, in latino come in volgare, datati esplicitamente oppure databili al XV secolo, in un corpus che risulta impressionante, arrivando, al momento in cui sto chiudendo questo mio scritto, a ca. 300 unità. Una consistente ricchezza numerica cui corrisponde una grande varietà di cronologie, di centri di confezione e di luoghi di conservazione. Ma è indubbio che a farla da padrone sono alcune città italiane in particolare: Roma, come anche altre solo apparentemente minori o, meglio, meno ricorrenti, quali Milano o Venezia. Ma soprattutto e inevitabilmente Firenze, centro motore della rivoluzione umanistica, in cui si diffonde un rinnovato interesse per Livio. A questa pluralità dei luoghi di produzione corrisponde una non certo inaspettata sostanziale unitarietà formale se non della maggioranza, almeno di una parte consistente dei codici. Livio è uno degli autori classici in particolare più praticati dagli umanisti, più presenti nelle loro biblioteche, più frequenti nelle loro letture. Per questa ragione i manoscritti liviani, perlomeno molti manoscritti liviani, hanno una facies tutto sommato non solo ben riconoscibile, ma soprattutto rispettata, esito inevitabile della combinazione fra determinati ambiti di produzione e determinate committenze. Potrei dire, un po’ provocatoriamente, che sono molto spesso codici poco interessanti, in quanto fortemente conservativi, ripetendo esemplare dopo esemplare una serie di aspetti comuni che sono poi quelli che tradizionalmente e convenzionalmente 3 Accanto ai già citati saggi di Reeve va ricordato almeno il più specifico intervento di de la Mare 1971.
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contraddistinguono il libro cosiddetto all’antica nella sua forma più consolidata ed elegante. Si tratta dunque di prodotti librari poco innovativi, i cui elementi più connotanti sono ben riassunti nel ms. London, British Library, Harley 2684, confezionato a Firenze nel secondo o terzo quarto del XV secolo, con la terza decade 4. Abbiamo a che fare, come in questo caso specifico, con manufatti seriali di livello altissimo, di dimensioni piuttosto variabili e comunque non sempre troppo ampie, accomunati dall’uso prevalente della pergamena, di norma molto ben lavorata, visto che si presenta sottile, piuttosto chiara, con un ridotto contrasto fra lato carne e lato pelo. La loro fascicolazione prevede tuttavia l’uso dei quinioni, e non dei quaternioni, secondo la moda in voga nell’Italia quattrocentesca. In un recupero antiquario, la rigatura è molto spesso a secco, eseguita non solo con la tabula ad rigandum bensì talvolta con il punctorium, come indica la presenza, frequentemente ben visibile quando non è solo parzialmente rifilata, della foratura, mentre la mise en page è organizzata di norma a piena pagina. Accanto a questi elementi strutturali spicca, per il loro straordinario livello, ma anche per la loro ripetitività, la monotona e statica perfezione assoluta della scrittura e della decorazione. I testimoni del Livio latino sono di fatto spesso eseguiti nelle due più originali realizzazioni grafiche del Q uattrocento, italiano e non solo, dunque nella cosiddetta minuscola umanistica, cioè la littera antiqua restaurata, e nella cosiddetta umanistica corsiva, che possiamo altrettanto legittimamente chiamare corsiva all’antica, come bene illustrano, fra i tantissimi possibili, i due esempi rappresentati dal ms. London, British Library, Harley 3694 5, testimone della quarta decade scritto a Firenze intorno al 1470-1480 e appartenuto ad Alfonso II d’Aragona, ornatissimus codex, come lo definisce a ragione il copista, riconoscendo il valore della decorazione, attribuita a Francesco Rosselli, e il ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana 484 6, con la prima decade, scritto nel 1464 4 Cf. http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID =6631&CollID=8&NStart=2684. Si precisa che tutti i siti citati sono stati controllati per l’ultima volta in data 29 luglio 2019. 5 Cf. http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID =8200&CollID=8&NStart=3694. 6 Cf. De Robertis – Miriello 1997, 27 nr. 31.
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da Filippo Corsini e decorato dal celebre miniatore fiorentino Mariano del Buono. Naturalmente non sempre le singole esecuzioni sono nitide e stilizzate, e possono tradire al contrario mani incerte e meno canonizzate, come rivela il ms. Oxford, Bodleian Library, Digby 144 7, con la terza decade, confezionato a Siena nel 1466, che pure esibisce una pagina iniziale decorata a bianchi girari. Si tratta in questo caso di un’umanistica corsiva dall’andamento irregolare, che occupa lo spazio in maniera altrettanto irregolare e in cui non mancano integrazioni e correzioni. Anche nell’ornamentazione troviamo impiegati gli stilemi più caratteristici e raffinati propri del libro umanistico all’antica, e cioè la pagina incipitaria decorata con iniziale in oro inserita in una cornice a bianchi girari; cornice che si può presentare in una serie di variazioni articolate e che è in ogni caso sempre arricchita da raffigurazioni di animali come anche da tondi con ritratti virili e, nel margine inferiore, da una ghirlanda d’alloro retta da putti alati in cui inserire lo stemma del fortunato possessore del codice. Le iniziali in oro a bianchi girari ritornano a scandire i libri in cui si partiscono le decadi, e si accompagnano a titoli spesso in oro o in rosa. Q uesta già di per sé opulenta costruzione di base si può ulteriormente ampliare contemplando anche la rappresentazione dell’autore, oppure può mutarsi, sostituendo i bianchi girari con una decorazione vegetale, fitta in particolare di elementi floreali, in cui non manca comunque l’oro, come nel ms. London, British Library, Yates Thompson 38 8, con la terza decade, confezionato intorno al 1470 a Firenze, probabilmente di mano dello stesso copista cui si devono il ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. lat. 1291 9, con la quarta decade, databile al settimo decennio del Q uattrocento, e il ms. Holkham Hall, The Library of the Earl of Leicester 350 10, con la terza, collocabile fra il 1455 e il 1460. Un apparato decorativo sontuoso in cui tuttavia (e questo si riscontra in particolare nei codici Cf. https://medieval.bodleian.ox.ac.uk/catalog/manuscript_4260, sub numero. Cf. http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID =8124&CollID=58&NStart=38. 9 Cf. Pellegrin et alii 1975, 512. 10 Cf. Reynolds 2015, 234-236. Abbiamo a che fare con un copista specializzato in Livio, come specializzato in Livio è il miniatore del ms. londinese, Francesco di Antonio del Chierico, che avremo modo di incontrare più volte. 7 8
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liviani prodotti in ambito fiorentino) non sono frequenti le illustrazioni, a riassumere visivamente in scene dettagliate il contenuto della narrazione, come avviene in modo eclatante in alcune significative eccezioni, a partire dal ms. Glasgow, University Library, Hunter 370 11, testimone della terza decade, realizzato a Milano intorno al 1450, in cui, accanto a iniziali minori vegetali su fondo oro spiccano le iniziali maggiori dei singoli libri, che sono istoriate, disposte a due registri su fondo oro, con decorazioni vegetali nel margine, e che raffigurano gli episodi, spesso molto cruenti, narrati nel testo che segue. Non si conosce il nome dell’artista che ha decorato il codice, né quello del copista che lo ho realizzato, anche se l’uno viene identificato con il cosiddetto «Maestro delle Vitae imperatorum» e l’altro con Lorenzo Dolabella. Diversi, mi permetto di aggiungere per fortuna, appaiono invece, e non sorprendentemente, i testimoni dei volgarizzamenti liviani. Destinati, lo avevo anticipato, anche a lettori molto distanti dalla supponente élite umanistica, i libri con Livio in volgare seguono piuttosto altre mode grafiche e codicologiche, uniformandosi ai modelli del codice di lingua del Q uattrocento. Del Q uattrocento italiano, prevalentemente, sebbene non manchi qualche caso, del tutto eccezionale, e per questa ragione nel contempo forse del tutto poco rappresentativo, di libri con Livio tradotto in altra lingua vernacolare. Abbiamo a che fare di norma con un manufatto molto più essenziale e molto meno riconoscibile, con dimensioni variabili, che talora risultano non indifferenti, come nel caso del ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana 1514 12, con la prima decade, della prima metà del secolo, che misura mm. 409 × 283, talora più contenute, come in un altro codice della Riccardiana, il ms. 1556 13, con la quarta decade, scritto fra il 1451 e il 1452, che
11 Cf. http://special.lib.gla.ac.uk/manuscripts/search, sub numero e http:// special.lib.gla.ac.uk/exhibns/month/oct2005.html. 12 Cf. De Robertis – Miriello 2006, 12 nr. 23. 13 Cf. De Robertis – Miriello 2006, 20 nr. 40. Il volume, essenziale nella sua forma, tanto da avere ridotto al minimo la presenza della rigatura (sono infatti tracciate a colore solo le rettrici di testa e di piede) e della decorazione (che si riassume nelle iniziali semplici a inchiostro) rappresenta un originalissimo dono a un neonato: come si legge in una nota al f. Ir, datata 1584, il libro appar-
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misura mm. 290 × 203. Comuni invece a molti testimoni sono scelte più di basso profilo, dall’utilizzo prevalente, se non esclusivo, del supporto cartaceo, pur dal formato in-folio, alla fascicolazione irregolare e con fascicoli molto consistenti (frequentemente di 16 o di 18 fogli), alla rigatura, eseguita molto spesso a colore, più precisamente a mina di piombo, che prevede in molti casi le sole righe di testa e di piede e quelle verticali di giustificazione, a definire semplicemente lo specchio di scrittura. Si ripete in un gran numero dei Livi in volgare la medesima fisionomia tanto della scrittura quanto della decorazione. È la mercantesca a dominare fra i copisti di questi codici, pure in un ampio e diversificato ventaglio di esecuzioni, che arrivano anche a realizzazioni dall’asse fortemente raddrizzato, ben eseguite e ben leggibili, in virtù della presenza di un’ampia unità di rigatura. Né mancano d’altro canto bastarde che si rifanno alla cancelleresca, così come corsive meno definite, se pure influenzate sempre dalla mercantesca. Sorprende tuttavia la presenza non indifferente di mani che usano l’altro modus scribendi, dunque le scritture al tratto, attingendo tanto alle esperienze del sistema moderno, quanto dal sistema grafico della littera antiqua, magari in esecuzioni non sempre disinvolte, quando addirittura stentate, come testimonia il ms. London, British Library, Add. 15286 14, con il volgarizzamento della terza decade, copiato nel 1464 a Venezia dal dalmata Giorgio da Sebenico in una minuscola umanistica rigida e un poco impacciata, oltre che minuta, non priva tuttavia di una sua qualche eleganza; un fatto, questo, che mi pare davvero sorprendente e di cui parlerò più diffusamente oltre. Per quanto riguarda infine la decorazione, fatte salve eclatanti e peraltro non infrequenti eccezioni, che ripropongono una modesta imitazione dello stilema dei bianchi girari, nel loro complesso i testimoni dei volgarizzamenti liviani rimangono fedeli alla consolidata ed essenziale ornamentazione in rosso e blu, che prevede la presenza di iniziali filigranate, gerarchicamente organizzate, in rosso, blu e viola, accanto a rubriche e segni di paragrafo in rosso e a maiuscole toccate di giallo. Una decorazione che talora sfuma tenne a Simone Girolamo Arrighi, nato il 15 giugno 1583, che fu il pronipote di Simone Arrighi, il copista del codice. 14 Cf. Watson 1979, 42 nr. 124.
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nella più essenziale ed esclusiva presenza delle iniziali semplici in rosso e che può anche scomparire del tutto, lasciando eventualmente solo la traccia delle buone e mancate intenzioni negli spazi riservati. Bene testimoniano questo stato di cose i mss. Firenze, Biblioteca Riccardiana 1516 15, con la prima decade, scritto fra il 14 novembre 1466 e il 28 ottobre 1467, mentre il ms. 1517, della stessa Riccardiana, ancora una volta con la prima decade, datato 10 giugno 1463 e copiato da Francesco di Paolo Piccardi (che ha realizzato anche il ms. Riccardiano 1518 16), sembra in qualche modo far trasparire il definirsi di situazioni di compromesso, visto che le iniziali in oro su fondo bipartito sono compatibili piuttosto con una decorazione all’antica. Fra i volgarizzamenti non possiamo non collocare le testimonianze, forse eccentriche rispetto al contesto tutto italiano in cui ci stiamo muovendo, rappresentate dai codici che conservano la traduzione in francese del testo liviano, versione realizzata negli anni Cinquanta del Trecento, probabilmente verso il 1355, da Pierre Bersuire, su incarico del sovrano di Francia Giovanni II il Buono. Sfogliare i sontuosi codici dell’Histoire de Rome è come entrare in un altro mondo, non solo dal punto di vista grafico. Mi limito a citare un caso eclatante, ma non unico, e pertanto sufficientemente rappresentativo, quello del ms. London, British Library, Lansdowne 1178 17, con la prima decade, realizzato a Parigi intorno al 1415-1420. Si tratta di un codice membranaceo, a due colonne, che misura mm. 360 × 270, in lettre bâtarde di grande eleganza non troppo pesante e chiaroscurata, la cui sovrabbondante decorazione si può facilmente intuire, appartenuto a Béraud III, conte di Sancerre, morto nel 1426, le cui armi costellano il manoscritto. Un libro-gioiello, di estrema raffinatezza, da guardare, ammirare e custodire come un oggetto prezioso, più che da leggere, come peraltro molto spesso sono i volumi che contengono quest’opera. Ma i testimoni della Cf. De Robertis – Miriello 2006, 12 nr. 24. Cf. De Robertis – Miriello 2006, 12-13 nr. 25. Il ms. Riccardiano 1518, volume con la terza decade volgarizzata, presenta delle caratteristiche materiali del tutto simili al ms. 1517, ma è stato scritto non in una raddrizzata corsiva di base mercantesca, bensì in una littera antiqua. 17 Cf. https://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID =5235&CollID=15&NStart=1178. 15 16
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traduzione di Bersuire seguono anche un altro modello, tutt’affatto diverso, quello cioè che si rifà idealmente al codice universitario tardomedievale a due colonne, come testimonia ad esempio il ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, Fran. 263 18, contenente tutte le decadi e proveniente dalla celebre biblioteca di Jean de Valois, duca di Berry, di cui porta la nota di possesso al f. 481v e alla cui morte, nel 1416, passa alla sua secondogenita, Marie de Berry. Dalle notevoli dimensioni, mm. 420 × 310, databile intorno al 1402 – sulla base del fatto che compare nell’inventario dei libri del duca redatto in quell’anno – si presenta in una stilizzatissima littera textualis fracta fortemente assimilata e compressa, con una altrettanto elegante decorazione, in cui a illustrare nel dettaglio passi del testo, all’inizio di ciascun libro, spiccano vignette (quando non rappresentazioni a piena pagina, all’inizio di ciascuna delle tre decadi), le quali, come abbiamo già appreso, non sono invece sempre regolarmente presenti nei Livi umanistici. 2. Dagli oggetti agli uomini, dalle cose alle persone. Una linea rossa che è possibile seguire all’interno del complesso dei codici liviani riguarda la coerenza di molti testimoni, che appartengono a quelli che possiamo indicare come set, dunque come raccolte complete di tutte le decadi, di estrema raffinatezza, prodotte secondo un progetto unitario, ben riconoscibile e spesso anche ben documentato. Dietro questi corpora si riconoscono frequentemente, oltre che copisti di grande fama, anche committenti illustri, magari non sempre autenticamente interessati al testo, che può dilettare e nel contempo ammaestrare, ma comunque sempre desiderosi almeno di possedere, se non di leggere, un libro con l’opera di uno dei grandi rappresentanti della cultura classica. I codici liviani non mancano insomma nelle raccolte librarie in particolare di coloro che detengono il potere, siano essi laici o ecclesiastici, da Mattia Corvino a Novello Malatesta, a Federico da Montefeltro, a Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, a Ludovico Agnelli, arcivescovo di Cosenza 19. Cf. https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc78552b. Come giustamente osserva de la Mare 1971, 186, «most of the collectors who commissioned sets of Livy turn out to have been kings, popes, dukes or other rulers, cardinals, bishops or rich merchants. This is not surprising, for a complete 18 19
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I mss. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana 63. 10, 63. 11 e 63. 12 20, scritti a Firenze nel 1458 dal celebre copista Piero Strozzi per il tramite di Vespasiano da Bisticci – figura che ritroveremo come trait d’union fra committenti, scriptores e miniatori, a gestire una cospicua produzione di codici liviani – e decorati dall’altrettanto celebre miniatore fiorentino Filippo Torelli, rappresentano un gruppo fortemente coeso di libri con le tre decadi perfettamente sovrapponibili in tutti i loro aspetti, a partire dalle dimensioni, che misurano al massimo mm. 370 × 260, per giungere alla presenza, al loro interno, di una spettacolare antiporta arricchita dalla magnificenza dell’oro con cui sono scritte le lettere inserite in una cornice geometrica 21. La loro pergamena nivea e intatta, così come la loro decorazione ineccepibile, dimostrano ancora una volta che abbiamo a che fare con libri molto belli e poco sfogliati, che sono concepiti e vanno dunque intesi forse più come monumenti grafici eretti per celebrare i grandi esponenti della letteratura latina, così come per arricchire il tesoro materiale, prima ancora che culturale, di grandi personaggi. Nel caso di specie il possessore è Piero de’ Medici, che si pone in continuità, per quanto riguarda l’arricchimento della raccolta libraria di famiglia, non solo col figlio Lorenzo, ma anche col padre, Cosimo il Vecchio 22. Q uest’ultimo, grande e colto mecenate, dotato di «bonissima peritia delle lettere latine», secondo quanto puntualizza il suo biografo, il già citato Vespasiano da Bisticci, perseguì una con sapevole ed efficace politica culturale, e per lui Giovanni Aretino allestì nel 1412 a Firenze i mss. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 63. 4, 63. 5 e 63. 6, con le tre decadi, precoci testimonianze della nuova scrittura libraria umanistica 23. set of Livy, written on parchment and suitably copied and decorated, would have cost a great deal of money». 20 Cf. http://teca.bmlonline.it, sub numeris. 21 L’antiporta, lo si ricordi, è quel foglio singolo che precede l’inizio della compagine di un codice (così come, nei libri a stampa, il frontespizio, fungendo dunque, in questo caso specifico, da controfrontespizio), che è bianco di norma sul recto, mentre riporta sul verso l’indicazione del contenuto del volume, accompagnata da raffinati elementi ornamentali. 22 Sulle biblioteche di Cosimo e Piero de’ Medici si vedano almeno rispetti vamente de la Mare 1992 e Ames-Lewis 1984. 23 Cf. http://teca.bmlonline.it, sub numeris. Giovanni Aretino sottoscrive, in una leggera ed elegantissima capitale restaurata, sia il ms. 63. 5, datato 28 aprile
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Dai Medici possiamo passare ai Visconti: per la biblioteca di Filippo Maria nel 1432 furono confezionati tre codici, miniati dal già noto «Maestro delle Vitae imperatorum», col volgarizzamento fiorentino trecentesco delle decadi, che corrispondono, nell’ordine, ai mss. Oxford, Bodleian Library, Digby 224 24 – che si apre con una iniziale grande istoriata che presenta l’immagine di Livio seduto al tavolo di lavoro in un contesto ancora tutto di gusto gotico, mentre le iniziali medie dei singoli capitoli sono anch’esse istoriate, con ritratti di diversi personaggi – e Paris, Bibliothèque nationale de France, It. 118 – l’unico datato esplicitamente all’agosto di quell’anno – e 119 25, che presentano la pagina incipitaria con la medesima raffigurazione. Fra i cultori di Livio non poteva mancare il Bessarione. Per lui fra il 1453 e il 1454, forse a Bologna, viene realizzato il set di codici delle tre decadi corrispondenti agli attuali mss. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. Z. 362, 365 e 366 26, in cui, inserito nella consolidata decorazione a bianchi girari (forse di mano dell’attivissimo Francesco di Antonio del Chierico), troviamo appunto lo stemma del cardinale. A scrivere è il tedesco Iohannes Caldarifex, cioè Johannes Kessler, prete e canonico a Coblenza prima, cappellano e familiaris del cardinale spagnolo Antonio de la Cerda e del Bessarione poi, ma soprattutto uno dei più attivi e conosciuti copisti operanti nella Roma quattrocentesca, che bene si adeguò alle mode grafiche italiane, mimetizzandosi dunque perfettamente nel contesto grafico umanistico in virtù del fatto che usò sempre la littera antiqua 27: nello specifico 1412, che il 63. 6, terminato il 13 gennaio dello stesso anno. Non si dimentichi che Cosimo, come ricostruisce de la Mare 1971, 181, commissionò almeno un altro corpus liviano, di cui rimangono la prima decade, datata 1425, e la quarta, che risale invece al 1427: si tratta dei mss. Besançon, Bibliothèque Municipale 837 e 839. A completare il set è il ms. Besançon, Bibliothèque Municipale 838, appunto con la terza decade, cronologicamente posteriore e realizzato da Iohannes Cruder Theutonus haud ignobilis scriptor, che si sottoscrive al f. 254r usando una imponente antiqua rotunda: cf. http://memoirevive.besancon.fr/ ark:/48565/a01132318497295tLl5. I codici potrebbero essere poi stati donati al re di Napoli Alfonso I d’Aragona, appassionato lettore dello storico patavino. 24 Cf. https://medieval.bodleian.ox.ac.uk/catalog/manuscript_4346. 25 Cf. rispettivamente https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc9198d e https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc9199m. 26 Cf. Fiaccadori – Eleuteri 1996, 20 nr. 20. 27 Si tratta di uno dei tanti scriptores stranieri che nel corso del XV secolo operano in Italia utilizzando non le scritture che hanno appreso nei loro paesi
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una sua stilizzazione rotunda, con qualche vezzo antiquario, rappresentato ad esempio dall’uso di sigle segnalate da interpuncta per compendiare i praenomina. Annoto, a margine, come la compresenza in un unico codice di tutte le decadi, a creare quella che, mutuando il termine usato per indicare le bibbie in un solo volume, potremmo definire una vera e propria bibliotheca liviana, sia evenienza piuttosto rara, che si limita, perlomeno fra i manoscritti quattrocenteschi censiti in questa sede, a non più di una dozzina di attestazioni, ma che riguarda tanto il testo latino che il suo volgarizzamento 28. Attestazioni accomunate non tanto dalle dimensioni, frequentemente ma non necessariamente ampie, quanto piuttosto dal numero di fogli, quello sì obbligatoriamente ampio. Valga come esempio di alto livello il ms. Genève, Bibliothèque de Genève, fr. 77 29, col volgarizzamento di Pierre Bersuire, appartenuto anch’esso al duca di Berry, che possiamo a questo punto annoverare fra gli illustri cultori di Livio. Prodotto agli inizi del secolo XV a Parigi in una mossa ed elegante littera textualis, appare molto simile, nel suo adeguarsi ai modelli del libro gotico, all’altro testimone parigino dello stesso testo che abbiamo sopra citato. Spicca ancora una volta la decorazione di questo libro, che, accanto a numerose vignette inserite in una delle due colonne del testo, prevede le pagine incipitarie delle tre decadi decorate con una cornice vegetale ma, soprattutto, occupate nella metà superiore da quattro compartimenti quadrilobati istoriati su fondo oro, presenti anche in un altro volume con la medesima opera, il già citato ms. Lansdowne 1178. Torniamo alla questione dei committenti illustri, la cui sequenza può continuare ad esempio col ms. Firenze, Biblioteca
di origine, bensì i sistemi grafici che hanno contraddistinto il Q uattrocento italiano, facendo dunque in particolare proprie le esperienze grafiche umanistiche. Sulla questione si possono guardare la recente messa a punto di Pomaro 2016 e i due interventi di Giovè Marchioli 2010b e Radiciotti 2010, che riprendono anche ciò che ha anticipato Caldelli 2006, la quale alle pp. 114-115 parla proprio della figura del Caldarifex. 28 Ancora più rari, ridotti per la precisione a una sparuta rappresentanza di qualche esemplare, sono invece i casi di codici che contengono solo due decadi, non necessariamente in sequenza. 29 Cf. http://www.e-codices.unifr.ch/fr/description/bge/fr0077.
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Medicea Laurenziana, 63. 3 30, con la terza decade, terminato il 20 dicembre 1463 a Roma, in Palacio apostolico, a opera di due copisti, uno dei quali si sottoscrive come Yvo Bernier, chierico della diocesi di Nantes, che menziona il destinatario del libro, ovvero Sozino Benzi, medico di papa Pio II. Nella consueta cornice a bianchi girari che contraddistingue il foglio incipitario del codice compare il non inconsueto ritratto dell’autore intento a scrivere, seduto nel suo studio. I possessori dei codici liviani spesso non ne sono i committenti, ma, per rispondere alle loro esigenze di studio e diletto, possono magari raccogliere libri fatti scrivere per altri, in epoche anche anteriori. Valga solo la pena di citare qualche nome, a partire da quello di papa Niccolò V, cui appartennero i mss. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1855, con la quarta decade, di probabile origine emiliana e datato esplicitamente all’anno 1409, e Chigi H. VIII. 254, con la prima decade, degli anni Trenta del Q uattrocento e prodotto certamente a Firenze principalmente per mano di Giacomo Curlo, oltre al Vat. lat. 1859, degli inizi del secolo, che contiene addirittura l’intero corpus liviano 31. Codici dunque differenti per cronologia e fisionomia, che arrivarono nelle mani di Tommaso da Sarzana in epoche diverse, da lui acquistati o a lui dati in dono. Sui primi due libri abbondano le postille e le integrazioni di un lettore attento quale fu il Parentucelli, ma sottolineo un altro fatto, su cui ritornerò, e cioè la particolarità, se non, anzi, l’anomalia dell’ultimo codice, scritto in una littera textualis rotunda centro-italiana, che presenta una decorazione fitomorfa, propria del libro gotico, la quale riconduce con tutta certezza a Bologna. I possessori possono essere anche figure meno importanti di un papa o di un sovrano, ma comunque autorevoli ed eminenti nell’ambito delle lettere, quali Poggio Bracciolini oppure Giovanni Aurispa. È questo ad esempio il caso anche di Bartolomeo Fonzio (o Dalla Fonte), uno dei più importanti e versatili umanisti fiorentini della seconda metà del Q uattrocento, filologo, Cf. http://teca.bmlonline.it, sub numero. Descrive i manoscritti, considerando nel contempo il contesto del loro utilizzo, Manfredi 1991, ad anticipare quanto poi riprenderà in Manfredi 1994. 30 31
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traduttore dal greco, volgarizzatore di classici, anche bibliofilo e copista 32, che con la sua scorrevole e riconoscibile corsiva umanistica arricchisce con correzioni sistematiche e integrazioni testuali, usando spesso il colore rosso, tutti e tre i volumi in cui si partisce il ms. Holkham Hall, The Library of the Earl of Leicester 351. 1, 351. 2 e 351. 3 33. Abbiamo a che fare con un’altra collezione completa del testo liviano, scritta intorno al 1460-1470 a Firenze da un copista che non si sottoscrive ma che si può identificare in Gianfrancesco Marzi da San Gimignano, notaio dell’arcivescovo di Firenze, uno dei tanti scriptores specializzati nella trascrizione dei testi di Livio, visto che a lui si devono molti altri testimoni dell’opera dello storico padovano 34. Accanto ai copisti seriali di Livio e ai decoratori seriali di Livio con Fonzio ci imbattiamo nei commentatori seriali di Livio, visto che ritroviamo le sue puntuali emendazioni in altri tre set liviani coevi e anch’essi fiorentini, e precisamente i mss. Bologna, Biblioteca Universitaria 2233, 2241 e 2245 35, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 63. 7, 63. 8 e 63. 9 36 e München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 15731, 15732 e 15733 37. Il ms. Holkham Hall, The Library of the Earl of Leicester 349 38, scritto a Padova nel secondo quarto del secolo, e comunque prima del 1442, con la terza decade, testimonia della mano di un altro celebre possessore, l’umanista padovano Sicco Polenton, La complessa personalità del Fonzio bene emerge dai codici da lui trascritti, postillati e posseduti, che vengono esaminati in particolare da Caroti – Zamponi 1974. 33 Cf. Reynolds 2015, 236-240. 34 Come suggerisce Reeve 1987a, 154. 35 Copiati nel 1469 per il vescovo di Brescia Domenico Domenichi sempre a opera del Marzi. Cf. De Robertis et alii 2013, 219-220 nr. 45 (scheda di M. Marchiaro). 36 Copiati agli inizi degli anni Settanta del XV secolo per il banchiere fiorentino Francesco Sacchetti sempre a opera del Marzi – che si sottoscrive nel secondo dei tre volumi – e decorati probabilmente da Mariano del Buono. Cf. http://teca. bmlonline.it, sub numeris. 37 I codici furono copiati fra il 1469 e il 1470 da Piero Strozzi e decorati anch’essi da Mariano del Buono e Ricciardo di Nanni. Cf. http://daten.digitalesammlungen.de/~db/0008/bsb00081514/images/, http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0011/bsb00110820/images/, http://daten.digitale-sammlungen.de/ ~db/0011/bsb00110821/images/ e https://opacplus.bsb-muenchen.de/metaopac/ search?oclcno, sub numeris. 38 Cf. Reynolds 2015, 232-234. 32
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il quale interviene direttamente sul libro non solo apponendovi una serie continua di glosse, ma anche segnalando nomi e date. Merita una qualche attenzione il copista cui si attribuisce, con buona certezza, la trascrizione del codice, che certamente fu anche commissionato dal suo colto possessore. Si tratta infatti di quel frate Giacomo da Padova, il quale, il 22 gennaio 1420, ha copiato il ms. Padova, Biblioteca Civica, B. P. 339, contenente gli statuti della Fratalea dei notai padovani nella versione elaborata dallo stesso Polenton (che, lo ricordiamo, era a sua volta notaio ed era stato a lungo cancelliere del Comune padovano) e, nel 1439, ha realizzato anche il ms. Padova, Biblioteca Antoniana 559, contenente la biografia di alcuni dei rappresentanti più illustri del pantheon dei santi padovani. Si tratta cioè di un’opera ancora una volta di Sicco Polenton che raccoglie le vite di Antonio da Padova, del beato Antonio Pellegrino e della beata Elena Enselmini. Insomma ci imbattiamo nel copista di fiducia dell’umanista, copista che va identificato con un frate Giacometto documentato presso il convento di S. Antonio di Padova nel 1434 e poi dal 1440 al 1444 e che usa una littera textualis un po’ rigida ma elegante, la quale sembra passata indenne attraverso la rivoluzione grafica umanistica, del tutto coerente, almeno nel codice liviano, con la conservativa ornamentazione con motivi vegetali diffusa a Padova nella prima metà del Q uattrocento 39. Parliamo allora proprio dei copisti. Molti di coloro che hanno confezionato i codici liviani, in particolare quelli più eleganti e curati, prodotti ad esempio a Firenze o a Roma per quella schiera di importanti lettori quali stiamo via via incontrando, sono fra i rappresentanti più famosi e prolifici del mondo grafico umanistico: di loro, della loro vita, dei capolavori librari che hanno realizzato sappiamo molto, moltissimo, forse quasi tutto 40. Eppure, intenti a copiare il testo liviano non sono solo celebri copisti professionisti laici, ma anche, lo abbiamo appena visto, membri più o meno importanti del mondo religioso, regolare e secolare, attivi Sul copista cf. Giovè Marchioli 2010a, 379. La ricostruzione dell’attività dei copisti dell’Umanesimo quattrocentesco, in particolare fiorentino, che partendo dall’analisi grafica muta di segno e diventa anche una ricostruzione prosopografica, prende in qualche modo le mosse dal l’importante lavoro di de la Mare 1985. 39 40
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in ambienti tutt’affatto diversi, come è il caso del frate Giovanni Bartoli da Signa, che scrive probabilmente nel convento agostiniano di Santo Spirito di Firenze, dalla ricca e celebre biblioteca. A lui si deve la serie liviana costituita dagli attuali mss. Berlin, Staatsbibliothek Preußischer Kulturbesitz, Hamilton 402, con la prima decade, Montpellier, Bibliothèque interuniversitaire. Section Médecine, H. 115, con la terza decade e Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ferrajoli 562 41, con la quarta decade, che Giovanni da Signa copiò a Firenze nel 1416 utilizzando una testuale rotunda con influenze della minuscola umanistica, tipologia grafica che ritornerà, come stiamo osservando, in molte altre realizzazioni. E per rimanere sulla questione dei copisti, sfogliando i codici liviani, soprattutto in volgare, ci imbattiamo anche in molti individui che operano nei circuiti della produzione per così dire amatoriale e che, per usare una celebre ed efficace definizione di Vittore Branca, sono copisti per passione. Da questi codici, come in generale dai libri del volgare, irrompe una serie ricca, ortograficamente e linguisticamente spesso scorretta e graficamente non sempre troppo ortodossa di scriventi non prevedibili, talora improbabili, che nell’estrema varietà dei loro ruoli e della loro educazione grafica presentano comunque dei tratti comuni. Interessati abitualmente a testi devozionali – ma anche ai versi petrarcheschi o ai volgarizzamenti di Aristotele e, appunto, di Livio –, capaci di esibirsi in scritture quasi sempre corsive, dagli esiti diseguali, ma spesso di discreto livello, parlano apertamente di loro stessi e dei loro mestieri. Così incontriamo barbieri, farsettai e speziali, saponai, sellai, lanaioli e orafi, ma anche rigattieri, tintori e coltellai, e infine vinattieri, come il fiorentino Miniato Baldesi, il quale, affascinato evidentemente dall’opera di «Tolivio padovano, scielentissimo poeta e racchontatore delle antiche storie romane», come precisa nella sua sottoscrizione, al f. 89vA, copia la prima decade in volgare, in un’esile e minuta mercantesca, nel già menzionato ms. Riccardiano 1516.
Cf., nell’ordine, http://www.manuscripta-mediaevalia.de, sub numero, http://bvmm.irht.cnrs.fr, sub numero e Buonocore 1996, 359-361 nr. 86 (scheda di A. Manfredi). 41
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Q uesti copisti, va precisato, molto frequentemente non sentono la necessità di sottolineare la paternità della copia, quanto piuttosto di affermare la proprietà del libro, bene prezioso e risultato di un’attività che spesso può essere stata lenta e faticosa. La cosa trova conferma in sottoscrizioni in cui la dichiarazione di possesso prevale su quella dell’autografia e si combina con l’ossessione di perdere i propri codici – di cui qualcuno si può impadronire proditoriamente – o di vederli danneggiati dai fanciulli e dalla lucerne, pericolosi alla stessa maniera, dati il valore e la fragilità del libro, soprattutto se cartaceo. 3. Prima di concludere, desidero fare un’ultima e necessaria riflessione, rispetto a una circostanza che bene emerge già a un primo e cursorio sguardo e che però sarà necessario verificare ulteriormente per bene. Mi riferisco a una innegabile sconfitta o a un rimescolamento o rovesciamento degli stereotipi e delle aspettative, direi dei luoghi comuni, che io stessa sinora ho seguito e ribadito, a partire dal fatto che il codice liviano in latino è in molte, moltissime attestazioni, rigidamente conforme al modello del libro umanistico più in generale, seppure in una certo non inaspettata gradazione di esiti. In realtà ci imbattiamo, e tutto sommato, lo ripeto, più frequentemente di quanto si sarebbe potuto immaginare, in manoscritti che, da un lato, sono estremamente essenziali nella loro struttura formale, tanto da poter essere assimilati ai testimoni meno curati dei volgarizzamenti e che, dall’altro, rimangono fortemente ancorati ai dettami del libro cosiddetto gotico, allontanandosi decisamente dalla fisionomia ideale del codice all’antica. È quanto è possibile osservare ad esempio nel ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. lat. 1581 42, con la terza decade, copiato il 24 aprile 1464 a Terni (o forse invece a Teramo), in una minuta corsiva ben lontana da quella all’antica, da Antonio da Faenza, il quale ha utilizzato un exemplar corruptum, come lui stesso ammette in una delle sue due sottoscrizioni, al f. 173v: si tratta di un libro cartaceo in-folio (ma che misura in realtà solo mm. 292 × 218), in senioni rigati con la tabula ad rigandum, con iniziali filigranate in rosso e violetto, talora Cf. Pellegrin et alii 1975, 618.
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non completamente realizzate, mentre del tutto non realizzati sono i titoli, per i quali sono pure stati riservati gli spazi. Per quanto riguarda invece la seconda circostanza, essa emerge con tutta evidenza ad esempio dall’esame dei mss. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 63. 16 e 63. 17 43. Sono codici sostanzialmente coevi, databile l’uno, con la prima decade, agli inizi del XV secolo, datato l’altro, con la terza decade, al 10 ottobre 1421, membranacei e simili per mise en page, a due colonne, e per dimensioni, misurando rispettivamente mm. 370 × 260 e 380 × 260. Ci imbattiamo in libri che si ispirano piuttosto alla morfologia del manoscritto universitario tardomedievale (come conferma anche la scelta delle scritture usate), salvo che per la quasi totale – e comunque significativa – assenza di elementi decorativi a scandire la mise en texte, se eccettuiamo, nel primo volume, le rubriche in rosso, attestate peraltro solo raramente. Nel primo caso abbiamo a che fare con una littera textualis altamente formalizzata, che mette in atto tutte le strategie previste dal suo canone per rendere ben distinte le parole grafiche e ben leggibile il testo. Nel secondo manoscritto osserviamo invece una realizzazione più semplificata e leggera della testuale, che scivola verso un aspetto meno curato e preciso, pure nel rigoroso mantenimento delle scelte strutturali ed esecutive che sono proprie del sistema moderno. In realtà nei codici liviani troviamo spesso anche scritture di contaminazione, che sfuggono ai tentativi di inserirle in gabbie classificatorie inadeguate e che testimoniano di influenze della littera antiqua su un tessuto grafico nel complesso moderno o, all’opposto, di esecuzioni della minuscola umanistica non perfettamente liberate dalle scelte caratterizzanti la littera textualis. Cito a conferma un caso utile per continuare a entrare nel meccanismo degli opposti o anche delle semplificazioni, quale il ms. Padova, Biblioteca Universitaria 1414, testimone della prima decade, copia in realtà di un incunabolo con l’edizione uscita a Venezia nel 1470 e derivante a sua volta dall’editio princeps uscita a Roma nel 1469, come suggerisce Stephen Oakley, cui devo la notizia 44. Ai miei occhi il codice è interessante soprattutto Cf. http://teca.bmlonline.it, sub numeris. La correlazione fra codici e incunaboli, di cui parlerà diffusamente Marco
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perché rappresenta un’esecuzione per così dire spoglia rispetto agli elevati standard formali del libro all’antica: si tratta infatti di un volume cartaceo, in-folio ma di dimensioni non elevate, mm. 292 × 208, in cui si succedono più mani latamente umanistiche, sebbene di buon livello, nelle quali tuttavia si sentono molto forti gli echi della littera textualis, e con una decorazione a penna di fatto limitata al foglio iniziale. Passando al Livio volgare, il gioco dei paradigmi formali si inverte nuovamente. Come è eccentrica la realizzazione di esemplari in latino diversi dai più convenzionali e standardizzati codici umanistici liviani, così è altrettanto sorprendente la scoperta di libri testimoni del volgarizzamento di Livio che si presentano nella monotona e superba forma del tutto sovrapponibile a quella dei Livi umanistici: potremmo forse supporre che il consolidato rapporto fra contenuto e contenitore sia stato così canonizzato da diventare esempio cogente, vischioso, da dovere essere insomma per forza imitato. Solo così si spiega la straordinarietà di codici come il ms. Valencia, Universitat de València, Biblioteca Històrica 383 45, testimone della prima decade in volgare, databile intorno al 1475 e proveniente dalla raccolta libraria dei sovrani aragonesi di Napoli 46, per l’esattezza realizzato per il futuro Alfonso II d’Aragona 47. La pergamena bianchissima, la minuscola umanistica, la stupefacente decorazione a bianchi girari sovrabbondante di oro e di colori in cui si rincorrono motivi classici ci portano, o, meglio ci porterebbero, in un altro mondo. Palma, può dunque essere osservata, seppure in casi molto sporadici, anche nella sua fase di ritorno, per così dire, in un rapporto rovesciato, fra l’antigrafo a stampa e l’apografo manoscritto. Alla questione, elencando una serie di codici derivanti dall’editio princeps del testo liviano del 1469, si fa un cenno sia in Reeve 1986, 167, che in Reeve 1987a, 154. 45 Cf. http://trobes.uv.es, sub numero. 46 Per la biblioteca aragonese di Napoli si veda almeno De Marinis 19471952 e 1969. 47 Ricordo per inciso che il predecessore di Alfonso II, dunque Alfonso I d’Aragona, che già sappiamo essere stato un grande appassionato di Livio, si fece confezionare, nella bottega di Vespasiano da Bisticci, anche un corpus del testo latino, corrispondente ai mss. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 34, 35 e 36, decorati anche questa volta da Francesco di Antonio del Chierico, databili fra il 1455 e il 1456 e scritti da Piero Strozzi, il cui nome è già stato menzionato in questa sede per avere realizzato altri testimoni dell’opera liviana. Cf. Buonocore 1996, 386-391 nr. 100-102 (schede di G. Lazzi).
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E non si tratta di un unicum: anche il ms. Valencia, Universitat de València, Biblioteca Històrica 382 48, con la terza decade volgarizzata, terminato il 27 gennaio 1476 con tutta certezza a Firenze e decorato forse dal già noto Francesco di Antonio del Chierico, e il ms. Valencia, Universitat de València, Biblioteca Històrica 386 49, con la quarta decade, anch’esso fiorentino, copiato probabilmente poco prima del 1478 e decorato dal già citato Mariano del Buono – ambedue personaggi onnipresenti nell’orizzonte liviano – si presentano nella stessa maniera. Gli esempi potrebbero continuare, a partire dal ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II. I. 377 50, membranaceo, confezionato forse a Ferrara nel terzo quarto del secolo XV, testimone del volgarizzamento boccacciano della quarta decade, realizzato in una littera antiqua restaurata leggera e allungata, che si apre ancora una volta con una pagina dalla fitta e curata decorazione a bianchi girari impreziosita dalla presenza dell’oro. A conclusione, un’ultima riflessione, sul fatto che i codici con Livio in volgare testimoniano a loro volta di una circostanza che abbiamo sopra ricordato, e cioè del fatto che si usano anche al loro interno scritture per così dire di compromesso, esito spesso dell’influenza della minuscola umanistica su di un tessuto grafico improntato invece al sistema della littera moderna, così che le realizzazioni che ne derivano possono essere ascritte all’uno o all’altro sistema in modo analogamente legittimo. Conferma questa tendenza in quanto scritto in tal modo il ms. Wien, Österreichische Nationalbibliothek, lat. 91 51, con la terza decade in volgare, copiato certamente in Lombardia nel 1448 da Ruggero Ferrari da Trezzo, che si sottoscrive al f. 288r: elegante libretto (misura infatti mm. 280 × 190), con una decorazione che contempla la consueta combinazione fra bianchi girari e oro. Al f. 2v troviamo, nel margine inferiore, le iniziali in oro BAL PU collocate ai lati dello stemma imperiale asburgico: le lettere rimandano a Baldassare della Pusterla, importante personaggio della corte milanese, tanto che fu lui ad accompagnare Bianca Maria 50 51 48 49
Cf. http://trobes.uv.es, sub numero. Cf. http://trobes.uv.es, sub numero. Cf. De Robertis et alii 2013, 127 nr. 21 (scheda di M. L. Tanganelli). Cf. http://manuscripta.at, sub numero.
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Sforza, figlia di Galeazzo Maria, quando, nel 1494, andò in sposa all’imperatore Massimiliano I, al quale rimanda invece ovviamente l’aquila bicipite, aggiunta verosimilmente in un momento posteriore. * * * La storia editoriale di Livio nel Q uattrocento si può riassumere in queste cifre: ventuno edizioni fra 1469 e 1498, di cui tredici del testo latino e otto di versioni in italiano, francese e castigliano, prodotte quasi tutte in Italia (tranne una a Parigi e un’altra a Salamanca) da illustri personaggi della prototipografia, tra i quali Konrad Sweynheym e Arnold Pannartz, Ulrich Han, Vindelino da Spira, Giovani Rosso da Vercelli, Ulrich Scinzenzeler. Gli esemplari superstiti di tanta attività sono diverse centinaia e meriterebbero di essere descritti e studiati singolarmente, quali testimoni della fortuna di questo autore in un’epoca che ha visto convivere la produzione a stampa con quella manoscritta, illustrata nella prima parte di questa relazione. Mi limiterò quindi a proporre un tipico studio di caso, relativo alla coesistenza e correlazione di un codice e di un incunabolo, quello della princeps. Il ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana 487 contiene la quarta decade liviana. È un manoscritto cartaceo di 236 fogli, il verso dell’ultimo dei quali reca questo colophon: Absolutus die 23 septembris Romae. Anno 1469. Di conseguenza l’esemplare è stato inserito nel 1997 da Teresa De Robertis e Rosanna Miriello nel primo volume dei manoscritti datati della Riccardiana, secondo della serie dei Manoscritti datati d’Italia 52. Vale senz’altro la pena, per chiarire i termini della questione che stiamo per affrontare, riportare il loro giudizio: «La mano che ha scritto la data è quella delle prime 20 carte del codice e la stessa che ha segnalato nei margini, in inchiostro rosso, i luoghi notevoli e ha compiuto un’accurata revisione del testo. Q uesta mano è da identificarsi con quella di Andrea Bussi per l’edizione di Sweynheym e Pannartz del 1469 (IGI 5769): presenta nei margini la corrispondenza con le pagine dell’edizione e le impronte delle dita del tipografo macchiate di inchiostro; nel testo, in rosso, indica Cf. De Robertis – Miriello 1997, 27 nr. 32.
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tori per la composizione, per l’uso delle maiuscole, per la punteggiatura e per la divisione in paragrafi». Che il Riccardiano 487 fosse l’esemplare utilizzato per la princeps era stato annunciato 15 anni prima da Giuseppe Billanovich con queste parole: «Rivelo – rimediando agli sciupii degli editori, che per le Decadi e più ancora per le Periochae si sono ritenuti obbligati a riportare le varianti dell’editio princeps – che sopravvivono almeno due codici che il Bussi prima corresse intensamente e poi mandò in tipografia per costruire questa edizione: il fiorentino Riccardiano 487, con la IV Decade – cartaceo, di fogli 236; in fine, 236v, «Absolutus die 23a Sept(embris) Romae; anno 1469»: cioè apprestato espressamente a servizio di questa stampa –, e il Vaticano lat. 6803, che a 1r-53r presenta le Periochae scritte dallo stesso Bussi e che fu poi posseduto e studiato da Angelo Colocci» 53. Nel 1986 Michael Reeve aveva ripreso in esame la questione dal punto di vista filologico osservando: «As Billanovich has said, the editio princeps of the fourth decade was printed from Florence Ricc. 487 […]. Ff. 1-20 are written in a small and elegant cursive, the rest in a script without pretensions to anything but clarity; a German hand, no surprise at the press of Sweynheym and Pannartz, has marked the pagination of the edition princeps, but an Italian hand has covered the text with corrections and the margins with notes in red, mostly summaries but here and there an instruction to the printer such as f. 65v hic est relinquendum spatium pro uno nomine aut duobus. The annotator was the editor, Giovanni Andrea Bussi: not only does the hand match the later specimens of his writing in his zibaldone, Vat. Lat. 5219, but unless I am mistaken the scribe of ff. 1-20 also copied out the funeral oration on Bessarion (d. 1472) in Vat. Lat. 5219 ff. 115r-118r. The final note in red, f. 236v absolutus die 23 [or 13?] Sept. Romae anno 1469, evidently gives the date when Bussi finished preparing the manuscript for the printing; the edition princeps must therefore be later, a fact hitherto unknown to incunabulists» 54. Cf. Billanovich 1982, 342-343. Cf. Reeve 1986, 166. L’autore torna, con qualche incertezza, sull’attribuzione a Bussi della mano dei primi 20 fogli del Riccardiano 487 in Reeve 1987a, 131. 53 54
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Ora gli incunabolisti lo sanno, tanto che il loro portale, lo ISTC, riporta letteralmente l’opinione di Reeve, datando l’edizione a non prima del 23 (o 13) settembre 1469 55. Al riguardo si può sgombrare con relativa sicurezza il campo dall’incertezza circa il giorno del mese: il confronto fra la prima cifra del giorno e quella dell’anno sembra non lasciare dubbi circa il fatto che si tratti di un due. Siamo quindi di fronte a conclusioni diverse circa il significato dell’espressione usata da Bussi a chiusura del Riccardiano 487: per le redattrici del catalogo dei datati si tratta della conclusione della trascrizione del codice, per il filologo inglese della chiusura della revisione del testo in vista della stampa. Il colophon è scritto in rosso in caratteri minuti, e ormai leggibili con difficoltà nella prima parte, nel margine inferiore dell’ul timo foglio, in una posizione inconsueta per questo tipo di brevi testi, di solito vergati almeno con pari rilievo rispetto al resto. L’ultimo libro della decade è inoltre chiuso da un Amen in maiuscole di modulo maggiore rispetto alla ordinarissima minuscola del testo. A ciò si aggiunga il fatto assai singolare della evidente differenza della grafia del copista rispetto a quella del colophon: chi termina di scrivere un testo verga di solito anche l’espressione che suggella la conclusione del suo lavoro. A questa stranezza il catalogo dei datati Riccardiani pone rimedio riconoscendo nella mano del colophon quella che ha vergato i primi venti fogli del codice, palesemente diversa da quella che ha continuato per i restanti 216 fogli la trascrizione. Il confronto fra le due grafie è impietoso nei confronti della seconda, una scrittura di difficile definizione, semplificata fino ad apparire elementare, quasi del tutto priva di legamenti, di cui giustamente Reeve dice che non ha altre pretese che quella di essere chiara, verosimilmente soprattutto agli occhi di chi deve comporre il testo per la stampa. I due primi quinioni del codice si presentano invece in una umanistica corsiva dotata di tutte le caratteristiche di questo tipo grafico, che tanta fortuna ha avuto nel Q uattrocento italiano: il modulo è modesto, abbondano abbreviature e legamenti. La data del Riccardiano 487, con la sola indicazione dell’anno 1469, figura fra parentesi quadre nell’elenco di 40 «printer’s copies» (manoscritte e a stampa), finora note, in Hellinga 2014, 69 nr. 4. 55
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Comprenderla e trascriverla scegliendo i giusti caratteri dalla cassa doveva costare una fatica notevole al compositore, che avrà quindi gradito il cambio di mano dal f. 21 in poi. Come abbiamo visto, la mano dei primi venti fogli è riconosciuta nel catalogo dei datati come quella di Giovanni Andrea Bussi, mentre Reeve accenna a un confronto con il copista del l’orazione funebre di Bessarione nel ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5219. I tre studiosi concordano comunque nell’attribuire al curatore dell’edizione le note di cui sono costellati i margini del Riccardiano 487. La verifica di questa identificazione si presenta più agevole nei primi 20 fogli, nei quali il confronto fra il testo e le note marginali è immediato, ma può proseguire senza difficoltà nel resto del manoscritto. In rosso o in nero una mano umanistica corsiva ha riassunto il contenuto dei passi con brevi espressioni, ma soprattutto ha corretto, integrato, soppresso, preparato cioè per la composizione il testo in un’infinità di punti. Le differenze con la grafia del testo liviano sono molto evidenti: basti accennare, per la morfologia, all’occhiello inferiore sovradimensionato della g, all’esecuzione veloce, quasi dissociata nei suoi elementi, della m, al tratto curvo all’indietro che corona le aste alte, tutte caratteristiche estranee alla mano iniziale del codice. Ma soprattutto si può fare riferimento ad esempi sottoscritti da Bussi, come quello del ms. Roma, Biblioteca Vallicelliana, B. 61 56. Alla fine della trascrizione della Historia Langobardorum di Paolo Diacono, al f. 240v, Bussi pone data topica e cronica, attestando di aver terminato la trascrizione a Brunico l’8 aprile 1460 e aggiungendo di aver trovato l’antigrafo nella biblioteca della chiesa di Bressanone: Finis VI et ultimi libri. Exemplar inveni in biblioteca aecclesiae Brixinensis, cuius episcopus est reverendissimus dominus meus dominus Nicolaus de Cusza, tituli Sancti Petri ad Vincula Sanctae Romanae Ecclesiae presbyteri cardinalis. Descripsi, ut vides, confuse in Bruneccha, oppido Norico eiusdem aecclesiae Brixinensis. Anno 1460, die VIII° aprilis absolvi. Deo gratias. Iohannes Andreas.
Cf. Busonero et alii 2016, 71-72 nr. 100 (scheda di P. Formica).
