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Italian Pages 332 [336] Year 2019
ADRIANA D’ARIENZO GIORGIO SAMORINI TERAPIE PSICHEDELICHE Dal paradigma psicotomimetico all’approccio neurofenomenologico
Gli studi moderni volume 2
© 2019 ShaKe ShaKe Edizioni vicolo Calusca 10/E - 20123 Milano ISBN ebook: 9788888865416
Alla memoria di Vittorio Erspamer scopritore della serotonina
CAPITOLO 7
LA NUOVA FASE DELLE TERAPIE PSICHEDELICHE
Il cambio di paradigma mediatico A parte le rare eccezioni che abbiamo indicato,1 dopo il 1972 gli psichedelici sparirono dagli ospedali e reparti psichiatrici di tutto il mondo. Ripresero timidamente e silenziosamente a rifarsi vivi agli inizi del 2000, con gli studi clinici di Francisco Moreno, che all’Università dell’Arizona somministrò la psilocibina a soggetti affetti da disordine ossessivocompulsivo, e quelli di Charles Grob, che presso la Harbor-UCLA di Los Angeles somministrò psilocibina ai malati terminali.2 Questi primi passi di quella che di lì a poco si sarebbe mostrata una vera e propria nuova fase delle terapie psichedeliche (TP), erano stati preceduti da una ripresa degli studi farmacologici e neurofarmacologici degli psichedelici sviluppati su soggetti sani, fra cui ricordiamo quelli di Rick Strassman con il DMT presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università del New Mexico di Albuquerque (iniziati nel 1990 e pubblicati nel 1994-96), e quelli dell’équipe di Franz Vollenweider, che a metà degli anni ‘90 intraprese studi con la psilocibina presso l’Ospedale Psichiatrico di Zurigo (Vollenweider et al., 1997, 1998a). Osservato da chi aveva partecipato attivamente alla fase precedente delle TP, Ronald Sandison (1916-2010) aveva una visione pessimista sul futuro dell’impiego terapeutico degli psichedelici, ritenendo che “il grande ostacolo per qualunque riesumazione della terapia con LSD risiede nel fatto che viviamo ora in un mondo differente, respiriamo aria differente da quella di quei notevoli tempi” (Sandison, 1997: 82-3), intendendo per “notevoli tempi” quelli della ricerca degli anni ‘60, e manifestando in quest’analisi i limiti di
una romantica nostalgia. Albert Hofmann manifestava un maggior ottimismo nei confronti di ciò che definì il “suo bambino difficile” (l’LSD): Credo che se la gente apprenderà più saggiamente a usare la capacità dell’LSD di indurre una visione, in condizioni adeguate, nella pratica medica e insieme alla meditazione, allora in futuro questo bambino difficile potrà diventare un bambino meraviglioso (Hofmann, 1980: xiii).
Osservato dai protagonisti della fase moderna delle TP, David Nichols, chimico farmacologo che ha sintetizzato e studiato numerosi psichedelici ed empatogeni, ritiene che nel prossimo futuro la psicoterapia con psichedelici verrà insegnata come ramo della psichiatria, possibilmente denominato “medicina psichedelica” (Puente, 2017: 113). Rick Doblin – fondatore dell’organizzazione MAPS (si veda oltre) – è convinto che da qui a dieci anni diverse sostanze psichedeliche ed empatogene saranno normalmente prescritte come medicine per specifiche patologie. Anche il chimico farmacologo spagnolo Jordi Riba, che sta sviluppando importanti studi con l’ayahuasca, è ottimista sulla fiorente ricerca clinica: “ci sono sempre più persone disposte ad ascoltare e a dire ‘perché non provare?’”, sebbene abbia timore che le “lobby a favore dell’uso personale degli psichedelici” vogliano sfruttare i risultati positivi della ricerca clinica per giustificare l’uso ludico di queste sostanze: “se si ripresentasse nuovamente un impiego ludico smisurato degli psichedelici, si potrebbe ripresentare una reazione da parte delle istituzioni governative”.3 Potremmo tranquillizzare Riba facendo osservare che l’impiego degli psichedelici nella società occidentale, che piuttosto che aggettivarlo come “ludico” sarebbe meglio indicare come “non medico”, è già “smisurato” da decenni – basti osservare, come unico dato epidemiologico che poniamo all’attenzione, che su un campione di 190.000 adulti statunitensi intervistati nel periodo 2008-2012, oltre 27.000, e precisamente il 13,6% ha riportato di usare psichedelici (Hendricks et al., 2015a) – e che proprio l’impiego di queste sostanze da parte di generazioni di professionisti e di intellettuali, e non tanto e solo di hyppie, ha portato a una riduzione di quella percezione sociale degli psichedelici come sostanze pericolose e demoniache che era stata inculcata nel periodo in cui furono messe al bando, contribuendo di fatto al cambio di paradigma mediatico e sociale che ha permesso lo sviluppo delle nuove TP.4 Riguardo il nuovo paradigma mediatico, che ha visto una vera e propria
“conversione mediatica” alla causa dell’impiego terapeutico degli psichedelici, e che ha potuto beneficiare del precedente e più imponente cambio di paradigma nei confronti della cannabis, è sorprendente, e forse anche un po’ esagerato, se si osserva come a ogni più piccolo studio o anche solo progetto inerente l’impiego di uno psichedelico per una determinata patologia, facciano immediatamente eco articoli giornalistici, nelle classiche modalità sensazionalistiche, che rimbalzano in tutte le lingue da un capo all’altro del mondo. Lo psicologo clinico spagnolo José Carlos Bouso (con dottorato in farmacologia), promotore di nuovi studi sull’ayahuasca e sulla MDMA, con un approccio fra il critico e l’ironico parla di situazione mediatica “allucinante”: A volte penso che si stanno pubblicizzando in maniera un po’ troppo sproporzionata i risultati [delle nuove TP], che sono per il momento molto preliminari [...]. Siamo inondati di conferenze sugli psichedelici, e penso che ciò sia una buona cosa, sebbene si tratti di conferenze per la ‘comunità psichedelica’ e manchi ancora la presentazione di questi studi in ambienti più formali. La ricerca sulle droghe ha sempre prodotto molta propaganda dei media, esagerando i danni che producono le droghe, esagerando cose che negli studi non si trovavano. Ora sta accadendo la stessa cosa ma al contrario, i media stanno esagerando su benefici che negli studi non sono stati trovati. È allucinante (Bouso, in Puente, 2017: 261).
Si sta assistendo a una “corsa” agli interessi per gli psichedelici anche negli ambienti scientifici e accademici, dove riviste prestigiose fanno a gara nel pubblicare articoli, o addirittura fascicoli interi dedicati al tema degli psichedelici, e dove agli ancor scarsi studi clinici seguono discussioni, rassegne storiche e rassegne delle rassegne, meta-analisi e analisi delle metaanalisi, interviste e “backstage”. In altri termini, anche la moderna ricerca farmacologica e clinica degli psichedelici subisce quella spettacolarizzazione tipica delle mode e modalità comunicative attuali. Perfino alcuni medici australiani hanno recentemente reclamato la necessità di programmare ricerche cliniche con gli psichedelici nel quinto continente, onde evitare il rischio di restare indietro a paesi quali gli USA, il Canada, la Svizzera, Israele e perfino la vicina Nuova Zelanda: “è giunta l’ora per la psichiatria australiana di partecipare al party” (Strauss et al., 2016: 1037). Sia nel passato che oggigiorno v’è chi ha espresso sfiducia nella possibilità di sviluppo delle terapie psichedeliche, per via del probabile disinteresse da parte di chi muove sempre più il mondo della medicina occidentale, e cioè le case farmaceutiche, nei confronti di sostanze ormai “sdoganate” e addirittura controproducenti per i loro interessi economici.
Detto nelle parole del neurofarmacologo indiano Varsha Dutta, “ciò che scoraggiò l’uso degli psichedelici fu che le compagnie farmaceutiche non ci guadagnavano, dato che non c’erano dei brevetti e non richiedevano un impiego regolare. Poche sessioni terapeutiche erano sufficienti, e a volte un singolo viaggio LSD poteva cambiare la vita di un uomo” (Dutta, 2012: 340). La psicologa Alicia Danforth, che ha lavorato nell’équipe di Charles Grob nello studio clinico con somministrazione di psilocibina nei malati terminali, ha evidenziato questo problema che sarebbe ancora attuale, cioè il rischio che le case farmaceutiche non desiderino che gli psichedelici portino a una riduzione delle vendite degli inibitori della serotonina e di altri psicofarmaci di largo impiego psichiatrico, e che per questo potrebbero opporsi e ostacolare le nuove TP.5 Ma v’è chi fa notare come questo ostacolo non si sia in realtà presentato con un altro farmaco “da strada”, la cannabis, per la quale il volume delle attuali ricerche cliniche – anche queste accompagnate dal reverbero di rassegne, meta-analisi e spettacolarizzazione – è impressionante ed evidentemente non ostacolato da interessi delle case farmaceutiche, che solo apparentemente parrebbero venire intaccati dalle multiple applicazioni terapeutiche della canapa.6 Parrebbe come se a smuovere gli interessi (e i finanziamenti) nei confronti della canapa e degli psichedelici vi siano altri fattori che non soggiaciono ai ferrei meccanismi del mercato farmaceutico. I medesimi medici australiani riportati poco sopra e che hanno reclamato l’urgenza di “partecipare al party”, hanno indicato la filantropia come uno dei fattori che sta muovendo questa nuova ondata di interessi. È una considerazione plausibile, verificato che, come vedremo a breve, pressoché tutti i nuovi studi clinici con gli psichedelici sono per il momento finanziati da istituzioni private; accanto alla filantropia, aggiungiamo il fattore della moda, un fenomeno sociale e psicologico che filtra, amplifica, distorce e comunque trasporta o forse meglio “trascina” le novità di tutti gli ambiti della società occidentale globalizzata.
Il problema della patologicizzazione degli stati modificati di coscienza A parte questi aspetti sociali in cui sono coinvolte le nuove TP, per
spianare in maniera stabile la strada verso l’impiego psichiatrico degli psichedelici si dovrebbe affrontare un grosso ostacolo, che non riguarda le TP ma le fondamenta teoriche e fors’anche esistenziali della psichiatria, e cioè la patologicizzazione degli stati modificati di coscienza: La società occidentale patologicizza tutte le forme di stati modificati di coscienza, a eccezione dei sogni che non siano ricorrenti o incubi, e spende molto tempo per sviluppare modi effettivi per sopprimerli quando questi accadono spontaneamente, e tende a illegalizzare strumenti e contesti a questi associati. La psichiatria occidentale non fa distinzione fra esperienza mistica ed esperienza psicotica, e vede entrambe manifestazioni di malattia mentale. Questo approccio ha patologicizzato l’intera storia spirituale dell’umanità (Grof, 2010: 13).
Sin dalle sue origini, nel XVIII secolo, la psichiatria moderna ha considerato patologico qualunque stato visionario, esclusi i sogni; un postulato così implicito e “scontato”, non solo da non dovere essere discusso, ma da non essere nemmeno consapevolizzato. Un postulato e la cecità di un postulato che la psichiatria ha ampiamente riversato nella psicoanalisi freudiana. Non è questa la sede per sviluppare un’estesa disamina circa la genesi di un tale postulato; indichiamo solamente, in accordo con altri studiosi di diverse discipline scientifiche e umanistiche, come principale fattore di patologicizzazione dell’esperienza visionaria la lotta teorica e pratica sviluppata in Europa nei secoli medievali e soprattutto rinascimentali dal potere religioso monoteista dominante, nei confronti di tutte le forme “pagane” di modificazione dello stato di coscienza, esperite internamente a riti di natura estatica e sciamanica; riti che – come ha evidenziato il brillante studio di Carlo Ginzburg (1989) – furono trasformati e reinventati dall’Inquisizione, sia concettualmente che praticamente, nel fenomeno della “stregoneria”. In ultima analisi, la causa originaria risiede nella negazione dell’esperienza individuale visionaria e di modificazione dello stato di coscienza, stabilita per secoli dalla religione dominante; una negazione che è passata come idea normalizzata nella società dominante e ha raggiunto la psichiatria e la psicoanalisi moderne. Ricordando che lo sciamano è da vedere come il fondatore delle terapie psichedeliche, in un articolo degli inizi del terzo millennio riproposto in diversi ambiti editoriali e che ha come tema la rivisitazione critica degli sbagli del passato, lo psichiatra statunitense Charles Grob riconosce come primo fattore eziologico degli “sbagli del passato” la lotta secolare alle forme
di sciamanesimo europee, ritenendo che: andare oltre il comune punto di vista psichiatrico che lo sciamanesimo altro non è che primitivismo e una sorgente preistorica di malattie mentali, permetterebbe l’acquisizione dell’apprendimento da un paradigma che ha incorporato per migliaia di anni l’impiego di allucinogeni come un risvolto vitale di sistemi di credenza e di pratiche di cura [...]. È imperativo che diveniamo consapevoli delle variabili farmacologiche critiche che sappiamo essere integrali al modello sciamanico. Ampia attenzione e sensibilità deve essere data alla preparazione dell’esperienza allucinogena, agli effetti a forte aspettativa diretti verso predeterminati fini terapeutici, alla struttura formalizzata della seduta e all’integrazione dell’esperienza dello stato modificato nei giorni, settimane e mesi che seguono l’esperienza. La mancanza di adesione a qualunque di questi aspetti del paradigma sciamanico porterebbero a privare la ricerca con gli allucinogeni dell’opportunità di verificare il suo pieno valore Grob (2002b: 282)
Uno psichiatra organicista o uno psicoanalista di formazione freudiana potrebbe avere difficoltà di comprensione del concetto di “paradigma terapeutico sciamanico”, lo potrebbe trovare inconcepibile e privo di senso, e facilmente giungerebbe a una sua valutazione denigratoria, allo stesso modo in cui denigra – più o meno occultamente – la psicoanalisi transpersonale. Resta il fatto che dietro a questi “occultismi” continua a esserci quella lotta e negazione degli stati modificati di coscienza originata molti secoli fa; una lotta di idee ma anche di potere, e che rappresenta quel “grosso ostacolo” che abbiamo indicato e che, partendo dalle fondamenta teoriche della psichiatria, coinvolge inevitabilmente l’accettazione medica e sociale delle terapie psichedeliche.
La pericolosità degli psichedelici Un altro aspetto che si deve affrontare prima di descrivere le TP moderne è la questione della pericolosità degli psichedelici nell’impiego clinico; una pericolosità che era stata “dimostrata” da decine di studi datati agli anni ‘60, concretizzata nel riscontro di abnormalità cromosomiche e rischi teratogeni, oltre che di rischi psicologici in termini di crisi di violenza e suicidabilità; studi che contribuirono a giustificare la messa al bando di queste sostanze e soprattutto il loro collocamento nella Lista 1 invece che nelle Liste 2, 3 o 4 della legislazione statunitense. Riteniamo che sia un atto dovuto ripartire dall’acclamazione di questo tipo di danni fisici, poiché l’opinione della pericolosità degli psichedelici divenne un luogo comune su cui si sono formate generazioni di psichiatri e psicologi,
e che continua a essere ampiamente diffusa nella comunità medica e più in generale scientifica. In una recente analisi delle attitudini degli psichiatri statunitensi nei confronti degli psichedelici, quasi il 50% ancora crede che il loro impiego aumenti il rischio di menomazioni cognitive a lungo termine, e il 25% li ritiene non sicuri anche se sotto supervisione medica (Barnett et al., 2018). Sospettiamo che presso la comunità scientifica italiana queste percentuali siano ancor più elevate. Riguardo i supposti danni cromosomici e teratogeni degli psichedelici, potrebbe essere sufficiente puntualizzare che i relativi studi degli anni ‘60, lungi dall’essere unanimi, furono accompagnati da altrettanti studi che non ne confermavano l’evidenza, e che l’accesa diatriba si trasformò in una sterile polemica dettata da interessi politici e sociali, dove a pregiudicare i risultati e le osservazioni scientifiche si aggiunse, accanto alla malafede, l’effetto sixties.7 Si potrebbe tutt’al più esternare una bonaria lamentela, per la carenza di una serena critica e decisa presa di posizione nei confronti di questi studi da parte della moderna comunità scientifica che si occupa delle nuove TP. Riguardo i danni fisici attribuiti all’LSD riscontrati negli studi datati, David Nutt (2016: 1163) considera questi “cosiddetti risultati” molto dubbi, senza tuttavia esporre una disamina approfondita – che la sua competenza in materia di farmacologia degli psichedelici avrebbe potuto permettere – e si limita a osservare come la psilocibina fu ingiustamente accodata all’LSD nel processo di aggettivazione di pericolosità fisica di queste sostanze, poiché per questa molecola d’origine fungina non furono eseguite a quei tempi ricerche specifiche a riguardo. La psilocibina è uno degli psichedelici di prima scelta nei moderni studi clinici, e uno dei motivi, fra quelli esaminati a tavolino, è stata la constatazione di una sua reputazione sociale e mediatica meno negativa rispetto a quella dell’LSD.8 Inoltre, la sua tossicità fisica è estremamente bassa, come evidenziato dall’impiego tradizionale dei funghi psilocibinici e da alcuni recenti studi farmacologici. Fra questi, citiamo quello sviluppato dall’équipe svizzera di Franz Vollenweider, che a 8 soggetti sani ha somministrato vari dosaggi di psilocibina, in modalità di placebo e doppiocieco, misurando diversi parametri psicologici e farmacologici. È stata osservata una bassa tossicità fisica e bassi rischi psicologici, concludendo che la psilocibina può essere somministrata in terapia. L’unica controindicazione fisica riguarda problemi cardiovascolari, poiché la psilocibina aumenta temporaneamente la pressione sanguigna (Hasler et al., 2004). In uno studio
successivo, svolto all’Università di Madison (Wisconsin, USA), è stata somministrata psilocibina a 12 volontari sani con dosi progressive di 0,3, 0,45 e 0,6 mg/kg, date a un mese di distanza l’una dall’altra. Lo studio farmacocinetico ha osservato come meno del 2% della psilocibina9 presente nel plasma venga espulsa nelle urine; un risultato che suggerisce un carico renale minimo, tale da considerare poco rischiosa la somministrazione della psilocibina a soggetti affetti da disfunzioni renali lievi. Inoltre, anche con l’elevata dose di 0,6 mg/kg – una dose superiore a quelle impiegate per fini terapeutici – non sono state registrate complicazioni fisiche né psicologiche sino a un mese dopo la somministrazione dello psichedelico (Brown et al., 2017). Uno studio retrospettivo promosso dall’équipe di Vollenweider, che ha analizzato la salute fisica e mentale di 110 volontari sani che si erano sottoposti a somministrazione di psilocibina nel contesto di otto studi clinici sviluppati fra il 1999 e il 2008, e con un follow-up di 8-16 mesi dall’ultima somministrazione, non ha rivelato conseguenze negative postume di alcun tipo (Studerus et al., 2011). Per quanto riguarda l’impiego tradizionale delle fonti vegetali psichedeliche, fino ad oggi tutti gli studi farmacologici hanno dimostrato la sicurezza dell’ayahuasca, e osservazioni su individui che l’hanno assunta per più di 30 anni non hanno evidenziato conseguenze per la salute (Riba et al., 2003). Una prima ricerca fra i consumatori tradizionali di ayahuasca – ricerca scarsamente riferita in letteratura – è stata condotta dall’équipe dell’antropologo catalano Josep M. Fericgla, che agli inizi degli anni ‘90 ha svolto un esteso studio etnografico sul campo presso gli Shuar dell’Ecuador (Fericgla, 1994). Durante gli anni 1992-1993 e in collaborazione con gli psichiatri Joan Obiols e Jorge Atala, e la psicologa Mireira Recasens, Fericgla ha analizzato un campione di 113 individui shuar con età compresa fra 21 e 40 anni, scelti a random fra sei comunità della foresta amazzonica ecuadoriana. Mediante l’impiego di due strumenti metrici10 e incrociando i risultati con i dati statistici di consumo dell’ayahuasca, l’équipe catalana ha osservato una significativa correlazione fra il livello di salute mentale e la maggior esposizione alla bevanda (Fericgla, 1997: 95-97). Nel 1993 fu sviluppata un’altra più nota indagine sul campo dall’équipe di Charles Grob (Grob et al., 1996), focalizzata sui consumatori di ayahuasca
appartenenti al movimento religioso brasiliano della UDV, e per la quale rimandiamo al capitolo 11 (paragrafo “L’ayahuasca nelle dipendenze”). In un più recente studio longitudinale sull’impatto dell’uso di ayahuasca continuato su un lungo periodo di tempo sul benessere psicologico generale, sono stati valutati diversi aspetti: l’impatto psicologico, l’influenza sul benessere, sulla cognizione e sulla salute mentale, le modificazioni delle performance neuropsicologiche e le attitudini di vita, la psicopatologia della personalità. I partecipanti appartenevano a gruppi di diverse chiese brasiliane che usano ayahuasca. Sono stati messi a confronto 127 soggetti utilizzatori abituali di ayahuasca che ne avevano assunto per almeno 15 anni, con una frequenza di almeno due volte al mese (con un totale di assunzioni fra 360 e 1440 volte), con un gruppo di controllo di 115 soggetti appartenenti ad altri gruppi religiosi che non avevano mai assunto ayahuasca o l’avevano assunta al massimo per 5 volte.11 Le valutazioni sono state eseguite, oltre che al tempo zero, anche a un anno di distanza. Fra i risultati, gli utilizzatori di ayahuasca hanno evidenziato migliori performance neurocognitive, migliori adattamenti psicosociali, una ridotta comparsa di sintomi psicopatologici rispetto al gruppo di controllo, e nessuna alterazione patologica in tutti gli aspetti studiati. A un anno di follow-up, un piccolo numero di partecipanti ancora disponibili all’intervista conservava le differenze osservate rispetto al gruppo di controllo. Non sono stati evidenziati peggioramenti psicologici, deterioramenti della salute mentale o danni cognitivi nel gruppo degli utilizzatori di ayahuasca (Bouso et al., 2012). Da quanto emerso da uno studio comparato su 40 membri di una comunità dell’UDV, l’uso dell’ayahuasca in un contesto religioso parrebbe prevenire disturbi psicologici in età adolescenziale (Da Silveira et al., 2013). Inoltre, gli effetti dell’ayahuasca sulle valutazioni psicometriche di ansia, panico e disperazione sono stati studiati su un gruppo di membri del Santo Daime che avevano assunto ayahuasca da almeno 10 anni. Lo studio, effettuato in una chiesa del Santo Daime e in condizioni di controllo, ha mostrato come l’ayahuasca sia in grado di ridurre il punteggio delle scale per panico e disperazione, senza modificare il tratto ansia (ma nessuno dei partecipanti presentava una storia di disturbi d’ansia). Questi risultati hanno fatto ipotizzare un suo possibile utilizzo per alleviare i segni di disperazione e quelli simili al panico (Santos et al., 2007). Citiamo ancora l’indagine sul campo sviluppata dall’équipe statunitense di John Halpern, volta allo studio degli effetti a lungo termine dell’assunzione
di peyote fra i membri della Chiesa Nativa Americana (NAC). Questa ricerca è stata svolta su 61 membri della NAC appartenenti all’etnia dei Navajo, insieme a un gruppo di paragone di 36 individui ex-alcolisti e a un gruppo di controllo di 79 individui non assuntori di droghe, tutti appartenenti alla medesima etnia. I membri della NAC furono scelti fra quelli che avevano assunto il peyote almeno 100 volte nella loro vita. Con l’impiego di alcune scale metriche – fra cui l’RMHI (Rand Mental Health Inventory), il WRAT-3 (Wide Range Achievement Test-3), e l’Alcol-Sensor IV –, non è stata osservato alcun deficit residuale psicologico né neuropsicologico fra i consumatori di peyote, mentre furono osservati deficit residuali nel gruppo degli ex-alcolisti (Halpern et al., 2005). Anche dal punto di vista dei rischi psicologici presso gli utilizzatori occidentali di psichedelici in contesti non clinici, recenti studi stanno evidenziando un livello di pericolosità minore di quella che per decenni è stato riportato, se non addirittura dei benefici, senza volere con ciò assolutamente sottovalutare i pericoli concreti, specie in contesti di abuso e di uso inappropriato di queste sostanze. Citiamo come esempio un’indagine svolta su oltre 130.000 adulti statunitensi, dei quali oltre 20.000 sono utilizzatori di psichedelici, e in cui non è stata osservata alcuna correlazione significativa fra l’impiego di queste sostanze e aumento di problemi di salute mentale, mentre, al contrario, è stata osservata una correlazione significativa fra l’uso di psichedelici e un basso grado di problemi di salute mentale. In altri termini, chi impiega psichedelici, evidentemente nelle condizioni appropriate, parrebbe essere a minor rischio di problemi mentali rispetto a chi non li usa o a chi usa altri tipi di droghe (Krebs e Johansen, 2013). In un altro sondaggio svolto su 190.000 adulti statunitensi, di cui oltre 27.000 utilizzatori di psichedelici, è stato osservato come l’impiego di queste droghe fosse associato a una riduzione della probabilità di insorgenza di angoscia psicologica nell’ultimo mese, e di riduzione di pensiero, programmazione e tentativo di suicidio nell’ultimo anno. Tali riduzioni di “probabilità suicidarie” sono risultate ancor più significative fra la popolazione che ha impiegato unicamente le fonti psilocibiniche come psichedelico prescelto. Questi risultati hanno suggerito la possibilità che “gli psichedelici classici possano essere promettenti nella prevenzione del suicidio” (Hendricks et al., 2015a,b). Infine, un recentissimo studio promosso dalla ICEERS12 ha valutato lo stato di salute fisica e psichica di 380 partecipanti a cerimonie di ayahuasca
nel territorio spagnolo. Il 67,5% dei soggetti erano partecipanti a cerimonie neo-sciamaniche, e il 32,5% erano devoti del culto religioso del Santo Daime. Circa il 30% aveva assunto l’ayahuasca più di 100 volte durante la loro vita, mentre circa il 34% da una a 10 volte. L’originalità di questo studio risiede nella tipologia di strumenti valutativi, espressi in questionari appositamente creati e che per la prima volta hanno valutato lo stato di salute pubblica e di benessere del soggetto, senza quindi impiegare i questionari volti alla valutazione degli aspetti patologici. Lo stato generale di salute, lo stile di vita e il tipo di supporto sociale sono apparsi migliori rispetto a quelli della popolazione generale (Ona et al., 2019).
Il contributo delle fondazioni private Come abbiamo già accennato, una peculiarità dei nuovi studi clinici – di cui diversi sono ancora a uno stadio preliminare – sono finanziati in toto o co-finanziati da istituzioni private che sono state fondate negli anni ‘80-’90 con lo scopo specifico di promuovere la ricerca scientifica di psichedelici, empatogeni e cannabis. Una di queste è la statunitense Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS), fondata da Rick Doblin nel 1986. L’obbiettivo iniziale di quest’associazione senza scopi di lucro era quello di convertire l’MDMA da droga nella Lista 1 (quindi senza alcuna utilità medica) a farmaco prescrivibile per alcune patologie, e dopo oltre 30 anni di estenuanti percorsi burocratici, di raccolta di fondi e di finanziamenti di studi clinici di Fase 1 e 2, questo traguardo – che era stato considerato da tanti impossibile – è in procinto di essere raggiunto, essendo questo percorso entrato nella Fase 3 della sperimentazione. Nel frattempo gli interessi di MAPS si sono rivolti ad altre sostanze psichedeliche, e attraverso il suo Bollettino quadrimestrale quest’associazione è diventata la principale sede di informazione su tutto ciò che accade nel mondo riguardo i progetti e gli studi clinici con queste sostanze. Attualmente MAPS sta finanziando progetti di ricerca medica negli USA, in Canada e in Israele. Nel 1993, sempre negli Stati Uniti, è stato fondato l’Heffter Research Institute da un un gruppo di ricercatori, fra cui David Nichols, Dennis McKenna, George Greer e Charles Grob. Il nome prende da quello di Arthur Heffter, il chimico e farmacologo tedesco che nel 1896 isolò la mescalina dal peyote. L’Heffter ha elaborato e finanziato diversi studi clinici statunitensi,
fra cui quelli riguardanti il trattamento con psilocibina dei malati terminali e delle dipendenze. Un’altra istituzione privata è la Beckley Foundation di Oxfod, in Inghilterra, fondata nel 1998 da Amanda Feilding, un’eccentrica quanto brillante aristocratica (contessa di Wemyss and March, discendente della casa di Asburgo). Insieme al neuropsicofarmacologo David Nutt, dell’Imperial College di Londra, ha dato vita al Beckely-Imperial Research Program, mediante il quale sono state sviluppate diverse ricerche neurofarmacologiche con cannabis, LSD, psilocibina e MDMA. Attualmente anche la Beckley Foundation sta dirigendo gli sforzi nella programmazione di studi clinici con MDMA, LSD e ayahuasca.
Fig. 26 – Loghi delle fondazioni che finanziano buona parte delle ricerche cliniche attuali con psichedelici ed empatogeni.
Alcuni aspetti critici delle nuove ricerche
Nonostante la positività della ripresa degli interessi medici degli psichedelici, dopo un trentennio dettato dall’oscurantismo e da preconcetti di natura morale e politica che hanno limitato la ricerca scientifica, non dovrebbe sorprendere il fatto che, dietro alla cortina di entusiasmo per il cambio di paradigma, si possano presentare aspetti problematici o comunque suscettibili di critica. Uno di questi aspetti è la “teatralizzazione” della ricerca con gli psichedelici che abbiamo esposto all’inizio di questo capitolo; un processo soprattutto mediatico, che viene rafforzato dalla compiacenza o vanità di certi ricercatori. Si tratta di un meccanismo socio-psicologico potenziato dai moderni strumenti di riverbero comunicativo, difficilmente controllabile e al quale non rimarrà forse che rassegnarsi, considerandolo un “effetto collaterale” a cui dare poca importanza. Il problema demagogico Uno spunto critico maggiormente problematico riguarda gli approcci preconcetti, in diversi casi di natura demagogica, che portano a valutazioni superficiali e/o sproporzionate, e comunque non scientificamente obiettive, dei risultati della ricerca con gli psichedelici. Ciò si presenta non solamente dal lato della visione “oscurantista/proibizionista”, ma anche dalla parte opposta, della visione di una certa demagogia “libertaria”. L’opposizione di vedute preconcette – che potremmo definire per comodità terminologica “proibizionista” l’una e “facilona” l’altra – non si manifesta solamente nell’ambito mediatico e in definitiva sociale, ma si continua a osservare purtroppo anche nell’ambito della ricerca e delle pubblicazioni cliniche e accademiche, sebbene con toni maggiormente diplomatici rispetto agli anni ‘60. Diversi di questi contenziosi appaiono evidenti solamente agli addetti ai lavori. Ad esempio, e per citare un solo caso chiarificatore di quanto stiamo esponendo, riguardo gli studi clinici con l’MDMA, che stanno portando questa sostanza da droga di Tabella I (senza alcuna utilità terapeutica e con pericolosità individuale e sociale massima) a utile farmaco per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD, si veda al capitolo 13), accanto ai seri studi preclinici e clinici di Fase I e II svolti in questi ultimi 20 anni, si osserva una pletora di pubblicazioni nelle riviste scientifiche volte, da una parte a evidenziare l’innocuità per l’uomo di questo empatogeno, e dall’altra a evidenziarne la tossicità, con una forzatura dei dati dettata dalle rispettive e opposte visioni demagogiche “facilona” e
“proibizionista”. Nel lavoro di esposizione della moderna ricerca clinica con gli psichedelici, abbiamo vagliato la letteratura scientifica in base ai nostri criteri di obiettività dei dati riportati, e abbiamo deciso di escludere dalla presente trattazione quegli studi che ci sono apparsi palesemente demagogici, non importa da quale lato del confronto demagogico si trovassero. Siamo consapevoli della responsabilità di questo “filtro demagogico” che abbiamo applicato al nostro lavoro, e che abbiamo ritenuto necessario onde evitare il riverbero dell’inutile polemica, permettendo di concentrarci sulle mere metodologie e valutazioni scientifiche. Lo stato visionario come effetto collaterale Questo ulteriore aspetto problematico può essere considerato come una diretta conseguenza dell’approccio culturale demagogico e preconcetto di natura “proibizionista”, e riguarda la valutazione degli effetti visionari degli psichedelici come effetti collaterali di cui sarebbe preferibile poterne fare a meno. Portiamo come esempio quanto esposto da alcuni farmacologi come commento allo studio clinico che l’équipe di Griffiths (2016) ha svolto presso la Johns Hopkins di Baltimora sui malati terminali trattati con la psilocibina nel contesto di terapia tanatodelica (che esporremo nell’ultimo capitolo). Considerati i risultati positivi di questo studio, questi farmacologi hanno espresso l’opinione che “si tratta ora di cercare di eliminare la componente allucinatoria mediante pretrattamento con antagonisti selettivi del 5-HT2a” (McCorvy et al., 2016: 1210); una considerazione che evidenzia quanto questi studiosi siano ignari dell’importanza della componente visionaria (da loro ridotta ad “allucinatoria”) dell’esperienza psichedelica ai fini terapeutici. L’incapacità di distinguere fra visioni e allucinazioni e il biasimo per questo tipo di esperienze pur con finalità terapeutiche, sono espressione di un giudizio morale e non scientifico, dettato dal modello culturale del timore che un individuo possa “vedere cose che non ci sono”, e che qualunque cosa che “si veda e che non c’è” è a priori dannoso e da evitare. La svalutazione della componente visionaria degli effetti degli psichedelici è stata manifestata anche nel caso della ketamina, che è impiegata, fra l’altro, nel trattamento dell’alcolismo e della depressione maggiore, come si vedrà più approfonditamente nei prossimi capitoli. Nel caso della depressione, la maggioranza degli studi ha utilizzato quantità subanestetiche di ketamina, cercando di stabilire una dose alla quale
gli effetti psicoattivi siano tollerabili dalla maggior parte dei soggetti. Alcuni ricercatori si sono chiesti se gli effetti psichedelici potessero essere in qualche modo determinanti per l’efficacia antidepressiva. Una risposta è giunta da uno studio in doppio-cieco su 27 pazienti ospedalizzati con diagnosi di depressione maggiore. La ketamina è stata somministrata alla dose di 0,54 mg/ kg durante 30 minuti, e gli effetti psicoattivi misurati con scale psicometriche. Dai risultati si è potuto osservare che un punteggio più elevato per gli effetti psicoattivi della ketamina era associato a miglioramenti più marcati dei sintomi depressivi. Lo studio ha confermato l’importanza della relazione tra gli effetti psicoattivi della ketamina e quelli antidepressivi; una relazione che è da tenere presente, in quanto l’industria farmaceutica è attualmente alla ricerca di composti analoghi della ketamina ma con minori effetti psicotropi (Sos et al., 2013). Negli anni ‘90 l’equipe russa di Krupitsky sfruttò le proprietà psichedeliche della ketamina per indurre e potenziare il processo terapeutico nel trattamento dell’alcolismo, e dall’osservazione della metodologia e dei risultati ottenuti appare evidente l’imprenscindibilità della componente visionaria, emotiva e di insight. Alcuni studiosi collegano gli effetti terapeutici prevalentemente agli aspetti neurobiologici di questo farmaco, considerando quelli psicoattivi indesiderati e problematici. Tuttavia, se in precedenza la ketamina veniva utilizzata come modello per la psicopatologia, oggi sembra evidente che le qualità neurobiologiche e quelle psichedeliche siano indivisibili nella comprensione dei benefici terapeutici, e questo vale sia per la ketamina che per gli psichedelici serotoninergici (Dakwar et al., 2014). Michael Bogenschutz, che sta conducendo uno dei principali studi clinici nel trattamento dell’alcolismo con psilocibina presso il dipartimento di psichiatria dell’università di Albuquerque (New Mexico), afferma che, sebbene la psicoterapia di accompagnamento possa aiutare gli alcolisti nel rafforzamento della motivazione a smettere di bere, l’analisi dei risultati evidenzia un’efficacia del trattamento direttamente proporzionale all’intensità degli effetti psicologici degli psichedelici, e la correlazione più forte si osserva subito dopo l’esperienza con psilocibina (Bogenschutz et al., 2015a, 2016). Ancora, negli studi clinici dell’interruzione del tabagismo mediante la psilocibina, l’analisi dei risultati ha evidenziato una stretta correlazione dell’interruzione del tabagismo con il fatto di avere esperito esperienze
“mistiche” durante la seduta psilocibinica (Garcia-Romeu et al., 2014). Probabilmente l’approccio ottimale a questo tipo di problema che, come abbiamo indicato, è un problema morale, cioè dipendente dalla formazione morale di chi esprime questi giudizi privi di valore scientifico, è quello suggerito quasi 70 anni fa da Humphry Osmond, e cioè che coloro che non hanno le adatte competenze scientifiche con gli psichedelici, sarebbe meglio che non se ne interessassero (Osmond, 1957: 423). L’interpretazione “spiritualista” Un altro aspetto che riteniamo problematico è l’interpretazione “spiritualista” che continua a essere proposta nella letteratura scientifica da alcune scuole di pensiero, specialmente statunitensi, delle esperienze psichedeliche, in particolare quelle con forti connotazioni estatiche e rivelatrici che, seguendo Maslow (1962), abbiamo preferito denominare esperienze “di picco”, con lo specifico scopo di evitare di denominarle esperienze “mistiche” o “spirituali”. Se da una parte v’è chi ritiene riduttivo considerare le esperienze “mistiche” come esperienze di picco, d’altro canto v’è chi ritiene riduttivo il contrario. Ciò non fa altro che ricalcare la secolare opposizione fra visione religiosa e visione laica della scienza, dove tuttalpiù al posto di visione religiosa si tratterrà di considerare in questo contesto la visione spiritualista, come i partigiani di questa interpretazione tengono a stigmatizzare, e probabilmente a ragion veduta. Pur ritenendo valide le distinzioni fra religione e spiritualità, resta a nostro avviso indubbio che anche la spiritualità è un’interpretazione di tutto un insieme di fenomeni, incluse certe esperienze psichedeliche; un’interpretazione del resto resa confusa dalle diversità di vedute interpretative e dall’eterogeneità d’impiego di questo concetto, al punto da averlo reso comunque sfuocato e quindi inadatto. Indicativo a tal riguardo è l’insieme di opinioni espresse da 15 volontari sani che all’Imperial College di Londra sono stati sottoposti a un’esperienza con psilocibina per uno studio con fMRI (risonanza magnetica funzionale). Alle domande dei questionari del tipo “L’esperienza ha avuto qualità mistiche?”, “L’esperienza ha avuto qualità spirituali”?, “L’esperienza ha avuto qualità magiche o sovrannaturali”?, sei soggetti hanno riportato difficoltà nel differenziare fra i termini “mistico”, “spirituale”, “magico”; tre soggetti hanno descritto la loro esperienza come mistica ma non spirituale, sei hanno descritto la loro esperienza come qualcosa che potrebbe avere avuto
per loro un significato spirituale se fossero stati inclini a interpretarla in questa maniera; tre soggetti hanno spiegato che il loro personale punto di vista della spiritualità o del misticismo riduceva la probabilità di interpretare l’esperienza in questo modo, rifiutando quindi queste categorie proposte dall’interlocutore (Turton et al., 2014). Appare evidente la forzatura da parte dei ricercatori di voler fare inquadrare la descrizione delle esperienze soggettive sulla base dei sistemi interpretativi preferenziali dei medesimi ricercatori. Per questo medesimo motivo, riteniamo diverse scale metriche utilizzate oggigiorno negli studi clinici con gli psichedelici, che esporremo nel prossimo capitolo, inficiate dalla forzatura interpretativa spiritualista. Senza dilungarci ulteriormente in questa diversità di vedute, noi abbracciamo un approccio “non interpretazionista” e comunque non spiritualista delle esperienze psichedeliche; seguendo un concetto presentato nel primo volume,13 preferiamo indirizzarci verso un “paradigma postspiritualista”, che concepisca la possibilità di non ridurre il valore delle esperienze psichiche rivelatorie di qualunque tipo e potenza, senza passare dall’interpretazione spiritualista e mistica. Anche altri studiosi, soprattutto delle scuole europee, stanno esprimendo simili critiche. José Carlos Bouso, che ha sviluppato studi sull’ayahuasca, è piuttosto esplicito a riguardo: Si stanno sacralizzando eccessivamente queste sostanze, e se non ti ci avvicini con una prospettiva spirituale ti guardano strano. Ci siamo lasciati influenzare dalla prospettiva nordamericana, dove queste sostanze si intendono dalla prospettiva spirituale, e stiamo perdendo la tradizione europea più filosofica, più ontologica, più profonda di una semplice esperienza di picco (Bouso, intervista in Puente, 2017: 262).