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La sua mano coincide evidentemente con quella dell’annotatore e correttore del Riccardiano 487, ma non con quella che ha vergato i primi 20 fogli del manoscritto. Alla luce di quanto finora accertato, tentiamo ora di spiegare il senso dell’espressione, di mano di Bussi, che chiude il Riccardiano: quale operazione è stata portata a termine a Roma il 23 settembre 1469? Sembra improbabile, data la forma, la posizione e la diversità della mano del colophon rispetto alle due che hanno scritto il testo liviano, che si tratti di una vera e propria sottoscrizione conclusiva. D’altra parte il verbo absolvo, presente al perfetto anche nel colophon del Vallicelliano B. 61, è utilizzato normalmente da Bussi sia quando finisce di copiare un testo sia quando ne termina la revisione, come nel caso del ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5991, un Plinio per cui fu aiutato da Teodoro Gaza: […] absoluta recognitio est die VIII aprilis 1470. Romae 57. Potremmo quindi concordare con Reeve, attribuendo alla data del 23 settembre 1469 il significato di fine della revisione. Proviamo comunque a entrare nell’officina di Sweynheym e Pannartz, che all’epoca dell’edizione di Livio si erano installati a Roma nei locali messi a loro disposizione dai fratelli Pietro e Francesco Massimo, non lontano da Campo de’ Fiori. I due prototipografi produssero in circa quattro anni, fra 1468 e 1472, decine di edizioni, soprattutto di classici (fra gli altri Apuleio, Cesare, Cicerone, Erodoto nella versione di Lorenzo Valla, Lucano, Silio Italico, Virgilio), ma anche di Padri della Chiesa e grandi autori medievali, tra i quali Cipriano, Leone Magno, Niccolò da Lira, Tommaso d’Aquino. Si verificò quindi una crisi di sovrapproduzione, probabilmente il primo caso nella fino ad allora brevissima storia dell’editoria scientifica, tanto che, nella premessa alla terza edizione della Postilla super totam Bibliam di Niccolò da Lira, Bussi invoca l’intervento di Sisto IV con queste eloquenti parole: Da nobis subsidium de excelso throno maiestatis tuae; parati sumus pro clementiae tuae arbitrio, de nostra merce, id est de impressis quinternionibus nostris, tibi tot tradere quot volueris et quibus volueris 58. Fornisce anche il numero delle copie Cf. Miglio 1978, L n. 15. Cf. Miglio 1978, 84.
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complessivamente stampate: 12475, di cui 275 per il nostro Livio 59 (in base ai dati di ISTC ne sopravvivono 43, frammenti compresi 60). Per ottenere questi risultati Sweynheym e Pannartz avevano bisogno di modelli, che evidentemente si dovevano trovare sul mercato romano, per i loro compositori, ma anche di qualcuno che garantisse l’attendibilità dei testi. Al primitivo entusiasmo per l’ars artificialiter scribendi era infatti subentrato presto lo scetticismo circa la qualità intrinseca del prodotto, che i tipografi non erano in grado di assicurare. Nasce quindi allora la figura del curatore editoriale, quello che con il consueto anglismo chiameremmo oggi editor, una persona in grado di controllare ope ingenii e, se del caso, ope codicum, la genuinità del testo da imprimere. Bussi incarna perfettamente questa figura, ovviamente con tutti i limiti delle sue conoscenze e della fretta che gli imponevano i suoi datori di lavoro. Il principio che lo animava era la possibilità di rendere accessibili testi famosi a un pubblico enormemente più vasto di quello che poteva permettersi di acquistare manoscritti anche non particolarmente decorati e graficamente eleganti. Meglio quindi produrre molto e in tempi stretti che preoccuparsi della correttezza filologica. Q uesta posizione gli è valsa già dagli uomini di cultura contemporanei, ma anche dagli studiosi dei nostri tempi, una imponente messe di critiche, riassumibili nel concetto che Bussi non si dimostra un editore scientifico. Sarebbe stato certo strano il contrario, date la quantità e varietà di testi da lui varati in pochissimi anni secondo criteri ecdotici lontanissimi da quelli della grande filologia di ogni tempo 61. Il suo metodo prevedeva l’acquisizione di un antigrafo sufficientemente attendibile, al quale apportava le opportune modifiche sulla base delle proprie conoscenze linguistiche e dell’usus scribendi dell’autore, ma anche procurandosi da biblioteche pubbliche e private, compresa quella papale, esemplari che gli fornissero lezioni alternative. Da questa prassi deriva una contaminatio imponente e di difficile discernimento, data la quantità di interventi che il curatore apportava senza distinguere minimamente fra Cf. Miglio 1978, 83. Cf. ISTC, il00236000. 61 Cf. Miglio 1978, XXXVIII. 59 60
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quanti erano frutto della sua acribia e quanti derivavano dall’uso di diversi antigrafi. Per la filologia formale si tratta di un autentico rompicapo, alla cui soluzione gli editori moderni di solito si sottraggono perché troppo impegnati con i rami alti della tradizione, oltre che naturalmente perché non sono molte le copie di tipografia finora note. La quantità e qualità degli interventi di Bussi nel Riccardiano 487 stupisce per la sua abbondanza: non c’è praticamente linea del manoscritto in cui, alternando irregolarmente inchiostro rosso e nero, il vescovo di Aleria in Corsica non abbia suggerito modifiche, indicato spostamenti di parole, frasi o interi brani, dato disposizioni sulla mise en page. Tutte le sue proposte sono accolte nella stampa, ad eccezione delle glosse in rosso sui margini laterali, relative al contenuto dei passi, la cui impressione richiedeva probabilmente conoscenze tecniche superiori a quelle dell’arte tipografica del momento. Senza il confronto fra quelli che dovremmo definire antigrafo e apografo, nonostante si tratti di un manoscritto e di un libro a stampa, non ci sarebbe modo di accorgersi dell’enorme lavoro compiuto da Bussi: la pagina dell’incunabolo non ne reca all’apparenza la minima traccia. È il caso degli spostamenti di interi passi, richiesti dalle espressioni Hic sequitur ad signum tale (f. 106r), Sequitur ad signum (f. 108v), Hic est revertendum retro ad signum (f. 111v). Una significativa eccezione è costi tuita proprio dall’indicazione in margine al f. 65v, citata da Reeve: Hic est relinquendum spatium pro uno nomine aut duobus. Nel passo corrispondente l’incunabolo, in effetti all’ultima riga di una pagina, al termine di un elenco di nomi, lascia uno spazio bianco. La presenza di lacune non colmabili ope ingenii o mediante la consultazione di altri manoscritti è testimoniata dalla nota apposta in calce all’edizione delle opere filosofiche di Cicerone, datata 20 settembre 1471 62, in cui Bussi, in una breve nota adespota, dichiara: Hucusque in exemplaribus (si noti il plurale) repperi, cetera interierunt. Si Deus voluerit ut compareant, apponentur huic loco suo tempore. Il colophon in distici elegiaci del Cicerone, che si trova anche nel nostro Livio, costituisce una Cf. ISTC, ic00558000.
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vera e propria sintesi di un progetto editoriale. Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che l’abbia concepito lo stesso Bussi: Aspicis illustris, lector quicunque, libellos, si cupis artificum nomina nosse: lege. Aspera ridebis cognomina Teutona, forsan mitiget ars musis inscia verba virum. Conradus Suueynheym Arnoldus Pannartzque magistri Rome impresserunt talia multa simul. Petrus cum fratre Francisco Maximus ambo huic opera aptatam contribuere domum 63.
Torniamo ora al nostro quesito: cosa significa Absolutus die 23 septembris Romae, anno 1469? Come abbiamo visto, Bussi è molto puntuale nell’indicazione del tipo di lavoro compiuto, nonché della data e del luogo in cui lo porta a termine. Precisa di solito se si tratta di trascrizione o revisione e talora, come nel caso della Historia Langobardorum copiata a Brunico, esprime anche un giudizio sulla qualità del prodotto. Nel caso del Riccardiano 487 la sua espressione non qualifica il lavoro, che in ogni caso non è la trascrizione del testo, e si trova in posizione e forma anomale nell’ultimo foglio del codice. Reeve lo interpreta come la conclusione della revisione del testo, secondo il normale processo di preparazione di un libro a stampa: l’editore scientifico rivede il manoscritto dell’autore e lo invia in tipografia. Ma forse nell’officina di Sweynheym e Pannartz, in cui si lavorava, come abbiamo visto, a un ritmo forsennato, le procedure erano leggermente diverse. L’antigrafo, sfascicolato se non ulteriormente suddiviso in bifogli, circolava tra le mani sporche d’inchiostro degli operatori, a cominciare dal compositore: è un po’ difficile che le migliaia di interventi del curatore siano state apportate tutte prima che iniziasse la stampa. Più verosimile sembra una presenza costante del curatore a fianco dei tipografi, ai quali forniva man mano i fogli corretti, su cui, come abbiamo visto, il compositore scriveva anche il numero della corrispondente pagina dell’incunabolo, evidenziandone in vario modo l’ultima parola. 63 La nota e il colophon sono riprodotti in Catalano et alii 2015, 100-101 nr. 52, 326 tav. XII.
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Se questa ricostruzione è giusta, si può proporre l’identificazione della data apposta da Bussi non solo con la conclusione della revisione del testo, ma anche con la fine del processo di stampa. La princeps di Livio non reca alcuna data nel colophon: essa sarebbe quindi datata indirettamente dal manoscritto che le è servito da modello. In un convegno milanese del 2013 Cristina Dondi e Neil Harris si sono chiesti se, a differenza che nei manoscritti, le date dei colophon degli incunaboli si riferiscano alla fine della composizione o a quella dell’impressione del foglio, di solito posteriore di uno o più giorni, o addirittura alla messa in vendita delle prime copie, che risulterebbero quindi postdatate 64. Per Bussi, che si dichiara prigioniero di un carcere di carta 65, è preferibile pensare che la sua espressione si riferisca alla fine del lavoro complessivo della squadra di cui faceva parte, simile alla ormai desueta formula della stampa quotidiana: «Chiuso in tipografia alle ore …».
Bibliografia Ames-Lewis 1984 = F. Ames-Lewis, The Library and Manuscripts of Piero di Cosimo de’ Medici, New York 1984 Billanovich 1953 = G. Billanovich, Il Boccaccio, il Petrarca e le più antiche traduzioni in italiano delle Decadi di Tito Livio, GSLI 130, 1953, 311-337 Billanovich 1981a = G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo. Vol. I: Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo, (Studi sul Petrarca 9), Padova 1981 Billanovich 1981b = G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo. Vol. II: Il Livio del Petrarca e del Valla, British Library, Harleian 2493 riprodotto integralmente, (Studi sul Petrarca 11), Padova 1981 Dondi – Harris 2014, 146-147. Nella prefazione dell’edizione di Cipriano apparsa nei primi mesi del 1471 (ISTC, ic01010000), indirizzata a Paolo II, Bussi scrive: Tu, pater beatissime, […] quasi animi gratia ad Cyprianum tuum converte clementiae pontificiae et maiestatis tuae oculos et per illum veniat tibi in mentem perpetuus cultor tuus et manuum tuarum factura Aleriensis episcopus et quasi in custodia carceris chartarii reclusum miseratus aliquando exire iube et perpetua felicitate commissam tibi Christi Ecclesiam rege (cf. Miglio 1978, 55). 64 65
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LIVIO NEL Q UATTROCENTO FRA MANOSCRITTI E STAMPA
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LIVIO NEL Q UATTROCENTO FRA MANOSCRITTI E STAMPA
Abstracts This paper offers a survey of the variety and richness of Livy’s manuscript tradition in the fifteenth century, when Livy was widely read both in Latin and in translation. Palaeographical and codicological analyses allow us to distinguish between Latin Livian manuscripts – typically made of parchment, written in humanistic scripts (antiqua or cursive), and bound in quinions, with ‘bianchi girari’ initials – and vernacular translations – made of paper, with red or blue flourish initials and coloured ruling, formed by quires of several leaves, and mostly written in mercantesca, chancery or other cursive scripts. Exceptions are represented by the French translation made by Pierre Bersuire in the fourteenth century, whose manuscripts partially resemble the university book. Early printed editions, the production of which is centred in Italy, are also copious. The paper illustrates the case of the Riccardiano 487, a working copy used for the editio princeps published by Sweynheym and Pannartz (Rome 1469). The colophon is dated 23 September 1469. So far, scholars have considered the date as referring to the completion either of the transcription or of the revision by the editor Giovanni Andrea Bussi. The chapter argues that it refers to the completion of the composition and printing of the edition. Il testo di Livio ha goduto di una notevole fortuna nel XV secolo, sia nella forma originale che in diverse versioni in lingua volgare. Il numero dei suoi testimoni supera le 300 unità, la cui origine si colloca soprattutto nei grandi centri di Firenze e Roma, ma anche in altre città, come Milano e Padova. Molto caro agli umanisti, Livio si presenta nel testo latino quasi sempre in esemplari dall’aspetto molto curato e di gusto antiquario: scrittura umanistica nelle versioni posata e corsiva, decorazione a bianchi girari, supporto membranaceo, fascicolazione in quinioni, rigatura a secco. Diversa è la facies di buona parte degli esemplari in volgare: cartacei, con iniziali filigranate in rosso e blu, fascicoli composti da un gran numero di fogli, rigatura a colore. La scrittura prevalente è la mercantesca, seguita dalla cancelleresca e da un certo numero di corsive non univocamente definibili. Un caso a parte è costituito dalla traduzione trecentesca francese, opera di Pierre Bersuire, trasmessa da codici di fattura elegante che riprendono in parte il modello del libro universitario. Non mancano tuttavia esemplari in latino scritti in textualis e codici in volgare che mostrano l’aspetto tipico del libro umanistico. Fra i committenti e possessori figurano pontefici (Niccolò V), alti prelati (Bessarione) e principi (Medici e Visconti), mentre fra i copisti dei volgarizzamenti non mancano personaggi che scrivono per il piacere di procurarsi 387
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il testo. La produzione a stampa è altrettanto cospicua: 21 edizioni fra 1469 e 1498, di cui 13 del testo latino e 8 di versioni in italiano, francese e castigliano, apparse quasi tutte in Italia. Si prende in esame un caso specifico di passaggio dal manoscritto alla stampa, quello del ms. Riccardiano 487, copia di tipografia dell’editio princeps di Sweynheym e Pannartz (Roma 1469). Il codice reca come apparente colophon una data (23 settembre 1469) che è stata finora considerata come quella della fine della trascrizione oppure della conclusione della revisione da parte del curatore Giovanni Andrea Bussi. Si propone di considerarla invece il termine del lavoro di composizione dell’incunabolo.
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LUIGI GAROFALO
LIVIO E IL DIRITTO ARCAICO UNA PROSPETTIVA PARTICOLARE
1. Chi tratta di Livio in rapporto al diritto arcaico è solito evidenziare da un lato l’importanza delle sue informazioni circa le istituzioni giuridiche della civitas monarchica e protorepubblicana, dall’altro l’incerta attendibilità delle stesse, che obbliga lo studioso a vagliarle criticamente, ponendosi anzitutto l’intricato problema delle fonti donde discendono e della relativa validità sul piano storiografico. Ebbene, un approccio così rigoroso, scientificamente ineccepibile, non è quello che orienta queste pagine, tese piuttosto a mettere in luce che la narrazione di Livio, e in specie quella inerente a vicende che involgono il risalente diritto romano, ha inciso fortemente, in via diretta o mediata, sulla formazione culturale e sulla sensibilità giuridica delle tante generazioni succedutesi a partire dall’epoca di Augusto, ancorché intessuta di elementi leggendari. Da secoli e secoli, infatti, il lettore di Livio, almeno quello non iniziato al mestiere di storico, trae dal suo racconto sui primi secoli dell’urbe dati che, per quanto non veridici, concorrono a formarne la mentalità, il modo di pensare anche, se non soprattutto, nel campo del diritto: e così, per proporre un esempio banale, venendo a sapere della cacciata di Tarquinio il Superbo, uomo poco incline al rispetto delle regole dell’ordinamento, è portato a vedere nell’osservanza del diritto un valore da perseguire, a prescindere dall’eventuale inesattezza del resoconto in merito all’evento. Ma neppure chi non abbia mai sfogliato i libri del Patavino può dirsi immune dal condizionamento esercitato dalla ricostruzione che vi si rinviene dei fatti a rilevanza giuridica più A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 389-421 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117499
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L. GAROFALO
lontani nel tempo: sono invero talmente numerose le opere che essa ha ispirato nel campo della filosofia, della letteratura e delle arti figurative che ben difficilmente qualcuno, a digiuno di Livio, sarà riuscito a evitare il loro contatto, sottraendosi così all’onda lunga della forza pedagogica che sub specie iuris sprigiona la prima deca del nostro autore. Proprio di alcune opere del genere mi occuperò ora, muovendo comunque da Livio. 2. Inizio dalle pagine, in 8, 6, 9-10 e 8, 9, 1-11, 1, dedicate alla devotio di Decio Mure, il console del 340 a.C. che, consacrando agli dei se stesso e le forze nemiche, aveva propiziato la vittoria del suo esercito su quello dei Latini nell’ambito di una battaglia svoltasi in Campania, forse nei pressi del Vesuvio. L’episodio descrittovi, è stato opportunamente rilevato, illustra al meglio la virtus eroica 1: ma è anche altamente istruttivo sotto il profilo del diritto, instillando un sentimento di fiducia verso il rito apprestato dall’ordinamento e additando a cittadino ideale colui che informa la propria condotta al bene supremo della comunità di appartenenza, a costo della vita. Eppure, non è per nulla sicuro che la devotio del nominato Decio Mure sia autentica 2. Essa può infatti costituire, come più d’uno sostiene con argomenti non privi di fondamento, un’anacronistica duplicazione della devotio del figlio omonimo, databile al 295, anno in cui il medesimo, da console, combatteva i Galli e i Sanniti a Sentino. Ma è altresì ipotizzabile, in sintonia con una diversa e però più debole congettura, che anche questa seconda devotio rappresenti, al pari della prima, un’anticipazione di quella del terzo Decio Mure, figlio del Decio Mure intermedio, occorsa nel 279, nel mentre egli, come console, lottava contro Pirro ad Ascoli Satriano 3. Almeno una delle tre devotiones, e con ogni probabilità quella di mezzo – che è poi la meglio documentata, secondo la dottrina più attenta 4 –, deve comunque aver avuto effettivamente luogo. Cf. Masselli 2012, 12. Cf. Guittard 1984. 3 Per una sintetica ed efficace discussione delle fonti e della letteratura sulla saga dei Decii, cf. Sacco 2004, 318-321. 4 Cf. Sacco 2004, 319-320. 1 2
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Diversamente sarebbe stato ben difficile il consolidarsi della salda tradizione, raccolta da Livio e da altri scrittori dell’antichità, che riconosceva a merito di più esponenti dei Decii, vissuti in un arco di tempo alquanto ristretto, l’esecuzione del rito. Voglio dire, in altri termini, che a fondamento di quella tradizione poteva sì esserci una falsificante rielaborazione dei dati provenienti dalla concreta esperienza di matrice annalistica, ma non così estesa da sconfinare nella pura invenzione. Una trama narrativa che ricollegasse la devotio anche a uno soltanto dei Decii nonostante nessuno di loro vi avesse mai dato corso presumibilmente non sarebbe riuscita a insediarsi in modo stabile nella memoria storiografica della comunità cittadina, pronta invece ad accogliere per sempre la notizia, benché forse non vera, dell’iterazione all’interno della stessa stirpe di un atto eroico certamente compiuto da uno dei suoi appartenenti. A prescindere da questa notazione, che attiene a un versante qui non di primario interesse, ciò che mi preme rilevare è che la devotio del più anziano Decio Mure, così come magistralmente rievocata da Livio, sarebbe stata ripresa da scrittori e pittori di epoche varie. E se tra gli uni spicca il nome di Francesco Petrarca, che di essa tratta nel capitolo XI del suo De viris illustribus 5, tra gli altri è d’obbligo menzionare Rubens. Sulle otto tele, ora esposte in una sala del palazzo viennese che ospita le collezioni private dei Principi del Liechtenstein 6, in cui egli ripropone per immagini le pagine del Patavino giova intrattenersi, allo scopo di mostrare la fedeltà dell’artista tanto alla narrazione presa a riferimento quanto agli insegnamenti ai quali questa era preordinata. Tralascerò peraltro le due che chiudono il ciclo – probabilmente ultimato nel 1618 –, dove, quasi a commento della gloriosa azione del protagonista, Rubens raffigura le personificazioni dell’abnegazione militare e della vittoria che ne costituisce il corollario e un trofeo di complessa composizione, segno tangibile del trionfo in guerra. Nel primo dipinto Decio Mure, dall’alto di un podio, parla con ampia e serena gestualità ad alcuni soldati, i quali portano le insegne delle varie unità pronte allo scontro con le truppe dei Cf. Masselli 2012, 13 n. 19. Cf. Kräftner 2004.
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Latini, anch’esse accampate non lontano da Capua. Racconta loro, attoniti nello sguardo, del presagio notturno su cui indugia Livio in 8, 6, 9-10. Si tramanda, scrive il Patavino, che a Decio Mure e all’altro console, Tito Manlio, fosse apparsa nel sonno la stessa figura umana, più grande e più imponente del normale, la quale diceva che dall’una delle due parti il comandante e dall’altra l’esercito dovevano essere offerti ai Mani e alla madre Terra: e questo perché la vittoria sarebbe toccata a quel popolo e a quella parte il cui comandante, attraverso il rito della devotio – che oggi sappiamo con maggior sicurezza comune a diverse popolazioni italiche –, avesse consacrato a quelle divinità le legioni nemiche e con queste se stesso 7. Riferisce ancora Livio, in 8, 9, 1, che i due consoli, prima di muovere all’assalto il proprio esercito, immolaverunt, ossia eseguirono sacrifici di animali, secondo un cerimoniale complesso, ricavandone indicazioni diverse: pienamente favorevoli quanto a Tito Manlio, negative per Decio Mure, poiché il fegato della vittima da lui offerta agli dei risultava inciso malamente, come un aruspice aveva mostrato allo stesso Decio. Ebbene, è proprio questo il tema del secondo quadro, in cui a dominare sono due figure: il sacerdote Marco Valerio, il quale – svolgendo il ruolo assegnato dal Patavino all’aruspice, per una licenza di Rubens – senza staccare gli occhi da Decio Mure gli addita le viscere dall’infausto aspetto, posate su un piatto retto da un altro officiante (verosimilmente l’aruspice chiamato a esaminarle); e poi il console, che, portandosi le mani sul petto, sembra prendere consapevolezza del suo destino e nel contempo manifestarne l’assoluta accettazione 8. Iniziata la battaglia, annota Livio in 8, 9, 2-4, l’ala destra dell’esercito romano, agli ordini di Tito Manlio, non rivelava segni di cedimento, al contrario di quella sinistra, capeggiata da Decio Mure. Vista la difficoltà del momento, questi aveva allora deciso di consacrare le forze avversarie e se stesso agli dei, onde ottenerne l’aiuto indispensabile per risollevare le sorti del confronto. E subito si era rivolto a Marco Valerio, pontifex publicus populi Romani, affinché lo guidasse nel compimento del Cf. Baumstark 1988, 25 ss. Cf. Baumstark 1988, 41 ss.
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rito della devotio. Sulla scorta delle sue direttive, aveva poi espletato la procedura, come ricorda Livio in 8, 9, 5-9. Attingendo al racconto che vi è fatto, Rubens, nella terza tela, ritrae il console di fronte al sacerdote, con il corpo avvolto nella toga pretesta leggermente flesso in avanti in una sorta di deferente inchino, i piedi sopra un giavellotto, il capo velato e una mano che tocca il mento, nel mentre recita la formula solenne il cui testo è riportato per intero dallo stesso Livio 9, tradotto così da Luciano Perelli 10: ‘O Giano, o Giove, o padre Marte, o Q uirino, o Bellona, o Lari, o dei stranieri e indigeni, o divinità che avete potere su di noi e sui nemici, o dei Mani, vi prego, vi venero, vi chiedo e son certo di ottenere la grazia, che benigni concediate al popolo romano dei Q uiriti forza e vittoria, e che gettiate terrore, paura e morte fra i nemici del popolo romano dei Q uiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così offro in voto 11 agli dei Mani e alla Terra le legioni e le forze ausiliarie dei nemici insieme con me stesso a pro della repubblica del popolo romano dei Q uiriti, del l’esercito, delle legioni e delle forze ausiliarie del popolo romano dei Q uiriti’. Il quarto quadro ha per protagonisti Decio Mure, in procinto di balzare sul suo possente cavallo per lanciarsi tra i nemici, e i littori, che egli congeda con un gesto eloquente. Aveva infatti impartito loro, scrive Livio in 8, 9, 9, l’ordine di raggiungere Tito Manlio, per informarlo dell’acquisita condizione di devotus. Il console, che porta la veste in un modo particolare, ossia con il cinto gabino menzionato da Livio, si staglia su uno sfondo in cui s’intravedono le rovine del tempio romano di Minerva Medica, volute da Rubens in ricordo del suo soggiorno italiano 12. Ai due eserciti contrapposti, narra ancora Livio in 8, 9, 10-14, Decio Mure, scagliatosi in battaglia, sembrava dotato di un aspetto alquanto più venerabile e augusto di quello umano, quasi fosse stato inviato dal cielo. Il terrore e il panico promananti dalla sua Cf. Baumstark 1988, 59 ss. Cf. Perelli 1979, 317. 11 Ma è secondo me preferibile volgere il devoveo dell’originale con il nostro «consacro», nel senso, proprio anche del latino consacro o consecro, di «rendo sacro». 12 Cf. Baumstark 1988, 71 ss. 9
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figura avevano turbato le prime file dei Latini, per poi diffondersi entro l’intero schieramento nemico. Dovunque il console si dirigesse con il suo destriero, qui i Latini erano presi dalla paura non altrimenti che se fossero stati colpiti dall’influsso di una stella maligna. Poi era caduto al suolo coperto di dardi: e da quel luogo le coorti dei Latini, in preda a un evidente sgomento, erano fuggite, lasciando deserta un’ampia parte del teatro di guerra. Contemporaneamente i Romani, liberato l’animo dal timore religioso, avevano riacceso lo scontro. Il quale, continua Livio in 8, 10, 1-9, si sarebbe infine risolto a totale vantaggio loro, anche in virtù dell’abilità mostrata nella conduzione del combattimento da Tito Manlio, che, pur nell’infuriare della lotta, non aveva comunque omesso di onorare la morte del collega con il pianto e le lodi. Punto culminante di questo racconto è naturalmente la morte di Decio Mure, superbamente rappresentata nel quinto dipinto. Vi si vede, al centro, il console che, trafitto dalla lancia di un soldato, scivola dalla groppa del suo magnifico cavallo bianco, avvicinandosi ai corpi senza vita disseminati al suolo. In questo movimento, favorito dall’impennata dell’ani male, egli mantiene il capo rivolto verso l’alto, da dove provengono raggi di luce, a simboleggiare il riconoscimento divino della sua straordinaria nobiltà spirituale, che lo ha portato fino al sacrificio supremo. Il sesto e ultimo quadro illustra le poche righe che Livio, in 8, 10, 10, riserva alle esequie di Decio Mure. A dire dello storico, onoranze funebri degne dell’eroica fine del console si erano tenute, al cospetto di Tito Manlio, all’indomani della felice conclusione del conflitto, non appena ritrovato il cadavere di Decio, che giaceva fra i corpi esanimi di tantissimi nemici, con i dardi ancora conficcativi. Ispirandosi alla Gemma Augustea, un antico cammeo che oggi si trova al Kunsthistorisches Museum di Vienna, Rubens immagina il funerale alla stregua di un sontuoso trionfo. A risaltare nella scena è un letto d’oro riccamente intagliato sul quale è composta la salma del console, ammantata della veste rossa ricorrente in tutte le precedenti tele. Accanto svetta Tito Manlio, che indica con l’avambraccio un trofeo con armi e teste mozzate dei nemici, emblema della vittoria. Al suono delle tube, in cui soffiano soldati collocati sullo sfondo, altri personaggi tagliano la legna per la cremazione e altri ancora raccol394
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gono un prezioso bottino di vasi e di gioielli, mentre alcuni Latini incatenati si prostrano in segno di sottomissione e le loro donne, con i figli piangenti, vengono allontanate a viva forza 13. Q uasi a enfatizzare l’orgoglio collettivo del momento, impermeabile, come sottolinea Burckhardt, a qualsiasi sentimento di raccolta mestizia 14. Appassionante alla lettura di Livio, l’epopea del console lo è altrettanto, se non più, grazie alla tavolozza di Rubens, capace di infondere vitalità e sentimenti al protagonista e ai personaggi collaterali, rappresentati secondo una scala vicina al reale in mutevoli contesti pienamente credibili. L’osservatore, al centro di un’esperienza artistica che lo assorbe per l’intero, come volevano i canoni del barocco 15, viene dunque toccato nel profondo, non avvertendo soltanto quello straripante appagamento estetico che gli deriva dalle sapienti forme e dai seducenti colori che animano le scene dipinte da Rubens. Afferrate, grazie alla magia delle tele, le idealità che furono proprie del popolo romano soprattutto durante la repubblica, dal primato della civitas informata al duplice principio della pax deorum e della libertas all’eccellenza del singolo che ridonda a vantaggio della collettività, egli rivive, quasi che il fiammingo avesse trasfuso nella sua coscienza il registro emotivo e civico dominante in quel tempo lontano, le tensioni interiori di Decio Mure, del collega di consolato e dei soldati, che all’eroe guardavano trepidanti: provando quindi nella solitudine della propria intimità i moti della pietas, intesa come afflato e doveroso rispetto nei confronti del mondo divino e umano, parti di un unitario ordinamento d’indole giuridica, del l’affidamento nel rito compiuto correttamente, della constantia, nel senso di equilibrio, fermezza e perseveranza nel volere e nell’agire, del generoso rischio della vita a protezione e gloria degli altri di cui si è responsabili. Ma non sono stati soltanto scrittori e pittori a rifarsi al racconto di Livio sulla devotio del Decio Mure console nel 340 a.C.: vi hanno infatti attinto anche filosofi, come Agostino, il quale ricorda l’eroe repubblicano in un passo del De civitate Dei, in 5, Cf. Baumstark 1988, 107 ss.; Stockhammer 2004, 250. Cf. Burckhardt 2006, 148. 15 Cf. Stockhammer 2004, 257. 13 14
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18, e intellettuali dall’accentuata sensibilità antropologica, come Roberto Calasso. Ecco infatti quanto costui annota a proposito dei colpevoli dell’attacco alle torri gemelle in un suo libro uscito a Milano nel 2010, sotto il titolo L’ardore: anziché affaticarsi nella ricerca di qualche parola con cui qualificarli, «meglio sarebbe stato aprire Livio e constatare che gli assassini-suicidi islamici molto avevano a che fare con una oscura istituzione sacrificale dell’antica Roma, la devotio». Essi, a ben vedere, «riprendono, con variazioni, il rito romano della devotio testimoniato da Livio attraverso la vicenda di Decio Mure, il console che nel 340, combattendo contro i Latini sotto il Vesuvio, dopo essersi votato agli dei inferi si gettò a cavallo fra le schiere nemiche e, trafitto più volte, cadde inter maximam hostium stragem», come si legge in 8, 10, 10 degli Ab urbe condita libri 16. E poco importa che l’accostamento non persuada, pur dovendosi dare atto a Calasso che non si attagliava agli aggressori l’attributo di «codardi», perché così non possono essere definiti individui che si uccidono con piena determinazione e con massima violenza, e nemmeno quello di kamikaze, posto che il termine designa militari giapponesi che compivano azioni di guerra, mentre gli assassini-suicidi islamici erano civili che agivano in tempo di pace 17. Per quanto appaia irriducibile alla devotio del primo Decio Mure di cui parla Livio un’impresa criminosa compiuta da ignoti, che vi perdono la vita per causa propria, ai danni di una moltitudine di individui impegnati nella quotidianità civile e non giustificata da un rapporto di belligeranza, nondimeno la somiglianza vista da Calasso mette a nudo ciò che qui più interessa: il ruolo rimarchevole giocato dalle testimonianze di Livio che toccano l’ambito del diritto arcaico, veritiere o meno che siano, su un segmento importante del pensiero di un autore contemporaneo dai molti lettori e dunque, indirettamente, sulle opinioni di costoro. 3. Ancora le testimonianze di Livio di cui ho testé detto sono alla base di molteplici lavori di un altro pittore celebre: Jacques Entrambe le citazioni in Calasso 2010, 438. Cf. Calasso 2010, 437-438.
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Louis David, esponente di primo piano del neoclassicismo europeo 18. Alfiere dei valori politici e giuridici dei rivoluzionari francesi e poi vicinissimo a Napoleone, di essi, non unico in questo, aveva individuato gli antecedenti nelle virtù civiche dei Romani, espresse in sommo grado in episodi che la tradizione veicolata dal Patavino e non solo da lui situa nei primi secoli dell’urbe: quali quelli della sfida fra gli Orazi e i Curiazi, del processo contro l’Orazio superstite uccisore della sorella e dell’esecuzione capitale, voluta dal console Bruto, dei suoi figli, colpevoli di aver cospirato a favore della restaurazione della monarchia. Un tassello della prima vicenda diventa allora il soggetto di un quadro famosissimo, ultimato nel 1784 e dal 1826 al Louvre 19, intitolato Il giuramento degli Orazi. Al suo centro vediamo i tre fratelli romani che, chiamati a battersi contro i tre fratelli prescelti da Alba Longa, prestano il giuramento di fedeltà alla patria, rendendo il saluto militare alle spade con cui lotteranno, che il padre tiene in alto davanti a loro 20. Sul lato destro della composizione distinguiamo invece un gruppo di donne che piange la tragedia incombente: Camilla, sorella dei tre Orazi e fidanzata di uno dei tre Curiazi, la quale, vestita di bianco, posa la testa sulle spalle di Sabina, a sua volta sorella dei tre Curiazi e sposa di uno degli avversari, mentre la madre di questi consola i nipotini 21. Rispetto a questo dipinto, peraltro, non possiamo affermare che dipenda direttamente da Livio, per la semplice ragione che egli, similmente a tutti gli autori antichi, non fa cenno del giu ramento che vi è immortalato, come puntualmente annota Edgar Wind 22. E non lo fa, va sottolineato, nonostante il suo resoconto, in 1, 24-25, sia ampio e dettagliato. Certo non si può escludere che David abbia liberamente creato una scena comunque stimolatagli dalla lettura di Livio o dalla visione, a teatro, dell’Horace di Pierre Corneille, una tragedia, con qual 20 21 22 18 19
Cf. Daverio 2015, 34. Cf. Bruno 2006, 118. Cf. Kemp 2015, 114. Cf. Daverio 2015, 37. Cf. Wind 2000, 163.
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che sensibile variazione rispetto al testo di Livio, uscita a stampa nel 1641 23, in cui pure non compare il rito del giuramento 24. Ma è più probabile che l’artista, come sostiene Wind, si sia lasciato influenzare dai consigli di alcuni amici letterati, che di un giuramento degli Orazi sapevano in quanto avevano assistito, forse al pari dello stesso David, a rappresentazioni teatrali, anche in forma di «ballet tragique», di adattamenti del dramma di Corneille, in cui era presente o abbozzata la scena del rito 25. Esposto a Parigi nel 1785, il quadro in parola avrebbe raccolto un successo tale da propiziare la nascita, già nel corso dell’anno seguente, di una composizione operistica, Les Horaces, con testo di Guillard e musica di Salieri. Priva di seguito, il suo libretto, in una versione riveduta, sarebbe poi servito per una nuova produzione operistica, messa inizialmente in scena nel 1800 alla presenza di Napoleone. Come scrive Wind, «con la scelta del soggetto si voleva indubbiamente onorare nel Primo Console un figlio della Rivoluzione. Ma molti degli antichi co-rivoluzionari di David si rifiutavano di condividere la sua idolatria per il nuovo eroe. Essi intravedevano nella crescente autorità di Bonaparte una nuova versione del «tyran». Fu organizzata una congiura per assassinarlo a teatro. La polizia era stata però preavvertita, e i cospiratori furono prelevati dal teatro senza che l’esecuzione dell’opera venisse disturbata. Il momento scelto per l’assassinio era quello in cui il giuramento stava per essere pronunciato sulla scena. Contrariamente alle intenzioni di David, l’immagine aveva conservato il suo significato rivoluzionario» 26. È invece sicuramente modellato su Livio un disegno di David che si trova al Louvre, dal titolo eloquente: Orazio difende suo figlio. Vi si vede l’Orazio padre che supplica la folla mentre il figlio sopravvissuto al combattimento con i Curiazi, eretto e fiero al suo fianco, sta per essere arrestato da un littore; e poi Sabina, la moglie dell’eroe, che siede piangente sui gradini accanto al cadavere di Camilla, l’Orazia uccisa dal fratello superstite, perché, sappiamo appunto da Livio, disperata per la morte del Curiazio 25 26 23 24
Cf. Ortiz 1964, 653. Cf. Wind 2000, 163. Cf. Wind 2000, 164-173. Cf. Wind 2000, 175.
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suo fidanzato; infine, sullo sfondo, due giudici, i duumviri perduellionis di cui parla Livio, circondati da assistenti, che osservano lo spettacolo dai loro scranni 27. Se ora diamo la parola a Livio, efficacemente riassunto da Bernardo Santalucia, abbiamo conferma che in lui sia da vedere la fonte di David, eventualmente per il tramite di Charles Rollin, autore della Histoire romaine, un manuale del 1738 molto popolare negli anni della giovinezza di David, in cui, a proposito della vicenda giudiziaria nei confronti dell’Orazio sororicida, è Livio a essere seguito 28. Ecco dunque, nella sintesi dello studioso fiorentino, il racconto del Patavino conservato in 1, 26. «Orazio, dopo l’uccisione dei tre fratelli Curiazi, torna a Roma con le spoglie della sua vittoria. La giovane sorella, fidanzata a uno dei Curiazi, riconoscendo il mantello dell’amato, prorompe in pianto, invocando il nome dell’ucciso. Orazio, sdegnato, la apostrofa aspramente e la trafigge con la spada. Trascinato in giudizio dinanzi al re Tullo Ostilio, questi rimette la causa a due magistrati nominati ad hoc, i duumviri appunto, affinché essi giudichino il grave misfatto. La legge relativa al crimine era terribile nel suo tenore (Livio parla di lex horrendi carminis): “Duumviri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste supendito; verberato vel intra pomerium vel extra pomerium”. I duumviri condannano Orazio, e già il littore si appresta ad eseguire la sentenza quando Orazio, auctore Tullo, clemente legis interprete, si appella al popolo: “Provoco” inquit. Il popolo, memore della recente vittoria dell’eroe sui Curiazi e impietosito dalle parole del padre, lo manda assolto, imponendogli tuttavia il compimento di un sacrificio espiatorio» 29. Proprio Santalucia ha posto l’accento «sugli infiniti dubbi che suscita questa narrazione», a partire dal motivo per cui «Orazio fu processato per perduellio anziché per omicidio, avendo egli ucciso la sorella» 30: ma si tratta di dubbi che possono al 29 30 27 28
Cf. Wind 2000, 159-160. Cf. Wind 2000, 160-161 n. 5. Cf. Santalucia 1984, 440. Cf. Santalucia 1984, 440.
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più minare la nostra fiducia nella credibilità della narrazione liviana, attenendo quindi a un profilo per noi secondario. Anche a volerlo considerare, peraltro, dovremmo constatare, con lo stesso Santalucia, «che se la vicenda di Orazio è effettivamente leggendaria, non lo è altrettanto la lex horrendi carminis da cui Livio ha derivato l’impianto procedurale della sua narrazione. Tale legge, almeno nel suo nucleo essenziale, è indubbiamente autentica, e da essa si possono trarre precise illazioni circa i modi di svolgimento del giudizio duumvirale» 31. Non è improbabile, aggiunge lo studioso, «che la tradizione annalistica – alla quale Livio si rifaceva – abbia tramandato, sia pure distorcendolo, il ricordo di una “cause célèbre” effettivamente svoltasi nell’età regia. Un eroe popolare di quell’epoca remota era stato probabilmente condannato a morte dai duumviri perduellionis e poi graziato, per benevolo intervento del re, dall’assemblea cittadina. L’atto di rimessione ai comizi era dipeso esclusivamente dalla volontà del sovrano e non aveva nulla a che fare con la provocatio ad populum. Ma gli annalisti, nell’intento di dimostrare che l’illustre istituto già esisteva in epoca monarchica, sia pure sotto forma di facoltà discrezionale del re, immaginarono che Tullo Ostilio inserisse nel testo (autentico) della lex horrendi carminis la clausola si a duumviris provocarit, provocatione certato, suggerendo poi all’eroe di avvalersene per portare la causa davanti all’assemblea. Livio fonda la sua narrazione su tale elaborazione annalistica ed introduce anch’egli nel dettato della legge la clausola di provocazione. Così pure, sulla scia degli autori a cui attinge, ascrive la benevola innovazione a Tullo Ostilio, che appunto per ciò è detto clemens legis interpres. Espressione – giova rilevarlo – non del tutto esatta, poiché in realtà Tullo non interpreta la legge, ma la integra in modo da rendere possibile l’appello al popolo. È, in altri termini, un benevolo “arrangiatore” piuttosto che un benevolo “interprete” dell’antico testo normativo» 32. La decisione ultima del popolo in un arcaico giudizio capitale, attestata da Livio e considerata verosimile da Santalucia, Cf. Santalucia 1984, 441. Cf. Santalucia 1984, 448-449.
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rappresenta proprio il dato che stava più a cuore a David: lasciandola agevolmente supporre nel suo disegno, egli esprimeva infatti le sue convinzioni democratiche. Come osserva Wind, la raffigurazione schizzata dall’artista indica in lui, «sette anni prima della Rivoluzione, un campione della giustizia popolare. La morale della scena in cui il padre dell’eroe si appella al popolo contro i duumviri potrebbe essere sintetizzata dal titolo che Rollin aveva dato al suo racconto dell’episodio: Le peuple sauve Horace» 33. Come ha scritto Philippe Daverio, era però un’altra l’opera di David destinata ad assurgere a «vero manifesto del desiderio di repubblica in una Francia in subbuglio che stava preparandosi a decapitare il monarca ormai domo e costituzionale»: terminata nel fatidico 1789, anno della presa della Bastiglia, essa, visibile al Louvre, illustra un episodio che il titolo, I littori portano a Bruto i corpi dei suoi figli, evoca immediatamente 34. A parlarne sono Livio, in 2, 5, 5-8, e vari altri autori antichi, tutti concordi nel riferire che il primo console repubblicano aveva decretato la messa a morte dei figli scoperti a tramare per la restaurazione dei Tarquini 35: ma è presumibile che proprio al Patavino abbia attinto, direttamente o meno, David. 4. Detto di alcuni tra i pittori e gli scrittori che nelle loro opere si sono ispirati al racconto di Livio concernente la civitas arcaica e il diritto che vi era praticato, senza curarsi della sua precisione storiografica, intendo portare l’attenzione su Peter Sloterdijk, uno dei protagonisti del dibattito filosofico contemporaneo, per mostrare che anche in seno ai pensatori c’è chi dà credito a quel racconto, rinunciando alla puntigliosa verifica della sua affidabilità e modellando anzi su di esso la propria riflessione: idonea dunque a diffondere la conoscenza del Patavino, di per sé capace di influire sulla coscienza giuridica di chi l’abbia acquisita pur mediatamente. Addentriamoci allora in due lavori di Sloterdijk relativamente recenti, apparsi in Germania tra il 2010 e il 2011 e intitolati, Cf. Wind 2000, 162. Cf. Daverio 2015, 9. 35 Cf. Garofalo 1989, 12-13 e n. 16. 33 34
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nella versione italiana pubblicata a Milano nel 2012, La mano che prende e la mano che dà e Stress e libertà. Nel primo libro l’autore esordisce rilanciando una sua proposta, già enunciata nelle colonne di un prestigioso quotidiano tedesco, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, a partire da un articolo del 10 giugno 2009: prendere in seria considerazione l’idea della graduale conversione dell’odierno sistema fiscale nazionale da rituale burocratico, fondato sul prelievo obbligatorio d’imposte, in prassi basata sulla corresponsione di contributi volontari dei cittadini a beneficio della collettività, sull’assunto che «soltanto un’etica del dare potrebbe superare la stagnazione della cultura politica attuale». Assunto a sua volta conseguente alle acquisizioni maturate da Sloterdijk nel campo dell’antropologia e della filosofia morale, le quali, egli scrive, consigliano «di compensare la dilagante erotizzazione della nostra civiltà, dominata dalle emozioni di appropriazione, attraverso una maggiore enfasi sui moti timotici, riconducibili cioè all’orgoglio e al dono» 36. Ebbene, per dare peso a quella che sembra una vera e propria provocazione, l’autore non esita a esplorare il passato oltre al presente, alla ricerca delle modalità di riempimento dei forzieri delle compagini pubbliche sperimentate fino a oggi, in quanto solo «individuandole esplicitamente possiamo giudicare meglio quali di esse siano accettabili per una comunità democratica» 37. Nella sua ricostruzione, «al primo posto vanno menzionati i “saccheggi” della tradizione bellico-predatoria», praticati per tanto tempo da non pochi amministratori delle casse statali. «Per vari secoli», nota al riguardo Sloterdijk, «i cittadini di Roma si abituarono all’esenzione dalle tasse, perché l’efficace politica di spoliazione ai confini esterni dell’Impero in espansione rendeva ampiamente superflue le imposte dall’interno. Soltanto sotto Augusto i saccheggi della periferia, non più sufficienti, dovettero essere integrati con una tassazione interna». Ma anche Napoleone ricorreva alla coattiva contribuzione dei vinti, specie per finanziare Cf. Sloterdijk 2012a, 8-9. Cf. Sloterdijk 2012a, 29.
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le campagne militari, riscuotendo così l’apprezzamento di molti francesi. E pure il regime nazionalsocialista godeva del favore della grande maggioranza dei tedeschi poiché si batteva «per assaltare il patrimonio di ebrei benestanti e per espropriare i concittadini ebrei più poveri». Donde la constatazione che «nelle moderne comunità di lotta l’arcaico schema della “speranza di far bottino” è tanto efficace quanto lo era nelle antiche società guerriere», avendo a base legittimante la superiorità culturale o razziale della parte che prende 38. Naturalmente secondo Sloterdijk forme di arricchimento del tipo indicato non sono ammesse «per la regolazione dei fabbisogni dei collettivi democratici». In uno Stato di diritto, infatti, «i saccheggi esterni devono essere totalmente sostituiti da entrate legittime interne, le quali non possono che derivare dalla stessa popolazione fiscalmente attiva». Il che induce a chiedersi fino a quale limite la tassazione a carico dei cittadini venga percepita come conforme al diritto e a partire da quale livello sia invece considerata come una sorta di prosecuzione dei saccheggi esterni tramite strumenti amministrativi. La sensibilità attuale, afferma l’autore, «ritiene sopportabili valori massimi intorno al 50 per cento», calcolati in base al criterio progressivo: a conferma di un’evoluzione della mentalità «notevole sul piano psicostorico e senza precedenti nella storia della morale», se appena si ricorda che ancora il re prussiano Federico il Grande pensava a «una progressività dal 2 al 10 per cento», ritenendola adeguata politicamente e moralmente, in quanto colpiva sì i più forti sotto il profilo economico, ma con moderazione. Oggi, dunque, la tassazione, ove oltrepassasse il tetto del 50 per cento, si atteggerebbe alla stregua dell’ossimorico «furto legale» di cui parlava già Tommaso d’Aquino nel XIII secolo 39. Altra via attraverso la quale si producono introiti statali, prosegue l’autore, è quella delle imposte, che ha a suo fondamento una consolidata e mai tramontata «tradizione autoritaria e assolutistica». Ora, come già nell’Ancien Régime, infatti, i balzelli, che vanno a colpire «ogni sorta di reddito, patrimonio, Cf. Sloterdijk 2012a, 29-31. Cf. Sloterdijk 2012a, 23 e 31-33.
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merce e servizio», sono oggetto di decisioni prese dall’alto, giu stificate in ragione delle esigenze di funzionamento dell’apparato pubblico, unico in grado di garantire ai singoli le condizioni per vivere accettabilmente 40. Osserva peraltro Sloterdijk che questo sistema non risponde alle istanze democratiche che si vorrebbero centrali all’interno degli ordinamenti progrediti, le quali reclamano una politica tributaria frutto della partecipazione di tutti i cittadini, che dovrebbero perciò essere opportunamente coinvolti in ogni fase del procedimento fiscale, «dall’incasso all’allocazione delle risorse», quindi ben al di là della loro indiretta implicazione in occasione dell’approvazione parlamentare della legge di bilancio 41. Al criterio della «retro-espropriazione» si ispira quello che per Sloterdijk è «il terzo metodo per procurare e giustificare le tasse nella collettività moderna». Figlio della concezione che il socialismo e il radicalismo di sinistra avevano del ruolo spettante al fisco nella società capitalistica, questo criterio postula l’esistenza di un ceto di ricchi che va espropriato in quanto esso stesso ha espropriato e mira alla redistribuzione delle risorse in vista della realizzazione della giustizia sociale 42. Ma la base «argomentativa e morale» di questo modello appare al filosofo quanto mai debole, «perché dipende dall’ipotesi, più suggestiva che conforme alla realtà, di uno sfruttamento dei soggetti attivi da parte dei loro datori di lavoro». Alle nostre latitudini e nel torno di tempo attuale, egli scrive, «il mito del furto perpetrato dai ricchi ai danni dei poveri nonché del controfurto, moralmente legittimo, compiuto dallo Stato impegnato sul versante sociale a beneficio degli svantaggiati non passa più l’esame» 43. Idonea a generare, del tutto legittimamente, le entrate della mano pubblica è infine l’erogazione «di donatori e benefattori inseriti nella tradizione filantropica». Q uest’ultima, a detta di Sloterdijk, è sostenuta «dalla convinzione cristiana, umanistica e solidaristica», radicata nella morale popolare, secondo cui 42 43 40 41
Cf. Sloterdijk 2012a, 33-34. Cf. Sloterdijk 2012a, 34-35. Cf. Sloterdijk 2012a, 35-38. Cf. Sloterdijk 2012a, 37.
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«ai possidenti si addice cedere ai non possidenti e alle organizzazioni che li soccorrono (su in alto, fino alle casse statali) una parte adeguata, ossia non irrilevante, del proprio surplus». Ma a indurre alla beneficenza è anche, per l’autore, la percezione della medesima, sempre più diffusa, in termini di «prezzo per avere la pace, pagato a una società esposta alla minaccia di soccombere a causa dei conflitti dovuti alla disuguaglianza» 44. Non è comunque alla generosità dei singoli, sottolinea Sloterdijk, che oggi si affida l’erario: ad alimentarlo sono infatti i trasferimenti monetari imposti ai cittadini da un sistema fiscale che rappresenta un «amalgama» della seconda e terza modalità di acquisizione di proventi da parte dello Stato e proprio per questo è espressione di una «visione antidemocratica», confliggente con il principio della sovranità popolare. Per superare questa insopportabile situazione, continua l’autore, non resta allora che una strada: trasformare progressivamente «il grande versamento nelle casse dello Stato» da tributo pagato dai sottoposti a favore di un potere sempre vittorioso ovvero da adempimento di un debito stabilito unilateralmente dal Leviatano a carico dei sudditi in «dono attivo a vantaggio della collettività, offerto con cognizione di causa e volontà di contribuire». Se le tasse, come è stato detto, sono il prezzo da corrispondere per avere una società civile, «nulla ci vieta di interpretare la frase nel senso che pagare per avere condizioni civili necessita, a sua volta, di civiltà»: e questa, conclude sul punto Sloterdijk, «si otterrebbe qualora la tassazione si avvicinasse al polo della cognizione e della libera scelta» 45. Nella prospettiva indicata, dunque, «“democrazia” sarebbe sinonimo di “scuola di generosità”», grazie alla quale l’atto del donare a scopi sovrapersonali col tempo smetterebbe di essere soltanto un capriccio morale privato, coltivato da pochi. In una società rimodellata «dallo spirito del dare», il gesto della beneficenza diventerebbe di certo sempre più comune, recando alla fiscalità pubblica gran parte di ciò che oggi essa incamera o anzi dovrebbe introitare. E di pari passo il nuovo habitus originato Cf. Sloterdijk 2012a, 38-39. Cf. Sloterdijk 2012a, 39-46.