Robin Carhart-Harris, psicofarmacologo dell’Imperial College di Londra che sta guidando importanti ricerche cliniche con l’LSD e altre sostanze psichedeliche, ritiene che l’impiego del termine “mistico” sia “particolarmente problematico, in quanto crea un’associazione con il soprannaturale che può creare ostruzione o essere antitetico al metodo scientifico” (Carhart-Harris e Goodwin, 2017). È infine da tener conto che, come ha evidenziato un recentissimo studio con somministrazione di una elevata dose di psilocibina a soggetti sani, l’esperienza “mistica” non è un prerequisito per un risultato comunque positivo e duraturo dell’esperienza psichedelica (Nicholas et al., 2018).
CAPITOLO 8
NEUROFENOMENOLOGIA DEGLI STATI PSICHEDELICI
L’approccio neurofenomenologico La neurofenomenologia è una moderna disciplina scientifica che ha unito, si potrebbe dire “sincretizzato fra di loro”, due metodi d’indagine opposti: le neuroscienze e la fenomenologia. Le neuroscienze studiano il sistema nervoso nei suoi aspetti strutturali (anatomici, biochimici, ecc.), e cercano di comprendere la relazione che intercorre fra le sue attività con il comportamento umano. Si suddividono in differenti branche che si occupano di specifici comportamenti: la neuroscienza cognitiva studia la relazione fra il cervello e le attività di pensiero, la neuroscienza affettiva la relazione fra il cervello e le emozioni umane, ecc., e si sono formate subcategorie di competenze e di applicazioni ultra-specifiche, quali la neuroeconomia e la neuroscienza computazionale, sino ad arrivare al campo di indagine, forse solo apparentemente fantascientifico, della neuroteologia. Le neuroscienze impiegano un approccio d’indagine oggettivo, strettamente “di terza persona”, che prevede l’osservazione e lo studio dei fenomeni vissuti o percepiti da un soggetto da parte di osservatori terzi. La fenomenologia, invece, è “un metodo di indagine filosofico nell’esperienza quotidiana delle persone. Piuttosto che usare un approccio di terza persona, come fanno le neuroscienze, la fenomenologia usa un approccio di prima persona per l’esame di vari fenomeni nel momento in cui si diventa consapevoli di questi e se ne attribuisce un significato”. [Stanley Krippner, nella prefazione al testo edito da Susan Gordon, Neurophenomenology and its Applications to Psychology, Springer, New
York, p. xi.] Agli inizi degli anni ‘90 alcuni neurologi, biologi e psichiatri concepirono un’unificazione di queste due discipline, che denominarono neurofenomenologia (Laughlin et al., 1990). Il principale promotore di questa disciplina fu il biologo d’origini cilene Francisco Varela. Le neuroscienze, basandosi sul metodo d’indagine oggettivo “di terza persona”, sono solite considerare i resoconti soggettivi con un mero valore aneddotico. Nella neurofenomenologia i resoconti soggettivi vengono invece considerati come un elemento integrale della validazione dei modelli neurobiologici; in altre parole vengono “presi seriamente come dominio valido del fenomeno; in tal modo l’esperienza e la scienza cognitiva diventano partner attivi” (Varela, 1996: 346). Partendo dal presupposto dell’irriducibile natura dell’esperienza soggettiva, questa viene quindi ad assumere un ruolo scientifico di primo piano: “Mentre sino ad oggi la neuroscienza si è focalizzata principalmente sulla terza persona, sul lato neurobehaviorista del gap esplicativo, lasciando il lato della prima persona alla psicologia e alla filosofia, la neurofenomenologia impiega metodi specifici di prima persona, con lo scopo di generare dati originali di prima persona, che possono essere usati per guidare lo studio dei processi fisiologici” (Lutz e Thompson, 2003: 48). Superata la lunga fase del diniego behaviorista della coscienza (“non siamo altro che un ammasso di neuroni”), le nuove scienze cognitive ritengono che lo sviluppo evolutivo della capacità rappresentativa del cervello possa rendere conto della sua capacità di generare la coscienza fenomenologica, ovvero l’attività mentale e l’attività cerebrale sono la stessa cosa, e non è più possibile proporre spiegazioni in termini puramente fenomenologici o psicologici: “i processi neurofisiologici non causano gli stati mentali, sono gli stati mentali al livello neurofisiologico della descrizione” (Peters, 2000: 390). Questa rivalorizzazione dell’esperienza soggettiva nella neurofenomenologia è condizionata da un importante presupposto metodologico: quello di disciplinare il soggetto, cioè di “addestrarlo fenomenologicamente”, per aumentare la sua sensibilità, attenzione e autoregolazione emotiva. Tale addestramento può essere effettuato mediante metodiche di disciplina quali la psicoterapia, le tradizioni meditative contemplative e le tecniche fenomenologiche note come “epoché” (“sospensione del giudizio”), che sono indirizzate all’intensificazione dell’attitudine all’attenzione all’auto-consapevolezza (ibid., :37).
Nel contesto della ricerca neurofenomenologica, in questi ultimi anni gli psichedelici sono stati rivalutati come strumento di comprensione della coscienza umana. Questi nuovi studi si propongono di rispondere a interrogativi quali: “come si relaziona il normale stato di coscienza dell’uomo adulto agli altri stati di coscienza?”; “come fa il cervello a mantenere il suo normale stato di coscienza?”; “cosa accade alle funzioni del cervello quando si verificano stati non-ordinari di coscienza quali il sonno/sogno REM, le psicosi precoci e lo stato psichedelico?”. Un primo studioso ad avvalorare l’importanza degli psichedelici nei nuovi studi cognitivisti della coscienza è stato il chimico e psichiatra ungherese Stephen Szára, che abbiamo già incontrato come pioniere degli studi sul DMT. In un articolo degli inizi degli anni ‘90 intitolato Are hallucinogens psychoheuristic?, egli enfatizzava il valore euristico potenzialmente immenso degli psichedelici nell’aiutare l’esplorazione delle basi neurobiologiche di alcune dimensioni fondamentali delle funzioni psichiche: “le recenti conquiste nelle neuroscienze e nelle scienze cognitive hanno creato opportunità per usare gli allucinogeni come strumenti per affrontare il mistero supremo: come funziona il cervello?” (Szára, 1994: 33). In anni più recenti l’équipe tedesca di Tomislav Majic´ ha evidenziato l’importanza dell’approccio neurofenomenologico degli stati psichedelici (Majic´ et al., 2015: 242), e da ciò abbiamo preso spunto per denominare la nuova fase delle terapie psichedeliche (TP) come “fase dell’approccio neurofenomenologico”. Ricordiamo che la nostra classificazione cronologica delle TP le suddivide in tre fasi storiche: la fase del paradigma psicotomimetico (dagli inizi del Ventesimo secolo al 1957), la fase del paradigma psicoterapeutico (19571972), e la fase dell’approccio neurofenomenologico, che parte dagli inizi del 2000, distanziata dalle prime due dal trentennio di divieto di studi clinici con queste sostanze.14Durante la prima era della ricerca psichedelica e superato il paradigma psicotomimetico, l’approccio terapeutico con gli psichedelici è stato di tipo psicoanalitico, sfruttando la proprietà di queste sostanze di abbassare le difese psicologiche dell’individuo, permettendo ai conflitti personali di emergere e di essere elaborati con il terapeuta (terapia psicolitica). Un modello correlato prevedeva che la “rinuncia dell’ego” indotta da un forte dosaggio dello psichedelico poteva portare a profonde esperienze esistenziali o “di picco”, con il risultato di un impatto positivo a lungo termine sul comportamento (terapia psichedelica).15
Alcuni studiosi ritenevano che gli psichedelici potessero portare evidenze scientifiche per le principali ipotesi psicoanalitiche. Grof ad esempio descriveva le sedute psicodinamiche con LSD come “la prova scientifica delle premesse freudiane di base” (Grof, 1975: 45).16 Tuttavia, l’importanza del ruolo della psicoanalisi si è via via ridotta in seguito alle critiche avanzate dalla più recente teoria cognitiva e dallo sviluppo farmacologico in psichiatria. Nell’ottica delle moderne scienze cognitive, o per lo meno della loro parte più critica e, forse, più “fondamentalista”, la psicoanalisi è ritenuta aver fallito nel tentativo di insediarsi come la scienza della mente, e viene criticamente definita come un “sistema di credenze”, una tautologia con ipotesi non dimostrabili. Al contrario, la psicologia cognitiva è una cornice meccanicistica che descrive fenomeni osservabili, ed è diventata l’alleato naturale delle neuroscienze umane. Ciò nonostante, vi sono studiosi che, ritenendo un errore cestinare oltre un secolo di storia e di pensiero psicoanalitico, ipotizzano una possibile integrazione della psicoanalisi con le neuroscienze cognitive; e in questa possibile integrazione gli psichedelici potrebbero ricoprire un ruolo importante, essendo in grado di fornire nuove conoscenze sulla natura della mente e su come questa origini dall’attività cerebrale. La possibilità di studiare gli psichedelici è unica, con approcci di indagine che spaziano dalla farmacologia molecolare alla psicologia psicoanalitica; poche materie occupano gli scienziati in un ambito di discipline così esteso (Carhart-Harris et al., 2014b). In questo capitolo esponiamo gli aspetti teorici, metodologici e sperimentali dell’approccio neurofenomenologico allo studio degli stati psichedelici, iniziando con l’esposizione del modello entropico e delle tecniche di neuroimaging; queste ultime sono diventate il principale strumento d’indagine delle neuroscienze cognitive e della fenomenologia psichedelica, e fanno parte intrinseca della seguente esposizione.
Il cervello entropico Durante lo stato di veglia, il cervello elabora una quantità enorme di informazioni provenienti dal corpo e dal mondo esterno. La maggior parte di queste informazioni è imprecisa, ambigua o incerta; ciò nonostante, il
cervello le utilizza per elaborare un modello interiore del sé e dell’ambiente circostante, che quindi usa per guidare i comportamenti. Per fare ciò, il cervello genera inferenze, o predizioni, che compara agli input che riceve per determinare le cause delle sensazioni corporee. Queste inferenze, che si aggiornano ogni qualvolta aspettative e risultati non collimano, rappresentano l’opinione del cervello sulla realtà. La discrepanza tra le ipotesi fatte dal cervello e i segnali sensoriali in ingresso è definibile come “errore”. Il cervello apprende dai propri sbagli, utilizzando gli errori delle predizioni pregresse per minimizzare le fluttuazioni sensoriali inspiegate e per definire il proprio modello del mondo: minore è l’errore, maggiore sarà l’accuratezza del modello. Le funzioni cerebrali (percezione, cognizione, azione) parrebbero lavorare in maniera unificata, in modo tale da minimizzare l’errore; nei disturbi psichiatrici quali la schizofrenia, questa “teoria unificata” potrebbe spiegare il malfunzionamento dei processi cognitivi. Sulla base di questa teoria, ha preso spunto l’ipotesi del “cervello entropico”, che propone che la qualità di ogni stato di coscienza dipende dall’entropia del sistema, misurata attraverso parametri della funzione cerebrale. L’entropia è diventata un potente concetto e strumento di spiegazione per le neuroscienze cognitive, in quanto apporta un indice quantitativo della casualità o del disordine di un sistema dinamico, mentre contemporaneamente descrive informazioni sulle sue caratteristiche, come ad esempio il grado della nostra insicurezza sullo stato del sistema se noi facessimo il campionamento in un determinato istante temporale (Costandi, 2014). L’entropia cerebrale esprime la complessità e la variabilità dell’attività cerebrale da un istante a quello successivo, evidenziata anche da maggiori connessioni a distanza dell’attività neurale. Fino al raggiungimento di un punto critico, una maggiore entropia è indicativa di una maggiore capacità di elaborare informazioni, contrariamente alla bassa entropia, caratterizzata da sistematicità e ripetizione, presente per esempio quando siamo nel sonno profondo o in uno stato di coma. L’entropia è una misura del numero delle possibilità in cui un sistema può essere configurato (il numero degli stati di un sistema). Un sistema intelligente modella l’informazione che riceve attraverso specifiche riconfigurazioni fisiche dei suoi componenti, assumendo la forma di un determinato stato. Il cervello usa l’informazione creando modelli specifici di
input sensoriale attraverso riaggiustamenti delle connessioni neurali; questi riaggiustamenti corrispondono all’apprendimento, e si stabilizzano nel tempo venendo a costituire la memoria e diventando accessibili anche in futuro. Il concetto centrale dell’entropia cerebrale è quello di “stato cerebrale” (brain state). Il cervello utilizza configurazioni stabili di connessioni neurali per elaborare l’informazione e dare inizio a comportamenti di adattamento in risposta alle informazioni ricevute. Queste elaborazioni sono contenute nei diversi stati cerebrali. Il numero degli stati cerebrali accessibili per il funzionamento del cervello definisce il concetto di entropia cerebrale. Le fluttuazioni in differenti stati risultano in un maggiore controllo della risposta e dell’elaborazione dei network in relazione al comportamento. Uno degli scopi principali delle neuroscienze è quello di analizzare quanti stati cerebrali esistono e come sono organizzati, come interagiscono e come influenzano il comportamento. Studi di risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno evidenziato una relazione tra l’intelligenza umana e l’entropia cerebrale (Saxe, 2018). Per intelligenza si intende generalmente le capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, il pensiero astratto, comprendere idee complesse, apprendere velocemente e apprendere dall’esperienza; riflette la capacità di comprendere il nostro ambiente, dare un senso alle cose, immaginare cosa fare. Ciascuna di queste capacità richiede la creazione di modelli predittivi accurati del mondo, in modo che il cervello sia in grado di usare la sensazione che riceve per adattare un’azione. Il cervello deve essere “abbastanza buono” per creare modelli predittivi del mondo attraverso modelli (pattern) di connettività. Il cervello è un organo predittivo che genera inferenze sulle sue azioni e sensazioni. Per essere “abbastanza buono” a creare modelli predittivi, deve avere accesso a un gran numero di stati cerebrali utilizzabili, per essere messi in relazione agli eventi che potrebbe incontrare. Questa accessibilità sarebbe costituita dall’intelligenza. L’entropia cerebrale richiede una certa flessibilità dell’architettura neurale, in modo da creare e immagazzinare il più ampio numero di configurazioni possibili utilizzabili dal cervello per modellare ed elaborare l’informazione che riceverà nel corso della sua esistenza, e la conoscenza sull’accessibilità a queste configurazioni in contesti appropriati. Una maggiore flessibilità delle reti neurali permette una maggiore capacità di immagazzinare l’informazione. Dalla prima formulazione dell’ipotesi del cervello entropico hanno fatto
seguito ulteriori studi, che hanno dimostrato come gli psichedelici aumentino l’entropia cerebrale (Lebedev et al., 2016, Tagliazucchi et al., 2014) e come il “cervello psichedelico” esibisca caratteristiche di criticità più pronunciate rispetto a quelle della coscienza ordinaria.
Le tecniche di neuroimaging Lo sviluppo delle neuroscienze cognitive di questi ultimi due decenni è stato spronato in parte dall’avvento della tecnologia delle scansioni cerebrali. Questa disciplina ha fatto espandere la nostra comprensione dei costrutti psicologici che spaziano dalla percezione alla memoria, alle emozioni, sino alle funzioni cognitive più elevate quali la metacognizione, e che attraverso le neuroimmagini è stata arricchita dalla conoscenza delle basi neurali. I risultati degli studi con le neuroimmagini contribuiscono a importanti nuove intuizioni nelle peculiari proprietà visionarie e di modificazione della coscienza degli psichedelici, offrendo informazioni su alcuni stati patologici e proponendo come potenzialmente trattarne altri. Le tecniche di neuroimaging introducono nuove teorie sulla coscienza che incorporano principi di fisica, neurobiologia e psicoanalisi, si propongono di comprendere i meccanismi che sottintendono agli stati non ordinari di coscienza, alla correlazione esistente tra lo stato di veglia e gli altri stati di coscienza quali il sogno REM, le fasi iniziali dello stato psicotico e lo stato psichedelico. Le neuroscienze cognitive utilizzano i metodi delle neuroimmagini, in particolare le tecniche funzionali, per identificare i circuiti cerebrali deputati a specifiche funzioni cognitive. In questi studi la variabile dipendente è costituita dalle attivazioni cerebrali. Le informazioni provenienti dalle tecniche funzionali devono integrarsi con quelle delle tecniche anatomiche, al fine di costruire modelli neurobiologicamente fondati dell’architettura del sistema mente-cervello. Prima dell’avvento delle tecniche di immagini funzionali, quali la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), le funzioni mentali venivano studiate nell’ambito di situazioni patologiche, quali lesioni cerebrali, od osservando l’effetto di procedure neurochirurgiche. Ma le funzioni mentali non interessano singole aree anatomiche, e il loro studio basato su questi studi clinici, spesso su un piccolo numero di pazienti con lesioni rare, era lacunoso e insoddisfacente da
un punto di vista scientifico. Solamente nel caso della corteccia motoria e sensoriale il danno di certe aree corticali si può manifestare con deficit prevedibili. La visione maggiormente condivisa dagli specialisti delle neuroscienze considera il sistema mente-cervello come un insieme di sottosistemi distinti, che eseguono funzioni in relativa autonomia gli uni dagli altri; tali sottosistemi sono definiti “moduli”; ogni modulo si realizza su un circuito neuronale specifico, che può essere selettivamente danneggiato. Tuttavia, la modularità del sistema mente-cervello riguarda circuiti cerebrali, e le singole aree del cervello non sono rappresentative di singole funzioni: una stessa area può supportare funzioni diverse, e ogni funzione può essere supportata da più di una regione cerebrale. Le singole regioni cerebrali non lavorano mai indipendentemente: il cervello è un sistema dinamico e complesso, e l’attività di un’area cerebrale può essere interpretata solo nel contesto dell’attivazione di altre aree. Inoltre, gli studi di integrazione funzionale forniscono le configurazioni (pattern) di regioni cerebrali la cui attività covaria (è correlata temporalmente) durante l’esecuzione del compito somministrato. Questa elaborazione è utile per svelare l’associazione (accoppiamento di regioni cerebrali necessarie per specifiche funzioni) e la connettività anatomofunzionale (identificare reti neurali connesse), consentendo la comprensione di come aree funzionalmente specializzate interagiscono tra di loro. Le tecniche di immagini funzionali, che possono evidenziare variazioni del flusso ematico e del metabolismo in aree attive del cervello, stanno portando dei progressi enormi nella comprensione delle funzioni corticali più sviluppate. Alcune delle tecniche di neuroimmagine sono utilizzate esclusivamente nella pratica clinica, altre sono impiegate sia per scopi clinici che di ricerca, altre ancora sono attualmente utilizzate in prevalenza per la ricerca finalizzata alla comprensione del funzionamento del sistema mente-cervello. In riferimento a quest’ultimo scopo, le neuroimmagini si configurano come uno dei metodi di indagine della psicologia cognitiva (Sacco, 2013: 8). L’entropia cerebrale può essere misurata mediante la fMRI, dove i dati consistono in una serie di immagini successive registrate nel corso del tempo. Ogni immagine tridimensionale della fMRI è composta da singoli voxel che contengono un valore che riflette il segnale BOLD di una singola regione.17 Esaminando un singolo voxel nel corso di una sessione di fMRI, le modificazioni nell’intensità del segnale BOLD di quella piccola regione può
essere tracciata nel corso del tempo. L’entropia cerebrale è calcolata come la prevedibilità di un singolo segnale voxel nel tempo. Un voxel la cui intensità di segnale BOLD varia in maniera imprevedibile nel tempo potrebbe dare un valore elevato di entropia, mentre un voxel con piccola variabilità di segnale, o con pattern molto regolari, conferirebbe una bassa entropia. Fra gli studi con neuroimaging hanno acquisito una particolare importanza quelli svolti in condizione di stato di riposo (resting state), ossia facendo mantenere i soggetti a occhi chiusi e senza fargli svolgere alcun compito specifico. È attraverso studi in condizione di resting state che è stato individuato il default mode network, che descriveremo poco oltre. Questa condizione di riposo apporta informazioni riguardo la flessibilità cerebrale o la prontezza a incontrare stimoli imprevedibili, ossia la capacità del cervello ad accedere a un ampio numero di stati cerebrali. Misurando l’entropia cerebrale a riposo, si può “catturare” il numero più alto possibile di stati cerebrali rispetto a quello misurato durante lo svolgimento di un compito specifico, poiché in un determinato compito l’entropia misurata sarà specifica per quel compito, ossia registra l’ampiezza degli stati cerebrali utilizzati per quel compito (Sacco, 2013). Alcune aree cerebrali, predominanti nell’emisfero sinistro, sono state messe in relazione con l’elaborazione del significato del linguaggio (semantic retrieval); altre aree sono state implicate nella direzionalità di un obbiettivo e nel controllo cognitivo durante il recupero delle parole (word retrieval). Nello stato di riposo, si evidenzia entropia nelle regioni che sostengono il recupero semantico come indicazione della prontezza a elaborare il linguaggio, piuttosto che entropia nelle regioni che sostengono il controllo cognitivo e che possono essere maggiormente coinvolte in un compito attivo (Saxe et al., 2018).
Il default mode network Il cervello è spesso inteso come un sistema di ricezione e trasmissione di dati, che elabora i segnali provenienti dall’ambiente esterno e genera una risposta comportamentale adeguata; la maggior parte degli studi di imaging cerebrale esamina quali aree si attivano, o si “accendono”, durante una particolare azione o percezione. Il cervello consuma il 20% circa di tutta l’energia corporea, pur
rappresentando solo il 2% della sua massa; tuttavia, già dagli anni ‘50 sappiamo che la sua attività metabolica cambia molto poco quando è attivamente coinvolto nell’esecuzione di un compito (Clarke e Sokoloff, 1999). In altre parole, il cervello è attivo anche quando non stiamo facendo nulla, e presenta uno schema di attività intrinseca che utilizza la maggior parte delle sue energie. Tale attività “di base” è sempre funzionante in sottofondo e cambia molto poco in risposta a quello che facciamo. Questa è la modalità di default, rappresentata da una rete di connessione tra le regioni cerebrali, attiva anche quando il cervello è a riposo, che potrebbe rappresentare le sue funzioni di base, ed essere alterata in diverse condizioni patologiche. La rete di modalità di default – indicata con l’acronimo inglese DMN, da Default Mode Network – è stata scoperta per caso quando, durante alcuni esperimenti di imaging eseguiti negli anni ‘90, si è notato che il cervello dei soggetti esaminati sembrava essere attivo anche mentre questi rimanevano sdraiati nello scanner senza fare nulla di particolare. All’epoca i ricercatori erano impegnati a comprendere come analizzare i dati delle scansioni, e in particolare come separare i segnali associati all’elaborazione delle informazioni da quelli casuali prodotti dall’attività spontanea del cervello. I dati osservati nelle immagini realizzate in stato di riposo furono inizialmente considerati “rumore” e quindi tralasciati, ma in seguito ci si è chiesto se potessero avere delle caratteristiche peculiari (Buckner et al., 2008). Fino a quel momento era noto che quando il cervello non è impegnato a svolgere compiti specifici genera un’attività spontanea e imprevedibile. Tuttavia, le scansioni effettuate in stato di riposo mostravano un comune segnale a bassa frequenza: quando i partecipanti rimanevano sdraiati nella macchina di scansione con gli occhi chiusi, senza fare nulla di particolare, alcune zone cerebrali si attivavano sempre. È questo gruppo di regioni cerebrali a essere stato in seguito definito “default mode network” (DMN), ed è quello più noto tra almeno una decina di circuiti cerebrali finora individuati, la cui attività aumenta quando il cervello è in uno stato di riposo. Il DMN è costituito da una mezza dozzina di regioni, tra loro interconnesse, nel lobo parietale e frontale: la corteccia prefrontale mediale, coinvolta nella “teoria della mente”, che include la capacità di inferire le intenzioni degli altri; il lobo temporale mediale, che svolge un ruolo importante nella memoria; e il giro cingolato posteriore, che fra le sue varie funzioni integra l’attività dei lobi frontali e temporali. Il DMN è
negativamente correlato ai compiti che implicano attenzione agli stimoli esterni: in altri termini, diminuisce la propria attività durante i compiti che coinvolgono l’attenzione verso il mondo esterno, e diventa più attivo quando dirigiamo i nostri pensieri verso l’interno, come quando tentiamo di ricordare un evento passato o di immaginarne uno futuro, o quando cerchiamo di metterci nei panni degli altri. Ciò ha indotto i ricercatori a ipotizzare che la funzione principale del DMN sia di supporto a quelle attività che riuniamo sotto il nome di “mente vagabonda” o il sognare a occhi aperti e l’immaginazione. Il DMN è sicuramente un argomento centrale nelle neuroscienze, sebbene non tutti siano convinti della sua importanza. Capire cosa fa il cervello quando sogniamo a occhi aperti sarà sicuramente un traguardo importante; ma il cervello a riposo potrebbe presentare caratteristiche diverse. L’interno di uno scanner è un ambiente claustrofobico e rumoroso, e l’attività cerebrale che si registra quando ai soggetti è chiesto di non fare nulla mentre vengono fatte le scansioni (resting state) potrebbe essere in realtà correlata a uno stato di maggiore vigilanza, che indica come essi stiano cercando attivamente qualcosa nell’ambiente a cui prestare attenzione (Buckner et al., 2008). Il neurofisiologo svedese David Ingvar fu il primo ad assemblare immagini del cervello in stato di riposo, le quali rivelano un’importante attivazione di alcune regioni: misurando il flusso ematico cerebrale mediante inalazione del gas Xenon 133, Ingvar e i sui colleghi osservarono che l’attività frontale raggiungeva livelli elevati durante lo stato di riposo. Per spiegare questo modello inatteso di “iperfrontalità”, Ingvar ha ipotizzato che questa attività corrisponda al “lavoro cerebrale”, ossia l’attività mentale spontanea, indiretta, consapevole, che siamo portati a compiere se lasciati indisturbati. Ingvar notò che questa attività a riposo era prominente nella corteccia prefrontale (Ingvar, 1979). Se il DMN è normalmente associato con l’immaginazione, l’introspezione e l’auto-riflessione, la sua controparte funzionale, il TPN (Task Positive Network), è associata con l’orientamento della mente verso il mondo esterno e si attiva nel contesto dello svolgimento di compiti specifici. Il DMN e il TPN sono normalmente in contrapposizione fra di loro, e in questo modo assicurano la differenza interpretativa tra il mondo interno e il mondo esterno. In seguito ad assunzione di psilocibina, avviene un’importante riduzione di questa contrapposizione, e ciò potrebbe essere una spiegazione plausibile di come l’esperienza psichedelica sia caratterizzata da un “crollo del dualismo”
e dell’alterazione del senso del sé e di unità, soprattutto del senso di separazione dall’ambiente. Una caratteristica dell’esperienza psichedelica è quindi la riduzione della anticorrelazione tra DMN/TPN, ossia della distinzione tra la realtà interna e quella esterna (Carhart -Harris et al., 2018). Il DMN è diventato uno degli argomenti più discussi nelle neuroscienze cognitive nell’ultimo decennio, e ci sono varie ragioni per giustificare questa importanza. Le regioni del DMN ricevono più flusso ematico e consumano più energia di altre regioni cerebrali. Infatti, il flusso ematico cerebrale (CBF) e la percentuale metabolica sono all’incirca il 40% superiori nella corteccia cingolata posteriore (PCC) rispetto alla media di tutte le altre regioni del resto del cervello. Le regioni del DMN sono centri di elevata connettività, e ciò implica il loro ruolo di importanti centri di connessione e smistamento. Questa centralità funzionale del DMN non è condivisa da altre regioni cerebrali, e ciò implica che esso agisca come un direttore d’orchestra o da conduttore della funzione cerebrale globale. Funzionalmente, il DMN è rimosso dall’elaborazione sensoriale ed è invece coinvolto in operazioni metacognitive18 quali l’auto-riflessione, la teoria della mente, il viaggio mentale nel tempo – funzioni che finora sono state attribuite esclusivamente all’uomo. La connettività del DMN aumenta attraverso lo sviluppo dalla nascita all’età adulta, e le regioni interessate dal DMN sono state soggette a importanti espansioni nel corso dell’evoluzione. È tuttavia ancora poco chiaro perché il DMN consumi così tanta energia. Questo apparente eccesso di energia, che parrebbe rispecchiare funzioni sconosciute che risiedono nel DMN, potrebbe rappresentare la controparte fisica del sé narrativo o ego, la maggior parte del quale è infatti inconscio o implicito. Il fatto che il DMN mostri un’attività metabolica sempre elevata, risiede probabilmente nel fatto che esso riceve costantemente input endogeni da drivers interni, come la formazione reticolare e i nuclei del rafe serotoninergico. Indipendentemente da ciò che lo stimola, la costante attività del DMN ha fatto ipotizzare l’idea che esso sia la sede dell’ego, e le teorie di Freud sull’ego potrebbero trovare una controparte neuroanatomica grazie alle recenti acquisizioni sullo sviluppo e sul funzionamento del DMN e gli scambi reciproci con i sistemi a questo subordinati. La connettività funzionale esistente tra le strutture del sistema limbico (ippocampo e amigdala) e i nodi principali del DMN durante lo stato di riposo, fanno pensare che i sistemi
predisposti alle funzioni dell’ego si siano evoluti per ricevere e controllare stimoli eccitatori endogeni che sono alla base del processo mnemonico ed edonico. Inoltre, la connettività funzionale si sviluppa attraverso l’ontogenesi, si riduce con l’età e sembra essere sottosviluppata in pazienti con alterato controllo degli impulsi (Carhart-Harris et al., 2018).
Gli psichedelici come strumento per le neuroscienze cognitive Prima di procedere nella descrizione del moderno impiego degli psichedelici come strumenti di indagine delle neuroscienze, è opportuno ricordare la distinzione fra processi primario e secondario elaborata più di un secolo fa da Freud, in quanto questo modello d’azione della coscienza continua a essere impiegato dalla scuola freudiana, e diverse indagini moderne in cui rientrano gli psichedelici sono attuati da studiosi di formazione freudiana, pur nell’ambito delle neuroscienze cognitive. È possibile che ciò sia uno degli attuali limiti della ricerca con gli psichedelici, che potrà essere superato con l’avvento di studiosi provenienti da altre (o nuove) scuole psicologiche e psicoanalitiche. D’altro canto, questo eventuale limite non oscura la qualità e il potenziale innovativo dei più moderni studi con gli psichedelici. Secondo il modello freudiano, il processo secondario, o “processo di coscienza secondario”, costituirebbe la modalità del normale stato di veglia dell’essere umano, il modo di pensare ordinario, cosciente, come lo conosciamo attraverso l’introspezione, e cioè fondamentalmente verbale e che segue le leggi consuete della sintassi e della logica. Freud descrisse il processo secondario “inibito” e “costretto”, in contrapposizione al processo primario che è “libero” e “mobile”. Il processo secondario è il modo di pensare che ordinariamente attribuiamo all’Io relativamente maturo.19 Il processo primario è la modalità di pensiero caratteristica di quegli anni dell’infanzia durante i quali l’Io è ancora immaturo. Nel pensiero del processo primario la rappresentazione verbale non viene usata in maniera così esclusiva, come avviene nel processo secondario, e il senso del tempo non esiste: passato presente e futuro sono una cosa sola. Il processo primario sarebbe rappresentato da una modalità arcaica di coscienza (in cui è stata identificato l’inconscio) disattivata in normali condizioni di veglia. Nella scelta dei termini “primario” e “secondario” Freud intendeva dare
un’indicazione della priorità cronologica: “I processi primari si trovano nell’apparato psichico dal principio, mentre solo durante il corso della vita si sviluppano i processi secondari e vengono a opporsi e a ostacolare i primari; in conseguenza della tardiva apparizione dei processi secondari, il nucleo del nostro essere, fatto di impulsi di desiderio inconsci, resta inaccessibile alla comprensione e inibizione del preconscio” (Freud, 1900: 359). L’attività del processo primario è considerata dalla scuola freudiana come l’elemento fenomenologico degli stati non-ordinari di coscienza, e alcuni studiosi vedono una correlazione fra gli stati indotti dagli psichedelici e lo stato primario di coscienza.20 Ad esempio, in un recente studio sviluppato dall’équipe svizzera di Kraehenmann, l’LSD somministrato a 25 soggetti sani avrebbe evidenziato un incremento del pensiero di processo primario e dell’indice primario, essendo quest’ultimo una misura linguistica formale del pensiero di processo primario nei contesti di attività di immaginazione (Kraehenmann et al., 2017). Osservando ora i contributi delle neuroscienze, in queste il concetto di entropia è stato applicato al contesto degli stati di coscienza e ai loro aspetti neurodinamici, rivolgendo una particolare attenzione allo stato psichedelico. Un contributo fondamentale e innovativo su questo tema è quello promosso da Robin Carhart-Harris e dalla sua équipe dell’Imperial College di Londra. Lo stato psichedelico è considerato dalla scuola freudiana un esempio di uno stato di coscienza primario primitivo, che avrebbe preceduto lo sviluppo dell’ordinario stato di coscienza dell’uomo moderno, adulto. In base alle informazioni provenienti dalle neuroimmagini con psilocibina, si sostiene che la caratteristica di definizione dello stato primario sia l’elevata entropia di certi aspetti delle funzioni cerebrali, come il repertorio dei modelli di connettività funzionale che si formano e si frammentano nel corso del tempo. Nello stato psichedelico esiste un repertorio di connettività funzionale molto più ampio rispetto a quello dello stato di veglia ordinario, e ciò implica la “criticità” degli stati primari, cioè, la proprietà di “essere in bilico” in un punto critico all’interno di una zona di transizione tra l’ordine ed il caos. Inoltre, se negli stati di coscienza primari si raggiunge il livello di criticità, questo significa che nello stato di coscienza ordinario l’entropia viene soppressa al di sotto di questo livello di criticità. La soppressione dell’entropia implica una costrizione dello stato di coscienza ordinario, che come conseguenza sviluppa funzioni metacognitive come l’auto-
consapevolezza. L’ingresso in uno stato di coscienza primario dipende dal collasso dell’attività altamente organizzata all’interno del DMN e dal disaccoppiamento tra il DMN e i lobi temporali mediali (MTL) che normalmente sono accoppiati funzionalmente. Queste ipotesi sono state testate esaminando l’attività cerebrale e i processi cognitivi associati in altri stati primari potenziali quali il sonno REM e le psicosi primarie, e confrontandoli con stati non primari quali il normale stato di veglia e l’anestesia (Carhart-Harris et al., 2014b). Parrebbe quindi che la coscienza insorga all’interno di una zona critica nella quale l’entropia o la complessità dell’attività cerebrale non è né troppo ordinata né disordinata. Si presuppone che lo stato ordinario di coscienza occupi una banda all’interno di questa zona, localizzata verso l’estremità superiore della banda; la criticità cerebrale potrebbe quindi essere vista più come una “zona” che non un “punto” critico, e il cervello in stato di veglia sembra posizionarsi più vicino alla zona di “ordine estremo” o di sub-criticità all’interno di questa zona, rispetto a quella di “disordine estremo” o di ipercriticità. Gli psichedelici sembrerebbero spostare l’entropia cerebrale e i contenuti della coscienza a un livello superiore, verso il livello più alto della zona di criticità, in direzione di un più ampio contenuto di coscienza, di maggiore flessibilità della mente e di labilità emotiva. L’entropia cerebrale (e la criticità) possono raggiungere un limite superiore nel quale la coscienza viene persa, forse perché la fenomenologia dell’esperienza non può essere preservata al di là di questo punto, e quindi ricordata. I casi di criticità aumentata al di sopra di quella che si manifesta nello stato di veglia sono quasi sconosciuti in letteratura; il caso degli psichedelici risulta quindi eccezionale (Carhart-Harris et al., 2018). La criticità conferisce dei vantaggi funzionali a un sistema in termini di massimizzazione delle capacità e dell’efficacia dell’elaborazione dell’informazione, attraverso l’ottimizzazione dell’adattabilità preservando l’ordine; un sistema che si sposta verso la criticità o verso il limite di ipercriticità di una zona critica, sembra favorire la flessibilità e la suscettibilità alla perturbazione rispetto alla conservazione. Nell’ottica delle recenti scoperte con gli psichedelici, questo principio risulta comprensibile: per esempio, alcuni trattamenti con gli psichedelici sono stati associati con miglioramenti importanti delle condizioni psichiatriche del soggetto come nelle dipendenze, nel disturbo ossessivo-compulsivo e nella depressione. Alcune di queste condizioni, in particolar modo la depressione, sono state
associate a una sub-criticità cerebrale. Riguardo alle dinamiche dell’umore, viene ipotizzato che entro certi limiti il limite iper-critico della zona di criticità possa favorire l’umore positivo, e parrebbe essere una sua proprietà fondamentale, sebbene l’instabilità individuale (iper-flessibilità) potrebbe predisporre alla mania, esibendo comportamenti quali agitazione, euforia inappropriata e mania di grandiosità. Questi sintomi possono essere osservati sotto effetto di psichedelici, probabilmente nei casi in cui si verifichi una mancata integrazione dell’esperienza (Carhart-Harris, 2018). Una delle proprietà di un sistema critico parrebbe dunque essere la massima sensibilità alla perturbazione, e ciò spiegherebbe l’importanza del set e setting come determinanti del viaggio psichedelico. Le stimolazioni esterne, se opportunamente aggiunte al contesto, possono “perturbare” positivamente l’esperienza, come è stato osservato nello studio di Kaelen nel trattamento della depressione con psilocibina con l’accompagnamento della musica (Kaelen et al., 2018). La musica era stata scelta in base ai gusti e in risonanza allo stato emotivo (set) dei pazienti, e aveva favorito l’insorgenza delle esperienze di picco con esiti positivi dello studio. Quando la scelta della musica non combaciava con i gusti o con lo stato emotivo del paziente, si assisteva a una diminuzione dei risultati positivi (Carhart-Harris et al., 2018). I moderni studi di neuroscienze descrivono quindi lo stato psichedelico come uno stato di coscienza a “entropia elevata”, e da ciò emerge un’interessante caratteristica del cervello umano, e cioè l’esibizione di maggiori caratteri di criticità nello stato psichedelico che durante il normale stato di veglia. Questa osservazione ha fatto ipotizzare che il cervello dell’uomo adulto moderno differisce da quello del suo parente evolutivo più prossimo per una maggiore capacità di sopprimere lo stato entropico. Alcuni ricercatori abbracciano questa ipotesi attribuendole un senso evoluzionistico, secondo il quale il cervello umano esibisce un’entropia maggiore di quella di altri membri del regno animale, il che equivale a dire che la mente umana possiede un repertorio di stati mentali potenzialmente più ampio rispetto agli altri animali. Queste teorie farebbero pensare che la soppressione dell’entropia sia la proprietà determinante del cervello umano; in realtà si potrebbe parlare in maniera più corretta di “espansione” dell’entropia: l’evoluzione della coscienza umana potrebbe essere avvenuta attraverso un processo di espansione relativamente rapida dell’entropia (e concomitante aumento del disordine del sistema), seguito dalla sua soppressione (o riorganizzazione) e
stabilizzazione del sistema. Quindi, l’ipotesi che il normale stato di coscienza vigile in uomini moderni adulti sani dipenda dalla soppressione dell’entropia, implica che sia esistito uno stato relativamente prossimo a questo (per esempio, nell’Homo sapiens arcaico e nei neonati) nei quali l’entropia era particolarmente elevata (corrispondente allo “stato primario” di Freud). Il cervello dell’uomo adulto contemporaneo si troverebbe in una fase di “sedimentazione” piuttosto che di una “in espansione”. La controparte psicologica del processo di soppressione dell’entropia è lo sviluppo di un ego maturo con le sue funzioni cognitive associate. L’“integrità dell’ego” è studiata in sede sperimentale nella ricerca psichedelica, ed è stato proposto che questa sia mantenuta all’interno di circuiti ben definiti (Carhart-Harris et al., 2014b). Se lo stato di coscienza primario è l’atavismo psicologico, e lo stato psichedelico è un suo esempio, come è possibile che questo sia utile in terapia, per esempio come adiuvante in psicoterapia? Perché alcune persone riferiscono di essere state influenzate talmente tanto da queste esperienze (spesso positivamente)? Il fenomeno della depressione può aiutare a comprendere questo concetto. La cognizione durante un episodio depressivo è caratteristicamente inflessibile; il paziente è focalizzato prevalentemente verso l’interno ed è auto-critico, incapace di uscire da questo stato. La modalità cognitiva del paziente depresso è troppo fissa, rigida, ed egli non è in grado di comportarsi in maniera flessibile. Sembra che alla base di questa rigidità ci sia la prevalenza di uno stato particolare, che arriva a dominare la cognizione: la modalità di default introspettiva. L’aggressiva focalizzazione auto-critica e la perdita del focus o interesse verso un oggetto nel mondo esterno – come il lavoro e le persone – possono portare a pensieri e azioni suicidarie. Secondo Carhart-Harris e coll., la coscienza primaria si fonda su dinamiche più flessibili di quelle della coscienza secondaria; esiste un repertorio più ampio di stati transitori che possono essere visitati nella coscienza primaria, perché il sistema lavora vicino alla criticità. La capacità degli psichedelici di rompere i pattern stereotipati di pensiero e dei comportamenti disintegrando i modelli precedenti potrebbe giustificare il loro potenziale terapeutico (Carhart-Harris et al., 2014b). Addentrandoci sugli aspetti più specificatamente neurofenomenologici, uno degli scopi dei moderni studi sulle sostanze psichedeliche è quello di definire i correlati neurobiologici del sé e dell’ego.
Nel mantenimento della sensazione del sé, normalmente i lobi temporali mediali inviano costantemente degli input endogeni al DMN; un altro centro potrebbe essere costituito dai nuclei serotoninergici del rafe del tronco encefalico. La corteccia temporale mediale bilaterale (MTL) è stata studiata con fMRI ed è stato osservato il suo coinvolgimento nell’azione degli psichedelici: il disaccoppiamento funzionale della MTL dal DMN è alla base della transizione alla coscienza primaria. L’analisi del segnale BOLD ha mostrato inoltre aumento dell’ampiezza delle fluttuazioni localizzate principalmente nell’ippocampo bilaterale e nel giro paraippocampale. Ciò combacia con l’analisi della connettività funzionale in condizioni di stato di riposo (RSFC, resting state functional connectivity), che dimostra sotto influenza della psilocibina disaccoppiamento dal DMN. Si può quindi affermare che l’accoppiamento tra i lobi MTL e le regioni corticali del DMN sia necessario per il mantenimento di un normale stato di coscienza adulto, con la sua capacità metacognitiva. Una rottura dell’accoppiamento ippocampo-DMN è invece necessaria per la regressione a uno stato di coscienza primario. Abbassando la repressione e facilitando l’accesso all’inconscio psicoanalitico, gli psichedelici favorirebbero l’espansione della coscienza. Fenomeni quali l’insight e l’immaginazione complessa, così come il sogno, potrebbero dipendere dalla sospensione della repressione, che dipendono da una riduzione del controllo del DMN sull’attività della MTL (Carhart-Harris et al., 2014b). Un altro importante contributo allo studio dei correlati neurobiologici dell’esperienza psichedelica proviene dall’équipe svizzera di Franz Vollenweider. I suoi primi studi (Vollenweider et al., 1997) avevano mostrato che la psilocibina genera un aumento dell’attività metabolica della corteccia prefrontale, evidenziato con immagini PET, e generalmente è dato per scontato che gli psichedelici operino aumentando l’attività nervosa. Tuttavia, ciò è apparso in contraddizione con i risultati di studi più recenti svolti dal gruppo di ricerca dell’Imperial College, che ha analizzato i correlati neurali dell’esperienza psichedelica indotta da psilocibina: le immagini di risonanza magnetica funzionale ottenute dai volontari che avevano ricevuto la psilocibina hanno evidenziato una marcata disattivazione delle stesse aree evidenziate nello studio PET di Vollenweider. Le regioni che hanno mostrato una maggiore disattivazione dopo iniezione di psilocibina – la corteccia cingolata posteriore (PCC) e la corteccia prefrontale mediale (mPFC), regioni appartenenti al default mode network (DMN) – sono anche quelle che hanno
mostrato un’attività sproporzionatamente elevata in condizioni ordinarie. Ad esempio, il metabolismo nella PCC è circa il 20% superiore a quello della maggior parte delle regioni cerebrali, ma la psilocibina in alcuni soggetti riduce il suo flusso ematico fino al 20%. Attorno alla PCC ci sono alcuni misteri: la sua grandezza, la localizzazione protetta e la vascolarizzazione indicano come quest’area del cervello sia ben protetta dagli insulti. L’elevata attività metabolica della PCC e il DMN al quale è associata ha fatto speculare sulla sua importanza funzionale, e cioè potrebbe occupare una posizione cruciale per la coscienza e costrutti di elevato valore cognitivo come il sé e l’ego (Carhart-Harris et al., 2012). Come abbiamo visto, le regioni del DMN ospitano il maggior numero di connessioni cortico-corticali, facendone un importante “centro di connessione”. Questo centro può essere critico per il trasferimento efficiente dell’informazione nel cervello, permettendo la comunicazione tra regioni differenti attraverso il minor numero di connessioni. Tale funzione integrativa farebbe conferire una grande responsabilità a queste regioni, e da ciò si comprende perché la loro disattivazione abbia un effetto così profondo sulla coscienza. Quindi il DMN è cruciale per il mantenimento dell’integrità cognitiva, e in condizioni normali viene “vincolato”. Questa scoperta combacia con la metafora sulla “valvola di riduzione” di Aldous Huxley21 e il “principio di energia libera” di Karl Friston (2009), che sostengono che il sistema mente/cervello lavora per vincolare la propria esperienza del mondo. Le interazioni farmaco-fisiologiche, di particolare interesse, hanno svelato una riduzione dell’accoppiamento funzionale tra la PCC e la corteccia prefrontale mediale (mPFC) appena compare l’effetto della psilocibina. Questo risultato può essere interpretato nei termini di una regressione dell’attività della PCC sulla mPFC: si crea una direzione asimmetrica della connettività tra le regioni parietali e quella prefrontale, e un ribilanciamento della gerarchia organizzativa dei circuiti di alto livello. Nelle nuove tendenze sull’uso degli psichedelici come coadiuvanti in psicoterapia nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici, assume rilevanza il fatto che l’attività della mPFC sembra essere aumentata nella depressione e viene normalizzata in seguito a un trattamento efficace; ciò si verifica anche dopo il trattamento con psilocibina, e la potenza della disattivazione è associata agli effetti soggettivi della sostanza (Carhart-Harris et al., 2012).
L’ipotesi del filtro talamico Un filone di studi di neuroimaging con psichedelici viene oggigiorno effettuato sull’ipotesi che queste sostanze possano imitare una sindrome schizofrenica acuta, rifacendosi quindi a quel “paradigma psicotomimetico” che abbiamo ampiamente esposto nel capitolo 4 del primo volume. La differenza sostanziale fra il vecchio e il nuovo approccio psicotomimetico consiste nel fatto che oggigiorno parrebbe essere stata abbandonata l’univocità e il valore esclusivistico (in pratica l’identità) di queste analogie, e che i paragoni vengono effettuati pressoché unicamente sui fenomeni acuti delle psicosi, quelli cioè che sono ritenuti contenere i sintomi “positivi” (delirio, allucinazioni, ecc.), e non su quelli cronici, portatori dei sintomi “negativi”, espressione di uno stato deteriorato del malato mentale. Un denominatore comune all’esperienza psichedelica e alla schizofrenia comprende i disturbi dell’ego, che vengono valutati dalla scala Ego Pathology Inventory (EPI).22 Secondo gli studi dell’équipe svizzera di Vollenweider, sia la psilocibina che la ketamina provocano un numero di sintomi psicotici che ricordano i sintomi positivi della schizofrenia negli stadi iniziali, e ciò sarebbe stato evidenziato da una modificazione della EPI simile in alcuni (ma non per tutti) i parametri della scala rispetto ai pazienti schizofrenici. Entrambe le sostanze inducono modificazioni emozionali del pensiero che sembrano essere secondari e influenzati da fenomeni di depersonalizzazione, specialmente quando i soggetti non riescono più a distinguere i processi interni da quelli esterni. In genere, a differenza dei pazienti schizofrenici, quelli che hanno assunto psilocibina o ketamina riconoscono i fenomeni di depersonalizzazione come il risultato dell’azione di una sostanza esogena. Mentre entrambe le sostanze riproducono i sintomi positivi della schizofrenia, solo la ketamina produce apatia, ritiro emozionale e sentimenti di indifferenza che ricordano i sintomi negativi della schizofrenia. La rottura dell’integrità cognitiva e la difficoltà a riconoscere il sé dal non-sé sembra essere dovuto al deficit del gating (filtro) che provoca sovraccarico con eccessivi stimoli esterocettivi ed enterocettivi. Lo squilibrio del gating sensoriale- motorio e la perdita dei confini dell’ego potrebbero portare ai sintomi positivi quali deliri, allucinazioni, disturbi del pensiero, mania di persecuzione e perdita di un’esperienza coerente dell’ego. I sintomi negativi sarebbero interpretati come il tentativo di proteggersi dal sovraccarico
(overload) degli input sensoriali (Vollenweider e Geyger, 2001). Il modello proposto da Vollenweider può essere concettualizzato come un complesso di disturbi che proviene da più deficit elementari dell’informazione sensoriale processata nei circuiti a feedback cortico-striatotalamo-corticale (CSTC). Il modello si basa sull’evidenza che il gating sensori-motorio viene modulato da multipli sistemi neurotrasmettitoriali che interagiscono tra di loro, che comprendono il glutammatergico, dopaminergico, GABAergico, serotoninergico e colinergico all’interno delle strutture corticale, limbica, striatale e del tronco encefalico. In breve, il modello è basato su cinque loop CSTC separati che funzionano in parallelo: il motorio, l’oculo-motorio, il prefrontale, l’associativo e il limbico. Il talamo, con i suoi vari nuclei, ricopre un ruolo chiave nel controllo o nella selezione del passaggio dell’informazione esterocettiva ed enterocettiva alla corteccia, e per questo è coinvolto nella regolazione dei livelli di coscienza e di attenzione. Il trasferimento dell’informazione dal talamo alla corteccia è maggiore durante la veglia e negli stati che richiedono una particolare attenzione, mentre risulta scarsa durante il sonno. L’interruzione del gating porta a inondazione di informazioni e inondazione sensoriale, frammentazione cognitiva e dissoluzione dell’ego osservati negli stati di coscienza indotti da psichedelici e nelle psicosi (Vollenweider e Geyger, 2001). Nella fase acuta della schizofrenia si manifestano più sintomi positivi che negativi, un’osservazione che indica come l’iperattività della corteccia frontale potrebbe essere un’importante manifestazione psicopatologica di episodi psicotici acuti. Uno dei modelli sulla patogenesi della schizofrenia è quello del deficit del cancello sensoriale, secondo il quale una mancata selezione degli stimoli sensoriali in ingresso alla corteccia determinerebbe la comparsa dei sintomi psicotici. Secondo questo modello, gli psichedelici (ketamina, psilocibina) provocherebbero un’interruzione del “filtro” talamico, che porterebbe di conseguenza al sovraccarico sensoriale della corteccia cerebrale. Questo meccanismo spiegherebbe la frammentazione cognitiva osservata negli stati mentali indotti da psichedelici e nelle forme spontanee di psicosi. Inoltre, si presenterebbe uno squilibrio dei sistemi serotoninergico-dopaminergico o glutammatergico-dopaminergico nel circuito cortico-striato-talamico (CST), cruciale per la formazione di sintomi psicotici. L’ipotesi di questo modello prevede che il nucleo striato abbia una
funzione inibitoria sul talamo. L’inibizione del talamo dovrebbe ridurre l’input eccitatorio sensoriale alla corteccia, proteggendola dall’inondazione sensoriale e dalla rottura delle sue capacità integrative. Le proiezioni mesostriatale e mesolimbiche esercitano un input inibitorio dopaminergico sullo striato e sul nucleo accumbens. In condizioni fisiologiche, l’influenza inibitoria dei sistemi dopaminergici sullo striato è controbilanciata dall’input eccitatorio glutammatergico proveniente dalle vie cortico-striatali. La rottura di questo sistema di inibizione provocherebbe la comparsa dei sintomi psicotici (Vollenweider e Geyger, 2001). Un tale modello implicherebbe che un aumento del tono dopaminergico, così come una riduzione della neurotrasmissione glutammatergica, potrebbe in teoria portare a una riduzione del tono inibitorio dello striato sul talamo e a un’“apertura” del filtro talamico, all’inondazione sensoriale della corteccia cerebrale e alla manifestazione di sintomi psicotici. Infine, la formazione reticolare, attivata dagli input di tutte le modalità sensoriali, invia proiezioni serotoninergiche alle componenti del circuito CST e ad altre regioni corticali e sub-corticali. Un’attivazione eccessiva degli elementi post-sinaptici delle proiezioni serotoninergiche potrebbe anch’essa provocare un’alterazione del meccanismo di gating talamico, con medesime conseguenze di inondazione sensoriale e psicosi. Il modello del filtro talamico spiegherebbe le conseguenze della stimolazione dei recettori 5HT1e 5HT2 da parte della psilocibina sull’attivazione metabolica della corteccia frontale. La ketamina indurrebbe un simile effetto attraverso il blocco dei recettori NMDA e quindi delle funzioni glutammatergiche (Vollenweider e Kometer, 2010). Questo modello basato sulla iperfrontalità (inondazione sensoriale corticale) è stato studiato con immagini PET e il radioligando 18FDG, evidenziando un importante aumento del metabolismo del glucosio nella corteccia frontale in seguito a somministrazione di psilocibina (e un aumento importante del rapporto fronto/occipitale) (Vollenweider et al., 1998a). È opportuno osservare che in questi studi gli effetti della psilocibina sono stati fatti rientrare in un quadro di “sindrome psicotossica”, caratterizzata da disturbi delle emozioni, alterazioni sensoriali e dei processi mentali, alterata interpretazione della realtà e del funzionamento dell’ego. Le immagini PET hanno fornito anche l’identificazione della popolazione recettoriale attivata dallo psichedelico, che per i serotoninergici è costituita prevalentemente dai recettori 5HT2. Questi si distribuiscono principalmente a
livello della corteccia frontale e temporale; si osserva una più bassa concentrazione nella corteccia parietale e nelle regioni motorie, un livello medio nei gangli basali, e livelli molto bassi nel talamo. La somministrazione di psilocibina ha indotto un’attivazione metabolica della corteccia prefrontale tre volte maggiore rispetto a quella della corteccia occipitale. Le due regioni cerebrali mostrano tuttavia una densità recettoriale 5HT2 simile, e questa incongruenza evidenziata alle immagini suggerisce l’implicazione di un altro meccanismo o di un altro sistema neurotrasmettitoriale. Secondo gli studiosi svizzeri, questo sbilanciamento di attivazione corticale potrebbe trovare spiegazione con l’apertura del filtro talamico, in quanto le regioni attivate alle neuroimmagini (la corticale frontale, la cingolata anteriore, la temporomediale e il talamo) costituiscono proprio le regioni del circuito limbico cortico-striato-talamico. Un modello di attivazione simile sarebbe stato osservato anche con la ketamina (Vollenweider e Kometer, 2010). Questa iperfrontalità comune potrebbe essere dovuta a uno squilibrio neurotrasmettitoriale comune, nella via corticostriatale, e sia i recettori 5HT2 che NMDA sono localizzati sui neuroni GABAergici della corteccia frontale. Nei modelli di psicosi, è stata descritta una correlazione positiva tra la patologia dell’ego e un’iperfrontalità metabolica alle neuroimmagini di soggetti psicotici (Vollenweider et al., 1997). In uno dei suoi primi studi, l’équipe di Vollenweider ha reclutato 15 volontari per valutare gli effetti cerebrali della psilocibina mediante scansioni cerebrali PET. Per evidenziare le aree corticali attivate, veniva somministrato un tracciante radioattivo, il fluorodesossiglucosio (FDG). Le immagini hanno dato conferma a quella che era l’ipotesi iniziale di Vollenweider sulla proprietà della psilocibina di simulare una sindrome psicotomimetica, e al pari di questa, indurre una iperfrontalità metabolica associata alla manifestazione di “sintomi psicotici acuti” (Vollenweider et al., 1997). L’ipermetabolismo frontale in pazienti schizofrenici (in corso di sintomi positivi e non in trattamento farmacologico) è stato dimostrato con immagini PET (Shinto et al., 2014). In seguito, come abbiamo già anticipato, anche il gruppo di Carhart-Harris ha analizzato i correlati neuroanatomici dell’esperienza psichedelica con psilocibina. Nello studio è stata utilizzata la fMRI su 15 volontari sani che avevano conosciuto bene l’esperienza psichedelica. Con sorpresa i risultati hanno indicato l’opposto di ciò che si evidenziava nello studio di
Vollenweider: la psilocibina riduceva significativamente il flusso ematico cerebrale e l’ossigenazione venosa in maniera proporzionale agli effetti soggettivi dell’esperienza, e si verificava il disaccoppiamento funzionale di due delle strutture di connessione: la corteccia prefrontale mediale (mPFC) e la corteccia cingolata posteriore (PCC) (Carhart-Harris et al., 2012). Una possibile spiegazione di questa incongruenza risiede nel fatto che Vollenweider ha utilizzato un tracciante per misurare il metabolismo del glucosio (fluorodesossiglucosio), che ha un’emivita di 110 minuti. Quindi, gli effetti della psilocibina venivano misurati alla PET su una scala temporale più ampia rispetto a quella utilizzata nella fMRI. L’aumento del metabolismo nella mPFC non è comunque una spiegazione sufficiente su come gli psichedelici producano i loro effetti caratteristici. Un’altra discrepanza risiede nella via di somministrazione del farmaco: nello studio di Vollenweider la psilocibina è stata somministrata per via orale, mentre in quelli di Carhart-Harris la somministrazione è avvenuta per via endovenosa, e ciò potrebbe spiegare almeno in parte la diseguaglianza dei risultati. L’équipe di Vollenweider ha successivamente riproposto lo studio sul flusso ematico cerebrale dopo somministrazione di psilocibina e scansioni PET, con la finalità di interpretare l’incoerenza dei risultati precedenti. Usando una tecnica di ASL pseudo-continua, che misura le variazioni di perfusione, su due gruppi di volontari sani (totale di 58 soggetti), sono state somministrate due dosi di psilocibina, una bassa (0,160 mg/kg) e una alta (0,215 mg/kg), in condizioni di riposo. Entrambi i gruppi hanno evidenziato una reazione psicologica intensa secondo la scala 5D-ASC, e la dose alta ha provocato effetti decisamente più pronunciati. Questa volta i risultati hanno indicato che la psilocibina aumenta la perfusione corticale relativa in alcune regioni (nelle regioni frontale destra e temporale e bilateralmente nell’insula anteriore), e la riduce in altre (nell’emisfero sinistro parietale e temporale e nelle regioni sinistre e subcorticali). La psilocibina riduce significativamente la perfusione nei lobi temporale, parietale, e occipitale, nell’amigdala bilaterale, la corteccia cingolata anteriore, l’insula, le regioni striatali e ippocampo. Questi nuovi risultati abbraccerebbero sia l’ipotesi dell’iperfrontalità che quelle più recenti sulla ipoperfusione, suggerendo che i risultati dipendono dalle metodiche di analisi (Lewis et al., 2017). È il caso di osservare che anche la somministrazione orale di mescalina produce un aumento del flusso ematico cerebrale nelle regioni anteriori
dell’emisfero destro (Hermle et al., 1992).
Il contributo degli studi con l’ayahuasca L’ipotesi della iperfrontalità parrebbe essere avvalorata da uno studio recente fMRI con l’ayahuasca, che ha evidenziato anch’esso una riduzione dell’attività corticale (Palhano-Fontes et al., 2015). Dopo somministrazione orale di capsule di ayahuasca disidratata, il DMT (alla dose di 1,0 mg/kg di peso corporeo) induce effetti di iperfrontalità simili a quelli della psilocibina, soprattutto nella corteccia anteriore cingolata destra, nella corteccia frontale mediale e nell’insula bilaterale. Gli effetti soggettivi indotti dalla bevanda erano accompagnati da un aumento del flusso ematico cerebrale in quelle regioni cerebrali che probabilmente occupano un ruolo prominente nella neurobiologia dell’interocezione e dell’elaborazione delle emozioni, corrispondentemente alla profonda esperienza introspettiva indotta dall’ayahuasca. La consapevolezza dei processi corporei, in particolare, sembra essere associata all’attivazione dell’insula anteriore destra. Questi sistemi neurali a sostegno della percezione corporea sono stati proposti alla base della sensazione soggettiva dell’auto-consapevolezza (Riba et al., 2006). In accordo con questi risultati, citiamo uno studio di risonanza magnetica su individui esperti di meditazione. Le immagini hanno messo in evidenza un aumento dello spessore corticale nell’insula anteriore destra e della corteccia prefrontale. I soggetti arruolati nello studio praticavano una forma di meditazione il cui scopo principale era quello di focalizzare l’attenzione verso l’interno. Gli autori dello studio hanno interpretato l’aumento dello spessore corticale come un aumento della consapevolezza degli stimoli interocettivi quale la sensazione del respiro (Lazar et al., 2005). Immagini di risonanza magnetica su assuntori regolari di ayahuasca hanno mostrato differenze significative nello spessore della corteccia cerebrale, con un aumento dello spessore corticale nella corteccia cingolata anteriore e assottigliamento della corteccia cingolata posteriore, regione chiave del DMN. Inoltre, una lunga esposizione all’ayahuasca è apparsa associata a un assottigliamento più pronunciato della corteccia cingolata posteriore e, contemporaneamente alla valutazione psicometrica, si è potuto osservare il rafforzamento del tratto di personalità associato alla spiritualità e all’attività mentale introspettiva. Queste osservazioni hanno indicato una modificazione
delle attitudini e degli interessi dell’individuo, con una propensione verso valori meno materialistici e una maggiore apertura mentale. Inoltre, nel gruppo di assuntori di ayahuasca i cambiamenti neuroanatomici non sono stati accompagnati da decadimenti delle funzioni neuropsicologiche: al contrario, hanno ridotto i comportamenti disadattivi precedenti all’uso di ayahuasca, tra i quali l’abuso di sostanze stupefacenti (Bouso et al., 2015). Per quanto riguarda i correlati neurali della visione, studi di risonanza magnetica funzionale sugli effetti dell’ayahuasca hanno rivelato che ad occhi chiusi l’ayahuasca produce un forte aumento dell’attivazione delle aree occipitale, temporale e frontale. Nella corteccia visiva primaria, la potenza dell’effetto era sovrapponibile a quella delle immagini naturali a occhi aperti, e questo effetto si manifestava in concomitanza delle modifiche percettive individuali. Durante la fase di imagerie mentale con ayahuasca era evidenziabile alla risonanza magnetica il potenziamento dell’attività delle aree corticali coinvolte nella memoria episodica e nell’elaborazione delle associazioni contestuali. Inoltre, era osservabile la modulazione di un’area frontale coinvolta nell’immaginazione prospettica intenzionale, la memoria di lavoro e l’elaborazione delle informazioni di provenienza interna. L’ayahuasca sembra quindi attivare un ampio circuito che coinvolge visioni, memoria e intenzione. Potenziando l’intensità di immagini richiamate allo stesso modo di immagini reali, l’ayahuasca favorisce l’attribuzione di un senso di realtà alle esperienze interne, e probabilmente questa sua natura visionaria l’ha fatta selezionare dagli sciamani amazzonici per favorire esperienze di rivelazione profonda (Araujo et al., 2012). Ancora, la risonanza magnetica ha evidenziato per l’ayahuasca un aumento robusto dell’attivazione di molte aree, tra le quali quella frontale, temporale, occipitale. Nell’area visiva primaria, la potenza dell’effetto è paragonabile a quello dell’attivazione indotta da immagini naturali a occhi aperti. L’ayahuasca induce la modulazione di un’area frontale coinvolta nell’immaginazione prospettiva intenzionale, la memoria di lavoro e l’elaborazione di informazioni di origine interna. Alcuni modelli biologici sostengono che l’instabilità delle oscillazioni all’interno della corteccia visiva primaria possa facilitare l’insorgenza di allucinazioni geometriche attraverso la riorganizzazione dei modelli di eccitazione neurale, e le registrazioni con fMRI a occhi chiusi in corso di allucinazioni da ayahuasca indicano che la corteccia visiva sotto ayahuasca si comporta “come se” ci fosse un input esterno anche in sua assenza (Araujo et al., 2012).
I correlati neurali dello stato psichedelico Esaminiamo ora nel dettaglio alcuni degli studi sui correlati neurali dello stato psichedelico. Dagli attuali risultati degli studi con neuroimaging emergono alcuni principi generali. Gli psichedelici riducono la stabilità e l’integrità di reti neurali ben consolidate, e contemporaneamente riducono il grado di separazione o disgregazione tra di esse. Questo è il principio secondo il quale il cervello sotto effetto di psichedelici diventa più “entropico”. I tentativi precedenti volti a identificare i correlati neurali del sé e dell’ego si sono focalizzati prevalentemente sull’analisi del DMN, e numerosi studi hanno trovato una maggiore attivazione del DMN durante processi cognitivi di alto livello implicati nella costruzione del sé, come la teoria della mente, il viaggio mentale nel tempo, il processo decisionale morale. Esiste ancora una limitata conoscenza dei correlati neurali del sé e dei suoi disturbi, ma si pensa che la corteccia temporale mediale (MTL) ne sia implicata. La stimolazione elettrica della MTL produce allucinazioni visive simili a quelle indotte da psichedelici, così come al cosiddetto “stato sognante” (sensazione di sognare, déjà vu, ed esperienze di depersonalizzazione). Le ricerche recenti sul meccanismo di funzionamento degli psichedelici hanno identificato delle variazioni di funzionalità nella corteccia limbica, in particolare un’aumentata attività della MTL rispetto a una ridotta attività della corteccia. La corteccia paraippocampale, una delle regioni chiave della MTL, è un centro di connessione multimodale che svolge un ruolo importante nell’elaborazione contestuale, nella rivelazione delle familiarità, nel recupero dei ricordi, e nella memoria associativa. Questa regione è anche conosciuta come la porta d’accesso all’ippocampo, creando connessioni con i network principali implicati nei processi cognitivi più elevati, quali la corteccia posteriore cingolata (DMN), la parietale superiore (circuito dell’attenzione/controllo) e la dorso-mediale pre-frontale (network di salienza23) (Menon, 2015). Come abbiamo visto, uno dei primi studi dell’équipe londinese di CarhartHarris ha effettuato registrazioni a un gruppo di volontari sotto effetto di psilocibina con immagini fMRI. Alla risonanza veniva associata l’arterial spin labeling (ASL) – una tecnica che misura le modifiche del flusso ematico cerebrale (CBF) e il BOLD (blood oxygen level-dependent) – per evidenziare
il flusso ematico cerebrale e le variazioni di ossigenazione venosa prima e dopo le infusioni di psilocibina. Quindici soggetti sono stati esaminati con l’ASL, e altri quindici con BOLD. I risultati hanno rilevato qualcosa di sorprendente: le profonde modificazioni della coscienza indotte da psilocibina non erano accompagnate da un aumento dell’attività metabolica cerebrale, piuttosto veniva osservata solo una riduzione del flusso ematico cerebrale e del segnale BOLD. Queste modifiche erano massime nelle aree associative corticali di rilievo, come il talamo e la corteccia anteriore e posteriore cingolata (ACC e PCC). La scoperta di un’attività ridotta nella corteccia prefrontale mediale (mPFC)/ACC era inoltre predittiva (cioè correlata) dell’intensità degli effetti soggettivi. La psilocibina ha provocato anche una riduzione dell’accoppiamento tra la corteccia prefrontale mediale mPFC e la cingolata posteriore PCC. Quindi, gli effetti soggettivi degli psichedelici sembrano generati da una ridotta attività e connettività nei centri chiave di connessione cerebrale, permettendo uno stato di coscienza libero (Carhart-Harris et al., 2012). In seguito, l’esperimento con psilocibina è stato ripetuto usando la magnetoelettroencefalografia (MEG) e registrazione dell’attività oscillatoria spontanea e indotta. La psilocibina ha evidenziato una riduzione della potenza oscillatoria spontanea corticale nelle regioni associative posteriori e in quelle frontali. Un’ampia riduzione nella potenza oscillatoria è stata osservata nelle regioni del DMN. Inoltre, per misurare le modifiche della direzione del segnale BOLD dopo infusione di psilocibina, è stata utilizzata la tecnica del resting state functional connectivity (RSFC), che misura le modifiche dell’integrità dei circuiti neurali: una ridotta connettività funzionale si è osservata all’interno del DMN, nel task-positive network (TPN), e nel network dell’attenzione dorsale (DAN). Anche questo studio suggerisce che alla base degli effetti psichedelici c’è una desincronizzazione di ritmi oscillatori nella corteccia, innescati dalla stimolazione dei recettori 5HT2a delle cellule piramidali degli strati profondi corticali. La soppressione delle aree del DMN si associa a migliori performance nell’esecuzione di un compito, e la soppressione farmacologica indotta da psilocibina indica una disorganizzazione generale dell’attività dei network cerebrali durante condizioni di riposo (Muthukumaraswamy et al., 2013). Vedremo più avanti che la disintegrazione delle regioni del DMN costituisce una delle caratteristiche fondamentali della “dissoluzione dell’ego” con psichedelici, ed è stata osservata anche con l’LSD. Le
immagini fMRI dopo somministrazione di psilocibina hanno rivelato, oltre che una riduzione del flusso ematico cerebrale (CBF) e del segnale BOLD nei centri di connessione, una riduzione della connettività funzionale nel resting state nei network di riposo principali come il DMN, e la nascita di nuovi modelli di connessione. Inoltre, la riduzione della potenza delle onde alfa nella PCC si è mostrata in correlazione temporale con la dissoluzione dell’ego (Carhart-Harris et al., 2012). Anche le neuroimmagini con LSD rivelano importanti cambiamenti nell’attività cerebrale che sono correlati ai suoi effetti psicologici. Queste modifiche si osservano soprattutto nelle aree corticali associate alla visione. L’aumento del flusso ematico cerebrale nella corteccia visiva, la riduzione della potenza delle onde alfa nella corteccia visiva, e la grande espansione del profilo di connettività funzionale nella corteccia visiva primaria (aumento della connettività funzionale nello stato di riposo), correlano positivamente con la frequenza delle allucinazioni, e ciò implica che l’attività cerebrale intrinseca esercita una grande influenza sui processi visivi nello stato psichedelico. La riduzione della connettività tra il paraippocampo e la corteccia retrosplenica (regioni del DMN) ha mostrato una forte correlazione con la “dissoluzione dell’ego”, ed è caratterizzata dall’alterata interpretazione degli stimoli; un dato che evidenzia l’importanza di questo particolare circuito nel mantenimento dell’ego integro e nell’elaborazione del suo significato. È interessante notare che gli effetti sul sistema visivo, nonostante siano sperimentalmente risultati di notevole intensità, non hanno modificato la consapevolezza dell’ego, se non accompagnati dalle alterazioni del DMN. Al contrario, è stata trovata una relazione specifica tra la disintegrazione del DMN e la dissoluzione dell’ego, risultati che come abbiamo visto sono stati osservati anche con la psilocibina (Carhart-Harris et al., 2104b; 2016a). L’impatto dell’LSD sulla percezione e sull’apprendimento sensoriale si manifesta con la riduzione dell’adattamento neurale agli stimoli familiari, e con l’attenuazione della “sorpresa” agli stimoli nuovi. Nello stato indotto da LSD avviene una ricorrente rottura dell’apprendimento percettivo, che viene percepito come uno stato di aumentata incertezza o “entropia” (Timmermann et al., 2018). Le localizzazioni spaziali degli effetti degli psichedelici misurati con le diverse tecniche sono piuttosto simili per le varie sostanze: alcuni dei principali effetti della psilocibina rivelati dalla fMRI (per esempio, la riduzione del RSFC del DMN) sono stati replicati da un team che ha
utilizzato l’ayahuasca. Coerentemente con l’ipotesi precedente, questi ultimi studi indicano che un effetto “entropico” sull’attività corticale è una caratteristica chiave dello stato psichedelico (Pahlano-Fontes et al., 2015). Inoltre, la localizzazione delle regioni coinvolte negli effetti degli psichedelici mostra delle analogie con altri stati. Gli studi con EEG del 1950 riportavano l’attivazione delle regioni del lobo temporale mediale durante stati simil-psicotici sotto LSD e altri psichedelici. Pazienti con epilessia ai quali era stata effettuata la resezione dei lobi temporali mostravano attenuazione degli effetti dell’LSD dopo la chirurgia; inoltre la stimolazione elettrica del lobo temporale mediale produce allucinazioni visive di natura simile a quelle indotte dagli psichedelici (distorsione delle percezioni visive e stato “sognante”) (Carhart-Harris et al., 2016a). Riguardo i correlati neurali della visione, gli effetti visionari dell’LSD sono stati misurati dall’équipe di Carhart-Harris in condizioni di resting state, ossia con i soggetti mantenuti a riposo e a occhi chiusi, tramite fMRI seguite da magnetoelettroencefalografia (a distanza di due settimane): ai volontari è stato richiesto di dare una valutazione degli effetti mediante una scala del tipo VAS (scala analogica visiva), premendo un tasto e con un display digitale presentato dopo ogni scansione. Le immagini così ottenute hanno mostrato un aumento del flusso ematico cerebrale, della connettività funzionale a riposo e una riduzione dell’alfa power (MEG) nella corteccia visiva, elementi predittivi della potenza delle allucinazioni visive; inoltre, è stata evidenziata una riduzione dell’integrità del DMN, riduzione della connettività funzionale a riposo (RSFC) del paraippocampo, e riduzione di delta e alfa-power (in regioni come la PCC), responsabili di modifiche profonde della coscienza, fino alla dissoluzione dell’ego. Questo studio ha portato nuova luce sulla relazione esistente tra le modifiche dell’attività cerebrale spontanea e le allucinazioni indotte dallo stato psichedelico. Esisterebbe un legame stretto tra l’aumento del RSFC nella corteccia visiva V1 e la riduzione dell’alfa power, che determinano la comparsa delle allucinazioni sia semplici che complesse. L’aumento del RSFC in V1 indotto da LSD è un reperto nuovo e suggestivo, e indica che esiste un’area cerebrale molto più ampia che contribuisce all’elaborazione visiva dello stato psichedelico rispetto alle condizioni normali. Questa espansione della RSFC in V1 può spiegare come alcune funzioni psicologiche che nello stato di coscienza ordinario mostrano un carattere
discreto (l’emozione, la cognizione e altri sensi primari), possano essere esperienze più “colorate” nello stato psichedelico. Queste scoperte sull’aumentato flusso cerebrale nella corteccia visiva, l’espansione della RSFC in V1, e la riduzione dell’alfa power, possono essere considerate il correlato neuronale della “visione a occhi chiusi” sotto psichedelici, perché queste variazioni non sono normalmente associati alla stimolazione visiva (Carhart-Harris et al., 2016a). Allo stesso modo in cui la neurobiologia delle allucinazioni indotte dagli psichedelici può darci informazioni sulla neurobiologia dell’elaborazione visiva, similmente la neurobiologia della dissoluzione dell’ego indotta dagli psichedelici può informarci sulla neurobiologia del sé e dell’ego. Gli studi stanno evidenziando come la conservazione dell’integrità del DMN, della comunicazione tra il paraippocampo e la corteccia retro-splenica, e dei ritmi oscillatori regolari entro la corteccia posteriore cingolata (PCC), possono essere importanti per il mantenimento del proprio senso del sé e dell’ego. Il disaccoppiamento dei circuiti tra il paraippocampo e la corteccia retrosplenica correla con il grado di dissoluzione dell’ego, e probabilmente anche con la profondità dell’esperienza psichedelica in generale. Questo spiegherebbe perché l’integrità del sé può essere alterata in stati patologici (Carhart -Harris et al., 2016a). Grazie al contributo dato alla comprensione delle basi neurobiologiche dell’ego, gli psichedelici offrono un utile mezzo di studio delle basi eziopatogenetiche di fenomeni psicotici. Manifestato come la sensazione di disintegrazione del proprio sé, o di dissoluzione dei confini tra il proprio sé e il mondo esterno, la “dissoluzione” o “disintegrazione” dell’ego è una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza psichedelica. D’altro canto, i disturbi dell’ego hanno rappresentato uno degli argomenti principali della ricerca sulla schizofrenia sin dalla prima descrizione clinica del disturbo. Tra i correlati neurobiologici della dissoluzione dell’ego sono stati osservati il disaccoppiamento della corteccia paraippocampale dalla neocorteccia e un’anormalità di funzionamento delle regioni MTL (più volte associate a disordini dell’ego come la depersonalizzazione). A differenza degli stati psichedelici, le psicosi endogene hanno mostrato un’aumentata attività e connettività dei nodi chiave del DMN, i quali sono associati con i sintomi acuti della schizofrenia. La differenza tra i due stati consiste nel fatto che lo stato psichedelico è atteso poiché auto-indotto, mentre la psicosi no. Quando la dissoluzione dell’ego è attesa, è meno probabile incontrare resistenze e
difficoltà. Le alterazioni dell’ego sembrano essere la conditio sine qua non di un ampio range di stati psicotici endogeni e indotti da sostanze, provenienti dalla disintegrazione del network di salienza e dal disaccoppiamento della formazione ippocampale dai maggiori centri corticali. Alterazioni delle funzioni dell’ego (come ad esempio del test di realtà) provocano deduzioni errate sul mondo. Ciò potrebbe causare la rottura della normale organizzazione gerarchica del cervello, probabilmente forzando la percezione facendo molto più affidamento sulle esperienze precedenti, le quali possono assumere un significato “negativo” o “positivo”. Questo concetto sembra coincidere con quello di set e setting, in quanto le esperienze precedenti del paziente che assume lo psichedelico, insieme all’ambiente della sessione, sono due fattori critici che influenzano il contenuto dell’esperienza psichedelica (Lebedev et al., 2015). In uno studio con somministrazione di psilocibina su soggetti sani è stata evidenziata un’associazione tra il fenomeno della dissoluzione dell’ego indotto da questo psichedelico e la riduzione della connettività funzionale tra il lobo temporale mediale (MTL) e alcune regioni corticali di alto livello funzionale. Nel medesimo studio la dissoluzione dell’ego si è mostrata anche associata alla disintegrazione del network di salienza e a una riduzione della comunicazione interemisferica. Il mantenimento della percezione di un sé o di un ego integro sarebbe quindi basato sul normale funzionamento di questi sistemi (Lebedev et al., 2015). Negli studi di Carhart Harris con fMRI e MEG è stata osservata una riduzione del flusso ematico cerebrale, della connettività funzionale e della potenza oscillatoria all’interno del DMN dopo somministrazione di psilocibina (Carhart-Harris et al., 2012). A differenza della disintegrazione del DMN osservata dal gruppo di Carhart-Harris, nello studio di Lebedev si è osservata la disintegrazione del network di salienza (SLN). Lebedev ha evidenziato che, mentre il DMN è frequentemente associato al sé narrativo, il SLN è stato associato a un senso del sé più minimale o senso del sé incarnato (Lebedev et al., 2015). Anche in quest’ultimo studio la dissoluzione dell’ego era associata alla riduzione della connettività interemisferica e dell’accoppiamento funzionale dei lobi temporali mediali (MTL) e le regioni corticali. Ciò confermerebbe i primi risultati del disaccoppiamento MTL-DMN sotto psilocibina (Carhart-Harris
et al., 2012). Alcuni altri studi dell’équipe svizzera di Vollenweider svolti con LSD e psilocibina hanno apportato ulteriori conoscenze dei correlati neurali dell’esperienza psichedelica. Uno degli aspetti centrali della personalità umana è l’attribuzione di rilevanza personale agli stimoli quotidiani, che ci permette di dare un senso, un significato all’ambiente in cui viviamo. Anomalie nell’attribuzione di questo giudizio sono responsabili ad esempio dei disturbi dell’interpretazione delle esperienze sensoriali, caratteristiche cliniche di numerosi disturbi psichiatrici. I substrati neurochimici e anatomici dell’attribuzione di significato sono in gran parte sconosciuti, e l’LSD sta fornendo utili contributi a riguardo. L’LSD ha la capacità di modificare il significato soggettivo delle percezioni, e la fMRI può mettere in evidenza le modificazioni neurofisiologiche da esso indotte in corso di stimolazione sensoriale, come nell’ascolto della musica. Un esperimento del gruppo di Vollenweider ha combinato la somministrazione di LSD a volontari sani con l’ascolto di musica, osservando le dinamiche cerebrali mediante scansioni di fMRI, al fine di comprendere se l’LSD possa modificare l’interpretazione dello stimolo musicale. Il blocco del recettore serotoninergico con la ketanserina ha contribuito all’identificazione dell’effetto dell’LSD, deducendo che gli effetti sulla personalità sono mediati dal recettore 5HT2a. Dopo somministrazione orale di LSD (100 mcg), la fMRI ha evidenziato un aumento del segnale BOLD nella corteccia prefrontale in risposta alla musica, indicando l’iperattivazione di una regione cerebrale implicata nell’elaborazione dei segnali di rilevanza personale. Inoltre, è stato osservato un aumento del segnale BOLD nella corteccia cingolata posteriore (PCC) nel gruppo che ha ricevuto ketanserina + LSD rispetto al gruppo placebo. Alla PCC è stata associata la funzione di recupero dei ricordi autobiografici e di auto-riflessione esperienziale. Siccome la ketanserina blocca i 5HT2a, e l’LSD è agonista dei recettori 5HT2a e dei D2 (dopaminergici), è ipotizzabile che la stimolazione dopaminergica contribuisca al processo di elaborazione del significato dell’ambiente. I risultati di questo studio indicano che l’LSD aumenta l’attribuzione di importanza personale a stimoli precedentemente non significativi (musica), effetto mediato dalla stimolazione dei 5HT2a e associato all’attività in aree
cerebrali correlate all’elaborazione di rilevanza personale (Preller et al., 2017). Mediante un approccio meta-analitico, altri studiosi (Northoff et al., 2006) hanno identificato queste aree nelle strutture della linea mediana della corteccia, deputate alla trasformazione dell’elaborazione sensoriale da uno stimolo sensoriale semplice a un’elaborazione più complessa di autoriferimento. Gli autori di questa meta-analisi attribuiscono alle strutture della linea mediana l’elaborazione del concetto di “sé minimale” o “mentale”, associando alla corteccia prefrontale laterale l’elaborazione autoreferenziale di significato complesso compresi gli aspetti autobiografici, emozionali e spaziali del sé.24 Tornando allo studio svizzero, si è visto che l’LSD induce un aumento dell’attività di queste strutture della linea mediana in risposta a stimoli precedentemente “privi di significato”. La comprensione dei meccanismi neurochimici sottostanti all’elaborazione del significato personale agli stimoli sensoriali potrebbe rivelare delle prospettive sui target differenziali per il trattamento di patologie psichiatriche caratterizzate da questa alterazione (Preller et al., 2017). L’amigdala è una struttura anatomica fondamentale nel circuito serotoninergico dell’elaborazione delle emozioni. Essa è dotata di recettori 5HT2a e riceve l’innervazione serotoninergica dai nuclei del rafe, e questi circuiti sono coinvolti nella formazione dei ricordi emozionali (Bombardi, 2014). Disturbi quali depressione e ansia sociale presentano un’alterata elaborazione degli stimoli negativi e sono associati all’aumentata reattività dell’amigdala. In uno studio svolto dall’équipe di Vollenweider, la somministrazione di psilocibina (0,16 mg/kg) a 25 soggetti volontari sani ha prodotto riduzione della reattività dell’amigdala a stimoli negativi e neutrali rispetto al placebo. La fMRI ha evidenziato l’attenuazione del segnale BOLD in risposta a stimoli negativi a livello dell’amigdala di destra. Questa osservazione è stata associata a un miglioramento del tono dell’umore nei volontari (Kraehenmann et al., 2015).25 In uno studio svizzero di Dolder e collaboratori l’LSD ha ridotto l’identificazione delle facce tristi e paurose valutata con il Face Emotional Recognition Task (FERT).26 L’LSD ha indotto un effetto empatico che si manifestava con l’“avvicinamento agli altri”, l’“apertura verso gli altri”, e la “fiducia”. Se ne è dedotto che l’attenuazione della percezione della paura e la reattività dell’amigdala potrebbero essere utilizzate in psicoterapia (Dolder et al., 2016a,b).