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dalla cultura del dare libererebbe in misura crescente «le energie necessarie a superare gli indegni relitti della cleptocrazia statale di matrice tardoassolutistica e la loro prosecuzione nella logica della contro-espropriazione, profondamente radicata nella Sinistra classica» 46. Propedeutica, in vista dell’epocale riforma auspicata da Sloterdijk, potrebbe a suo avviso essere qualche correzione all’attuale disciplina tributaria, che ad esempio sgravasse i contribuenti di una parte del carico fiscale e consentisse loro di predeterminare le destinazioni delle proprie risorse offerte in dono alla comunità statale, scegliendo tra le attività educative, la difesa dell’ambiente, la ricerca medica, lo sviluppo urbanistico, la protezione degli animali e così via. In questo modo, «dopo una lunga era di passività imposta, i finanziatori reali della collettività, riconosciuti finalmente come parte che dà, sperimenterebbero nuovamente che cosa significhi avere una viva responsabilità nei confronti di progetti partecipati “interiormente” e oggetto di “investimento” personale grazie alle proprie donazioni» 47. Resistere al cambiamento che Sloterdijk invoca significa per lui esporsi al forte rischio che i cittadini, percossi sempre più da un apparato fiscale ingordo e delusi come non mai da una dispendiosissima macchina statale incurante delle loro reali intenzioni e protesa a depotenziarne il ruolo in ogni campo, maturino sentimenti di ribellione, destinati a sfociare in un travolgimento degli attuali assetti dichiarati democratici in favore di nuove architetture istituzionali maggiormente garanti della partecipazione politica 48. Istruttiva, al riguardo, si rivela per il filosofo la vicenda di Roma. All’origine della res publica troviamo infatti l’orgoglio e l’indignazione di un popolo, cioè quelle «passioni psicopolitiche primarie» che anche oggi potrebbero scatenarsi e raggiungere un punto tale da generare comportamenti collettivi eversivi, idonei a fondare un nuovo ordine più vicino alle istanze dei singoli 49. Ad accenderle verso la fine del VI secolo a.C., secondo la narra 48 49 46 47
Cf. Sloterdijk 2012a, 49-51. Cf. Sloterdijk 2012a, 52-54. Cf. Sloterdijk 2012a, 55-69. Cf. Sloterdijk 2012a, 114-115.
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zione di Livio in 1, 57, 1-2, 1, 11, di cui segue il filo Sloterdijk, era stata la violenza recata a Lucrezia, moglie di Collatino, da Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, che aveva portato al suicidio della vittima consumato al cospetto dei suoi cari e subito dopo all’azione «rivoluzionaria» della massa incollerita, culminata nella cacciata del monarca e nell’avvio di un’inedita esperienza costituzionale, imperniata su due consoli che «si tengono reciprocamente in scacco, mentre la loro rie lezione annuale previene ogni nuova possibile confusione tra ufficio e persona». Le «energie» della comunità cittadina si convertono in pari tempo in «aspirazioni a conseguire prestigio attraverso l’eccellenza, come normalmente avviene nelle meritocrazie»; e diventa inarrestabile «la macchina repubblicana più intelligente che l’umanità abbia mai costruito nella propria storia», destinata a raggiungere un grado di efficienza ineguagliabile con l’integrazione del tribunato della plebe. Insomma, continua Sloterdijk, «dalla loro sincronica irritazione verso la scatenata superbia del governante le persone semplici impararono che, da quel momento, avrebbero voluto chiamarsi cittadini» ed esserlo veramente, recitando un ruolo di primo piano nella «vita pubblica», in modo da assicurare un persistente clima di concordia civile 50. Ma pure ora, per l’autore, la collettività statale ha buoni motivi per sentirsi irata nei riguardi di chi ne è a capo e perfino per immaginare di insorgere nel tentativo di rifondare la posizione dei cittadini, sempre più disattivati, a partire dall’ambito dei tributi. «Anche se l’arroganza è diventata anonima e si nasconde in sistemi mossi da processi coercitivi specializzati», egli scrive, «i cittadini comunque avvertono, di tanto in tanto e abbastanza chiaramente, di essere ormai le pedine di un gioco, soprattutto in qualità di contribuenti e di destinatari di discorsi vuoti alla vigilia delle elezioni». Il pericolo di una reazione della massa, analoga a quella del 509 a.C., è dunque quanto mai concreto: a conferma che «la politica dell’utile spoliticizzazione del popolo sta fallendo» 51. Cf. Sloterdijk 2012a, 105-108. Cf. Sloterdijk 2012a, 115-116.
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Né, precisa lo studioso, varrebbe a placare il timore di un moto dal basso quale quello paventato supporre, in coda a molti interpreti, che l’epoca attuale rimandi a quella romana postrepubblicana, quando i cittadini andavano perdendo il loro peso a fronte di un potere, vieppiù concentrato nell’organo imperiale, che si esplicava attraverso l’amministrazione burocratica e l’organizzazione di spettacoli d’intrattenimento volti a narcotizzare le folle 52. Certo i due periodi considerati hanno in comune il tendenziale prosciugamento delle prerogative dei cittadini: ma oggi questi, pur pensando alla stregua degli antichi stoici ed epicurei che «burocrazia, spettacolo e collezioni private finiscano per delineare l’orizzonte ultimo», non fruiscono, al contrario dei loro antenati, di compensazioni in grado di impedire «pubbliche mobilitazioni delle componenti timotiche dimenticate» e prima ancora l’insorgere negli animi di pulsioni di orgoglio e di indignazione non soffocabili 53. Invero, osserva al riguardo Sloterdijk, i gruppi di comando imperiali «ebbero a disposizione la possibilità di fare praticabili offerte sostitutive dinnanzi alle pretese timotiche provenienti dal proprio universo civico, nonostante gli evidenti segnali di decadenza postrepubblicana». Ad esempio, furono capaci di destare nel civis l’orgoglio per la prestazione civilizzatrice resa da Roma; legarono i popoli della periferia al centro «attraverso il “soft power” romano»; accordarono «alle masse instabili delle città la partecipazione al teatrale narcisismo del culto imperiale». Per converso, l’odierna classe politica dimostra una totale inettitudine nella risposta alle istanze timotiche dei cittadini, comprovata dal sentimento di disprezzo che nei suoi confronti nutre un’ampia parte della collettività, costantemente rilevato dai sondaggisti. E se proprio «la parola deputata a definire il polo negativo della scala timotica viene impiegata così spesso, abbiamo l’opportunità di capire in quale misura la regolazione psicopolitica della nostra collettività sia fuori controllo» 54. Preso atto che la moderna democrazia rappresentativa non è in grado di realizzare ciò che ai Cesari riusciva, e cioè «con Cf. Sloterdijk 2012a, 103-105. Cf. Sloterdijk 2012a, 109-111. 54 Cf. Sloterdijk 2012a, 116-117. 52 53
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ciliare l’imperativo sistemico della disattivazione postrepubblicana dei cittadini con l’imperativo psicopolitico del loro appagamento timotico», l’autore prefigura due vie d’uscita, l’una delle quali rovinosa sul piano della ricchezza comune, l’altra dagli esiti comunque temibili: «disattivare i cittadini premiando la loro apatia o paralizzarli per mezzo della rassegnazione». Puntare sulla prima opzione implica assicurarsi la compiacenza e l’inerzia di cittadini progressivamente spogliati della loro essenza dispensando agli stessi favori economici in realtà insostenibili; scommettere sulla seconda, d’altro canto, significa giocare col fuoco, perché la rassegnazione può convertirsi in ogni momento nel suo contrario, ossia in aperta indignazione e manifesta ira civile: basta infatti che un tema sensibile risvegli prepotentemente le coscienze ed ecco che queste sprigionano le loro energie destabilizzanti, ben difficilmente arginabili. E qui il cerchio si chiude, dal momento che, come facilmente intuibile, il tema che più di ogni altro può catalizzare impulsi irrefrenabili verso il rovesciamento degli assetti esistenti e l’istituzione di nuove forme di politicizzazione dei cittadini è per Sloterdijk quello del fisco. «L’ambito in cui i cittadini del nostro emisfero sono disattivati in misura maggiore concerne la loro qualità di contribuenti», annota infatti il pensatore. E questo perché lo Stato, anziché lodare chi paga le tasse in quanto dà, proponendosi di tramutare gradualmente il prelievo tributario da gesto coercitivo in gesto volontario e personalizzato, in un dono cioè, opprime i cittadini, privandoli della possibilità di una concreta partecipazione nella messa a punto del congegno impositivo e considerandoli eterni debitori di somme esorbitanti sempre propensi all’inadempimento. Costruito dunque in modo completamente sbagliato dal punto di vista psicopolitico, l’attuale sistema fiscale, stante la concreta impraticabilità dell’alternativa data per possibile in astratto, è esposto al rischio di una morte improvvisa, decretata da una massa di cittadini sospinti, come già nel 509 a.C., dall’orgoglio e dall’indignazione e protesi alla riaffermazione del loro ruolo costruttivo anche nel campo dei tributi 55. Cf. Sloterdijk 2012a, 120-125.
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Gli avvenimenti del 509 a.C. che segnano il passaggio del l’ordinamento romano dalla fase monarchica a quella repubblicana tramandati da Livio sono ampiamente richiamati anche in Stress e libertà: un volumetto in cui Sloterdijk, persuaso che la civitas dei consoli, insieme a qualche lascito della Grecia classica, costituisca «il modello storico delle società civili solidali» della modernità 56, riflette su queste e in particolare sulla loro capacità di perdurare nel tempo, vincendo le forze disgregatrici che vi si agitano attraverso la creazione e il mantenimento di uno stato di stress fra i rispettivi appartenenti. Le popolazioni degli Stati attuali, spiega l’autore, si configurano come corpi politici estesi, che constano di milioni di membri per lo più convinti «di essere effettivamente e fatalmente uniti l’uno all’altro in virtù di una collocazione spaziale comune e di presupposti storici condivisi», ancorché il loro stile di vita appaia informato a un marcato «individualismo», inevitabile stella polare in un contesto collettivo in cui «si riconosce a ogni singolo essere umano la dignità di un assoluto sui generis». Ebbene, ad alimentare l’anelito alla coesione in capo ai membri di masse così strutturate, continua lo studioso, è il fatto che esse originano «campi di forza stress-integrati» ovvero «sistemi di preoccupazioni autostressanti e permanentemente proiettati in avanti». E questi «possiedono stabilità solo nella misura in cui riescono, nell’avvicendarsi dei temi quotidiani e annuali, a mantenere il proprio specifico tono di irrequietezza». Detto altrimenti, un aggregato nazionale rimane tale nel tempo se è in grado di preservare «un’inquietudine comune»; se cioè «in esso un costante flusso tematico di stress, più o meno intenso, provvede alla sincronizzazione delle coscienze» e alla loro integrazione in una «comunità di cura e di eccitazione che si rigenera di giorno in giorno». Il che palesa il ruolo insostituibile giocato al riguardo dai mezzi di informazione, essendo questi a immettere incessantemente nella collettività motivi di preoccupazione, tra i quali i destinatari compiono la propria scelta, comunque destinata a generare una tensione reattiva che finisce per salvaguardare l’esistenza del gruppo organizzato 57. Cf. Sloterdijk 2012b, 18. Cf. Sloterdijk 2012b, 9 ss.
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Ricondotte allo stress le ragioni della vitalità dei macrocorpi politici di oggi, Sloterdijk vede una conferma della sua teoria negli eventi che, secondo la tradizione di cui è portavoce Livio, hanno portato all’instaurazione della res publica romana, per lui idonei anche a rivelare, con «chiarezza archetipica», il legame tra stress e libertà 58. Q uegli eventi, scrive il filosofo dopo averli adeguatamente rievocati, dando ampio spazio alla figura di Lucrezia, comprovano che una forma di governo dispotica quale quella voluta da Tarquinio il Superbo «costituisce un sistema di stress che produce effetti finché coloro che la subiscono scelgono di evitare lo stress», ovvero – nel linguaggio d’uso generale – scelgono l’obbedienza, la rassegnazione, la sottomissione, scartando l’opzione della ribellione. Nel lessico tecnico, «la rivolta antitirannica rappresenta una “massima cooperazione di stress” dei dominati per l’eliminazione di un’oppressione da parte del potere divenuta insopportabile». E ciò val quanto dire che «le rivoluzioni scoppiano quando, in momenti critici, i collettivi rivalutano intuitivamente il proprio bilancio di stress e giungono alla conclusione per cui l’esistenza in una posizione sottomessa che cerca di evitare lo stress risulta infine più costosa dello stress della rivolta». Insomma, in casi estremi prende il sopravvento un’idea che può essere formulata così: «meglio morti che ancora schiavi» 59. Proprio questa idea, dunque, è per Sloterdijk all’origine di quella «forma di vita» nota come res publica. E invero, egli ricorda attingendo al solito Livio, diffusasi nella città la notizia di quanto era accaduto a Lucrezia, «un’ondata di indignazione senza precedenti assale gli animi, i Romani si riuniscono, un consenso emotivo unisce l’assemblea che, per la prima volta, si concepisce libera e civile. L’odiato potere sovrano viene rovesciato, i tiranni vengono scacciati, mai più un borioso sarà all’apice della comunità romana». Come a dire che la nascita della libertà repubblicana è frutto dell’indignazione collettiva, capace di trasformare «tutti coloro che ne sono coinvolti in un gruppo di stress offensivo, che si tramuta in comunità politica». Ecco allora ciò che impariamo a proposito del rapporto tra stress e libertà, in particolare politica: quando essa «entra in territorio europeo, Cf. Sloterdijk 2012b, 17. Cf. Sloterdijk 2012b, 33-34.
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lo fa nella forma di un’esplosione di rabbia di migliaia di persone», motivata dall’arroganza del potere, manifestatasi attraverso il despota in carica e un suo figlio, Sesto Tarquinio, cresciuto nella presunzione (come non di rado accade alla prole dei tiranni, precisa l’autore, che sul punto chiama in causa quella di Muammar Gheddafi). Si radica così nella psicologia politica dei Romani una tensione antimonarchica destinata a persistere nel tempo: tanto che «i tardi Cesari dovettero evitare il titolo di rex e celare la propria autocrazia dietro il costante appello al senato e al popolo di Roma» 60. Anche nella Grecia antica, riconosce peraltro Sloterdijk, l’obiet tivo della libertà era germogliato all’interno di un fronte antitirannico. E pure lì ciò che si definiva libertà, eleutheria nella lingua del tempo, «stava a indicare innanzitutto il desiderio di vivere in maniera autodeterminata – secondo i patrioi nomoi, secondo gli usi dei padri – in seno al proprio popolo e non doversi sotto mettere all’arbitrio dispotico di un singolo diventato troppo grande, e tanto meno alla magnificenza del Re dei Re persiano» 61. Comune all’universo giuridico greco e romano era quindi, nella prospettiva di Sloterdijk, il modo di concepire la libertà: non riducibile alla semplice facoltà di esprimere il pensiero personale e nemmeno ricostruibile in termini di paradigma di quelli che oggi qualificheremmo come diritti umani, essa si risolveva in una sfaccettata posizione attiva garantita dall’ordinamento ai cittadini in quanto integranti un popolo, ossia, privilegiando la sostanza, nella loro «prerogativa di non essere guidati da altro che non siano le proprie consuetudini, gli usi e le istituzioni che hanno forgiato i componenti del collettivo sin dalla gioventù». Donde, «se libertà significa scelta della dipendenza, senza altri vincoli, di un collettivo dalle proprie origini», la naturale reazione del collettivo stesso, in nome di questo bene condiviso, quando succedessero «episodi particolari capaci di mettere in discussione il potere sovrano delle consuetudini, la “moralità dei costumi”» 62.
Cf. Sloterdijk 2012b, 19-21. Cf. Sloterdijk 2012b, 21. 62 Cf. Sloterdijk 2012b, 21-23. 60 61
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Ovviamente non sfugge a Sloterdijk che nella modernità è venuto sviluppandosi un altro modo di intendere la libertà, che pur non ha obnubilato il primo. Specie a partire da Rousseau, egli osserva al riguardo, l’idea di libertà descrive anche la condizione del singolo che «è solo con se stesso e contemporaneamente del tutto distaccato dalla propria identità usuale», che «si è allontanato dalla società, ma è altresì isolato dalla propria persona implicata nel tessuto sociale», che lascia dietro di sé «il mondo dei temi delle preoccupazioni collettive e se stesso come parte di quel mondo» 63. Ed è appunto in esito all’affacciarsi della nuova nozione di libertà, implicante la pretesa del soggetto di sottrarsi al giogo opprimente del reale ovvero di affrancarsi dallo stress procuratogli dall’appartenenza a un macrocorpo politico, che si è diffusa quella tendenza all’individualismo destinata a farsi sempre più forte, al punto da mettere in pericolo la stessa coesione dei gruppi sociali e imporre pertanto a questi – o, meglio, a chi li controlla e ambisce alla loro sopravvivenza – una produzione ulteriore di stress unificante tramite l’inoculazione per via mediatica di nuovi argomenti idonei a destare agitazione nel popolo 64. Non può non colpire, annota sul punto il filosofo, che nel corso degli ultimi decenni, attraverso la tecnica indicata, varie compagini nazionali siano riuscite a preservarsi dalla frantumazione nonostante tanti loro membri abbiano coltivato la pratica dell’estraniamento sociale, optando per uno stile di vita al riparo dalle incombenze e dagli assilli gravanti sui cittadini integrati nella comunità, per il quale si attagliano espressioni verbali come «sballare, oziare, ciondolare, lasciarsi andare, rilassarsi, … vivere di sussidi, rinviare e lasciar andare» 65. A dimostrazione che i dispositivi atti a generare stress collettivo ultimamente operanti risultano quanto mai efficaci, tenuto anche conto che essi debbono misurarsi con un reale sempre più pesante per il singolo, da qualche tempo avvinto dai tentacoli del commercio globalizzato e della speculazione finanziaria di stampo planetario 66. 65 66 63 64
Cf. Sloterdijk 2012b, 23-31. Cf. Sloterdijk 2012b, 33 e 36-46. Cf. Sloterdijk 2012b, 45-46. Cf. Sloterdijk 2012b, 63-66.
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A fronte di questa situazione, termina Sloterdijk, non resta che riscrivere «il significato di libertà individuale e civiltà liberale», al fine di limitare le sacche di asocialità e parallelamente contenere entro confini accettabili lo stress che funge da collante interno ai macrocorpi politici. Per il che è necessario collegare la libertà in parola all’orgoglio ovvero a «quell’elevazione spontanea sull’ordinario che i Greci chiamavano thymos». Agganciata alla disposizione d’animo nobile, che dà impulso alla «vita donativa», la libertà del singolo, in quanto designa un’apertura all’improbabile, «rimane fedele alla propria sostanziale negatività anche nella svolta verso l’attività pratica, perché, in qualsiasi evenienza, essa esprime il rifiuto della tirannia del probabile. Chi agisce in libertà si ribella alla meschinità che non può più tollerare». Collateralmente, è doveroso rigenerare il fondamento del pensiero liberale, assumendo quale suo presupposto il «riconoscimento che gli uomini non sono solo esseri avidi, spinti dalla cupidigia, dipendenti e bramosi, che pretendono il via libera per la soddisfazione dei propri bisogni e per la propria sete di potere», dato che essi portano in sé anche il potenziale per un atteggiamento «generoso, superiore e di larghe vedute». Attraverso questa duplice ridefinizione, che involge la libertà individuale e la civiltà liberale, si potranno dunque avere più azioni generose a opera di cittadini indottivi dalla loro ricerca di vie alternative e nobili per emanciparsi almeno in parte «dalle costrizioni vincolanti approntate dalla collettività» 67. Sorvolando sull’orizzonte dischiuso da Sloterdijk, e auspicando comunque un futuro dominato dall’uomo nobile e generoso, viene invece da chiedersi, a fronte della fiducia che ancora una volta il pensatore mostra circa la verosimiglianza storica del racconto di Livio relativo all’instaurazione della repubblica, se effettivamente esso sia credibile: senza per questo mettere al centro del discorso un problema che, nell’ambito di questo contributo, rimane marginale. Come risaputo, accanto agli studiosi che lo ritengono attendibile almeno in via tendenziale, troviamo gli scettici più o meno radicali. Ora, peraltro, sembrano prevalere i primi, che possono Cf. Sloterdijk 2012b, 66-71.
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contare anche su nuove evidenze portate alla luce dagli archeologi. Uno di questi, anzi, il noto Andrea Carandini, nel 2011, a Milano, ha dato alle stampe un libro interessante ancorché divulgativo, intitolato «Res publica». Come Bruto cacciò l’ultimo re di Roma, nel quale, affidandosi con senso critico alle fonti letterarie, e dunque anche a Livio, e valorizzando giudiziosamente i ritrovamenti conseguenti agli scavi anche recenti, ricostruisce proprio i fatti del 509 a.C. che hanno condotto al passaggio dalla monarchia alla repubblica: a suo avviso da intendersi non solo come mutamento di regime, ma pure come transizione «dal cosmopolitismo spregiudicato, lussuoso e lussurioso dei Tarquini a uno stile di vita basato sulla severità dei padri verso i figli, sulla castità delle mogli e sulla frugalità dei magistrati», doti immortalate «nelle menti dei Romani, anche se sempre meno seguite, specialmente a partire dal II secolo a.C., quando si rovesceranno su Roma cascate di materiali preziosi», provenienti dai popoli vinti 68. Ebbene, ciò che qui maggiormente rileva, vista l’importanza che alla vicenda di Lucrezia riferita da Livio riconnette Sloterdijk, è che alla stessa Carandini dà ampio risalto, argomentando a favore della sua plausibilità storica e distaccandosi così da coloro, e non sono pochi, che la relegano nel mondo del mito. Ecco infatti com’egli conclude le pagine dedicate alla celebre matrona: «la Repubblica è in primo luogo una questione istituzionale e morale, che mette in crisi le forme politiche e i costumi rilasciati dell’epoca precedente. E a Roma i costumi fanno parte integrante della libertà politica, mancando in quel tempo la libertà individuale. Di qui, la centralità narrativa dello stupro di Lucrezia, dovuta a ragioni morali, storicamente comprensibili, più che esclusivamente mitiche» 69. Ma anche a ritenere che la figura di Lucrezia non appartenga alla realtà, non dovrebbe dimenticarsi quanto osserva Maurizio Bettini nel saggio che apre Miti romani, un volume di Licia Ferro e Maria Monteleone uscito a Torino nel 2010: e cioè che la fabula, quale potrebbe essere il racconto, anzitutto di Livio, di cui la donna è protagonista, per il fatto di arrivare da lontano, Cf. Carandini 2011, 11-12. Cf. Carandini 2011, 157-158.
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tramandata da una generazione all’altra in via orale e poi con la scrittura, godeva di una particolare autorevolezza – quella stessa che i cives riconoscevano alla tradizione in genere –, sebbene talora inglobasse tratti di fantasia, non di rado innestati su nuclei di verità allo scopo di accrescere il valore esemplare della vicenda narrata 70. Se così è, proprio perché la storia di Livio imperniata su Lucrezia, più o meno autentica che sia, mai sarebbe stata revocata in dubbio all’interno della società romana, comprensibilmente e giustificatamente Sloterdijk non si carica del problema della sua eventuale falsità, pur poggiandovi per l’intero l’articolata riflessione di cui ho dato conto. Q uesta, invero, apparirebbe priva dell’asse portante se, pressati dall’esigenza di ripulire la tradizione relativa ai primi secoli di Roma ripresa da Livio dalle probabili o anche solo possibili incrostazioni mitiche, le sfilassimo il sostegno rappresentato dalla memoria della reazione emotiva del popolo all’indomani della fine disgraziata di Lucrezia, sfociata nell’edificazione della repubblica e nella coessenziale conquista della libertà politica da parte dei suoi membri. Una conquista, si potrebbe peraltro aggiungere a riprova della nuova posizione dal contenuto eminentemente attivo di cui veniva a beneficiare il cittadino, che comportava – come si trae anche da Livio, che ne parla in passi famosi sui quali non mi attardo – la sua ammissione al voto, nell’ambito delle varie assemblee in cui era dislocato, in occasione della scelta di quasi tutti i magistrati, dell’approvazione dei testi normativi e della pronuncia del verdetto al termine dei processi per i crimini più gravi, a cominciare da quelli sanzionati con la pena estrema; ma anche la facoltà dello stesso cittadino di opporsi con la forza, sua ed eventualmente di altri, al detentore del potere il quale, esorbitando dai limiti della propria carica, ne minacciasse la morte in spregio all’interposta provocatio ad populum: una garanzia a presidio della vita e poi anche del patrimonio individuale e in parallelo della competenza esclusiva della comunità a decidere de capite e sui beni personali a fronte di specifiche accuse, talmente fondamentale che già da un’epoca risalente a ciascuno era legislativamente consentito di uccidere chi osasse istituire Cf. Bettini 2010, XVI-XXIII.
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magistrati, salva dapprima l’eccezione del dittatore, esonerati dal rispetto della stessa. 5. Q ualche riga, in conclusione, voglio riservarla al lettore comune di Livio e non al fruitore di opere di tipo artistico, letterario e filosofico che si rifanno al suo racconto. Come dicevo all’inizio, egli ritrae dalle pagine del nostro autore, specie con riferimento al risalente diritto della civitas, spunti in grado di incidere sul proprio modo di intendere la fenomenologia giuridica. Al riguardo, potrei menzionare, perché paradigmatico, il brano in 3, 55, 7-12, dove Livio, rievocato il contenuto della legge Valeria Orazia de tribunicia potestate del 449 a.C., dà conto di una disputa interpretativa generata dal tenore letterale delle sue previsioni. Stando allo scrittore, più in particolare, la legge in questione statuiva la sacertà a Giove a carico di colui il quale recasse offesa ai tribuni della plebe, agli edili e ai giudici decemviri, con la conseguenza che qualsiasi consociato avrebbe potuto privarlo della vita senza incorrere in alcuna sanzione, stabilendo altresì che i suoi beni fossero venduti con devoluzione del ricavato a beneficio del tempio di Cerere, Libero e Libera. A fronte di questo dettato normativo, aggiunge il Patavino, si erano formate due opinioni: l’una, meglio argomentata, volta a escludere che in virtù del medesimo fossero coperti dall’inviolabilità, in aggiunta ai tribuni che già lo erano per effetto del giuramento plebeo del 494 a.C., anche gli edili e i giudici decemviri; l’altra, destinata a soccombere, diretta a estendere l’inviolabilità, data per sancita in capo ai tribuni, agli edili e ai giudici decemviri dal testo legislativo, ai consoli e ai pretori 71. Ebbene, prendere conoscenza di questo dibattito interno alla giurisprudenza romana, generalmente considerato come ben rappresentato da Livio, aiuta non solo a comprendere lo sviluppo storico del pensiero giuridico romano, ma anche a maturare la consapevolezza che le prerogative di chi esercita un potere pubblico traggono origine e sono disciplinate dal diritto, che qualsiasi formulazione legislativa da sempre si presta a molteplici ricostruzioni ermeneutiche, che la forza di queste dipende in larga parte Cf. Garofalo 2005, 53-69.
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da motivazioni di ordine scientifico elaborate in seno alla cerchia di coloro che coltivano professionalmente lo studio giuridico e via dicendo. Tutta la narrazione di Livio, ma in particolare quella che occupa la prima deca, d’altro canto, è volta all’ammaestramento, anche nel campo giuridico: più che il severo accertamento dei fatti teso a espungere dalla memoria il non autentico, proprio della storiografia scientifica, a Livio interessava la riproposizione, mediante una forma letteraria bella e accattivante, di vicende educative dall’angolo della virtù etica e dello spirito civico, al quale non sentiva estraneo il diritto. Significativo, al proposito, è quanto egli scrive nella Praefatio, al tratto 9-11: ‘A questo piuttosto vorrei che ciascuno guardasse con grande attenzione, con quale genere di vita e quali costumi, con quali uomini e quali virtù in pace e in guerra sia stato creato e ingrandito l’impero; e più innanzi vorrei che mi seguisse con l’animo, per vedere come venendo meno a poco a poco la disciplina morale i costumi dapprima si siano rilassati, poi sempre più siano discesi in basso, ed infine abbiano preso a cadere a precipizio, finché si è giunti a questi tempi, in cui non siamo più in grado di sopportare né i nostri vizi né i rimedi. Q uesto soprattutto è utile e salutare nello studio della storia, l’avere davanti agli occhi esempi di ogni genere testimoniati da un’illustre tradizione; di qui potrai prendere ciò che devi imitare per il bene tuo e del tuo Stato, di qui ciò che devi evitare, perché turpe nei moventi e negli effetti. D’altra parte, se non mi trae in inganno l’amore all’opera intrapresa, nessun popolo mai fu più grande o più virtuoso o più ricco di buoni esempi, né vi fu città in cui così tardi siano penetrati l’avidità e il lusso, né dove così grande e durevole onore sia stato reso alla povertà ed alla semplicità di vita: come è vero che quanto minori erano le ricchezze, tanto minore era la cupidigia’. Come rileva Perelli, cui si deve anche la traduzione dello squarcio di Livio ora citato 72, è dunque naturale che la parte più caratteristica della sua opera sia la deca iniziale, «dove la materia gli offre maggior agio di applicare i suoi moduli esemplari, in Cf. Perelli 1974, 109 e 111.
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quanto la scarsezza del materiale documentario gli consente di idealizzare i personaggi e di conferire loro un valore simbolico. Q uesto processo di idealizzazione e di inserimento in canoni paradigmatici risale già alla tradizione storiografica precedente e all’epos nazionale, che nella Roma dei padri vedevano il modello delle virtù etico-politiche e la repubblica perfetta; Livio riassume e porta al culmine questo processo» 73. E così anche il diritto arcaico che affiora dalle sue pagine si fissa nella memoria degli innumerevoli lettori che da millenni vengono leggendo la prima deca e contribuisce ad affinarne la capacità di orientarsi nella selva del giuridico, nonostante il dubbio che in qualche punto esso non sia storicamente attendibile.
Bibliografia Baumstark 1988 = R. Baumstark, Peter Paul Rubens. Tod und Sieg des römischen Konsuls Decius Mus, Vaduz 1988 Bettini 2010 = M. Bettini, Racconti romani «che sono lili’u», in L. Ferro – M. Monteleone (a cura di), Miti romani, Torino 2010, V-XXIX Bruno 2006 = S. Bruno, Jacques Louis David, Il giuramento degli Orazi, in M. Bonetti – S. Bruno (a cura di), Louvre. Parigi, Milano 2006, 118 Burckhardt 2006 = J. Burckhardt, Rubens, trad. it. a cura di A. Bovero, Milano 2006 Calasso 2010 = R. Calasso, L’ardore, Milano 2010 Carandini 2011 = A. Carandini, Res publica. Come Bruto cacciò l’ultimo re di Roma, Milano 2011 Daverio 2015 = David, Marat assassinato, Milano 2015 Garofalo 1989 = L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei iudicia populi, Padova 1989 Garofalo 2005 = L. Garofalo, Iuris interpretes e inviolabilità magistratuale, in Id., Studi sulla sacertà, Padova 2005, 51-74 Guittard 1984 = C. Guittard, Tite-Live, Accius et le rituel de la ‘devotio’, CRAI 128, 1984, 581-600 Cf. Perelli 1974, 35.
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Kemp 2015 = M. Kemp, L’arte nella storia. 600 a.C. – 2000 d.C., trad. it. a cura di C. Bertani, Torino 2015 Kräftner 2004 = J. Kräftner (a cura di), Liechtenstein Museum. Vienna. Le collezioni, Monaco – Berlino – Londra – New York 2004 Masselli 2012 = G. M. Masselli, La leggenda dei Decii: un percorso fra storia, religione e magia, in Ead. (a cura di), Riflessi di magia. Virtù e virtuosismi della parola in Roma antica, Napoli 2012 Ortiz 1964 = M. Ortiz (a cura di), P. Corneille, Teatro, vol. I, Firenze 1964. Perelli 1974 = L. Perelli (a cura di), Storie di Tito Livio, vol. I: libri I-V, Torino 1974 Perelli 1979 = L. Perelli (a cura di), Storie di Tito Livio, vol. II: libri VI-X, Torino 1979 Sacco 2004 = L. Sacco, Devotio, StudRom 52, 2004, 312-352 Santalucia 1984 = B. Santalucia, Osservazioni sui duumviri perduellionis e sul procedimento duumvirale, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Roma 1984, pp. 439-452 Sloterdijk 2012a = P. Sloterdijk, La mano che prende e la mano che dà, trad. it. a cura di S. Franchini, Milano 2012 Sloterdijk 2012b = P. Sloterdijk, Stress e libertà, trad. it. a cura di P. Perticari, Milano 2012 Stockhammer 2004 = A. Stockhammer, Sale di esposizione, in Kräftner 2004, pp. 96-423 Wind 2000 = E. Wind, Humanitas e ritratto eroico. Studi sul linguaggio figurativo del Settecento inglese, a cura di J. Anderson e C. Harrison, trad. it. a cura di P. Bertolucci, Milano 2000
Abstracts This paper considers how some of the most famous episodes in Livy’s work concerning ancient Roman law have influenced – either directly or indirectly – the juridical culture and sensibility of the following centuries, from Augustus up to the present time. The first episodes considered – Decius Mus’ devotio, the duel between the Horatii and the Curiatii and the subsequent prosecution of Horatius, the execution of Brutus’ sons – have left a deep impression on Western culture thanks to the figurative arts, and especially to Rubens’ and David’s paintings. But the influence of Livy’s view on archaic Roman law has reached as far as contemporary political thought, especially through Peter Sloterdijk’s work. 420
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Il saggio mette in luce la grande influenza esercitata da alcuni episodi liviani concernenti il diritto arcaico sulla formazione della cultura e della sensibilità giuridica delle generazioni successive, da Augu sto fino alla contemporaneità. Vicende come quella della devotio di Decio Mure, del duello tra Orazi e Curiazi e del successivo processo a carico dell’Orazio sororicida, dell’esecuzione dei figli di Bruto, prese in considerazione per il loro valore esemplare, hanno segnato profondamente la coscienza occidentale grazie alle arti figurative, e in particolare all’opera di Rubens e David. Ma la prospettiva liviana sul diritto arcaico arriva a pesare sul pensiero politico contemporaneo, in particolar modo sulla paradigmatica riflessione di Sloterdijk.
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PARTE IV
LIVIO NELLE ARTI FIGURATIVE, DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ CONTEMPORANEA
ZULEIKA MURAT
JACOPO DI PAOLO E IL CODICE DEL DE VIRIS ILLUSTRIBUS DELLA UNIVERSITÄTSUND LANDESBIBLIOTHEK DI DARMSTADT (MS. 101) *
Nel 1895 Julius von Schlosser rendeva noto un manoscritto assai interessante che egli stesso aveva rintracciato presso una biblioteca tedesca 1. Il codice, ancora oggi conservato nella Universitätsund Landesbibliothek di Darmstadt, era appartenuto ad un collezionista privato, e le sue vicende storiche, così come l’ambito culturale di riferimento, erano totalmente sconosciuti 2. Schlosser riconobbe opportunamente che si trattava di un volgarizzamento del De viris illustribus di Petrarca, e precisamente – sappiamo oggi – della versione redatta da Donato degli Albanzani 3. Ancora, ipotizzando che lo stemma dipinto entro il cimiero nel bas-de-page a f. 2r (fig. 1), con leone rampante blu su campo bianco, fosse quello della famiglia padovana dei Papafava, lo studioso proponeva che il codice fosse stato realizzato proprio a Padova, e sulla base di un modello illustre. Il ritratto di Petrarca nel suo studio che compare nella pagina di apertura del manoscritto (fig. 2), sembrava dichiararlo esplicitamente: all’evidenza esem* Al termine di questo lavoro desidero ringraziare Giordana Mariani Canova e Fabio Massaccesi, per i loro generosi consigli e per avermi inoltre fornito alcune delle immagini qui riprodotte. Per ragioni di spazio, è stato necessario limitare al minimo il numero di illustrazioni. Per porre rimedio e agevolare il lettore, indicherò di volta in volta riferimenti bibliografici ove reperire riproduzioni delle immagini citate. Cf. Schlosser 1895, 189-193. Il codice è registrato nella Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt a partire dal 1805. Prima di allora si trovava in collezione Heupsch. Cf. Mariani Canova 1999b. 3 Sulla figura di Donato degli Albanzani e sulla tradizione del testo che egli compose, cf. Razzolini 1874-1879; Martellotti 1960; Monti 1985; 2015. 1 2
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 425-464 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117500
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Z. MURAT
Figura 1 Miniatore toscano, Trionfo della Gloria; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 2r.
plato sull’effige del poeta affrescata nella Sala degli Uomini Illustri della reggia carrarese (fig. 3), dove identici sono i dettagli dello studiolo, la figura del protagonista, e la resa prospettica sghemba, alla 426
JACOPO DI PAOLO E IL CODICE DEL DE VIRIS ILLUSTRIBUS
Figura 2 Jacopo di Paolo, Ritratto di Petrarca nello studio; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 1v.
bolognese, di ambiente e mobilio, induceva a ritenere che tutte le miniature del codice fossero state dipinte parafrasando quel prestigioso precedente. 427
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Figura 3 Pittore bolognese, Ritratto di Petrarca nello studio; Padova, Sala deli Uomini Illustri.
L’ipotesi dello studioso fu accolta favorevolmente dalla critica successiva 4, che a sua volta riconobbe nelle sapide scenette dipin-
Il codice ha precocemente attirato l’attenzione della critica, e vanta ora una letteratura piuttosto corposa. Fra i molti studiosi che se ne sono occupati, e che hanno condiviso le ipotesi di Schlosser in merito alla matrice padovana del modello riproposto nel manoscritto, cf. Mommsen 1952; Mellini 1965, 77-103; Sottili 1971, I 458-460; Schmitt 1974; Benati 1992, 76-83; Mariani Canova 1999a, 22; 1999b; Richards 2000, 104-134; Massaccesi 2004, 15; 2011, 128-132; 2012b, 54; Medica 2012, 35-36. 4
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Figura 4 Jacopo di Paolo, Ingresso trionfale di Publio Cornelio Scipione a Roma; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 53r.
te in grisaille nei bas-de-page del manoscritto (fig. 4) una versione elegante e trascritta in chiave cortese dei fatti e dei trionfi che negli affreschi trecenteschi accompagnavano le immagini dei viri illustres. 429
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Il codice membranaceo è composto da 245 carte e misura 341× 230 mm; il testo, distribuito su due colonne, è redatto in scrittura umanistica. Le 24 miniature che decorano il manoscritto si presentano in stato di conservazione assai precario 5. Tuttavia, si può ancora apprezzare l’abilità con cui il miniatore, identificato dalla critica – come poi dirò – in Jacopo di Paolo, ha dato forma visiva alle vicende biografiche di 15 dei 36 eroi antichi citati nel testo, con straordinaria fedeltà agli scritti di Tito Livio da cui Petrarca, e per suo tramite Donato degli Albanzani, derivò le vite qui illustrate 6. Le miniature hanno sviluppo orizzontale, e sono racchiuse all’interno di semplici cornici formate da sottili linee tracciate a penna. Si caratterizzano per l’uso del monocromo, sapientemente dosato per sfruttare il fondo chiaro della pergamena, e ravvivato da tenui pennellate di acquerello che colorano gli alberi, o l’acqua dei torrenti, o ancora le architetture. Minute dorature sono utilizzate talvolta per decorare le corone indossate dai re, e piccoli tocchi di rosso macchiano le vesti di alcuni personaggi feriti. Si apprezza in particolare la maestria con cui il miniatore affronta e risolve l’aspetto narrativo, con i nuclei principali dell’azione isolati nello spazio, e la resa psicologica dei protagonisti, nonché l’amorevole attenzione riservata ai più minuti dettagli naturalistici e aneddotici. Penso, ad esempio, alla scena osservabile al f. 2v, con Amulio in trono imperioso, mentre senza pietà ordina di catturare Rea Silvia e osserva i gemelli in fasce recati al fiume (fig. 5). Ancora, i tre manovali al lavoro sulla cinta muraria di Roma nell’episodio della Fondazione al f. 4v (fig. 6), raffigurati taluni nell’atto di portare in spalla un sacco colmo di materiali, e altri, cazzuola alla mano, impegnati nella posa dei mattoni, ammucchiati a terra. Lì accanto, Romolo, al centro, fissa irato il fratello, con le braccia incrociate sul petto; Remo risponde indicando le mura mentre, secondo il racconto liviano, comunica con aria di sfida l’intenzione di scavalcarle, atto sacrilego che gli causerà la morte. Gli 5 L’intera serie delle miniature è riprodotta in Mommsen 1952, figg. 7-30; e in Richards 2000, tavv. 21-32. Illustrazioni singole, o una selezione di alcune, sono inoltre pubblicate in molti dei saggi che hanno trattato del codice, citati alla nota precedente. 6 Sulla tradizione del testo di Livio e sulle molte riprese a Padova fra Due e Trecento, compresa quella di Petrarca, cf. Billanovich 1951; 1976; 1981; 1989; Witt 2000, 81-173.
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Figura 5 Jacopo di Paolo, Amulio in trono; Rea Silvia stretta dalle guardie; i due gemelli recati al fiume; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 2v.
Figura 6 Jacopo di Paolo, Fondazione di Roma; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 4v.
stessi dialoghi silenziosi, fatti di gesti imperiosi e giochi di sguardi, si ritrovano in molti altri episodi, e basterà osservare il modo in cui Romolo, al f. 3v, comunica ai contadini la propria determinazione (fig. 7), sullo sfondo di un ameno paesaggio bucolico, con il protagonista al centro della scena affiancato da due gruppi di personaggi che ascoltano attenti, chi posandosi al proprio bastone, e chi, attardatosi su altre occupazioni, muove un passo svelto in direzione degli astanti 7. O ancora, in Marco Valerio Corvo vince i Sanniti al f. 15r, l’eloquenza parlante dei gesti e delle pose, la 7 Per alcune riflessioni in merito alle raffigurazioni di Romolo nei codici del De viris illustribus, cf. Armstrong 2014.
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Figura 7 Jacopo di Paolo, Romolo comunica a contadini e soldati la sua determinazione; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 3v.
massa di cadaveri insanguinati, abbandonati sulla sinistra, ai quali corrisponde, al centro, il cumulo di vessilli ammucchiati a terra. Analoghi dettagli cruenti si colgono ad esempio al f. 7r nella scena di lotta fra gli Orazi, individuati dalle lettere SPQ R sull’armatura, e i Curiazi, accompagnati invece dall’infausto sigillo di uno scorpione nero, con gli ultimi superstiti sulla sinistra ritratti proprio nel momento in cui il vincitore affonda il colpo di grazia nella gola del perdente, in un sanguinoso duello corpo a corpo. Nelle scene di lotta o battaglia si esprime al meglio la virtus romana, e basterà allora osservare Orazio Coclite che, solo, al f. 8v affronta e vince gli Etruschi, mentre i suoi compagni sono tutti impegnati ad abbattere con i picconi il ponte sul fiume Tevere. La felice conclusione del conflitto è riassunta dalla figura dell’eroe romano che, in sella al suo destriero, attraversa il fiume e raggiunge illeso la sponda amica, dove lo attendono i concittadini festanti, in ossequio al racconto liviano. Ancora, al f. 19v l’efferata battaglia sul fiume Isso, con un contorto intreccio di corpi, e l’attenta trascrizione delle diverse armi utilizzate dai due eserciti. La violenza di queste scene si stempera nel ritmo pausato e solenne dei Trionfi, dove gli eroi impettiti e fieri sfilano accompagnati dal proprio seguito, e talvolta dai vinti insanguinati (fig. 4). Come ben noto, la sala degli Uomini Illustri si presenta ora nella veste pittorica datale fra 1539 e 1540, quando una nuova campagna decorativa occultò completamente gli originali dipinti tre432
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centeschi, ad eccezione del ritratto di Petrarca che fu solo in parte ridipinto 8. L’aula mantenne, tuttavia, la funzione di rappresentanza che essa aveva in epoca carrarese, ovvero al momento della sua prima ideazione 9. I Carraresi inaugurarono una linea coerente di scelte iconografiche incentrate su temi esemplari dell’antichità, e se già con Ubertino soggetti tratti dalla storia romana erano stati scelti per decorare alcune sale curiali del vasto palazzo, con Francesco il Vecchio tale indirizzo di gusto raggiunse il suo apice 10. Due i fattori che funzionarono da potenti catalizzatori di un processo già in atto: da un lato, la presenza a corte di un circolo umanistico di rilievo, e in primis di Francesco Petrarca, che poteva non solo suggerire i temi da trattare, ma anche fornire i testi sulla cui base realizzare articolati programmi figurativi; in secondo luogo, la 8 Sulla Sala degli Uomini Illustri e la sua decorazione cinquecentesca, si veda almeno Bodon 2002; 2009; 2013. Per il ritratto di Petrarca nello studio, modificato nel Cinquecento con l’aggiunta di una struttura architettonica e di un arioso paesaggio sullo sfondo, cf. Bodon 2009, 345-348. Sebbene sia probabile che la nuova campagna sia servita ad aggiornare stilisticamente la sala antica, non si può escludere che la scelta sia stata sollecitata pure dai danni arrecati da un incendio. Pare infatti che un rogo verificatosi fra XV e XVI secolo avesse bruciato completamente il soffitto, danneggiando irreparabilmente gli affreschi; abbondanti tracce riferibili appunto ad un incendio sono state individuate nelle murature trecentesche, ed è verosimile che anche il Ritratto di Petrarca ne abbia sofferto le conseguenze, e che per tale ragione sia stato parzialmente ridipinto (cf. Appunti 1930; Mommsen 1952, 102). 9 L’uso della Sala come ambiente di rappresentanza è testimoniato per i secoli XVI-XVIII. Successivamente fu utilizzata dai membri dell’Accademia dei Ricovrati come sede per le assemblee, e nel Settecento divenne Biblioteca Pubblica. 10 Sull’uso di temi e motivi tratti dall’antichità classica nelle opere promosse dai Carraresi, e sul significato encomiastico attribuito ai modelli antichi, cf. Gasparotto 1966-1967; Donato 1985, 97-124; 1995; Norman 1995; Donato 1999; Richards 2007; Di Simone 2012, 62; 2013, 35-40; Murat 2013b; Di Simone 2014, 37-38; Murat 2014, 146-148. Le sale di Tebe e di Nerone, citate per la prima volta, rispettivamente, il 13 luglio del 1347 e nel 1350, vanno riconosciute nelle prime stanze curiali della reggia ad aver ricevuto una decorazione ispirata a temi antichi. È stato infatti supposto che la ystoria Thebana altro non fosse se non una versione figurata della Tebaide di Stazio, mentre la sala di Nerone doveva ospitare episodi scelti della vita dell’imperatore romano, probabilmente dipinti sul grande camino che riscaldava la stanza, presso cui si ristorava Jacopo II quando fu pugnalato a morte da un congiurato (cf. Liber regiminum Paduae: Bonardi 1903, 396). Sulle due sale, cf. Gloria 1878, 35-36; Gasparotto 1966-1967, 95-96 e 103; Richards 2007, 27-52; Murat 2014, 138; 2016, 15 e 23 n. 5. Sui camini carraresi e sulle loro decorazioni pittoriche, intrise di allusioni celebrative, cf. Bortolami 2005, 119-120.
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astuta regia della propaganda politica per via di immagini precocemente avviata da Francesco seniore, che trovò nei grandi cicli ad affresco il mezzo per celebrare la propria persona e la sua intera casata 11. Se l’intervento ideatore di Petrarca è stato solo ipotizzato per alcune delle sale volute da Francesco il Vecchio, ovvero la stanza di Lucrezia, di Ercole, di Camillo, delle Navi 12, sicuro è il suo coinvolgimento nella Sala degli Uomini Illustri, la cui decorazione, completata fra 1368 e 1379, fu realizzata sulla base del Compendium che Petrarca e, alla sua morte, Lombardo della Seta, avevano appositamente composto, e che il Carrarese aveva fortemente voluto 13.
11 L’oculata gestione dell’immagine pubblica dei domini patavini è stata precocemente rilevata dagli studiosi e vanta una letteratura critica piuttosto ricca. Ci limitiamo qui a segnalare gli studi principali, rimandando alla bibliografia anteriore in essi citata: Plant 1987; Saalman 1987; Donato 1995; Norman 1995; Donato 1999; Kohl 2001; Richards 2007; Murat 2013a; 2013b; 2016, 67-72; Zaru 2013. 12 La camera di Lucrezia, ricordata già nel 1356 (cf. Gloria 1888, n. 1884), sorgeva al piano terra del portico interno, accanto alla camera dei Carri e all’anticamera dei Cimieri, dove ora ha sede la biblioteca dell’Accademia Galileiana di Scienze Lettere e Arti (cf. Murat 2014, 140-142). La sala era decorata da un ciclo dipinto con vicende dell’eroina romana, la sposa casta e fedele che scelse la morte pur di non tradire il consorte e che, assieme a Penelope, guida la folta schiera di donne virtuose del Trionfo della Pudicizia petrarchesco (cf. Wilkins 1962). La sala del camino di Ercole, ove aveva sede la cancelleria carrarese (cf. Gloria 1878, 35-38), si apriva sul grande cortile di levante ed è citata a partire dal 1363. Sulla cappa unghiata del camino dovevano essere dipinte storie dell’eroe celebrato già da Virgilio e poi da Petrarca, nel ciclo dei dodici eroi non romani scritto a Valchiusa tra il 1351 e il 1353, che si interrompeva proprio con l’incompleta Vita di Ercole (cf. Wilkins 1955, 95-112; 1959, 283. Per il valore di Ercole in Petrarca cf. Mommsen 1953). La stanza di Camillo, sicuramente già esistente nel 1366 (cf. Gloria 1878, 36-37), sorgeva accanto alla sala delle Bestie ed era dedicata all’eroe romano, «vir inclitus sine sui, imo sine omnis ante temporis exemplo, omni prorsus sed presertim bellica gloria singularis» (Petrarca, Vir. ill., Cam. 62). Degli affreschi che decoravano la sala erano riemersi alcuni frammenti a fine Ottocento, su cui si veda infra, note 58-59. La sala delle Navi, citata a partire dal 1401 (cfr. Gloria 1878, 38), ospitava forse una decorazione che rievocava la vittoria dei Patavini sulla flotta del greco Cleonimo nel 302 a.C., descritta da Tito Livio negli Ab urbe condita (10, 2), a ricordo della quale si celebrava ogni anno una solenne naumachia fluviale. Su queste sale: Gasparotto 1966-1967, 101102, 108; Richards 2007, 54-58, 129-134; Bodon 2009, 22; Murat 2014. 13 La bibliografia sull’argomento è molto vasta. I testi fondamentali più recenti, ai quali si rimanda anche per la bibliografia anteriore, sono: Fera 2007; De Capua 2008; Malta 2008.
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L’erudita base filologica di queste pitture è ciò che distingue i cicli carraresi dai molti analoghi cicli che negli stessi anni venivano commissionati presso le altre corti dell’Italia padana, dove gallerie di ritratti di eroi antichi e moderni rappresentavano, con figure esemplari, i valori e le virtù in cui i signori si riconoscevano 14. Non solo, ma a Padova il riferimento a temi classici della Roma antica serviva anche a rievocare le origini auliche della città, nonché un illustre civis patavinus, Tito Livio, allora considerato la più autorevole voce della storiografia latina, e non a caso fonte principale a cui gli estensori dei programmi iconografici carraresi attinsero dettagliate informazioni storiche 15. La continuità fra antichi e moderni, fra gli eroi della Roma classica e i loro eredi e successori della Padova trecentesca, era suggerita in maniera assai efficace nei dipinti della reggia carrarese: proprio accanto alla sala dei Viri illustres vi era un loggiato aperto, il «pozuolo da driedo […] ove sono li Signori de Padoa ritratti al naturale de verde» 16, ovvero i ritratti dei Carraresi a grandezza naturale e in monocromo, in effigi che sono probabilmente riprese nel codice di Vergerio ora conservato presso la Biblioteca Civica di Padova (ms. BP.158) 17. La contiguità fisica fra le raffigurazioni degli eroi romani e quelle dei Carraresi instaurava un legame simbolico, funzionale a celebrare l’intera casata regnante di Padova. Tornando dunque al codice miniato di Darmstadt, va detto che l’opera interessa sotto molteplici punti di vista. Non solo in quanto testimonianza di cicli pittorici non più esistenti, ma anche perché, debitamente ricontestualizzato, il manoscritto permette di intuire la vastità di un singolare fenomeno culturale che trovò il suo baricentro a Padova, ma che presto si estese ad altri ambienti, e che fece della Padova preumanistica del tempo dei Carraresi un 14 Sulla diffusione delle raffigurazioni di Uomini Famosi nelle principali corti italiane, e sulla funzione apologetica ad esse attribuito, rimane ancora fondamentale, per rigore e ricchezza di spunti, lo studio di Donato 1985; a questo si aggiungano Schmitt 1989; Donato 1995; Piccoli 2010, 110-111; Di Simone 2012; 2013; Napione 2013; Delzant 2014; Di Simone 2014. 15 Cf. supra, nota 6. 16 M. Michiel, Notizia d’opere del disegno (Frimmel 2000, 30). 17 L’ipotesi di una derivazione delle miniature del codice padovano dai dipinti della reggia fu proposta da Schubring 1898, 85. Sul manoscritto, con bibliografia precedente, cf. Cozzi 1999.