Effetti simili a quelli appena descritti sono stati riscontrati in un altro studio della medesima équipe svizzera, in cui la somministrazione di LSD ha determinato una ridotta attivazione dell’amigdala sinistra in seguito alla visualizzazione di volti paurosi rispetto al placebo. L’alterazione dell’elaborazione emozionale sotto effetto di LSD è parsa dipendere dai suoi effetti modulatori sui neurocircuiti cortico-limbici (Müller et al., 2017). Anche la psilocibina riduce il riconoscimento facciale dei volti paurosi (riduzione del segnale BOLD), e questa riduzione è associata anche a un aumento dell’umore positivo. È probabile che la riduzione del riconoscimento dei volti sia dovuta a una modificazione della percezione visiva indotta dagli psichedelici, con conseguente incapacità a differenziare tra le espressioni facciali presentate. Tuttavia, in questi studi l’LSD ha modificato esclusivamente il riconoscimento dei volti paurosi, e non quello di espressioni neutre, felici e arrabbiate. Sembra che l’amigdala sinistra sia coinvolta soprattutto nell’elaborazione di espressioni facciali negative; inoltre, sembra essere meno abituata agli stimoli paurosi rispetto all’amigdala di destra, sebbene questa lateralizzazione della risposta sia ancora dubbia. L’interferenza dell’elaborazione degli stimoli negativi potrebbe promuovere un’alleanza terapeutica tra lo psichedelico e la psicoterapia, riducendo la percezione negativa delle emozioni e dei deficit cognitivi sociali (Müller et al., 2017).
Le moderne scale di valutazione dei risultati Nella descrizione fenomenologica dell’esperienza psichedelica esiste un gap metodologico relativo alle limitazioni epistemiche: l’ineffabilità dell’esperienza fa sì che la terminologia per descriverla risulti spesso metaforica e approssimativa. Una limitazione all’osservazione riguarda la registrazione degli effetti nel periodo in cui la sostanza agisce, poiché nella fase acuta dell’esperienza si presentano problemi di verbalizzazione o fluttuazioni attenzionali e motivazionali. Inoltre, l’introspezione intenzionale può venire inibita se si chiede al soggetto di rispondere a un questionario; per questo motivo la valutazione viene in genere eseguita in maniera retrospettiva. Ancora oggigiorno gli strumenti quali l’uso dei questionari o interviste strutturate restano i metodi di scelta nella quantificazione delle differenze
intra e inter-individuali nei vari stati modificati di coscienza. Determinati accordi sugli standard di valutazione sono ritenuti garantire la selezione delle informazioni, attraverso l’unificazione delle analisi e la comparabilità dei risultati, in quanto la somministrazione della stessa sostanza induce esperienze psichedeliche completamente differenti a seconda che il soggetto sia sottoposto a una scansione PET o si trovi nell’ambito di una seduta terapeutica in un’atmosfera confortevole (Majic´ et al., 2015). Nel capitolo 5 del primo volume abbiamo esposto le critiche che sono state sollevate da altri autori (congiuntamente alle nostre) su questi strumenti valutativi impiegati nel corso delle precedenti fasi delle TP, che hanno evidenziato una loro inadeguatezza nel tentativo di rendere oggettivabile un’esperienza così difficilmente descrivibile; un’inadeguatezza che alcuni studiosi moderni continuano a intravedere. Ad esempio, José Carlos Bouso ha osservato che, se da un lato le tecniche farmacologiche e neurobiologiche hanno acquisito una certa sofisticazione nel corso del tempo, pochi sforzi sono stati compiuti per ottimizzare le strutture psicometriche dei diversi questionari impiegati per valutare gli effetti delle esperienze psichedeliche, la loro validità non è stata sottoposta a un’analisi rigorosa e la struttura teorica originariamente proposta dagli autori non è stata avvalorata (Bouso et al., 2016). Nel recente studio promosso dalla ICEERS che abbiamo già presentato, in cui ha partecipato il medesimo Bouso e che ha valutato lo stato di salute fisica e psicologica di 380 partecipanti a cerimonie di ayahuasca in Spagna, per la prima volta sono stati impiegati come strumenti valutativi dei questionari basati su indicatori della salute pubblica, e non su stati patologici psichiatrici e/o sociologici. Partendo dall’osservazione dei questionari solitamente impiegati per la valutazione della salute pubblica, l’ICEERS ha preso in considerazione 8 aspetti su cui sviluppare la valutazione: stato di salute generale (salute auto-percepita, indice di peso corporeo, malattie croniche, ciclo del sonno, prescrizione di farmaci, ecc.), stile di vita (attività fisica, mezzo di trasporto per andare al lavoro, dieta), salute mentale positiva (yoga/ meditazione, sensazione di essere amati dagli altri, scopi di vita, autonomia, percezione di felicità), adjustment, strategie di coping, attività culturali, supporto sociale (numero di membri stretti del nucleo familiare, amici, presenza di una persona con cui recarsi da un medico, presenza di qualcuno con cui poter esprimere timori e preoccupazioni, ecc.), valori personali (Ona et al., 2019).
Premessi i dubbi di validità sopra esposti, e in attesa di quell’elaborazione già reclamata di nuove metodiche valutative di cui abbisogna la ricerca scientifica psichedelica – e che il recente studio della ICEERS potrebbe essere considerato come un prototipo –, di seguito presentiamo le principali scale impiegate nelle moderne ricerche con somministrazione di psichedelici sull’uomo; scale che si sono evolute a partire dagli studi su esperienze spontanee o da quelle indotte da sostanze esogene, che sono classificate come “mistiche”, “spirituali”, “di picco” o “religiose”. Indipendentemente dai termini usati per definirle, è evidente che profonde esperienze possono essere predittive di una trasformazione psicologica dell’individuo; più avanti analizzeremo in dettaglio la modalità in cui gli psichedelici possono innescare questa trasformazione dell’individuo, come evidenziato dalle più recenti ricerche. – ASC, “Altered State of Consciousness”, rappresenta probabilmente la misurazione maggiormente utilizzata per classificare gli stati modificati di coscienza in generale. Questa scala fu proposta da Dittrich nel 1975, ma le origini di questa esplorazione risiedono probabilmente nel testo seminale di Moreau de Tours del 1845 Du haschich et de l’alienation mentale, che abbiamo già presentato come il testo che fondò il il paradigma psicotomimetico; dopo aver descritto i suoi studi sull’haschish, ossido nitrico, vari narcotici e il fenomeno ipnagogico, Moreau ipotizzò che gli stati modificati di coscienza hanno un denominatore comune, indipendentemente dal mezzo che l’ha indotto. La ISACS (International Study on Altered States of Consciousness) approvò la scala ASC dopo una sperimentazione su 1133 soggetti reclutati da vari paesi europei e dagli Stati Uniti, che riferivano di aver esperito uno stato modificato di coscienza nei 12 mesi precedenti alla compilazione del questionario. Nel 44,0% dei casi, lo stato modificato di coscienza era stato indotto da hashish o marjiuana, nell’ 8,5% da LSD, mentre gli induttori psicologici di ASC erano stati la meditazione e gli stati ipnagogici (Dittrich, 1998). – 5D-ASC (ASC a 5 dimensioni), rappresenta una versione ampliata e ottimizzata della ASC. Questa scala comprende cinque dimensioni primarie e le rispettive sottodimensioni. Le dimensioni primarie sono: la “immensità oceanica” (OBN, oceanic boundlessness),27 che si riferisce all’esperienza positiva di perdita dei confini dell’ego che è associata a modificazioni del senso del
tempo e delle emozioni, che vanno dall’umore positivo a una felicità sublime e a sentimenti di unità con l’ambiente; la “disintegrazione ansiosa dell’ego” (AED, anxious ego dissolution), esperienze negative associate alla disintegrazione dell’ego, compresi disturbi del pensiero e perdita dell’autocontrollo, paranoia; la “ristrutturazione visionaria” (VRS, visionary restructuralization), si riferisce alle alterazioni percettive (illusioni visive e allucinazioni), e alterata interpretazione delle percezioni; “alterazioni uditive” (AUA, auditory alterations), compresa l’ipersensibilità ai suoni e allucinazioni uditive; la “riduzione della vigilanza” (VR, vigilance reduction). In generale, l’intensità della modificazione dello stato di coscienza e delle percezioni è dose-dipendente, e raramente dosi basse-medie possono indurre il disorientamento spazio-temporale. Con dosaggi maggiori, a seconda del soggetto, dalle sue aspettative e dal setting, lo stesso psichedelico può indurre una perdita dell’ego piacevole con sentimenti di unità, o al contrario indurre una dissoluzione dell’ego con caratteri maggiormente psicotici, comprendenti paura e ideazione paranoide. Fenomeni esperienziali simili sono stati descritti anche nei sogni, nell’esaltazione religiosa o nelle pratiche contemplative, e nella fase precoce delle psicosi.28 – HRS (Hallucinogen Rating Scale), è stata ideata specificamente per gli stati modificati di coscienza indotti da psichedelici. Inizialmente elaborata da Rick Strassman (et al., 1994) per quantificare gli effetti soggettivi da somministrazione di DMT, e per facilitare lo studio neurofarmacologico di questa sostanza su soggetti umani, è stata successivamente modificata e standardizzata per la popolazione europea e per valutare gli effetti degli altri psichedelici. La scala HRS rivisitata ha subìto una serie di modifiche, ed è diventata più corta di quella originale. Attualmente è costituita da 71 elementi distribuiti in sei scale: “Somestesia”, misura gli effetti somatici quali l’enterocettivo, viscerale e tattile; “Emozionale”, valuta le risposte sensitivoemozionali ed affettive; “Volizione”, valuta la capacità del soggetto di voler interagire con piena volontà con il suo “sé” o con l’ambiente; “Cognizione”, misura le alterazioni nei processi o nei contenuti di pensiero; “Percezione”, misura le esperienze visiva, uditiva, gustativa e olfattiva; infine, “Intensità”, riflette la potenza dell’esperienza in toto (Riba et al., 2001). – EDI (Ego Dissolution Inventory), è un questionario disegnato per misurare la dissoluzione dell’ego; un evento, considerato elemento fondamentale dell’esperienza psichedelica, che è stato interpretato dal punto
di vista psicoanalitico come “la sfocatura della distinzione netta tra la rappresentazione del sé e la rappresentazione degli oggetti, e preclude la sintesi della rappresentazione del sé in un insieme coerente” (Nour et al., 2016: 2). Questo questionario, composto da 8 elementi, serve a facilitare lo studio dei correlati neuronali della dissoluzione dell’ego, importante sia per la psicoterapia assistita in terapia psichedelica che per la comprensione delle psicosi. L’EDI è stato utilizzato anche per ricercare la relazione tra la dissoluzione dell’ego e le sostanze psichedeliche in confronto con l’alcol e la cocaina; è stato osservato che le esperienze generate da stimolanti classici come la cocaina sono antitetiche rispetto a quelle degli psichedelici, promuovendo l’inflazione dell’ego piuttosto che la sua dissoluzione (ibid.). Recentemente, il gruppo di Carhart-Harris ha sviluppato questo questionario e ha diffuso un sondaggio anonimo online (691 partecipanti) per la sua valutazione psicometrica e di validità (Nour et al., 2016). – ARCI (Addiction Research Center Inventory), è un questionario costituito di 600 elementi, sviluppato per valutare il potenziale d’abuso delle sostanze psicoattive. La versione abbreviata, composta da 49 domande vero/falso, costituisce una delle scale maggiormente impiegate nella valutazione del potenziale d’abuso delle sostanze psicoattive tra le varie classi farmacologiche (cocaina, GHB, benzodiazepine, oppioidi, piperanzine, amfetamine). ARCI consiste di cinque dimensioni: MBG (misura dell’euforia, per il gruppo morfina-benzedrina); PCAG (gruppo del pentobarbital-clorpromazina-alcol, misura della sedazione); LSD (misura delle modifiche disforiche e psicomimetiche); BG (gruppo delle benzedrine, valutazione sensitivo-stimolante); e la scala A (amfetamina). – Scala NDE di Greyson, questa scala è attualmente il gold standard per la valutazione delle esperienze di pre-morte; consiste di 16 elementi, che esplorano le modificazioni cognitive durante l’esperienza, come l’alterata percezione del tempo, cambiamenti dell’affettività, intensa sensazione di pace, senso di separazione dal corpo fisico, esperienze trascendentali come l’incontro con un essere mistico o una presenza. Il punteggio va da 0 a 32, un punteggio di 7 è generalmente considerato sufficiente per definire l’ esperienza come una NDE (Greyson, 1983). – PEQ (Persisting Effects Questionnaire), è un questionario di 89 elementi che utilizza le informazioni sulle modificazioni delle abitudini, dell’umore, del comportamento e spirituali che potrebbero essere conseguenti agli effetti della psilocibina dopo due mesi dalla sessione
(elaborato durante lo studio di Griffiths, 2006). – PDI (Peters Delusion Inventory), valuta la predisposizione al “pensiero magico, delirante” dello “schizotipo” nella popolazione generale, e contiene elementi attribuiti ai fenomeni paranormali (credere nella telepatia, stregoneria, vudu), il grado di queste credenze e il livello di angoscia a queste associato (Peters et al., 2004). – MODTAS (Tellegen Absorption Questionnaire), valuta il tratto “assorbimento”, predittivo della suscettibilità all’ipnosi (Tellegen e Atkinson, 1974).29 – SCQ (State of Consciousness Questionnaire), anche questo sviluppato sul modello teorico di Stace, è costituito da 6 dimensioni, ciascuna delle quali raggruppa relativi sottogruppi di elementi: “unità interna ed esterna” (consapevolezza pura; la fusione con la realtà suprema; unità di tutte le cose; tutte le cose sono vive; tutto è uno); “trascendenza del tempo e dello spazio”; “ineffabilità e paradossicità” (difficoltà di esprimere l’esperienza in parola); “senso di sacralità” (e riverenza); “qualità noetica”; “profonda sensazione di umore positivo” (gioia, pace e amore). L’SCQ è stato utilizzato in una serie di studi che esplorano le proprietà “misticomimetiche” della psilocibina e dell’ayahuasca, nelle proprietà farmacologiche del DMT e nel potenziale psicoterapeutico della psilocibina ed LSD. Vengono impiegate anche due scale volte alla valutazione della componente “mistica” dell’esperienza psichedelica – la M-Scale (Mysticism Scale) e la MEQ (Mystical Experience Questionnaire). Sono state utilizzate, ad esempio, per la valutazione dell’efficacia terapeutica della psilocibina nell’ansia nei terminali malati di cancro (Griffiths et al., 2016; Ross et al., 2016); nel tabagismo (Garcia-Romeu et al., 2014; Johnson et al., 2014) e nella dipendenza da alcol (Bogenschutz et al., 2015a,b). L’utilizzo di queste scale su volontari sani si è basato sull’idea che spesso l’intento della persona che vive un’esperienza psichedelica è quello di un’esplorazione spirituale, con lo scopo di ottenere un miglioramento del benessere psicologico. Gli studi di Griffiths, per esempio, hanno cercato specificamente questo aspetto spirituale dell’esperienza, per poi valutare il miglioramento psicologico e mettere in relazione questo risultato con l’esperienza mistica. Seguendo la nostra opinione già espressa nel capitolo 7, impiegare scale metriche ad hoc per fare risaltare modelli interpretativi e non qualità obiettive dell’esperienza soggettiva ci appare una forzatura che inficia i risultati della ricerca.
Le modifiche della personalità indotte dagli psichedelici Le modifiche della personalità costituiscono uno degli aspetti più evidenti degli psichedelici: di solito i tratti della personalità possono essere modificati lentamente e gradualmente con un trattamento di psicoterapia, mentre può un processo immediato e persistente con gli psichedelici. È riconosciuto che la profonda esperienza psicologica, qualunque ne sia la causa, può portare gli individui a mettere in discussione le proprie idee e cambiare i propri comportamenti, a volte in maniera definitiva. In questo modo gli psichedelici possono agire da “terapia shock”, attraverso cui l’individuo si confronterebbe con la natura illusoria del proprio sé e le proprie convinzioni. Con le dovute attenzioni, queste esperienze possono avere un ruolo unico in psicoterapia, promuovendo l’insight e l’auto-realizzazione, come descritto da alcune scuole di psicologia (Jung) e sistemi filosofici (Lebedev et al., 2016). Uno dei tratti della personalità che mostra un particolare incremento in tutti i moderni studi con gli psichedelici è quello dell’apertura (openness) nei confronti degli altri e del mondo esterno. L’apertura è una dimensione della personalità associata a molti aspetti ritenuti positivi per un salubre equilibrio psichico, fra cui l’interazione sociale, l’apprezzamento estetico e la ricerca di novità. I legami sociali sono cruciali per la salute fisica e mentale, e l’aumento della propensione all’esclusione sociale influenza lo sviluppo, la progressione e il trattamento di vari disturbi psichiatrici. D’altro canto, i pazienti psichiatrici soffrono frequentemente di isolamento sociale. I substrati neurofisiologici dell’isolamento sociale sono tuttora in gran parte sconosciuti. La psilocibina riduce la percezione degli stimoli negativi, ed è probabilmente questo effetto che aumenta l’apertura e l’interazione con gli altri. La risposta neuronale all’esclusione sociale osservabile con tecniche di neuroimmagini ha posto in evidenza una ridotta attivazione nella corteccia cingolata anteriore dorsale (dACC) e nel giro frontale mediano, che sono regioni chiave per l’elaborazione del dolore sociale. Questi dati hanno fatto ipotizzare che la psilocibina riduce l’elaborazione del dolore sociale. Quest’ultimo si distingue da quello fisico per il differente contesto relazionale: immagini di risonanza magnetica funzionale hanno evidenziato come le medesime regioni cerebrali che vengono attivate durante episodi di dolore fisico, siano attive anche in corso di esperienze in cui i soggetti riportavano di sentirsi rifiutati, ostracizzati o esclusi (Landaiche, 2009).
L’effetto della psilocibina potrebbe essere sfruttato per normalizzare l’elaborazione negativa delle interazioni riscontrata in pazienti psichiatrici che manifestano avversione sociale (Preller et al., 2016). Le modifiche della personalità indotte dall’LSD sono state analizzate in uno studio del’Imperial College londinese su un gruppo di 19 adulti sani, ai quali è stata somministrata in endovena la quantità di 75 mcg di LSD o di placebo; i soggetti sono stati quindi sottoposti in stato di riposo a tre scansioni fMRI. La durata di ogni scansione era di 7,5 minuti, con gli occhi mantenuti chiusi, e una di queste veniva eseguita con l’ascolto di musica. La valutazione delle modifiche della personalità è stata effettuata attraverso il questionario NEOPI-R30 al momento dello screening e due settimane dopo. Come risultato, l’LSD ha mostrato di avere un effetto pronunciato sull’entropia cerebrale, che aumenta sia nei circuiti cerebrali sensoriali che in quelli gerarchicamente superiori. Inoltre, questo aumento di entropia era correlato con un aumento duraturo del tratto “apertura” della personalità, e la musica migliorava il valore predittivo di questa correlazione (Lebedev et al., 2016). Anche negli studi dell’équipe di Griffiths la somministrazione di alte dosi di psilocibina in individui che non conoscevano gli psichedelici induceva un’esperienza pari alla più significativa o tra le più significative della loro vita, paragonabile all’esperienza psicologica indotta dalla nascita del loro primo figlio, e tra queste esperienze, quelle che inducevano un’esperienza di picco avevano promosso cambiamenti positivi nei comportamenti e nel tratto “apertura” che perduravano nel tempo (Griffiths et al., 2008). Gli psichedelici possono incidere sullo stato di consapevolezza e di accettazione dell’individuo. Uno studio svolto dall’équipe di Riba nell’area di Barcellona ha studiato gli effetti psicologici indotti dall’ayahuasca in 25 partecipanti a “cerimonie”, con misurazioni qualitative svolte prima e 24 ore dopo l’assunzione della bevanda. Sono state impiegate le scale FFMQ ed EQ.31 I risultati hanno evidenziato che l’ayahuasca aumenta il valore di diversi parametri correlati alle capacità di consapevolezza. La consapevolezza nella vita quotidiana è l’abilità di vivere il momento presente, concentrandosi sulle azioni che si stanno svolgendo, fare distinzione tra le esperienze interne ed esterne, e non giudicare le esperienze che provengono dall’interno – prendendo una posizione di non-valutazione tra l’esperienza presente, i pensieri o le emozioni – e permettere ai pensieri e ai sentimenti di manifestarsi senza farsi
catturare o trasportare da essi. Un’altra caratteristica che viene promossa dall’ayahuasca è la capacità di “decentramento”, ossia la capacità di osservare i propri pensieri ed emozioni come eventi temporanei della mente (osservare i pensieri spiacevoli senza identificarsi in essi, poter separare sé stessi dai pensieri e dalle emozioni). Queste modificazioni possono essere paragonate a quelle indotte dalle pratiche meditative, ed evidenziano come i miglioramenti delle capacità di autoconsapevolezza non siano esclusivi delle pratiche meditative, ma possano essere indotti anche farmacologicamente. La consapevolezza viene considerata composta dai fattori attenzionali (“non giudicare”) e attitudinali (“non reagire”), entrambi considerati misure di “accettazione”. Uno stato di aumentata auto-accettazione può essere utile in terapia, in quanto i pazienti con una psicopatologia hanno un’alterazione della componente attitudinale, più che di quella attenzionale (Soler, 2015). Un’altra nota caratteristica degli psichedelici è quella di stimolare la creatività, e i moderni studi neurofenomenologici ne stanno studiando i correlati neurali. Uno studio svolto su 26 partecipanti a “cerimonie” di ayahuasca, con test di creatività condotti prima e dopo l’assunzione di questa bevanda psichedelica, ha evidenziato un generale incremento del pensiero divergente, e parallelamente una diminuzione del pensiero convergente. Quest’ultimo è considerato un processo mentale che tende a generare una singola soluzione ottimale a un determinato problema, ed è basato su processi logici convenzionali. Il pensiero divergente, invece, rappresenta una modalità di pensiero che permette l’elaborazione di più soluzioni per ogni determinato problema, ed è generalmente considerato un indice della flessibilità di pensiero e un elemento processuale della creatività. È stato ipotizzato che un decremento della connettività funzionale in zone del DMN dopo l’ingestione di ayahuasca possa determinare una maggiore flessibilità cognitiva, e di conseguenza favorire il pensiero divergente. L’aumento della flessibilità di pensiero possiede qualità che possono promuovere un processo terapeutico, ed è un importante aspetto della terapia cognitiva (Kuypers et al., 2016). Come effetto secondario, gli psichedelici portano a un incremento dello stato di empatia, e in questo aspetto ricordano gli effetti psicologici primari degli empatogeni (MDMA e affini). È stato osservato che l’LSD aumenta la risposta emozionale agli stimoli sensoriali (musica) rispetto al placebo (Kaelen et al., 2015),32 e induce un aumento immediato del benessere psicofisico, della felicità, dell’apertura e della fiducia, effetti che appaiono simili a quelli dell’MDMA e che possono essere strumenti utili in psicoterapia
(Schmid et al., 2015). Inoltre, sotto l’influenza dell’LSD si assiste a un aumento della connettività funzionale cerebrale globale, soprattutto a livello del talamo e delle aree corticali associative. Ciò è stato associato alle descrizioni soggettive di “dissoluzione dei confini tra il sé e l’ambiente, senso di unione con il tutto” – con conseguente effetto empatico – il cui aumento risulta dalla rottura dell’integrità dei network allo stato di riposo (Tagliazucchi et al., 2016). Riguardo l’influenza degli psichedelici sulla creativitá e sull’empatia, la psilocibina ha mostrato degli effetti analoghi a quelli dell’LSD e dell’ayahuasca, promuovendo nel processo psicoterapeutico l’approccio e l’integrazione dell’intensitá delle proprie emozioni, aiutando i pazienti a rivivere gli eventi, richiamare varie associazioni e a considerare la loro situazione da un’altra prospettiva. A lungo termine, si è visto che la psilocibina aumenta la flessibilità psicologica e la soddisfazione personale della vita (Mason et al., 2019). Nell’ambito dei cambiamenti di personalità indotti dagli psichedelici, che possono persistere per tutta la vita, troviamo le modificazioni nelle attitudini e credenze di una persona. A tale riguardo risultano interessanti, oltre che sorprendenti, i risultati di uno studio che ha analizzato le tendenze politiche dei consumatori di psichedelici. Lo studio è stato promosso dall’Imperial College di Londra e si è basato su un’indagine conoscitiva su 893 assuntori di droghe (psichedelici, cocaina, alcol). Gli assuntori di psichedelici avrebbero mostrato una maggiore tendenza ad assumere idee politiche di tipo liberale (giustizia sociale, uguaglianza, diffidenza verso le pratiche capitalistiche), preoccupazioni per l’ecologia, e atteggiamenti negativi verso le politiche autoritarie (Nour et al., 2017). Cambiamenti della personalità sono stati osservati anche in soggetti sofferenti di patologie mentali. La psilocibina ha evidenziato una modulazione dei parametri della personalità in pazienti con depressione maggiore resistente (TRD): i pazienti che avevano partecipato allo studio dell’équipe di Carhart-Harris sugli effetti antidepressivi della psilocibina (Carhart-Harris et al., 2016b), sono stati valutati a tre mesi usando la NEOPersonality Inventory revisionata (NEOPI-R). I risultati hanno evidenziato una riduzione significativa del parametro “nevrotiscismo”, mentre l’“estroversione” è risultata aumentata dopo trattamento con psilocibina. Entrambi i parametri hanno evidenziato un incremento corrispondentemente
al grado di “insightfulness” vissuto durante la sessione con psilocibina. Anche il punteggio dell’“apertura” è aumentato drasticamente, mentre la “coscienziosità” si è mostrata a livelli limite, e la “gradevolezza” non ha subìto modifiche. Le modifiche della personalità sono risultate molto più pronunciate rispetto al trattamento antidepressivo tradizionale, e gli effetti specifici del trattamento psichedelico si possono osservare nell’aumento dell’estroversione e dell’apertura (Erritzoe et al., 2018). Gli psichedelici possono influire sul livello di suggestionabilità di individui sia sani che malati. La suggestionabilità si riferisce alla suscettibilità o alla risposta dell’individuo alla suggestione. La suggestione si può ottenere attraverso modificazioni della coscienza, e può interessare la percezione, la sensibilità, la cognizione, l’emozione o il comportamento. La suggestionabilità ricopre un ruolo importante in psicoterapia, e l’effetto degli psichedelici, in particolare dell’LSD, potrebbe essere utilizzato a tal fine. Gli effetti dell’LSD sulla suggestionabilità sono stati valutati in uno studio controllato all’Imperial College, mediante somministrazione a dieci volontari sani di basse dosi in endovena di LSD (40-80 mcg). La valutazione della suggestionabilità e l’immaginazione mentale guidata mediante due questionari – La Scala di Immaginazione Creativa (CIS) e il Test di Immaginazione Mentale (MIT) – hanno evidenziato l’influenza dell’LSD nell’aumentare la suggestionabilità. Il tratto “coscienziosità” sembra predittivo di maggiore suggestionabilità, perché viene associato al “controllo dell’ego”. Coloro che hanno presentato un punteggio maggiore per questo tratto sono risultati essere anche quelli più sensibili agli effetti dell’LSD, probabilmente perché le loro tendenze comportamentali più coscienziose hanno comportato un cambiamento maggiore nella sospensione di queste da parte dello psichedelico (Carhart-Harris et al., 2014a). Questo studio si è focalizzato su un tipo di suggestionabilità primaria, definita come l’induzione di pensieri e azioni attraverso la suggestione. Spesso la valutazione della suggestionabilità precede l’induzione ipnotica e serve per valutare l’“ipnotizzabilità”, ma può essere valutata in assenza di ipnosi, e in questo caso si osserva la “suggestionabilità immaginativa”, che è la capacità di un individuo a concentrarsi in fantasie che hanno il potenziale di modificare il proprio comportamento o l’esperienza soggettiva. La suggestionabilità ipnotica è altamente predittiva dalla suggestionabilità immaginativa, ed entrambe possono essere considerate forme di suggestionabilità primaria. Alcune delle scale di valutazione più utilizzate per
valutare la suggestionabilità erano state progettate per seguire l’induzione di una trance ipnotica, ma successivamente sono state criticate perché considerate eccessivamente aggressive e autoritarie (per esempio si chiedeva al partecipante di tenere la mandibola serrata per impedirgli di parlare). La scala dell’immaginazione creativa (CIS) era stata progettata allo scopo di non richiedere una trance ipnotica, che avrebbe potuto provocare ansia nei partecipanti sotto effetto di LSD. La CIS si applica invitando i partecipanti a immaginare alcune situazioni, come per esempio immaginare che il braccio esterno stia diventando più pesante, o che stanno bevendo acqua rinfrescante, che il tempo diventa distorto, o di immaginare la percezione di un’anestesia locale della mano. La CIS valuta l’intensità soggettiva degli effetti immaginati, misurando quindi la suggestionabilità. La suggestionabilità dei pazienti indotta dall’LSD era stata già osservata precedentemente: negli anni 1950-1960 si era compreso che il paziente appariva molto più propenso ad avere esperienze inclini ai substrati culturali dei terapeuti ai quali erano stati affidati; per esempio, un paziente che veniva seguito da uno psicoterapeuta Junghiano era molto più propenso a vivere esperienze transpersonali con LSD rispetto a uno trattato da uno psicoterapeuta Freudiano, che invece si mostrava incline a rivivere esperienze dell’infanzia (Hartman, in Sandison, 1960: 132). È opportuno sottolineare il fatto che nel contesto psicoterapeutico la suggestionabilità può avere effetti sia positivi che negativi: basti pensare al problema dei falsi ricordi, che costituisce una controversia nella salute mentale. In alcuni casi è stato anche accusato il terapeuta per aver suggestionato il paziente. La creazione di falsi ricordi, così come l’instaurarsi di particolari credenze nella psicoterapia con psichedelici, può influenzare alcune considerazioni sui vantaggi e gli svantaggi della psicoterapia con psichedelici. Il fattore della suggestionabilità rimanda direttamente alla questione del set e del setting delle esperienze psichedeliche, che abbiamo ampiamente descritta in precedenza,33 e sebbene possa sembrare scorretto sminuire l’importanza di esperienze quali la dissoluzione dell’ego e insight filosofici a meri prodotti della suggestione, va considerato che l’interpretazione di queste esperienze è influenzata dalla suggestione. In modo simile, l’influenza della suggestione nelle descrizioni delle esperienze “mistiche” indotte da psichedelici dovrebbe essere indagata più approfonditamente, in quanto lo stesso substrato neurobiologico può essere interpretato come profondo da
alcuni e “mistico” da altri. Le neuroimmagini possono costituire un valido aiuto, poiché ci possono spiegare se le esperienze autodefinite “mistiche” abbiano gli stessi meccanismi cerebrali di quelle “non-mistiche” nel contesto dell’esperienza psichedelica. Dato il crescente supporto per la psicoterapia cognitivo-comportamentale, si potrebbe indagare più a fondo l’influenza dell’LSD nelle tecniche di condizionamento-decondizionamento, come quelle usate nella terapia delle dipendenze. L’aumento della suggestionabilità che si osserva sotto effetto di alcune droghe può essere dovuto alla sospensione del test di realtà nello stato acuto indotto dalla sostanza, e tale che l’individuo si sente meno sicuro sulle proprie credenze, e quindi, più recettivo alle influenze esterne (Carhart-Harris et al., 2014a). Circa l’importanza di un setting naturalistico, in Olanda, dove è rimasto legale il commercio e il consumo di truffles (escrescenze miceliari di funghi psilocibinici), vengono attualmente tenuti dei ritiri (retreat) a base di questi funghetti, che si svolgono nella maggioranza dei casi in luoghi naturalistici (ad esempio in una casa in mezzo al bosco). Un gruppo di ricercatori dell’Universitá di Maastricht, si sta occupando di studiare gli effetti degli psichedelici in setting naturalistici, focalizzandosi sulla comprensione degli effetti acuti e a lungo termine degli psichedelici sul benessere, sull’empatia, sulla flessibilità cognitiva. (Mason et al., 2019).
CAPITOLO 9
MECCANISMI D’AZIONE DEGLI PSICHEDELICI
In questo capitolo presentiamo la farmacologia delle sostanze psichedeliche d’attuale interesse clinico. La ripresa della possibilità di somministrazione di tali sostanze sull’uomo ha permesso per molte di queste ristudiarne la farmacocinetica e la farmacodinamica utilizzando le moderne metodologie e strumentazioni, conseguendo un insieme notevolmente più approfondito dei meccanismi d’azione rispetto alla fase della ricerca clinica degli anni ‘50-’60. Ampio spazio verrà dato al sistema serotoninergico, essendo quello principalmente coinvolto nel meccanismo d’azione degli psichedelici serotoninergici e la cui scoperta è dovuta in parte a quella dell’LSD . Secondo l’attuale classificazione farmacologica, le sostanze che agiscono a livello delle sinapsi serotoninergiche sul recettore 5HT2a sono denominate allucinogeni. Il termine psichedelico si riferisce invece all’esperienza soggettiva, con una varietà che spazia dagli stati estatici alle esperienze psicotomimetiche. I farmacologi e i chimici continuano a impiegare il termine allucinogeni per definire la relativa classe chimio-farmacologica, e tale impiego non soffre della riduzione valutativa a questo associata in altri ambiti scientifici e sociali. Per questo motivo nel presente capitolo utilizziamo il termine allucinogeno, facendo riferimento alla classe farmacologica di queste sostanze. Esula dalle nostre intenzioni presentare le basi neuroanatomiche e farmacologiche di tutti gli altri sistemi recettoriali implicati nelle azioni degli allucinogeni (dopaminergico, noradrenergico, glutammatercico): rimandiamo per questo approfondimento ai relativi testi specialistici di farmacologia e neuroscienze.
La serotonina La serotonina è uno dei neurotrasmettitori più antichi che si conoscano. È stata trovata persino negli organismi unicellulari eucarioti del genere Paramecium e Tetrahymena, nei quali è in grado di regolare la capacità di nuotare e la crescita. I recettori della serotonina sono stati trovati in diversi organismi della scala evolutiva, dalle planarie e nematodi agli insetti, fino ai mammiferi e all’uomo. Dall’osservazione di queste diversità è stato speculato che il recettore primordiale della serotonina, appartenente alla famiglia della rodopsina, sia apparso più di 700-750 milioni di anni fa, cioè in un periodo antecedente l’evoluzione dei sistemi recettoriali muscarinico, dopaminergico e adrenergico. Le tre classi principali dei recettori accoppiati a proteine G – 5HT1a, 5HT2, e 5HT7 – si sono differenziati probabilmente 600-700 milioni di anni fa, prima del periodo in cui i vertebrati si differenziarono dagli invertebrati. Il complesso recettoriale serotoninergico dei mammiferi si sarebbe sviluppato ulteriormente negli ultimi 90 milioni di anni. Non sorprende quindi che, come risultato di questa lunga storia evolutiva, la serotonina occupi una varietà di ruoli nelle funzioni fisiologiche, compreso lo sviluppo, il sistema cardiovascolare, quello gastrointestinale, le funzioni endocrine, la percezione sensoriale, comportamenti quali l’appetito, l’aggressività, il sesso, il sonno, la sfera emotiva (l’umore) e quella intellettiva (la cognizione e la memoria) (Nichols e Nichols, 2008). La maggior parte della serotonina nei mammiferi è situata nell’intestino, prodotta principalmente dalle cellule enterocromaffini. Essa è anche presente nel sangue, depositata nelle piastrine. Nel cervello la serotonina proviene da gruppi specializzati di cellule conosciute come nuclei del rafe, localizzati nella formazione reticolare del midollo encefalico. La serotonina è diffusa anche nel mondo vegetale, inclusi i funghi,34 e la scoperta della sua presenza nelle bucce di banana indusse negli anni ‘60-’70 una curiosa e fortunatamente innocua pandemia fra i consumatori di droghe, che ne fumavano le bucce essiccate ritenendole dotate di improbabili effetti psichedelici (Krikorian, 1968). Vittorio Erspamer, la serotonina e il Nobel mancato Vittorio Erspamer (1909-1999) è stato un farmacologo italiano, noto soprattutto per aver scoperto ciò che in seguito si rivelò essere una delle più importanti molecole del sistema nervoso: la serotonina. Come affermò il premio Nobel Riva Levi Montalcini, nel commemorarlo alla stampa il giorno del suo decesso, avvenuto nel 1999 all’età di 90 anni, Erspamer è stato un “Nobel mancato”,
ed ella medesima lo aveva più volte proposto per il Nobel in farmacologia, per via della sua scoperta e dei suoi approfonditi studi sulla serotonina. Alla base di questo mancato riconoscimento v’è ciò che agli occhi di molti studiosi appare essere stato un furto intellettuale, sebbene forse non fu totalmente consapevole negli anni in cui si verificò. A partire dagli inizi degli anni ‘30, Erspamer si cimentò in una serie di studi svolti presso l’Istituto di Anatomia Comparata dell’Università di Pavia, insieme a Maffo Vialli, allora direttore di quell’istituto; questi studi erano centrati su un particolare tipo di cellule da poco scoperte nelle mucose gastriche di diversi animali, denominate cellule enterocromaffini, di cui era stata notata una loro omogeneità nella reazione con l’argentatura, e la comune presenza di granulazioni interne che contenevano una sostanza sconosciuta. Le ricerche di questi due studiosi italiani apportarono un contributo fondamentale a riguardo, evidenziando la presenza delle cellule enterocromaffini nei sistemi enterici di quasi tutti i vertebrati, e dimostrando che la sostanza contenuta nei granuli di queste cellule era sempre la stessa per tutti gli animali studiati, lasciando quindi intendere l’esistenza di una molecola d’importanza primaria (Vialli e Erspamer, 1933a,b). Nel 1937 Vialli ed Erspamer annunciarono di aver isolato la sostanza presente nei granuli delle cellule enterocromaffini, offrendo i risultati di primi studi farmacologici in vitro e in vivo, fra cui la proprietà di contrarre il muscolo liscio dell’utero del topo (Vialli e Erspamer, 1937a,b). Negli anni successivi Erspamer proseguì principalmente da solo le ricerche su questa sostanza, che denominò “enteramina”, avendola inizialmente ritrovata nell’intestino dei diversi animali studiati; egli si cimentò in dozzine di studi istologici, farmacologici e tossicologici, i cui risultati furono pubblicati in riviste nazionali e internazionali, in tedesco e in inglese, oltre che in italiano (si veda ad es. Erspamer, 1940-43). Poiché i suoi studi furono pubblicati anche in lingue straniere e in note riviste scientifiche di portata internazionale, il suo lavoro fu ben evidente nell’orizzonte mondiale degli studi farmacologici. Undici anni dopo il primo isolamento dell’enteramina da parte di Vialli ed Esparmer (avvenuto nel 1937), un’équipe di farmacologi della Cleveland Clinic Foundation (Ohio, USA), guidata da Maurice Rapport, isolò una sostanza dal sangue di mucca che aveva una significativa proprietà vasocostrittrice, e che denominò “serotonina”, risultante da una combinazione dei termini “siero” e “tonico” (Rapport et al., 1948a,b). Che l’enteramina potesse avere nella sua struttura un nucleo indolico, vicino a quello della bufotenina, fu sospettato da Vialli ed Erspamer sette anni prima di Rapport (Vialli e Erspamer, 1942; Rapport, 1949); un sospetto che divenne certezza quando Erspamer sviluppò studi comparativi fra l’enteramina e gli alcaloidi indolici della secrezione del rospo (Erspamer, 1946). Nel 1951, due chimici dell’Abbot Laboratories di Chicago dimostrarono attraverso una sintesi l’identità della serotonina con la 5-idrossitriptamina (Hamlin e Fischer, 1951). L’anno successivo Erspamer giunse all’identificazione dell’enteramina come 5-idrossitriptamina, dimostrando che enteramina e serotonina erano la medesima molecola (Erspamer e Asero, 1952). Verificato che l’enteramina fu isolata nel 1937, mentre la serotonina fu isolata nel 1948 (intese queste come date di pubblicazioni dei risultati delle rispettive ricerche), e preso atto della mole di studi svolti sull’enteramina nel decennio precedente l’isolamento della serotonina, la sostanza in questione avrebbe dovuto per correttezza essere denominata in maniera definitiva enteramina. Ma ciò non avvenne, e in pochi anni il termine enteramina fu abbandonato a favore di quello di serotonina. I motivi di questa ingiusta attribuzione di nomenclatura sono complessi, ma appare abbastanza certo che ciò fu alla base del mancato pieno riconoscimento del lavoro pionieristico di Erspamer. Nell’esporre gli eventi che portarono alla scoperta della serotonina, diversi autori ancora oggi presentano dati parziali o imprecisi, che di fatto svalutano la portata dello studio di Erspamer. Ad esempio, un luogo comune errato è la stigmatizzazione della differenza fra l’enteramina di Erspamer, che fu isolata dagli animali, e la serotonina di Rapport, che sarebbe stata isolata nell’uomo, che non è vero: Rapport isolò la serotonina dal sangue bovino. Questa imprecisa
stigmatizzazione parrebbe essere più o meno inconsapevolmente utilizzata per dare un immeritato “valore aggiunto” alla serotonina rispetto all’enteramina. E questo improprio “valore aggiunto” parrebbe essere una costante nella letteratura farmacologica sia divulgativa che accademica, e ciò sin dai primi anni. Un’altra errata considerazione comunemente riportata è il fatto che la scoperta della serotonina fosse avvenuta pressoché contemporaneamente da parte di Erspamer e Rapport. Portiamo come esempio un noto studio del 1954 dei farmacologi Woolley e Shaw, del Rockefeller Institute for Medical Research di New York. Nell’esporre la storia della scoperta della serotonina, e riferendo il fatto che “fu il risultato di due linee di lavoro indipendenti”, per primo presentano il lavoro di Rapport e non quello di Erspamer. E quando presentano il lavoro del farmacologo italiano, lo fanno con considerazioni imprecise: “Mentre il lavoro sull’identificazione del vasocostrittore del siero era in atto, Erspamer, in Italia, aveva svolto ricerche….”. Il “lavoro sull’identificazione del vasocostrittore del siero” di Rapport avvenne 11 anni dopo l’isolamento dell’enteramina da parte di Erspamer, per cui quel “mentre” è palesemente una forzatura non veritiera. Inoltre, come riferimenti bibliografici vengono indicati lavori tardi di Erspamer, del 1952, senza riferire della mole di lavori che a partire dal 1937 lo studioso italiano aveva pubblicato sull’enteramina (Woolley e Shaw, 1954a: 122). Le disattenzioni, insieme a probabili prepotenze accademiche d’oltre oceano, portarono di fatto al mancato riconoscimento della piena paternità della scoperta dell’enteramina/serotonina da parte di Erspamer. In suo ricordo abbiamo dedicato questo nostro volume.
La trasmissione serotoninergica La famiglia del recettore della serotonina è più grande di qualsiasi altra famiglia di recettori per neurotrasmettitori accoppiati alle proteine G: se ne distinguono 7 tipi (5HT1-7). Quasi tutti questi recettori sono accoppiati a proteine G a sette eliche transmembrana, codificate da 13 geni differenti, mentre il recettore 5HT3, che differisce completamente dagli altri per struttura molecolare e risposta intracellulare, è un canale ionico controllato dal ligando. Nel 1979 furono identificati i tipi recettoriali con alta affinità di legame per l’LSD, il 5HT1, che esprime alta affinità anche per la serotonina, e il 5HT2, che interagisce anche con alcuni antagonisti. Entrambi i tipi 5HT1 e 5HT2 comprendono ulteriori sottotipi (Peroutka et al., 1981). Meccanismo d’azione La sinapsi serotoninergica è costituita da vescicole all’interno delle quali viene immagazzinata la serotonina; la depolarizzazione degli assoni terminali provoca influsso di ioni calcio e fusione delle vescicole con la membrana cellulare. La serotonina viene rilasciata e si diffonde nello spazio intersinaptico, dove interagisce con i recettori localizzati sulla membrana
post-sinaptica. Anche gli autorecettori presinaptici rispondono alla presenza della serotonina, e ne regolano la sintesi e il rilascio entro i terminali assonici presinaptici. La serotonina viene rimossa dallo spazio sinaptico da una proteina di ricaptazione presinaptica, composta da 12 eliche transmembrana, che pompa la serotonina libera di nuovo nel neurone terminale, dove viene riaccumulata in vescicole, pronta per ripetere il ciclo. Questa proteina (SERT, trasportatore della serotonina) è anche il target per i farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Le monoaminossidasi localizzate sulla membrana mitocondriale esterna deaminano tutti gli altri neurotrasmettitori che non vengono accumulati in vescicole. Il legame della serotonina a uno dei suoi recettori porta ad attivazione delle proteine di legame eterotrimeriche GTP (proteine-G) intracellulari, che dissociano dal recettore e interagiscono con effettori intracellulari per produrre segnali biochimici in seguito ad attivazione recettoriale. I principali recettori della serotonina coinvolti nelle azioni degli allucinogeni serotoninergici I recettori possono essere classificati in base al tipo di risposta intracellulare che evocano quando sono stimolati. Questa risposta è mediata da diverse proteine intracellulari la cui attivazione può indurre un segnale facilitatorio o inibitorio all’interno della cellula. Classificheremo i vari recettori serotoninergici in base a questa associazione. Sebbene siano presenti diversi recettori per la serotonina, esponiamo di seguito quelli che vengono principalmente coinvolti dall’azione degli allucinogeni. Incontreremo queste interazioni nel corso del capitolo. I recettori accoppiati a proteine Gαq Questi recettori inducono l’idrolisi dei fosfolipidi di membrana, con formazione di diacilglicerolo (DAG) e inositolo-3-fosfato, i quali possono rispettivamente attivare molecole del segnale intracellulare, come la protein chinasi C (PKC), e aumentare il calcio intracellulare. Un altro ruolo di questi recettori è la regolazione di modifiche della struttura cellulare, che regola l’adesione focale e la migrazione cellulare. A questo tipo di recettori appartiene il 5HT2a, il recettore fondamentale per lo stimolo discriminativo degli allucinogeni ed il 5HT2c, coinvolto nella regolazione della funzione mesolimbica dopaminergica e quindi nell’abuso di sostanze. A questa categoria appartiene anche il recettore 5HT2b, coinvolto nella embriogenesi
del cuore e del cervello, così come nella proliferazione dei miofibroblasti e valvulopatie cardiache. – Il recettore 5HT2a Il recettore umano 5HT2a è stato clonato per la prima volta nel 1990; riveste particolare importanza per il suo ruolo nel mantenimento delle normali funzioni cerebrali, e costituisce il bersaglio primario di buona parte degli allucinogeni. È il recettore serotoninergico più diffuso nei mammiferi e si trova in numerosi tessuti, quali i muscoli, l’endotelio, nelle cellule del sistema immunitario e del sistema endocrino, ed è principalmente distribuito nelle aree ricche di terminali serotoninergici nel sistema nervoso centrale. È prevalentemente post-sinaptico, localizzato sugli alberi dendritici distali dei neuroni piramidali. L’attivazione di questo recettore porta alla depolarizzazione di membrana mediante la chiusura dei canali al potassio in diverse aree cerebrali. Nello strato V delle cellule piramidali della corteccia prefrontale (mPFC) la stimolazione recettoriale induce un aumento delle correnti postsinaptiche eccitatorie (EPSC) (Kyzar et al., 2017). L’esposizione agli agonisti 5HT2a conduce alla desensibilizzazione recettoriale mediata dall’idrolisi del fosfatidilinositolo in differenti sistemi cellulari. Questa desensibilizzazione sembra essere mediata dalla proteina ßarrestina, che media l’attenuazione delle risposte cellulari in seguito alla stimolazione di antagonisti come i neurotrasmettitori su recettori accoppiati a proteine G. A differenza di altri recettori accoppiati a proteine G, il 5HT2a subisce una down-regulation in risposta alla somministrazione di agonisti e antagonisti. Questo è il meccanismo per cui gli allucinogeni serotoninergici (DMT a parte) presentano tolleranza immediata agli effetti psicoattivi. Probabilmente la prova più evidente dell’attività allucinogena su questi recettori è stata prodotta dall’équipe svizzera di Vollenweider, che ha dimostrato che gli effetti della psilocibina vengono bloccati dalla ketanserina, un antagonista selettivo del recettore 5HT2a nell’uomo (Vollenweider et al., 1998a). Oltre a esercitare un ruolo nelle funzioni cognitive e sensoriali cerebrali, l’attivazione dei 5HT2a è coinvolta nei meccanismi di plasticità sinaptica, come l’attivazione di c-fos osservata nella corteccia prefrontale e altri geni importanti per la plasticità sinaptica. È stato osservato che anche l’LSD
induce una forte attivazione del gene c-fos nella corteccia prefrontale (Gresch et al., 2002). In periferia, i 5HT2a sono espressi nel tessuto cardiovascolare, dove modulano una serie di funzioni. Tra queste, la proliferazione di fibroblasti arteriosi, la migrazione di cellule muscolari lisce dell’aorta, e la vasocostrizione arteriosa. I recettori 5HT2a sono stati trovati anche nelle fibre C e corna dorsali dei gangli spinali, dove la loro attivazione produce analgesia, mentre il blocco produce iperalgesia (Nichols e Nichols, 2008). Gli psichedelici potrebbero ridurre il dolore attraverso il legame con i 5HT2a localizzati nel midollo rostrale ventromediale, facilitando le vie inibitorie discendenti del dolore (Whelan e Johnson, 2018). Nonostante l’evidenza della loro azione agonista o agonista parziale, gli effetti indotti dall’attivazione del recettore 5HT2a dipendono dal tipo di ligando, e per ogni ligando verrà attivata una differente via di trasduzione del segnale, sebbene sia sempre mediata dalla proteina Gαq. Questo fenomeno di attivazione selettiva è denominato “selettività funzionale”. Ad esempio, nel caso della serotonina, che presenta una catena laterale etilaminica relativamente flessibile, ligando e recettore si adatteranno l’un l’altro attraverso modifiche conformazionali in modo da costituire un complesso temporaneo ligando-recettore. Al contrario, l’LSD presenta una conformazione sintetica rigida, ed è una molecola spazialmente grossa, per cui, quando lega il recettore, le due molecole si adatteranno l’un l’altra a formare un complesso ligando-recettore che sarà diverso da quello formato con la serotonina. L’LSD attiva il segnale mediato da proteine G su molti recettori accoppiati a proteine G (GPCRs), ma solo di recente è stato chiarito che esso attiva in maniera potente anche la via della ß-arrestina, che è una via meno comune. Sebbene molti agonisti endogeni come la serotonina attivino sia la proteina G che la ß-arrestina, alcuni composti preferiscono attivare selettivamente solo una conformazione recettoriale, agendo quindi con “selettività funzionale”. La comprensione della selettività funzionale rappresenta un traguardo per lo sviluppo di nuovi farmaci, in quanto vie di attivazione specifiche sono state attribuite sia agli effetti benefici che a quelli deleteri di un farmaco (Wacker et al., 2017). La conformazione del complesso dipende quindi dal ligando, e questi differenti complessi portano all’attivazione di diverse vie del segnale
intracellulare. Non è ancora noto quale sia l’influenza delle differenti risposte intracellulari sulla qualità dell’esperienza psichedelica (Nichols, 2016). – Il recettore 5HT2c e la natura non-additiva degli allucinogeni serotoninergici. Gli allucinogeni classici condividono l’attività agonista sui recettori 5HT2a, 5-HT2b e 5-HT2c. Non inducono dipendenza e, al contrario, si stanno rivelando efficaci nel trattamento delle dipendenze da altre sostanze. I meccanismi sottostanti a questa proprietà non sono ancora del tutto noti. Studi preclinici dimostrano che gli antagonisti 5HT2c contrastano l’effetto additivo di diverse classi di sostanze. Essi lavorano in parte modulando l’attività neuronale della dopamina nell’area tegmentale ventrale (VTA) e nel nucleo accumbens (NAc) nel circuito del reward (Nichols e Nichols, 2008). Sebbene la maggioranza degli allucinogeni serotoninergici (eccetto il DMT) sviluppi tolleranza immediata già a partire dalla seconda dose, la loro somministrazione ripetuta non induce sintomi d’astinenza nel momento in cui avviene la sospensione, caratteristica che li distingue dalla maggior parte delle droghe d’abuso. Queste caratteristiche non-additive, riportate dagli utilizzatori, sono state riprodotte in studi preclinici su animali. La dipendenza nell’animale si può osservare dal comportamento di reiterata assunzione di una sostanza attraverso un sistema di distribuzione (premendo una leva). La via di somministrazione endovenosa è quella maggiormente impiegata negli studi di auto-somministrazione, in quanto provoca una rapida insorgenza degli effetti e facilita l’apprendimento dell’associazione tra la risposta operante e gli effetti psicoattivi della sostanza. Uno dei primi studi sugli effetti di rinforzo delle droghe usando procedure di auto-somministrazione sulle scimmie Rhesus – rimasto celebre e sviluppato nel Dipartimento di Farmacologia dell’Università del Michigan di Ann Arbor – aveva dimostrato che gli animali non si auto-somministravano mescalina né spontaneamente né dopo un mese di somministrazione programmata, e questo avveniva a dosi che producevano gli effetti psicoattivi della sostanza. La mancata autosomministrazione di mescalina si poneva in contrasto con i risultati indotti da morfina, cocaina, codeina, anfetamine, pentobarbital, etanolo e caffeina (Deneau et al., 1969). L’auto-assunzione di allucinogeni avviene negli animali di laboratorio solo in condizioni estreme: ad esempio è stata osservata l’auto-assunzione di
DMT (fumata in sigarette) in scimmie sottoposte a diversi giorni di deprivazione sensoriale, come assenza di luce e suoni: in condizioni di isolamento, l’unica “finestra” che le scimmie trovarono fu la “finestra dell’allucinogeno” (Siegel e Jarvik, 1980). Il meccanismo più accreditato per gli effetti anti-additivi mediati dall’attivazione 5HT2c è l’inibizione dei neuroni dopaminergici mesolimbici, che riducono il rilascio di dopamina indotto da psicostimolanti nel nucleo accumbens (NAc). Il recettore 5HT2c avrebbe degli effetti modulatori diretti sul segnale dopaminergico nel NAc come contributo ai suoi effetti antiadditivi. I 5HT2c sono espressi in diversi sistemi neuronali che regolano l’impulsività e la ricompensa (reward), inclusa la corteccia cingolata e frontale, e l’attivazione di questi recettori induce i circuiti neuronali a modulare gli effetti delle sostanze additive (Canal e Murnane, 2017). Gli agonisti 5HT2c riducono la funzione dopaminergica mesolimbica in maniera selettiva, e questa funzione può essere utilizzata a fini terapeutici, in particolare nel trattamento delle dipendenze. Risultati preliminari su alcune molecole agoniste su questo recettore hanno evidenziato una riduzione dell’auto-somministrazione di sostanze d’abuso quali l’alcol, la nicotina e la cocaina (Di Matteo et al., 2001). Gli antagonisti 5HT2c potrebbero d’altronde essere sperimentati come antidepressivi, in quanto disinibiscono il sistema dopaminergico mesolimbico, meccanismo d’azione condiviso da vari farmaci antidepressivi. Sia gli antagonisti che gli agonisti 5HT2c mostrano proprietà antidepressive, probabilmente per la comune capacità di indurre down-regulation dei 5HT2c con la somministrazione cronica. La ridotta funzione del 5HT2c potrebbe essere il meccanismo comune attraverso cui agonisti e antagonisti potrebbero alleviare i sintomi della depressione. Questi sono ipotetici candidati nel trattamento di atri disturbi psichiatrici, come nel disturbo da panico e nel disturbo ossessivo-compulsivo. Inoltre, antagonisti selettivi 5HT2c possono essere utili nel trattamento dei sintomi negativi della schizofrenia, condizione clinica nella quale è stata ipotizzata una ridotta funzionalità del sistema dopaminergico mesolimbico (Di Matteo et al., 2000). Recettori accoppiati a proteine G inibitorie (Gi/0) L’attivazione di questa classe di recettori
porta
all’inibizione
dell’adenilato ciclasi e riduce la produzione di cAMP. La funzionalità più comune di questo recettore è la iperpolarizzazione di membrana, che inibisce il potenziale d’azione neuronale. – Il recettore 5HT1a È stato il primo recettore della serotonina a essere clonato e descritto. I 5HT1a sono localizzati nei nuclei del rafe del midollo allungato, dove agiscono come autorecettori somatodendritici inibitori sui corpi cellulari dei neuroni serotoninergici. I neuroni dei nuclei del rafe inviano fibre serotoninergiche a tutte le parti della corteccia, inibendo la sintesi e il rilascio di serotonina. Il recettore presinaptico 5HT1a espresso sulle cellule dei nuclei del rafe accoppiato alla proteina Gαi/0, che attiva l’ingresso di correnti al potassio, causa iperpolarizzazione di membrana e una ridotta attivazione cellulare. Come recettori posti-sinaptici, i 5HT1a sono espressi a elevata densità soprattutto in aree del sistema limbico quali ippocampo e amigdala, regioni associate all’umore e all’ansia. A livello ipotalamico inoltre, questo sottotipo recettoriale è uno dei principali responsabili della regolazione della sintesi e della secrezione dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH). Questo recettore è stato studiato soprattutto per comprendere la patogenesi del disturbo d’ansia, e farmaci agonisti/agonisti parziali come il buspirone sono stati sviluppati come agenti ansiolitici privi degli effetti collaterali e della dipendenza delle benzodiazepine. Del buspirone si ipotizza anche un ruolo come possibile farmaco antidepressivo (Nichols e Nichols, 2008). Si ritiene che la neurogenesi ippocampale indotta da vari agenti antidepressivi sia mediata dal recettore 5HT1a. Il tempo impiegato dagli antidepressivi SSRI a esplicare il loro effetto sembra dipendere dai meccanismi di adattamento che fanno seguito all’inibizione della ricaptazione della serotonina, aumento della disponibilità sinaptica di questa, stimolazione dei recettori 5HT1a, e ridotta attivazione neuronale che fa diminuire la biosintesi di serotonina. Il trattamento cronico con SSRI porta a desensibilizzazione di questo recettore e lento ritorno alle condizioni normali di funzionamento (Nichols e Nichols, 2008). Un altro potenziale bersaglio terapeutico è il trattamento della schizofrenia: nei reperti autoptici di pazienti schizofrenici è stata trovata una maggiore densità di 5HT1a nella corteccia prefrontale. Una siffatta sovra-
espressione sarebbe provocata da una inadeguata stimolazione serotoninergica di questi recettori. Per tale motivo gli agonisti 5HT1a potrebbero riequilibrare questo deficit. Due sono i meccanismi attraverso cui gli agonisti 5HT1a potrebbero migliorare il trattamento della schizofrenia. Il primo riguarda l’attenuazione dei sintomi parkinsoniani indotti dagli antipsicotici (aloperidolo). Negli antipsicotici atipici, creati appositamente per ridurre gli effetti collaterali di quelli precedenti “tipici”, è stato aggiunto un potente agonista 5HT1a (clozapina, quietapina, olanzapina). Inoltre, gli antipsicotici atipici favoriscono il rilascio di dopamina nella corteccia prefrontale nell’animale da laboratorio. Questo effetto potrebbe migliorare i sintomi negativi nella schizofrenia (Bantick et al., 2001). I recettori 5HT1a sono coinvolti anche negli effetti degli psicostimolanti: amfetamine e cocaina, oltre a indurre il rilascio di catecolamine, stimolano il rilascio di serotonina, che attiva i 5HT1a, che sembrerebbe coinvolto in comportamenti legati alla dipendenza, riducendo il tono serotoninergico nelle aree di proiezione (Nichols e Nichols, 2008). – Il recettore 5HT3 A differenza dei 5HT1 e 5HT2, che sono tutti recettori accoppiati a proteine G, v’è una terza categoria, il 5HT3. Questo è un recettore-canale ionico selettivo ai cationi sodio e potassio, e presenta un elevato grado di omologia con il recettore colinergico nicotinico. L’attivazione da parte della serotonina porta all’apertura del canale ionico e alla rapida attivazione e quindi desensibilizzazione della corrente verso l’interno. Le regioni a maggior espressione del recettore 5HT3 nel sistema nervoso centrale si trovano nelle regioni d’importanza critica per il controllo dell’emesi. Questo recettore non viene interessato direttamente dagli allucinogeni, ma la serotonina che viene rilasciata in corso di MAOinibizione da ayahuasca è in grado di attivare questi recettori determinando nausea e vomito.
LSD La dose minima di LSD in grado di provocare effetti psicologici o somatici nell’uomo è stata descritta intorno ai 25 mcg per via orale (Passie et
al., 2008), ma sappiamo dai riferimenti aneddotici dell’uso di microdosi di LSD che anche pochi microgrammi possono essere percepiti dal soggetto. Ciò era già stato confermato da uno studio del 1958, che evidenziò prime percezioni sull’umore su soggetti umani sani con dosaggi di 4 mcg, mentre la dilatazione pupillare iniziava a manifestarsi con 9-10 mcg (fig. 27; Greiner et al., 1958).
Fig. 27 – Diagramma dose/intensità degli effetti dell’LSD su soggetti umani sani. Con dosaggi di 4 mcg si iniziano a percepire effetti sull’umore, sull’attività psico-motoria e sulla risposta dermica galvanica (GSR). La dilatazione pupillare si inizia a manifestare con 9-10 mcg, e attorno ai 18-20 mcg si osservano aumento del polso, variazioni elettroencefalografiche e modifiche del contenuto del pensiero (da Greiner et al., 1958, p. 208).
La dose per poter esprimere gli effetti pieni dell’LSD è nella fascia di 75200 microgrammi. Con queste quantità si assiste a un’alterazione significativa dello stato di coscienza, caratterizzata dalla stimolazione dell’affettività, e viene favorita la capacità di introspezione. L’LSD provoca segni che derivano dalla stimolazione di entrambe le branche del sistema nervoso autonomo. Nella maggior parte dei soggetti la stimolazione simpatica è evidenziata dalla dilatazione pupillare e da un lievemoderato aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa; normalmente non si osservano modifiche della respirazione; sono frequenti la diaforesi e la salivazione e un arrossamento del volto; occasionalmente si
presenta nausea, ma l’emesi è rara. Segni meno importanti sono un lieve aumento della glicemia, e raramente un aumento della temperatura corporea. Sebbene predominino segni di attivazione del simpatico, esiste una grande variabilità individuale e in alcuni soggetti si può verificare parasimpaticotonia con bradicardia, ipotensione ed episodi pre-sincopali. Gli effetti cardiostimolanti sono comunque lievi e più contenuti rispetto a quelli degli empatogeni e degli stimolanti. L’effetto neurologico predominante è costituito da una iperreflessia patellare e di altri riflessi tendinei profondi. Altri segni più rari comprendono: instabilità dell’andatura fino all’atassia completa, positività del segno di Roemberg, tremori (Passie et al., 2008). Farmacocinetica Somministrato per via orale, L’LSD è completamente assorbito dal tratto gastro-enterico. Gli effetti psicologici e simpaticomimetici cominciano dopo 30-60 minuti e raggiungono il picco dopo 1,5-2,5 ore, si mantengono elevati per 3-5 ore per poi diminuire. La quota di assorbimento è massima a stomaco vuoto, mentre si riduce notevolmente dopo un pasto. Anche il pH dello stomaco e del duodeno influenzano l’assorbimento. La distribuzione dell’LSD all’interno dei tessuti e organi non è stata ancora determinata nell’uomo, e i dati farmacocinetici provengono soprattutto da studi su animali. La maggiore concentrazione di LSD nel tessuto cerebrale è stata trovata nel sistema limbico (ippocampo, amigdala, fornice e regione settale), che contiene una concentrazione da due a tre volte maggiore rispetto alle strutture corticali. Nel topo, 50 mcg di LSD scompaiono dopo pochi minuti dal sangue e sono ritrovati entro 10 minuti in quasi tutti gli organi. Nell’intestino viene rintracciato soprattutto dopo due-tre ore dall’ingestione, e vi permane fino a 12 ore. La quantità maggiore di LSD è stata trovata nel fegato, dove scompare lentamente durante le prime 12 ore; un dato che indica un significativo circolo entero-epatico. Nel topo l’LSD attraversa facilmente la barriera emato-encefalica (Passie et al., 2008). Nell’uomo è stato calcolato un tempo di emivita di 175 minuti. I metaboliti dell’LSD sono stati individuati in diverse specie animali, ed è stato trovato che quasi tutto l’LSD somministrato viene metabolizzato, mentre una piccolissima quota (meno dell’1%) è espulsa immodificata. I metaboliti identificati sono costituiti dal 13- e dal 14-idrossi-LSD e i loro coniugati con
l’acido glucuronico. Appare tuttavia una differenza metabolica a seconda della specie animale osservata. Studi in vitro hanno stabilito che l’LSD è rapidamente metabolizzato nell’uomo a forme inattive da alcuni enzimi microsomiali epatici NADHdipendenti. I metaboliti sono stati rintracciati nelle urine mediante spettroscopia a raggi infrarossi, il principale dei quali è il 2-ossi-3-idrossiLSD, non rintracciabile nel plasma. Nell’uomo la massima eliminazione urinaria dei metaboliti dell’LSD viene raggiunta approssimativamente dopo 4-6 ore dalla somministrazione. L’emivita di eliminazione è di 3,6 ore. Sia l’LSD che i suoi metaboliti sono rintracciabili nelle urine fino a 4 giorni dopo l’ingestione, e ciò è possibile per via di un riassorbimento intestinale (Faed e McLeod, 1973). Per quanto riguarda gli effetti endocrini, in seguito a somministrazione di 200 mcg di LSD a 16 volontari sani, è stato osservato un aumento delle concentrazioni plasmatiche di cortisolo, prolattina e adrenalina. In condizioni cliniche controllate l’LSD non ha indotto ansia, piuttosto sentimenti di benessere, felicità e vicinanza agli altri, apertura e fiducia, effetti tipicamente osservabili con l’MDMA. Questo effetto empatico è probabilmente riconducibile all’aumento dei livelli di ossitocina. In alcuni soggetti gli effetti psicologici acuti registrati con la dose di 200 mcg sono durati fino a 12 ore, mentre in altri studi con dosi più basse sono stati registrati effetti che si esaurivano in un tempo più breve (Schmid et al., 2015). Tossicità Negli studi tossicologici sugli animali degli anni ‘50-’60, veniva calcolata una dose letale (LD50) attraverso la somministrazione di quantità eccezionalmente alte di LSD (nell’ordine di milligrammi fino a decine di milligrammi per chilo di peso corporeo), e per quanto riguarda l’uomo, non sono state finora documentate dosi letali da overdose di LSD. In un case report del 1974, fu riportato il caso di otto individui che avevano consumato accidentalmente una dose molto alta di LSD per via nasale, scambiandola per cocaina. Dopo 15 minuti circa dalla somministrazione intranasale i soggetti furono ricoverati al dipartimento di emergenza dell’Ospedale di San Francisco, manifestando diversi gradi di intossicazione, dallo stato psicotico con ipereccitabilità al coma, con segni di iperattivazione del simpatico, tachicardia, vomito, ipertermia, lieve sanguinamento gastrico come conseguenza dell’alterazione della diatesi piastrinica, e problemi respiratori
fino all’arresto respiratorio. Erano stati riscontrati livelli plasmatici di 10007000 mcg per 100 mL di plasma. Tutti sopravvissero senza complicazioni dopo trattamento ospedaliero (Klock et al., 1974). Come abbiamo già sottolineato, gli studi degli anni ‘60 che pretesero di evidenziare danni cromosomici da LSD erano dettati da motivazioni politiche ed erano inadeguati dal punto di vista metodologico. Dishotsky osservò che i danni descritti in alcuni di questi studi dipendevano da una serie di fattori: ad esempio la misurazione delle concentrazioni e del tempo di esposizione della cromatina all’LSD, che negli umani non potevano essere raggiunte con le dosi generalmente utilizzate; i danni dimostrati non erano differenti da quelli di altre sostanze comunemente utilizzate; la maggior parte dei casi esaminati erano stati sottoposti a LSD non puro, ma “adulterato”; in altri casi i danni cromosomici osservati nel campione non potevano essere associati all’uso del solo LSD ma a un generale abuso di sostanze illecite. A un’attenta rianalisi non furono trovate relazioni di tipo causa-effetto nel potenziale teratogenico e carcinogenetico dell’LSD. Unica concreta controindicazione riguarda l’uso di LSD in gravidanza (Dishotsky et al., 1971).35 Interazioni recettoriali Se da un lato si è velocemente compreso che l’LSD e gli altri allucinogeni agiscono sul recettore della serotonina, la comprensione delle azioni dell’LSD a livello molecolare resta ancora confusa, nonostante siano stati eseguiti numerosi studi computazionali, genetici, comportamentali e farmacologici. La struttura del legame dell’LSD con il suo target molecolare in vivo 5HT2a inizia a essere compreso grazie all’osservazione della relazione esistente tra la sua struttura chimica, la sua attività, la cinetica e il segnale trasmesso. Innanzitutto, la catena laterale amidica dell’LSD – il gruppo che la distingue dalla molecola congenere meno potente lisergamide (LSA) – adotta una conformazione obbligata nel sito di legame che non può essere cambiata facilmente in stati conformazionali alternativi. Questa conformazione è cruciale per le azioni dell’LSD, e gli analoghi che non possono adottare tale modellamento risultano molto meno potenti in vivo. Inoltre, questa conformazione sembra contribuire alla potente abilità di promuovere la traslocazione della ß-arrestina, che come abbiamo visto è responsabile della desensibilizzazione del recettore. Il recettore 5HT2b cristallizza più facilmente del 5HT2a, ed è stato per questo usato come modello per
comprenderne la farmacologia. La struttura del complesso 5HT2b/LSD rivela che i sostituenti amidici, come il gruppo dietilamidico dell’LSD, sono i principali determinanti del posizionamento delle molecole ergoliniche all’interno della tasca allosterica. La cinetica di legame molto lenta dell’LSD nei due recettori 5HT2b e 5HT2a è dovuta in parte al “lid” formato dal loop extracellulare (EL2) che copre la tasca di legame una volta che la molecola di LSD è stata inglobata (Wacker et al., 2017).
Psilocibina Distribuita negli anni ‘60 dalla casa farmaceutica Sandoz sotto il nome commerciale di Indocybin, la psilocibina è la sostanza maggiormente impiegata negli studi clinici recenti. A differenza del DMT, essa è attiva per via orale, ma i suoi effetti sono più brevi di quelli della mescalina e dell’LSD. Una buona parte degli studi moderni con la psilocibina è stata sviluppata dall’équipe di Franz Vollenweider presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Zurigo. Con un dosaggio medio di 12-20 mg orali la psilocibina produce uno stato modificato di coscienza caratterizzato dalla stimolazione dell’affettività, aumento della capacità introspettiva, manifestazione di un’esperienza ipnagogica o stato sognante, similmente a quanto è stato osservato per l’LSD. Gli effetti durano dalle 3 alle 6 ore. Gli effetti somatici sono praticamente sovrapponibili a quelli osservati con l’LSD. Gli effetti osservati nei ratti alla dose di 10 mg/kg sottocute comprendono: midriasi, piloerezione, irregolarità della frequenza cardiaca e della frequenza respiratoria, effetto iperglicemico e aumento della pressione arteriosa. Questi segni sono stati interpretati come l’effetto di una sindrome eccitatoria da stimolazione centrale del sistema simpatico. Non sono stati riscontrati modificazione dei livelli degli ormoni prolattina, cortisolo e ormone della crescita. I test di mutagenicità utilizzati sui ratti non hanno evidenziato alcun potenziale mutagenico della psilocibina. La dose letale calcolata nel topo dopo iniezione endovenosa è risultata di 280 mg/kg, che implica un LD50 nell’uomo nell’ordine di diversi grammi di psilocibina (Passie et al., 2002). Farmacocinetica Dopo somministrazione orale, il 50% della psilocibina viene assorbita
uniformemente nell’intero organismo. Ingerendola a stomaco vuoto viene trovata a dosi significative nel plasma entro i 20-40 minuti. I primi effetti psicologici si manifestano a partire da concentrazioni plasmatiche di 4-6 nanogrammi/ml. La concentrazione soglia affinché vengano percepiti gli effetti simpaticomimetici ma non quelli allucinogeni varia in base all’individuo, ma può avvenire nella fascia di 3-5 mg orali. Gli effetti completi si hanno con dosi che vanno da 8 a 25 mg orali e sopraggiungono entro 70-90 minuti. La psilocibina viene velocemente trasformata in psilocina mediante defosforilazione enzimatica, e ciò avviene sia nell’assunzione orale che nella somministrazione per endovena (Hasler et al., 1997). La psilocina, che appare nel plasma dopo 30 minuti, può quindi essere considerata un profarmaco. Dopo un rapido incremento dei suoi livelli plasmatici della durata di circa 50 minuti, segue una discesa relativamente lenta della curva, che termina a circa 360 minuti. La somministrazione endovenosa presenta una cinetica diversa, con un’emivita molto più breve di 74,1 ± 19,6 minuti ev rispetto ai 163 ± 64 minuti per via orale, e gli effetti soggettivi durano solo dai 15 ai 30 minuti. L’eliminazione dei metaboliti glucuronati, così come della psilocibina inalterata (3-10%), avviene da parte del rene. Circa due-terzi dell’escrezione renale della psilocina viene completata dopo 3 ore, ma con grandi differenze individuali. L’emivita media di eliminazione della psilocina è di 50 minuti (Passie et al., 2002). Da tempo è stata osservata una tolleranza crociata tra psilocibina e LSD (Isbell et al., 1961). Per quanto riguarda il DMT, un altro allucinogeno serotoninergico, descriveremo la sua farmacologia nel paragrafo dedicato ai meccanismi d’azione dell’ayahuasca.