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modello da emulare. Una tendenza intellettuale di vasta portata, che – per quanto attiene i manoscritti – è stata precocemente rilevata e studiata da Giordana Mariani Canova, nei numerosi lavori esemplari che la studiosa ha dedicato all’argomento 18. Le fonti sono concordi nell’affermare che la decorazione trecentesca della Sala degli Uomini Illustri prevedeva le effigi degli eroi antichi, da immaginare, come prassi comune all’epoca, dipinti a figura intera entro una cornice architettonica 19; essi erano accompagnati da tituli, ovvero – probabilmente – da brevi sentenze che ne indicavano i nomi e forse riassumevano le vicende essenziali della loro esistenza 20. La composizione era verosimil18 Ricordo, in particolare, la mostra La miniatura a Padova (Mariani Canova 1999d), realizzata con il coordinamento scientifico di Giordana Mariani Canova. Nella densa introduzione che apre il catalogo, la studiosa dedica vasto spazio alla miniatura del Trecento, con specifici affondi riservati all’epoca di Francesco I e Francesco II da Carrara (Mariani Canova 1999a, 21-24). La medesima scansione cronologica si ritrova poi nelle schede di catalogo, molte delle quali a cura di Giordana Canova. Ne emerge un quadro coerente e sostanzioso, dove i singoli codici sono riletti non come isolati prodotti della committenza carrarese, ma come parte integrante di un programma e di un contesto assai più vasti, e come fondamentali testimoni del vivace clima culturale che caratterizzò la Padova del Trecento. Ricordo inoltre altri studi, limitandomi, per ragioni di spazio, ai principali: Mariani Canova 1994; 2006b; 2011. 19 Numerose opere tuttora esistenti aderiscono al medesimo impianto compositivo, venendo così a confermare la validità della proposta. Penso, in particolare, ai Neuf Preux del Castello della Manta a Saluzzo; alla Sala degli Imperatori in Palazzo Trinci a Foligno; agli Uomini Famosi di Palazzo Datini a Prato; agli eroi antichi di Taddeo di Bartolo nell’anticappella del Palazzo Pubblico di Siena, e a quelli dipinti nel castello di Montefiore Conca presso Rimini (cf. Donato 1985; Cavallaro 1995; Di Simone 2012 e 2014; su Montefiore Conca, cfr. infra, nota 57). 20 Le fonti principali, che scrissero quando gli affreschi esistevano ancora, sono Lombardo della Seta e Michele Savonarola. Il primo afferma: «Hos non modo mente et animo et virtutum amantissimus hospes digne suscepisti, sed et aule tue pulcerrima parte magnifice collocasti et more maiorum hospitaliter honoratos auro et purpura cultos ymaginibus et tituli admirandos ornatissime tua prestitit magni animi gloriosa conceptio, que cum similes sui ut supra dictum est reddat effectus, nec tui nec innate virtutibus oblitus in forma excellentissime picture extrinsecus expressisti, quod intus ab arduo erat conceptum ingenio, ut assidue in conspectu haberes, quos diligere ob magnitudinum rerum studueras»; e poi ancora: «Scio enim te, urbis Patavi inclite rector, tuorum clarissimorum heroum gradatim ut breviter acta cognoscas, huiusce opuscoli avide finem exposcere. Ideoque ut in ultimo angulo tue venustissime aule Trayanum inter ceteros collocasti, ita et in hoc opere novissimum tradere perquiro»; (le parole di Lombardo della Seta si trovano nel manoscritto del De viris illustribus di Parigi, Bibliothèque Nationale de France, lat. 6069F, rispettivamente ai ff. 144r e 194r. Cf. Armstrong 1999, 521 nn. 25-26; Bodon 2009, 11). Savonarola, invece, ricorda: «…sala Imperatorum, in qua Romani imperatores miris cum figuris
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mente completata da riquadri narrativi, in cui erano raffigurati fatti della vita dei personaggi, o i rispettivi Trionfi 21. Nell’idea compositiva generale, dunque, è assai probabile che i dipinti trecenteschi non si discostassero troppo da quelli attuali 22. Possiamo immaginare che le effigi dei viri illustres trovino un’eco – per la verità piuttosto sbiadita e molto diminuita – nei ritratti che compaiono nei capilettera delle singole biografie del codice di Darmstadt, da attribuire verosimilmente allo stesso artista toscano cui spetta la Gloria con lo stemma del committente posta in apertura del manoscritto 23. Le scenette narrative a grisaille campite nel bas-de-page possono invece costituire una trascrizione dei fatti e dei trionfi che visualizzavano gli episodi per i quali l’eroe era ricordato e celebrato 24. cumque triumphis, auro optimoque cum colore depicti sunt. Q uos gloriose manus illustrium pictorum Octaviani et Alticherii configurarunt» (Libellus, Segarizzi 1902, 49). Sarà inoltre opportuno ricordare le parole di Marcantonio Michiel, che scrisse a breve distanza dalla nuova campagna decorativa della sala, e che dunque può essere considerato un attendibile testimone dell’allestimento originario: «Nella sala di Giganti, segondo el Campagnola, Jacomo Dauanzo dipinse a man mancha la captività di Giugurta, et triompho di Mario. Guariento Padoano li XII Cesari a man dextra e li lor fatti. Segondo Andrea Rizzo vi dipinsero Altichiero et Cotaviano Bressano. Ivi sono ritratto el Petrarcha et Lombardo, i quali credo che dessero l’argomento di quella pittura» (Frimmel 2000, 34). 21 Sull’iconografia dei Trionfi, si veda soprattutto Pinelli 1985: a partire dalle nove tele di Andrea Mantegna raffiguranti i Trionfi di Cesare, realizzate per Francesco II Gonzaga e conservate ora a Londra, Hampton Court (cf. De Nicolò Salmazo 2004, 203-211; Arlt 2005; Elam 2008; Tosetti Grandi 2008), lo studioso analizza con rigore le possibili origini e fonti trecentesche del tema, sottolineando l’importanza dei modelli esistenti a Padova. Per una sintesi della complessa questione e dello sviluppo dell’iconografia dei Trionfi in ambito padovano, si vedano Banzato – Limentani Virdis 2006. 22 Già Mommsen (1952) lo ipotizzava. In un denso saggio, Lilian Armstrong precisa collocazione e svolgimento della sequenza narrativa sulla base di alcune xilografie inedite, che appartengo a due diverse copie del De viris illustribus di Petrarca, nell’edizione dell’Albanzani, stampate dall’antiquario Felice Feliciano nel 1476, verosimilmente esemplate sui dipinti carraresi; la studiosa presenta inoltre una ipotesi di restituzione grafica dell’assetto originario, che discute in rapporto ai dipinti moderni (Armstrong 1999; sulle xilografie si veda pure Armstrong 2016). 23 L’intervento di due diverse mani nel manoscritto di Darmstadt è stato rilevato precocemente in sede critica; lo notava già Schlosser (1895), seguito poi dalla letteratura successiva. Spetta a Richards (2000) aver argomentato che i ritratti nei capilettera del codice possano riprendere le effigi degli Uomini Illustri carraresi, un’ipotesi che già Mommsen (1952, 110) aveva dubitativamente prospettato. 24 Lo ipotizzava per primo Schlosser 1895, seguito poi da Mommsen 1952, e infine dalla critica successiva.
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Alla libera inventiva del miniatore dobbiamo certo assegnare alcune scene, poiché a taluni dei protagonisti vengono riservati diversi riquadri (ben cinque a Romolo, ad esempio), mentre altri sono privi di illustrazioni, e non è pensabile che gli affreschi adottassero un criterio analogo, che avrebbe comportato un’organizzazione eccessivamente irregolare delle pitture sulla superficie muraria. Dal modello carrarese potrebbe derivare pure l’uso del monocromo. La pittura a grisaille non era sconosciuta all’epoca 25, e pare essere stata adottata con una certa frequenza per cicli a carattere storico, e per raffigurazioni esemplari legate alla classicità. Fra gli esempi più noti, in ambito veneto, vanno annoverati i dipinti che ornavano la Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia, dove i Fatti del 1177, ovvero la narrazione storica delle vicende che avevano portato al conflitto fra l’imperatore Federico Barbarossa e il papa Alessandro III, risolto grazie alla fondamentale mediazione di Venezia, erano appunto raffigurati in riquadri rea lizzati a monocromo nella seconda metà del Trecento 26. Gli stessi signori carraresi, lo si ricorderà, si erano fatti ritrarre in terretta verde nel vano accanto alla Sala degli Uomini Illustri 27. Non erano queste le uniche pitture a monocromo della reggia, dove le fonti citano anche una sala con «pitture a fresco de chiaro e scuro che contengono li fatti d’arme delli Carraresi» 28. Tale indirizzo di gusto può avere un riferimento antiquario dotto, poiché – come osserva Fabio Massaccesi 29 – la discussione sul monochromaton affonda le sue radici nell’auctoritas degli autori classici: Plinio, in particolare, riconduceva l’uso del monocromo agli albori stessi dell’arte pittorica e ad uno dei suoi padri fondatori, ovvero Zeusi, il quale pinxit et monochromata ex albo (35, 9) 30. Nella Padova del Trecento l’opera di Plinio era ben conosciuta; Petrarca stesso ne possedeva una copia che aveva acquistato a Mantova nel 1350, Per una panoramica generale cf. Kraft 1962. Mi permetto di rimandare al mio Murat 2016, 45, 84-86 e 194-196, con bibliografia lì menzionata. 27 Cf. supra, note 16-17. 28 M. Michiel, Notizia d’opere del disegno (Frimmel 2000, 30). Su queste pitture, forse riprese nel manoscritto Cronica de Carrariensibus (Gesta magnifica domus Carrariensis) conservato a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. X, 381 = 2802 (cf. Baggio 1999), si veda Murat 2014, 148. 29 Massaccesi 2004. 30 Massaccesi 2004, 15. 25 26
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e che ora si conserva a Parigi con l’aggiunta di numerose postille e disegni di mano del poeta (Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 6802) 31. Del resto, le miniature di Darmstadt sono dense di riferimenti alla classicità, nei molti edifici che vi compaiono e che sono raffigurati con un’aderenza al reale inedita per il Trecento. Si dovranno allora osservare i numerosi richiami alla città di Roma, non a quella mitica e sfocata dei Mirabilia medievali, ma a quella reale, vista e descritta da Petrarca e più tardi da Giovanni Dondi dell’Orologio 32, negli inattesi spaccati dell’Urbe, che mostrano al lettore ora l’Arco di Giano, ora l’Obelisco Vaticano, la Basilica di San Nicola in Carcere, Castel Sant’Angelo, il Pantheon 33. Lo stesso impaginato delle miniature sembra rimandare consapevolmente a modelli antichi. Le illustrazioni paiono infatti simili a fregi in bassorilievo, e ricordano per certi versi le raffigurazioni che stanno alla base dei Vizi e delle Virtù dipinti da Giotto in cappella Scrovegni, mentre la peculiare impaginazione, con due colonne di testo e illustrazioni nel bas-de-page con svolgimento a banda orizzontale, è distintiva dell’illustrazione di manoscritti cavallereschi di produzione italiana, in particolare padana 34, e deriva forse da modelli tardoantichi 35; una sintassi narrativa che, proprio a Padova, pare aver trovato un centro di elaborazione precoce, e che fu utilizzata in maniera esemplare dal Maestro degli Antifonari di Padova nelle affollate scene di battaglia, sullo sfondo di città turrite, del Roman de Troie che egli miniò all’inizio del Trecento (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 2571) 36. Il racconto si svolge nel codice in maniera 31 Cf. Bettini 1984, 245; Donato 2004, 440-443; Massaccesi 2004, 15; Cipolla 2009; Ceccherini – Perucchi 2013. 32 Petrarca parla della sua visita a Roma in Fam. 6, 2, nella lettera indirizzata a Giovanni Colonna nel 1337, e in Afr. 8, 907-910; cf. Valentini – Zucchetti 1953, 1-10; Bettini 1984, 231-233; Donato 2004. Giovanni Dondi ne parla invece nel suo Iter Romanum del 1375, su cui si veda Valentini – Zucchetti 1953, 65-73. Di recente, l’attribuzione del manoscritto a Giovanni Dondi è stata messa in discussione da Giulia Perucchi, che ritiene piuttosto che l’opera vada ricondotta ad un anonimo intellettuale appartenente alla cerchia del dotto padovano; Perucchi 2016. Per un’ampia disamina generale, si veda Weiss 19882. 33 Su questi aspetti, cf. Mommsen 1952, 110-112; Richards 2000, 112-113. 34 Lo hanno ampiamente argomentato e dimostrato Dachs-Nickel 1989; Leonardi et alii 2014; Molteni 2014; Molteni – Whalen 2014. 35 Molteni 2016. 36 Ringrazio Federica Toniolo per avermi suggerito questo confronto. Sul manoscritto: Buchtal 1971, 9-13; Toniolo 2010, 558-560.
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assai fluida, senza soluzione di continuità, procedendo serrato in episodi «distesi sulla pergamena come l’affresco sulla superficie di una parete» 37. La rapida e capillare diffusione di tali prototipi era certo favorita dall’estesa consuetudine di copiare i manoscritti, ma anche dalla fitta rete di prestiti e scambi di codici fra le varie corti testimoniata da numerose lettere 38. Nel corso del Trecento, essi circolarono ampiamente nell’Italia settentrionale, entrando nelle biblioteche delle signorie padane 39. Nel trascrivere su pergamena le solenni scene affrescate, il miniatore seppe donare loro una veste più consona alla loro mutata destinazione, nonché ovviamente alle differenti dimensioni del supporto a disposizione. Il nitido rigore d’impianto, l’intenso pla sticismo e le semplificazioni geometriche della figurazione palesano una sicura declinazione neogiottesca dell’immagine, accanto a rimandi alla tradizione gotica bolognese nella vivacità del racconto, in talune forzature espressive, e nei ribaltamenti dei piani spaziali. La verve che contraddistingue le miniature, un tempo ricondotte ad Altichiero 40, è stata precocemente associata ai pittori felsinei, che spesso, nel Trecento, usavano narrare fatti sacri e profani con genuino trasporto. A Massimo Medica dobbiamo l’attribuzione a Jacopo di Paolo 41, artista bolognese nato entro il Mariani Canova 2006a, 611. Penso, ad esempio, agli scambi epistolari fra Borso d’Este e Ludovico di Cunio, che reciprocamente si prestavano preziosi volumi dalle proprie biblioteche; nel 1470, ad esempio, Borso scriveva a Ludovico, lamentando che «Nuj habiamo horamaj forniti et compiti di legere tutj li nostri libri franzisi che nui se ritrovamo havere presso de nuj», e chiedendo che «vogliatj mandare carrico quanti più libri francisj vuj poteti», offrendo in cambio il prestito di un altro codice. Lo stesso Borso aveva in precedenza avuto da Ludovico Gonzaga «un libro francese che tratta de Gurone», che egli tardò molto a restituire, irritando comprensibilmente il legittimo proprietario. Su queste lettere: WoodsMarsden 1988, 24-25, e 182-183 nn. 59-62 per le relative trascrizioni; si veda inoltre Molteni 2014, 166. Notizie fondamentali sulla consistenza delle biblioteche signorili si ricavano dagli inventari di corte, in merito ai quali rimando ancora a Woods-Marsden 1988, 20-26. 39 Cf. Delcorno Branca 1998, 7-43, 59-65; Molteni 2016. 40 Mellini 1965; 1974. 41 Cf. Medica 1987, 163. L’attribuzione formulata dallo studioso è stata poi accolta favorevolmente in sede critica; qualche perplessità manifesta Giordana 37 38
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1345, documentato nella città natale fra il 1378 e il 1426 42, fortemente influenzato (soprattutto nelle sue prime opere) dallo stile di Jacopo Avanzi, che probabilmente egli affiancò in diverse occasioni. Colto ed eclettico, autore di numerosi dipinti sia su tavola che ad affresco 43, Jacopo di Paolo svolse inoltre una documentata attività di miniatore 44, collaborò talora con importanti scultori ai quali fornì cartoni per realizzare le proprie opere 45, e disegnò pure alcune vetrate 46. A dimostrare il suo intervento nelle miniature del codice di Darmstadt valgono puntuali analogie con altre opere attribuite con certezza alla sua mano. Un confronto con le sapide scenette dipinte nella predella del polittico Bolognini, ad esempio, licenziato nel secondo decennio del XV secolo per la cappella eponima in San Petronio a Bologna 47, permette di osservare un tipico trattamento delle ambientazioni paesaggistiche, con esili alberelli dal lungo fusto e dalle chiome arruffate, e fondali rocciosi distribuiti su più piani abilmente sfruttati per scandire le tappe della narrazione, determinando l’entrata o l’uscita di scena dei vari protagonisti; elementi, questi, che ricorrono identici nelle miniature Mariani Canova (1999b), che tuttavia riconosce l’origine emiliana del pittore qui all’opera. Su Jacopo di Paolo, si vedano Benati 1996 e 2004; Massaccesi 2004; Tambini 2004; Massaccesi 2011 e 2012; Medica 2012. 42 Per una silloge documentaria sul pittore, cf. Benati 2004, con importanti precisazioni in Massaccesi 2004, 8-9. 43 L’artista concentrò la maggior parte della propria attività nella città natale, dipingendo opere fondamentali quali il polittico Bolognini nella basilica di San Petronio e gli affreschi della chiesa di Santa Maria di Mezzaratta. Approfondite discussioni sulle imprese pittoriche di Jacopo, sia su tavola che su muro, si trovano in D’Amico – Grandi 1987a; Skerl Del Conte 1993; Benati 1996; 2004; Massaccesi 2004; Tambini 2004; Massaccesi 2011; 2012a; 2012b. 44 Gli studiosi hanno potuto ricondurre alla sua mano numerose pagine miniate, su cui si vedano: Medica 1987, 161-166; 1992, 7; Benati 1999a; 1999b; Medica 1999a, 69-70; Guernelli 2007; Nicolini 2010; Massaccesi 2011, 129, 131; Battistini 2012; Benati 2012; Benevolo 2012; Medica 2012, 36-37; Guernelli 2013; 2015a. 45 Mi riferisco, nello specifico, ai modelli grafici che egli fornì per le sculture del basamento di facciata della basilica di San Petronio, di cui ci informa un documento del 4 marzo 1393. Cf. Grandi 1981; Cavazzini 2004, 31 n. 45; Massaccesi 2011, 124-126. 46 In particolare, quelle della cappella Bolognini in San Petronio a Bologna, su cui si veda Massaccesi 2009; 2011, 113-115. 47 Sul polittico Bolognini, cf. D’Amico – Grandi 1987a; Kloten 1987; Massaccesi 2011, 115-121; 2012a, 23.
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di Darmstadt e che dimostrano la comune paternità di scene quali Polistrato incontra Dario alla sorgente del f. 20r del codice, e dell’Arrivo dei Magi della pala Bolognini (figg. 8-9). Così, l’umanità varia e fremente, i personaggi talvolta dimessi, con vesti stracciate, direttamente convocati dagli strati più bassi della società dell’epoca, si ritrova tanto nelle illustrazioni del codice, ad esempio in Romolo comunica ai contadini la sua determinazione del f. 3v (fig. 7), quanto in dipinti di più vasta scala quali la tavola con Crocefissione della Pinacoteca Nazionale di Bologna, scomparto centrale di un trittico completato entro il 1410 per il convento di San Michele in Bosco 48. Ancora, si dovranno osservare le reazioni talmente violente da costringere i corpi in pose innaturali, e da deformare i tratti del volto, che accomunano, ad esempio, alcuni personaggi dell’episodio di La punizione dei ribelli al sacerdozio di Aronne, parte di un ciclo con Storie di Mosè dipinto nella chiesa di Mezzaratta negli anni Settanta del Trecento, ora staccato ed esposto nella Pinacoteca Nazionale di Bologna 49, e della Lotta tra gli Orazi e i Curiazi al f. 7r del codice tedesco. Infine, certe scatole spaziali, con architetture semplici ed essenziali, slanciati archi a tutto sesto, sottili colonnine, e monofore in scorcio prospettico, che si ritrovano tanto in dipinti quali Santa Margherita viene imprigionata mentre Olibrio venera gli idoli della Galleria Moretti di Firenze, opera della prima maturità di Jacopo 50, quanto in episodi quali Un armato prega un idolo in un tempio al f. 22r del manoscritto di Darmstadt. Le vicende biografiche dell’artista non contrastano con l’ipotesi di un suo coinvolgimento in questa impresa, e anzi la rafforzano in virtù dei suoi precoci legami con la città di Padova, tessuti inizialmemte per il tramite dello zio Nicolò di Giacomo 51, e poi di Jacopo Avanzi 52. Cf. D’Amico 2004; Massaccesi 2012a, 23-24. Sugli affreschi di Mezzaratta, con bibliografia lì citata, cf. Skerl Del Conte 1993; Massaccesi 2004, 7-8; Volpe 2004; 2005; Massaccesi 2011, 107. 50 La tavola di Firenze è discussa in: Massaccesi 2007 e 2012c, a cui si rimanda per la bibliografia anteriore. 51 Dobbiamo la specifica sul grado di parentela esistente fra Jacopo e Nicolò a Fabio Massaccesi, che rilegge correttamente alcuni documenti bolognesi (Massaccesi 2004, 8). 52 La bibliografia su Jacopo Avanzi e sulla sua attività padovana è assai vasta e non può essere qui interamente menzionata. Mi limito dunque a segnalare gli 48 49
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Figura 8 Jacopo di Paolo, Polistrato incontra Dario alla sorgente; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 20r.
Figura 9 Jacopo di Paolo, Polittico Bolognini, particolare con L’arrivo dei Magi; Bologna, Basilica di San Petronio, Cappella Bolognini (Cappella dei Magi)
Nicolò di Giacomo, presso la cui bottega Jacopo di Paolo probabilmente si formò, lavorò per prestigiosi committenti padovani, dapprima miniando alcuni graduali per la Basilica del studi principali, a cui andranno aggiunti i riferimenti di volta in volta citati nelle note successive: Mellini 1965; Benati 1992; De Marchi 2003; Benati 2007.
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Santo (1360-1365), poi, secondo taluni, il De viris illustribus oggi conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Città del Vaticano, Ottob. lat. 1883), licenziato il 15 novembre del 1380 da Lombardo della Seta e identificato con la versione che il fiorentino Coluccio Salutati aveva richiesto direttamente all’uma nista l’anno precedente, e infine un manoscritto delle Tragedie di Seneca (oggi Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, lat. XII 26), ordinato dal cardinale Francesco Zabarella e sottoscritto nel 1395 53. Con l’Avanzi, Jacopo di Paolo completò probabilmente il proprio apprendistato artistico. I tre riquadri ad affresco con Storie di Mosè dipinti nella chiesa di Mezzaratta, già citati più sopra, documentano le primissime fasi della fruttuosa società e vedono il giovane pittore impegnato in un palese ossequio nei confronti delle scelte perseguite dal più anziano maestro, che forse predispose il disegno di tutte e tre le scene, ma ne realizzò di sua mano soltanto una, lasciando le altre al giovane aiuto 54. Il rapporto con Jacopo Avanzi è tutt’altro che secondario nel contesto di cui ci stiamo occupando, poiché proprio a quel pittore sono attribuiti dalle fonti, a partire da Michiel 55, alcuni degli affreschi che decoravano la Sala dei Viri illustres della reggia carrarese. Secondo Fabio Massaccesi, Jacopo di Paolo avrebbe addirittura seguito il maestro a Padova, coadiuvandolo nell’impresa in qualità di subalterno 56.
Su Nicolò di Giacomo sono fondamentali gli studi di Schmidt 1973; Flores D’Arcais 1984 e 1992; Bollati 1993; Pasut 1998; Benati 1999a; 1999b; Medica 2003; Pasut 2004a e 2004b; Armstrong 2006; Guernelli 2007; Pasut 2009; Benati 2009; 2012; Freuler 2012, I 280-283; Guernelli 2013; Monti 2013; Pasut 2013; Guernelli 2015a. Sui graduali della Basilica del Santo, cf. da ultimo Toniolo 2011. Sul De viris della Vaticana cf. Mariani Canova 2006b; De Robertis 2008; Pasut 2009; Medica 2014, 357-358. Non crede all’attribuzione delle miniature a Nicolò di Giacomo Guernelli 2015b, 10 n. 2. Sulle Tragedie di Seneca cf. Bollati 1997; Medica 1999b, 475-476. 54 Cf. Massaccesi 2004, 9. Sugli affreschi si veda pure supra, note 43 e 49. La critica assegna a Jacopo di Paolo i due riquadri con Mosè presenta le tavole della legge e la Punizione dei ribelli al sacerdozio di Aronne, mentre ascrive a Jacopo Avanzi l’Uccisione degli ebrei idolatri. 55 L’attribuzione è controversa e non può essere verificata a causa della distruzione del ciclo trecentesco. Sulla testimonianza di Michiel, cfr. supra, nota 20. Cf. inoltre Gasparotto 1966-1967, 104-105; Benati 1992, 76-83. 56 Massaccesi 2011, 11. 53
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Non a caso le miniature del codice di Darmstadt sono strettamente confrontabili con diverse opere dell’Avanzi, ed in particolare con gli affreschi del Castello di Montefiore Conca, in provincia di Rimini, commissionati da Malatesta Ungaro fra 1362 e 1372 57; le pitture sono ritenute dagli studiosi un affidabile riferimento per quanto Jacopo Avanzi poteva aver dipinto presso la reggia dei carraresi, essendo assai prossima la cronologia, e analoghi sia la tematica (gli affreschi di Montefiore ritraggono episodi dell’Eneide, un soggetto dunque a carattere storico ed eroico), sia l’impaginato su muro con figura stante dell’eroe e scene della sua vita. A tal proposito, ritengo vi sia un’altra testimonianza figurativa che merita di essere presa in considerazione. Si tratta di alcuni disegni realizzati nel 1878 da Angelo Sacchetti, ora conservati presso la Biblioteca Civica di Padova (Raccolta Iconografica Padovana 1462, 1463) che ritraggono alcuni affreschi trecenteschi riemersi in un ambiente di quella che un tempo era la reggia carrarese, e che si stava allora demolendo per costruire le Scuole Carraresi. Incaricato dalla Giunta Municipale di preparare una perizia degli affreschi, per valutare se fosse opportuno sospendere i lavori e preservare il locale, Sacchetti descrisse una scena assai affollata, con uomini, donne e numerosi cavalli sullo sfondo di una città in fiamme 58. Secondo Cesira Gasparotto poteva trattarsi della sala di Camillo, che le fonti citano in una posizione corrispondente a quella dell’ambiente dove furono rinvenuti i dipinti 59. Interrogato se gli affreschi potessero spettare a Guariento, Sacchetti rispondeva: «In quelle tracce io scorgo piuttosto la maniera dell’Avanzi», una suggestione che la critica ha mancato, finora, di prendere nella dovuta considerazione. Osservando i disegni, pur con la cautela che il filtro ottocentesco imposto agli originali obbliga ad adottare, certe soluzioni formali, certe espressioni, perfino la resa ‘ritrattistica’ del cavallo, non sembrano contrastare con l’attribuzione a Jacopo Avanzi degli affreschi distrutti. Si ricorderà che il pittore era celebrato dalle fonti, a partire da Su questi affreschi cf. Benati 1992; 2007, 393-394; Muscolino 2009. La relazione di Sacchetti si conserva presso la Biblioteca Civica di Padova, assieme ai lucidi tratti dai dipinti: Sacchetti 1878. Il documento è pubblicato in versione integrale in Gasparotto 1968-1969, 256-259. 59 Cf. Gasparotto 1968-1969, 244-255. 57 58
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Michiel, proprio per la straordinaria abilità con cui egli sapeva rendere in pittura l’anatomia e i moti dei cavalli 60; un’abilità che egli dimostra in pieno negli affreschi realizzati in cappella San Giacomo al Santo 61, dove il cavallo raffigurato nell’episodio della Liberazione e inseguimento dei compagni di san Giacomo è ben confrontabile con il destriero del disegno di Sacchetti. La cronologia della sala di Camillo, realizzata entro il 1366, può essere compatibile con un intervento di Jacopo Avanzi, che proprio in quegli anni – stando alle fonti – lavorava alla reggia 62, forse già coadiuvato dal giovane allievo. Se l’intervento di Jacopo Avanzi in questa sala rimane nel campo delle ipotesi non verificabili, è certo tuttavia che gli affreschi visti da Sacchetti testimoniano ulteriormente delle cifre stilistiche e formali tipiche delle imprese carraresi, in una singolare rilettura in chiave moderna e a fini propagandistici di fatti e personaggi antichi. Il carattere esemplare presto attribuito agli affreschi carraresi è confermato dalle molte opere ispirate a quei dipinti, fra cui appunto le miniature di Darmstadt. Del resto, tanto il compilatore dell’opera, quanto il committente del codice, potevano ben considerare gli affreschi della Sala padovana come modelli di riferimento imprescindibili, ed è possibile che la scelta dell’artista a cui affidare le miniature sia caduta su Jacopo di Paolo proprio in virtù della sua confidenza con il precedente. Donato degli Albanzani, l’autore del volgarizzamento, era in stretti rapporti con Petrarca, e con i Carraresi. Nato entro il 1328, si trasferì a Venezia nel 1357, dove conobbe Francesco Petrarca che gli impose il nome ‘umanistico’ di Donatus Appenninigena o Apenninigena. Alla sua partenza da Venezia, nel 1367, Petrarca gli affidò la sua biblioteca e, poco più tardi, gli dedicò il De sui ipsius et multorum aliorum ignorantia, di cui gli inviò una copia nel 1371. Il poeta ricorda Donato pure nel suo testamento del 1370, da cui egli risulta Venetiis habitans. Trasferitosi a Ferrara nel 1382, Cf. Flores D’Arcais 2001, 16. Sull’intervento di Jacopo Avanzi nella cappella del Santo, cf., con bibliografia anteriore, De Marchi 2003; Benati 2007. 62 Cf. Benati 2007, 391 e 393. 60 61
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Donato fu precettore di Niccolò III d’Este, che più tardi sposerà la figlia di Francesco Novello, Gigliola da Carrara. Nel 1398, allorché il Carrarese intervenne a sciogliere e sostituire il Consiglio di reggenza, Donato fu eletto alla carica di referendario. Proprio a Ferrara egli mise mano al volgarizzamento del De viris illustribus, che mandò in dono a Niccolò d’Este nel 1397 in occasione delle sue nozze con Gigliola 63. La critica, che a lungo ha legato la redazione del volgarizzamento precisamente a quell’evento e anno, tende ora tuttavia a retrodatarla, situandola in anni anteriori al 1384 64. Nella città emiliana l’Albanzani ebbe probabilmente modo di incontrare Donato Acciaiuoli 65, a cui la letteratura più recente attribuisce la commissione del manoscritto di Darmstadt. Agli studiosi più attenti non è infatti sfuggito che il cimiero che compare a f. 2r del codice, a forma di cigno con una «R» pendente dal becco, non è quello della famiglia Papafava, quanto piuttosto quello degli Acciaiuoli, come conferma il confronto con il blasone che compare in un Libro d’ore frammentario, oggi a Londra (British Library, Add. 69865), miniato da Giovanni di fra Silvestro, sicuramente richiesto da quella famiglia e forse proprio dallo stesso Donato 66. Nel corso della seconda metà del Trecento egli ebbe occasione di recarsi più volte in Veneto, dapprima come podestà a Verona, e poi in qualità di oratore e diplomatico a Padova e Venezia 67. L’Acciaiuoli era dunque senz’altro a conoscenza dei cicli pittorici che decoravano le sale della reggia, dove i Carraresi ricevevano gli ospiti più illustri. 63 Su Donato Albanzani e la sua opera, cf. Razzolini 1874-1879; Jannaco 1948; Martellotti 1960; Billanovich 2008, 13-16, 20-22; Monti 2015. 64 Cf. Monti 1985, 244; Medica 2012, 36. 65 Sulla figura dell’Acciaiuoli, di ricca famiglia fiorentina, si vedano: Litta 1819; D’Addario 1960; Mattox 1996, 38; Medica 2014. 66 Il riconoscimento del cimiero si deve a Scot McKendrik, che dopo aver avanzato alcuni dubbi sulla tradizionale identificazione dello stemma con quello della famiglia Papafava (McKendrik 2007, 198-199), lo riferisce infine correttamente agli Acciaiuoli (comunicazione orale, riportata in Kidd 2011, 286); cf. Medica 2014, 368. Già Giordana Mariani Canova, tuttavia, che pure riconosceva nello stemma con leone rampante blu su campo bianco quello della famiglia Papafava, notava opportunamente che il cimiero a forma di cigno non aveva alcun riscontro in ambito padovano e non poteva essere ricondotto alla celebre casata patavina (Mariani Canova 1999b, 179). 67 Cf. Litta 1819, VIII, tav. V; D’Addario 1960.
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Sebbene poco si conosca del suo ruolo come committente o bibliofilo, i suoi interessi librari sono testimoniati anche da un interessante Canzoniere di Petrarca, che si conserva ora a Firenze (Biblioteca Nazionale Centrale, Pal. 184), dove la miniatura di apertura, con il ritratto del poeta, spetta ancora una volta a Jacopo di Paolo, che dunque si qualifica come miniatore di fiducia dell’Acciaiuoli, quantomeno per i codici di ascendenza petrarchesca 68. Il ritratto del poeta nello studio appare realizzato sulla base, ancora una volta, del precedente ad affresco padovano; circostanza tutt’altro che secondaria, nella generale economia del nostro discorso. La datazione del manoscritto di Darmstadt andrà dunque collocata fra il 1380-1384, quando l’Albanzani pose mano al volgarizzamento, e il 1396 quando l’Acciaiuoli cadde in disgrazia e fu esiliato, cessando forzatamente la sua attività di mecenate 69. Una tale cronologia appare confermata dal dato stilistico, essendo le miniature assai prossime ad opere, ricordate più sopra, dipinte da Jacopo di Paolo precisamente in quel torno d’anni. Un’ultima considerazione conferma il ruolo esemplare svolto da Padova, e il prestigio riconosciuto ai modelli carraresi: il più volte citato Trionfo della Gloria in apertura del codice di Darmstadt è anch’esso derivato da un prototipo carrarese. I due manoscritti del De viris illustribus commissionati dallo stesso Francesco il Vecchio da Carrara, che si trovano oggi a Parigi (Bibliothèque Nationale de France, lat. 6069F e lat. 6069I), miniati da un artista che la critica tende a riconoscere in Altichiero 70, si aprono precisamente con un’immagine di questo tipo, forse derivata da un perduto affresco con la raffigurazione della Gloria mondana dipinto da Giotto nel palazzo milanese di Azzone Visconti 71. Il mano68 Sul Canzoniere fiorentino: Nicolini 2010; Massaccesi 2011, 31; Medica 2012, 36. 69 Medica 2012, 36. 70 Le illustrazioni furono inizialmente avvicinate alla tradizione altichieresca padovana, vennero in seguito accostate a Giusto de’ Menabuoi e Jacopo Avanzi, e solo poi furono assegnate con decisione ad Altichiero. Per una sintesi delle vicende attributive, cf. Guarnieri 2004, 7; Romano 2015, 657. Sui manoscritti, si vedano pure Conti 1989, 436-437; Gousset 1999a; 1999b; Mariani Canova 2006c, 76; Di Simone 2014, 37-38; Avril – Gousset 2013, 126-127. 71 Sulla complicata questione dell’iconografia del Trionfo della Gloria, sulle
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scritto di Darmstadt replica i precedenti non solo nell’iconografia, ma anche nella generale impostazione della pagina miniata e nella collocazione dello stemma familiare (ora sostituito dal biscione dei Visconti in lat. 6069F, e abraso in lat. 6069I), in una evidente e ben orchestrata emulazione delle imprese carraresi. Inoltre, tutti i codici ora citati prevedono il ritratto di Petrarca in apertura, in piccolo nel capolettera di 6069I, più grande e isolato nella pagina, sopra l’indice, in 6069F. Il ruolo centrale di Padova quale punto di riferimento figurativo e culturale è stato del resto dimostrato anche per altri manoscritti, di qualità assai elevata e di importanza fondamentale nel panorama dell’arte di corte padana del Trecento. Mi riferisco, in particolare, al Guiron le Courtois di Parigi (Bibliothèque Nationale de France, n.a.f. 5243), miniato a Milano nel 1360 circa. La cultura composita dell’autore delle illustrazioni è stata ricondotta all’ambito veneto e il codice è stato spesso confrontato con i manoscritti petrarcheschi, in particolare per l’analoga resa naturalistica di flora e fauna, e per l’impiego della tecnica a grisaille, utilizzata con notevole destrezza 72. In conclusione, il manoscritto di Darmstadt testimonia di una fase singolare della circolazione di idee e modelli nei circuiti pre umanistici dell’Italia padana, in cui la Padova carrarese, grazie alla base dotta della sua cultura e all’alta qualità dei suoi prodotti, divenne imprescindibile paradigma, modello ideale, e irrinunciabile esempio. Un fenomeno assai vasto, che passò molto attraverso i manoscritti, e che è dimostrato ulteriormente da codici quali la Tebaide oggi a Dublino (Chester Beatty Library, W 76), miniata forse da Jacopo Avanzi o da un artista profondamente influenzato dal suo stile, esemplato probabilmente sugli affreschi un tempo presenti nella sala di Tebe della reggia carrarese, e non a caso realizzato ancora una volta a monocromo su fondo azzurro 73; un sue origini e successivi sviluppi, cf. Shorr 1938; Gilbert 1977; Ciccuto 1999; Ortner 1999; Guarnieri 2004, 8; Di Simone 2012, 40-44; Romano 2012, 138146; Di Simone 2013, 43-44; 2014, 37-42; Romano 2015. 72 Cf. Salmi 1955, 873-874; Arslan 1963, 52-58; Cogliati Arano – Gengaro 1970, 416-417; Volpe 1983, 303-304; Avril 1990; Castelfranchi Vegas 1993, 299-302; Segre 2000, 375-377; Benati 2007, 385-416; Rossi 2012, 314-316; Leonardi et alii 2014, 98-99; Molteni 2014. 73 Sul manoscritto, con bibliografia anteriore: Mariani Canova 1999c.
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prodotto di lusso destinato alla contemplazione, a differenza del codice di Darmstadt che denuncia più assidue frequentazioni di avidi lettori. Una rete dunque a maglie molto strette, che opportunamente interrogata può dire molto sul più vasto contesto di riferimento e sulla circolazione di idee, modelli, intenzioni, pensieri nelle corti e nei circoli intellettuali dell’epoca.
Bibliografia Appunti 1930 = Appunti sulla storia della Sala dei Giganti, Padova 1930 Arlt 2005 = T. Arlt, Andrea Mantegna “Triumph Caesars”. Ein Meisterwerk der Renaissance in neuem Licht, Wien 2005 Armstrong 1999 = L. Armstrong, Copie di miniature del Libro degli Uomini Famosi, Poiano 1476, di Francesco Petrarca, e il ciclo perduto di affreschi nella reggia carrarese di Padova, in Mariani Canova 1999d, 513-522 Armstrong 2006 = L. Armstrong, Un poco noto manoscritto del “De viris illustribus” di Francesco Petrarca miniato da Nicolò di Giacomo da Bologna, in Mantovani 2006, 81-86 Armstrong 2014 = L. Armstrong, Romulus and Caesar in Late Medieval Manuscripts of Francesco Petrarca’s De viris illustribus, Source: Notes in the History of Art (Special Issue on Secular Art in the Middle Ages, guest editors C. Lord – C. Lewine) 33, 2014, 3-4, pp. 57-66 Armstrong 2016 = L. Armstrong, Petrarch’s Famous Men in the Early Renaissance: The Illuminated Copies of Felice Feliciano’s Edition, London 2016 Arslan 1963 = E. Arslan, Riflessioni sulla pittura gotica “internazionale” in Lombardia nel tardo Trecento, Arte lombarda 8, 1963, 48-58 Avril 1990 = F. Avril, Mediolani illuminatus. Pétrarque et l’enluminure milanaise, in M. T. Balboni Brizza (a cura di), Q uaderno di studi sull’arte lombarda dai Visconti agli Sforza per gli 80 anni di Gian Alberto Dell’Acqua, Milano 1990, 7-16 Avril – Gousset 2013 = F. Avril – M.-T. Gousset (édd.), Manuscrits enluminés d’origine italienne, tome III: XIVe siècle, vol. II: EmilieVénétie, Paris 2013 Baggio 1999 = L. Baggio, Chronica de Carrariensibus, in Mariani Canova 1999d, 190-192, cat. 69 450
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Massaccesi 2009 = F. Massaccesi, La cappella dei Magi in San Petronio a Bologna: le vetrate su disegno di Jacopo di Paolo, Arte cristiana 97, 2009, 429-440 Massaccesi 2011 = F. Massaccesi, Francesco Arcangeli nell’officina bolognese di Longhi. La tesi su Jacopo di Paolo, 1937, Cinisello Balsamo 2011 Massaccesi 2012a = F. Massaccesi, Forme della devozione a Bologna tra XIV e XV secolo. 2. Jacopo di Paolo, in Benati – Medica 2012, 22-33 Massaccesi 2012b = F. Massaccesi, Jacopo di Paolo (Bologna, documentato dal 1371 al 1429), in Benati – Medica 2012, 54-55 Massaccesi 2012c = F. Massaccesi, Jacopo di Paolo. Santa Margherita viene imprigionata mentre Olibrio venera gli idoli, in Benati – Medica 2012, 58-59, cat. 8 Mattox 1996 = E. P. Mattox, The Domestic Chapel in Renaissance Florence, 1400-1550, PhD. Diss. Yale, 1996 McKendrik 2007 = S. McKendrik, Dismembered, but not destroyed: An Early Horae from Northern Italy now partly preserved in the British Library, in M. Hofmann – C. Zöhl (édd.), Q uand la Peinture était dans les Livres. Mélanges en l’honneur de François Avril, Paris 2007, 198-199 Medica 1987 = M. Medica, Per una storia della miniatura a Bologna tra Tre e Q uattrocento. Appunti e considerazioni, in D’Amico – Grandi 1987b, 161-192 Medica 1992 = M. Medica, Aggiunte al “Maestro del Messale Orsini” e ad altri miniatori bolognesi tardogotici, Arte a Bologna 2, 1992, 11-30 Medica 1999a = M. Medica, Miniatura e committenza: il caso delle corporazioni, in Medica 1999c, 55-85 Medica 1999b = M. Medica, Nuove tracce per l’attività padovana del Maestro delle Iniziali di Bruxelles, in Mariani Canova 1999d, 471479. Medica 1999c = M. Medica (a cura di), Haec Sunt Statuta. Le corporazioni medievali nelle miniature bolognesi. Catalogo della mostra (Vignola 1999), Modena 1999 Medica 2003 = M. Medica, I miniatori dei corali agostiniani: Nicolò di Giacomo e Stefano di Alberto Azzi, in G. Benevolo – M. Medica, I corali di San Giacomo Maggiore. Miniatori e committenti a Bologna nel Trecento. Catalogo della mostra (Bologna 2002-2003), Ferrara 2003, 63-107 Medica 2012 = M. Medica, Un artista eclettico: Jacopo di Paolo miniatore, in Benati – Medica 2012, 35-39 458
JACOPO DI PAOLO E IL CODICE DEL DE VIRIS ILLUSTRIBUS
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Z. MURAT
Murat 2016 = Z. Murat, Guariento. Pittore di corte, maestro del naturale, Cinisello Balsamo 2016 Muscolino 2009 = C. Muscolino, Gli affreschi di Jacopo Avanzi: un ciclo eroico per Malatesta Ungaro, in V. Piazza – C. Muscolino (a cura di), La Rocca e il sigillo ritrovato. Ultimi restauri e scoperte a Montefiore Conca, Santarcangelo di Romagna 2009, 117-153 Napione 2013 = E. Napione, Tornare a Julius von Schlosser: i palazzi scaligeri, la «sala grande dipinta» e il primo umanesimo, in Romano – Zaru 2013, 171-194 Nicolini 2010 = S. Nicolini, Due codici delle Rime di Petrarca e la loro decorazione, Rara Volumina, 17, 2010, 9-20 Norman 1995 = D. Norman, “Splendid models and examples from the past”: Carrara patronage of art, in D. Norman (ed.), Siena Florence and Padua: Art, society and religion 1280-1400, vol. I, Singapore 1995, 155-175 Ortner 1999 = A. Ortner, I Trionfi del Petrarca: origine e sviluppo del tema nell’arte fiorentina, Rivista di storia della miniatura 4, 1999, 81-96 Pasut 1998 = F. Pasut, Q ualche considerazione sul percorso di Nicolò di Giacomo, miniatore bolognese, Arte cristiana 86, 1998, 431-444 Pasut 2004a = F. Pasut, Alcune novità su Nicolò di Giacomo, Stefano degli Azzi e altri miniatori bolognesi della fine del Trecento, Arte cristiana 92, 2004, 317-332 Pasut 2004b = F. Pasut, voce Nicolò di Giacomo di Nascimbene, in Bollati 2004, 829 Pasut 2009 = F. Pasut, Un maestro di stile: Nicolò di Giacomo, Alumina 24, 2009, 28-35 Pasut 2013 = F. Pasut, Il codice Ambrosiano C 96inf. con le Tragedie di Seneca miniate da Nicolò di Giacomo. I miti di Seneca tragico nelle miniature di Nicolò di Giacomo, in Gallo 2013, 225-258 Perucchi 2016 = G. Perucchi, Appunti antiquari medievali. L’iter romanum attribuito a Giovanni Dondi dall’Orologio, in E. Tinelli (a cura di), Petrarca, l’Italia, l’Europa. Sulla varia fortuna di Petrarca, Bari 2016, 131-139 Piccoli 2010 = F. Piccoli, Altichiero e la pittura a Verona nella tarda età scaligera, Verona 2010 Pinelli 1985 = A. Pinelli, Continuità e metamorfosi di un tema, in Settis 1985, 279-359 Plant 1987 = M. Plant, Patronage in the circle of the Carrara family: Padua, 1337-1405, in F. W. Kent – P. Simons (edd.), Patronage, Art and Society in Renaissance Italy, Oxford 1987, 177-199 460
JACOPO DI PAOLO E IL CODICE DEL DE VIRIS ILLUSTRIBUS
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Z. MURAT
Schmitt 1974 = A. Schmitt, Zur Wiederbelebung der Antike im Trecento: Petrarcas Rom-Idee in ihrer Wirkung auf die Paduaner Malerei; die methodische Einbeziehung des römischen Münzbildnisses in die Ikonographie “Berühmter Männer”, Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz 18/2, 1974, 167-218 Schmitt 1989 = A. Schmitt, Der Einfluß des Humanismus auf die Bildprogramme fürstlicher Residenzen, in A. Buck (Hrsg.), Höfischer Humanismus. Mitteilung XVI der Kommission für Humanismusforschung, Weinheim 1989, 215-258 Schubring 1898 = P. Schubring, Altichiero und seine Schule, Lipsia 1898 Segarizzi 1902 = A. Segarizzi (a cura di), M. Savonarola, Libellus de Magnificis Ornamentis Regie Civitatis Padue, (Rerum Italicarum Scriptores, XV), Città di Castello 1902 Segre 2000 = V. Segre, Il Tacuinum Sanitatis di Verde Visconti e la miniatura milanese di fine Trecento, Arte cristiana 88, 2000, 375390 Settis 1985 = S. Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, vol. II: I generi e i temi ritrovati, Torino 1985 Shorr 1938 = D. C. Shorr, Some notes on the iconography of Petrarcha’s “Triumph of fame”, The Art Bulletin 23, 1938, 100-107 Skerl Del Conte 1993 = S. Skerl Del Conte, Vitale da Bologna e la sua bottega nella chiesa di S. Apollonia a Mezzaratta, Bologna 1993 Sottili 1971 = A. Sottili, Codici del Petrarca nella Germania Occidentale, voll. I-II, Padova 1971 Spiazzi 1994 = A. M. Spiazzi (a cura di), Attorno a Giusto de’ Menabuoi. Atti della giornata di studio (Padova 1990), Treviso 1994. Tambini 2004 = A. Tambini, voce Jacopo di Paolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 62, Roma 2004, 69-72 Toniolo 2010 = F. Toniolo, Il Maestro degli Antifonari di Padova: prassi e modelli, in A. C. Q uintavalle (a cura di), Medioevo: le officine. Atti del convegno (Parma 2009), Milano 2010, 549-562 Toniolo 2011 = F. Toniolo, Nicolaus de Bononia fecit: miniatore d’eccellenza nei Graduali del Santo, in A. Fanton (a cura di), Angeliche armonie. Il restauro del Graduale Liber VII della Pontificia Biblioteca Antoniana di Padova, Padova 2011, 57-83 Tosetti Grandi 2008 = P. Tosetti Grandi, I Trionfi di Cesare di Andrea Mantegna. Fonti umanistiche e cultura antiquaria alla corte dei Gonzaga, Mantova 2008 Valentini – Zucchetti 1953 = R. Valentini – G. Zucchetti (a cura di), Codice topografico della città di Roma, Roma 1953 462
JACOPO DI PAOLO E IL CODICE DEL DE VIRIS ILLUSTRIBUS
Volpe 1983 = C. Volpe, Il lungo percorso del “dipingere dolcissimo e tanto unito”, in Storia dell’arte italiana, vol. V: Dal Medioevo al Q uattrocento, Torino 1983, 229-304 Volpe 2004 = A. Volpe, Affreschi provenienti da Santa Maria di Mezzaratta, 1138/1460, in Bentini et alii 2004, 98-113, cat. 23 Volpe 2005 = A. Volpe, Mezzaratta: Vitale e altri pittori per una confraternita bolognese, Bologna 2005 Weiss 19882 = R. Weiss, The Renaissance discovery of classical antiquity, Oxford 19882 Wilkins 1955 = H. E. Wilkins, Studies in the Life and Works of Petrarch, Cambridge, Mass. 1955 Wilkins 1959 = H. E. Wilkins, Petrarch’s Later Years, Cambridge, Mass., 1959 Wilkins 1962 = H. E. Wilkins, The Triumphs of Petrarch, Chicago 1962 Witt 2000 = R. G. Witt, In the footsteps of the ancients. The origins of humanism from Lovato to Bruni, Leiden 2000 Woods-Marsden 1988 = J. Woods-Marsden, The Gonzaga of Mantua and Pisanello’s Arthurian frescoes, Princeton, NJ 1988 Zaru 2013 = D. Zaru, Gli affreschi della cappella carrarese a Padova: le origini bizantine della narrazione visiva di Guariento, Opuscula historiae artium 62, 2013, 76-97
Abstracts This paper is devoted to manuscript Ms. 101 of the Universitäts- und Landesbibliothek, Darmstadt, which contains a vernacular version of Petrarch’s De viris illustribus decorated with miniatures painted by Jacopo di Paolo between 1384 and 1396. The author argues that the scenes are derived from the fourteenth-century frescoes that adorned the Sala Virorum Illustrium in the palace of the Carrara in Padua, now replaced by paintings executed in the sixteenth century. She takes the investigation further by putting the manuscript and the fresco cycle within broader contexts and considering wide historical phenomena, including the role of the Carrara as patrons of the art, and the paramount relevance that Paduan humanism had in respect to new forms of classicism in art. Moreover, the author explores the role that this and similar manuscripts played in the circulation of ideas and figurative prototypes among centres spanned in various regions of the Italian peninsula. 463
Z. MURAT
Il saggio è dedicato al manoscritto Ms. 101 della Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, che contiene un volgarizzamento del De viris illustribus di Petrarca, e che è decorato da miniature dipinte da Jacopo di Paolo tra il 1384 e il 1396. L’autrice esamina le miniature e sostiene che esse derivino dagli affreschi trecenteschi di identico soggetto che decoravano la Sala Virorum Illustrium della reggia carrarese di Padova, ora perduti e sostituiti da un ciclo più tardo. L’autrice amplia il campo di indagine inserendo il manoscritto e il ciclo da cui derivano le miniature entro un contesto di riferimento più vasto e prendendo in esame fenomeni storici di ampia portata, fra cui il ruolo dei Carrararesi come committenti, e l’importanza fondamentale dell’umanesimo padovano come catalizzatore di nuove forme di classicismo nell’arte. Inoltre, l’autrice esamina il peso rilevante che questo manoscritto, e altri codici affini, ebbero nella circolazione e nella trasmissione di idee e modelli in vari centri della penisola italiana.
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ALESSANDRA PATTANARO
L’ICONOGRAFIA LIVIANA A PADOVA NEL RINASCIMENTO Q UALCHE NUOVA RIFLESSIONE SUL SET MOCENIGO DI STEFANO DELL’ARZERE
La fortuna di Tito Livio nell’arte tra Medio Evo e Rinascimento può essere tratteggiata secondo due approcci: da un lato, recuperando le modalità di rappresentazione di Livio quale ritratto di padovano illustre in parallelo al risveglio della coscienza civica, al passaggio dal dominio carrarese alla prima età della dominazione veneziana e, in seguito, nel clima antiquario ed erudito di metà Cinquecento 1; dall’altro, seguendo la visualizzazione delle vicende e dei grandi temi liviani narrati negli scritti pervenutici, fra rinvenimenti e riscoperte, e ragionando allora sulla efficacia ed esemplarità di personaggi ed eventi a loro legati e sull’interesse dimostrato dalla classe dirigente e dall’erudizione cittadina per un genere di pittura ad alto potere evocativo 2.