Meccanismo d’azione degli allucinogeni serotoninergici Descriviamo ora le acquisizioni su come agiscono gli allucinogeni serotoninergici, esponendoli con un ordine prevalentemente storicocronologico, con lo scopo di evidenziare il lungo percorso che ha portato alle conoscenze attuali. David Nichols – uno dei più importanti chimici e neurofarmacologici tuttora attivo nella ricerca degli allucinogeni – ha sottolineato il fatto che l’acquisizione delle conoscenze dell’intero campo delle neuroscienze della
serotonina, specialmente le funzioni della serotonina nel cervello, furono dovute alla scoperta dell’LSD (Nichols, 2016). Dopo circa dieci anni dalla scoperta di Hofmann degli effetti dell’LSD sull’uomo, avvenuta nel 1943, Twarog e Page (1953) scoprirono la presenza della serotonina nel cervello dei mammiferi. La somiglianza tra le strutture chimiche della serotonina e dell’LSD portò subito all’ipotesi che l’azione dell’LSD fosse dovuta all’interazione con il sistema serotoninergico nel cervello. Tale riconoscimento indusse Wooley e Shaw nel 1954 a proporre che “le alterazioni mentali causate dall’acido lisergico fossero attribuite all’interferenza sull’azione della serotonina nel cervello” (Wooley e Shaw, 1954b; Cerletti e Rothlin, 1955). Durante i loro studi sull’LSD, Gaddum e Hameed (1954) osservarono che antagonizzava l’azione della serotonina nei tessuti di animali, e che probabilmente la relazione esistente tra LSD e serotonina era simile a quella esistente tra acetilcolina e atropina. L’idea iniziale condivisa dai principali ricercatori sul tema era che gli effetti dell’LSD potessero dipendere dal blocco dei recettori della serotonina nel sistema nervoso centrale. Negli studi volti a dimostrare l’azione dell’LSD sulla serotonina, si alternarono quelli in cui ne veniva ipotizzata un’azione antagonista a quelli in cui si dimostrava un’azione serotonino-simile (Shaw e Wooley, 1956). L’ipotesi dell’LSD come inibitore della serotonina non fu alla fine dimostrabile, mentre risultò sempre più evidente un effetto di potenziamento del sistema serotoninergico, con l’evidenza di un aumento del contenuto cerebrale di serotonina (Freedman e Giarman, 1961). La serotonina stessa mostrava un effetto “anti-serotonina”, che sembrava il risultato della combinazione di due o più molecole di serotonina su di un sito recettoriale. Questo sito sarebbe risultato quindi inibito per via del fatto che più molecole si legano ad esso (classico esempio di inibizione enzimatica da eccesso di substrato) (Shaw e Wooley, 1956). Nel 1968, Andén propose che l’LSD potesse avere un’azione agonista diretta sul recettore cerebrale della serotonina: “l’LSD riduce il turnover della serotonina nel ratto a livello cerebrale e spinale. Tale ritardato turnover potrebbe derivare dalla stimolazione dei recettori serotoninergici centrali” (Andén et al., 1968).36 Inoltre, era stato osservato che l’LSD riduce il contenuto intraneuronale di noradrenalina per inibizione dell’enzima tirosinidrossilasi, che catalizza la prima tappa della sintesi delle catecolamine. Fu
quindi sospettato un collegamento tra il sistema serotoninergico e quello noradrenergico sotto influenza di LSD: “Le modificazioni osservate nei neuroni serotoninergici e noradrenergici potrebbero essere tra di loro correlate. Non si può ancora dare una spiegazione semplice per questo aumento dell’attività dei neuroni centrali noradrenergici osservato in seguito a somministrazione di LSD, ma ciò potrebbe indicare che sia i neuroni noradrenergici che quelli serotoninergici siano coinvolti nell’azione centrale dell’LSD” (Andén et al., 1968). Successivamente, grazie all’avvento dei metodi di fluorescenza, fu possibile la mappatura dei circuiti serotoninergici e monoaminergici nel cervello. Sulla base delle mappe istochimiche, fu possibile esaminare direttamente gli effetti elettrofisiologici dell’LSD sui neuroni serotoninergici identificati. Si scoprì che l’LSD e le altre indolamine allucinogene avevano dei potenti effetti inibitori diretti sui neuroni serotoninergici localizzati nei nuclei del rafe del tronco encefalico. Questa ridotta stimolazione poteva spiegare gli aumenti della concentrazione di serotonina nel cervello osservati precedentemente da Andén dopo somministrazione di LSD. Tuttavia, fu presto scoperto che la mescalina e le fenetilamine allucinogene non condividevano con le indolamine un effetto inibitorio sul rafe (Aghajanian, 1994). Gli studi dell’équipe di George Aghajanian, dello Yale University School of Medicine di New Haven (Connecticut), dimostrarono che il collegamento tra il sistema noradrenergico e quello serotoninergico era mediato dall’effetto inibitorio sui neuroni del rafe pontino: questi neuroni normalmente esercitano un tono inibitorio su quelli del locus coeruleus (LC) situato accanto, quindi questo tono inibitorio viene meno e i neuroni del LC possono rilasciare noradrenalina e attivare diverse aree cerebrali. Furono quindi testate anche la psilocina, il DMT e la bufotenina, e anche per questi allucinogeni fu confermata la stessa inibizione dei neuroni del rafe. La potenza allucinogena relativa mostrata dalle indolamine fu espresso nell’ordine seguente: psilocina>DMT>bufotenina. Secondo queste prime osservazioni di Aghajanian, l’azione allucinogena delle indolamine era dovuta alla loro azione sui neuroni presinaptici dei nuclei del rafe pontino (Aghajanian e Hagler, 1975). L’ipotesi di Aghajanian era attraente, perché le cellule del rafe inviano proiezioni serotoninergiche attraverso il proencefalo e costituiscono l’origine delle afferenti serotoninergiche nella corteccia prefrontale; tuttavia, era
risultato che le fenetilamine non condividono questo meccanismo d’azione, mentre altri composti non allucinogeni si, per cui non poteva comunque essere considerato il meccanismo generale per l’azione allucinogena. Fu solo verso la fine degli anni ‘80 che si comprese che la soppressione delle cellule del rafe dipendeva dalla stimolazione dei recettori 5HT1a somatodendritici. Quando si resero disponibili gli antagonisti recettoriali, furono eseguiti studi di legame con radioligandi, che identificarono due sottotipi recettoriali centrali per il legame della 5-idrossitriptamina, che furono denominati 5HT1 e 5HT2 (Peroutka et al., 1981). Glennon dimostrò che il pretrattamento con la ketanserina sugli animali bloccava gli effetti degli psichedelici (DOM, LSD, 5-MeO-DMT, DMT). I risultati di questo primo studio suggerivano che uno dei più evidenti stimoli discriminativi indotto dagli psichedelici classici – lo head-twitch37 – è mediato dalla sottopopolazione recettoriale 5HT2a, e in parte dai 5-HT1a (Glennon et al., 1983, 1984). Negli studi successivi l’attenzione si focalizzò sul recettore 5HT2a. L’attività agonista o agonista parziale sul recettore serotoninergico 5HT2a si era rivelata una condizione necessaria per l’effetto psichedelico, ma non sufficiente a spiegare tutte le differenze qualitative tra le varie sostanze. Fu Vollenweider nel 1998 a dare la prova definitiva che gli effetti della psilocibina venivano bloccati dalla ketanserina, antagonista selettivo del recettore 5HT2a, dimostrando che il “modello della psicosi” indotta dalla psilocibina è mediato dal sottotipo recettoriale 5HT2a (Vollenweider et al., 1998b). L’identificazione di multipli sottotipi recettoriali, attraverso metodiche molecolari e di legame con radioligandi, ha contribuito alla spiegazione delle differenze tra gli effetti delle indolamine e quelle delle fenetilamine allucinogene sui neuroni serotoninergici. L’LSD esprime alta affinità per il recettore 5-HT1a, che spiega la sua azione inibitoria sui neuroni serotoninergici del rafe, ricchi di questi recettori, i quali, dato che mediano le risposte dei neuroni serotoninergici ai propri neurotrasmettitori, sono stati denominati autorecettori somatodendritici. La mescalina e le altre fenetilamine hanno affinità molto bassa per i recettori 5-HT1a, e per questo non sono in grado di inibire i neuroni serotoninergici del rafe. L’azione dell’LSD sui 5-HT1a è apparsa condivisa da
altri agonisti selettivi 5-HT1a privi di proprietà allucinogene, e da ciò si è compreso che non può esserci correlazione tra l’attività di varie sostanze sul recettore 5-HT1a e la presenza o assenza delle proprietà allucinogene (Aghajanian, 1994). Oggigiorno sappiamo che, per comprendere le differenze qualitative tra i differenti allucinogeni, si deve tener presente che, sebbene questi composti esercitino i loro effetti principalmente attraverso l’agonismo sui 5HT2a e i 5HT2c, esiste per ciascuno di essi uno spettro più ampio di affinità recettoriali, e ognuno di questi recettori può contribuire all’effetto della droga. Thomas Ray ha presentato i profili di affinità recettoriali di trentacinque sostanze psichedeliche ed empatogene. Dallo screening è emerso che queste sostanze non sono così selettive come generalmente pensato; ad esempio molti empatogeni interagiscono con 42 o 49 distinti siti recettoriali, distribuiti su diciotto diversi tipi di recettori (Ray, 2010). Azione comune degli allucinogeni sui recettori 5HT2a Al contrario delle differenti affinità sui recettori 5HT1a, esiste una buona correlazione tra le affinità di entrambe le fenetilamine e le indolamine per i recettori 5HT2 e la loro potenza come allucinogeni nell’uomo. I recettori 5HT2a non sono localizzati sui corpi cellulari delle cellule serotoninergiche, ma si trovano in sottopopolazioni di neuroni in regioni postsinaptiche. La distribuzione del recettore 5HT2a è stata evidenziata mediante tecniche di immunofluorescenza, ed è risultato localizzato soprattutto sui dendriti delle cellule piramidali dello strato V della corteccia. La corteccia piramidale esegue funzioni cognitive importantissime, in quanto riceve tutte le afferenze sensoriali elaborandole e integrandole. Indolamine e fenetilamine condividono le loro azioni su tre differenti regioni cerebrali: il locus coeruleus, il nucleo motore facciale e la corteccia cerebrale. Ciascuna di queste aree esegue un diverso livello di organizzazione e funzione all’interno del sistema nervoso centrale sui quali possono agire gli allucinogeni: sensoriale, motorio e associativo. In tutte queste regioni la loro azione è mediata dai recettori 5HT2a (Aghajanian, 1994). Riguardo il locus coeruleus (LC), esso consiste di due gruppi di neuroni noradrenergici localizzati bilateralmente nel ponte ai bordi laterali del quarto ventricolo; invia proiezioni diffuse a tutte le regioni del nevrasse, e riceve una
convergenza di input somatici, viscerali e altri input sensoriali da tutte le regioni corporee. La somministrazione sistemica di uno psichedelico nell’animale induce una riduzione dell’attività spontanea, ma anche una paradossa facilitazione dell’attivazione dei neuroni del LC in seguito a stimoli sensitivi. È stato osservato che questi effetti non sono condivisi da altre sostanze, quali la l-amfetamina, che deprimono anch’esse l’attivazione dei neuroni del LC (Aghajanian, 1980), e non dipendono da un’azione diretta della sostanza sui corpi cellulari del LC, in quanto non avviene lo stesso effetto se iniettati direttamente in situ.
Fig. 28 – Prospetto di affinità recettoriale di tre allucinogeni indolici. Fra parentesi il grado di affinità recettoriale calcolato su quella massima del primo recettore, a cui viene dato il valore di 4,00. Famiglie di recettori: 5HT, serotoninici; D, dopaminergici; Alpha e Beta, adrenergici; H, istaminici; Imidaz., imidazolinici, SERT, trasportatore della serotonina (prospetto ricavato dai dati di
Ray, 2010)
Il ruolo del glutammato La stimolazione del recettore 5HT2a provoca inoltre l’attivazione dei neuroni piramidali dello strato V della neocorteccia, e questa attivazione dipende da un rilascio del neurotrasmettitore eccitatorio glutammato. Le afferenze sero toninergiche dai nuclei del rafe e quelle noradrenergiche dal locus coeruleus raggiungono i dendriti apicali dei neuroni dello strato piramidale. Sia la serotonina, attraverso la stimolazione dei 5HT2a, che la noradrenalina, attraverso la stimolazione dei recettori α1, promuovono il rilascio di glutammato da terminali nervosi eccitatori (Aghajanian e Marek, 1997). Il glutammato rilasciato attiva i recettori AMPA sullo strato V dei neuroni piramidali. Inizialmente si era ritenuto che questo aumento del glutammato provenisse dalla stimolazione presinaptica sui 5HT2a localizzati sulle afferenze talamocorticali alla corteccia prefrontale. Studi più recenti hanno invece evidenziato che l’aumento della trasmissione glutammatergica avviene per stimolazione dei 5HT2a su una popolazione di cellule piramidali negli strati profondi della corteccia prefrontale (PFC). Questo aumento del glutammato può essere abolito sia da antagonisti del recettore serotoninergico 5-HT2a che da antagonisti recettoriali dei recettori glutammatergici AMPA, da agonisti e modulatori allosterici dei recettori metabotropici del glutammato 2 (mGluR2), e da antagonisti selettivi della subunità del recettore NMDA. Da queste scoperte si intuisce come gli allucinogeni serotoninergici siano potenti modulatori del circuito prefrontale attraverso il coinvolgimento di una complessa interazione tra il sistema della serotonina e quello del glutammato. L’attivazione dei 5HT2a e dei 5HT1a nella PFC ha effetti che si ripercuotono a valle, sia sull’attività serotoninergica attraverso proiezioni discendenti ai nuclei dorsali del rafe, che sulle aree dopaminergiche dell’area tegmentale ventrale (VTA). Queste attivazioni provocano un aumento del rilascio di serotonina nella PFC e di dopamina nelle aree mesocorticali. La psilocibina ad esempio aumenta le concentrazioni striatali di dopamina, e questo aumento potrebbe spiegare gli effetti comportamentali di euforia e depersonalizzazione. L’antagonismo del recettore dopaminergico D2 con l’aloperidolo determina una riduzione del 30% di questi effetti, a dimostrazione del fatto che il sistema dopaminergico contribuisce solo in
maniera moderata all’ampio spettro di modificazioni psicologiche indotte dalla psilocibina (Vollenweider e Kometer, 2010). Le proiezioni serotoninergiche che dai nuclei del rafe vanno alla corteccia stabiliscono anche connessioni con i neuroni piramidali glutammatergici. La serotonina rilasciata in queste sinapsi può legarsi ai recettori 5HT1a che causano un’inibizione del neurone glutammatergico. Se il glutammato non viene rilasciato dai neuroni piramidali glutammatergici nel tronco encefalico, anche il GABA non viene rilasciato e, a sua volta, non può inibire il rilascio di dopamina dalla substantia nigra nello striato. Così, la stimolazione dei recettori 5HT1a corticali è fondamentalmente analoga al blocco dei recettori 5HT2a corticali, per il fatto che entrambe le situazioni portano a un aumento del rilascio di dopamina nello striato (Stahl, 2016: 145). Abbiamo accennato al ruolo del recettore 5HT2a nella plasticità sinaptica. L’attivazione del 5HT2a non si limita a esercitare la maggior parte degli effetti psichedelici, ma induce adattamenti della neuroplasticità nel circuito prefrontale-limbico. Tra questi adattamenti, assistiamo alla down-regulation dei 5HT2a prefrontali, meccanismo che potrebbe essere alla base di alcuni degli effetti terapeutici degli allucinogeni nel trattamento della depressione. In alcune indagini autoptiche di pazienti affetti da depressione maggiore si è riscontrata una maggiore concentrazione recettoriale di 5HT2a nella PFC, e questa viene ridotta dal trattamento cronico con antidepressivi, riduzione proporzionale all’efficacia clinica di questi farmaci. A conferma di un’efficacia antidepressiva della sotto-regolazione dei recettori 5HT2a, sono stati effettuati studi in vivo su topi knock-out per il gene del recettore 5HT2a, ottenendo una riduzione dei comportamenti legati a uno stato ansioso (Vollenweider e Kometer, 2010). È stato osservato un meccanismo comune tra gli allucinogeni serotoninergici e gli anestetici dissociativi (ketamina e PCP). Gli anestetici dissociativi a dosi sub-anestetiche bloccano il recettore NMDA sugli interneuroni GABAergici nelle strutture cortico-sottocorticali, riducendo il tono inibitorio sui neuroni prefrontali glutammatergici. Quindi, allo stesso modo degli allucinogeni serotoninergici gli anestetici dissociativi aumentano il rilascio di glutammato nella corteccia prefrontale, e vengono così attivati nei neuroni piramidali di quest’area. Oltre ad avere effetti glutammatergici, gli antagonisti non-competitivi del recettore NMDA aumentano la dopamina prefrontale e mesolimbica e la serotonina prefrontale. Studi di neuroimaging
hanno confermato questo meccanismo comune dalla concomitante attivazione delle aree corticali prefrontali da parte della ketamina e della psilocibina (Vollenweider e Kometer, 2010). Il contributo del recettore 5HT2c La scoperta del recettore 5HT2c avvenne nel 1984, e fu uno dei primi recettori serotoninergici ad essere clonato. Esso condivide la struttura molecolare con i congeneri 5HT2a e 5HT2b, per cui sono disponibili pochi antagonisti ed agonisti recettoriali selettivi. Studi di legame con radioligandi hanno mostrato che gli allucinogeni serotoninergici sono poco selettivi sui recettori 5HT2a e 5HT2c, e legano entrambi con alta affinità. Ciò fu fonte iniziale di confusione su quale recettore fosse responsabile delle proprietà allucinogene; la risposta si ebbe grazie all’uso di antagonisti recettoriali, che dimostrarono che il blocco del recettore 5HT2a, e non quello del 5HT2c, sopprimeva gli effetti degli allucinogeni (Halberstadt e Geyger, 2011). Un’area di interesse per il recettore 5HT2c riguarda il suo ruolo nella regolazione del peso corporeo e dell’obesità. Questi recettori sono infatti espressi in regioni cerebrali che regolano l’assunzione di cibo, come il nucleo del tratto solitario, l’ipotalamo e nuclei ipotalamici paraventricolari. La manipolazione farmacologica di questo recettore potrebbe influenzare l’appetito e potrebbe essere sfruttata con l’elaborazione di molecole antiobesità (Bickerdike, 2003). Lo stimolo complesso e bifasico dell’LSD Mentre le fenilalchilamine mostrano una grande selettività per il recettore 5HT2a, le indolamine non sono selettive tra i sottotipi recettoriali 5HT2a/2c. Inoltre, l’LSD mostra affinità di legame per il 5HT1a e per i recettori dopaminergici D. Riguardo questi ultimi, l’LSD presenta proprietà di agonista parziale per i recettori dopaminergici D1 e D2, e agonista completo per D4. Freedman notò che gli effetti comportamentali dell’LSD sull’uomo erano di tipo bifasico, e che dopo la prima fase che presentava caratteristiche comuni agli altri allucinogeni, si manifestava una seconda fase cronologicamente successiva alla prima, caratterizzata da ideazione “paranoide”,38 effetto che non si osservava con le altre indolamine e con le fenetilamine (Freedman,1984). Sulla base di queste osservazioni, Marona-
Lewicka e Nichols hanno teorizzato che lo stadio “paranoide” dell’LSD possa essere dovuto agli effetti dopaminergici ritardati, e che questi sono responsabili della potenza comportamentale dell’LSD rispetto agli altri allucinogeni serotoninergici. Gli effetti della stimolazione da LSD avvengono in due fasi, la prima coinvolge i recettori 5HT2a e la seconda i recettori dopaminergici (Marona-Lewicka e Nichols, 2007). Similmente all’LSD, alcune indolamine allucinogene producono effetti da stimolazione complessa: il 5-MeO-DMT è uno di questi, e il suo stimolo discriminativo coinvolge anch’esso i recettori 5HT1a e 5HT2a (Halberstadt e Geyger, 2011). Oltre ai recettori illustrati, l’LSD ha come bersagli recettoriali i 5HT1d, 5HT5a, 5HT6, 5HT7, alpha2.
I recettori TAAR I recettori TAAR, o recettori per la ammine in tracce (tiramina, fenetilamina, triptamina), sono stati scoperti nel cervello e nella periferia dei vertebrati, e vengono ampiamente attivati dagli allucinogeni quali DMT e LSD e dalla serotonina. I recettori TAAR sono una famiglia di recettori accoppiati a proteine G simili alla rodopsina, il cui gene è localizzato come un singolo cluster sul cromosoma 6q23.2. La regolazione del sistema recettoriale TAAR è attualmente oggetto di studio per il suo potenziale coinvolgimento nei disturbi psichiatrici come la schizofrenia, nelle tossicodipendenze e nei disturbi metabolici. L’attivazione di TAAR1 influenza anche l’introito di cibo, il controllo della glicemia e del peso corporeo. Sta emergendo anche l’interesse per il coinvolgimento di questo recettore nella regolazione della funzione immunitaria (Berry et al., 2017). La scoperta nel 2001 di questa famiglia di recettori legati a proteine G, successivamente denominati trace amine-associated receptor (TAAR), ha innescato la nascita dell’interesse nelle cosiddette ammine in tracce. Questo termine è stato coniato per rappresentare qualsiasi ammina endogena con livelli fisiologici inferiori a 100 ng/g di tessuto, che corrisponde circa a due ordini di grandezza al di sotto delle concentrazioni dei neurotrasmettitori dopamina, noradrenalina e serotonina.
L’attenzione si è centrata soprattutto nei confronti del recettore TAAR1, che funzionerebbe come un reostato endogeno, mantenendo la neurotrasmissione centrale entro limiti fisiologici. I TAAR1 si distribuiscono soprattutto nelle aree centrali per la modulazione dei circuiti di reward e in quelle aree del sistema limbico coinvolte nei processi cognitivi e nella regolazione dell’umore. Il TAAR1 agisce nella regolazione dell’attività dopaminergica probabilmente attraverso la eterodimerizzazione del recettore dopaminergico D2. Implicazioni terapeutiche sono ipotizzate nel campo dei disturbi psichiatrici (schizofrenia), come agenti anti-craving, anti-depressivi, disturbi del sonno, in disturbi metabolici, malattia di Parkinson e regolazione della funzione immunitaria. La caratterizzazione farmacologica del recettore TAAR1 ne ha suggerito un potenziale bersaglio per la farmacoterapia del disturbo da abuso di sostanze. Amfetamine, metamfetamina e MDMA sono potenti agonisti del recettore umano TAAR1, e lo studio con topi knock-out per il gene TAAR1 ha mostrato un’aumentata sensibilità sia all’iperattività motoria che alla riassunzione di questi stimolanti, suggerendo ciò che la presenza di questo recettore potrebbe avere un effetto protettivo nei confronti del craving. Gli effetti anti-craving si sono mostrati anche nei confronti della cocaina, dove gli agonisti TAAR1 hanno ridotto la sensibilizzazione e l’iperattività indotta dallo stimolante, allo stesso modo di come avviene con i derivati delle amfetamine. Topi knock-out per il gene TAAR1 mostrano anche un aumento del consumo intenzionale di alcool, e gli agonisti TAAR1 riducono la compulsività da dipendenza da cibo. Agonisti del recettore TAAR1 sono inoltre coinvolti come anti-depressivi e come agenti che riducono lo stress; TAAR1 è anche un target nei disturbi del sonno (narcolessia), disordini metabolici, malattia di Parkinson, regolazione della risposta immunitaria (Berry et al., 2017).
Beta-carboline Gli alcaloidi dell’armala furono inizialmente identificati come i principali componenti della bevanda dell’ayahuasca, e furono ritenuti i responsabili
dell’effetto visionario, prima che nella pozione venisse scoperto il secondo e maggiormente visionario principio attivo, il DMT. Gli alcaloidi dell’armala appartengono alla classe chimica delle beta-carboline semplici, agiscono principalmente come inibitori specifici e reversibili delle MAO-A, e i più potenti sono l’armina e l’armalina. Un altro alcaloide presente nell’ayahuasca, la tetraidroarmina (THH), sebbene non sia un potente inibitore della MAO, parrebbe contribuire alla neuroattività grazie alla sua debole inibizione della ricaptazione della serotonina dai siti presinaptici (Callaway et al., 1999). Farmacologia dell’armina Oltre a essere introdotte con l’ingestione di fonti vegetali, le betacarboline vengono sintetizzate anche a livello endogeno: Jaces Callaway descrisse per la prima volta la pinolina, un forte inibitore della MAO-A sintetizzato nell’uomo probabilmente nella ghiandola pineale a partire dalla serotonina (Callaway, 1994). Nel cervello, la MAO-A è l’enzima che metabolizza le monoamine, incluse la dopamina, la serotonina e la noradrenalina. La MAO-B metabolizza preferibilmente le fenetilamine e le benzilamine, ed entrambe le isoforme deaminano la dopamina, la tiramina e le triptamine. Queste differenze sito-specifiche sono relative alla concentrazione del substrato e alla distribuzione tessutale dell’enzima, laddove la MAO-B rappresenta il 75% della MAO cerebrale totale. MAO inibitori selettivi sono usati per aumentare i livelli di dopamina nei pazienti parkinsoniani, mentre gli inibitori MAO-A sono stati prescritti come antidepressivi. L’armina è la beta carbolina che presenta le più alte concentrazioni nell’ayahuasca. Oltre alla sua nota attività MAO-inibitoria, presenta affinità per la protein chinasi DYRK1A, moderata affinità per il recettore 5-HT2a e per il recettore delle imidazoline I2, moderata affinità per il recettore 5HT2c e per il trasportatore della dopamina. Secondo il modello di Holmsted e Lindgren del 1967,39 confermato in seguito da McKenna e collaboratori nel 1984, l’armina inibisce le MAO-A nell’intestino e nel fegato, arrestando la deaminazione del DMT e permettendone quindi l’ingresso nel torrente circolatorio e l’esplicazione degli effetti psicoattivi. Tuttavia, oltre a questo ruolo facilitatorio per gli effetti del DMT, l’armina possiede una psicoattività intrinseca, che Claudio Naranjo (1969) ha definito come “effetti onirofrenici”.
L’armina subisce un metabolismo epatico di primo passaggio e viene Odimetilata in armolo dal citocromo epatico CYP2D6, e solo una piccolissima percentuale raggiunge il cervello immodificata. Siccome è stata dimostrata la psicoattività dell’armina anche in assenza di DMT, sembra plausibile che almeno una parte dell’armina non metabolizzata attraversi il SNC dopo l’ingestione. Le variabilità di concentrazione riscontrate nei soggetti che hanno assunto ayahuasca possono dipendere sia dalle diverse concentrazioni di armina presenti nella bevanda, che nelle differenze individuali genetiche dell’enzima CYP2D6 (Riba et al., 2003; Brierley e Davidson, 2012). Lo spettro d’azione dell’armina si estende ad altre funzioni complesse, come l’attività antigenotossica, antiossidante, antidiabetica e antiaggregante piastrinica. L’armina è un potente inibitore dell’enzima DYRK1A (tirosin-chinasi regolata dalla fosforilazione), che è un inibitore delle vescicole endocitotiche sinaptiche e del trasportatore di membrana della dopamina (DAT), svolgendo un ruolo di regolatore nella normalizzazione dei trasportatori di membrana aberranti e quindi nella percentuale della ricaptazione della dopamina. Questo enzima è implicato nel controllo della proliferazione cellulare in vitro e media gli effetti proliferativi dell’armina (Dakic et al, 2016). Sebbene si sia trovata una moderata affinità per il recettore 5HT2a e una certa affinità per il 5HT2c, non è stato ancora determinato se l’armina agisca da agonista o da antagonista su questi siti. Il legame delle beta-carboline ai recettori imidazolinici I-BS (imidazoline binding site) sembra essere determinante per le loro proprietà allucinogene. Sono descritte tre sottoclassi di I-BS: I1-BS è localizzato nel tronco encefalico e ha funzioni regolatrici sulla pressione arteriosa, I3-BS modula la secrezione di insulina sulle cellule pancreatiche, e I2-BS ha funzioni eterogenee e distribuzione ubiquitaria. Armina e armalina hanno mostrato elevata affinità di legame col sito I2-BS, ed è stato ipotizzato che questo sito contribuisca alle proprietà allucinogene delle beta carboline dell’ayahuasca, anzi che questo sito di legame sia ancora più importante del 5HT2a per le loro proprietà allucinogene (Brierley e Davidson, 2012). Oltre a conferire l’attività orale al DMT, la MAO-inibizione può contribuire alle azioni di altri alcaloidi psicoattivi che sono aggiunti talvolta all’ayahuasca: per esempio, la nicotina da specie di Nicotiana, la cocaina da specie di Erythroxylum, la caffeina da Ilex guayusa, atropina, scopolamina e altri alcaloidi tropanici da specie della famiglia delle Solanacee. La
complessa farmacologia intrinseca di queste combinazioni è ancora pressoché sconosciuta alla medicina moderna (Callaway, 1999).40 Armina e diabete Un interessante campo di applicazione terapeutica, al momento solo sperimentale, sembra essere l’uso dell’armina nella terapia del diabete tipo 2. Le cellule adulte umane beta pancreatiche sono normalmente resistenti alla replicazione. La combinazione dell’armina, inibitore di DYRK1A, con l’inibitore della superfamiglia del TGF-ß, induce un aumento sinergico della proliferazione delle cellule umane beta sia in vitro che in vivo. Inoltre, le cellule ß-pancreatiche nel diabete tipo 2 sono associate a uno stato dedifferenziato a un tipo più primitivo e scarsamente funzionale; la combinazione dell’armina con l’inibitore TGF-ß fa aumentare i markers della differenziazione e della maturità cellulare (Wang et al., 2019).
DMT Il chimico e psichiatra ungherese Stephen Szára è stato il primo ricercatore a studiare gli effetti psicotropi del DMT sull’uomo nella metà degli anni 1950. Non avendo potuto ottenere l’LSD dalla casa farmaceutica Sandoz, Szára rivolse l’attenzione al DMT. Mentre stava rovistando tra le riviste nel Dipartimento di Chimica Organica dove aveva discusso la tesi, fu colpito da un articolo in cui si parlava dei principi attivi delle polveri da fiuto allucinogene dei nativi del Sud America, per i quali si sospettava che il principale responsabile della psicoattività fosse la bufotenina, mentre non era ancora chiaro se il DMT fosse o meno psicoattivo. Fu così che Szára decise di investigare sul DMT e, insieme a Miomir Mészáros, ne sintetizzò 20 grammi. Ottenuti i permessi per le ricerche precliniche e cliniche con il DMT, effettuò una prima serie di studi su 30 volontari con somministrazione intramuscolo di 0,7 mg/kg, e stese il primo report nel 1956, poco prima dello scoppio della rivoluzione ungherese. Riscontrò effetti simili a quelli decritti per l’LSD e per la mescalina, e gli aspetti più peculiari sembravano essere la rapida insorgenza dell’effetto (2-5 minuti) e la breve durata (30-60 minuti) (Szára, 1956, 2007). Poco dopo la rivoluzione ungherese Szára si trasferì negli Stati Uniti, dove divenne capo del dipartimento biomedico della NIDA; insieme a Julius
Axelroad e ad altri ricercatori studiò su volontari sani e schizofrenici il metabolismo del DMT e di composti correlati. Dopo la sospensione della ricerca clinica con gli psichedelici degli inizi degli anni ‘70, negli anni ‘90 Rick Strassman, dell’Università del New Mexico, riaprì la strada sviluppando uno studio psicofarmacologico somministrando DMT a dei volontari sani. Fu scelto il DMT per diverse ragioni: era stato già studiato sull’uomo da Szára, per cui non sarebbe stato necessario completare gli studi di tossicologia clinica prima di iniziare gli studi sull’uomo; era stato identificato come ammina in tracce nel liquido cefalorachidiano, e come tale poteva avere un normale processo metabolico che portava alla sua eliminazione; la sua durata d’azione molto breve, inferiore a un’ora, avrebbe facilitato lo svolgimento degli esperimenti clinici; infine, a causa della sua scarsa popolarità non avrebbe attirato la sempre pericolosa attenzione dei media. Nel corso di questi studi Strassman elaborò la prima scala psicometrica moderna per la valutazione degli effetti soggettivi di una sostanza psichedelica, la HRS (Hallucinogen Rating Scale) che abbiamo descritto nel capitolo 8. Oltre agli effetti allucinogeni furono misurati quelli somatici (frequenza cardiaca, diametro pupillare, temperatura corporea), neuroendocrini (secrezione di ACTH, ß-endorfine, prolattina, ormone della crescita GH, melatonina, cortisolo) e le concentrazioni plasmatiche di DMT. Tutti i parametri fisiologici misurati risultarono aumentati, raggiungendo ciascun parametro il massimo degli effetti in tempo variabile dal momento dell’iniezione (Strassman et al., 1994). La dose minima efficace affinché si manifestassero gli effetti psichedelici del DMT risultò essere di 0,2 mg/kg. Un risultato importante fu l’osservazione dell’assenza di tolleranza agli effetti psicologici del DMT dopo somministrazione di dosi ripetute, caratteristica che lo distingue dagli altri allucinogeni serotoninergici. Inoltre, la constatazione che la somministrazione del pindololo (un 5HT1a bloccante) triplicava gli effetti psicoattivi del DMT, diede risalto all’importanza di questi recettori nel mediare l’azione del DMT (Strassman et al., 1996). Da tempo il DMT è sospettato essere un prodotto endogeno sia nel cervello animale che umano, e la sua presenza sembra essere stata confermata dagli studi di Barker (2012, 2013). Il DMT endogeno è sintetizzato a partire dall’aminoacido triptofano, che viene decarbossilato a triptamina. La
triptamina è quindi transmetilata dall’enzima INMT indoletilamina-Nmetiltransferasi a N-metiltriptamina (NMT) e DMT. L’NMT può essere a sua volta convertito in DMT. L’enzima INMT è espresso in maniera ubiquitaria nei tessuti dei mammiferi, incluso il cervello umano (è stato identificato anche nella pineale di roditori). L’ampia distribuzione dell’INMT sarebbe espressione diretta dell’ampia presenza del DMT nell’organismo. Il DMT endogeno raggiunge la barriera emato-encefalica, dove attraversa la membrana per via di un meccanismo di trasporto attivo mediato dal Mg2 e ATP. Una volta all’interno viene captato dai neuroni attraverso i trasportatori della serotonina SERT e sequestrato nelle vescicole sinaptiche attraverso il trasportatore vescicolare delle monoamine VMAT2. L’accumulo nelle vescicole sinaptiche serve per varie azioni farmacologiche, comprese l’attivazione dei recettori sigma-1 e dei TAAR. Sebbene il DMT non produca tolleranza agli effetti soggettivi, questa si manifesta per alcuni effetti fisiologici quali la temperatura corporea ed effetti cardiovascolari. In individui tolleranti all’LSD è stato osservato lo sviluppo di una tolleranza crociata di media entità agli effetti del DMT (Frecska et al., 2013).41 Affinità recettoriale Similmente agli altri psichedelici serotoninergici, il bersaglio primario del DMT sembra essere il 5HT2a, sebbene ciò non sia in grado di spiegare tutti i suoi effetti allucinogeni. Un contributo importante alle sue funzioni viene dato dai recettori 5HT2c e 5HT1a, oltre a interagire con una varietà di recettori ionotropici e metabotropici. Inoltre, il DMT presenta elevata affinità di legame con i recettori associati alle ammine in tracce (TAAR), sui quali è agonista e promuove l’attivazione dell’adenilato ciclasi e l’accumulo di cAMP. I TAAR sono stimolati anche da altri psichedelici, ma le funzioni svolte dalla interazione col DMT non sono ancora note. È stato osservato anche un effetto agonista del DMT sul recettore sigma-1. Questo recettore presenta un’ampia distribuzione nell’organismo, localizzato nell’interfaccia tra il reticolo endoplasmatico e il mitocondrio (membrana mitocondriale associata al reticolo endoplasmatico, MAM). Non è chiaro se il legame del DMT con questo recettore contribuisca ai suoi effetti psichedelici; tuttavia sembra coinvolto in importanti funzioni fisiologiche: il recettore sigma-1 è espresso sia nel sistema nervoso centrale che nelle cellule del sistema immunitario, sulle quali media potenti effetti immunosoppressivi e antinfiammatori (Szabo et al., 2014).
DMT e neuroprotezione La ricerca in neuropsichiatria ha accertato che alcune delle importanti patologie che interessano gran parte della popolazione – quali l’Alzheimer, il Parkinson, la depressione maggiore – sono causate da infiammazione cronica del sistema nervoso centrale. Esiste un legame tra il polimorfismo genetico dei recettori della risposta innata e la frequenza di insorgenza dell’Alzheimer. Il potere immunomodulante del DMT e del 5-MeO-DMT potrebbe essere utilizzato nell’approccio farmacologico di patologie autoimmuni e malattie infiammatorie croniche del sistema nervoso centrale e dei tessuti periferici. Viene attribuito così un nuovo ruolo biologico alle dimetiltriptamine, che possono agire come regolatori sistemici dell’infiammazione e dell’omeostasi del sistema immunitario attraverso il recettore sigma-1 (Szabo et al., 2014). Il recettore sigma era stato inizialmente classificato tra i recettori oppioidi, perché il suo agonista N-allilnormetazocina (NANM) poteva essere antagonizzato dal naloxone; in seguito, quando furono chiarite le caratteristiche farmacologiche del suo sito di legame, il suo nome fu cambiato in “recettore sigma”, per differenziarlo dal “recettore oppioide sigma”, e suddiviso nei sottotipi sigma-1 e sigma-2. Negli ultimi due decenni diversi studi clinici hanno riconosciuto l’importanza del recettore sigma-1 in molte patologie, dal cancro, al dolore, alle dipendenze, a diverse patologie psichiatriche e neurologiche (depressione, Alzheimer, schizofrenia e ictus) (Szabo et al., 2014; Flanagan e Nichols, 2018). I primi studi hanno dimostrato che il sigma-1 è espresso non solo in regioni distinte del SNC ma anche sulle cellule del sistema immunitario: si trova su monociti umani e la sua espressione aumenta durante il processo di differenziazione da macrofagi a cellule dendritiche. Il recettore sigma-1 ha proprietà immunoregolatorie riducendo la secrezione di citochine pro-infiammatorie e chemochine come IL-1ß, IL-6, TNFα e IL8, mentre aumenta l’espressione della citochina antinfiammatoria IL-10. Inoltre, il pre-trattamento di cellule dendritiche attivate da patogeni con DMT e 5MeO-DMT abolisce le capacità di queste cellule di iniziare la risposta immunitaria acquisita mediata dalle cellule Th1 e Th17. Tra i ligandi endogeni per questo recettore, oltre ad alcuni neurosteroidi e ormoni quali il deidroepiandrosterone (DHEA), troviamo le indolamine allucinogene DMT e 5-MeO-DMT. Attraverso la loro attività sui recettori sigma-1, sono dei potenti agenti anti-infiammatori, e questo recettore potrebbe essere considerato un bersaglio farmacologico per le malattie
autoimmuni del SNC o dei tessuti periferici. Un ruolo ulteriore per il DMT potrebbe essere quello di regolatore endogeno dell’infiammazione e dell’omeostasi del sistema immunitario (Szabo et al., 2014). I recettori sigma-1 sono dei regolatori cruciali nella morfogenesi e nello sviluppo neuronale attraverso la regolazione delle funzioni mitocondriali e dello stress ossidativo. Sono inoltre protettivi nei confronti del danno ischemico, del danno d’organo e in alcuni modelli di neurotossicità. Gli agonisti del sigma-1 hanno mostrato effetti neuroprotettivi, regolando la concentrazione di calcio intracellulare e prevenendo l’espressione di geni pro-apoptotici. Inoltre, l’inibizione di questi recettori parrebbe prevenire la morte cellulare da stress ossidativo (Frecska et al., 2013). Il recettore sigma-1 è una proteina chaperone intracellulare che interviene in caso di stress cellulare per mantenere la struttura proteica fisiologica. Attraverso il legame con questo recettore, il DMT è in grado di proteggere le cellule dall’ipossia severa o dallo stress ossidativo aumentandone la sopravvivenza. È possibile che il DMT endogeno venga generato in situazioni di stress cellulare, in modo da contrastare gli effetti degli insulti ipossico/ischemici al cervello (Szabo et al., 2016). DMT: un neurotrasmettitore endogeno? Sebbene la presenza del DMT nei tessuti biologici – incluse basse concentrazioni nel tessuto cerebrale – sia oggi riconosciuto, la sua funzione resta ancora un mistero. Esperimenti in vivo hanno evidenziato come in alcune circostanze le concentrazioni del DMT possano aumentare, per esempio in situazioni di stress. In passato, si riteneva che queste concentrazioni fossero troppo basse per produrre effetti farmacologici, ma alcune osservazioni sperimentali hanno rivalutato la questione: il riscontro della risposta robusta del DMT sui recettori TAAR, i quali sono risultati sensibili a concentrazioni bassissime di agonisti, e il fatto che il DMT possa essere accumulato in vescicole sino a raggiungere concentrazioni farmacologicamente rilevanti, per essere rilasciato in seguito e attivare altri recettori come quello serotoninergico. Queste acquisizioni hanno suggerito un ruolo per il DMT di natura sia fisiologica, come l’ipotesi di agire da neurotrasmettitore, che eventualmente psicopatologica (Jacob e Presti, 2005). Il recettore TAAR sembra essere collegato ai centri emozionali dell’organismo e mostra possibili associazioni con molte condizioni psichiatriche. Il DMT endogeno potrebbe interagire con il recettore TAAR
per produrre uno stato mentale calmo e rilassato, che potrebbe sopprimere, piuttosto che provocare, i sintomi di una psicosi. Probabilmente, l’aumento della concentrazione di DMT riscontrato nelle urine degli schizofrenici rispetto agli individui normali (Angrist et al., 1976) riflette una risposta omeostatica per attenuare o sopprimere l’attività psicotica, e non di esacerbarla, come era stato ritenuto in precedenza. A basse concentrazioni il DMT può agire da ansiolitico endogeno, mentre concentrazioni maggiori (come quelle raggiunti durante l’attività psichedelica) provocano grandi modifiche della coscienza. Amfetamine, metamfetamina e MDMA hanno un’attività efficace sul recettore delle ammine in tracce. Oltre agli effetti stimolanti conosciuti, esse inducono effetti calmanti a basse dosi. È possibile che il ruolo ansiolitico di basse dosi di DMT sia mediato anche dall’azione agonista sul 5HT1 (Jacob e Presti, 2005).