1. Il ritratto di Livio nella tradizione padovana Il primo aspetto riguarda dunque l’insorgere di una tipizzazione del volto di Tito Livio nata in seno alle preoccupazioni celebrative e civiche degli umanisti della città di Padova, nella quale lo storico è nato nel 59 a.C. e morto nel 17 d.C. Maria Monica Donato ha meritoriamente recuperato una poco nota testimonianza dell’umanista Sicco Polenton, che costituisce «un det1 Gli studi di Maria Monica Donato (2000 e 2002) e di Giulio Bodon (1988; 1989; 1992; 2005; 2006; 2009a; 2009b; 2013) sono stati fondamentali e saranno più volte rievocati nel corso di questo contributo anche per i poderosi riferimenti bibliografici. 2 Bodon 2009.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 465-491 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117501
465
A. PATTANARO
tagliato documento narrativo sull’iter progettuale e il disegno d’un monumento pubblico» 3 liviano forse avviato ma non concluso, nel quale, come ovvio, era previsto un ritratto: fulcro della piazza dei Signori, il dispositivo si doveva innalzare per 8 metri; da una base circolare a gradoni si ergeva una colonna di 4 metri per 1 a conci di pietra bianca e di marmo rosso di Verona; su di una lastra di tre metri e 4 colonne di uno si adagiava l’urna con il titulus, al di sopra appariva Livio «in cathedra, digitum ad genas tenens cogitabundus» 4, non una imago cathedrata come nella tomba di Virgilio a Mantova, ma una statua vera e propria di circa un metro e 80. Un rinnovato interesse per il progetto si affaccia dopo il tremendo incendio che nel 1420 in tre ore devasta il palazzo della Ragione, sede della Cancelleria civica. La ristrutturazione si conclude nel 1435, e lo storico Biondo Flavio nel De Roma triumphante afferma che pars magna del lavoro era stato il collocamento delle ossa di Livio, rinvenute nel 1414 a Santa Giustina: «[Veneti] ossaque T. Livii conspicuo in eius fastigio collocarunt» 5. Sicco indica il luogo in cui le spoglie erano state murate, cioè sotto i rettori Giustinian e Barbarigo, 1425-1426, ad occidentis faciem… ipso in pariete pretorii sua cum imagine et aureis litteris», e annuncia che il progetto del mausoleo si è arenato definitivamente. La Donato ha ricondotto il ritratto murato all’esterno del palazzo all’età carrarese confermandolo all’ambito di Andriolo de Sanctis (fig. 1) e ha ipotizzato che il ritratto del mausoleo digitum ad genas tenens, fosse esemplato su questo tipo di effigie, nata settant’anni prima nel fortunato clima antiquariale che aveva caratterizzato il governo di Jacopo II da Carrara. Da questa sede – la loggetta dei bandi – si leggevano i provvedimenti governativi 6 e Livio non doveva esibire un atteggiamento pensieroso 7 ma da «auctoritas dottorale» e «politico-giudiziaria» 8.
3 Donato 2002, 115. Si tratta di un’epistola a Niccolò Niccoli, non datata ma precedente il 1414 (ibid., 114 n. 21 e 127). 4 Donato 2002, 119. 5 Biondo Flavio ed. Basel 1559, 381. 6 Analoga funzione aveva il Virgilio del Broletto a Mantova (Donato 2002, 119). 7 Leggi Sicco, settant’anni dopo: cogitabundus. 8 Cf. Donato 2002, 119.
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L’ICONOGRAFIA LIVIANA A PADOVA NEL RINASCIMENTO
Figura 1 Andriolo de Sanctis, Ritratto di Tito Livio, Padova, Palazzo della Ragione.
Incarnava insomma – anche con riguardo al costume – il ruolo del magistrato che ammonisce, in linea con la funzione della sede in cui era stato murato, e rivelando un totale disinteresse per una ricerca di tipo fisionomico 9. Mi sembra che a questa interpretazione del gesto, e dunque della funzione e sistemazione ab origine del rilievo in una zona di evidente valenza giuridica, possa essere offerta una buona conferma in libri a stampa posteriori. Nel Proemio di una fortunata edizione volgarizzata di Livio del 1485 lo storico è definito infatti «excellentissimo auctore et iudice» 10, il che coglie bene quale 9 Mentre il testo della presente relazione, esposta nel 2015, era in bozza, un denso intervento monografico sul monumento di Livio murato sulla parete esterna del Salone ha in parte modificato la prospettiva offerta dalla Donato, alla quale avevo ritenuto di attenermi. Per l’ipotesi di una committenza del monumento da parte di Ubertino da Carrara e dunque per una cronologia del ritratto al 1338-1339, nonché per le ragioni di una attribuzione ad Andriolo de Santis medesimo, invio a F. Benucci 2019, 175-176, in particolare alla nota 48. 10 Titus Livius. Incomenza el proemio dela prima deca de Tito Liuio excellentissimo auctore & iudice de Padua cittadino romano el qual raconta le historie del
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fosse il significato dell’immagine trecentesca di Livio, divenuta ormai celebre, per la comunità padovana. L’atteggiamento «cogitabundus» è invece davvero presente nel Ritratto di Livio esposto, tra il 1420 e il 1426, con probabili aggiornamenti cinquecenteschi, sulla porta nord est del Salone, al tempo della ristrutturazione del palazzo e dell’allestimento di quattro effigi di glorie cittadine a ornamento dei due loggiati appena costruiti 11. La fortuna del ritratto liviano ammonitore continua nel primo Cinquecento e ne è testimone il bel frontespizio del Livio istoriato stampato a Venezia da Melchiorre Sessa nel 1520 (fig. 2): lo storico è rappresentato a mezzo busto, colto da destra, con l’indice puntato e le restanti dita raccolte e ravvicinate al mento 12. La scritta VERA TITI LIVII EFFIGIES sembra adombrare l’insorgere di effigi alternative e introduce al seguito della storia del volto di Livio «dopo Livio», quella cinquecentesca. Alludo a fatti avviati per iniziativa del preteso discendente dello storico latino Alessandro Maggi da Bassano, la cui abitazione padovana, cioè la Casa degli Specchi, al civico 79 di via Vescovado, si credeva sorgere nel luogo che ospitava la domus della gens Livia 13. Il padre di Alessandro si chiamava Tito Livio, un nome destinato a saldare bene il nesso, di certo gracile nella realtà dei fatti, con lo storico, che aveva però citato in Ab urbe condita 23, 10, 3-13, un Decius Magius, comportatosi da eroe contro Annibale, e, in Ab urbe condita 24, 19, 2, uno Cnaeus Magius ambasciatore campano filocartaginese 14. Lo stesso Livio, secondo Seneca 15, avrebbe dato in sposa una figlia a un Lucius Magius, una notizia rimbalzata da Flavio Biondo a Marin Sanudo e destinata a dare grande autorevolezza all’improbabile genealogia populo Romano, in Venetia, per Bartholomeo de Alexandria & Andrea de Asula compagni, 1485. 11 Cf. Donato 2002, 119-126. 12 Cf. Bodon 2009, 47-51, figg. 1a, 1b. 13 Il terreno è stato ampiamente dissodato da Bodon 2009. 14 Cfr. Joost-Gaugier 1983, 123. 15 Lettera al figlio, segnalata da Joost-Gaugier 1983, 123 (contr. 10 praef. 2). Come mi segnala opportunamente Luca Beltramini, a cui sono molto grata, stando alle Periochae (115), Livio ricordava uno Gneo Magio come assassino di M. Claudio Marcello nel 46 a.C., mentre Cesare (civ. 1, 24) segnala l’invio di un Magius (ma nei codici il prenome varia tra Gneo e Numerio) come ambasciatore a Pompeo.
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Figura 2 Titus Livius Patavinus Historicus duobus libris auctus: cum L. Flori epitome […], Venezia, Melchiorre Sessa, 1520 (frontespizio).
costruita da Alessandro e dai suoi familiari. Alessandro Maggi da Bassano, discepolo di Pietro Bembo 16, ha fama di antiquario e di conoscitore delle antichità di Roma, tanto da diventare il sugge16 Cf. Favaretto 2002, 106-108, quindi, con dovizia di informazioni, anche Bodon 2009, 45-50.
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ritore del programma della Sala dei Giganti, alla fine del quarto decennio del Cinquecento, come sta a dimostrare il manoscritto con l’Interpretatio historiarum 17. Tornando all’iconografia liviana, se il ritratto medievale era stato messo in circolazione in ambito carrarese e poi in ambito civico, quello rinascimentale entrava in gioco per iniziativa privata dell’influente membro di casa Maggi, che da tempo, proprio nella sua collezione, vantava il possesso di un’effigie di Livio. Il culto di Livio a Padova nel Cinquecento è un’estensione del culto di Livio nella città di Roma, dove il tema delle origini aveva, come ovvio, una tradizione solidissima, rinnovata da Raffaello e continuata dai suoi allievi diretti: Giulio Romano, Perino, Polidoro e Maturino avevano decorato le facciate di città con storie a monocromo ispirate ai rilievi classici dispiegando vicende esemplari della Roma prima e durante la repubblica 18. A Padova l’imporsi di una nuova immagine liviana scaturisce insomma dalla passione antiquaria che contraddistingue un certo giro di uomini colti, strettosi attorno a Pietro Bembo 19, cardinale nel 1539, innamorati della storia di Roma e a caccia di possibili autorevoli origini latine per la propria famiglia. Le decadi di Livio non offrivano solo un’impalcatura storica, ma anche una galleria di personaggi dalla condotta esemplare nei quali riconoscersi: come era stato Fabio Massimo per i Massimi di Roma, o Publio Cornelio Scipione per i Corner, ora Livio era per i Maggi 20. Per iniziativa di Alessandro nel 1546 21 un nuovo ritratto dello storico patavino, tratto dalla copia dell’originale di casa Maggi, si integrava all’epitaffio «civico» di Livius Halys, emerso a Santa Giustina forse nel 1334 e poi collocato in basilica da Jacopo II da Carrara, e alle supposte ossa di Livio, in un apparato murato 17 Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile, ms. 663 (cf. Bodon 2009, 65 n. 132; 2013, 357-374). 18 Cf. Saccomani 2009, 358-359. 19 Per Bembo e l’apertura verso un’arte figurativa moderna si vedano ora Romani 2013a; 2013b. 20 Un’esemplare ricostruzione di perdute storie liviane per facciate romane è condotta per Palazzo Mattei da Farinella 1986. 21 Il Podestà è Dolfino Dolfin e il capitano Matteo Dandolo, i distici sono di Lazzaro Bonamico. Sono presenti i ritratti di Augusto e Tiberio sotto i cui mandati Livio visse, le arme di Niccolò Priuli e del capitano Girolamo Contarini e protomi leonine (Bodon 2006, 14-17).
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in Salone la cui esecuzione era stata affidata allo scultore Agostino Zoppo e al pittore Domenico Campagnola 22. Denso di rimandi antiquariali, il monumento rendeva pubblica una nuova iconografia liviana, ratificandone la autenticità, destinata a soppiantare quella medievale e a perdurare fino al Novecento, come dimostra il volto di Livio ripreso nella scultura di Arturo Martini nel 1942. L’identificazione del ritratto con il volto dello storico è del tutto arbitraria e non è possibile risalire a monte della proprietà dello zio paterno di Alessandro, Antonio Maggi, che lo avrebbe prestato al nipote nel 1539. L’originale andò disperso, ma non prima che Alessandro ne ordinasse più repliche. Bodon ha ricucito molto bene queste vicende e ricomposto una serie compatta: nel 1545 un «trasmuto di bronzo» è richiesto ad Agostino Zoppo, identificabile con una testa bronzea oggi a Varsavia, della quale è un calco in gesso la testa del Museo Civico di Padova 23; esistono poi un esemplare in marmo rinvenuto dallo studioso nel Museo Civico di Vicenza e una variante in marmo oggi a Vienna proveniente dalle raccolte del Catajo 24. Del ritratto esposto in Salone conosciamo altre versioni cinquecentesche numismatiche (fig. 4) e grafiche: quella eseguita da Antonio Salamanca (morto nel 1562) e incisa da Nicolas Beatrizet 25 testimonia una circolazione meno provinciale dell’iconografia liviana. Q uanto detto consente di comprendere l’importanza che riveste il Ritratto allegorico di Tito Livio affrescato in una sala a piano terreno della Casa degli Specchi 26. Il dipinto, di circa un metro 22 Il vero destinatario, un liberto di nome Livius Halys, solo nel primo Seicento fu in verità svelato come tale (cf. Bodon 2007, 17). Sul monumento, cf. Siracusano 2017, 185-191, cat. N. 15; Benucci 2019, 159-160, nota 22, fig. 9, dove si precisano la probabile data del rinvenimento di Livius Halys e si suggerisce che il trasferimento della pietra sia conseguenza della demolizione della vecchia basilica di Santa Giustina avviata nel 1502, ripresa nel 1512 e poi nel 1532, senza il completamento della facciata. 23 Per il gesso di Padova, cf. Bodon 1989, 78, fig. 3; 1992, 135-146; 2006, 17; per la testa diVarsavia, cfr. Siracusano 2017, 91, nota 2; 94, 212-214, cat. n. 25. 24 Per l’esemplare di Vicenza e Vienna, cf. Bodon 1989, 74-81, figg. 2, 4; 1992, 135-146; 2006, 17; Siracusano 2017, 214-216, cat. n. 26; 211-212, cat. n. 24. 25 Bartsch ed. 1982, 7(243), 249. 26 L’attuale proprietario Alessandro Pasetti, che ringrazio per l’ospitalità accordata in quest’occasione di studio, spera sia presto possibile reperire i fondi
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e ottanta per due, si trova in un ambiente molto modificato nel tempo e in uno stato parzialmente lacunoso, ma ancora leggibile, come nell’immagine pubblicata nel 1966 da Lucio Grossato (fig. 3) 27. Vi si può riconoscere il volto di Livio corrispondente a quello del ritratto esposto in Salone, il cui modello doveva trovarsi in origine nella stessa stanza dell’affresco, o forse non esservi già più, considerate le discrepanze insorte nel 1545 dopo la morte dello zio Antonio Maggi e la dispersione di parte della raccolta messe in luce da Bodon 28. Su un possible significato complessivo della scena intendo tornare tra breve.
Figura 3 Domenico Campagnola, Allegoria liviana, Padova, Casa degli Specchi (da L. Grossato 1966).
per restaurare l’intonaco e la pittura che mostrano un progressivo e inesorabile deterioramento. 27 Cf. Grossato 1966, 185, fig. 120; Bodon 1992, 143-145, fig. 7. 28 Cf. Bodon 1989, 84-85.
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Figura 4 Scultore padovano, Titus Livius Patavinus, bronzo, sec. XVI.
2. Livio fonte letteraria per la pittura padovana del Cinquecento Meriterebbero una particolare attenzione gli episodi di decorazione interna della Villa dei Vescovi di Luvigliano o dell’Odeo Cornaro, due siti del contesto padovano in cui il gusto antiquario è molto spiccato. Nel primo caso, il nome del sito stesso, tramandato da Bernardino Scardeone come un toponimo di Livianum, dal supposto possedimento fondiario e ritiro privato di Livio sui Colli Euganei 29, potrebbe far pensare ad una relazione tematica con gli affreschi di Lambert Sustris dispiegati alla pareti interne. Ma la rilettura della Sala delle figure all’antica dell’edificio di Gio vanni Maria Falconetto 30, ancora rispondente alla sua spazialità originaria e così definita per la presenza di affreschi con personaggi maschili e femminili vestiti alla romana e seduti in trono o su
29 Lo Scardeone accomuna infatti Teolo (Titulum) e Luvigliano (Livianum): «in Euganeis collibus eminet Titulum vicus amoenissimus: & non inde procul est Livianum: urtrumque à Tito Livio nuncupatum. Is collis est domibus frequens, & à civibus Patavinis activo tempore admodum habitatus, et oppido perqual gratus: ubi est turris horaria & laudabilis porticus, annis proximis, impensis paganorum publice aedificata. De hujus vici laudibus Pierius Valerianus illustris poëta cecinit elegantissimum endecasyllabum ad Franciscum Capilistium insignem equitem: & nunc appellat Titi Livii secessum, & Pausylipem Capilistiorum» (Scardeone 1560, 18). 30 La costruzione ha poi ricevuto l’apporto di Giulio Romano, Andrea da Valle, Vincenzo Scamozzi (cf. Beltramini 2012, 38).
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nobili scranni che si alternano a statue entro nicchie, non ha dato esito, al momento, ad alcun possibile riconoscimento di specifici legami con soggetti liviani, presentandosi ormai vuoti i cartigli dipinti sulla sommità delle arcate e mancando attributi significativi connessi ai personaggi stessi. Sono decisamente mitologiche alcune delle scene superstiti inserite nei paesaggi del soprastante fregio che richiamerebbero le corrispondenti divinità e i rispettivi protagonisti, ma l’identificazione delle figure esemplari appare di risoluzione molto incerta. E, d’altra parte, anche gli argomenti che affiorano nei diversi vani della Loggia e dell’Odeo di Alvise Cornaro, quest’ultimo esemplato sullo studio di Marco Terenzio Varrone, non sono specificatamente liviani, se si escludono l’episodio di Muzio Scevola davanti a Porsenna (Liv. 2, 12) nello stucco di Tiziano Minio inscritto entro il festone ovale al centro del soffitto a grottesche e paesaggi del primo salottino «a conca» entrando a sinistra, o gli stucchi con Scene di trionfo nello stanzino a destra. Il pensiero invece va agli Uomini illustri dell’antichità affrescati nella Sala dei Giganti, concepiti e dipinti, sulle tracce del preesistente ciclo trecentesco, in un arco cronologico che va dal 1539 al 1541 31. In questa decorazione si esprime magnificamente il linguaggio artistico forgiato nella Roma post-raffaellesca e moderna e da lì emanato in città sede di corte, come Mantova o Pesaro o Genova, in cui si è parimenti riacceso l’interesse per la romanità. Elisabetta Saccomani ha bene spiegato nei suoi studi come sulla scuola padovana premano con forza suggestioni di artisti esterni che hanno sperimentato direttamente i vivaci cantieri romani 32. Si potrà discutere se sulla marzialità dei personaggi, sulla visualizzazione di una certa retorica del potere e sull’efficacia della loro esemplarità possano essere state colte suggestioni dal tono a tratti drammatico del testo di Livio, ma il discorso rischierebbe di diventare generico. Venendo ai temi trattati dallo storico, che cosa era stato tradotto in immagine e visualizzato? Gli eventi, estrapolabili dai testi superstiti di Livio (cioè dalla prima, terza, quarta e metà della quinta decade), come noto, riguardano la storia di Roma dalla fuga di Enea da Troia, fino alla fine della guerra contro la Macedonia del 167 a.C. 33. Dunque è soprattutto Cf. Bodon 2009, 33; Saccomani 2009, 357, 364. Cf. Saccomani 2009, 372. 33 È probabile che l’edizione giuntina volgarizzata uscita a Venezia nel 1540, 31 32
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la parete settentrionale della sala che più interessa mettere ora a fuoco, schierando personaggi di re da Romolo a Servio Tullio, ed eventi topici nei monocromi, come la fondazione di Roma o il sacrificio della giovenca prodigiosa da parte del sacerdote romano. Mentre sulla parete antistante, negli spazi a cielo aperto, continuano ad essere evocate figure illustri della vita della Repubblica – sulle quali il testo liviano si diffonde, pur non essendo l’unica fonte –: fra queste, Marco Furio Camillo o Scipione l’Africano 34. Seguendo la limpida disamina di Giulio Bodon, sul materiale disponibile agli artisti e ai suggeritori del programma, solo per pochi personaggi si percepisce Livio come solo riferimento possibile 35. Il probabile iconologo, Alessandro Maggi da Bassano, ideatore delle imagines, cioè della messa in posa del personaggio stante con gli specifici attributi, come era nelle consuetudini umanistiche, e della storia in grisaille che lo accompagna, teneva sullo scrittoio testi diversi, da Polibio e Plutarco, a Valerio Massimo, su fino a Petrarca, Dante e Boccaccio, o, andando in là, Niccolò Machiavelli e i contemporanei Pierio Valeriano, Andrea Alciato, Vincenzo Cartari 36. Analogamente si era comportato Giovanni Cavazza, estensore dei sottostanti tituli, poi dettati al calligrafo Francesco Pociviano. Il Maggi sembra avere una cognizione più approfondita delle fonti rispetto al secondo, con una conseguente perdita di unità ravvisabile qua e là tra immagine figurata ed elogio 37. Per apprezzare il tasso di materia liviana presente nella sala si possono proporre alcuni esempi: La figura di Romolo tropaiophoros alla parete nord, con cui inizia il ciclo 38, è influenzata da testi numismatici e dalla fusione di un certo numero di fonti letterarie: l’iscrizione sullo scudo ovale «con le postille aggiunte nelle margini del libro, et appresso la ualuta delle monete romane, ridotta al pregio di quelle de tempi nostri», non sia sfuggita alla passione numismatica degli estensori del programma della Sala. 34 Il primo si trova adiacente all’imperatore Traiano, collocato entro nicchia come tutti i regnanti, e il secondo all’imperatore Costantino. Non rapportandosi con il sovrano vicino, i giganti non appaiono in scena seguendo una logica spaziotemporale, ma funzionale all’esaltazione delle doti militari degli esempi illustri (cf. Bodon 2009a, 61-62). 35 Cf. Bodon 2009a, 71. 36 Cf. Bodon 2009a, 40-43. 37 Cf. Ramilli – Massari 1992; Bodon 2009a, 70-78. 38 Cf. Bodon 2009a, 119-127, fig. 64, tav. I.
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(TEMPORA DIGERERET CUM CONDITOR URBIS IN ANNO INSTITUIT MENSES Q UINQ UE BIS ESSE SVO) è tratta dai Fasti di Ovidio (1, 27-28) e così pure MARTIS ERAT PRIMUS MENSIS VENERISQ UE SECUNDUS al centro (1, 39-42), mentre la fascia interna reca le iniziali dei dieci mesi del primo calendario romano, da marzo a dicembre 39. Nell’imago è raffigurato il trofeo di Acrone, re di Cenina ucciso in duello, e attributo del fondatore di Roma che aveva edificato il tempio a Giove Feretrio presso il quale aveva deposto gli opima spolia. L’evento è sintetizzato poi nel titulus (cf. Liv. 1, 10, 4) 40. Circa il volto dalla folta chioma, esso si pone in rapporto con ritratti rinascimentali all’antica, uno dei quali, molto vicino al dipinto, è un ritratto di Caracalla oggi al Museo Archeologico di Venezia e attribuito a Simone Bianco 41. La lupa sull’elmo deriva da tipi monetali diffusi. Così nel monocromo è rappresentata la fondazione dell’Urbe con Romolo all’aratro, alle sue spalle l’edificazione della città (o del tempio di Giove Feretrio), a destra un altro fuoco compositivo si accende sul ratto delle Sabine, un episodio che ottiene particolare fortuna nel XV secolo quando diventa simbolo dell’istituto del matrimonio e acquista valenza decisamente positiva. Q ui si fondono i resoconti di Livio, (1, 9, 1-10, 13) di Plutarco (Rom. 14, 1-7) e di Dionigi d’Alicarnasso (2, 30-31), e, per il rapimento delle Sabine e il loro intervento per fermare la battaglia tra Romani e Sabini, i riferimenti di Livio (1, 13, 1-8) e i passi di Plutarco (19, 1-7) e Dionigi (2, 45-46). La volontà di presentare positivamente Romolo conditor patriae fa scomparire del tutto la macchia del fratricidio, giustificata del resto già da Niccolò Machiavelli 42, e di solito bene presente nelle figurazioni Cf. Bodon 2009a, 122. Cf. Bodon 2009a, 120. 41 Cf. Bodon 2009a, fig. 144. 42 Cf. Discorsi 1, 9 (Come egli è necessario essere solo a volere ordinare una repubblica di nuovo, o al tutto fuor degli antichi suoi ordini riformarla): Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una republica è necessario essere solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito Tazio, meritare iscusa e non biasimo. Sullo scarto «tra il realismo politico de Il Principe e l’idealismo politico dei Discorsi» come risultato «di uno sviluppo intellettuale» e di una progressiva adesione all’umanesimo ortodosso più che espressione di contrasto nella mente di Machiavelli, si invia a Gilbert 1977, 223-252. Lo studioso ha posto altresì l’accento sulla percezione che i contemporanei ebbero dei Discorsi come di opera 39 40
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coeve, come attesta ad esempio una importante edizione illustrata di Livio ad opera di Tobias Stimmer uscita nel 1574. Il titulus, in parte perduto, si completa con la trascrizione offerta nel 1674 da Giacomo Zabarella junior. Se si eccettua la terza riga, già individuata come dedotta da Livio (1, 10, 5; 21, 5), le restanti sono tratte da Plutarco 43. Procedendo si incontrano altri personaggi, come Aulo Cornelio Cosso e Claudio Marcello, con monocromo raffigurante L’uccisione del re etrusco Laerte Tolumnio e la La presa di Fidene (Liv. 4, 19, 4-5; 33, 1-5). L’assalto alla città riassume in modo drammatico i passaggi espressi da Livio: dapprima la fuoriuscita dei nemici con le fiaccole: ingens multitudo facibusque ardentibus tota conlucens; poi il contrattacco dei Romani: agite, nominis Romani ac virtutis patrum vestraeque memores vertite incendium hoc in hostium urbem et suis flammis delete Fidenas 44. Numa Pompilio è presentato fondendo la fonte liviana (1, 21, 1) e plutarchea (Num. 20, 4). La presenza dei volumi e dell’urna sotto il ritratto ricorda l’episodio del ritrovamento della tomba e dei libri del re sul Gianicolo (Liv. 40, 29). La palma invece si spiega attraverso gli emblemi di Alciato, che, rifacendosi a Orapollo, la considerano simbolica dell’anno, che Numa avrebbe nuovamente suddiviso in 12 mesi o ‘lune’ (Liv. 1, 19, 4-7). Da Livio deriva anche il lituus, o bastone ricurvo, strumento degli augures ricordato in 1, 19, 7: Numa, secondo re di Roma, vi è paragonato a Romolo 45. Giunio Bruto è figura di vecchio con barba e rispecchia la pacatezza del sovrano saggio e dedito ad opere di pace che Livio riferisce a Servio Tullio (1, 42). È tunicato e regge il coltello, forse ricordo della statua bronzea eretta in Campidoglio citata da Plutarco (Brut. 1, 1). Secondo Bodon, regge una statua la cui identificazione si coglie seguendo un episodio narrato da Livio (1, 56, 10-12): udito il responso dell’oracolo delfico che profetizzava la presa del potere per chi avesse baciato per primo nuova per metodo di giudizio, come tentativo di presentare «le attioni pubbliche e cibili sì fattamente a regola, che ogni ben tardo ingegnio può facilmente comprendere» (242). 43 Ramilli-Massari, 27-33. Bodon 2009a, 124. 44 Bodon 2009a, 127-137. 45 Cf. Bodon 2009a, 137-145.
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la madre, Bruto, fingendo di cadere, si chinò a baciare la terra 46. Il dipinto lo coglierebbe dunque mentre sfiora con la bocca la statua di Cibele. Nel monocromo, il ritrovamento del corpo di Lucrezia da parte del padre e del marito Collatino in sua presenza, in luogo del suicidio o dello stupro della giovane molto più frequentemente rappresentati, coglie Bruto mentre incita i presenti a ribellarsi dalla tirannia dei re (Liv. 1, 59, 1). Il passo è ripreso anche nell’elogium. A destra, una seconda vignetta presenta Bruto impassibile davanti alla condanna a morte dei propri figli per avere cercato di allearsi con gli scacciati Tarquini contro la Repubblica (Liv. 2, 5, 8) 47. Sulla presentazione bonaria e rassicurante di Servio Tullio, re mite e saggio, dedito ad opere di pace e a riforme, il rinvio è, tra le altre fonti, a Liv. 1, 42, 1-5. Il modellino di città la caratterizza: si tratta di una rappresentazione ideale delle mura serviane e del tempio di Diana sull’Aventino 48. Nel monocromo è raffigurato l’episodio in cui il sacerdote romano del tempio di Diana fa allontanare con un pretesto il sabino e sacrifica al suo posto la giovenca. Secondo l’oracolo, quell’azione avrebbe garantito ai romani la sovranità sui sabini (Liv. 1, 45, 1-7). Il sovrano non è presente ma plaude al gesto e l’episodio riveste un significato altamente simbolico. Circa un lustro dopo la conclusione della Sala dei Giganti uno dei suoi artefici, Stefano dell’Arzere, dipinge una storia romana raffigurante un prigioniero condotto al cospetto di un generale su una tavola rotonda del diametro di cm 252. Il quadro, oggi al Museo Civico di Padova (fig. 5), proviene dal soffitto del Palazzo di Antonio Mocenigo in via Sant’Eufemia (oggi casa della studentessa Lina Meneghetti) 49. Procuratore di San Marco nel 1523, il veneziano procede ad una prima ristrutturazione dell’edificio tra il 1540 e il 1544, affidandola al proto Agostino Righetti 50 e richiedendo a Stefano dell’Arzere di ornarla. Un anno dopo la morte, nel 1557, l’edificio sarà ampliato dall’erede Leonardo con 48 49 50 46 47
Cf. Bodon 2009a, 146. Cf. Bodon 2009a, 147-149. Cf. Bodon 2009a, 185-188. Cf. Saccomani 1991, 166-168, figg. 82-84. Cf. Rigoni 1939, 48.
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Figura 5 Stefano dell’Arzere, Continenza di Scipione: Siface trascianto in catene e scortato dalle truppe inneggianti, Padova, Musei Civici.
Figura 6 Stefano dell’Arzere, Continenza di Scipione: Siface trascianto in catene e scortato dalle truppe inneggianti, Padova, Musei Civici (dettaglio).
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la consulenza di Andrea Palladio. In questa seconda fase verranno richieste le competenze del pittore Giovan Battista Zelotti 51. Il tondo nasce con altre due tavole, della stessa larghezza e di for mato oblungo, raffiguranti due allegorie (figg. 7, 8). Il set è di difficile interpretazione, ma lascia intuire un legame profondo, di tipo iconologico, tra i pannelli: «la Sapienza e Anteros che lega Eros privato dei suoi strali dati alle fiamme», nel tondo centrale «l’esercizio di una virtù “civile” come la giustizia o la clemenza»,
Figura 7 Stefano dell’Arzere, Allegoria della temperanza, Padova, Musei Civici.
Figura 8 Stefano dell’Arzere, Allegoria della fortezza, Padova, Musei Civici.
Cf. Brugnolo Meloncelli 1992, 102-103; Puppi – Battilotti 2006, 320-321.
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quindi un’allusione a Daniele nella fossa dei leoni, ipotesi indebolita dal fatto che «uno dei quattro leoni sembra difendere il giovane impaurito dall’attacco delle altre tre belve» 52. Si può forse fare qualche passo in avanti per la decodifica di questo insieme di dipinti. I due elementi ellittici presentano al loro interno una certa simmetria: il primo prevede la presenza di una figura femminile (virtù) sulla sinistra che guarda verso il basso della stanza. Alle sue spalle è presente un putto che versa l’acqua, richiamo alla Temperanza. Davanti alla giovane un amorino trattiene con un laccio il polso del compagno il cui arco e le cui frecce hanno preso fuoco: la presenza del motivo dell’amore corrisposto, introdotto da Eros ed Anteros a destra, deve essere un corredo non casuale dell’allegoria. Si tratta di due ammonizioni a vivere virtuosamente, con atteggiamento temperante e nel controllo dell’amore passionale. La giovane appoggia una mano su due libri chiusi impilati con taglio di testa colorato e sedendo su altri tre volumi impreziositi invece da decorazioni a nodi vinciani (fig. 9). Sul libro ‘reggente’ la persona come oggetto fondante del suo sapere si è espresso più volte Ugo Rozzo, che ha ricordato
Figura 9 Stefano dell’Arzere, Allegoria della temperanza, Padova, Musei Civici (dettaglio).
Cf. Saccomani 1991, 167.
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opportunamente come «la Meditatione» sia definita da Cesare Ripa come «Donna d’età matura, d’aspetto grave, & modesto, la quale posta à sedere sopra un monte di libri» 53. Il motivo dei nodi era diventato di gran moda dopo la sua messa a punto da parte di Leonardo, che lo utilizza per la famiglia Sforza durante il soggiorno milanese e come elemento distintivo della Accademia Vinciana; sappiamo che ne fece largo utilizzo Isabella d’Este fino ad imporlo come contrassegno della propria persona 54. Nella cultura delle corti, tra Q uattro e Cinquecento, il nodo è metafora di legame amoroso a cui ricorre Pietro Bembo negli Asolani 55. Non si può escludere dunque che la particolare ornamentazione di questi libri intenda suggerire l’argomento da trattare con temperanza e avvedutezza, cioè le cose d’amore delle quali la giovane donna si fa portavoce e sapiente. Nell’altra tavola oblunga, come notava la Saccomani, tre fiere fronteggiano una compagna che difende un giovane accostato ad un albero. Scartata l’ipotesi di una rappresentazione di Daniele nella fossa dei leoni, buona forse per un suggerimento di tipo compositivo, a ben guardare alla destra del giovane non è mai stata notata la presenza di una pianta di vite intrecciata ad un tronco poderoso (fig. 10). Q uesto dettaglio porta ad una nuova ipotesi interpretativa, rivelandosi la pianta il tradizionale supporto della vite, ossia l’olmo. I riferimenti al connubio vite-olmo si ripetono nella letteratura latina: Ovidio si chiede perché debba vivere separato dalla sua donna quando l’olmo ama la vite a la vite non si separa dall’olmo (am. 2, 16, 41-42); Virgilio nelle Georgiche si raccomanda di non dividere mai le due piante (georg. 1, 2-3). Così Cf. Rozzo 1998, 373-382; 2016. Cf. Luzio – Renier 1890, 381-383; per la «fantasia del passo coi vinci», ad opera di Niccolò da Correggio, si veda soprattutto Kemp 1977, 374. 55 Cf. 2, 2, 1: Perciò che, se io non m’inganno, sì sei tu ora a quella parte de’ sermoni di Perottino pervenuto, dove egli, argomentando dell’animo, ci conchiuse che amare altrui senza passione continua non si puote. Il qual nodo, come che egli si stia, io per me volentier vorrei, e perdonimi Perottino, che tu sciogliere così potessi di leggiero, come fu all’antica Penelope agevole lo stessere la poco innanzi tessuta tela. come che egli si stia, io per me volontier vorrei. Il nodo d’amore compare anche in Ariosto (Orlando furioso, 19, 36). Il motivo decorativo iniziò a comparire in alcuni libri veneziani, come nei frontespizi della Summa de aritmetica di Luca Pacioli, pubblicato a Venezia nel 1494 e contenente variazioni di decori orientali. 53 54
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Figura 10 Stefano dell’Arzere, Allegoria della fortezza, Padova, Musei Civici (dettaglio).
Alciato elabora l’emblema Amicitia etiam post mortem durans (160) che darà alle stampe già nel 1531 e nel 1534 con la relativa illustrazione (fig. 11): Arentem senio, nudam quoque frondibus ulmum, Complexa est viridi vitis opaca coma. Agnoscitque vices naturae, & grata parenti Officii reddit mutua iura suo. Exemploque monet, tales nos quaerere amicos. Q uos neque disiungat foedere summa dies. 483
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Figura 11 Andrea Alciato, Amicitia etiam post mortem durans, da Emblematum libellus, Paris 1542, c. 40.
Il concetto, dall’erudito rimesso in circolazione, invoca la necessità di cercare vincoli forti come quelli esistenti tra la vite e l’olmo. Appare chiaro che in entrambe le allegorie il riferimento ai vincoli di amore e di amicizia sia un Leitmotiv. La forza di tre 484
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belve non può nulla di fronte al vigore maggiore di una sola. Il giovane proteggerà il suo vincolo con la forza e finirà per incarnare egli stesso tale virtù. La temperanza e lo studio aiuteranno a dominare l’amore passionale. Le due allegorie possono suggerire il contesto in cui cercare l’argomento del tondo. In quest’ultimo si può riconoscere qualche elemento degno di valutazione. È in scena una truppa di soldati che segue un prigioniero accompagnato al cospetto del generale. La truppa urla concitata. Il prigioniero duplica un modello preciso: ingobbito dal peso delle catene, avanza contrito e umiliato. Un’incisione del Maestro del Dado da Raffaello illustra il Trionfo di Scipione dopo la sconfitta su Siface, cogliendo il comandante al suo ingresso a Roma. Due spunti fanno la differenza rispetto alla stampa raffaellesca, dalla quale Stefano dell’Arzere potrebbe avere tratto alcuni spunti compositivi iniziali: la folla acclamante e le due presenze, in particolare il giovane di carnagione olivastra che guarda intensamente il prigioniero (fig. 6). Una lettura attenta di Livio (30, 13-14) può far riflettere sul soggetto del tondo e su come le allegorie entro gli ovali lo introducano e lo commentino. 13, 1. Syphacem in castra adduci cum esset nuntiatum, omnis velut ad spectaculum triumphi multitudo effusa est. (2) Praecedebat ipse vinctus; sequebatur grex nobilium Numidarum. Tum quantum quisque plurimum poterat magnitudini Syphacis famaeque gentis victoriam suam augendo addebat: (3) illum esse regem cuius tantum maiestati duo potentissimi in terris tribuerint populi Romanus Carthaginiensisque (4) ut Scipio imperator suus ad amicitiam eius petendam relicta provincia Hispania exercituque duabus quinqueremibus in Africam navigaverit, (5) Hasdrubal Poenorum imperator non ipse modo ad eum in regnum venerit sed etiam filiam ei nuptum dederit. Habuisse eum uno tempore in potestate duos imperatores, Poenum Romanumque. (6) Sicut ab dis immortalibus pars utraque hostiis mactandis pacem petisset, ita ab eo utrimque pariter amicitiam petitam. (7) Iam tantas habuisse opes ut Masinissam regno pulsum eo redegerit ut vita eius fama mortis et latebris ferarum modo in silvis rapto viventis tegeretur. (8) His sermonibus circumstantium celebratus rex in praetorium ad Scipionem est perductus. […] 485
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14, 1. Haec non hostili modo odio sed amoris etiam stimulis amatam apud aemulum cernens cum dixisset, non mediocri cura Scipionis animum pepulit; (2) et fidem criminibus raptae prope inter arma nuptiae neque consulto neque exspectato Laelio faciebant tamque praeceps festinatio ut quo die captam hostem vidisset eodem matrimonio iunctam acciperet et ad penates hostis sui nuptiale sacrum conficeret. (3) Et eo foediora haec videbantur Scipioni quod ipsum in Hispania iuvenem nullius forma pepulerat captivae. Haec secum volutanti Laelius ac Masinissa supervenerunt. Come giunse notizia che Siface era condotto al campo, tutti i soldati si riversarono fuori delle tende come per assistere ad un trionfo. (2) Avanzava per primo lo stesso re incatenato, seguito da una folla di nobili numidi. (3) Allora per esagerare la sua vittoria ciascuno esaltava il più possibile la grandezza di Siface e la fama di quel popolo, dicendo che quello era il re alla mae stà del quale si erano inchinati due potentissimi popoli della terra, il Romano e il Cartaginese, (4) per chiedergli amicizia il generale Scipione, lasciata la provincia di Spagna e l’esercito, con due sole quinqueremi aveva navigato verso l’Africa, (5) mentre Asdrubale comandante dei Cartaginesi non solo era venuto personalmente nel regno di Siface, ma per di più gli aveva dato la figlia in sposa. Siface in un solo momento aveva avuto in mano due generali, il cartaginese ed il romano. (6) Come gli uni e gli altri col sacrificio di vittime avevano chiesto la pace agli dei immortali, così avevano egualmente impetrato da Siface la sua alleanza. (7) Q uesti aveva posseduto tali forze da ridurre Massinissa, cacciato dal suo regno, a difendere la sua vita spargendo la voce della sua morte e a vivere di rapina nelle selve nascondendosi a mo’ di belva nell’oscurità delle grotte. Esaltato da questi commenti di coloro che lo circondavano, (8) Siface fu condotto nel pretorio alla presenza di Scipione. […] Q ueste dichiarazioni di Siface provocate non solo dall’odio contro un nemico, ma anche dai morsi della gelosia, poiché egli vedeva la donna amata nella casa del rivale, colpirono profondamente l’animo di Scipione; (2) convalidavano quelle accuse le nozze celebrate in gran fretta, quasi tra il furore delle armi senza nemmeno attendere Lelio per consultarlo, nonché tutta quella precipitazione per la quale nello stesso giorno in cui aveva visto prigioniero il suo avversario, nella casa di lui Massinissa aveva sposato la donna e compiuto la cerimo486
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nia nuziale. (3) A Scipione tutto questo appariva tanto più indecoroso, in quanto egli stesso in Spagna, nonostante la sua giovinezza, non era mai stato irretito dal fascino di una prigioniera. Mentre egli andava rivolgendo nella sua mente questi pensieri, sopravvennero Lelio e Massinissa.
Credo dunque che nel dipinto si registri un fatto precedente rispetto a quello dell’ingresso a Roma invocato dal Maestro B nel dado, e che il prigioniero possa essere lo stesso Siface condotto al cospetto di Scipione nel pretorio, seguito dai soldati inneggianti alla sua persona. Il giovane di carnagione olivastra dall’aria sprezzante che si affaccia a destra del comandante seduto sul podio, potrebbe essere l’alleato africano di Scipione, Massinissa. Si contraggono nella rappresentazione tre passaggi. Scipione ha già davanti a sé Siface, la folla continua ad acclamarne le lodi. Il generale medita sull’uomo e sulla sua condotta ricordandolo come alleato e poi come nemico. Sopraggiunti Massinissa e Lelio (nel dipinto sono già presenti) stabilirà il destino di Siface e soprattutto di Sofonisba, che appartenendo ad uno sconfitto potrà solo essere condotta prigioniera a Roma. In capo a una lunga riflessione Scipione deciderà le sorti dei presenti. Si tratta di un momento molto preciso, esemplare della capacità di discernimento del comandante colto mentre si esprime sulla necessità di essere temperanti e di vincere le passioni. Un’ultima riflessione sull’ Allegoria liviana alla casa degli Specchi (fig. 3): l’erudizione del Maggi lo avrà certo reso edotto su tipologie compositive antiche, nel genere del mosaico con Virgilio a colloquio con le muse Clio e Melpomene del Museo Nazionale del Bardo a Tunisi. Nell’affresco Maggi Livio è accompagnato da una poderosa divinità fluviale (il Tevere o il Medoacus?), ma sono le due figure allegoriche a destare curiosità: Grossato, che potè meglio leggere l’affresco, oggi purtroppo deteriorato, aveva pensato di identificare quella di sinistra con la Storia che sostiene il leggio di Livio e quella di destra con la personificazione di Roma, distinguendo la lupa e un putto. Q ualche nuovo spunto è ancora possibile. In tempi non troppo recenti anche la famiglia Corner aveva inteso celebrare le proprie origini commissionando ad Andrea Mantegna nel 1505-1506 due celebri dipinti ispirati alla storia dell’Urbe. Consegnata l’Introduzione del culto di Cibele a Roma per iniziativa di Scipione (Londra, National 487
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Gallery) l’artista era poi morto e l’incarico era passato a Giovanni Bellini che consegnava una Continenza di Scipione 56. La cele brità di quelle meraviglie moderne poteva facilmente avere raggiunto Maggi che poteva riconoscervi un tema straordinariamente romano e liviano. Alla luce di questo, ci si deve chiedere se la protome animale (apparentemente di felino) che affiora sul gradino, tra Livio e la figura femminile che sostiene il leggio, non possa essere quella di un leone. In questo caso, esclusa una personificazione inappropriata di Venezia, a sostenere Livio nella stesura della sua opera, potrebbe essere stata convocata Cibele – la Grande Madre –, normalmente accompagnata da leoni. Ricordo che Livio, oltre a narrare l’introduzione del suo culto, celebra la fondazione del tempio a lei dedicato (36, 37, 2-3), nonché l’inau gurazione dei giochi Megalesi ideati in suo onore (29, 10, 4-5 e 8; 14, 11-14).
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Bodon 1992 = G. Bodon, La tradizione dell’iconografia di Tito Livio: dal ritratto antico al ritratto rinascimentale, Bollettino del Museo Civico di Padova 81, 1992, 135-146 Bodon 2005 = G. Bodon, Veneranda antiquitas. Studi sull’eredità dell’antico nella Rinascenza veneta, Bern 2005 Bodon 2006 = G. Bodon, Il Salone e le memorie di Tito Livio, Padova e il suo territorio 21, 2006, 14-17 Bodon 2009a = G. Bodon, Heroum imagines. La Sala dei giganti a Padova, un monumento della tradizione classica e della cultura antiquaria, (Studi di arte veneta, 16), Venezia 2009 Bodon 2009b = G. Bodon, Livius, Titus, T. Livius Patavinus historicus duobus libris auctus […], in P. Gnan – V. Mancini (a cura di), Le muse tra i libri. Il libro illustrato veneto del Cinque e Seicento nelle collezioni della Biblioteca Universitaria di Padova, Catalogo della mostra (Padova, 11 settembre – 18 ottobre 2009), Padova 2009, 48-51, cat. n. 1 Bodon 2013 = G. Bodon, Pietro Bembo e l’ambiente della cultura antiquaria: ipotesi sul programma iconogafico della Sala dei Giganti, in Beltramini et alii 2013, 357-374 Borromeo Dina 2012 = L. Borromeo Dina (a cura di), Villa dei Vescovi, Padova 2012 Brugnolo Meloncelli 1991 = K. Brugnolo Meloncelli, Battista Zelotti, Milano 1992 Casella 1982 = M. T. Casella, Tra Boccaccio e Petrarca, i volgarizzamenti di Tito Livio e di Valerio Massimo, Padova 1982 Davis 1978 = C. Davis, Aspects of Imitation in Cavino’s Medals, JWI 41, 1978, 331-334 Donato 2000 = M. M. Donato, “Historiae parens Patavum”: per una tradizione d’arte civica dal Medioevo all’età moderna, in A. Guidotti – M. Rossi (a cura di), Percorsi tra parole e immagini (14001600), Lucca 2000, 51-74 Donato 2002 = M. M. Donato, Dal progetto al mausoleo di Livio agli Uomini Illustri “ad fores renovati iustici”. Celebrazione civica a Padova all’inizio della dominazione veneta, in T. Franco – G. Valenzano (a cura di) De lapidibus sententiae. Scritti di storia dell’arte per Giovanni Lorenzoni, Padova 2002, 111-129 Farinella 1986 = V. Farinella, «Fatti di Furio Camillo»: l’esordio romano di Taddeo Zuccari, Ricerche di Storia dell’arte 30, 1986, 43-60 Favaretto 2002 = I. Favaretto, Arte antica e collezioni antiquarie nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 2002 489
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L’ICONOGRAFIA LIVIANA A PADOVA NEL RINASCIMENTO
Civici di Padova dalla metà del Q uattrocento ai primi del Seicento. Catalogo della mostra (Padova, 1991-1992), Roma 1991, 166-168, Cat. nn. 82-84 Saccomani 2009 = E. Saccomani, «Parrà che Roma propria si sia trasferita in Padova». Le pitture cinquecentesche: il contesto artistico, gli artefici, in Bodon 2009, 357-372 Saccomani 2012 = E. Saccomani, Il ciclo pittorico della Villa: una decorazione “all’antica”, in Borromeo Dina 2012, 62-82 Scardeone 1560 = B. Scardeone, Historiae de urbis Patavii, Basilea 1560 Spiazzi 1997 = La decorazione della Loggia e dell’Odeo Cornaro, in F. Crispo (a cura di) Angelo Beolco detto Ruzante. Atti del convegno (Padova 1995), Padova 1997, 211-232 Siracusano 2017 = L. Siracusano, Agostino Zoppo. Prefazione di A. Bacchi, Padova 2017
Abstracts This paper examines Livy’s fortune in figurative arts in the Renaissance, focusing firstly on the developement of an iconography concerning the historian himself, whose portrait becomes in the fifteenth century an important part of the monumental celebration program of the signori of Padua, as well as of other important noblemen, who claimed to descend from the historian himself. Secondly, Livy is considered as a source of artistic subjects, especially for fresco cycles, among which the Sala dei Giganti and the Mocenigo set in Padua deserve particular attention. Il capitolo indaga la fortuna di Livio nelle arti figurative in epoca rinascimentale, trattando innanzitutto lo sviluppo di un’iconografia incentrata sullo storico stesso, il cui ritratto diviene a partire dal XV secolo parte integrante del programma monumentale celebrativo tanto dei signori di Padova quanto di altre importanti famiglie che rivendicavano una discendenza dallo storico. In secondo luogo, si considera Livio come fonte di soggetti per le arti figurative, e in particolare nei cicli di affreschi, tra i quali spiccano la Sala dei Giganti e il set Mocenigo di Padova.
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IL TITO LIVIO DI ARTURO MARTINI
Prologo Nell’Annuario dell’Università degli studi di Padova dell’anno accademico 1942-1943 sono riportate due notizie che possono essere riferite al Tito Livio di Arturo Martini. La prima, datata 30 aprile 1942, riguarda direttamente la scultura di Martini e indica che «Il Gr. Uff. Mario Bellini fa dono alla Università di un gruppo marmoreo raffigurante Tito Livio, destinato ad adornare l’atrio del Liviano, opera dello scultore Arturo Martini» 1. A questa data Martini aveva completato, a Carrara, la sua scultura che attendeva di essere trasportata a Padova per essere collocata al Liviano. Importante è il risalto dato alla figura di Mario Bellini grazie al cui finanziamento privato, è bene ricordarlo, la scultura è stata commissionata e realizzata. Infatti a metà dicembre del 1941 Bellini aveva messo a disposizione dell’Ateneo una somma (duecentomila lire) per realizzare una scultura da dedicare a Tito Livio in occasione della celebrazione del bimillenario della sua nascita 2. La seconda notizia invece, datata 25 maggio, ricorda la «giornata celebrativa di Tito Livio. Alla presenza del Ministro Bottai, ha luogo l’inaugurazione del rinnovato palazzo universitario, al quale hanno lavorato, fra molti altri, gli artisti Selva, Mascherini, Campigli, Casarini, De Pisis, Ferrazzi, Saetti e Severini. Q uindi, 1 R. Università degli studi di Padova, Annuario per l’anno accademico 19421943. 2 Notizie su Mario Bellini in Brunetta 1971, 10-11.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 493-514 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117502
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nella Sala dei Giganti al Liviano, il prof. Aldo Ferrabino celebra il bimillenario della nascita del sommo Storico parlando sul tema: «Urbs in aeternum condita». Il Ministro, con il seguito, si è poi recato ad inaugurare la mostra bibliografica di Livio, Marsilio e Ruzzante, predisposta in una sala del Municipio» 3. Q ui il nome di Martini non viene menzionato ma proprio il 25 maggio, come riportato sulla stampa, «nell’atrio del Liviano viene scoperta alla presenza del Ministro la grande statua di Livio, opera egregia di Arturo Martini, donata all’Ateneo padovano, in memoria dei genitori, dal gr. uff. Mario Bellini e il donatore viene presentato all’Ecc. Bottai» 4. Si conclude così, con cerimonia ufficiale, una vicenda travagliata che aveva avuto inizio nel dicembre del 1941 e che è stata puntualmente raccontata da Carlo Anti nel 1947 in un ricordo dedicato a Martini pubblicato nella rivista Le Tre Venezie 5.
La scelta dell’artista e dello spazio dove collocare l’opera Ricevuto il finanziamento dal «noto agricoltore del Polesine» 6, Carlo Anti, Gio Ponti e Giuseppe Fiocco avevano immediatamente deciso di affidare l’incarico ad Arturo Martini che viene presto contattato e invitato a venire a Padova per prendere accordi e vedere gli spazi dove l’opera sarebbe stata collocata. Il tempo a disposizione non era molto dato che la celebrazione del bimillenario di Tito Livio era stata fissata per il maggio dell’anno seguente. Bisogna ricordare che già nell’ottobre del 1941 Anti e Ponti avevano pensato di affidare a Martini l’incarico di realizzare una statua per il Liviano e la somma messa a disposizione da Bellini dava modo di concretizzare questa volontà 7.
3 R. Università degli studi di Padova, Annuario per l’anno accademico 19421943. 4 Bottai ha inaugurato stamani il nuovo Bò 1942. 5 Anti 1947, 169-178. 6 Anti 1947, 169. 7 Si veda la lettera di Ponti ad Anti inviata da Milano, 8 ottobre 1941, in Nezzo 2008, 447.
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IL TITO LIVIO DI ARTURO MARTINI
A ricevere Martini, che giunge a Padova il 22 dicembre 8, c’è Carlo Anti che accompagna l’artista a visionare l’atrio della nuova Facoltà di Lettere. Le parole di Anti ci danno modo di rivivere quell’incontro: Come fummo al Liviano e vide il basamento predisposto da Ponti lo bocciò senz’altro. – Q ui non metterò mai una statua mia. Sarebbe contro luce e con un fondo tutto rotto. Si guardò in giro e scelse lo spazio davanti alla parete minore di Campigli, sull’asse lungo dell’atrio. Gli feci rilevare la forte luce di fianco che si ha in quel punto e la possibilità che la pittura retrostante disturbasse la scultura. – Di quella mi gioverò; questa, meglio se non ci fosse, ma non me ne importa; tanto per me, è una tappezzeria e niente più 9.
Nell’ottica di mantenere il controllo totale dello spazio dell’atrio, di cui voleva essere l’unico e incontrastato regista, Ponti, nel suo progetto per il Liviano, aveva compreso un basamento per accogliere una scultura ai piedi della scala che porta al ballatoio. La decisione di Martini, che non ammetteva repliche, poneva Anti in una situazione particolare nei confronti di Ponti e si può dunque ben comprendere perchè il Rettore gli scrisse tempestivamente una lettera, lo stesso 22 dicembre, per informarlo del suo incontro: Oggi ho avuto un incontro con Martini per il gruppo del Liviano. È entusiasta dell’idea, ma trova che il piedistallo presso la scala non si presta a sviluppare un’idea adeguata e vuole collocare il suo gruppo (base di 1.50 × 2.00) più figure di gran fantasia, davanti alla parete minore. Egli dice che ne guadagneranno pittura e scultura, questa spiccando su quella quasi come sopra una tappezzeria. Che ne dici? A me pare convenga accontentarlo. Ti scriverà anche lui. Il piedistallo esistente è certo stretto e soprattutto con le pareti retrostanti rotte e con luci contrarie e squilibrate 10. 8 Si veda la lettera di Anti a Ponti inviata da Padova, 22 dicembre 1941, in Nezzo 2008, 449. 9 Anti 1947, 169. 10 Lettera di Anti a Ponti inviata da Padova, 22 dicembre 1941, in Nezzo 2008, 450.
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Dalle parole di Anti si deduce che a Martini era stato richiesto un gruppo scultoreo. Per quanto riguarda il luogo dove posizionare l’opera il Rettore però, pur avendo perorato la causa di Martini, vuole che sia Ponti ad avere l’ultima parola: «Q uanto a Martini tengo molto al tuo parere perchè il problema è anche architettonico» 11. In effetti il problema era soprattutto architettonico, perchè la scultura di Martini sarebbe stata collocata lì dove Ponti aveva già predisposto una bacheca, perfettamente inserita nello spazio e a filo con l’affresco di Campigli. Q uindi la scelta di Martini poteva alterare l’equilibrio spaziale dell’atrio. Nonostante le incognite ed alcune iniziali riserve 12 Ponti accetterà la proposta dello scultore.
Il contratto / la commissione Individuato il luogo dove porre l’opera si pone il problema di definire la commissione e soprattutto il contratto, aspetto che, naturalmente, stava molto a cuore a Martini. Lo scultore palesa subito un timore per gli «impacci buro cratici» 13 e Anti cerca di rassicurarlo, ma non troppo, scrivendogli il 29 dicembre: Caro Martini, sto lavorando per concretare lo incarico per il tuo gruppo e il 16 gennaio conto di farti un bel telegramma, ad ogni buon fine e perchè non «meni gramo» fino ad allora non prendere impegni con le cave o simili. Saluti cordiali 14.
A queste parole, rassicuranti fino ad un certo punto, Martini, non tenendo in gran conto le indicazioni di Anti, cerca di vincolare il committente annunciando, il 31 dicembre, di aver già acquistato un blocco di marmo dalla ditta Henraux, «magnifico e unico blocco di quella misura, che altrimenti sarebbe stato venduto ed io avrei dovuto aspettare altri sei mesi» 15. 11 Lettera di Anti a Ponti inviata da Padova, 29 dicembre 1941, in Nezzo 2008, 450. 12 Cf. Anti 1947, 172. 13 Anti 1947, 169. 14 Lettera di Anti a Martini inviata da Padova, 29 dicembre 1941, in Nezzo 2008, 817. 15 Anti 1947, 169.
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La materia prima dunque, secondo le parole di Martini, era già stata acquistata e non si poteva tornare indietro. In realtà, come è emerso da una ricerca condotta presso l’archivio Nicoli di Carrara, il blocco per la realizzazione del Tito Livio fu scelto e acquistato da Ruggero Nicoli tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 1942 16. Lo scultore, per assicurarsi l’incarico, inoltre, sempre il 31 dicembre, comunica ad Anti che Livio è ormai nelle sue «mani»: «so tutto, ho visto tutto e ho deciso tutto – studi disegno e bozzetti, frammenti che formeranno l’opera sono già pronti e te li mostrerò prestissimo – l’opera completa sarà rivelata solo nel marmo» 17. A queste decise parole Anti si convince che Martini abbia già superato il punto più critico per la riuscita di un’opera d’arte: «L’innamoramento per il tema proposto» 18. Ma non è proprio così perchè nello stesso giorno lo scultore scrive a don Giovanni Fallani a Roma, Mi arriva tra capo e collo un’ordinazione dell’università di Padova e cioè un monumento a Livio – Livio so poco chi sia e grosso modo non credo di amarlo, dunque vorrei un’idea, una specie di Chimera che comprendesse – La fondazione di Roma (Romolo) la repubblica (la forza) e la religione (Augusto). Senza affaticarti hai un lampo di genio di valore plastico da suggerirmi? Sarei contento se sì, scrivimi subito anche o solo per immagini io poi farò il resto. Lo devo presentare in due mesi in marmo e lo improvviserò nella materia stessa 19.
Per quanto riguarda la definizione della commissione il 29 gennaio 1942 Anti con un telegramma comunica a Martini che i fondi sono assicurati e che il contratto sarà pronto quanto prima 20. 16 Lettera di Ruggero Nicoli a Arturo Martini, 4 marzo 1942, in Piersimoni 2003, 114. 17 Anti 1947, 170. 18 Anti 1947, 170. 19 Lettera di Martini a don Giovanni Fallani spedita da Venezia, 31 dicembre 1942, in de Micheli et alii 1992, 214. 20 Telegramma di Anti a Martini inviato da Padova, 29 gennaio 1942, in Nezzo 2008, 817.
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Figura 1 Arturo Martini, Tito Livio, 1941, bozzetto, bronzo, collezione privata.
La scultura Ottenuta la commissione, Martini, da vero professionista, annuncia ad Anti, il 31 gennaio da Milano, che ha preparato il bozzetto del gruppo, che lo mostrerà a Ponti e che a lui invierà delle foto per il benestare. Lo stesso scultore descrive l’opera: Io ho svolto il gruppo così: Livio in primo piano e dinanzi a lui Augusto che posa il mondo sulla storia che tiene in mano Livio. Nel giro del gruppo ci sono altre due figure, rappresentanti una la fondazione di Roma, cioè Romolo che traccia il solco e beve nel Tevere, e l’altra la Repubblica o conquista, rappresentata da un soldato che suona la tromba di guerra, con altri motivi di chiarificazione. Mi par di aver dato la chiarezza del mondo liviano; e poi l’importante sarà come io lo svolgerò, cioè l’opera d’arte 21 (figg. 1-2). Anti 1947, 170.
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Figura 2 Arturo Martini, Tito Livio, 1941, bozzetto, bronzo, collezione privata.
Il soggetto per la scultura sembra essere definito ma in realtà è solo l’inizio di un concitato e travagliato percorso creativo. Infatti Martini ben presto cambierà idea e d’altronde lo stesso Anti rimane perplesso dalla descrizione dell’opera che a suo avviso contiene «troppa roba», ma ripone totale fiducia nell’artista 22. A dimostrazione che Anti ha ben compreso l’indole di Martini, nel contratto inviato all’artista il 10 febbraio viene inserita una clausola che salvaguarda la libertà creativa dell’artista – «È lasciata libertà all’artista di modificare il bozzetto approvato, qualora lo ritenesse opportuno per il migliore raggiungimento del l’opera in marmo» 23 – e permette al committente di accettare un’opera anche diversa da quella approvata con i bozzetti.
Anti 1947, 170. Anti 1947, 171.
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Il 24 febbraio il bozzetto presentato viene «ufficialmente» accettato 24, ma la clausola proposta da Anti si rivela provvidenziale dato che neanche una settimana dopo, il 2 marzo, Martini, in partenza per Carrara, comunica che ha già realizzato nuovi bozzetti dato che il primo sembrava avere due facciate indipendenti «mentre ora la cosa gira e guardando davanti si sente anche il giro dell’altra composizione; ho aggiunto anche un cavallo e non è poco. Sta tranquillo che quando sono all’opera sono come un uragano» 25. Ma come si può stare tranquilli di fronte ad un uragano?
A Padova Mentre Martini cercava di definire e chiarire la sua idea plastica, a Padova si stava delineando una questione che poteva creare qualche problema «locale» ad Anti. Il 4 febbraio, quando ancora non era stata data notizia pubblica dell’incarico affidato a Martini, in un articolo a firma di Gio Ponti pubblicato su Il Veneto, l’architetto, descrivendo in tono retorico i lavori del Bo, annunciava che l’arte padovana «si arricchirà, per virtù dei suoi cittadini stessi, anche di un capolavoro del più grande scultore vivente, il che vuol dire senz’altro – poiché nessuna nazione è ricca quanto noi di artisti – del più grande scultore che oggi esiste al mondo» 26. Veniva dunque data la notizia che un grande artista era al lavoro ma nessun accenno al suo nome e al soggetto dell’opera che stava realizzando. Pochi giorni dopo, sempre su Il Veneto, viene dato il resoconto dell’incontro dell’associazione culturale padovana Antenorei Lares che si era riunita per trattare, tra i vari argomenti all’ordine del giorno, anche la questione delle celebrazioni liviane: Il Consiglio, occupandosi inoltre delle onoranze in corso, su proposta dello stesso prof. Dal Zotto e del Presidente, ha deliberato di rendersi promotore presso la cittadinanza per un ricordo tangibile da consacrare allo storico padovanissimo dell’Impero, nella presente ricorrenza bimillenaria. Non si può parlare di un monumento come quello di Virgilio Cf. Brunetta 1971, 11. Anti 1947, 171. 26 Ponti 1942. 24 25
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a Mantova per analoga circostanza, perchè tutte le risorse e gli sforzi della Nazione devono oggi essere rivolti alla Vittoria, ma un ricordo comunque, col concorso dei cittadini, degli enti pubblici e privati, degli Istituti di credito, delle Aziende industriali e commerciali, ecc., pur s’impone alla nostra città. Ad esempio basterebbe, forse, collocare su di un semplicis simo basamento, dinanzi al Liviano, la traduzione in marmo, convenientemente ingrandita e con qualche ritocco, del plastico di Livio in gesso di Antonio da Este, neo-classico di scuola canoviana, che ora si trova nella nicchia in fondo al chiostro, di fronte all’entrata del Ginnasio-Liceo. Se la proposta sarà accolta favorevolmente, potrà essere nominato senz’altro un Comitato per la sua pratica attuazione 27.
Si profilava così l’ipotesi della realizzazione di un monumento a Tito Livio da posizionarsi davanti al Liviano, mentre Martini era già al lavoro, e due monumenti dedicati allo «storico padovanissimo» erano certamente troppi. La questione non poteva non preoccupare Anti e Ponti. Non è un caso dunque se il 10 febbraio seguente, su Il Veneto, un lettore anonimo che si firma «assiduo» 28 entra nel merito della questione e lodando «l’attività di quei benemeriti cittadini che, riuniti nella società degli Antenorei Lares, mettono tanto amore nel far rispettare e restaurare le cose belle che il tempo o più spesso l’ignoranza e l’avarizia degli uomini minacciano di rovina», sottolinea che nell’ultima loro seduta proprio l’hanno pensata buffa: per onorare Livio fan fare una «copia» della mediocrissima statua che è nel chiostro del Liceo! L’hai mai vista? Vacci che merita: a suo modo. Mi dicono che un giorno i ragazzi del Liceo le hanno messo una scarpa in mano. È proprio vero che i ragazzi, magari intuitivamente, alle volte giudicano meglio di certe persone saputissime. […] Livio ha la sua statua al Liceo (a quanto pare ammirata da qualcuno), ne ha una in Prato, una sullo scalone del Palazzo del Governo, due o tre monumenti in Salone e forse anche altre memorie altrove, che quelli 27 All’Antenorei Lares. La partecipazione padovana alla mostra d’arte sacra popolare di Venezia – Opere d’arte e lavori in corso – Una proposta per il bimillenario di Livio, 1942. 28 Persona vicino ad Anti e a Ponti, se non uno dei due.
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della «Antenorei Lares» certo conoscono meglio di me: ogni secolo gli ha fatto un monumento. Sarebbe bello che anche i nostri tempi lasciassero un segno tangibile della loro ammirazione per l’eterno Maestro di virtù in occasione solenne qual’è il bimillenario della sua nascita, ma non con dei ripieghi, con una copia di una cosa meschina di altri tempi. Caso mai si pensi ad una espressione sincera dell’arte nostra anche a costo che il Consiglio degli «Antenorei Lares» sia poi «dolente di non poter estendere ad essa le vive lodi» che giustamente ha avuto per altri lavori compiuti in questi anni 29.
L’esortazione è chiara: si realizzi un scultura nuova e moderna a ricordare ai posteri la figura di Tito Livio. In calce una nota delle redazione, riprendendo le parole di Ponti pubblicate nell’articolo del 4 febbraio, annuncia che il più importante scultore italiano – che ancora non viene nominato – sta realizzando un gruppo monumentale in onore di Livio 30. Si apre così un contenzioso locale. Gli Antenorei Lares non demordono, propongono che sia indetto un concorso nazionale e coinvolgono nella polemica anche Ugo Ojetti 31. Inoltre dopo che si venne a conoscenza che lo scultore era Martini e che il gruppo marmoreo sarebbe stato «un’opera complementare di decorazione interna» e «non un monumento all’aperto, in una delle nostre piazze», sulla stampa si sottolinea che per quanto artisticamente bello possa essere il gruppo del Martini, non sarà il monumento che Padova desidera; si aggiungerà alla serie di quegli altri «ricordi» marmorei di Livio, che la città già possiede, ricordi – per così dire – A Padova sorgerà un gruppo monumentale in onore di Tito Livio, 1942. «Fin qui il nostro assiduo. A lui e a quanti la pensano come lui crediamo peraltro di poter dare una buona notizia. Abbiamo cercato di sapere che cosa si nascondeva sotto una frase molto promettente ma di colore oscuro contenuta nel recente articolo di Gio Ponti da noi pubblicato mercoledì scorso. Nell’articolo si parlava di una grande opera del maggiore scultore italiano, che è quanto dire del maggiore scultore del mondo in questo momento, destinata a Padova. Pare si tratti di un gruppo monumentale proprio in onore di Livio, ma non siamo autorizzati a dire di più. Se saranno rose… fioriranno a maggio, ma per quel poco che sappiamo temiamo anche noi che poi esso Consiglio “sarà dolente etc.”». Cf. A Padova sorgerà un gruppo monumentale in onore di Tito Livio 1942. 31 Statue e monumenti. Tito Livio Ugo Ojetti e altri minori 1942. 29 30
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da camera e da sala; ma non avrà il significato di una spontanea celebrazione collettiva, non sarà espressione dell’orgoglio e della riconoscenza di tutto un popolo verso il grande figlio di Padova e di Roma. È bene che, secondo il desiderio da noi espresso, non si sia tardato più oltre a chiarire il malinteso. Ogni cosa a suo posto e ciascuno per la sua strada. Ora l’Associazione promotrice potrà accingersi quanto prima all’attuazione pratica del suo progetto; quanto prima, perchè l’occasione lo richiede, anche se poi si dovrà contare sopra un ragionevole lasso di tempo per il suo compimento. Salvo le modifiche che al progetto stesso vennero da più parti suggerite, si può prevedere che all’iniziativa dell’Antenorei Lares, definita degna e logica anche da Ugo Ojetti, non mancherà l’adesione e il favore del pubblico padovano 32.
Ma ai primi di aprile, quando ormai i giochi sono fatti, gli Antenorei Lares prendono infine atto che la loro proposta è ormai superata da una assai più grande e prossima attuazione. Si tratterà di un gruppo – nonostanti le giuste riserve del citato Ojetti sui gruppi statuari – che verrà collocato nella sala di entrata del «Liviano», e che noi, che non abbiamo preconcetti né pregiudizi, né interessi d’altro genere che non siano quelli della storia e dell’arte, saremo ben lieti di approvare cordialmente, se a nostro modesto avviso ci sembrerà di poterlo fare 33.
Tra le righe si può leggere una velata minaccia.
A Carrara Ma cosa stava facendo nel frattempo Martini a Carrara? Nei primi giorni di marzo 34 inizia a lavorare alla scultura ma i dubbi sono molti e nel momento di affrontare il marmo cambia radicalmente idea come comunicherà più avanti ad Anti con un telegramma 35. Bimillenario liviano. L’autore e la destinazione dell’annunciato «gruppo monumentale» 1942. 33 Gli «Antenorei Lares» si sono adunati 1942. 34 Anti 1947, 171. 35 Spedito da Carrara il 27 marzo 1942, cf. de Micheli et alii 1992, 217. 32
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Una lettera a don Giovanni Fallani, spedita da Carrara il 22 marzo, testimonia il travaglio dell’artista: Dunque il gruppo di Livio non so se sia tra i più geniali, troppi obblighi troppa sintesi, troppa scelta e poche figure da scegliere belle tra le bellissime che ci sono perchè le bellissime sono quasi particolari … Mentre ti scrivo ho fatto uno schizzaccio – dovrei ripeterlo per essere più chiaro ma non ne ho voglia e te lo spiego – Livio è rappresentato come poeta sognatore che legge o scrive posato sulle rocce all’aperto, estraneo a tutto e sopra di lui ci sono le sue immagini e cioè a sinistra del disegno Augusto col mondo in mano cioè l’impero, sul cavallo c’è un guerriero che suona la tromba di battaglia, la repubblica o conquista – e di dietro c’è un giovinetto che dovrebbe essere Romolo che chinato sul Tevere beve l’acqua – a Padova l’idea è piaciuta e poi se non fosse piaciuta era lo stesso 36.
Lo «schizzaccio» tracciato da Martini è stato pubblicato nel 1983 dallo stesso Fallani a corredo di un breve testo dedicato alla scultura 37. Il dato che risulta assai interessante è che la figura di Tito Livio tracciata sul foglio, immaginato come un «poeta sognatore che legge o scrive posato sulle rocce all’aperto», è quella che poi lo scultore estrapolerà dal contesto per farla diventare la sua opera monumentale (fig. 3). Lo stesso giorno Martini prende una decisione radicale e definitiva: non realizzerà un gruppo ma una figura sola, come comunica sempre al confidente Fallani: Anche la Chimera è scartata, anche questa mi è sembrata una scappatoia e che Livio sarebbe entrato non come figura di primo piano, e allora ho voltato il pensiero verso la cosa più difficile e mi sono chiesto qual’è la cosa più dura e più difficile che ha fatto Michelangelo, naturalmente il Mosè, opera oltre le passioni pura come un ghiacciaio. Livio sarà il mio Mosè sarà una statua la sua statua, tutto il resto lo sanno anche i bambini cosa lui ha fatto. La suprema prova per uno scultore è stata sempre una statua e non un gruppo che ha risorse infinite e mai di ordine puro 38. 36 Lettera di Martini a don Giovanni Fallani, Carrara 22 marzo 1942, cf. de Micheli et alii 1992, 215. 37 Fallani 1983, 7-8. 38 Lettera di Martini a don Giovanni Fallani, Carrara 22 marzo 1942, cf. de Micheli et alii 1992, 216.
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Figura 3 Disegno di Arturo Martini, 1942, da ‘Padova e la sua provincia’, n. 5, anno XXIX, maggio 1983, p. 8.
Il 23 marzo comunica la sua decisione anche a Mario De Luigi: Ho improvvisato la statua di Tito Livio dopo gruppi e gruppetti. […] Livio era troppo in secondo piano per accontentarmi, ora invece è solo lui enorme e mi pare esca benissimo. Sarà il mio Mosè e tu sarai credo contento … 39. 39 Lettera di Martini a Mario De Luigi, Carrara 23 marzo 1942, cf. Stringa 1989, 160.
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Carlo Andre (detto Pipe), collaboratore di Martini a Carrara, confidò a Giulio Brunetta «che il lavoro era già stato iniziato attorno ad un grande blocco verticale di marmo, ed era già stata sbozzata in alto, la tuba del soldato, quando una mattina Martini entrò nel laboratorio “con il cappello in testa, segno di burrasca”, diede ordine di demolire il lavoro iniziale e di rovesciare, in orizzontale, il grande masso» 40. Rimangono testimonianze fotografiche di due bozzetti, poi distrutti, che rappresentano esclusivamente la figura di Tito Livio probabilmente eseguiti nel 1941 come prime idee di studio del personaggio, ma questi si discostano totalmente dalla figura che poi Martini scelse e realizzò 41 (figg. 4-5). I due bozzetti riprendono un’iconografia tutto sommato tradizionale nel rappresentare un Tito Livio in toga, stante e seduto. I modelli a cui far genericamente riferimento possono essere ricondotti alle statue dedicate a Tito Livio di Pietro Danieletti (1776, Padova Prato della Valle), di Antonio d’Este (1824, Padova Liceo Ginnasio Tito Livio), di Paolo Boldrin (1937, Padova Palazzo Santo Stefano, già Palazzo del Governo) e di Josef Lax (1900, Vienna di fronte al Palazzo del Parlamento). Martini per il suo Tito Livio cambia completamente iconografia e come ha notato Nico Stringa l’artista salda «tra di loro due estremi opposti: la più antica testimonianza iconografica, una formella del Q uattrocento conservata al Palazzo della Ragione di Padova in cui lo storico è ripreso nello studiolo in una postura di studio e riflessione, con una neppure tanto lontana eco del Pensatore di Rodin. Laddove però il gigante rodiniano è isolato nello spazio e si profila in tutta l’articolazione della figura, Livio è raffigurato in una posa privata, intento a leggere, rannicchiato su se stesso, così che alla monumentalità dimensionale si contrappone un’atmosfera domestica» 42 (fig. 6). Se per la postura Alessandro Prosdocimi fa riferimento alla «tradizione cristiana, delle miniature, delle pitture e dei mosaici bizantini e romanici» 43, per quanto riguarda il volto un probabile 42 43 40 41
Brunetta 1971, 12. Cf. Vianello – Stringa – Gian Ferrari 1998, 342. Stringa 2005, 161-162. Prosdocimi 1982, 6.
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Figura 4 Arturo Martini, Tito Livio, 1941, bozzetto, gesso, distrutto.
riferimento iconografico è il busto marmoreo del cinquecentesco monumento a Tito Livio conservato nel Palazzo della Ragione, la cui foto Anti nei primi giorni di gennaio del 1942 spedisce a Martini, su richiesta dello stesso artista, perchè «gli era piaciuto per una certa forza contadinesca che lo distingue» 44. In effetti, come sottolineato da Giulio Bodon, nel volto del busto i «lineamenti marcati, colti con una durezza quasi impietosa», accentuano «un’espressione forte, severa e decisa» e conferiscono a questo «una impronta di altera dignità» 45, riscontrabile pure nell’opera di Martini.
Anti 1947, 170. Bodon 1988, 82.
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Come è stato notato, nel Tito Livio di Martini «gli elementi arcaici, quasi archeologici, vengono a fondersi con una modernità espressiva che anima la composizione e l’equilibrio delle masse» 46. La nuova statua di Tito Livio, cominciata intorno al 23 marzo, verrà terminata verso la fine di aprile. Nel frattempo Martini, il 27 marzo, avvisa telegraficamente Anti delle nuove decisioni: «Ho cambiato idea fidati di me» 47, non fornisce spiegazioni nè dà anticipazioni sul soggetto ma chiede rinnovata fiducia, e il 20 aprile, quando l’opera è quasi terminata, gli chiede di pregare Fiocco di non scrivere nulla sulla scultura: «perchè ora si tratta di ben altro» 48. Risulta pertanto chiaro che a Padova nulla immaginavano di cosa stesse realizzando lo scultore. Dopo uno scambio di lettere con Anti per decidere la scritta da incidere sulla base – a tale proposito risulta interessante sottolineare che Martini avrebbe inizialmente voluto che le parole fossero invece «incise sul sasso dove ha scritto Tito Livio» 49 – vengono presi accordi per il trasporto. A causa dei preventivi troppo alti fatti dalla ditta contattata da Anti, Martini decide di arrangiarsi con i suoi collaboratori 50.
Il Tito Livio a Padova Nel tardo pomeriggio del 7 maggio la scultura di Martini arriva a Padova. L’artista aveva chiesto espressamente che nell’atrio del Liviano non ci fosse nessuno e con l’aiuto di tre operai, nei giorni a seguire, collocò il suo Tito Livio lì dove aveva deciso. Come ricorda Anti «tutto venne fatto solo a mezzo di rulli, cunei, biette e leve» 51. Vigore di linee spezzate 1948. Spedito da Carrara il 27 marzo 1942, cf. de Micheli et alii 1992, 217. 48 Anti 1947, 172. 49 Lettera di Martini a don Giovanni Fallani, Carrara 15 aprile 1942, in de Micheli et alii 1992, 215. 50 Anti 1947, 172-174. 51 Anti 1947, 174. 46 47
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Q uando il Rettore, finalmente, poté vedere l’opera la sua prima impressione fu di smarrimento: … il divario tra bozzetto approvato ed opera realizzata non era da poco, ma tale quale bastava per provocare un imbarazzante dissenso fra artista e committente e anche più. Ma mi ripresi. Mi aiutò l’abitudine professionale, in arte conta solo l’opera e questa s’ha da guardare. Così facendo ebbi anzitutto la rivelazione della fantastica originalità iconografica della figura. Era logico che un Livio di Martini si realizzasse così come nessuno lo avrebbe mai immaginato: dunque ero davanti all’autentico Martini 52 (fig. 7).
Figura 5 Arturo Martini, Tito Livio, 1941, bozzetto, gesso, distrutto.
Anti 1947, 173.
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Il Tito Livio di fatto anticipava al pubblico la nuova ricerca di Martini, incentrata su forti «emozioni» plastiche, che avrebbe suscitato un vero e proprio scandalo, e un vivace dibattito critico, in occasione della sala personale dell’artista presentata alla XXIII Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, inaugurata nel giugno del 1942. Emozioni che Anti avverte «nella schiena mareggiante, dove pure la deformazione anatomica esprime il gigantesco e il sovrumano» 53. L’opera alla sua presentazione ufficiale suscitò vivo interesse 54 ma anche critiche 55. Giulio Brunetta ricorda le parole riportate in un trafiletto di un giornale locale in cui venivano evidenziate due singolarità: «prima singolarità è la postura dell’effigiato … poiché è molto stravagante raffigurarlo accucciato per terra, offrente all’ammirazione di chi passa dall’atrio la parte meno nobile del corpo e un paio di fenomenali piote»; la seconda singolarità riguardava la possente figura: «Martini ci ha dato un Ercole o quanto meno un Carnera; un Carnera buttato alle corde durante uno scontro pugilistico, che tenta di rialzarsi col volto spaurito, prima che passino i minuti di rigore» 56. Naturalmente anche gli Antenorei Lares non sono soddisfatti della scultura, della sua modernità, e pur constatando la bellezza del marmo ribadiscono «che si sarebbe dovuto fare un concorso nazionale» 57. Anti ricorda come il pubblico rimase sorpreso di fronte a un Livio che non appariva in toga «con un rotulo nella [mano] sinistra e la destra atteggiata in qualche gesto esortativo», e a tale proposito furono invocati gli «antichi» 58. Alle critiche rispose lo stesso Martini: «Gli antichi? Ma forse che no deventaremo antichi anca nualtri?» 59. 55 56 57 58 59 53 54
Anti 1947, 173. Si veda ad esempio il giudizio di Manzano 1942. Si veda ad esempio il giudizio di Scarpa 1942. Brunetta 1971, 13. Gli «Antenorei Lares» si sono adunati 1942. Anti 1947, 173. Anti 1947, 173.
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Se il giudizio dei più non fu lusinghiero, dal canto suo Martini considera il suo Tito Livio un’opera eterna che rientrava nel «principio del sasso». «Dove ho detto, nella classica strada, una parola di più: la donna che nuota sott’acqua, il Pegaso che casca e il Livio di Padova. Q ueste tre opere sono sorprese: è la rientratura nel principio del sasso» 60. Per Martini «nel sasso c’è tutto l’infinito: tutto senza misura» 61, nel caso del Tito Livio significava estrapolare la figura dal racconto, un fare ritorno alla statua. A sottolineare l’aspetto sovrumano del Tito Livio risulta interessante ricordare che la stessa impostazione iconografica viene riproposta per illustrare Il sonno di Giove, una delle tavole litografiche realizzate da Martini per Il viaggio d’Europa di Massimo Bontempelli, edito nel 1942. All’iniziale smarrimento di Anti e alle critiche locali deve essersi aggiunta anche una certa indifferenza di Ponti come traspare dalla lettera inviata da Martini a Ponti il 27 maggio: Caro Ponti mentre è ancora caldo il mio Livio opera che passerà i secoli e resterà come unico segno dei tempi alla quale tu dovresti dedicare non un numero completo ma due, tre di Stile – passi con indifferenza a chiedermi della Biennale?! Cosa vuoi che mi importa [sic] la Biennale e a te cosa importa questo mondo passeggero in confronto di una statua della famiglia del Gattamelata?! Anche tu come il padre Zappata che predica bene e … fai come tutti gli altri. Mi arrivano lettere di uomini illustri dove scrivono che sono felici di vivere in questo tempo solo per la nascita del Livio e tu passi oltre. 27 maggio 1942 con tanti saluti Arturo Martini. Dedicagli delle pagine tutte intere e grandissime 62.
Parole cariche di passione di Martini-Donatello conscio di aver realizzato un’opera nuova e originale che andava ad arricchire la storia artistica della città di Padova. Martini 1997, 27. Martini 1997, 23. 62 Lettera di Arturo Martini a Gio Ponti del 27 maggio 1942, collezione privata; Pontiggia 2017, 220 60 61
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Figura 6 Autore ignoto, Titolo Livio, post 1420, Palazzo della Ragione, loggia nord porta orientale, Padova.
Figura 7 Arturo Martini, Tito Livio, 1942, marmo di Carrara, atrio del Liviano, Padova.
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Bibliografia All’Antenorei Lares. La partecipazione padovana alla mostra d’arte sacra popolare di Venezia – Opere d’arte e lavori in corso – Una proposta per il bimillenario di Livio, Il Veneto, 7 febbraio 1942 A Padova sorgerà un gruppo monumentale in onore di Tito Livio, Il Veneto, 10 febbraio 1942 Bimillenario liviano. L’autore e la destinazione dell’annunciato “gruppo monumentale”, L’Avvenire d’Italia, 22 marzo 1942 Bottai ha inaugurato stamani il nuovo Bò, Il Veneto, 25 maggio 1942 Gli “Antenorei Lares” si sono adunati, Il Veneto, 4 aprile 1942 Statue e monumenti. Tito Livio Ugo Ojetti e altri minori, Il Veneto, 10 marzo 1942 Vigore di linee spezzate, L’Arena, 4 maggio 1948 Anti 1947 = C. Anti, Ricordo di Martini. Cronistoria del «Tito Livio», Le Tre Venezie 21, aprile-giugno 1947, 169-178 [= Carlo Anti, Ricordo di Martini. Cronistoria del «Tito Livio», Padova e la sua provincia, 6, giugno 1979, 10-16] Brunetta 1971 = G. Brunetta, Contributo alla storia di una statua … alla storia, Padova e la sua provincia 17 (2), 1971, 9-13 Bodon 1988 = G. Bodon, Nuovi elementi per lo studio del busto di Tito Livio al Palazzo della Ragione di Padova, Bollettino del Museo Civico di Padova 77, 1988, 81-95 Fallani 1983 = G. Fallani, Storia inedita del ‘Tito Livio’ padovano di Arturo Martini, Padova e la sua provincia 29 (5), 1983, 7-8 Manzano 1942 = A. Manzano, L’Arte italiana a Padova nella rinnovata sede universitaria, Il Popolo del Friuli, 24 maggio 1942 de Micheli et alii 1992 = M. de Micheli – C. Gian Ferrari – G. Comisso (a cura di), Le lettere di Arturo Martini, Milano – Firenze 1992 Nezzo 2008 = M. Nezzo (a cura di), Il miraggio della concordia. Documenti sull’architettura e la decorazione del Bo e del Liviano: Padova 1933-1943, Treviso 2008 Ponti 1942 = G. Ponti, Profeta in patria, Il Veneto, 4 febbraio 1942 Pontiggia 2017 = E. Pontiggia, Arturo Martini. La vita in figure, Cremona 2017 Piersimoni 2003 = C. Piersimoni (a cura di), Arturo Martini, Carrara e il marmo. Carteggio con Ruggero Nicoli 1937-1946, Cinisello Balsamo 2003 513
G. BIANCHI
Prosdocimi 1982 = A. Prosdocimi, Il Tito Livio e il Palinuro di Arturo Martini, Padova e la sua provincia 28 (2), 1982, 3-7 Scarpa = P. Scarpa, Opere d’arte moderna nell’Università di Padova, in “Il Messaggero”, Roma 24 maggio 1942 Stringa 1989 = N. Stringa (a cura di), Arturo Martini. Opere degli anni Q uaranta.Catalogo della mostra (Venezia 10 giugno – 5 agosto 1989), Milano 1989 Stringa 1997 = N. Stringa (a cura di), A. Martini, Colloqui sulla scultura 1944-1945, Treviso 1997 Stringa 2005 = N. Stringa, Grandi Scultori. Arturo Martini, Roma 2005 Vianello et alii 1998 = G. Vianello – N. Stringa – C. Gian Ferrari, Arturo Martini. Catalogo ragionato delle sculture, Vicenza 1998
Abstracts This chapter traces the difficult genesis of Arturo Martini’s Tito Livio, the statue of the historian that was dedicated in the hall of Palazzo Liviano (Padua) on the occasion of the bimillenary of Livy’s birth (1942). The main focuses of the paper are the evolution of Livy’s traditional iconography and the particular relationship between the artist, Arturo Martini, and the person who commissioned the work, Carlo Anti, on behalf of the University of Padua. In occasione della giornata celebrativa del bimillenario della nascita di Tito Livio, il 25 maggio del 1942, alla presenza del ministro Giuseppe Bottai, viene inaugurato ufficialmente a Padova il monumento dedicato al «sommo storico» realizzato dallo scultore Arturo Martini e collocato nell’atrio del Liviano. L’intervento ricostruisce la tormentata genesi di quest’opera che rinnova l’iconografia tradizionale di Tito Livio, analizzando in particolare il rapporto tra l’artista e il committente (Carlo Anti per l’Ateneo di Padova).
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La storia costruttiva e decorativa del Liviano è già stata in gran parte sondata, scritta e arricchita infine, in anni non lontani, con un serrato affondo documentale 1. Vale tuttavia la pena di riprenderne nuovamente il filo per riflettere sulla struggente e tuttavia problematica memoria, murata e dipinta in questo edificio. Esso, com’è noto, fu una delle nuove costruzioni, decise nel piano d’intervento del IV Consorzio edilizio dell’Università di Padova, che, attivo dal 1933 al 1943, legava enti pubblici e privati, nel comune scopo di incrementare la disponibilità di spazi in Ateneo. È dunque in questi anni che la nostra comunità di studi si trova nelle condizioni di rinnovare il Palazzo centrale e di realizzare ex novo l’osservatorio astronomico di Asiago (progettato da Daniele Calabi), gli istituti di Chimica farmaceutica e di Fisica 2, nonché la sede autonoma per la oggi compianta Facoltà di Lettere e Filosofia. E poiché il IV Consorzio occupa per intero il secondo 1 Cf. Universo 1989; Dal Canton 1992; Dal Piaz 1992a; Colpo-Valgimigli 2006; Dal Piaz 2006a; Dal Piaz 2006b; Colpo 2006; Bernabei 2008. Basata sulle carte del Fondo Storico di Ateneo e da me curata, è uscita nel 2008 un’opera che abbina documenti originali e riflessioni critiche su architettura e decorazione di Bo e Liviano. Ad essa fanno capo diversi saggi e repertori sotto indicati come Bernabei 2008; Dal Piaz 2008; Nezzo 2008a e Nezzo 2008b; Penzo Doria 2008. Q uest’ultimo illustra specificamente la sezione del Fondo storico oggetto della ricerca, cui già Dal Piaz 2006c, con altra prospettiva, aveva dato risalto. Sempre al IV consorzio è dedicato Nezzo 2011, cui s’aggiunge, per un résumé minimalista, Nezzo 2015. Uno speciale approfondimento sul Museo archeologico e le sue collezioni è venuto dall’attuale conservatrice: cf. almeno Bellan et alii 2004; Menegazzi 2004; Menegazzi 2010. 2 Una corolla di studi su episodi specifici e singole figure offrono Dal Piaz 1992b; Dal Piaz 2000; Dal Piaz-Visentin 2005; Dal Piaz 2006d; Dal Piaz 2007.
A primordio urbis: Un itinerario per gli studi liviani, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 19 (Turnhout, 2019), pp. 515-546 © FHG DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.117503
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decennio dell’era fascista, alle strutture organizzative e culturali del fascismo fanno riferimento tutti i protagonisti della vicenda realizzativa che ci interessa 3. La visione del rapporto fra arte e Stato non può essere considerata, durante il ventennio, unitaria e omogenea: il dibattito inizia molto presto, animato dall’inchiesta Un’arte fascista? (avviata da Bottai sulla sua rivista il 15 ottobre 1926 4), che apre un contenzioso tra i sostenitori d’un controllo intensamente normativo della creatività (anche sul piano stilistico e contenutistico) e i propugnatori d’una crescita «liberamente totalitaria» della cultura nazionale. Estroflessione figurale della doppia anima del regime – altoborghese e sanculotta, reazionaria e rivoluzionaria – simile discrasia pone le basi della concertazione dell’immagine sotto la dittatura. Da un lato i fautori della «coercizione» promuovono concorsi a tema, premi e medaglie per gli artisti disponibili al compromesso ideologico, capaci cioè di creare la nuova «pittura di storia» 5; dall’altro i distratti sognatori d’una «autonomia direzionata» si spendono nella selezione espositiva (nonché legislativa) delle migliori forze espressive italiane. Percorrendo entrambe queste vie, solo apparentemente asintotiche, negli anni Trenta le istituzioni arrivano a penetrare, con qualche successo, fin dentro la libertà creativa degli artisti. Il condizionamento dottrinale delle arti, inverato nelle opere pubbliche, produce la biblia pauperum del fascismo. Uno «spazio» che i vertici politici e intellettuali usano per programmare messaggi adatti a raggiungere l’intera società (alta e bassa), condizionandone il consenso con pluralità di registri, linguaggi e vettori tematici 6. Nonostante contrastino nella sostanza e siano animate da personalismi radicali, dunque, le sopradescritte due linee opera3 Senza dimenticare gli importanti contributi offerti in Isnenghi 1992 e Ventura 1992, un «tattile» affresco – materiale e morale – che interseca lavori d’arte, vita accademica e politica dell’Ateneo è Bernabei 2008. 4 L’inchiesta è ospitata su Critica Fascista: si vedano gli estremi bibliografici e concettuali del referendum di Bottai in Barocchi 1990, 26-31. Sulla rivista e sulla questione segnalo Malgeri 1980. 5 Le Arti Plastiche indisse in merito un’inchiesta: le risposte, distese fra il 1° dicembre 1929 e il 16 gennaio 1930, sono antologizzate in Barocchi 1990, 89-97. 6 Cf. Malvano 1988.
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tive divengono sinergiche e ugualmente funzionali alla concordia di regime 7. Ulteriormente rafforzata, quest’ultima, dall’azione sui giovani, blanditi con i Littoriali della Cultura, dove – ad esempio, nel ’37 – troviamo un Guttuso secondo al premio per la pittura 8. Simile atteggiamento si riscontra anche nelle cose d’architettura dove, grazie alle pubbliche commissioni, l’anima razionalista riesce a sottrarre qualche spazio, sia pur cadetto, al monumentalismo. Con la medesima disposizione bifronte, una quantità di riviste specializzate permette l’assorbimento, cioè la neutralizzazione pratica, delle polemiche sulla modernità. La vitalità di questi fogli, più o meno vicini al regime, attenti a compiacerlo ma talora incapaci di sfuggire alla persecuzione censoria, ancora oggi sorprende: si va dalle pagine patinate di Architettura e arti decorative, alle spinte modernizzanti di Q uadrante; dalle ironie strapaesane del Selvaggio ai toni ministeriali de Le Arti; dalle uscite becere del Tevere e di Q uadrivio agli accenti sottilmente speculativi di Primato 9. Dal punto di vista strutturale, simile circonvenzione del sistema delle arti, poggia sul più ampio programma fascista di assorbimento dei contrasti socio-economici, cercato attraverso Corporazioni e Sindacati. Q uesti ultimi, appunto, fra i molti loro rami, raccolgono anche Architetti, da un lato, e Pittori, Scultori, Decoratori, dall’altro. In entrambi i casi i rapporti interni alle categorie sono fortemente gerarchizzati e l’autonomia operativa degli iscritti è direzionata e sospinta, attraverso la gestione delle pubbliche commesse. Ma se l’approdo auspicato dal governo è l’arte di Stato, anche gli artefici hanno qualche vantaggio: di tipo pratico. Rispetto a pittori e scultori, il sindacato si assume il compito di lenire le situazioni di disagio finanziario, imponendo la presenza 7 Si vedano in merito Tellini Perina 1993; Premio Bergamo 1993; Santoro 1996. Per farsi un’idea sulle nicchie operative di Bergamo e Cremona è utile anche vedere Solza 1985; per una panoramica internazionale Kunst und Diktatur 1994. 8 Zangrandi 1962. 9 Su numerose riviste d’arte e architettura (sull’indotto culturale che contribuirono a generare e sostenere) esistono ormai numerosi saggi monografici e cataloghi d’esposizione: a titolo d’esempio segnalo qui soltanto Polato 1978, Masi-Vivarelli 1996, Maccari 1998; Martignoni 2002, Terraroli 2003. Fra i numerosi studi d’insieme ricordo Folin-Q uaranta 1977, Tomasella 2003 e Tomasella 2005.
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dei propri membri nella decorazione dei palazzi pubblici 10, per i quali, con circolare del 9 febbraio 1935, il preposto Ministero raccomanda un investimento in opere d’arte pari al 2% 11. Ancora più densa, se possibile, la concertazione ottenuta dagli architetti 12. Proprio in quel settembre 1933 che vede l’abbrivio della nostra storia, il relativo Sindacato 13 sta uscendo da una lotta durissima, dopo che il segretario, Alberto Calza Bini, è stato accusato di esercitare un totale controllo clientelare su commesse e premi, al punto da avere strozzato la libera competizione e trasformato il sindacato stesso in un «mostruoso monopolio» 14. A Calza Bini, pur riconfermato in carica, viene dunque affiancato un direttorio, ovviamente gradito al partito, fra i cui componenti troviamo Giovanni Michelucci, Duilio Torres e Gio Ponti 15. Sem10 De Angelis 1997; De Angelis 1999; Salvagnini [2000]. Proprio il cantiere padovano e segnatamente i lavori per la sede centrale, offrono una testimonianza preziosa per capire le modalità operative così innescate. Carlo Anti, ottiene di assegnare ad artisti noti la decorazione delle sale di rappresentanza, previa distribuzione a pioggia di «incarichi minori» agli iscritti al sindacato padovano (cf. Nezzo 2008b, part. 295 e ss.). 11 Circolare ds. del Ministero dei lavori pubblici (n. 3790/129), Segretariato generale degli affari generali e del personale, Div. I., Roma, 9 febbraio 1935 (sez. Sindacati e Corporazioni), pubblicato in Margozzi 2001, 12. Nel ’37, il Sindacato Belle Arti chiederà di fissare la norma ufficiosa in una legge stabile (L. 11 maggio 1942), cercando così di aumentare la propria capacità contrattuale rispetto al potente Sindacato Architetti. Sullo sviluppo giuridico della politica culturale di regime è fondamentale Cazzato 2001. Varrà la pena inoltre di focalizzare le figure di Cipriano Efisio Oppo e Antonio Maraini, cioè dei due dirigenti nazionali del sindacato artisti, attraverso Morelli 2000; De Sabbata 2006. 12 La bibliografia sul tema è sterminata. Mi limiterò qui e nelle note seguenti a segnalare qualche titolo che nel tempo mi pare rimanere interessante, a partire da Ciucci 1989; Nicoloso 1999; Melograni 2008. 13 Sul finire degli anni Venti – in concomitanza con l’apertura delle nuove Scuole di architettura – il Sindacato architetti apre la selezione per riassorbire nell’Albo i professori di disegno diplomati nelle Accademie, nonché gli operatori di chiara fama, mai laureati. Simile normalizzazione permette alla categoria di rivaleggiare e infine risultare vittoriosa sul mondo degli ingegneri, fino ad allora ben più accreditato, addizionando alla capacità costruttiva il surplus estetico. Sulla sanatoria per il parziale recupero nell’Albo architetti degli insegnanti di disegno e dei professionisti di fatto, si veda Nicoloso 1999, part. 65-74. Sull’inimicizia fra architetti e ingegneri, tesa fra sperequazione formativa e nuova visione/gestione dell’urbanistica, rinvio a Zucconi 1992. 14 Così Ettore Rossi in una lettera aperta al segretario, pubblicata ne Il Tevere, 8 febbraio 1933. Per la presente citazione e la ricostruzione in dettaglio degli eventi, qui solo accennati, si veda Nicoloso 1999, part. 147-153. 15 Ivi, 149.
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pre per ovviare alla protesta antimonopolistica, si decide di estendere la pratica dei concorsi, già prassi diffusa ma – esattamente come il 2% – ormai avviata ad essere norma cogente. Di fatto occasione per ulteriori accaparramenti, le gare pubbliche si fanno pressoché obbligatorie 16. Su questo pollone torbido s’innesta il finanziamento ministeriale necessario alla creazione del quarto Consorzio patavino: giunto nel luglio 1933, cioè l’anno seguente all’aprirsi del rettorato Anti, è computabile in 35.000.000 di lire, esattamente la metà di quanto concesso nel ’32 all’Ateneo romano, il cui cantiere è affidato all’onnipotente Marcello Piacentini 17. I concorsi per Bo e Liviano, le sedi maggiormente rappresentative sul piano artistico-architettonico, vengono banditi il 20 settembre dello stesso ’33, su base locale, riservandoli cioè ad architetti del Triveneto, nel tentativo di tutelare – si dice – l’integrità dell’aura artistica patavina: il problema è probabilmente diverso e concerne piuttosto il controllo corporativo del territorio 18. È in questa fase che Ponti arriva a Padova, come membro della giuria per il concorso Bo, conclusosi con la vittoria di Ettore Fagiuoli 19 ed Enea Ronca. Al contrario, la parallela gara per la Facoltà di Lettere, trascorre in prima battuta senza esito. Q uando, l’anno seguente, è bandita nuovamente (questa volta senza la restrizione triveneta), Ponti partecipa riuscendo vincitore 20. È il luglio 1934 e il fatto è immediatamente colto dalla stampa specializzata: Plinio Marconi, assistente di Piacentini, richiede le fotografie dei progetti presentati (Ponti, Cabiati, Vallot) per darne puntuale diffusione sulla testata del sindacato, Architettura 21. Ricezione Nicoloso 1999, 153-160. Sull’architetto cf. Lupano 1991; Piacentini 1996. Per la parallela vicenda de La Sapienza, cf. Nicoloso 2006 e Mitrano 2008. 18 «La capacità di radicamento del sindacato architetti sul territorio cresce in proporzione alla diffusione dei concorsi. La richiesta di attivare concorsi diviene assillante al punto da provocare uno stizzito richiamo di Mussolini» è cit. da Nicoloso 1999, 154. 19 Sull’architetto cf. Bossaglia et alii 1984. 20 Sui concorsi cf. Dal Piaz 1992a; Dal Piaz 2008; Nezzo 2008b. Su inceppi e finanziamento cf. Ponti al Liviano. Regesto amministrativo, in Nezzo 2008a, 280. 21 Plinio Marconi ad Anti, 17 luglio 1934, ora in Nezzo 2008a, 280. Un resoconto complessivo sui concorsi padovani uscirà effettivamente in Fariello 1934. 16 17
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in sé già significativa, poiché delinea un ambito culturale preciso: con quella rivista e con la patinata Dedalo ojettiana 22, Ponti ha tentato di mettere in cordata, al giro degli anni Trenta, la sua Domus 23. La triade governa e supporta il gusto dominante in materia di arredamento, collezionismo e costruzione; ma soprattutto si pone come argine, solo apparentemente compatto, alle spinte critiche provenienti dalla fronda di Casabella e dall’opposizione di Q uadrante, vale a dire da Persico e Bardi 24. Non promuove un passatismo schietto, ma una revisione inclusiva della modernità. Ponti, in particolare, media attualità e tradizione progettando in termini di classicismo funzionale, con un occhio fisso sulla comodità e l’altro sul «lusso necessario» 25. Va precisato che quello per il Liviano è il primo e l’unico concorso da lui sostenuto per l’Ateneo patavino. Gli altri incarichi – decorazione-arredo del l’appartamento rettorale e pittura murale dello scalone – gli verranno attribuiti direttamente da Anti, rispettivamente nel ’37 e nel ’40, in barba a tutti i vincoli di cui s’è detto 26. Ma già nel l’agosto 1934, cioè all’indomani della vittoria per il palazzo di Lettere, Ponti offre di allestire fuori contratto l’aula E, al piano terra del Bo, per sistemarla «come Pantheon dell’800» 27. Ed è proprio grazie a questa commessa amicale e diretta, in deroga all’uso corporativo fascista, che il progettista e il rettore ponDal 1932 Architettura, indicata nel sottotitolo come organo del Sindacato nazionale fascista architetti, assume e trasforma l’eredità di Architettura e arti decorative. 22 Cf. Fileti Mazza 1995; De Lorenzi 1999; Tamassia 2008. 23 Cf. Terraroli 2003. 24 Per contestualizzare idee e ambiente operativo di Edoardo Persico cf. Veronesi 1964; De Seta 1985; De Seta 1987; Tonelli Michail 1987; Barocchi 1990, 212-215. Più recenti pubblicazioni dei suoi scritti sono Persico 2001, Del Campo 2004. Su Bardi rinvio a Tentori 1990 e Tentori 2002. Ricordo inoltre Tentori 1999 per una panoramica su entrambi. 25 Per una ricognizione strettamente teorico-critica può essere utile Molinari – Rostagni 2011. 26 Convenzione per la decorazione e l’arredamento dell’appartamento di rappresentanza accademica della regia Università di Padova, 26 febbraio 1937, in Nezzo 2008a, 464; Convenzione per l’esecuzione della decorazione parietale dello scalone del Rettorato, 2 settembre 1940, ivi, 501. 27 Sulla vicenda cf. Ponti ad Anti, 3 agosto 1934; Anti a Ponti, 6 agosto 1934; Anti a Vergani, 6 agosto 1934 (dov’è la citazione), ora in Nezzo 2008a, 403-404.
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gono le basi d’una sinergia speciale, idealmente rinnovando – per quanto possibile – l’antico rapporto architetto-principe, d’umanistica memoria. Il che ci riporta al Liviano, laboratorio fondamentale, ancorché ufficializzato, di tanto cameratismo: oltre alla concezione generale, spettano a Ponti anche il controllo esecutivo e l’ideazione dell’arredamento. Attraverso la regia costruttiva – dai muri, agli impianti, ai mobili – egli punta ad ottenere una qualificazione visibile del nesso fra passato e presente. Comodità e pregnanza significante si armonizzano nella scelta dei materiali e nel design, perché la nuova sede di Lettere dev’essere innanzitutto funzionale. Nella Relazione che accompagna il suo progetto si legge: Alla facciata principale 28 s’è voluto dare un carattere che pur rispondendo a tutte le esigenze funzionali dell’edificio e ad una economia di spesa … gli convenisse una espressione aderente al fatto ch’esso è destinato a discipline nobilissime il cui insegnamento è educazione stessa dell’uomo, insegnamento prettamente spirituale e affatto scevro da pratiche sperimentali. Q uesto ci è sembrato essenziale e rappresenta a nostro avviso uno dei termini più elevati ai quali deve rispondere appunto l’architettura d’oggi quando la si intenda col più sottile scrupolo e si voglia che essa contenga in forme pure e in armonia con l’ambiente preesistente la ricchezza spirituale che è presente nella civiltà contemporanea. Q uesta espressione, questa dignità ci siamo sforzati di raggiungere pur attraverso una grande semplicità di partiti, e pur attraverso una particolare modestia, la quale ci appare dettata anche dalla ubicazione stessa dell’edificio, ubicazione che è invero assai bella, appartata e pur ampia, coronata da basse costruzioni 29.
28 «Le sistemazioni dell’aula grande che abbiamo adottato, dopo averne escluso parecchie altre possibili, ma a nostro giudizio deficienti (compresa quella consistente nel portarla al primo piano e farla sporgere a tribuna per darle la larghezza) consentono di ubicare l’ingresso e lo scalone sia d’angolo, come a chi venga dal passaggio sotto la Torre dell’orologio appare quasi naturale di trovarla (ed allora sarebbe consigliabile di lasciare com’è, tutta verdura, la Piazza Capitaniato che sarebbe a lato dell’edificio) quanto di facciata (ed allora la Piazza Capitaniato dovrebbe ricevere una sistemazione più severa)». Cf. Relazione accompagnatoria per il progetto del Liviano: Motto A. e F. D. (Studio Ponti e associati), ora in Nezzo 2008a, 294-296: 294. 29 Ivi, 295.