Ayahuasca L’équipe di Jordi Riba ha sviluppato un interessante studio clinico presso l’Università Autonoma di Barcellona, somministrando ayahuasca (in forma liofilizzata) a 18 soggetti sani. La salita e la discesa degli effetti soggettivi dell’ayahuasca, così come altre variabili farmacodinamiche, hanno rispecchiato la cinetica del DMT. Non sono state osservate differenze tra il tempo di picco dell’intensità degli effetti soggettivi (1,5-2 ore dopo somministrazione orale di ayahuasca), e il tempo di raggiungimento del picco delle concentrazioni plasmatiche del DMT (1,5 ore). Al contrario, la farmacocinetica delle beta-carboline è risultata indipendente dall’aumento e decremento globale degli effetti soggettivi. Il picco delle concentrazioni dell’armalina e del THH (tetraidroarmina) si è presentato più tardi, quando gli effetti visionari acuti erano terminati. Inoltre, è stata osservata una rapida metabolizzazione dell’armina in buona parte dei soggetti. Nonostante l’assenza di livelli misurabili di armina, i soggetti hanno descritto effetti psicoattivi completi. Secondo Riba, si può quindi ipotizzare che la MAO inibizione sia soprattutto periferica e di breve durata, appena sufficiente per permettere il passaggio di circa il 15% di DMT nel circolo ematico (Riba et al., 2003). Da una prospettiva fisiologica, l’ayahuasca esercita effetti simpaticomimetici aumentando il ricambio di noradrenalina e provocando
quindi midriasi, con aumento della pressione arteriosa diastolica, sistolica e della frequenza cardiaca. Questi aumenti sono tuttavia più lievi rispetto a quelli che si registrano con altri simpaticomimetici quali MDMA e amfetamine, alle dosi che inducono effetti psicotropi; inoltre, gli incrementi di pressione sono minori rispetto a quelli osservati con il solo DMT. L’aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa possono essere dovuti all’aumento delle catecolamine non metabolizzate indotto dalla MAO inibizione, e l’aumento dei livelli di serotonina centrale a sua volta può ridurre questo effetto per stimolazione vagale. Questa tendenza a ridurre la pressione e la frequenza sono indice di una tolleranza agli effetti cardiovascolari (Santos et al., 2012). Altri studi sull’uomo hanno evidenziato che l’ayahuasca aumenta i livelli plasmatici dell’ormone dello stress cortisolo e della prolattina. Un altro noto effetto è quello purgativo, che da coloro che assumono regolarmente la bevanda viene definito “tonico” piuttosto che tossico. Sono comuni la nausea e il vomito, e più raramente diarrea. Questi effetti variano a seconda dell’individuo, della dose e della composizione dell’infuso, e sono probabilmente provocati dall’aumento dei livelli della serotonina che non viene metabolizzata come conseguenza dell’inibizione della MAO-A da parte delle beta carboline. Il vomito risulterebbe dall’aumentata stimolazione vagale causata dalla serotonina centrale, mentre l’aumento periferico di 5HT può stimolare la motilità intestinale fino a provocare diarrea (Santos et al., 2011). Gli effetti neuroendocrini osservati hanno rispecchiato quelle degli studi di Strassman (et al., 1994) sugli effetti del DMT, come l’aumento dei livelli del cortisolo e di prolattina, sebbene l’azione delle beta carboline aumenti il tempo di risposta di 4-5 volte. Questo incremento è probabilmente causato dalla maggiore attivazione dei recettori serotoninergici (Callaway et al., 1999). Sulla base di questi studi, la ricetta “classica” dell’ayahuasca, composta dalle sole piante B. caapi e P. viridis, sembra ragionevolmente sicura in termini di impatto fisiologico quando somministrata a individui in buone condizioni di salute. Gli effetti collaterali più frequenti sono la nausea e il vomito, soprattutto se le dosi vengono ripetute nell’ambito della medesima sessione. Come detto, questo aspetto dell’esperienza viene considerato benefico dai soggetti partecipanti ai rituali, in quanto viene vissuto come una forma di “purificazione”, essendo in tal modo culturalmente accettato e
positivamente integrato all’esperienza. Altri fattori contribuiscono alla bassa tossicità dell’ayahuasca, tra cui il fatto che le beta-carboline siano selettive per l’isoforma MAO-A delle monoaminossidasi, e il rapido metabolismo sia dell’armina che del DMT. Questi fattori possono spiegare l’osservazione aneddotica dell’assenza di reazioni conseguenti l’ingestione di cibi contenenti tiramina dopo una sessione di ayahuasca. Tuttavia, per precauzione la combinazione dell’ayahuasca con altri MAO inibitori e farmaci serotoninergici come antidepressivi dovrebbe essere sempre evitato (Santos, 2013). Per indagare su un ipotetico danno citotossico indotto dall’armina su epatociti di ratto (Nakagawa et al., 2010), recentemente è stato effettuato uno studio trasversale descrittivo su 22 volontari partecipanti alle cerimonie della setta religiosa brasiliana “Luz do Vegetal”. I partecipanti avevano aderito alle cerimonie per un periodo di tempo di almeno un anno. I risultati degli esami ematochimici dei partecipanti avevano mostrato valori di ALT, AST e GGT al di sotto del valore massimo di riferimento, senza differenze negli intervalli di tempo prima e dopo l’ingestione di ayahuasca. Allo stesso modo, anche i valori di lattico deidrogenasi, della fosfatasi alcalina e i valori di bilirubina totale (tutti indici laboratoristici di funzionalità epatica) erano compresi nel range di riferimento. L’urea e la creatinina erano all’interno dei valori minimo e massimo di riferimento per entrambi i sessi e non mostravano differenze temporali (prima e dopo l’ingestione). Questi risultati preliminari fanno dedurre che il consumo a lungo termine di ayahuasca in un contesto religioso non sembrerebbe interferire sulla funzione epatica. Per una maggiore sicurezza nell’uso dell’ayahuasca sono comunque richiesti ulteriori studi su campioni di soggetti pù estesi (Moreira et al., 2019).
Ketamina Nel 1966 Corssen e Domino pubblicarono i risultati della prima esperienza ospedaliera con il CI-581l (ketamina), riportando gli effetti anestetici su 130 pazienti di età compresa tra le 6 settimane e gli 86 anni, sottoposti a 133 diverse procedure chirurgiche. La ketamina induceva uno stato di analgesia rapido e una modificazione dello stato di coscienza unico, a cui si aggiungeva una durata limitata degli effetti, che conferiva la possibilità di ripetere la dose in maniera sicura. Furono riportati inoltre effetti collaterali
minimi e non si era manifestato delirio acuto, a differenza di quello che avveniva con la fenciclidina (PCP), il primo anestetico della classe dei dissociativi che fu abbandonato proprio per questo problematico effetto collaterale. Fu osservato come la ketamina alteri la reattività del sistema nervoso centrale a vari stimoli sensoriali ma senza provocare blocco sensitivo totale: i pazienti riferivano di sentirsi in altre dimensioni, o non percepivano più parti corporee come braccia o gambe. Tuttavia il riflesso motorio era conservato, e spesso iperattivo. La ketamina induceva uno stato inusuale durante il quale i pazienti apparivano svegli, i riflessi delle vie aeree e il drive respiratorio erano conservati, ma erano incapaci di rispondere a stimoli sensoriali. Sotto l’effetto di ketamina l’input sensoriale può raggiungere le aree corticali di destinazione, ma non viene percepito dalle aree associative perché queste sono depresse. Questa interferenza nell’interpretazione dello stimolo induce una “dissociazione”. Per questo motivo l’anestesia con CI-581 fu denominata “anestesia dissociativa”. Corssen e Domino avevano osservato che durante la fase di risveglio dall’anestesia alcuni pazienti adulti sperimentavano uno stato simil-sognante o vere allucinazioni, alcuni altri descrivevano i sogni come divertenti e piacevoli, e altri ancora li consideravano spaventosi. La fase allucinogena durava da 5 a 15 minuti, dopo la quale il paziente tornava alla realtà, lucido e coordinato. Spesso nelle allucinazioni emergevano descrizioni di viaggi in altre dimensioni, alcuni sperimentavano sogni lucidi, due pazienti avevano avuto la sensazione di essere morti ed essere volati all’inferno. Queste reazioni si autolimitavano e il risveglio proseguiva senza ulteriori complicazioni; inoltre queste reazioni non si verificavano nei bambini. In definitiva, fu osservato che la ketamina assicurava una buona analgesia con un ottimo margine di sicurezza. La fase di “delirio” al risveglio dell’anestesia con ketamina poteva essere contenuta con un’adeguata deprivazione sensoriale. La dissociazione indotta da ketamina fa sì che ogni stimolo sensoriale venga interpretato in maniera diversa creando la percezione di “un’altra dimensione”, ma si riduce se il paziente viene lasciato calmo e con pochi stimoli (Corssen e Domino, 1966). Sebbene sia nato come anestetico, nel corso dei decenni la ketamina ha dimostrato un buon potenziale in altri campi della medicina, e la crescente letteratura sta evidenziando il suo valore clinico in varie situazioni, con un ruolo emergente nella medicina antalgica e nella depressione refrattaria ad
altri trattamenti farmacologici. Gli sforzi per scoprire i meccanismi responsabili delle azioni della ketamina stanno portando nuovi approfondimenti nella relazione tra la coscienza e l’anestesia. Il suo rapido onset, la sicurezza, la stabilità emodinamica, hanno fatto della ketamina un utile anestetico per l’induzione in anestesia, ampiamente impiegato oggigiorno specialmente in certe popolazioni di pazienti o in alcune situazioni cliniche dove le sue caratteristiche sono particolarmente vantaggiose. Queste sono rappresentate dall’anestesia pediatrica, dall’instabilità emodinamica (shock emorragico), nel trauma cranico (azione protettiva cerebrale); nei pazienti ustionati (sia per il vantaggio di possedere un effetto analgesico intrinseco che per la possibilità di essere somministrata in altre vie oltre a quella endovenosa). Utilizzatissima in sedazione, per la sue proprietà analgesiche che la fanno distinguere dagli altri anestetici generali e per la capacità di mantenere il drive respiratorio evitando l’intubazione orotracheale. Nella pratica anestesiologica, il rischio di delirio è oggigiorno minimizzato dalla premedicazione con benzodiazepine. In terapia antalgica, la ketamina ha dimostrato buone qualità analgesiche che la fanno utilizzare sia nel dolore acuto, come terapia unica e in combinazione con gli oppioidi, o come formulazione intranasale (Schwenket al., 2018), sia nel dolore cronico, dove è risultata efficace nel ridurre il fabbisogno agli oppioidi. Farmacocinetica Grazie alla sua solubilità sia nell’acqua che nei lipidi, la somministrazione della ketamina può avvenire attraverso molte vie: endovenosa, intramuscolare, orale, nasale, rettale, sottocute ed epidurale. La via endovenosa è quella preferita, essendo la sua biodisponibilità del 100%. Per via della crescente esigenza di disporre di una via di somministrazione pratica per la terapia domiciliare, come nel caso della terapia della depressione e di quella antalgica, si stanno sperimentando le vie nasale, orale e sublinguale. La somministrazione intranasale di esketamina, l-enantiomero della ketamina, presenta una biodisponibilità di circa il 45%, e la quota assorbita dipende da molte variabili, come la conformazione anatomica del naso, lo stato della mucosa e la quantità di farmaco che viene deglutita. Le formulazioni rettale e orale, d’altro canto, presentano lo svantaggio di avere bassa biodisponibilità a causa del metabolismo di primo passaggio.
Nella terapia d’urto della depressione grave con ideazione suicidaria, la ketamina viene somministrata per via endovenosa continua alla dose subanestetica di 0,5 mg/kg in 20 minuti, e questa è la dose convenzionale a cui si riferiscono tutti gli studi che illustreremo nel capitolo dedicato. Avendo la ketamina un’elevata solubilità nei lipidi e un basso legame proteico, è captata rapidamente dal cervello e poi redistribuita, con un’emivita di distribuzione di soli 1015 minuti. La ketamina subisce un metabolismo epatico in diversi metaboliti. Attraverso il sistema di citocromi viene prodotto il metabolita attivo norketamina, che conserva solo un terzo della potenza anestetica della ketamina. I coniugati inattivi vengono escreti dal rene, e l’emivita di eliminazione è di 2-3 ore. La norketamina è quindi il principale metabolita epatico della ketamina, e sembra essere il maggior responsabile dell’effetto analgesico di quest’ultima (Li e Vlisides, 2016). Tossicità Alle dosi utilizzate in anestesia, la ketamina è un farmaco abbastanza sicuro e maneggevole. Gli effetti collaterali sono dose-dipendenti e comprendono generalmente disturbi dell’equilibrio, nausea e vomito. L’attivazione del sistema simpatico transitoria ne fa limitare l’uso nei pazienti cardiopatici. Le proprietà dissociative limitano l’uso della ketamina all’impiego anestesiologico, ma ne hanno favorito l’abuso ricreativo. I soggetti maggiormente esposti alle complicanze della ketamina sono gli utilizzatori cronici, che ne fanno un uso reiterato. In questo contesto sono stati riportati deficit cognitivi, con alterazioni della memoria di lavoro e la memoria a breve-lungo termine. Anche la persistenza di sintomi dissociativi, depressivi e deliranti è stata riportata con l’uso a lungo termine. Le dosi per uso ricreativo sono di gran lunga maggiori di quelle usate in ambito ospedaliero o nella terapia della depressione: le persone che abusano si somministrano in genere dosi da 100 a 200 mg (preferibilmente per via intranasale) e spesso più volte al giorno (Sassano-Higgins et al., 2016). Altre riconosciute complicazioni sono: disturbi a carico dell’apparato urinario (cistiti e varie patologie come l’iperattività del detrusore); complicanze gastrointestinali, come dolore epigastrico, disfunzioni biliari e danno epatico, in genere reversibili con l’astinenza (Li e Vlisides, 2016). Sebbene la tolleranza alla ketamina sia stata dimostrata sia negli animali
che nell’uomo, non esiste una specifica crisi d’astinenza da ketamina, nonostante sia riconosciuta una forma di dipendenza. La tolleranza alla ketamina può essere sia di tipo farmacocinetico, con induzione di enzimi epatici, che farmacodinamico, per modellamenti neuronali che provocano ridotta sensibilità recettoriale (Sassano-Higgins et al., 2016). Affinità recettoriale La ketamina lega il cosiddetto sito di legame per la fenciclidina (PCP) sul complesso recettoriale NMDA, localizzato all’interno del canale ionico, bloccando il flusso di ioni trans-membrana. Questo fa della ketamina un antagonista recettoriale NMDA non-competitivo. I recettori NMDA sono recettori canale che permettono l’ingresso di calcio e sodio all’interno del neurone e l’uscita di potassio. Gli agonisti endogeni di questo recettore sono gli aminoacidi eccitatori acido glutammico, acido aspartico, e glicina. L’attivazione del recettore consiste nell’apertura del canale ionico e depolarizzazione della membrana neuronale. Il recettore NMDA è responsabile dei segnali efferenti al midollo spinale, alle regioni talamica, limbica e corticale. Diversi studi indicano che i recettori oppioidi sono coinvolti negli effetti farmacologici della ketamina, e che i suoi effetti analgesici potrebbero essere dovuti all’attivazione di questi recettori centrali e spinali; sembra inoltre che i recettori oppioidi stabiliscano forti interazioni con il sistema recettoriale NMDA. La ketamina deprime la conduzione degli impulsi nella formazione midollare reticolare mediale – che è un centro importante per l’elaborazione della componente affettivo-emozionale della nocicezione che dal midollo viene trasmessa ai centri corticali – e in questo modo regola anche la componente affettiva del dolore (Miller, 2006). Uno degli effetti della ketamina consiste nell’aumento dell’attività dopaminergica: in esperimenti in vivo essa aumenta l’efflusso di dopamina nel nucleo accumbens mediante la mobilizzazione dei depositi di dopamina dai siti di rilascio. Gli effetti dopaminergici sono responsabili delle proprietà euforizzanti e additive della ketamina, che ne scoraggiano attualmente l’uso come farmaco domiciliare. La ketamina ha anche un effetto agonista sui recettori alfa e beta adrenergici, un effetto antagonista sui recettori muscarinici del SNC (anticolinergici, parasimpaticolitici), e un effetto agonista sul recettore sigma. L’azione agonista sui recettori adrenergici e l’inibizione della ricaptazione
delle catecolamine da parte della ketamina determina un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, e per questi motivi il suo uso è controindicato nei pazienti con ischemia cardiaca o con malattie cerebrovascolari. Rispetto agli altri anestetici generali essa presenta solo una lieve depressione respiratoria, proprietà questa che la fa preferire agli altri anestesisti nelle procedure ambulatoriali o di breve durata (Miller, 2006). Oltre all’antagonismo NMDA, la ketamina agisce su un’ampia gamma di bersagli, che contribuiscono al suo effetto unico. Ad esempio, l’inibizione dei canali del calcio partecipa alla manifestazione dei suoi effetti psicoattivi, così come al rilassamento della muscolatura bronchiale; un blocco dei sistemi di trasporto delle monoamine contribuisce anch’esso agli effetti psicotropi e simpaticomimetici. Il suo metabolita norketamina attiva inoltre i recettori AMPA, e questo meccanismo è stato implicato nelle rapide proprietà antidepressive della ketamina (Zanos et al., 2016). La ketamina è l’unico tra i sedativi-ipnotici a mantenere o aumentare il metabolismo talamico; essa modifica la neuromodulazione riducendo la trasmissione colinergica e stimolando la neurotrasmissione noradrenergica sui neuroni della corteccia prefrontale mediale. A dosi sub-anestetiche induce importanti modifiche dei modelli di connettività funzionale nel cervello umano, visibili con la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Si assiste a un passaggio da un modello di connettività centrato in regione corticale a uno di tipo sub-corticale (Joules et al., 2015). Gli aspetti differenziali tra la ketamina e gli altri agenti ipnotici consistono probabilmente nella loro differente abilità di modulare i contenuti mentali e la connessione con l’ambiente. La ketamina sembra preservare l’input subcorticale alla corteccia, così come l’elaborazione sensoriale e motoria. La perturbazione dei contenuti mentali durante la sedazione con la ketamina invece è dovuta all’alterazione dell’integrazione dei network di livello più elevato, come il DMN e il network di salienza. La risonanza magnetica funzionale sotto effetto di ketamina ha mostrato l’interruzione della connettività funzionale corticale tra la corteccia frontale e quella posteriore, mentre le reti di connessione visive e quelle uditive restano funzionanti (Bonhomme et al., 2016). La depressione della connessione fronto-parietale è una caratteristica comune a tutti gli anestetici generali. A differenza di questi, la ketamina mantiene la connettività tra diverse regioni sensoriali quali la corteccia visiva e uditiva. Ciò sembra essere il motivo per cui i pazienti descrivono
l’esperienza di uno stato simil-sognante o di allucinazioni durante l’anestesia con ketamina, mentre sono isolati dall’ambiente circostante (Bonhomme et al., 2016). Questi elementi hanno contribuito al chiarimento dello stato “dissociativo” della natura anestetica della ketamina (Li e Vlisides, 2016).
Salvinorina A La salvinorina A è un diterpene dotato di potenti proprietà agoniste dei recettori kappa-oppioidi (KOR), ed è il principio attivo allucinogeno della pianta messicana Salvia divinorum.42 La modalità preferita di somministrazione nell’impiego non clinico di questo psichedelico è l’aspirazione dei vapori delle foglie essiccate o di estratti delle foglie. Quando fumato, gli effetti soggettivi sono intensi ma di breve durata, si manifestano entro 1 minuto dall’assunzione e si dissolvono entro 15 minuti o meno. Vengono percepiti effetti psichedelici comuni a quelli degli altri allucinogeni, ma a differenza di questi si presenta una percezione estremamente modificata della realtà esterna e del sé (derealizzazione), che provoca la ridotta capacità di interagire con sé stessi e con l’ambiente. Alla dose di 1 mg la salvinorina A provoca perdita del contatto verbale e il soggetto non è più in grado di interagire con l’ambiente esterno (Maqueda et al., 2015). Queste modifiche soggettive si riflettono nei cambiamenti rapidi e drammatici osservate all’elettroencefalogramma (EEG), con soppressione del ritmo alfa e aumento dell’attività delta. Come è stato osservato per gli psichedelici serotoninergici, la soppressione del ritmo alfa risulta localizzato nelle regioni posteriori cerebrali compresa la PCC e le aree visive. L’aumento del ritmo delta, atipico per gli altri allucinogeni, è stato osservato in tutta la corteccia, ed è stato ipotizzato essere alla base degli effetti intensi dissociativi e della perdita di contatto con la realtà esterna, che differenzia la salvinorina A dagli altri allucinogeni serotoninergici (Ranganathan et al., 2012). La salvinorina A ha la peculiarità, fra gli allucinogeni, di esercitare gli effetti psichedelici attraverso il legame con il recettore κ-oppioide. Questo recettore è associato agli effetti disforici degli oppioidi (morfina, buprenorfina). Poiché non è noto un antagonista recettoriale specifico del recettore kappa, lo studio del legame recettoriale è stato reso possibile attraverso l’impiego del naltrexone – un antagonista aspecifico dei recettori
oppioidi mu, kappa e delta – in associazione con la ketanserina, e in tal modo è stato determinato lo stimolo discriminativo. La contemporanea somministrazione di salvinorina A e naltrexone ha evidenziato che questo recettore è responsabile degli effetti soggettivi dell’allucinogeno (Maqueda et al., 2015). I recettori κ-oppioidi sono oggetti di attenzione come potenziale target terapeutico per il trattamento di disordini quali la depressione, il dolore viscerale e la dipendenza da cocaina. Ciò ha portato a ricercare altri agonisti KOR, con la recente scoperta di un sesquiterpene denominato collybolide (colly), isolato dal fungo europeo Collybia maculata (Gupta et al., 2016), e di un terpene clerodano, denominato DACD, presente nella pianta brasiliana Baccharis flabellata (famiglia delle Compositae) (Funes et al., 2018), che hanno evidenziato una struttura chimica simile a quella della savinorina A e una proprietà KOR-agonista 10-50 volte maggiore di quella della salvinorina A.
MDMA La 3,4-Metilendiossimetamfetamina (MDMA) è un derivato amfetaminico che a differenza di altre amfetamine o stimolanti, che agiscono prevalentemente attraverso meccanismi noradrenergico e dopaminergico, ha un’attività prevalentemente serotoninergica. Ciò gli conferisce un’azione unica, condividendo alcune proprietà con quelle tipiche di altri stimolanti, e altre che possono ricordare quelle di un allucinogeno. L’MDMA è un agonista indiretto della serotonina, e in minor misura della dopamina e della noradrenalina, e aumenta il rilascio e la concentrazione dei neurotrasmettitori nello spazio sinaptico. Inoltre, inibisce la ricaptazione della dopamina, della serotonina e della noradrenalina, e inverte la direzione del flusso dei trasportatori di membrana neurale (VMAT-2, responsabili dell’accumulo vescicolare dei neurotrasmettitori). Essendo un substrato di questi trasportatori, vi si lega facendosi trasportare all’interno del neurone. Il rapido ed elevato aumento di neurotrasmettitori nello spazio sinaptico, in particolare della serotonina, è responsabile dei suoi effetti psicoattivi (De la Torre et al., 2004). Farmacocinetica
La somministrazione di MDMA nell’uomo è caratterizzata soprattutto da effetti simpaticomimetici sul sistema cardiovascolare e neurologico. Vengono comunemente osservati aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, vasocostrizione delle cute e delle mucose, diaforesi, midriasi, secchezza delle fauci, serramento della mandibola, trisma e bruxismo. La temperatura orale subisce un’iniziale riduzione dopo un’ora dall’assunzione, probabilmente per la vasocostrizione periferica della prima fase degli effetti dell’MDMA, per poi aumentare dopo 2 e 4 ore dopo la somministrazione. Gli effetti neuroendocrini consistono in un aumento dei livelli plasmatici del cortisolo e della prolattina. Il cortisolo viene stimolato dall’effetto serotoninergico, mentre la prolattina da quelli dopaminergico e serotoninergico. Il metabolismo dell’MDMA nell’organismo sembra seguire una farmacocinetica di tipo non lineare, che potrebbe avere delle importanti implicazioni in caso di intossicazione acuta. Esso inizia con la Ndemetilazione a 3,4 metilendiossiamfetamina (MDA), un altro noto empatogeno dagli effetti più lunghi di quelli della MDMA. Entrambi i composti vengono quindi O-demetilenati rispettivamente a 3,4 diidrossimetamfetamina (HHMA) e a 3,4-diidrossiamfetamina (HHA). Sia l’HHMA che l’HHA sono successivamente O-metilati principalmente a 4idrossi-3-metossi-metamfetamina (HMMA) e 4-idrossi-3-metossiamfetamina (HMA). Questi quattro metaboliti, particolarmente l’HMMA e l’HMA, sono escreti nelle urine come metaboliti coniugati glucuronidi o solfato. L’MDMA raggiunge il massimo della concentrazione plasmatica dopo 2 ore, per poi diminuire seguendo un modello di tipo monocompartimentale. L’emivita media di eliminazione per una dose di 100 mg si aggira attorno alle 9 ore. Le concentrazioni plasmatiche di MDA aumentano lentamente dopo la somministrazione di MDMA, e la sua lunga emivita si aggira intorno alle 25 ore (De la Torre et al., 2000a). Quando viene somministrata una seconda dose a distanza di tempo dalla prima, l’aumento delle concentrazioni dell’MDMA con la seconda dose non segue la stessa proporzionalità, e i livelli plasmatici non corrispondono a quelli attesi. Dopo la seconda somministrazione le concentrazioni di MDMA sono più alte rispetto ai livelli attesi secondo il calcolo del semplice accumulo di farmaco, mentre quelle dei metaboliti sono particolarmente basse. Inoltre,
gli effetti soggettivi stimolanti, quelli sulla frequenza cardiaca e quelli psicomotori risultano più lievi di quelli attesi, per la comparsa di tolleranza. Gli effetti sulla pressione e sulla temperatura sono invece più alti di quelli che si hanno dopo la prima somministrazione. Questa farmacocinetica non lineare si ripercuote soprattutto sulla tossicità, in quanto in un setting ricreativo gli aumenti della pressione e della temperatura vengono mascherati dal fatto che gli effetti psicostimolanti sono più blandi con la seconda assunzione, portando il consumatore al rischio di somministrazioni ripetute. Il motivo dell’accumulo di MDMA dopo la seconda somministrazione può essere spiegato dall’autoinibizione enzimatica dell’MDMA sul citocromo CYP2D6, enzima deputato alla demetilazione dell’MDMA in HMMA (De la Torre et al., 2000b; Peiró et al., 2013). Tossicità Gli studi sulla tossicità dell’MDMA sono stati segnati da una ricerca in vivo che fu in seguito dichiarata errata dai medesimi autori dello studio, ma che influenzò notevolmente e negativamente la percezione medica e sociale di questo empatogeno. Lo studio originale, pubblicato sulla rivista Science e promosso dall’équipe di George Ricaurte di Baltimora (Maryland, USA), riportò di aver osservato gravi effetti neurotossici nei primati (Saimiri sciureus) con dosi relativamente basse di MDMA (4-6 mg/kg), fra cui danni irreversibili nel sistema dopaminergico e forti squilibri in quello serotoninergico. Sorpresero non poco gli altri ricercatori i principali danni dopaminergici registrati in questo studio, poiché l’MDMA è ritenuto agire soprattutto sul sistema serotoninergico. Questi risultati portarono alla conclusione di un forte pericolo di manifestazione di Parkinsonismo indotto anche solo da singole esposizioni all’MDMA, e gli autori raccomandavano di considerare, nelle diagnosi di Parkinsonismo fra i giovani, la possibilità che fosse stato indotto dall’assunzione di questo empatogeno.43 Da questi risultati si diffuse l’idea, elaborata e rimbalzata dai media di tutto il mondo, che anche una sola “pasticca” di MDMA poteva essere pericolosissima, perfino mortale. La pubblicazione di questo studio ebbe anche ripercussioni politiche, poiché contribuì negli USA a velocizzare l’approvazione di ulteriori restrizioni legislative nei confronti dell’impiego illecito degli empatogeni (il cosiddetto RAVE Act). L’anno successivo, l’équipe di Ricaurte pubblicò nella medesima rivista un retreat, dove comunicava che nella ricerca con i primati v’era stato un
accidentale scambio di etichette dei contenitori delle droghe impiegate negli esperimenti, tale per cui invece di MDMA alle scimmie era stata somministrata metamfetamina, e sarebbe quindi stata questa la causa dei danni dopaminergici registrati (Ricaurte et al., 2003). Questo retreat fece molto scalpore nella comunità scientifica, e si aprì un vero e proprio scandalo che, oltre a includere critiche al sistema del peer-review (al quale lo studio di Ricaurte era stato regolarmente sottoposto), comportò pesanti accuse rivolte a Ricaurte, con il forte sospetto che dietro all’apparente “errore di etichette” vi fossero motivazioni di natura politica, pressioni da parte delle istituzioni preposte alla non sempre imparziale “lotta alla droga”, e interessi personali da parte dei ricercatori nel conseguire finanziamenti. In una lettera pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature l’accusa fu esplicita: “A seguito della ritrattazione di un documento di alto profilo, l’agenzia statunitense che sostiene la ricerca sull’abuso di droghe deve garantire la sua indipendenza da un’intensa pressione politica finalizzata alla dimostrazione che le droghe ricreative sono dannose”.44 È pur vero che gli studi moderni hanno dimostrato una neurotossicità dell’MDMA, ma in condizioni di forti esposizioni all’empatogeno, e ciò che resta contestabile alla ricerca di Ricaurte è la supposta forte neurotossicità, per di più di natura dopaminergica, a dosaggi moderati. Il dibattito sul livello di neurotossicità per l’uomo da attribuire all’MDMA continua a occupare svariate pagine delle riviste di farmacologia. Se da una parte per diversi studi è lecito continuare a sospettare forzature dettate da interessi a favore o contro l’impiego di questo empatogeno nella clinica umana, d’altro canto resta indubbio che forti esposizioni sia acute che croniche all’MDMA siano da considerare neurotossiche per l’uomo, e non solo per gli animali da laboratorio. Diversi studi su animali e di neuroimaging eseguiti soprattutto su soggetti umani ex-utilizzatori di MDMA, hanno evidenziato una generale riduzione della densità del SERT (trasportatore della serotonina) in tutte le regioni della corteccia cerebrale e nell’ippocampo, con valori direttamente proporzionali ai dosaggi impiegati e ai tempi d’esposizione all’MDMA; la conseguenza primaria di questo deficit del sistema serotoninergico è espressa in deficit neurocognitivi, inclusi disturbi della memoria, sonno, umore, visione, abilità psicomotorie, e disturbi di natura psichiatrica (Parrott, 2013). Per quanto riguarda gli effetti tossici acuti indotti dall’ecstasy, che sono i principali responsabili dei casi di decesso, v’è una maggiore unanimità di
vedute fra gli studiosi. Essi sono principalmente provocati dall’inibizione dell’omeostasi della temperatura corporea (per mancato controllo ipotalamico), con rischio di sviluppare ipertermia in un ambiente molto riscaldato (con valori che possono superare i 43°C); a questo si aggiunge il rischio di disidratazione che contribuisce all’aggravarsi dell’ipertermia, e al rischio di iponatremia da diluizione se il soggetto ingerisce troppi liquidi come tentativo di migliorare la disidratazione. Ma una delle complicanze più temibili è l’insorgenza di una sindrome serotoninergica, che può presentarsi con ripetute somministrazioni o con una dose elevata di MDMA, in quanto si crea un eccesso di serotonina intersinaptica; questo eccesso può essere aggravato dalla combinazione inconsapevole di sostanze serotoninergiche (SSRI o MAO-inibitori), cocaina, altre amfetamine, prodotti officinali a base di iperico e ginseng (De la Torre et al., 2000a). Nonostante la sua concreta tossicità nei contesti di forte esposizione acuta e cronica, recentemente sono stati raccolti dati provenienti da nove studi clinici di fase I sulla sicurezza dell’MDMA somministrata in un contesto clinico, da cui è emerso che la somministrazione di una dose singola di MDMA (75mg o 125 mg) in pazienti sani (un totale di 166 pazienti) appare essere particolarmente sicura. Gli effetti acuti soggettivi sono risultati positivi e gli effetti collaterali sono stati riportati soprattutto per le donne, e per questo motivo una dose di 100 mg parrebbe essere più appropriata per le donne rispetto ai 125 mg per gli uomini. Le donne si sono mostrate sensibili agli effetti serotoninergici, mentre negli uomini si sono manifestati maggiori effetti stimolanti sul sistema cardiovascolare, che mettono a rischio i soggetti con patologie preesistenti. Al momento non si conoscono le conseguenze in pazienti con patologie psichiatriche. L’MDMA somministrato in un setting clinico controllato in soggetti sani sarebbe quindi da ritenere un farmaco sicuro, alla stessa stregua di altri farmaci che diventano tossici se impiegati in sovradosaggi e pericolosi in condizioni di somministrazione non controllate (Vizeli e Liechti, 2017). Un recente studio in vivo avrebbe evidenziato un maggior beneficio dell’enantiomero R-MDMA rispetto alla miscela racemica SR-MDMA solitamente impiegata negli studi clinici, in quanto l’enantiomero parrebbe avere effetti collaterali ridotti, cioè produrrebbe una minore attività locomotoria, un minore aumento della temperatura corporea e una minore neurotossicità, oltre a indurre un minore rilascio di dopamina rispetto alla forma racemica, mentre rimarrebbero invariate le proprietà prosociali e
terapeutiche, utili ad esempio nel trattamento del PTSD (Curry et al., 2018).
HPPD Nell’esposizione delle reazioni avverse incontrate nelle TP del passato avevamo indicato i flashback, definiti come ricorrenze inattese, spontanee e transitorie di certi aspetti dell’effetto di una sostanza psichedelica, che si possono presentare a distanza di tempo da un’originaria esperienza con lo psichedelico. Si possono manifestare anche, e forse soprattutto, nei soggetti normali, durano da alcuni secondi ad alcuni minuti, raramente alcune ore, con una frequenza che va da una volta alla settimana a numerose volte al giorno, e possono accadere in qualunque contesto ambientale e sociale.45 Oggigiorno i flashback sono indicati con una differente terminologia e vengono inquadrati in un più esteso sistema di disturbi che possono fare seguito alle esperienze psichedeliche, indicati con la sigla HPPD (Hallucinogenic Persisting Perception Disorder). Secondo la definizione del DSM IV, i criteri necessari per classificare una sindrome HPPD sono: l’esclusione di altre cause mediche quali epilessie, patologie cerebrali (tumori o demenze), e l’insorgenza di ripercussioni negative nella sfera sociale, occupazionale e in altre importanti aree funzionali. Sono riconosciuti due tipi di HPPD, di cui il Tipo 1 corrisponde ai flashback descritti negli anni ‘50-’70, altrimenti denominati “flashback brevi”, e sono caratterizzati dal fatto che tendono a diminuire in intensità, frequenza e durata nel corso del tempo; il Tipo 2 riguarda invece disturbi cronici, la cui persistenza può subire un crescendo o un declino nel corso di mesi o anni. Il Tipo 2 è molto più raro del Tipo 1, e non fu osservato durante la prima fase della ricerca terapeutica e del massivo impiego non clinico degli psichedelici. Data la sua rarità, probabilmente fu confuso con altri inquadramenti psichiatrici. Nel Tipo 2 sono presenti in maniera costante o quasi costante degli effetti visivi alquanto specifici, fra cui la palinopsia (percezione persistente di un oggetto non più presente nel campo visivo), aloni attorno agli oggetti, achinetopsie (serie di immagini dell’oggetto che seguono gli oggetti in movimento), e “neve visiva” (una specie di granulosità sovrapposta al campo visivo) (Halpern et al., 2016: 4). Questi sintomi visivi sono spesso accompagnati da sensazioni di depersonalizzazione di entità bassa o media,
senso di derealizzazione, ansia o depressione, e proprio questi sintomi psichici sembrano innescare gli effetti visivi. Come abbiamo detto, gli HPPD di Tipo 1 sono un evento di una certa rarità, e quelli di Tipo 2 – che hanno le conseguenze più problematiche – sono considerati rarissimi. È una tipologia di effetti postumi che è rimasta a lungo inspiegabile, quasi “misteriosa”, partendo dalla considerazione che la molecola dello psichedelico, in particolare dell’LSD, non parrebbe essere più presente nel corpo umano dopo poco tempo dalla sua assunzione. La sostanza che più di tutte sembra essere associata all’insorgenza dei flashback è l’LSD, sebbene siano riportati flashback in seguito all’uso di cannabis, ketamina, MDMA, mescalina ed altre sostanze psicoattive (Holland e Passie 2011: 87). Riguardo la durata di questi eventi – da pochi secondi a qualche minuto a qualche ora – questa sembra dipendere dall’agente che l’ha scatenato. I principali fattori che lo innescano sembrano essere quelli che abbassano le difese dell’ego, tra cui la forte stanchezza, la privazione di sonno, la deprivazione sensoriale, l’alcol, il buio e altre sostanze, soprattutto la Cannabis; sono stati segnalati anche i fenomeni ipnagogici e ipnapompici, la meditazione, l’ipnosi. È stata proposta una serie di modelli ipotetici sull’eziopatogenesi dell’HPPD: – Ipotesi psicodinamica: l’esperienza psichedelica sarebbe responsabile di un “indebolimento del sistema dell’Io” e farebbe attivare dei complessi inconsci, abbassando la soglia per l’instaurarsi di tali esperienze anche senza lo stimolo originario. Il materiale riemerso si renderebbe disponibile per l’elaborazione, e con l’aiuto della psicoterapia si ridurrebbe la comparsa del fenomeno. – Ipotesi somatico-fisiologiche: un ipotetico danno tossico al sistema visivo mediato dallo psichedelico; un deficit dei meccanismi inibitori nel meccanismo della visione; una persistenza della sostanza nei circuiti di neurotrasmissione; l’induzione di un “danno tossico cellulare”, in quanto le alterazioni della visione che si hanno nei flashback somigliano a quelle che si presentano in circostanza di tumori o lesioni dell’encefalo. – Ipotesi dell’apprendimento: percezioni che normalmente non sono coscienti, emergerebbero alla coscienza durante l’esperienza psichedelica, diventando così facilmente rievocabili in assenza di stimolo. Questo riaffiorare delle percezioni verrebbe interpretato come un flashback
dell’esperienza psichedelica. Per quanto riguarda i possibili interventi terapeutici per il trattamento delle HPPD, sono state proposte terapie psicologiche e terapie farmacologiche. Fra le prime, quella maggiormente riportata dagli autori è il talking down, ossia il rassicurare il soggetto in maniera verbale e non-verbale. Altri tipi di interventi che hanno dimostrato una certa efficacia sembrano essere l’eliminazione dei fattori innescanti e la psicoterapia e terapia di gruppo. Una tecnica particolare segue le teorie di Grof e Leuner, secondo le quali l’ulteriore somministrazione di piccole dosi della sostanza farebbe riemergere il conflitto irrisolto portato in superficie durante l’esperienza psichedelica precedente, che non essendo stata elaborata, avrebbe fatto innescare il suo ritorno senza stimolazione apparente. La riemersione del conflitto permetterebbe la sua elaborazione attraverso l’intervento psicoterapeutico. Tra gli agenti farmacologici, i più utilizzati sono le benzodiazepine e i neurolettici (clorpromazina, aloperidolo); sono stati impiegati anche gli antidepressivi, per i quali tuttavia ci sono risultati contrastanti. In letteratura sono riportati anche altri farmaci sedativi, come antiepilettici, anticonvulsivanti e altri sedativi (Holland e Passie, 2011).