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Per quanto concerne gli interni, la scelta è altrettanto chiara: Li vogliamo condotti con una semplicità a un tempo serena di concetto e severa di disegno: pareti ad intonaco bianco o in qualche tinta chiara, porte in legno scuro, qualcuna di esse – come gli ingressi degli istituti – arricchite da stipiti in pietra; i pavimenti saran di buon colore (unico), in marmette o linoleum. L’atrio solo è previsto naturalmente con un accento di ricchezza; il pavimento è in marmo bianco, le sue pareti sono però sempre a intonaco, la scala che abbiamo sviluppato in modo che ci è assai caro ha balaustrata con guarnizioni in marmo e ferro; il soffitto o le pareti potranno ricevere l’ornamento di grandi belle pitture murali: i ripiani della scala quello di qualche statua (questa anche antica che sia come una «introduzione» al Museo). Designandolo a ricevere questi ornamenti pensiamo che nulla potrà più di ciò conferire a questo ambiente uno spirituale carattere, e rappresentare una più nobile testimonianza dei nostri tempi 30.
Ponti si muove con «scrupolo di perfezione»; persino l’efficienza del cemento armato deve valersi di «schemi esteticamente purgati e caratteristici che rappresentino e documentino un problema risolto e non un procedimento costruttivo occasionale» 31; ogni singolo brano strutturale deve mutarsi in valore e «rappresentare una determinazione architettonica attraverso un coordinamento formale» 32. Con ciò i dettagli strettamente statici vengono «esposti» in una sorta di primo piano «estetico». Un’impostazione razionalista che immediatamente si stempera – nella studiata eleganza di atri, snodi e scale – a strutturare un insieme avvolgente, dove l’identico modulo dell’arco a sesto ribassato è ripetuto di continuo e governa i passaggi da un ambiente all’altro, così come la scansione delle balaustre in ferro e la facciata interna. Anche i colori di pareti, sostegni e protezioni verranno rigidamente controllati. In una lettera del febbraio 1939, indirizzata agli uffici tecnici, l’architetto raccomanda di «mettere a posto i verdi», di condurre al bianco gli steli delle lampade e al grigio grafite le balaustre dello scalone. Q uanto ai rossi, Ibidem. Lo riferisce Soncini a Ciampi, 27 ottobre 1936, ora in Nezzo 2008a, 299. 32 Ibidem. 30 31
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spesso destinati ai caloriferi, li vuole fortissimi: «non carminio – scrive – ma rosso pompeiano» 33. Nell’arredo, massima praticità esprimono, negli istituti, i «mobili a cassettini per la collezione delle diapositive» 34 e quelli «speciali per tavole archeologiche» 35 e, ancora, le librerie o l’armadio «per tabelle» 36. Lo stesso vale per le aule, dedicate alle lezioni di arte e archeologia e proprio per questo munite di lume ad ogni poltrona/leggio 37. La struttura, nel suo insieme, deve rendere fisicamente l’osmosi fra passato e presente: perciò, attraverso l’atrio e lo scalone («un gioco di rampe e di volumi […] assai pittoresco, visto da sopra e da sotto» 38) si mettono in comunicazione diretta le aule, la loggia interna, la Sala dei Giganti, la biblioteca e il Museo. Raggiungibile, quest’ultimo, attraverso la bellissima gradinata elicoidale, oggi non più praticabile. Essa deve innervare lo spazio, rendere percepibile la valenza strutturale del vuoto, muovendolo pel tramite d’un gioco di luce ed ombra. Non vuol darsi come corpo serrato, ma come vortice che libera forze. Dunque – per sfuggire alla densità ottusa delle cortine murarie e domare il legaccio della spirale di balaustra – Ponti invoca il colore: Caro Anti, ecco cosa ho escogitato per chiudere la grande chiocciola. Ho provato altre inferriate (per esempio a tondini o motivi verticali o inclinati) ma avevano sempre l’aria d’una gabbia. Mi sono affidato allora ad un partito di fantasia, un po’ archeologico in onor tuo, il quale sarebbe in ferro verniciato di bianco mentre il muro (cioè il nicchione) avrebbe lo stesso motivo dipinto a stucco lucido in bianco su fondo rosso pompeiano 39.
L’accenno evocativo a scavi e pitture dell’antica città campana non deve sfuggire: perché, sin nella struttura, il Liviano è pensato come un dispositivo per attivare la relazione storica fra passato Ponti a Ciampi, 10 febbraio 1939, ora in Nezzo 2008a, 307. Lo riferisce Ciampi a Fornaroli, 1° marzo 1938, ora in Nezzo 2008a, 303. 35 Ibidem. 36 Minuziosa la discussione fra Ponti, Anti e gli ingegneri, sulle librerie per gli istituti. Cf. Vienna a Ponti, 12 maggio 1939; Ciampi a Ponti, 20 maggio 1939, ora in Nezzo 2008a, 307. 37 Ciampi a Ponti, Padova, 31 marzo 1938, ora in Nezzo 2008a, 303. 38 Relazione accompagnatoria per il progetto del Liviano… cit., 294. 39 Ponti ad Anti, 21 dicembre 1937, ora in Nezzo 2008a, 287-288. 33 34
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e presente, in senso conoscitivo, fisico e simbolico. Il che si capisce ancor meglio rileggendo la originaria disposizione del Museo artistico-archeologico. Nelle previsioni di Ponti, la direzione di visita è inversa rispetto a quella attuale, parte cioè dalla scala ritorta, esaltata dalla vivida cromia. Il museo stesso, scrive poi l’architetto, «è in parte illuminato da un lucernario […] poi segue una zona a “sheds”, infine la luce irrompe attraverso un impluvio aperto. Tutto ciò forma cannocchiale sull’asse longitudinale, ed un diaframma concavo ch’è sulla terrazza per le fotografie (e può servire anche da sfondo ad esse) costituisce ancora il fondo della veduta assiale» 40. Aperto a gessi, reperti archeologici e collezioni storiche, è laboratorio di studio e formazione, inveramento di un presente che vuol farsi punto di fusione fra passato e futuro. È concepito dunque come una sorta di macchina del tempo, ove, dalla modernità dell’accesso originale, si scivola senza sussulti nella chiarità verde del bacino centrale, citazione dell’otium romano speso in villa, appunto, fra pitture e statue. La mediazione temporale è affidata ai colori scelti per le pareti (ancora nero grafite, bruno e rosso), che favoriscono un sentimento di graduale ambientazione, sospingendo l’immaginario a rivivere antiche atmosfere cromatiche. L’obiettivo tuttavia non è la regressione: il congegno espositivo è pensato per guidare l’uomo moderno a riconoscere nell’equilibrio latino il fondo identificativo del proprio essere nel presente. Non a caso tanto i colori quanto la politezza delle forme s’inseriscono pienamente in quello stile funzionale e moderno, che, per Ponti, è problema di civiltà. Con ciò il percorso sospinge alla riconquista, intrisa di luce, della gloria dei padri, vale a dire al ricongiungimento con un già sperimentato destino di gloria. Q uali miti di superiorità culturale e poi razziale tanta bellezza potesse/volesse allora evocare, è un dettaglio che, ai fruitori del nuovo millennio, quotidianamente sfugge 41. 40 Relazione accompagnatoria per il progetto del Liviano Motto A. e F.D. (Studio Ponti e associati), ora in Nezzo 2008a, 296. 41 Il problema del razzismo culturale italiano – che non tarderà a trasformarsi in biologico, sul modello filonazista – si dipana storicamente fra paternalismo coloniale (e poi imperiale) e antisemitismo. Fra gli studi più interessanti, in qualche modo attinenti il campo storico-artistico, val la pena di segnalare Crispolti
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Sul piano delle poetiche anni Trenta, peraltro, questo esperimento pontiano segna anche una speciale rivendicazione di libertà creativa. Potremmo interpretarlo come una risposta personale e dissidente rispetto alla coeva predilezione governativa (e non solo) per il recupero, ad uso museo, di sedi storiche, nonché per i trionfali allestimenti temporanei; tale il trend italiano rivendicato al convegno internazionale di Museografia, tenutosi a Madrid nel ’34 42. In parallelo non meno significativa è la scelta, operata da Anti, di aprire uno spazio espositivo nella «sua» Facoltà 43: non si deve infatti dimenticare che, in anni non lontani, il rettore ha messo mano all’impianto delle collezioni archeologiche veneziane 44 e, ancor prima, è stato fra i conservatori del Pigorini, a Roma 45. La collaborazione fra i due, dunque, finisce per trasfigurare il rapporto committente-architetto in un modernissimo dialogo conservatore-museografo, sorta di incunabolo di quello che sarà, nel dopoguerra, la cellula propulsiva per riallestimento «razionalista» delle nostre più prestigiose collezioni 46. Il che significa che, nonostante l’attenzione ai miti del fascismo, l’oggetto artistico-architettonico creato dai due, non solo offre spunti al futuro dell’Italia libera, ma sfiora, pur senza valicarla, la soglia di liceità ideologica nella composizione costruttiva. Ma c’è dell’altro: come accennavo, la regia pontiana per il Liviano è totale; governa la progettazione 47, la presentazione, 1969; Pisanty 2006; Cassata 2008. Su un piano generale ricordo almeno Burgio 1999; Sarfatti 2000. Per quanto concerne la storia dell’Ateneo patavino, la questione è affrontata in Bernabei 2008, con ampia bibliografia precedente. 42 Muséographie 1935. La letteratura in merito è ormai piuttosto articolata: centrale Dalai Emiliani 2008, utile Nezzo 2016a, con bibliografia precedente. 43 Del museo universitario, raccolta di cimeli e memorie al Bo, si dice in Nezzo 2008b. 44 Anti 1926-1927. 45 Su questa stagione di Anti mi riservo di tornare in altra sede, limitandomi a segnalare che ad essa vanno attribuiti alcuni suoi impegni specialissimi, fra cui l’organizzazione (in collaborazione con Aldobrandino Mochi) della Sala d’arte negra all’Esposizione internazionale di Venezia del 1922 (vd. Biennale 1922), nonché almeno due articoli: Anti 1920-1921 e Anti 1923-1924. In merito vorrei rimarcare l’importanza di Bassani 1977 (part. XIX n. 27); Bassani 1999; Greco 2010. 46 Cf. Dalai Emiliani 1982. 47 Anche qui attrezzature e mobili privilegiano l’efficienza, come si evince dalla lunga progettazione della cartelliera e dalla discussione sull’eventuale installazione di un montacarichi.
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per arrivare a controllare la qualità dei mobili, laddove la mediazione degli uffici tecnici spesso, all’architetto, sembra insufficiente. Scrive al rettore nel ’39: Caro Anti, non ti posso nascondere che [a] vedere quelle poltrone mal connesse, con gli spessori giuntati e il cuoio a vernicetta anziché naturale opaco e il resto dei mobili con quel lucido insopportabile e volgare da novecentaccio e che marca tutte le imperfezioni, sono rimasto estremamente umiliato. Occorre che Ciampi che non ha saputo seguire questa fabbricazione e che ha candidamente confessato che i mobili dovevano essere opachi, stanghi anzitutto nei pagamenti queste forniture e in secondo luogo faccia passare (o dai fornitori stessi) o da altre mani (detraendo la spesa) a polvere di pomice tutti questi mobili. Non illuderti che essi perdano il lucido col tempo: lo perderanno se mai a chiazze e sarai obbligato a una manutenzione continua (io lo so) e intanto i giunti e le intelaiature si vedranno, per lucido, dietro le impellicciature dei piani. Io mi sono fatto un nome nell’arredamento e ne sono geloso: a vedere quella roba a specchio sono rimasto e sono tuttora costernato; il mio lavoro perde, se non si interviene, quella purezza di gusto che è la giustificazione della sua estrema semplicità 48.
Si ritrova a disagio, Gio, e non solo per la cattiva produzione degli arredi, ma anche e soprattutto per la restrizione autarchica nella scelta dei materiali 49. Sono particolari, che svelano però quanto gli stia a cuore questa Facoltà di Lettere. Essa, infatti, gli permette di sperimentare a tutto tondo un modello per lo spazio vivibile pubblico, così come l’appartamento rettorale al Bo gli offre l’occasione per realizzare un agio privato esemplare. La cifra distintiva dell’incarico «liviano» è dunque racchiusa nell’idea di progettazione integrale. Conviene qui sottolineare che Ponti non giunge a Padova come semplice architetto, bensì come figura una e trina di un laboratorio totalizzante, comprensivo di edificazione, 48 Ponti ad Anti, 13 ottobre 1939, ora in Nezzo 2008a, 293. Interessantissima l’annotazione in calce, indirizzata al collega Vienna, dall’ingegner Ciampi: «Vienna, non sto a raccontare a Ponti i n./ affari interni d’ufficio, ma è arcinoto che la fornitura dei mobili del Liviano ve la siete maneggiata Voi col Magnifico Rettore per cui le mie “candide confessioni” potrebbero anche continuare!». 49 Diversi esempi nella corrispondenza d’archivio, per una scelta cf. Nezzo 2008a, 280-308.
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arredo e decorazione. In questo senso la sua scuola è l’esecutivo delle Triennali milanesi, dove sperimenta ed impara. Lungi dal volerne ripercorrere la storia, va detto che, passando da Monza a Milano (1930-1933), l’esposizione lombarda di arti decorative diviene sismografo del complicato rapporto fra le questioni d’idea zione architettonica e quelle di design, spingendosi a monitorare l’innesto dell’inventio nella produzione artigianale e seriale, nonché nella decorazione d’ambiente. Essa, inoltre, più di altre esposizioni periodiche, offre una zona franca al movimento moderno e ai dibattiti che lo tormentano, sia rispetto al razionalismo che al discrasico bacino della pittura murale: è la sua stessa vocazione pluridisciplinare a osteggiare il controllo autoreferenziale del regime. Di simile complicato organismo, Ponti è parte fondamentale. Entrato nel direttorio – assieme a Mario Sironi e Alpago Novello – nel 1930, partecipa alla stagione di rinnovamento dell’esposizione, con l’azzeramento delle partizioni regionalistiche, il raggruppamento degli oggetti in serie tipologiche (metalli, vetri, grafiche, ecc.) e, ancor più, con l’ampia apertura alla disomogeneità sintattica delle tendenze architettoniche nazionali, fra MIAR e Novecento. Nel 1933, cioè per la prima edizione milanese, è nuovamente triumviro, assieme a Sironi e Carlo Alberto Felice: con loro affronta significativamente temi quali «stileciviltà, didattica-progettazione, architettura-arte-fascismo» 50. Sotto il loro influsso la Triennale apre all’affresco, inteso come spazio divulgativo e suasorio d’una nazione ormai corporativa, dove le arti cooperano per promuovere messaggi di vario genere: e infatti numerosi ambienti del nuovo palazzo di Muzio (vestibolo, atrio, impluvio, scalone d’onore, ecc.), sono dedicati a murali e sculture decorative 51. Già da questi pochi cenni si può intuire la ricchezza di aspirazioni che caratterizza l’approdo di Ponti al Liviano, dove ha l’occasione di concentrare in se stesso tutte le qualità/competenze che a Milano condivide con gli altri membri del direttorio. Una spinta che si fa particolarmente intensa e illuminante nella vicenda dell’affresco di Campigli. L’architetto, conquistato dalle Cf. Pansera 1978, 39. Sulle mostre di Monza e Milano, rinvio a Pica 1957; Pansera 1978; Pansera 1982. 50 51
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doti professionali e umane dimostrate dal pittore alla Triennale del ’33 e al Palais des Nations di Ginevra 52, vuole infatti affidargli direttamente i murali dell’atrio 53. L’idea, coltivata assieme ad Anti sin dal settembre 1937, è di non bandire alcun concorso, sperando di ottenere egualmente l’autorizzazione di spesa dal Ministero lavori pubblici. Campigli inizia subito a «bozzettare» e si reca in visita all’edificio. Anti lo osserva con attenzione, un poco preoccupato: Caro Ponti, Campigli ti avrà detto della sua visita a Padova. Muovendosi dentro l’ambiente ha modificato molto la prima idea, come, del resto, era da prevedersi. Dato che tu desideri la sua opera come il più giusto completamento della tua e dato che si tratta di Campigli io mi adopererò ben volentieri perché a suo tempo sia dato a lui l’incarico desiderato. Per agevolare la cosa sarebbe peraltro bene che egli intanto maturasse le idee magari con qualche altro sopraluogo in occasione delle sue prossime gite a Venezia e preparasse un bozzetto «comprensibile» per un Consiglio d’Amministrazione. Non so se rendo l’idea. In fatto di pittura oggi il mondo è spaventato o per lo meno assai scettico: bisogna quindi avere qualche cosa di concreto per persuaderlo e tirarselo dietro. Domani vado a Roma per essere di nuovo a Padova nella prossima settimana. Credo che abbiamo bisogno di te al Liviano 54.
Non è un caso che, a questa altezza, il rettore – di fronte all’abisso dell’immagine – parli di «spavento» collettivo. Il 1937 è un anno topico per la cristallizzazione sistemica dell’arte totalitaria e per le convulsioni libertarie che la contrastano. S’impone, sulla ribalta europea, la Mostra dell’arte degenerata di Monaco, contraffortata dall’inaugurazione della Casa dell’Arte Germanica 55; per contrasto negli stessi mesi, a Parigi, s’aprono l’esposizione
Per il Palais Campigli dipinge I costruttori, nel 1937; il soggetto del telero potrebbe essere considerato il precedente diretto dell’affresco eseguito a Padova, sulla parete minore del Liviano. Sul complesso monumentale ginevrino cf. Pallas – Ducasse 2001. 53 Sulla natura «non tradizionale» delle moderne tecniche d’affresco cf. Magani 2006. 54 Anti a Ponti, 21 settembre 1937, ora in Nezzo 2008a, 285-286. 55 Il discorso di Hitler all’inaugurazione della Casa dell’Arte Germanica a Monaco viene pubblicato in Q uadrivio, V, 49, 3 ottobre 1937. 52
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di Maestri dell’arte indipendente (dal 1895 al 1937), curata da Raymond Escholier e, soprattutto, l’Esposizione mondiale, dove trionfa Guernica. Se dunque la Francia è il porto franco dell’espressione libera e spesso rivoluzionaria dei protagonisti di punta dell’attualità, il baluardo nazista le sbarra il passo, praticando la coercizione violenta della creatività, il rogo della dissidenza formale, l’azzeramento delle energie vive. E proprio in questi mesi e proprio in Italia simile esempio, benché algido, appare ad alcuni critici l’ultima speranza per sostituire un’arte riconoscibilmente nazionale alla virtù genericamente «moderna» della cultura cosmopolita, per rimpiazzare il sentimento della contemporaneità con quello dell’appartenenza ideologica, razziale e territoriale 56. In tale sommovimento l’opzione Campigli non è affatto piana. Gradito senz’altro al côté bottaiano e al suo colto entourage, l’artista non convince affatto i potentati intellettuali più reazionari. Indicato sin dal ’28 fra i pittori «infranciosati», per la sua partecipazione agli «Italiens de Paris» 57, ha aderito, nel ’33, al sironiano manifesto della pittura murale 58, partecipando in qualche modo al gruppo degli artisti-teorici, protetto dal sindacato ma inviso, appunto, ai critici della terza pagina. Sulla quale cf. supra n. 41. Per un esempio concreto, cf. Nezzo 2016b. Se ne veda la lettura feroce di Ojetti 1928: «Far grosso, far stupido, far nuovo: ecco insomma le tre vie aperte, secondo la moda, ai giovani. Né degli stranieri m’importa, si tingano da negri e si passino un anello di legno nel setto nasale, se a loro piace. Ma degl’italiani mi dolgo. […] A Parigi il mese scorso era aperta, nell’edificio del teatro degli Champs-Élysées, una mostra d’italiani detta il Salon de l’Escalier perché distribuita nei ripiani d’una lunga scala: Severini, Tozzi, Campigli, Paresce, de Pisis, Menzio e pochi altri. L’impresa era utile e coraggiosa, di raccogliere questi italiani sotto la loro bandiera, nel tumulto di Cosmopoli. Ma se ammiravi un ritratto per la schietta somiglianza, o una natura morta per la gentilezza dei rapporti, o un paesaggio un poco sconnesso ma intriso di malinconia che pareva dipinto a memoria da un carcerato, quei giovani subito ti riportavano alle altre opere astratte e disumane, a quel manichino senza volto, a quella maschera senz’occhi, a quelle pere d’alabastro, a quel paese con gli alberi di cemento e la terra di zinco […]. Italiani? Certo, nel caro orgoglio di esserlo per diritto di nascita, nella speranza di riuscire un giorno a mostrarlo per diritto di opere; e senza paura, ti citavano a loro patroni Masaccio e Signorelli e Piero della Francesca, che non sapevi più se erano loro o se eri tu a sognare; ma, nel fatto, purtroppo impariginiti quanto i suddetti russi e polacchi, cileni e norvegesi: scuola di Parigi, da distinguere dalla scuola francese, dai Vuillard e Bonnard, Guérin e Flandrin, Marquet e Utrillo». 58 Per una panoramica sul muralismo cf. Camesasca – Gian Ferrari 1980; Bossaglia 1982; Fagone et alii 1999; Braun 2003. 56 57
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È dunque non senza timore che Anti dà credito a Ponti e al suo prediletto frescante, decidendo comunque, nel dicembre dello stesso ’37, di sottoporre finalmente l’artista all’approvazione del Consiglio di amministrazione, con un preciso contratto 59. Si fida, puntando tutto sulla qualità, sulla modernità, a dispetto della delusione di fronte ai primi bozzetti: Caro Ponti, il 21 si riunisce il Consiglio d’Amministrazione del Consorzio e in tale occasione vorrei deliberare l’incarico a Campigli. Per facilitarmi le cose inviami una lettera ufficiale nella quale esponi le ragioni per le quali escludi la possibilità di un concorso e designi il Campigli. Ti accludo uno schema di convenzione sul quale desidero il tuo parere prima di inviarlo a Campigli. Restituiscimelo a volta di corriere perché mi occorre averlo di ritorno anche da Campigli prima del 21 corr. Q uanto al nuovo bozzetto presentatomi da Campigli ne riparleremo con più calma. Ti ho già detto che lo trovo piuttosto retorico e non vorrei fosse anche contro il suo genio. L’affresco di Ginevra mi piace anche se un po’ monotono nei particolari, ma come composizione ha un grande equilibrio, veramente classico 60.
Ponti risponde: Circa le indicazioni che Ella mi chiede al riguardo della decorazione ad affresco nell’atrio di ingresso Le confermo il mio parere che esso debba essere in perfetta unità spirituale con la mia concezione e non introdurre una mentalità nuova, diversa e eterogenea in quanto non è cosa accidentale, ma parte della mia concezione medesima, quindi dipendente esclusivamente dalla mia architettura. Sono in conseguenza contrario ad indire un concorso, ed anzi affermo su queste pareti gli stessi diritti di progettista che ho esercitati con soddisfazione vostra sul resto dell’edificio: è appunto in relazione a ciò che io ho designato per decorare queste pareti il pittore Massimo Campigli che è in perfetta comunione spirituale con me e che per attitudini, colore, forma 59 La prima Convenzione mandata a Campigli per l’affresco è datata dicembre 1937, evidentemente in connessione all’originaria idea di conferirgli l’incarico senza concorso; la seconda invece è del 20 maggio 1938 (con registrazione 24 maggio) e gli giunge durante un soggiorno parigino. Cf. Nezzo 2008a, 309. 60 Anti a Ponti, 11 dicembre 1937, ora in Nezzo 2008a, 287.
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d’arte vedo esattamente complementare alla mia concezione. Il suo ultimo affresco a Ginevra (superstite testimonianza italiana!) fa fede a tutti delle altissime doti di questo nostro artista 61.
Tutto inutile: l’idillio viene interrotto dal direttivo del Consorzio, che, anche al fine di ottenere un’eventuale deroga alla sopracitata necessità dei concorsi, impone una gara ‘di facciata’, da svolgersi contattando, oltre allo stesso Campigli, almeno altri due artisti 62. Manovra contorta, di fronte alla quale persino il pittore chiede più rispetto per i colleghi: Carissimo Gio, non sono sorpreso dell’inciampo. Siete troppo prepotenti! Chiedere dei progetti – sia pure abbozzati come il mio – a dei pittori che non abbiano poi ogni possibilità di avere il lavoro, sarebbe una cosa bruttissima, che non vorrei. Del resto se mi mettete in concorso con pittori secondari, il brucio [sic] sarà trasparente. Ti consiglio perciò di rivolgerti a pittori che stimi, come Sironi e Severini, avvertendoli della superficie di cui si tratta e della somma disponibile. Forse risponderanno che non possono farlo, e queste risposte giustificheranno agli occhi del Consiglio d’Amministrazione e anche del Ministero la vostra decisione di farlo fare a me. (Cagli credo che sia in America). Ma se questi pittori presentano progetti più interessanti del mio, non favorirmi tu solo per ragioni di amicizia 63.
Ponti a Anti, 15 dicembre 1937, ora in Nezzo 2008a, 311. «Caro Ponti, stamane la faccenda dell’incarico per l’affresco di Campigli, quasi quasi è naufragata. Ma spero di aver egualmente salvato la sostanza della cosa. Il Consiglio di Amministrazione, per fare cosa gradita a te, rinuncia all’idea del concorso ma per essere tranquillo in decisione tanto delicata ed anche per ottenere più facilmente la prescritta autorizzazione superiore all’eccezione dell’incarico, suggerisce che tu stesso inviti tre pittori di tua fiducia (fra i quali Campigli) a presentare per il 20 Gennaio p. v. una o più idee sulle quali darà il suo parere una apposita Commissione. Di questa, naturalmente, farai parte anche tu. Sul parere della Commissione deciderà poi il Consiglio. Il bozzetto di Campigli è piaciuto: ho anzi l’impressione che abbia convinto i colleghi del Consiglio più di quello che non avesse convinto me stesso. Tanto meglio! Vuoi informare tu Campigli della imprevista novità? Se ti servono grafici o altro materiale scrivi direttamente a Ciampi. Saluti cordiali». Anti a Ponti, 21 dicembre 1937, ora in Nezzo 2008a, 287. 63 Campigli a Ponti, 24 dicembre (1937), ora in Nezzo 2008a, 288. 61 62
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Nonostante l’onestà dell’artista (cui, almeno a parole, il rettore aderisce 64), Ponti rimane ferocemente contrario a qualsiasi altra collaborazione. Anzi, poiché da tempo blandisce Anti con le proprie prodezze pittoriche, gli scrive fra esasperazione e ironia: «Puoi anche dire che allora Ponti preferirebbe farlo lui stesso?» 65. L’ampia conoscenza del carattere e delle doti creative dei muralisti, non tutti facili al compromesso collaborativo con gli architetti, lo spinge ad insistere, a precisare: Personalmente io ho sempre pensato di ospitare una pittura di Campigli; Campigli ha fatto, fra i quattro «assi» (lui, Sironi, Funi, de Chirico), la più bella ed equilibrata prova a Milano, ed una prova internazionale a Ginevra, quadrata, sana, indiscutibile – non solo – ma (come m’ha detto l’arch. Pulitzer che gliela [sic] commessa) addirittura magistrale come purezza di affresco. È poi un nome internazionale, che riflette una personalità alta, colta e rispettata e che assicura al suo lavoro una vasta risonanza. Non è poi uomo capriccioso o ritardatario e possiamo essere sicuri che alla inaugurazione tutto sarà perfetto e finito. Ora personalmente non vedo perché deviare. C’è utilità? Noi vogliamo dei grandi, riconosciuti; chè il palazzo non è una stazione sperimentale. Visto che non si vogliono correre avventure si è già dunque fatta con Campigli una scelta fra i tre uomini che vale la pena di considerare: Funi, Campigli, Sironi. Nella scelta ha il suo debito valore la designazione dell’architetto, che è per Campigli; l’Architetto stesso, puoi riferire al Consiglio, giudica che l’intervento di Sironi o di Funi sulle sue pareti lo 64 «Campigli ha ragione: abbiamo agito un po’ troppo di prepotenza e così l’azione diretta ha provocato la reazione. Ottenere l’invito a tre è stata in fondo una non disprezzabile vittoria e il tentare di eludere anche questo desiderio in un modo o nell’altro credo ci porterebbe davvero in alto mare. Ma, per quanto io stimi assai Campigli e lo creda, come tu dici, il più complementare per la tua architettura, l’invito non lo farei pro-forma, giusto per salvare le apparenze, decisi fin d’ora a dare l’incarico a Campigli. Q uesto pensiero non mi è mai passato per la testa e nemmeno ce lo metto ora: 1° perché da altri può nascere un’idea più bella; 2° per rispetto ai nuovi due invitati. Dunque io ti pregherei di sollecitare anche gli altri due alla prova, assolutamente liberi di scegliere senza preconcetti chi ci sembrerà rispondere meglio al caso nostro». Anti a Ponti, 1° gennaio 1938, ora in Nezzo 2008a, 288. 65 Ponti a Anti, 27 dicembre 1937, ora in Nezzo 2008a, 288. Com’è noto a Ponti viene affidata la Scala del Sapere al Bo, sulla quale cf. Dal Piaz – Visentin 2005.
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onora certamente ma che è tuttavia una cosa diversa. Infatti (e con il grandissimo rispetto che l’architetto ha per Sironi e Funi) egli giudica che col primo il Consiglio si espone certamente a battaglie e contrasti (come è stato per l’aula magna dell’Università di Roma) e per il secondo si troverà davanti ad un’opera che ha già grandi sorelle negli affreschi da lui fatti a Ferrara e quindi non rappresenteranno una prerogativa per il palazzo altrettanto significativa come sarebbe un lavoro di Campigli. Aggiungi che con Campigli l’architetto prende tutte le responsabilità, con gli altri le divide ed occorre quindi vedere e discutere, oltre che il fatto che si ignora se Funi e Sironi sono disponibili. Ora, io mi domando, perché andare incontro a tutte queste incertezze e complicazioni proprio quando non v’è incertezza in chi presiede l’opera, la quale si deve ben compiere secondo una visione unitaria? Perché, in questi tempi nei quali v’è la condizione di realizzare delle belle cose, quando esistano competenza e onestà indiscusse come in questo caso, perché non procedere per la via chiara e dritta secondo una volontà? Io mi assumo tutte le responsabilità; il Consiglio che può essere contento della mia opera architettonica non può negarmi la fiducia nel compimento pittorico di essa: vorrebbe poi esso assumersi la responsabilità artistica di operare diversamente? Io credo che tutte queste ragioni esposte al Consiglio e il tempo che passa e si perde e le incertezze e i rischi, nonché l’inutilità di un concorso del quale uno dei giudici (io), maggiormente interessato, si esprime già in partenza per un concorrente, inducano il Consiglio a procedere per la strada indicata. Lo faccia, esso sarà sicuro di tutte queste cose 1) dell’unità spirituale della decorazione con l’opera architettonica. 2) della certezza di un’opera pittorica stupenda. 3) della certezza di un lavoro perfetto e finito per l’inaugurazione. 4) di avere esaurita anche questa partita 66.
A dispetto di tanta determinazione, alla fine un concorso su invito ci sarà, imposto dal Ministero dei lavori pubblici: Anti lo gestirà con una certa apertura, sperando nella vittoria del migliore. Ponti a Anti, 7 gennaio 1938, ora in Nezzo 2008a, 288-289.
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Le convocazioni – dirette a Cadorin, Campigli, Funi, Oppi e Sironi – partiranno il 14 febbraio 1938: il 10 maggio seguente, un’apposita commissione – composta da rettore, architetto a dal titolare della cattedra Storia dell’Arte, Giuseppe Fiocco – decreterà la vittoria del predestinato Campigli. La gara, fra ritardi, assenze, studi e giudizi è stata ricostruita con attenzione da Giuseppina Dal Canton 67, cui rinvio senz’altro, per tornare, qui, sulla strenua e apparentemente eccessiva difesa pontiana del nome prescelto. Va innanzitutto sottolineato che la partizione delle competenze Ponti-Anti, al Liviano, è ben diversa da quella realizzatasi al Bo. A Lettere, paradossalmente, il ruolo del rettore sembra principalmente burocratico o, tutt’al più, attento a fornire qualche supporto iconografico. Pensa e suggerisce, dunque, il tema per il murale: «Esaltare l’idea di Roma attraverso Livio e la sua Opera – oppure: esaltare Livio attraverso l’idea di Roma» 68. Allo scopo, si consulta anche col preside di Facoltà, Ferrabino, che propone «un episodio su ciascuna delle due pareti disponibili», cioè «1° Romolo prende gli auspici per la fondazione di Roma; 2° la pace augustea» 69. Ma la sua partecipazione alla fase di elaborazione, eidetica ed estetica, non è dirimente e rimane super partes. Un omaggio alle affinità elettive fra Campigli e Ponti, che nasconde ben altri significati. Le questioni iconografiche, come abbiamo letto, non interessano Gio, se non nella misura in cui possono essere riconvertite in un tessuto formale capace di interagire con la qualità dell’edificio. L’importante per lui è ottenere una sintonia perfetta fra artista e costruttore, affinché quest’ultimo possa imporre la propria regia come suggello creativo, di sapore idealista e crociano, a un’esperienza espressiva assoluta, composita e tuttavia monocorde. Ogni discussione sarebbe intollerabile, ogni imposizione deleteria. La coesione «spirituale della decorazione con l’opera architettonica» 70 deve venire dall’intesa assorbente fra individui, in un concerto che compone sul piano personale quello che è, altrove, una lotta intestina per la supremazia corporativa. 69 70 67 68
Dal Canton 1992. Anti a Ponti, 1° gennaio 1938, ora in Nezzo 2008a, 288. Ibidem. Ponti a Anti, 7 gennaio 1938, ora in Nezzo 2008a, 288-289.
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In questa fase, infatti, se i progettisti tendono a rivendicare il controllo totale di pitture e sculture, restringendole a servile ornamentazione, gli artisti, al contrario, vorrebbero autodeterminarsi, fruendo liberamente degli «spazi 2%», per creare chi un nuovo universo formale, chi un nuovo stile, chi una nuova mitografia fascista. La temperatura del dibattito ci è tramandata dagli Atti del Convegno Volta, nel 1936 dedicato – vedi caso – proprio ai Rapporti dell’architettura con le arti figurative 71. Q ui la discussione è infuocata: se Marcello Piacentini focalizza il discorso sulle lotte domestiche, per ribadire il vincolo artigianale del muralismo e dunque il ruolo cadetto dei pittori rispetto agli architetti, la voce rivoluzionaria di Le Corbusier condanna il muralismo stesso, come obsoleta pratica della rinascenza, riesumata ad esclusivo vantaggio dei regimi totalitari e delle repubbliche affollate d’artisti tanto mediocri quanto disoccupati. Lontano da entrambi, Ponti trova un equilibrio interessante. «Circa la pittura murale – scrive negli atti – io penso che non è molto onorare questa arte il trattarla in funzione dell’architettura per ottenere degli effetti negli ambienti. Preferisco rispettare la pittura che impiegarla, in certo modo, come un mezzo nella costruzione. […] Non comprendo troppo la questione di gerarchie fra architetto e pittore: vi sono solo gerarchie di valori. Se vi debbono essere ordine e gerarchia allora vi è, mi pare, solo l’architetto come regista di scultori e pittori» 72. E, ancora, precisa: «Vi sono delle funzioni espressive sociali, politiche, religiose, per le quali la pittura deve ricorrere a espressioni monumentali. Q ueste sono funzioni di soggetto legate a fatti ed ideali sociali e religiosi. L’Architetto deve, quando deve, ospitare queste espressioni, ma mi pare che esse non hanno una inevitabile necessità di essere in funzione architettonica; sieno delle pitture e delle sculture magistrali, ricche di un profondo pensiero» 73. 71 Convegno Volta 1937. Indetto dalla Fondazione Alessandro Volta, sotto l’egida dell’Accademia d’Italia, il Convegno nasce nel 1931; serve a discutere col contributo di ospiti internazionali, questioni di ordine intellettuale e scientifico, in cui l’Italia è all’avanguardia. Si va dall’immunologia, al teatro, all’aviazione, fino alle arti. L’interesse della consultazione diretta degli atti, che si presentano in forma di dibattito, è notevolissimo. Non di meno, per un abbrivio cf. Carli 1999. 72 Convegno Volta 1937, 78. 73 Ivi, 78-79.
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Non a caso Ponti e Campigli s’incontrano proprio là dove Le Corbusier individua il punto di dissonanza fra affresco e architettura: il colore. Secondo il maestro svizzero, le pitture possono solo disgregare e snaturare le qualità strutturali dell’insieme; qui – a Padova – si crede al contrario di poter esaltare, attraverso l’armonizzazione timbrico-tonale, la contiguità fra i due mondi. I comparti decorativi impongono una pausa di riflessione dentro il ritmo degli ambienti e le tinte di Campigli dialogano con pietre e intonaci, saldando narrazione picta e quotidianità reale. L’artista usa il muro figurato per annullare il limite iconografico fascista e, insieme, per sottolineare l’immaterialità del pensiero, cui il Liviano è consacrato. Scrive al rettore: Io non domando di meglio che di contentarla. Vorrei spiegarle con tutta precisione perché non presento progetti più finiti né cartoni più minuziosi. La mia grande preoccupazione artistica è quella di evitare quel raffreddamento del l’ispirazione e quella perdita di freschezza della «scrittura» che si ha sempre nel processo di ingrandimento e di analisi. Io ho lì un progettino a colori, quasi illeggibili, delle macchie o poco più, nel quale io vedo a perfezione il suggerimento dei valori, della tecnica da usare, dello spirito da infondere. Io che sono un lavoratore paziente e scrupoloso posso sì arrivare a far cento progetti per arrivare a quello. Ma non posso – se non per ragioni assolutamente estranee all’arte – riuscire bene nemmeno una copia [sic] di quel progetto. E nei contorni sarò così schematico perché essi mi servono unicamente per le proporzioni. Se studiassi sul cartone per esempio il drappeggio, mi troverei poi facilmente indotto a tradire quello spirito di pittura «compendiaria» al quale mi porta il progetto definit. originale. A Ginevra ho fatto un lavoro del quale sono contento dal punto di vista tecnico ma in cui ho completamente tradito lo spirito molto più artistico del primo progetto, appunto per via dell’inutile precisione dell’esecuzione. Io mi metterò subito al lavoro per finire maggiormente il mio ultimo disegno, appena Lei me lo rimanderà e credo che mi ci vorranno pochi giorni. La prego di affrettare l’approvazione perché comincio a temere che il tempo per terminare il primo muro quest’autunno diventi sempre più stretto, e quest’inverno ho seri impegni 74. Campigli ad Anti, 24 agosto 1938, ora in Nezzo 2008a, 315.
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L’affresco dunque nasce «libero»: forse anche per questo non vuole opprimere lo sguardo, quanto piuttosto proteggerlo dalle costrizioni, sollecitando fantasie nascoste. A critici e giornalisti, Campigli confesserà l’ispirazione quotidiana, borghese (vorrei dire da cavalletto), che sorregge la compatibilità del suo racconto monumentale, con i toni morbidi delle strutture pontiane. «Sogno […] e appare il significato segretissimo delle cose figurate: la piccozza alzata di uno degli sterratori diventa un ombrellino aperto. La mia città morta si popola di donnine fatte a clessidra. Scompare ogni uomo. Il poeta diventa un’odalisca» 75. La raffigurazione di una gestualità ordinaria e il riferimento all’odalisca, uno dei soggetti matissiani più amati, reimmettono l’opera nel circuito visivo più familiare all’artista, tornato da poco da Parigi e attratto dalla rappresentazione del femminino. Così che non sono tanto le storie liviane, quanto la vita stessa, intesa come desiderio, ad essere oggetto di meditazione. Riflessione, didattica e memoria, si fanno epifania della quotidianità intellettuale novecentesca. Insomma, nonostante le prime indicazioni tematiche, Campigli ha mano libera sulla composizione. Nel ’40, scriverà a Peri, intenzionato a stilare una guida di Padova 76: Il soggetto doveva in qualche modo riferirsi a Tito Livio. Era consigliato ma non imposto trattare scene di storia romana. Ho preferito trattare l’archeologia come fonte di conoscenze storiche e artistiche e di pensiero politico. Il mio affr. rappresenta infatti una idealizzazione del sottosuolo d’Italia, materiato di cose antiche, opere d’arte, monumenti e anche di combattenti accatastati. Gli archeologi scavano, trovano oggetti e libri. Tito Livio in persona ne sembra uscito: egli istruisce una classe di studenti moderni. Degli operai rimettono in piedi le colonne di una città morta. Una folla popolana assiste all’erezione di una colonna istoriata. Un poeta ne trae ispirazione. Fanciulli giocano fra le rovine per indicare la nostra famigliarità col passato. Degli sterratori mettono a nudo fondamenta romane. Su di esse viene costruito un edificio moderno in cemento 77.
Campigli 1940, cit. in Colpo – Valgimigli 2006, 78-79. Giorgio Peri (Perissinotto) ad Anti, Padova, 8 maggio 1940, cf. sunto in Nezzo 2008a, 326. 77 Campigli a Peri, s.d. [1940], ora in Nezzo 2008a, 328. 75 76
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L’operazione Liviano si conclude con un battage di stampa straordinario. Fra le molte recensioni è l’articolo su Le Arti, firmato da Rodolfo Pallucchini nel giugno-settembre 1940, ad avere lo spessore desiderato da committente e artisti. Ne esiste una copia d’archivio corretta a mano dallo stesso Anti, il quale apprezza senz’altro certi accenni all’umanesimo padovano, giunto mediale nella traslitterazione dell’antico in moderno 78. * * * Ma veniamo all’oggi. Credo di avere dimostrato che, nella realizzazione di questo palazzo, Tito Livio è un prestanome e un figurante: un pretesto patavino per una struttura patavina. Il pittore ce lo presenta come uno dei tanti professori, che tiene lezione all’aperto. Attorno a lui la città nuova concresce – Boccioni avrebbe detto «sale» – sopra l’antica. Copre le spoglie di uomini e cose con gradinate di mattoni che, nelle mani dell’artista, diventano libri. E l’atrio – dove Ponti cercava sinergie sovratemporali e Campigli materiava la «sua» onirica storia – quell’atrio è affollato di studenti, docenti, visitatori. Murate e dipinte, sotto gli occhi loro e nostri, stanno le contraddizioni del sapere: le concertazioni iconografiche ideologizzate convivono con la forza eversiva e liberatoria dell’espressione artistica; l’uso pretestuoso della cultura lotta con la necessità di tramandarne il senso; le vecchie battaglie sindacali e poetiche vivono un sonno senza sogni. Chissà se ogni tanto, davvero, riusciamo a vederci in questo specchio.
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78 Pallucchini 1940, ora in Tomasella 2011, 138-143. Sulla copia d’archivio cf. Nezzo 2008a, 327.
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M. NEZZO
Abstracts This paper traces the building and decorative history of Palazzo Liviano in Padua. The building was constructed in the context of the “IV Consorzio Edilizio” of the University of Padua (1933-1943), and highlights the cultural partnership between Carlo Anti, the university dean, and the architect Gio Ponti, a fervent proponent of functional classicism, together with painter Massimo Campigli. By considering the development of the structures, furnishings and decorations of Palazzo Liviano, the paper illustrates the poetic and political tensions that marked the Italian artistic scene in the 1930s, setting them within their broader European context. La storia costruttiva e decorativa del Liviano ci lascia una memoria struggente quanto problematica. Realizzato nel quadro del IV Consorzio edilizio dell’Università di Padova (1933-1943), l’edificio esprime il sodalizio culturale fra l’allora rettore Carlo Anti e Gio Ponti, architetto milanese, attento propugnatore del classicismo funzionale. Assieme a loro lavora il pittore Massimo Campigli. Nel ripercorrere le vicende realizzative di strutture, arredi e ornamenti, il testo tratteggia le tensioni poetiche e politiche del sistema delle arti italiano negli anni Trenta, in un significativo confronto con la coeva situazione europea.
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INDICI Indice dei passi citati Indice dei nomi e delle cose notevoli Elenco delle illustrazioni
INDICE DEI PASSI CITATI
INDICE DEI PASSI CITATI
Appianus Syr. 30 129 n. 58 Asconius Pedianus Pis. p. 6. 12-14 Clark 206-207 Athenaeus 6, 249a-b 124 n. 33 Augustinus civ. 2, 18 313 3, 21 189 n. 41 5, 18 395-396 Caesar Gall. 3, 22 124 n. 33 civ. 1, 24 468 n. 15 Cassius Dio 19 fr. 64 189 n. 41 43, 45, 2-3 119 n. 11 50, 25, 3-4 81 52, 13, 3-4 81 n. 17 53, 19 141 n. 13 54, 2, 4 81 Cicero ad Q . fr. 1, 1, 24 307 n. 24 de orat. 2, 154 282 2, 154-155 64 n. 25 div. 1, 63-64 85 2, 97 98
fin. 2, 7 307 n. 23 2, 68 307 n. 23 inv. 2, 1, 1 284 n. 56 leg. 1, 1, 4 62 n. 21 1, 1, 5 128 n. 48 nat. 1, 11 307 n. 23 1, 77 64 n. 26 1, 111 64 n. 26 3, 80 98 off. 1, 84 284 n. 52 3, 47 98 Phil. 6, 13 196 n. 63 rep. 1, 21-22 185 n. 17 2, 7, 13 78 sen. 10 284 n. 52 75 98 Tusc. 1, 89 98 5, 94 307 n. 23 5, 116 302 n. 10 Verr. II 5, 28 98 Diodorus Siculus 1, 4, 7 123 n. 26 4, 19, 2 123 n. 26 5, 21, 2 123 n. 26 13, 35, 3 123 n. 28 16, 70, 6 123 n. 28 17, 1, 5 122 n. 25 17, 4, 1 122 n. 25 17, 40, 2 122 n. 25 17, 46, 6 122 n. 25 17, 77-78 123 n. 27 17, 85, 2 122 n. 25
549
INDICE DEI PASSI CITATI
Iustinus 43, 5, 12 124 n. 37
17, 96, 2-3 122 n. 25 17, 106, 1 122 n. 25 17, 117, 1 122 n. 25 18, 4 122 n. 23 24, 117, 3-5 81 n. 18 32, 2, 1 61 n. 18 32, 4, 5 61 n. 18 32, 27, 1 123 n. 26 32, 27, 3 123 n. 26
Lactantius inst. 2, 17, 6 109
Dionysius Halicarnassensis 2, 5, 4 78 2, 30-31 476 2, 45-46 476 4, 44 80 Ennius ann. 370 V2 283 n. 52 501-502 V2 84 Florus 1, 22, 7 99 n. 9 Gellius 6, 14, 8-10 64 n. 25 Hieronymus epist. 53, 1, 3 238 n. 8; 252 n. 66; 300 Homerus Il. 1, 260-274 59 n. 13 Horatius carm. 1, 2, 50 82 1, 12, 56 301 n. 8 2, 1, 7-8 116 n. 4 2, 2, 21 78 3, 3, 9-16 78 3, 6, 1-5 61 n. 19 epist. 1, 1, 45 301 n. 8 1, 3, 17 258 n. 82 2, 1, 1-102 144 2, 1, 156 187 n. 30 2, 2, 72 284 n. 53 Iosephus Iud. 7, 143-152 190 n. 45
Liuius praef. 1 150 praef. 3 311; 313 praef. 4 115 praef. 5 116-117; 307 praef. 7 118 praef. 9-11 418 praef. 9 60 n. 15; 71; 307 praef. 10 118; 147; 183 n. 9 1, 1, 1 270 1, 6, 3 77 1, 6, 4 77 1, 7, 3 75; 77 1, 7, 8 75 1, 7, 15 78 1, 9, 1 – 10, 13 476 1, 10, 4 476 1, 10, 5 477 1, 11, 2 77 1, 12, 4 276-277 1, 13, 1-8 476 1, 13, 4-8 77 1, 16, 4-8 63 n. 22 1, 18, 2-4 282 1, 19, 3 152 1, 19, 4-5 62 n. 21 1, 19, 4-7 477 1, 19, 7 477 1, 20, 5 276 1, 21, 1 477 1, 21, 5 477 1, 24-25 397 1, 34, 1 88 1, 38, 7 184 n. 11 1, 41, 4 79 n. 12 1, 42 477 1, 42, 1-5 478 1, 42, 4 79 1, 46, 1 79 1, 48, 5 80 1, 48, 9 79
550
INDICE DEI PASSI CITATI
1, 56, 1 184 1, 56, 10-12 477 1, 57, 1 – 2, 1, 11 407 1, 59, 1 478 1, 59, 9 276 2, 4, 10 184 2, 5, 5-8 401 2, 5, 8 478 2, 10, 1-13 194 2, 10, 1, 12 194 2, 13, 6-11 194-195 2, 14, 6 45 n. 40 3, 55, 7-12 417 3, 67-68 146; 152 3, 69, 4 152 4, 3-5 146; 152 4, 4, 4 128; 276 4, 19, 4-5 477 4, 20, 5-11 140 4, 20, 7 148 n. 43; 251 4, 21, 7 152 4, 33, 1-5 477 5, 7, 10 276 5, 19 81 5, 22, 3-7 197-198 5, 24, 11 82 5, 32 81 5, 33, 1 91 5, 33, 7 284 5, 39, 8 – 40, 10 84 5, 46 81 5, 49 81 5, 49, 5 148 5, 50 81 5, 52, 7 200 n. 71 5, 52, 13-14 277 5, 54, 5-6 83 5, 54, 6 277; 277 n. 29 7, 1, 9-10 83 7, 1, 10 82 8, 6, 9-10 390; 392 8, 9, 1 – 11, 1 390; 392-394 8, 10, 10 396 8, 13, 9 195 9, 17-19 118 n. 9 9, 19, 9 98 9, 43, 22 195-196
9, 44, 16 198 21, 3, 2 270 21, 4, 2 346 21, 4, 9 42 21, 5, 9 336 21, 8, 8 284 n. 55 21, 10, 2 285 21, 17, 6 286 21, 17, 7 336 21, 19, 8 286 21, 21, 12 284 n. 57 21, 24, 2 286 21, 25, 3 166 n. 18; 209 n. 8 21, 25, 10 344; 350 21, 26, 1 286 21, 26, 7 336 21, 27, 8 336; 350 21, 30, 2-11 34 21, 31, 4 31 21, 31, 5-8 32 21, 31, 6 347; 350 21, 31, 9 31 21, 32, 6 – 33, 1 27-52; 29 21, 32, 6 33 21, 32, 7 34 21, 32, 8 29; 36 21, 32, 9 32; 36; 46 21, 32, 10 32; 38; 46 21, 32, 11-13 39-40 21, 32, 12 32 21, 33, 1 43 21, 33, 2 43 21, 33, 3-4 44 21, 33, 4 32 21, 33, 5-7 45-46 21, 33, 8-9 47-48 21, 33, 10-11 49-50 21, 33, 11 32 21, 34, 1 41 21, 35, 9 344 21, 35, 11 336 21, 36, 1 336-337; 350 21, 36, 2 337 21, 36, 7 – 37, 3 285 21, 36, 8 283 n. 51 21, 38, 6 28 n. 5 21, 39, 10 331; 337; 350
551
INDICE DEI PASSI CITATI
21, 40, 2 344 21, 41, 9 332 21, 42, 1 337 21, 44, 8 337 21, 44, 9 337 21, 46, 10 28 n. 5 21, 47, 4 28 n. 5; 332 21, 50, 3 337 21, 51, 5 337-338 21, 52, 9 344; 350 21, 52, 10 344; 350 21, 54, 2 347 21, 55, 4 338 21, 55, 5 338 21, 55, 6 285 n. 59 21, 60, 5 332 21, 60, 7 332 21, 61, 2-4 103 21, 61, 2 286 21, 62 108 21, 62, 11 332 21, 63, 5 338 21, 63, 8 332 22, 1, 8-20 108 22, 1, 1 330 n. 20; 338 22, 1, 2 338 22, 1, 9 332 22, 1, 12 332 22, 1, 15 344; 350 22, 1, 17 284 n. 57; 332; 350 22, 1, 19 338 22, 3, 9 338 22, 4, 4 339 22, 9, 2 339 22, 11, 4 105 22, 12, 2 345; 350 22, 12, 4 339; 350 22, 12, 12 283 n. 50 e n. 52 22, 14, 14 107 22, 15, 2 345 22, 16, 3 345; 349-350 22, 18, 5 331 22, 18, 8-9 339 22, 18, 9 349 22, 19, 6 – 20, 2 107 22, 19, 8 332-333 22, 19, 12 345; 350
22, 20, 12 339 22, 22, 6 347; 350 22, 23, 9 339; 347-348; 350 22, 24, 1 333 22, 24, 12 345 22, 25, 10 333 22, 26, 1 339 22, 26, 2 102 22, 26, 5 333 22, 27, 8 339 22, 27, 9 333; 350 22, 28, 9 339 22, 29, 11 340 22, 30, 3 348 22, 31, 4 345 22, 31, 8 28 n. 5 22, 32, 1-3 105 22, 32, 7 345 22, 34, 2 103 22, 34, 5 340; 350 22, 34, 6 333 22, 35, 3 110 22, 35, 4 110 n. 38 22, 36, 6-8 108 22, 36, 7 340; 350 22, 37, 1 333; 340; 350 22, 37, 2 333; 345-346 22, 37, 5 108 22, 37, 8 333 22, 37, 10 333 22, 37, 11 333 22, 37, 12 108 22, 38, 4-7 104 22, 38, 8-10 110 22, 39, 2 340 22, 39, 4-5 110 n. 38 22, 39, 6-10 106-107 22, 39, 7 334 22, 39, 10 340 22, 39, 13 340 22, 39, 14-15 105 22, 39, 16 340 22, 39, 21 341 22, 40, 1 341 22, 40, 2 104 22, 40, 4 110 22, 40, 8-9 105
552
INDICE DEI PASSI CITATI
22, 41, 1 341 22, 41, 2 111 22, 41, 3 111 22, 41, 6 111 22, 42, 3-4 104 22, 42, 7 334 22, 42, 8 346; 350 22, 42, 10 100 22, 43, 9 100 22, 44, 5 108; 334 22, 45, 1 110 n. 38 22, 45, 5 334; 341 22, 45, 6 334 22, 46, 5 341 22, 46, 6 341 22, 46, 8 341 22, 47, 1 341 22, 47, 3 334 22, 47, 5 334 22, 47, 8 105 22, 47, 10 341 22, 48, 2-4 105 22, 49, 2 111 22, 49, 3-4 334 22, 49, 3 111 22, 49, 8 342 22, 49, 11 334; 342; 346; 350 22, 49, 16 334-335; 350 22, 50, 1-3 342-343 22, 50, 1 100 22, 50, 3 335 22, 50, 4 335; 350 22, 50, 9 335; 343 22, 50, 11 343 22, 51, 2 335 22, 51, 2-3 335 22, 51, 3 343 22, 52, 3 346 22, 53, 4 343 22, 53, 6 107 22, 53, 7 107 22, 53, 8 343 22, 53, 11 335; 350 22, 53, 13 335 22, 54, 4 343; 350 22, 54, 11 335 22, 56, 2 335
22, 56, 3 343; 350 22, 57, 3 343 22, 57, 7 346 22, 58, 3 336 22, 59, 7 343 22, 60, 13 344 22, 61, 14 97; 110 23, 6, 8 28 n. 5 23, 10, 3-13 468 23, 19, 18 196 23, 24, 6-13 171 n. 34 23, 48, 10 284 n. 53 24, 3, 7 284 n. 56 24, 8, 6 283 n. 52 24, 16, 16-19 191 24, 19, 2 468 24, 38, 8 284 n. 54 25, 6, 6 101 25, 12, 5-6 100 n. 11 25, 31, 11 88 n. 30 25, 40, 1-3 184-187 25, 40, 1 189 n. 40 25, 40, 2 189 25, 40, 2-3 88 26, 11, 10 28 n. 5 26, 18, 5-10 79 26, 21, 7-10 89 26, 21, 7-8 185 n. 20 26, 24, 11 187 n. 25 26, 31, 9 185 n. 15 26, 34, 12 187 27, 10, 7 163 n. 5 27, 16, 7-8 187-188 27, 16, 8 89; 198 27, 27, 13 28 n. 5 27, 37, 11-13 200 n. 71 27, 51, 10 85 28, 40-44 85; 88 28, 40, 13-14 85 28, 42, 22 85-86 28, 46, 14 28 n. 5 29, 10, 4-5 488 29, 10, 8 488 29, 14, 11-14 488 29, 25, 3 28 n. 5 29, 27, 14 28 n. 5 29, 35, 2 28 n. 5
553
INDICE DEI PASSI CITATI
30, 13-14 485-487 30, 26, 7 85 30, 38, 7 91 30, 41, 6 286 31, 1, 1 270 31, 10, 1 – 11, 3 171 n. 35 32, 16, 15-17 188 n. 33 34, 4, 3 92 34, 4, 4 189 34, 52, 4-12 188 34, 56 171 n. 37 34, 62, 12 283 n. 52 36, 37, 2-3 488 36, 38-40 172 n. 38 37, 37, 1 130 n. 60 37, 38, 1 130 n. 60 37, 39, 1 130 n. 60 37, 39, 5 130 n. 59 37, 46, 10-11 172 n. 39; 206-207 37, 49, 3-5 188 n. 35 37, 57, 7-8 206-207 37, 59, 3-5 188 n. 34 38, 5, 3 45 n. 40 38, 7, 10 55 38, 9, 13 190-191 38, 17 129 n. 57 38, 30, 8 45 n. 40 39, 1, 5-8 170 n. 30 39, 6, 6-9 91 39, 6, 7-9 190 n. 42 39, 6, 7 189 39, 7, 8-9 200 39, 17-19 91 39, 22, 1-2 189 39, 22, 6-7 172 n. 40 39, 22, 9-10 189 39, 44, 10 208 n. 6 39, 45, 6-7 172 n. 40 39, 54, 2-13 172 n. 40 39, 55, 1-6 172 n. 40 39, 55, 5-6 167 n. 22 39, 55, 7-8 166 n. 17; 206-207 40, 8, 7-20 59 n. 12 40, 29 477 40, 34, 2-3 167 n. 22; 207 40, 34, 5 200 40, 43, 1 208 n. 6
40, 53, 5-6 172 n. 41 41, 13, 4-5 207 41, 14, 2 173 n. 44 41, 28, 8-10 192 42, 3 91 42, 43, 4 – 44, 6 60 n. 17 42, 47, 4-9 60 n. 16; 92 42, 63, 11 188; 190-191 43, 1, 5-6 172-173 43, 4, 7 191 43, 13, 1-2 60 n. 15 43, 17, 1 173; 207 45, 35, 3 – 42, 1 91 45, 39, 5 190-191 per. 15, 5 163 n. 5 per. 20 206 per. 20, 3 170 n. 31 per. 20, 18 165 n. 15 per. 58, 1 92 per. 59, 5 92 per. 59, 7 92 per. 61, 4 92 per. 115 468 n. 15 per. 121 116 n. 5 Lucretius 1, 101-111 64 n. 26 Macrobius 6, 1, 23 284 n. 52 Manilius 4, 37-38 99 Martialis 1, 61 259 Nicolaus Damascenus FGrH 105F80 124 n. 33 Ouidius am. 2, 16, 41-42 482 met. 5, 341-408 284 n. 54 fast. 1, 27-28 476; 1, 39-42 476 Piso FRHist 9F36 189 n. 41
554
INDICE DEI PASSI CITATI
Plinius maior 33, 43 79 n. 11 34, 8, 14 190 n. 43 34, 14 189 n. 41 34, 16, 34 188 n. 35 34, 18, 40 188 n. 32 34, 21 78 n. 9 34, 23 196 n. 63 34, 40 198 34, 43 199 n. 70 35, 7, 22 188 n. 34 35, 9 438 35, 12, 157 184 n. 12 35, 22 192 n. 51 35, 23 192 n. 55 35, 135 189 n. 37 37, 6, 12 190 n. 43 37, 12 189 n. 41 37, 26, 12 188 n. 34 Plinius minor epist. 2, 3, 8 238 n. 7 Plutarchus Aem. 6, 9 189 n. 37 Brut. 1, 1 477 4, 8 129 n. 55 Fab. 6 89 n. 33 16, 4 111 18, 5 110 22, 8 199 Marc. 21 184 n. 14; 185 n. 19 30, 4 185 n. 19 Num. 8, 1-4 62 n. 21 20, 4 477 Rom. 14, 1-7 476 19, 1-7 476 Polybius 1, 5, 3 84 n. 24 1, 14, 6-9 53 n. 2 2, 21, 1-6 170 n. 32 3, 40, 3-14 166 n. 18 3, 40, 3-5 206 n. 3; 207 3, 40, 3 165 n. 15 3, 40, 8-9 209 n. 8 3, 47, 6 – 48, 12 34
3, 49, 5-7 31 3, 49, 8-13 32 3, 50, 1 – 51, 13 27-52; 29 3, 50, 1-2 33 3, 50, 1 31 3, 50, 3-6 35 3, 50, 7-8 38 3, 50, 9 39-40 3, 51, 1-2 42-43; 45 3, 51, 3 45-46 3, 51, 4 46-47 3, 51, 8 46 3, 51, 9-52, 2 48-49 3, 51, 13 – 52, 1 50 3, 107, 7 99 3, 108, 1-2 99 3, 108, 2 – 109, 13 99 3, 110, 2-4 99 3, 110, 5-7 99 3, 113, 1 99 3, 116, 1-3 99 3, 116, 9 99 3, 116, 13 99 6, 56, 6-13 63 n. 24 9, 10, 5-9 88 12, 12, 1-3 53 n. 2 13, 3, 6-8 61 n. 18 13, 5, 4-6 53 n. 2 16, 12, 9-10 63 n. 24 16, 17, 9-10 53 n. 2 18, 24, 9 56 18, 34, 1-8 61 n. 18 20, 12, 8 53 n. 2 21, 28, 11 55 21, 30, 9 191 n. 47 23, 11, 1-8 59 n. 12 27, 1, 1 – 2, 10 60 n. 17 28, 13, 1-14 62 n. 20 33, 2, 9-10 64 n. 25 34, 4, 2 53 n. 2 36, 9, 9-11 61 n. 18 Q uintilianus 1, 5, 55-57 251 1, 5, 56 116 n. 3; 252 1, 7, 24 251-252 2, 5, 18-20 253
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INDICE DEI PASSI CITATI
2, 5, 19-20 253 n. 67 2, 5, 19 313 8, 1, 3 116 n. 3 10, 1, 32 252 10, 1, 39 252 10, 1, 101 253 Res gestae diui Augusti 8, 5 145 19-20 81 20 61 n. 19 34, 2 76 Sallustius Cat. 5, 8 189 n. 41 Iug. 4, 1 314 4, 5 314 Seneca maior contr. 9, 1 313 10 praef. 2 244; 468 n. 15 Seneca minor epist. 100, 7-9 254 n. 72 Servius Aen. 6, 845 284 n. 52 7, 799 284 n. 57 Sextus Empiricus Math. 9, 54 63 n. 23 Strabo 5, 1, 7 164 n. 7 5, 1, 11 164 n. 7 6, 3, 1 89 n. 33; 198-199 Suetonius Iul. 88 123 n. 31 Aug. 7, 4 82 18, 1 123 n. 30 28, 1 80 n. 15
85, 1 139 95 77 Cal. 34 255 n. 76 Claud. 41, 1 140 Tacitus Ann. 1, 9, 4 150 4, 34 116 n. 3; 139-140; 238 n. 6 Hist. 1, 1 141 Thucydides 1, 22 58 n. 11 Timaeus FGrH 566F61 79 n. 11 Valerius Maximus 1, 1, 16 109 3, 6, 2 188 n. 34 Varro rust. 1, 2, 1 192 n. 54 3, 1, 2 84 Velleius Paterculus 1, 15, 2 167 n. 22 Vergilius ecl. 7, 2 283 n. 50 georg. 1, 2-3 482 1, 308 283 n. 51 Aen. 1, 76-77 283 n. 52; 1, 365-368 283 n. 52 1, 425 283 n. 52 6, 846 284 n. 52 6, 847 ss. 189 n. 41 8, 194 ss. 78 Vitruuius 2, 3, 3 168 n. 25
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Abano 259 Acciaiuoli, Donato 447-448 Acilio (annalista) 28 n. 8 Achei 59; 62 Acilio Glabrione, M’. (cos. 191 a.C.) 200; 308 Acilio Glabrione, M’. (cos. suff. 154 a.C.) 200 Acrone 476 Adelperga 229 Adriano 125 Africa 27; 84-87; 91; 486 Agostino 281-282; 299; 304; 313; 395 Agnelli, Ludovico 363 Agrippa Furio (cos. 446) 152 Albanzani, Donato 425; 430; 437 n. 22; 446-448 Alberico 229-230 Alciato, Andrea 475; 477; 483 Alcibiade 86 Alcuino 222 Aldo 222-223 Alessandria 82; 82 n. 19; 119 Alessandro III, papa 438 Alessandro Magno 91; 118; 120; 122-123; 125; 127; 196 Alfonso I d’Aragona 365 n. 23; 373 n. 47 Alfonso II d’Aragona 358; 373 Allia (battaglia) 81; 90; 108 Alpi 27-52; 169; 230 Altichiero 440; 448
Ambracia (battaglia) 55; 190-191 Ambrogio 311 Amelio di Lautrec 269-270 Aminziano 125 Ammiano Marcellino 120 Amilcare (luogotenente cartaginese) 171 Amulio 430 Anagni 196 Angelberga 230 Anicio, M. 196 Annibale 27-52; 85; 99; 104-105; 165; 187 n. 25; 335-336; 468 strategia 35; 49-42; 46-47; 85; 103-104; 106-107; 111-112 Ansa 224 Ansoald 223 Ansoaldo 222-223 Antenorei Lares 500-503; 510 Anti, Carlo 15; 23; 493-514; 515-546 Antioco III 188-189; 200 Antonio, M. (cos. 44, 34 a.C.) 81-82; 123 Antonio d’Este 506 Antonio da Faenza 371 Antonio da Legnago 279; 280 n. 36 Apollo 69; 73-74; 77; 80-81; 123 tempio sul Palatino 76; 81 Appennini 163; 169 Appiano 119-120; 120 n. 15; 129-130 Apuleio 269; 283 n. 49; 379
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Aquileia 167-169; 172; 175; 200; 206-217 Archimede 185 n. 17; 295 Aretino, Giovanni 364 Arpino 198 Arriano 123 Arrighi, Simone Girolamo 361 n. 13 dell’Arzere, Stefano 478-488 Asinaro (battaglia) 86 Asinio Pollione, G. 115-116; 120; 252; 254; 295; 303; 313 Asdrubale Barca 165 Atene 63; 69; 86; 126; 128 Ateneo 120; 124; 128 Atilio Calatino, A. 193 n. 59 Atilio Serrano, A. (cos. 170 a.C.) 60 n. 16 Attalo II 59 Augusto 10-11; 18-19; 58; 61; 64; 72-84; 92; 116; 116 nn. 3 e 5; 118 n. 8; 119-120; 123-126; 128; 130; 137-157; 187 n. 29; 229; 238; 248-249; 250-251; 295; 297; 299; 389; 402; 470 n. 21; 497-498; 504; 534 Aulo Gellio 312 Aurispa, Giovanni 367 Ausonio 271 Avanzi, Jacopo 441-442; 444-446; 448 n. 70; 449 Aventino 80 Avignone 13; 21; 243; 270-276; 279; 281; 301-302 Azio (battaglia) 74; 115; 123; 141-142; 147; 149; 151-152 Azzone Visconti 448 Baccanali 91 Bamberg 226 n. 20; 230 Bartolomeo da San Concordio 325 n. 6 Beatrizet, Nicolas 471 Benevento 191; 226; 228-229 Bandini, Domenico 258-260 Bartoli da Signa, Giovanni 370 Bellini, Giovanni 488 Bellini, Mario 493-494
Bellona 393 Bembo, Pietro 469-470; 482 Benzo d’Alessandria 269; 271 Benzi, Sozino 367 Bernardo di Utrecht 241-242 Bersuire, Pierre 362-363; 366; 387 Bessarione 365; 376; 378 Bianco, Simone 476 Biondo, Flavio 466; 468 da Bisticci, Vespasiano 364; 373 n. 47 Boccaccio, Giovanni 14; 22; 248-251; 253; 259; 259 n. 86; 269; 302; 304; 314-316; 324; 356, n. 2; 475 Boezio 243; 273 Boldrin, Paolo 506 Bologna 171; 205-217; 365; 367; 441-442 Bottai, Giuseppe 493-494; 516; 529 Boviano 198 Bracciolini, Poggio 331 n. 20; 367 Brunetta, Giulio 506; 510 Bruni, Leonardo 261; 331 n. 20 Bruno, vescovo di Colonia 231 Burley, Walter 240-241 del Buono, Mariano 359; 368 nn. 36 e 37; 374 Bussi, Andrea 375-383 Cabiati, Ottavio 519 Cabria 127 Caco 78 Cadorin, Guido 534 Caere 80 n. 16 Calasso, Roberto 396 Caligola (imperatore) 255-256; 258 Callistene (pseudo) 227 Calpurnio Pisone, L. 30; 117 Calza Bini, Alberto 518 Camilla 397-398 Campagnola, Domenico 471 Campidoglio 89; 199; 257; 258 n. 83; 477 Campigli, Massimo 1; 23; 493; 496; 527-538 Cangrande della Scala 271
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Canne (battaglia) 10; 18; 28; 71; 91; 97-114 Canuleio, G. 146; 152 Cappella Scrovegni (Padova) 439 Capua 187; 392 Caracalla (imperatore) 476 Carlo Magno 221-225 Carmenta 76 carmina Marciana 100 n. 11 Carneade 64 Cartagine 61; 88; 192 Cartari, Vincenzo 475 Carvilio Massimo, Sp. (cos. 293, 272 a.C.) 199 Casa degli Specchi (Padova) 468; 471; 487 Casilino 196 Cassio Dione 119; 141 Cassiodoro 281 Cassio Longino, G. (pr. 44 a.C.) 142 Cassio Vecellino, Sp. (cos. 502, 493, 486 a.C.) 184 Castori, tempio 196 Catilina 153 Catullo 271 Cavallini, Giovanni 273-278 Cavazza, Giovanni 475 Celio Antipatro, L. 28; 30-32; 117; 129 de la Cerda, Antonio 365 Cerere 184 statua 184 tempio sull’Aventino 184 n. 13; 417 Cesennia 198 del Chierico, Francesco di Antonio 359 n. 10; 365; 373 n. 47; 374 Cibele 478; 487-488 Cicerone 11-12; 19-20; 64; 98; 100; 116; 128; 147; 148 n. 38; 149; 152-153; 185 n. 17; 239-240; 253-254; 272-274; 282; 284; 295; 299; 302-303; 305-306; 307 n. 23; 312; 317; 379; 381 Cilnio Mecenate, G. 144; 146 Cinoscefale (battaglia) 56; 130
Cipriano 379; 383 n. 65 Ciro II 69 Clastidium 171 Claudio (imperatore) 140; 250 Claudio Centone, Ap. (pr. 175 a.C.) 62 Claudio Druso, D. (cos. 9 a.C.) 248 Claudio Q uadrigario 28 n. 8; 30; 81; 117; 129; 311 Claudio Marcello, M. (cos. 222, 215, 214, 210, 208) 88-90; 112; 171; 184-185; 186-187; 198; 468 n. 15; 477 Claudio Marcello, M. (cos. 196 a.C.) 171 Claudio Marcello, M. (cos. 51 a.C.) 468 Claudio Nerone, G. (cos. 207 a.C.) 112 Claudio Pulcro, G. (cos. 177 a.C.) 173 Clelia 194-195 Clemente V, papa 270 Clemente VI, papa 274 Cleonimo 434 n. 12 Cleopatra 119-120 Colonna, Giovanni 248; 249 n. 52; 253-256; 258; 273-275; 275 n. 24; 278; 282; 310; 439 n. 32 Colonna, Landolfo 243 n. 30; 272-274; 278-279; 282; 287; 328 colosso di Rodi 198 Colonia 231 Como 171 concordia 70-71; 76-77; 79; 81; 86; 116; 146-147; 152 conflitto patrizio-plebeo 71; 81 n. 17; 82; 90; 102-103; 110; 152 Conti, Ildebrandino 282; 283 n. 48 Corbie 221; 223-224 Corinto 61 Corneille, Pierre 397-398 Cornelio Cetego, P. (cos. 181 a.C.) 200
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Cornelio Cosso, A. (cos. 428, 413 a.C.) 140; 477 Cornelio Lentulo, P. (cos. suff. 162 a.C.) 60 n. 16 Cornelio Lentulo, Ser. (pr. 169 a.C.) 60 n. 16 Cornelio Scipione Asiatico, L. (cos. 190 a.C.) 130; 188-189 Cornelio Scipione, P. (cos. 218 a.C.) 104 Cornelio Scipione Africano, P. (cos. 205, 194 a.C.) 72; 74; 79; 84-87; 90-91; 107; 112; 129; 308; 470; 475; 487 Cornelio Scipione Nasica, P. (cos. 191 a.C.) 171-172 Cornelio Silla, L. (cos. 88, 80 a.C.) 80; 92; 138 n. 2; 196 Corrado d’Hirsau 241-242; 260 Corsini, Filippo 358-359 Corvino, Mattia 363 Cosa 211 Costantino 199 n. 69; 475 Costantinopoli 199 n. 69; 226 costituzione mista, teoria della 53 Cremona 165; 171-172; 205-217; 517 n. 7 Cremuzio Cordo 139-141 Croce, Benedetto 149 cultura greca, rapporto di Roma con la 63; 89-90; 115-135; 181-204 Curia Hostilia 192 Curio Dentato, M’. (cos. 290, 275, 274 a.C.) 186 n. 21; 309 Curlo, Giacomo 367 Danieletti, Pietro 506 Dante 326; 475 David, Jacques-Louis 396-401 Decembrio, Angelo 330 n. 20 Decembrio, Pier Candido 330 n. 20 Decimo, L. 60 n. 16 Decio Mure, P. (cos. 340 a.C.) 390-396 Decio Mure, P. (cos. 312, 308, 297, 295 a.C.) 390 Decio Mure, P. (cos. 279 a.C.) 390
Delfi 69; 76; 477 De Luigi, Mario 505 Demetrio 59 Desiderio 223; 225 Diana, tempio 80; 478 Diodoro Siculo 119 n. 13; 121-123; 125 Dione Crisostomo 123 Dionigi da Borgo San Sepolcro 275 Dionigi di Alicarnasso 78 n. 10; 79-80; 119; 124-126; 476 Dionigi l’Areopagita (pseudo) 226 Dioniso 122-123 Ditti Cretese 272; 287 Dolabella, Lorenzo 360 Domizio Enobarbo, Gn. (cos. 192 a.C.) 129-130 Dondi dell’Orologio, Giovanni 439 Durance 31; 32 edizioni a stampa liviane 13; 279 n. 35; 375 editio princeps (Roma 1469) 372; 375-383 Venezia 1470 372 Venezia 1520 468 editto di Rotari 222-223 Eforo 121-123 Egitto 82; 121; 123; 129; 165 n. 12 Elio Tuberone 117 Emilio Lepido, M. 119 Emilio Paolo, L. (cos. 216) 71; 97-117 Enea 78; 200 n. 71; 474 Ennio 84; 283 n. 52 Epiro 62 Ercole 75; 78; 122; 434 n. 12; 510 stanza di (Reggia Carrarese, Padova) 434 statua sul Campidoglio 198 statua di Lisippo 89; 188; 199 Eretria 188 n. 33 Erodoto 54; 124; 127-129; 253; 379 Ernici 196 Ersilia 77 Esopo 295
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Etoli 55; 187 n. 25 Etruschi 88; 161; 183-184; 194; 197; 432 Eugenio Vulgario 230 Eumene II 59 Eusebio di Cesarea 239-240; 245; 250; 254; 314 Eutropio 228 Evandro 69; 74-75; 78 Fabio Massimo Gurges, Q. (cos. 292, 276 a.C.) 193 Fabio Massimo Rulliano, Q. (cos. 322, 310, 308, 297, 295 a.C.) 193; 193 n. 59 Fabio Massimo Verrucoso, Q. (cos. 233, 228, 215, 214, 209 a.C.) 85-89; 102; 104-107; 109-110; 187-188; 198-199; 470 Fabio Pittore 30; 69; 74-75; 79; 79 n. 11; 87 Fabrizio Luscino, G. (cos. 282, 278 a.C.) 309 Facio, Bartolomeo 280 Fagiuoli, Ettore 519 Falconetto, Giovanni Maria 473 Fallani, Giovanni 497; 504; 508 n. 49 Fannio, M. 193 Fardulfo 224-225 Fauno 74 n. 4 Federico I Barbarossa 438 Federico da Montefeltro 363 Federico di Pernstein 270 Ferrabino, Aldo 494; 534 Ferrari da Trezzo, Ruggero 374 fides 70-71; 90-92 Filippi (battaglia) 148 Filippo II 122; 125 n. 40; 127 Filippo V 56; 59; 187 n. 25; 188 Filippo da Santa Croce 325 Fiocco, Giuseppe 494; 508; 534 Flaminio Nepote, G. (cos. 223, 217) 103-104 Fonzio, Bartolomeo 367-368 foro olitorio 200 Flavio Giuseppe 226
Floro 243; 245; 272; 287; 304; 309-310; 356 fortuna 35; 79; 79 n. 12; 100-101; 107-109 Fortuna Primigenia, tempio 196 Francesco I da Carrara 433-434; 436 n. 18; 448 Francesco II da Carrara 436 n. 18; 447 Francesco II Gonzaga 437 n. 21 Francescuolo da Brossano 302 Fulberto 273 Fulgenzio 230 Fulrado 225 Fulvio Curvo Petino, M. (cos. suff. 305 a.C.) 198 Fulvio Nobiliore, M. (cos. 189 a.C.) 188-189; 190 n. 46 Funi, Achille 534 Furio Camillo, L. (cos. 349) 195 Furio Camillo, M. (tr. cos. 401, 398, 394, 386, 384, 381 a.C.) 18; 72; 74; 79-84; 88; 90-91; 197; 475 stanza di (Reggia Carrarese, Padova) 434 Furio Purpurione, L. (cos. 196 a.C.) 171 Galli 37-38; 117; 129; 148-149; 170; 172; 390 Allobrogi 31-33; 36; 48 Boi 166; 170-172; 208 Gaesati 171 Insubri 171 Trigori 31-32 Voconzi 31-32; 124 sacco gallico 69; 72; 81; 87; 90-91; 117; 148 Gaza, Teodoro 379 Gheddafi, Muammar 412 Giacomo II da Carrara 315 Giano 393 arco 439 tempio 152 Giordane 227 Giotto 439; 448
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Giovanni II il Buono, re di Francia 362 Giovanni III, duca di Napoli 225-230 Giovanni VIII, papa 230 Giovanni XII, papa 229 Giovanni XXII, papa 243; 272 Giovanni di Castres 270 Giovanni di Salisbury 258; 273 Giovanni Filagato 230; 231 n. 29 Giove 119; 393; 417; 476 statua sul Campidoglio 199 statua di G. Laziare 199 statua di G. Ottimo Massimo 184 n. 12 statua di Lisippo (Zeus) 188; 198 tempio di G. Ottimo Massimo 183 tempio di G. Statore 195 n. 62 Girolamo 238-240; 244-246; 250; 252; 254; 300-301; 312; 314 Giulio Cesare, G. 63; 81 n. 17; 92; 116; 119; 122-124; 137-138; 230; 295; 379 Giulio Romano 470; 473 n. 30 Giunio Bruto, L. (cos. 509 a.C.) 397; 477-478 Giunio Bruto, M. 142 Giunone statua di G. Regina a Veio 189 n. 38; 197-198 statue lignee di G. Regina 200 n. 71 tempio di G. Lacinia 91 tempio di G. Regina 189 n. 38 Giustiniano 229 Giustino 125 n. 40; 273; 310 Gregorio magister 258 Gregorio IV di Napoli 227 Gregorio Magno, papa 256-258 Grynaeus, Simon 275 guerra Cantabrica 139; 141 guerra del Peloponneso 53; 127 guerra di Troia 128 guerra sociale 92 guerre civili 74; 90-92; 115-116;
118 n. 8; 137; 140 n. 11; 144; 150-151; 153 guerre sannitiche 193; 198-199 Guglielmo da Pastrengo 248; 253 Guillard, Nicolas-François 398 Honos, tempio 185 n. 16; 187 Ierone II 108; 192 Isabella d’Este 482 Isidoro 230 Ivo di Chartres 273 Jacopo II da Carrara 433 n. 10; 466; 470 Jacopo di Paolo 425-464 Kessler, Johannes 365 Labieno, T. 141 Lattanzio 273 n. 15; 299 Lax, Joseph 506 Lelio, G. (cos. 190 a.C.) 487 Leonardo da Vinci 482 Leone I, papa 379 Leone Arciprete 226-227 Libertas, tempio sull’Aventino 191 Licinio Crasso, M. (cos. 70, 55 a.C.) 92 Licinio Macro 117 Liegi 224; 272 Liguri 171; 173 Lisippo 89; 188; 198-199 Livio bimillenario della nascita 494 cronologia dell’opera 142; 146; 147 n. 34; 150-151 ideologia 69-96; 115-135 moralismo 54; 58-61; 70-71; 73; 81; 88; 90-91; 117; 415 notizie biografiche 116; 139-140; 237-267; 300; 468 patavinitas 14; 22; 116; 251-252; 261 pompeianus 74 n. 3; 116; 139-140; 238 praefatio 115-116; 119; 150; 183; 194
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
presunta epigrafe funeraria 246-247; 254; 314; 470-471 presunte spoglie 297; 466; 470-471 statua di Arturo Martini 493-514 sintassi 29-50 stile narrativo 36-37; 45-47; 49; 88 storiografia esemplare 74-87; 146-147; 147 n. 35 volgarizzamenti dell’opera 13, 323-354; 356-357; 360-362; 362 n. 16; 365-366; 370-371; 373-374; 467; 475 Livio Andronico 239; 241 Livio Salinatore, M. (cos. 219, 207 a.C.) 112 Lorsch 275 Lovati, Lovato 14; 22; 246-247; 314-315; 316 Luca da Penne 272 Lucano 325; 379 Lucca 208 n. 6 Lucrezia 407; 411; 415-416; 478 stanza di (Reggia Carrarese, Padova) 434 Lucrezio 64; 119 Lucrezio Gallo, G. (pr. 171 a.C.) 191 Ludovico Santo di Beringen 310 Luni 171; 205-217 Lupercali 78 n. 9 Luvigliano 473; 473 n. 29 Machiavelli, Niccolò 54; 475-476 Maggi, Alessandro 468-469; 471; 475; 487 Maggi, Antonio 471-472 Magio, Gn. 468 Magio, L. 244; 468 Magnesia (battaglia) 129 Malatesta, Novello 363 Manlio Torquato, T. (cos. 347, 344, 340) 392-394 Manlio Vulsone, Gn. (cos. 189 a.C.) 129; 189 Mantegna, Andrea 437 n. 21; 487
Manoscritti Bamberg Staatsbibliothek, Class. 34 228 Staatsbibliothek, Class. 35 279 n. 35 Staatsbibliothek, Class. 35a 279 n. 35 Staatsbibliothek, Hist. 3 227 Staatsbibliothek, Med. 1 231 n. 29 Staatsbibliothek, Msc.Hist.6 228 Berlin Staatsbibliothek Preußischer Kulturbesitz, Hamilton 402 370 Bern Burgerbibliothek, 351 252; 252 n. 62 Besançon Bibl. Municipale, 837 365 n. 23 Bibl. Municipale, 838 365 n. 23 Bibl. Municipale, 839 365 n. 23 Bologna Bibl. Universitaria, 2233 368 Bibl. Universitaria, 2241 368 Bibl. Universitaria, 2245 368 Città del Vaticano BAV, Barb. lat. 4086 326 BAV, Chigi H.VIII.254 367 BAV, Ferrajoli 562 370 BAV, Ottob. lat. 1291 359 BAV, Ottob. lat. 1581 371 BAV, Ottob. lat. 1883 444 BAV, Pal. lat. 878 260 n. 90 BAV, Reg. lat. 762 221-222 BAV, Vat. lat. 895 304; 310 BAV, Vat. lat. 811 269 BAV, Vat. lat. 1769 247 BAV, Vat. lat. 1846 275-277 BAV, Vat. lat. 1855 367 BAV, Vat. lat. 1859 242; 249 n. 54; 260 n. 90; 367 BAV, Vat. lat. 1927 274 BAV, Vat. lat. 1928 270 BAV, Vat. lat. 3317 227 BAV, Vat. lat. 3867 224 BAV, Vat. lat 5219 376; 378
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
BAV, Vat. lat 5991 379 BAV, Vat. lat. 6803 376 BAV, Vat. lat. 12958 278 Darmstadt Universitäts- und Landesbibliothek, 101 425-464 Dublin Chester Beatty Library, W 76 449 El Escorial Real Bibl. del Monasterio de San Lorenzo, G.I.8 270 n. 8 Real Bibl. del Monasterio de San Lorenzo, R.I.4 306 Real Bibl. del Monasterio de San Lorenzo, R.I.5 270 Real Bibl. del Monasterio de San Lorenzo, T.III.11 316 Firenze BML, conv. soppr. 263 260 n. 90; 330-350 BML, Edili 173 273 n. 15 BML, plut. 19 sin. 7 260 n. 90 BML, plut. 63.3 366-367 BML, plut. 63.4 364 BML, plut. 63.5 364 BML, plut. 63.6 364; 365 n. 23 BML, plut. 63.7 368 BML, plut. 63.8 368 BML, plut. 63.9 368 BML, plut. 63.10 364 BML, plut. 63.11 364 BML, plut. 63.12 364 BML, plut. 63.16 372 BML, plut. 63.17 372 BML, plut. 63.19 279 BML, plut. 63.20 349 BML, plut. 63.21 330-350 BML, plut. 65.1 228 BNC, II.I.377 374 BNC, conv. soppr. G.4.1111 254 nn. 71 e 73; 255 n. 75; 273 n. 15 BNC, Banco Rari 34 373 n. 47 BNC, Banco Rari 35 373 n. 47 BNC, Banco Rari 36 373 n. 47 BNC, Magliab. XXIII 91 328 n. 16
BNC, Pal. 184 448 BNC, Pal. E. B. 9. 2 328 n. 16 Bibl. Riccardiana, 484 358 Bibl. Riccardiana, 487 375-383 Bibl. Riccardiana, 1514 360 Bibl. Riccardiana 1516 362; 370 Bibl. Riccardiana 1517 362 Bibl. Riccardiana 1518 362 Bibl. Riccardiana, 1556 360 Genève Bibl. de Genève, fr. 77 366 Glasgow University Library, Hunter 370 360 Holkham Hall Library of the Earl of Leicester, 344 287 Library of the Earl of Leicester, 350 359 Library of the Earl of Leicester, 351.1 368 Library of the Earl of Leicester, 351.2 368 Library of the Earl of Leicester, 351.3 368 Leiden Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Voss.Lat. F.21 271 n. 8 Lisboa Bibl. Nacional, Mss. Ill. 13 257 London British Library, Add. 15286 329 n. 16; 361 British Library, Add. 24893 283 n. 49 British Library, Add. 69865 447 British Library, Harley 2493 278-287; 305-306; 323-354 British Library, Harley 2684 358 British Library, Harley 3694 358 British Library, Lansdowne 1178 362; 366 British Library, Yates Thompson 38 359 Milano Bibl. Ambrosiana, A 79 inf. 283 n. 49
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Bibl. Ambrosiana, C 67 sup. 259 n. 86 Bibl. Ambrosiana, F 138 sup. 310 Montpellier Bibl. interuniversitaire. Section Médecine, H. 115 370 München Bayerische Staatsbibliothek, Clm 15731 368 Bayerische Staatsbibliothek, Clm 15732 368 Bayerische Staatsbibliothek, Clm 15733 368 Nancy Archives départementales de Meurthe-et-Moselle, 1 F 342 n.3 273 n. 17 Napoli Bibl. Naz., Vindob. lat. 5 227 Oxford Bodleian Library, Canon. Pat. Lat. 131 273 n. 15 Bodleian Library, Digby 144 359 Bodleian Library, Digby 224 365 New College, 277 260 n. 90 Padova Bibl. Antoniana, 559 369 Bibl. Civica, B. P. 158 435 Bibl. Civica, B. P. 339 369 Bibl. Universitaria, 1414 372 Bibl. Universitaria, 1490 282 Paris BNF, fran. 263 363 BNF, it. 118 365 BNF, it. 119 365 BNF, lat. 1989 304 BNF, lat. 2201 281 BNF, lat. 2630 225 BNF, lat. 5690 243 n. 30; 272; 273 n. 17; 278; 281; 286; 286 n. 64; 305-306; 309; 316; 328; 330-350 BNF, lat. 5730 221; 328 BNF, lat. 5731 342 BNF, lat. 5745 244; 259 n. 88 BNF, lat. 5802 309
BNF, lat. 6069F 436 n. 20; 448-449 BNF, lat. 6069I 448-449 BNF, lat. 6802 439 BNF, lat. 7595 282; 282 n. 48 BNF, lat. 7720 251-253; 313 n. 35 BNF, n.a.f. 5243 449 Praha Statni knihovna CSR, VII.A.16 227 Roma Bibl. Vallicelliana, B. 61 378-379 Torino Bibl. Universitaria, 1707 328 n. 16 Tours Bibl. Municipale, 985 257 Trento Bibl. Comunale, 1658 260 n. 90 Troyes Mediathèque du Grand Troyes, 552 282 Valencia Bibl. de la Catedral, 149 260 n. 90 Bibl. de la Catedral, 173 271 n. 8; 348-349 Universitat de València, Bibl. Històrica, 382 374 Universitat de València, Bibl. Històrica, 383 373 Universitat de València, Bibl. Històrica, 386 374 Venezia Bibl. Naz. Marciana, Lat. Z 362 365 Bibl. Naz. Marciana, Lat. Z 364 330-350 Bibl. Naz. Marciana, Lat. Z 365 365 Bibl. Naz. Marciana, Lat. Z 366 365 Bibl. Naz. Marciana, Lat. XII 26 444 Museo Correr, Cicogna 3737 329 n. 16
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Wien Österreichische Nationalbibliothek, 2571 439 Österreichische Nationalbibliothek, lat. 15 275 Österreichische Nationalbibliothek, lat. 91 374 Marcio Filippo, Q. (cos. 189, 169 a.C.) 60; 62 Marcio Filippo, L. (cos. 56 a.C.) 196 Marcio Tremulo, Q. (cos. 306, 288 a.C.) 195 Mario, G. (cos. 107, 104, 103, 102, 101, 100, 86 a.C.) 92 Mario Vittorino 312 Marsiglia 125 Marte 118-119; 393 Martini, Arturo 471; 493-514 Marzi, Gianfrancesco 368; 368 n. 35 e 36 Massinissa 486-487 Massimiliano I 375 Maturino 470 Medici, Cosimo de’ 364; 365 n. 23 Medici, Piero de’ 364 Medici, Lorenzo de’ 364 Menio, G. (cos. 338 a.C.) 195 Metauro (battaglia) 73; 85; 87; 91 Metrodoro di Scepsi 119 metus hostilis 71-72; 85; 90 Michelucci, Giovanni 518 Michiel, Marcantonio 437 n. 20; 444-446 Minio, Tiziano 474 Minucio Augurino, Ti. (cos. 305 a.C.) 198 Minucio Rufo, M. (cos. 221 a.C.) 102; 104-105; 107 Mocenigo, Antonio 478 Modena 166; 171; 173; 205-217 Momigliano, Arnaldo 53 Monte Albano 199 Montecassino 225; 269; 274 Mosè 232 n. 33 Mussato, Albertino 251 n. 59; 254 n. 74
Napoleone 397-398; 402 Napoli 225-230 di Nanni, Ricciardo 368 n. 37 Nepote 127 Nestore 59 Niccoli, Niccolò 261; 466 n. 3 Niccolò III d’Este 447 Niccolò V, papa 367 Niccolò da Lira 379 Niccolò da Prato 280 Niceta Coniate 199 n. 69 Nicia 86 Nicola Damasceno 123-124; 141 n. 12 Nicolò di Giacomo 442-444 Nino 125; 128 Numa Pompilio 62-63; 79 n. 11; 282; 306; 477 Numidi 105; 341 Odeo Cornaro (Padova) 473-474 Ojetti, Ugo 502 Omero 59; 255; 295; 312 Oppi, Ubaldo 534 Orazi e Curiazi 397-401; 432; 442 Orazio 73; 116; 144; 284; 295 Orazio Coclite, P. 194; 432 Orosio 228-231; 242; 273 Ostasio I da Polenta 326 Ostilio Mancino, L. (cos. 145 a.C.) 192 Ottone I 229 Ottone III 230-232 ovatio 185 Ovidio 284; 295 Palatino 69; 77 Palazzo Bo (Padova) 500; 519-520; 526; 534 Palazzo della Ragione (Padova) 466; 468; 471-472; 507 Palazzo Ducale (Venezia) 438 Palazzo Liviano (Padova) 493-514; 515-546 Palazzo Mocenigo (Padova) 478 Palladio, Andrea 480 Pallanteo 75
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Panormita, Antonio Beccadelli detto il 280 Paolino di Nola 238; 244; 254; 300 Paolo Diacono 222; 227-229; 378 Parma 206-217 Parti 125 Pavia 224 Penelope 434 n. 12 Peraldo, Guglielmo 269 Pergamo 59 Pericle 86 Perino 470 periochae 11; 19; 92; 142; 163; 182 n. 6; 243; 248-249; 260; 304; 310-311; 376 Perseo 59-60; 191 Persio 230 Pesaro 208 n. 6 Petrarca, Francesco 13-15; 243 n. 30; 245; 248-253; 255 n. 77; 257-258; 260; 271-273; 278-287; 295-320; 324; 327-328; 391; 425-464; 475 Petroni, Riccardo 270 Piacentini, Marcello 519 Piacenza 165-166; 171-172; 205-217; 230 Piccardi, Francesco di Paolo 362 Piccolomini, Enea Silvio 363 Pidna (battaglia) 91-92 Pierio Valeriano 475 pietas 70-71; 78; 80; 90; 128; 184; 197; 395 tempio 200 Pirro 191 n. 47; 390 Pisa 171 Pleminio, Q. 91 Plinio il Giovane 300 Plinio il Vecchio 269-270; 295; 297; 312-313; 379 Plutarco 119; 141; 475; 477 Pociviano, Francesco 475 Polenton, Sicco 14; 22; 249; 256-257; 260-261; 368-369; 465-466; 466 n. 7
Polibio 27-52; 53-67; 87-88; 98; 117; 120-122; 125-126; 129-130; 311; 475 Polidoro 470 Pollenza 200 Pompeo Magno, Gn. (cos. 70, 55, 52 a.C.) 92 Ponti, Giovanni (Gio) 493-514; 515-546 Porcio Catone, M. (cos. 195 a.C.) 64; 71; 87; 92; 119; 125; 128; 130; 189; 295 Porfirio 230 Porsenna 194 Porta Esquilina 193 de Porta, Giovanni 270 Posidonio 121-122; 124 Postumio Albino, L. (cos. 234, 229, 215 a.C.) 171 Postumio Albino, A. (cos. 180 a.C.) 200 Postumio Megello, L. (cos. 305, 294, 291 a.C.) 198 Preneste 196 Prisciano 312 Proculo Giulio 63 Properzio 73 Q uintiliano 238; 251-253; 295; 303; 317 Q uinzio Capitolino, T. (cos. 471, 468, 465, 446, 443, 439 a.C.) 146; 152 Q uinzio Flaminino, T. (cos. 198 a.C.) 130; 188 Q uirino 119; 393 Raffaello 470 von Ranke, Leopold 53 Raterio 279 ratto delle Sabine 476 Ravenna 164; 228 Regillo (battaglia) 108 Reggia carrarese (Padova) 433 n. 10; 434 sala degli uomini illustri (Sala dei Giganti) 426; 432-434; 470; 474; 478; 494
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
religione 62; 108-109; 393 Rea Silvia 430 Remo 228; 430 Riccobaldo da Ferrara 245-247; 271; 314-316 Righetti, Agostino 478 Rimini 163; 170; 175 Roberto d’Angiò 305 Rodano 31; 171 Rodin, Auguste 506 Rolando da Piazzola 247 Rollin, Charles 399; 401 Romolo 63; 72; 74-79; 82-83; 119; 228; 430-431; 442; 475-477; 497-498; 534 Ronca, Enea 519 Roscio 295 Rosselli, Francesco 358 Rubens, Pieter Paul 391-396 Rufio Festo 270; 310 Sabina 397 Saint-Denis 223-225 Salamanca, Antonio 471 Salieri, Antonio 398 Sallustio 57; 92; 116 n. 2; 128; 150; 239-242; 253; 260; 275; 295; 297; 310; 312-314; 324-325 Salone (Padova) vd. Palazzo della Ragione (Padova) Salutati, Coluccio 270; 444 de Sanctis, Andriolo 466 San Petronio, basilica (Bologna) 441; 441 nn. 43, 45 e 46 Santa Giustina, basilica (Padova) 246; 258-259; 297; 314; 466; 470; 471 n. 22 Sant’Antonio, basilica (Padova) 443-444 Sanudo, Marin 468 Sardegna 192 Saturno 119 Savonarola, Michele 436 n. 20 Scamozzi, Vincenzo 473 n. 30 Scardeone, Bernardino 473 Sempronio Asellione 117 Sempronio Gracco, G. (tr. pl. 123 a.C.) 92
Sempronio Gracco, Ti. (cos. 238 a.C.) 191 Sempronio Gracco, Ti. (cos. 215 a.C.) 191 Sempronio Gracco, Ti. (cos. 177, 163 a.C.) 192 Sempronio Gracco, Ti. (tr. pl. 133 a.C.) 92 Sempronio Longo, Ti. (cos. 218 a.C.) 104; 108; 109 n. 33 Sempronio Sofo, P. (cos. 268 a.C.) 192 senato romano 61-63; 71; 80; 82; 86-87; 99; 103; 110; 142; 162; 172; 187; 200; 214; 345-346; 412 Seneca 238; 244; 247; 253-254; 259 n. 86; 295; 316-317; 444; 468 Sentino 390 Servio 227; 244; 284; 312 Servio Tullio 72; 74; 79-80; 475; 477-478 della Seta, Lombardo 434; 436 n. 20; 444 Sforza, Bianca Maria 374-375 Sforza, Galeazzo Maria 374-375 Sibilla 76 Sicinio, T. 82 Siface 485-487 Silio Italico 110; 379 silva Litana 171 Simone d’Arezzo 280 Siracusa 86; 345-346 spoglie di guerra 88-89; 184-187; 189; 198 Siria 121 Sisto IV, papa 379 Sloterdijk, Peter 401-419 Sofonisba 487 Sora 198 Spagna 84; 107; 125 Sparta 59 Stazio 433 n. 10 Stoicismo 101; 121 storiografia moderna 53-54; 56; 92-93 Strabone 121
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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Ubertino da Carrara 433; 467 n. 9 Uguccione da Pisa 284 n. 55
Strozzi, Piero 364; 368 n. 37; 373 n. 47 Subirani, Raimondo 272 Sustris, Lambert 473 Svetonio 255; 312; 325 Tacito 139; 141; 150; 238; 250 Talamone (battaglia) 171 Tanaquil 79; 88 Tannetum 171 Taranto, bottino di guerra 89; 186 n. 21; 187-188; 198-199 Tarquini 69; 401; 415; 478 Tarquinio, S. 407; 412 Tarquinio Collatino, L. 407; 478 Tarquinio Prisco 88; 184 Tarquinio il Superbo 90; 184; 195 n. 62; 389; 407 Tellus, tempio 192 Teodora 229 Teodorico 228 Teodosio 232 n. 33 Teodulo 241; 242 Teofilatto 229 Teolo 473 n. 29 Terenzio Varrone, G. (cos. 216 a.C.) 10; 18; 71; 97-114 terza guerra macedonica 60 Tiberio (imperatore) 248 Timagene 119-120 Timoteo 127 Tirone 295 Tito Tazio 77; 476 n. 42 Tolomeo V Epifane 239 Tolomeo da Lucca 271 Tommaso d’Aquino 379; 403 Torelli, Filippo 364 Torres, Duilio 518 Tours 221-222 Traiano 125; 475 n. 34 Trasimeno (battaglia) 106-108 Trebbia (battaglia) 109 n. 33 Trevet, Nicola 14; 22; 243-245; 254; 257; 259-260 Trogo 124-125; 141; 238; 310 Tucidide 53; 58; 86; 127-129; 253 n. 69
Valerio Anziate 27 n. 1; 30; 32; 117; 129; 311 Valerio Massimo 270; 274-275; 310; 324-325; 475 Valerio Massimo Messala, M’. (cos. 263 a.C.) 192 Valerio Messalla Corvino, M. (cos. suff. 31 a.C.) 141; 239-240 Valla, Lorenzo 226 n. 17; 279-283; 324; 330; 330 n. 20; 343; 346-349; 351; 379 da Valle, Andrea 473 n. 30 Vallot, Virgilio 519 de Valois, Jean, duca di Berry 363; 366 Varrone 119 n. 12; 192; 295; 299; 303; 312-313; 317; 474 Veio 70; 81-82; 84; 91; 148; 197 Venere 119 Viliaric 228 Villa dei Vescovi (Padova) 473 Vincenzo di Beauvais 239-242; 273 Vipsanio Agrippa, M. (cos. 37, 28, 27 a.C.) 81 n. 17; 152 Virgilio 73; 75 n. 5; 78; 82 n. 19; 84; 119; 125; 189 n. 41; 224; 227; 240; 255; 283; 283 n. 49; 295; 313; 379; 434 n. 12; 466; 466 n. 6; 482; 487; 500 virtus 80; 130; 187 n. 26; 191; 390; 432; tempio 185 nn. 16 e 17; 187 Visconti, Filippo Maria 365 Xanto di Lidia 124 Zabarella, Francesco 444 Zabarella, Giacomo 477 Zama (battaglia) 86 Zanobi da Strada 269 Zelotti, Giovan Battista 480 Zeus vd. Giove Zoppo, Agostino 471
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ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI
ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI
Andrea Alciato Amicitia etiam post mortem durans, da Emblematum libellus, Paris 1542, c. 40 484 (A. Pattanaro, Fig. 11) Andriolo de Sanctis Ritratto di Tito Livio, Padova, Palazzo della Ragione 467 (A. Pattanaro, Fig. 1) Arturo Martini disegno, 1942, da ‘Padova e la sua provincia’, n. 5, anno XXIX, maggio 1983, p. 8 505 (G. Bianchi, Fig. 3) Tito Livio, 1941, bozzetto, bronzo, collezione privata 498 (G. Bianchi, Fig. 1), 499 (G. Bianchi, Fig. 2) Tito Livio, 1941, bozzetto, gesso, distrutto 507 (G. Bianchi, Fig. 4), 509 (G. Bianchi, Fig. 5) Tito Livio, 1942, marmo di Carrara, atrio del Liviano, Padova 512 (G. Bianchi, Fig. 7) (autore ignoto) Titolo Livio, post 1420, Palazzo della Ragione, loggia nord porta orientale, Padova 512 (G. Bianchi, Fig. 6) Domenico Campagnola Allegoria liviana, Padova, Casa degli Specchi (da L. Grossato 1966) 472 (A. Pattanaro, Fig. 3) Jacopo di Paolo Amulio in trono; Rea Silvia stretta dalle guardie; i due gemelli recati al fiume; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 2v 431 (Z. Murat, Fig. 5)
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ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI
Fondazione di Roma; De viris illustribus, Universtitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 4v 431 (Z. Murat, Fig. 6) Ingresso trionfale di Publio Cornelio Scipione a Roma; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 53r 429 (Z. Murat, Fig. 4) Polistrato incontra Dario alla sorgente; De viris illustribus, Universitätsund Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 20r 443 (Z. Murat, Fig. 8) Polittico Bolognini, particolare con L’arrivo dei Magi; Bologna, Basilica di San Petronio, Cappella Bolognini (Cappella dei Magi) 443 (Z. Murat, Fig. 9) Ritratto di Petrarca nello studio; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 1v 427 (Z. Murat, Fig. 2) Romolo comunica a contadini e soldati la sua determinazione; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 3v 432 (Z. Murat, Fig. 7) (miniatore toscano) Trionfo della Gloria; De viris illustribus, Universitäts- und Landesbibliothek di Darmstadt, ms. 101, f. 2r 426 (Z. Murat, Fig. 1) (pittore bolognese) Ritratto di Petrarca nello studio; Padova, Sala dei Uomini Illustri 428 (Z. Murat, Fig. 3) (scultore padovano) Titus Livius Patavinus, bronzo, sec. XVI 473 (A. Pattanaro, Fig. 4) Stefano dell’Arzere Allegoria della fortezza, Padova, Musei Civici 480 (A. Pattanaro, Fig. 8) Allegoria della fortezza, Padova, Musei Civici (dettaglio) 483 (A. Pattanaro, Fig. 10) Allegoria della temperanza, Padova, Musei Civici 480 (A. Pattanaro, Fig. 7) Allegoria della temperanza, Padova, Musei Civici (dettaglio) 481 (A. Pattanaro, Fig. 9) Continenza di Scipione: Siface trascianto in catene e scortato dalle truppe inneggianti, Padova, Musei Civici 479 (A. Pattanaro, Fig. 5) Continenza di Scipione: Siface trascianto in catene e scortato dalle truppe inneggianti, Padova, Musei Civici (dettaglio) 479 (A. Pattanaro, Fig. 6) Titus Livius Patavinus Historicus duobus libris auctus: cum L. Flori epitome [...], Venezia, Melchiorre Sessa, 1520 (frontespizio) 469 (A. Pattanaro, Fig. 2)
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