CAPITOLO 10
GLI PSICHEDELICI NELLE TERAPIE DELLA DEPRESSIONE
Il disturbo depressivo maggiore (MDD) La depressione costituisce uno dei maggiori problemi di sanita’ pubblica, ed uno dei maggiori determinanti del carico assistenziale di tutte malattie, colpendo centinaia di milioni di persone nel mondo. L’American Psychiatric Association definisce il disturbo depressivo maggiore (MDD) come una condizione di umore depresso (umore irritabile nei bambini e adolescenti) e/o perdita di interesse o piacere (anedonia), della durata minima di due settimane e che sia accompagnato da almeno quattro di questi sintomi presenti contemporaneamente: modifica consistente del peso corporeo (±5%), insonnia o ipersonnia; agitazione o ritardo psicomotorio; fatica o perdita di energia; bassa autostima o senso di colpa inappropriato; ridotta capacità di pensare, di concentrarsi, di prendere decisioni; pensieri ricorrenti di morte, ideazione suicida, tentativo di suicidio. Inoltre, la diagnosi richiede che i sintomi provochino un’importante disabilità e/o alterazione in contesti quali quelli sociali, occupazionali o di altri ambiti della vita personale, a esclusione di quelli influenzati negativamente da altre condizioni mediche o dall’uso di sostanze psicoattive (APA, 2000). Tra le varie teorie che tentano di spiegare l’eziologia del disturbo depressivo maggiore, l’ipotesi monoaminergica è stata la più largamente considerata dagli studiosi. Secondo questa teoria, l’MDD sarebbe il risultato del ridotto livello cerebrale di monoamine, come dopamina, serotonina e noradrenalina. Tra queste, la serotonina ha ricevuto maggior attenzione. Oltre alla riduzione dei valori assoluti di serotonina, alcuni studi hanno evidenziato
l’alterata espressione degli autorecettori 5HT1a nei nuclei del rafe, in termini di un aumento di autorecettori presinaptici 5HT1a i quali, se attivati, inibiscono il rilascio di serotonina. Ulteriore caratteristica è una riduzione degli eterorecettori postsinaptici 5HT1a nell’ippocampo e nella corteccia prefrontale, presumibilmente indotta da alti livelli di cortisolo. L’ipotesi monoaminergica non è tuttavia in grado di spiegare elementi importanti quali le cause delle alterazioni delle monoamine e le frequenti ricadute dopo trattamento con farmaci antidepressivi che hanno come target l’aumento del livello di monoamine nello spazio sinaptico. In periodi più recenti hanno acquistato importanza ipotesi alternative, quali la disfunzioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), l’ipotesi neurodegenerativa, quella infiammatoria, e quella di squilibri del microbiota intestinale. L’ipotesi della disfunzione dell’HPA si basa sull’osservazione di un aumento della reattività di questo asse come una delle alterazioni più comuni nei pazienti depressi; questi evidenziano un’alterazione della funzione del recettore dei glucocorticoidi (GR), che provocherebbe un alterato feedback all’asse. L’attivazione cronica dell’HPA provoca anch’essa resistenza nelle cellule del sistema immunitario. Normalmente, il cortisolo basale induce la produzione dei linfociti T CD4 Th2, ma una resistenza cronica dei GR porta a uno squilibrio nel sistema immunitario, spostando la produzione di questi linfociti verso una popolazione di tipo Th1, riducendo di conseguenza la concentrazione delle citochine anti-infiammatorie (IL-4, IL-10) e aumentando le citochine pro-infiammatorie (IL-1, IL-6, TNF-a). A sua volta, la massiva liberazione di citochine infiammatorie provoca una riduzione della funzione dei GR. Studi pre-clinici hanno evidenziato un impatto negativo dello stress e dei glucocorticoidi sulla neuroplasticità ippocampale, sulla sopravvivenza dei neuroni e della glia. Lo stress, influenzando i glucocorticoidi, può agire negativamente sulla plasticità neuronale dell’ippocampo, che si riflette sul volume ippocampale (Malykhin e Coupland, 2015). L’ipotesi neurodegenerativa si basa sull’osservazione del ridotto volume ippocampale in molti pazienti depressi. I segni di neurodegenerazione sono ben osservabili con la risonanza magnetica, che ha contribuito a identificare i meccanismi psicopatologici sottostanti i sintomi della depressione maggiore. In particolare, si osserva una riduzione volumetrica dell’ippocampo, dei gangli della base, della corteccia orbitofrontale (OFC), amigdala e corteccia
prefrontale subgenicolata (SGPFC). Questa riduzione potrebbe essere la conseguenza, oltre che della morte neuronale, anche di una ridotta neurogenesi provocata da alte dosi di glucocorticoidi, elevati livelli di citochine pro-infiammatorie e ridotta disponibilità di serotonina, i quali possono reciprocamente inibire la produzione di fattori di crescita cellulari come il BDNF (Lorenzetti et al., 2009). Secondo questo interessante modello, l’anomalia primaria della depressione non sarebbe lo stato depressivo in sé, piuttosto l’incapacità di regolare in maniera appropriata questo stato: i pazienti diventano “depressi” senza un trigger (un fattore d’innesco), diventano più gravemente depressi in seguito a un trigger (ad esempio la perdita di una persona cara) rispetto alla normalità, o restano depressi più a lungo di quanto ci si aspetti. Se immaginiamo lo “stato depressivo” come un ritmo neurale aberrante, il “disturbo” depressivo è la tendenza a entrare e restare in quel ritmo in maniera inappropriata. Normalmente, in risposta a un fattore stressante, avviene una reazione dell’umore, come il passaggio dallo stato normale, eutimico, a uno “down” costituito da sintomi depressivi, dal dolore, da atteggiamento da persona malata. Il ritorno allo stato normale è raggiunto mediante regolazione dell’umore. In soggetti sani non depressi, la tendenza a entrare in uno stato di “down” è relativamente bassa, e quando avviene il ritorno alla normalità è relativamente veloce e completo. Nei soggetti affetti da MDD la spinta a entrare nello stato di down è piuttosto alta, può avvenire in assenza di un fattore evidente, e l’individuo può avere maggiore difficoltà a ritornare nello stato di normalità senza interventi esterni (psicoterapia, farmaci). Questo modello enfatizza come lo stato di “down” di per sé non sia anomalo; è invece la tendenza a entrare e restare bloccato in questo stato a definire la depressione. La neurobiologia della depressione dovrebbe riguardare soprattutto quella della reazione dell’umore e non dello stato depressivo per se. Trattamenti con la ketamina o con la scopolamina che inducono un rapido passaggio a uno stato non-depresso, non sono però in grado di prevenire la ricaduta nello stato depresso (Holtzheimer e Mayberg, 2011). L’ipotesi infiammatoria vede il sistema fibrinolitico coinvolto nella patogenesi della depressione attraverso l’aberrante deposizione extravascolare di fibrina. È stato ipotizzato che alla base di questo processo ci sia uno squilibrio dei fattori fibrinolitici che provocherebbe un’alterazione della
neurogenesi e della plasticità sinaptica, che porterebbe a un processo infiammatorio del sistema nervoso. L’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA) è un fattore chiave che non solo promuove la fibrinolisi attraverso l’attivazione del plasminogeno, ma contribuisce anche alla regolazione della plasticità sinaptica e alla neurogenesi attraverso l’attivazione (mediata dalla plasmina) della conversione del precursore del fattore neurotrofico derivato cerebrale (pro-BDNF) nel suo derivato maturo. L’attivazione del pro-BDNF potrebbe venire soppressa dalla competizione della fibrina per la plasmina e il tPA. Un legame ad alta affinità della plasmina e del tPA per la fibrina potrebbero provocare la ridotta attivazione del pro-BDNF durante l’infiammazione cerebrale, generando fibrosi e aggravando la sintomatologia depressiva (Idell et al., 2016). Dal punto di vista delle reti neuronali cerebrali, fra i marcatori diagnostici di depressione maggiore riscontrabili alla risonanza magnetica funzionale v’è l’incapacità di modulare regioni chiave del default mode network (DMN), e l’evidenza di alterazioni della connettività funzionale all’interno di esso. Questi segni sono rappresentati dal punto di vista cognitivo dalla ruminazione depressiva, un tipo di pensiero astratto e ripetitivo nel quale i pazienti si focalizzano su eventi passati o futuri, invece di riflettere sul momento presente (Devilbiss et al., 2012). Il default mode network e il network affettivo (o network limbico) sono stati oggetto di grandi interessi negli studi sulla depressione maggiore, con particolare attenzione al cervello in condizione di stato di riposo (resting state functional connectivity RSFC). Gli individui depressi hanno evidenziato una riduzione del RSFC in circuiti nervosi coinvolti nell’affettività e nell’elaborazione delle emozioni, e un aumento del RSFC tra le reti del DMN coinvolti nei processi auto-referenziali. Più specificatamente, nei soggetti depressi è stato osservato un drastico aumento della connettività di ampie porzioni di tre differenti circuiti cerebrali (il network di controllo cognitivo, il default mode network ed il network affettivo) con la regione corticale dorsale prefrontale mediale, denominata anche “dorsal nexus”. Questa scoperta apporta una spiegazione potenziale su come i sintomi della depressione maggiore – la ridotta abilità di focalizzarsi su compiti cognitivi, la ruminazione, l’eccessiva auto-focalizzazione, l’aumentata vigilanza e la disfunzione autonomica – possano agire in maniera sinergica. Sembra che nella depressione maggiore si verifichi una “deviazione dell’attenzione” verso l’auto-focalizzazione, a scapito dell’esecuzione di un compito
finalizzato (Sheline et al., 2010).
Terapie convenzionali per la depressione Gli esperti europei sul trattamento delle psicosi e dei disturbi del tono dell’umore hanno formulato di recente le linee guida aggiornate per il trattamento della depressione. Il trattamento con i farmaci antidepressivi (AD) viene riservato ai pazienti con forme gravi di depressione o nelle forme con persistenza dei sintomi, mentre non sono considerati di prima scelta in una forma di depressione lieve e di recente insorgenza. Secondo queste linee guida, l’opinione comune che gli antidepressivi non mostrino effetto durante le prime 4 settimane di trattamento sarebbe un mito, e nella realtà clinica nelle prime due settimane si avrebbero gli effetti antidepressivi più pronunciati per diminuire dopo la 4-6a settimana. Quando osservati su ampie scale di pazienti e valutati con adeguate scale psicometriche, gli effetti degli AD sono visibili già dopo una settimana. Se un individuo non mostra effetti dopo le 3-4 settimane, si parla allora di resistenza a quel trattamento e si interviene con l’incremento della dose o il cambio del farmaco. Gli SSRI sono ben tollerati rispetto ai TCA (triciclici) e ai MAO-inibitori, e sono generalmente raccomandati come trattamento di prima scelta. Gli SSRI presentano numerosi effetti collaterali, e si assiste ad una grande variabilità di risposta inter-individuale in termini di tollerabilità, e per questo motivo non è semplice individuare subito il farmaco più adatto per ogni tipo di paziente. Riassumiamo i principali effetti collaterali degli AD: SSRI: Cefalea e sintomi gastrointestinali, disfunzioni sessuali, iponatremia e sanguinamento gastrointestinale. TCA: Effetti cardiovascolari: ipotensione, tachicardia e allungamento dell’intervallo QT, overdose particolarmente grave. MAO-I: rischio di crisi ipertensive in seguito a ingestione di cibi contenenti tiramina. Gli AD devono essere monitorati per eventuali interazioni con altri farmaci; gli SSRI per esempio, come inibitori del citocromo epatico P450, possono interferire con il metabolismo di molti farmaci. Inoltre, la sospensione degli AD provoca dei sintomi da interruzione che si manifestano soprattutto per i farmaci a breve emivita. Gli AD parrebbero aumentare il
rischio di pensieri suicidari, specialmente in pazienti giovani e adolescenti, sebbene questo rischio sia stimato dalla Società Europea di Psichiatria molto basso se paragonato al rischio di suicidio dovuto alla depressione. Essendo gli AD dei farmaci sintomatici, non eliminano la causa sottostante il disturbo, e per questo anche dopo la remissione di un episodio vengono mantenuti per 6-9 mesi. Nei pazienti con più episodi depressivi sembra beneficiare di un trattamento di almeno due anni. Nelle forme di depressione resistente al trattamento farmacologico (TRD, treatment resistant depression), il passo successivo è costituito dall’introduzione di un farmaco antipsicotico o di un secondo antidepressivo; come trattamento di seconda scelta per la TRD è stata introdotta recentemente la ketamina (che sarà presentata più avanti); sono indicate anche altre opzioni farmacologiche, come l’antiepilettico lamotrigina, il buspirone, la venlafassina ad alte dosi e l’ormone tiroideo triiodotironina. La terapia elettroconvulsiva (ECT) costituisce un altro approccio di seconda scelta, e continua a essere considerata tra i trattamenti più efficaci. Inoltre, recentemente sono stati presi in considerazione una serie di altri farmaci che hanno scarsa evidenza in letteratura. Tra questi, moderni psicostimolanti con minori effetti di tolleranza e dipendenza delle amfetamine, tra i quali è indicato il modafinil (Taylor et al., 2018). Oltre alla terapia farmacologica, alla psicoterapia, ed alla terapia elettroconvulsiva (ECT), hanno acquisito recentemente credito altre terapie somatiche tra le quali la mindfullness (Segal et al., 2010). L’obbiettivo del trattamento è la remissione dell’episodio depressivo, definito dal DSM V come: – parziale, se viene ristabilito lo stadio clinico precedente all’episodio depressivo ma non si incontrano i criteri per la remissione totale, o è trascorso un periodo inferiore ai due mesi senza sintomi significativi di un episodio depressivo maggiore dopo la fine di questo episodio; – totale, se si osserva la scomparsa di segni o sintomi del disturbo durante gli ultimi due mesi. La valutazione dei risultati del trattamento si effettua con la scala di Hamilton (Hamilton Scale, HAM-D). Una risposta positiva al trattamento è indicata da una riduzione del 50% o più dei sintomi. Riguardo i trattamenti farmacologici convenzionali, i principali punti di debolezza sono: la scarsa risposta al primo farmaco, la necessità di una terapia di mantenimento, la comparsa di tachifilassi, le recidive post
trattamento e lo sviluppo di una forma di depressione resistente. Nonostante sostanziali progressi nell’elaborazione di nuovi farmaci, meno del 50% dei pazienti raggiunge la remissione come risultato del trattamento antidepressivo, anche dopo quattro diversi regimi farmacologici. È stato fatto uno sforzo enorme per cercare di sviluppare trattamenti farmacologici alternativi che migliorino l’efficacia e accelerino l’insorgenza degli effetti terapeutici. Al momento, la ketamina e la psilocibina, in modalità d’azione e d’assunzione completamente differenti, stanno mostrando questo tipo di risposta. Nell’ottica dell’ipotesi infiammatoria della depressione, è probabile che gli attuali antidepressivi e la ketamina ristabiliscano l’equilibrio del sistema fibrinolitico aumentando l’attività del tPA e del uPA46 mediante la downregulation dell’espressione genica cerebrale dei relativi inibitori. Inoltre, gli psichedelici serotoninergici come la psilocibina potrebbero migliorare l’umore attraverso effetti anti-infiammatori (Flanagan e Nichols, 2018) e profibrinolitici, attenuando le modifiche deleterie indotte a livello cerebrale dallo stress cronico, con riparazione dell’omeostasi del sistema fibrinolitico e miglioramento del tono dell’umore (blocco dell’attività del TNF-α che riduce l’attività e aumenta l’eliminazione del PAI-1(inibitore dell’attivatore del plasminogeno-1)). Il processo coinvolge la disinibizione del tPA e dell’uPA e conseguente aumentato clivaggio del proBDNF. Il BDNF maturo promuove la neurogenesi, riduce l’infiammazione, riduce la deposizione di fibrina, normalizza i neurocircuiti coinvolti nell’umore (Idell et al., 2016).
La psilocibina nel trattamento della depressione Nell’aprile del 2017, a Oakland (California) si è tenuta la più grande conferenza sulle potenzialità terapeutiche degli psichedelici – la Psychedelic Science – che ha visto più di 3000 partecipanti provenienti da oltre 40 nazioni. Tra i 175 oratori, sono emerse personalità come Tom Insel, ex direttore del National Institute for Mental Health, e Paul Summergrad, ex presidente dell’American Psychiatric Association, che si sono mostrati entusiasti e hanno disquisito in maniera incoraggiante sull’argomento. Uno dei temi principali tra quelli affrontati nel corso di questa conferenza è stato quello della “connessione”. Il senso di connessione fu descritto da
Stace nel 1960 come uno degli elementi caratterizzanti l’esperienza mistica come “sensazione di unità”, e tale esperienza sembra essere associata con la dissoluzione dell’ego, come se l’ego fosse una forza opposta alla connessione (Carhart-Harris et al., 2017). Considerato che in alcuni disturbi psichiatrici, soprattutto nella depressione maggiore, si assiste a un forte isolamento e distacco sociale, si comprende come la ri-connessione con sé stessi e con l’ambiente possa essere un mediatore fondamentale di benessere psicologico. Nel caso dell’esperienza psilocibinica o con l’ayahuasca, i soggetti percepiscono un aumento della connessione con la natura e una connessione con la percezione del “sé”. Dopo il trattamento con la psilocibina (e anche con l’ayahuasca) i pazienti si sentono maggiormente riconnessi ai piaceri e agli hobby, si sentono più integrati, maggiormente in pace con sé stessi e con il loro passato. Durante il follow-up a sei mesi dei pazienti sottoposti allo studio sulla psilocibina nel trattamento della depressione, alla domanda “questo trattamento funziona per te? E se si, come?”, tutti i pazienti hanno fatto riferimento a un fattore determinante comune per la riuscita del trattamento: un sentimento di connessione o di legame. Si sono potuti distinguere tre aspetti della connessione: connessione con sé stessi, con gli altri e con il mondo in generale. Per molti, il senso di connessione insorgeva in maniera improvvisa, durante la sessione di trattamento, e in genere si manteneva per parecchie settimane e mesi dopo il trattamento (Carhart-Harris et al., 2017). In precedenza, evidenze cliniche dell’efficacia antidepressiva della psilocibina si erano avute in uno studio su malati terminali, i quali avevano ottenuto una significativa riduzione dell’ansia e della depressione legate alla condizione di fin di vita (Reiche et al., 2018). Il primo studio preliminare sulla sicurezza ed efficacia della psilocibina per il trattamento della depressione è stato pubblicato nel 2016 dal gruppo dell’Imperial College di Londra. Lo esponiamo con una certa dovizia di particolari, come esempio di moderno studio clinico con psichedelici. Allo studio erano stati ammessi 12 pazienti con diagnosi di depressione maggiore unipolare, ai quali sono state somministrate capsule di psilocibina in due dosi differenti, una medio-bassa di 10 mg e una medio-alta di 25 mg, in sessioni separate da una settimana di distanza. Le sessioni di somministrazione sono state precedute da una fase di preparazione e di
supporto psicologico, e tale supporto è stato fornito anche durante e dopo ogni somministrazione. La prima misurazione ha riguardato l’intensità degli effetti della psilocibina sul paziente, e i partecipanti sono stati monitorati per eventuali reazioni avverse durante le sessioni, seguito da un follow-up clinico a distanza. I sintomi depressivi sono stati misurati con valutazioni standard a una settimana e fino a tre mesi dal trattamento, e come valutazione di efficacia primaria è stato utilizzato il questionario QIDS (Quick Inventory of Depressive Symptoms). Il reclutamento dei soggetti idonei a partecipare allo studio, è avvenuto attraverso varie fasi di selezione: valutazione della sintomatologia depressiva e delle condizioni mentali attraverso un colloquio con uno psichiatra (anamnesi positiva personale o familiare per malattia psichiatrica; storia di tentato suicidio; mania; fobia degli aghi) e valutazione dell’idoneità fisica attraverso l’esame obiettivo e screening di laboratorio per escludere patologie gravi che controindicassero la partecipazione allo studio (patologie d’organo o sistemiche gravi; test di gravidanza positivo nelle donne in età fertile; dipendenza da alcol o da altre sostanze). I pazienti in trattamento con antidepressivi serotoninergici avrebbero dovuto scalare i farmaci fino a completa sospensione prima di ricevere la psilocibina. I candidati sono quindi stati sottoposti a scansioni con fMRI di 60 minuti per valutare lo stato iniziale del paziente. Sempre nel corso della fase preliminare, è stata simulata la sessione psilocibinica, mostrando al paziente come si sarebbe svolta la seduta, facendogli ascoltare un campione della musica, ecc. La mattina della sessione di somministrazione il paziente – arrivato alle 9 al centro – è stato sottoposto a una serie di esami, incluso uno screening per la positività all’alcol e ad altre droghe, cui ha fatto seguito un ulteriore completamento dei questionari di valutazione dello stato depressivo per valutare eventuali discordanze con il precedente punteggio. Quindi il paziente è stato invitato a sdraiarsi e rilassarsi, e gli sono state fornite delle cuffie mediante le quali ascoltare una playlist musicale. I pazienti sono stati supervisionati per tutta la durata d’azione della psilocibina, la quale è stata somministrata alle 10:30. Nella prima sessione è stata somministrata la dose di 10 mg, e a distanza di una settimana quella di 25 mg (in capsule da 5 mg ciascuna). A intervalli regolari sono state eseguite valutazioni dello stato fisico e psicologico (dopo 6-7 ore è stata fatta compilare la 5-D ASC).
L’assistenza degli psichiatri ha previsto un approccio di sostegno all’esperienza, non direttivo, in modo da permettere al paziente di non interrompere il viaggio. Al termine della sessione i pazienti sono stati accompagnati a casa da un familiare o un amico stretto, offrendogli anche l’opportunità di alloggiare in un luogo vicino all’ospedale. Il giorno successivo sono state svolte interviste telefoniche ai fini di constatare lo stato psicologico del paziente e una scansione fMRI di 60 minuti per valutare lo stato post-trattamento. Tutta la procedura è stata ripetuta a una settimana di distanza dalla prima, e ulteriori valutazioni dello stato psicologico sono state fatte mediante comunicazione di posta elettronica con i pazienti a 2, 3 e 5 settimane dopo la sessione con la dose da 25 mg. Un follow-up finale è stato svolto a distanza di tre mesi dalla seconda sessione, con valutazione delle varie scale psicometriche. L’obbiettivo principale dello studio era quello di acquisire le prime impressioni sull’efficacia del trattamento, e di creare un protocollo per la somministrazione orale di psilocibina. La valutazione dei risultati primari sulla fattibilità è stata svolta sul giudizio soggettivo del paziente sull’intensità dell’esperienza. La sicurezza della terapia è stata valutata mediante monitoraggio continuo dei parametri fisici e psicologici. Dall’analisi dei questionari QIDS, si è potuto osservare che rispetto alla situazione iniziale i sintomi depressivi si erano notevolmente ridotti a una settimana e a tre mesi dopo il trattamento con la dose elevata, mostrando il picco massimo d’effetto a due settimane. In base ai criteri standard per la determinazione della remissione, otto dei 12 pazienti hanno raggiunto una remissione totale dei sintomi a una settimana, e sette pazienti rispondevano ancora a questi criteri dopo tre mesi, cinque dei quali si trovavano ancora in remissione completa. Si è potuto osservare inoltre un miglioramento dell’ansia e dell’anedonia. Gli effetti avversi registrati consistevano in un’ansia passeggera durante la salita della psilocibina; qualche paziente aveva riferito nausea o cefalea di breve durata, qualcun altro aveva mostrato confusione mentale, un paziente paranoia, ma tutti questi effetti si erano autorisolti e non era stato richiesto l’uso di farmaci. Un paziente aveva ricontattato gli psichiatri durante i tre mesi di follow-up a causa di un deterioramento del suo stato depressivo. Riportiamo un paio di report particolarmente significativi per la
comprensione del significato dell’esperienza psichedelica: “..ho anche rivisto mio padre abusare di me, ma questa volta, invece di spingere l’immagine da un lato ed evitare la situazione, l’ho guardato negli occhi e ho attraversato il disagio e la paura..”; “Con la rivelazione e la manifestazione dei miei demoni, guardando le mie paure direttamente negli occhi, sono entrato in uno stato in cui ero completamente sereno, in pace, completamente euforico, la sensazione più rilassata e soddisfatta che abbia mai provato” (Carhart-Harris et al., 2016a). Ricerche successive del Beckley/Imperial Research Program hanno messo in evidenza come questo risultato fosse raggiungibile attraverso un effetto che è opposto a quello degli antidepressivi tradizionali: la psilocibina causa il rafforzamento di tutte le emozioni, anche negative. Sebbene possa apparire contraddittorio, in realtà questo meccanismo condivide un principio comune ad altre psicoterapie: per essere superate, le emozioni negative vanno affrontate, non evitate. Secondo alcune critiche verso questo studio, l’effetto terapeutico della psilocibina sembrava troppo potente e duraturo per essere vero. Considerando che la guarigione spontanea nella depressione refrattaria è rara, e molti dei pazienti che sono stati ammessi allo studio con la psilocibina soffrivano di depressione da un periodo molto lungo della loro vita (una durata media stimata di 18 anni), ci si chiedeva come fosse possibile che con due sole dosi di psilocibina si fossero potuti ottenere dei risultati immediati, più efficaci e a lungo termine rispetto gli antidepressivi tradizionali, i quali devono essere assunti quotidianamente, necessitano di diverse settimane prima che manifestino qualche effetto, e spesso falliscono nell’apportare miglioramenti al paziente. La risposta è giunta con i risultati di un secondo studio, in cui sono state analizzate le immagini delle scansioni fMRI effettuate ai pazienti prima e dopo la sessione con psilocibina. Durante le scansioni sono state mostrate ai pazienti una serie di volti con espressioni felici, neutrali o paurose. Lo scopo era quello di rivelare le modificazioni nell’amigdala in risposta a questi volti sotto effetto della psilocibina. L’amigdala è la struttura chiave nel circuito serotoninergico adibita alla percezione e all’elaborazione delle emozioni come la paura e l’ansia; attraverso studi di neuroimaging è possibile osservare la sua attivazione in risposta a espressioni di paura. La risonanza ha mostrato una risposta dell’amigdala ai volti paurosi più forte dopo la seduta
con psilocibina rispetto alla risonanza pre-trattamento. Quindi la psilocibina parrebbe promuovere l’elaborazione cerebrale degli stimoli emozionali negativi. Nei pazienti depressi, così come negli individui predisposti alla depressione maggiore, si osserva un’amigdala ipersensibile e iperattiva, un fenomeno che spiegherebbe la tendenza di questi pazienti a rispondere agli eventi negativi in maniera più marcata rispetto ai soggetti sani. Il trattamento con antidepressivi quali gli inibitori del reuptake della serotonina ha mostrato ridurre l’iperattività dell’amigdala. L’efficacia degli antidepressivi sta appunto nell’attenuare o smorzare le emozioni negative, permettendo al paziente di continuare a “funzionare”. Contrariamente a questo, la psilocibina sembra comportarsi in modo opposto, e cioè con un aumento della risposta dell’amigdala (Roseman et al., 2017). In uno studio precedente del gruppo di Vollenweider, in 25 volontari sani la psilocibina (alla dose di 0,16 mg/kg) aveva ridotto la reattività dell’amigdala destra agli stimoli neutri e negativi rispetto al placebo, e ciò era correlato a uno stato emotivo positivo.47 Inoltre, la lateralizzazione della risposta all’amigdala destra confermava le evidenze che gli SSRI attenuano principalmente la reattività dell’amigdala destra agli stimoli negativi. L’amigdala destra sembra responsabile principalmente dell’elaborazione delle emozioni negative (mentre l’amigdala sinistra elabora sia le emozioni positive che quelle negative). La psilocibina riduce anche l’attivazione della corteccia visiva, contemporaneamente alla ipereccitabilità dei neuroni nella corteccia visiva e alla comparsa delle allucinazioni (Kraehenmann et al., 2015). In un ulteriore studio svolto all’Imperial College di Londra, 20 pazienti depressi sono stati sottoposti a scansioni fMRI una settimana antecedente al trattamento con psilocibina e un giorno dopo la sessione con la dose alta di psilocibina (Roseman et al., 2017). Dai risultati delle immagini, si è potuto osservare un aumento della risposta dell’amigdala destra ai volti paurosi e felici dopo il trattamento, e l’aumentata reattività dell’amigdala destra ai volti paurosi rispetto a quelli neutri sono risultati predittivi dei miglioramenti clinici a una settimana di distanza. Quindi, il trattamento con psilocibina associato alla psicoterapia evidenza un aumento della reattività dell’amigdala agli stimoli emozionali, che è un effetto opposto a quello osservato con i farmaci antidepressivi (Kraehenman et al., 2015).
Può sorprendere il fatto che una sostanza che si comporta in maniera esattamente opposta agli antidepressivi sia in grado di ottenere risultati più potenti e duraturi. Eppure, l’elaborazione dei dati elaborati dall’équipe di Roseman ha evidenziato come l’intensità dell’attivazione dell’amigdala fosse risultata proporzionale al grado di miglioramento dei sintomi; una constatazione che parrebbe togliere qualsiasi dubbio alla scoperta. Fornendo la giusta preparazione e il supporto terapeutico, gli psichedelici creano le condizioni ideali per la vivida introspezione e l’auto-analisi, che sono l’obbiettivo di molte psicoterapie. Invece di bloccare i ricordi negativi, gli psichedelici li risvegliano; invece di reprimere le emozioni negative ricorrenti, gli psichedelici le intensificano; in questo modo viene creata la finestra terapeutica ideale attraverso cui il paziente può raggiungere cambiamenti reali e duraturi. I partecipanti allo studio dell’Imperial College riferivano di aver raggiunto “una maggiore capacità di accettare tutte le emozioni”. Alcuni avevano definito i precedenti trattamenti farmacologici come “un mezzo per rinforzare il distacco emozionale e la disconnessione”. L’esperienza con psilocibina, al contrario, induceva un “confronto” emozionale: il ritorno al trauma porta alla rottura delle emozioni e alla risoluzione del conflitto. Ritornando al confronto con gli antidepressivi, questi farmaci non discriminano tra gli sbalzi emozionali, i sentimenti negativi da quelli positivi; essi semplicemente appiattiscono a priori tutte le emozioni: per i pazienti che lottano con una depressione estrema, questo è già un bel traguardo, tuttavia si possono raggiungere risultati ulteriori. Alcune forme di depressione sono caratterizzate da una generale perdita di interesse per la vita (apatia) e dalla mancanza di provare piacere (anedonia), e il paziente non ha la forza di volontà nell’affrontare la situazione. Probabilmente, è proprio su questi pazienti che gli antidepressivi non funzionano, in quanto l’appiattimento delle emozioni non migliora o addirittura peggiora tali sintomi (Roseman et al., 2017). Questo studio preliminare è stato seguito da un altro in cui sono stati reclutati 19 pazienti depressi, presso i quali sono state studiate le variazioni dell’attività cerebrale mediante immagini di risonanza magnetica funzionale prima e dopo (sino a 5 settimane) il trattamento con la psilocibina (CarhartHarris et al., 2018). I pazienti sono stati sottoposti a una seconda risonanza il giorno dopo del trattamento con lo scopo di osservare quel periodo che Pahnke aveva definito di “afterglow”,48 in cui il soggetto si trova in una fase
di maggiore vulnerabilità agli effetti terapeutici, caratterizzato da un generale miglioramento dell’umore e da un sollievo dall’ansia e dai sensi di colpa, elementi predittivi per i risultati a lungo termine del trattamento. La relazione esistente tra le modificazioni delle immagini e il miglioramento dei sintomi è stato valutato con il questionario QIDS a 16 elementi. Probabilmente il risultato più eclatante ha riguardato le variazioni dell’attività cerebrale che si potevano osservare il giorno successivo alla somministrazione di psilocibina, in quanto molto diverse da quelle riscontrate durante lo stato psichedelico acuto. Come abbiamo visto nel capitolo dedicato alla neurofenomenologia (cap. 8), l’esperienza psichedelica acuta è caratterizzata dalla disintegrazione dei network di riposo (DMN) e da un aumento della connettività globale; nelle immagini dei pazienti depressi al contrario si osservava una re-integrazione dei network con un effetto trascurabile sulla connettività globale. Ciò parrebbe paradossale, poiché questo segno viene in genere associato alla ruminazione depressiva; tuttavia questa osservazione è in accordo con i risultati delle immagini di pazienti trattati con terapia elettroconvulsiva (ECT), nei quali si osserva una riduzione acuta dell’integrità del DMN e un aumento (o una normalizzazione) postacuto, accompagnato da un miglioramento dell’umore. Sembrerebbe quindi evidenziarsi un meccanismo di “reset” nel quale la disintegrazione acuta permetterebbe una re-integrazione post-acuta e una ripresa delle funzioni normali. Un altro elemento che è stato possibile osservare alla fMRI riguarda una ridotta perfusione dell’amigdala sinistra: questo potrebbe spiegare parzialmente gli effetti terapeutici della psilocibina se si tiene presente che un aumento del CBF dell’amigdala nel resting state è stato osservato nei disturbi del tono dell’umore. Un’altra osservazione importante dal punto di vista radiologico riguarda la relazione della connettività funzionale a riposo tra il paraippocampo bilaterale e la corteccia prefrontale: nei soggetti depressi la connettività tra queste due regioni è particolarmente elevata, e dopo trattamento con psilocibina si è osservata una sua riduzione; inoltre, questo segno è risultato predittivo della risposta del trattamento a 5 settimane (Carhart-Harris et al., 2012; Roseman et al., 2018). In questo studio clinico la qualità dell’esperienza psichedelica acuta è stata valutata mediante il questionario ASC (Altered State of Consciousness). Gli elementi del questionario maggiormente predittivi per una stima dei risultati a lungo termine sono risultati le dimensioni OBN (immensità oceanica) e DED (dissoluzione dell’ego ansiosa), che misurano da un lato
l’esperienza positiva, estatica, dall’altro quella spiacevole. A distanza di 5 settimane è stato fatto compilare il QIDS-SR, come misurazione finale dei risultati clinici, e da ciò è stata osservata una riduzione di oltre il 50% del punteggio QIDS-SR (Roseman et al., 2018).49 Un modello interessante sul funzionamento degli psichedelici serotoninergici, fra cui la psilocibina, si riflette nelle differenze dell’azione farmacologica di questi rispetto agli antidepressivi tradizionali. L’uso cronico degli SSRI determina un aumento del segnale post-sinaptico mediato dai recettori 5HT1a distribuiti nel circuito limbico, riducendone l’attivazione e determinando un “appiattimento” o offuscamento emotivo, ed esplicherebbero la loro azione “anti-stress” riducendo l’ansia e l’aggressività. Gli psichedelici, al contrario, attraverso la loro azione sui recettori 5HT2a corticali aumenterebbero la sensibilità agli stimoli ambientali tramite l’aumento dell’entropia cerebrale, riducendo il pensiero rigido e favorendo il rilascio emotivo (Carhart-Harris e Goodwin, 2017). Cogliamo l’occasione per esporre una considerazione già avanzata da altri studiosi, che riguarda le limitazioni della sperimentazione svolta su pazienti solo cronicizzati. I pazienti selezionati per i moderni studi clinici con gli psichedelici hanno riguardato per il momento solamente pazienti cronici, che avevano alle spalle anni di malattia e di tentativi terapeutici risultati perlopiù fallimentari, ad esempio resistenti alle varie terapie farmacologiche. Prendendo come esempio il trattamento della depressione con la psilocibina, sarebbe opportuno pensare alle terapie psichedeliche con supporto psicoterapeutico come un trattamento precoce. In caso di pazienti con lunga storia di patologia depressiva, con alle spalle anni di fallimento con altri trattamenti convenzionali, i sistemi neurorecettoriali saranno modificati dalle suddette terapie. Un approccio precoce con gli psichedelici permetterebbe un lavoro maggiormente diretto sulle cause e conseguenze del trauma, essendo mirato a indirizzare, invece che a sopprimere o evitare i ricordi e le emozioni spiacevoli. I pazienti depressi sinora selezionati per la terapia psilocibinica non avevano avuto in precedenza risposta terapeutica ad almeno due classi di farmaci, e nel frattempo la malattia si è cronicizzata. Per l’esposizione alla psilocibina è necessario che scalino gli altri farmaci, e questo processo può risultare complicato e non scevro da rischi. Inoltre, esistono evidenze aneddotiche che riferiscono un’attenuazione degli effetti psichedelici a causa dell’uso degli SSRI e probabilmente anche di altri antidepressivi; come si è
visto nel capitolo precedente, gli antidepressivi inducono una downregulation dei recettori 5HT2a, ed esplicano proprietà antagoniste per il recettore 5HT2a. Sarebbe davvero interessante poter osservare la risposta alla psilocibina in una fase acuta della malattia (Carhart-Harris e Goodwin, 2017).
Ayahuasca e depressione Nel capitolo precedente abbiamo illustrato i meccanismi farmacologici dell’ayahuasca e l’attività sinergica tra le beta-carboline e il DMT nell’esplicare la potente azione psichedelica della bevanda amazzonica. Da una parte, a basse dosi il DMT possiede un’attività ansiolitica intrinseca, mediata dai recettori TA, che potrebbe contrastare eventi psicotici (Jacob e Presti, 2005). Inoltre, mediante la sua azione sul recettore sigma-1 contribuisce alla sopravvivenza neurale favorendone la plasticità; caratteristiche che spiegherebbero la sua azione protettiva nei confronti di malattie neurodegenerative e la sua funzione antidepressiva (Valle et al., 2016; Szabo e Frecska, 2016). Dall’altra parte, le proprietà antidepressive dell’ayahuasca possono essere spiegate analizzando la letteratura crescente sulle funzioni delle betacarboline. Diverse fonti vegetali contenenti questi alcaloidi sono impiegate tradizionalmente come anti-depressivi; fra queste ricordiamo, oltre l’ayahuasca, il pègano e le passiflore. L’impiego come anti-depressivo delle fonti di beta-carboline trova una parziale giustificazione nell’ipotesi monoaminergica della depressione; un’ipotesi che, sebbene possa sembrare obsoleta e superata da proposte più intriganti quali quella infiammatoria, quella della disfunzione mitocondriale, l’ipotesi dell’alterata neurogenesi dell’ippocampo e quella del microbioma intestinale, resta una pietra miliare nella comprensione della genesi del disturbo depressivo; le relative terapie farmacologiche sono state sviluppate soprattutto sulla logica che una deplezione di monoamine, responsabile della comparsa dei sintomi depressivi, debba essere corretta per poter riparare il deficit neurotrasmettitoriale. Una delle modalità per aumentare la disponibilità di monoamine nello spazio sinaptico è quella di inibire gli enzimi monoamino-ossidasi mitocondriali attraverso sostanze ad attività MAO inibitrice (MAO-I); le beta-carboline presenti nell’ayahuasca – principalmente armina, armalina,
tetraidroarmina – possiedono quest’attività MAO inibitoria intrinseca. La tetraidroarmina (THH) inibisce selettivamente la ricaptazione della serotonina e la MAO-A; armina e armalina aumentano le concentrazioni di serotonina e noradrenalina sia con un meccanismo indiretto, inibendo in maniera reversibile la MAO-A, sia con una lieve azione agonista sul recettore della serotonina 5HT2a; l’armina aumenta i livelli del fattore di crescita neuronale (BDNF) nell’ippocampo. Anche lo stress ossidativo ricopre un ruolo importante nella patogenesi del disturbo ansioso-depressivo, e nel plasma di soggetti depressi sono stati osservati livelli elevati di specie reattive dell’ossigeno (ROS). L’armina ha un ruolo protettivo nello stress ossidativo, riducendo le alterazioni mitocondriali indotte dalla dopamina e agendo come “spazzino” delle ROS (D’Arienzo e Samorini, 2016). L’armina, che è la beta-carbolina con le concentrazioni più alte nell’ayahuasca, interagisce con diversi sistemi: nel SNC le azioni dell’armina sono state riportate sulla MAO-A, sui 5HT2a e sui recettori delle imidazoline (I1 e I2), e sulle chinasi ciclina-dipendenti, sebbene le sue azioni farmacologiche siano molto più ampie e includano attività antiplasmodica, antimutagena e antigenotossica, antiossidativa, antidiabetica e antipiastrinica (Osorio et al., 2011). In conseguenza alle crescenti evidenze sul potenziale terapeutico delle beta-carboline nella depressione maggiore, un’équipe brasiliana ha valutato gli effetti comportamentali e molecolari indotti dalla somministrazione cronica di armina nei ratti. Il trattamento acuto con armina è stato confrontato con quello con imipramina, un noto antidepressivo triciclico, e i risultati sono stati valutati con il test del nuoto forzato.50 Sono quindi stati misurati i livelli della proteina BDNF nell’ippocampo. È stato osservato che entrambi i trattamenti riducono l’immobilità dei roditori e favoriscono il nuoto e l’arrampicata. Il trattamento con l’armina rispetto a quello con l’imipramina aumenta nell’ippocampo i livelli di BDNF, una proteina cerebrale di cui sono riconosciute le proprietà antidepressive. Interessante l’osservazione che se il ratto veniva lasciato in un campo aperto, né l’armina né l’imipramina inducevano un aumento dell’attività locomotoria, a dimostrazione del fatto che questa risposta a entrambi i composti si manifesta in condizioni di stress emotivo. Altri studi hanno evidenziato l’abilità dell’armina nel contrastare l’anedonia nella rinormalizzazione dei livelli di ACTH e di BDNF (Fortunato et al., 2010a,b). Gli effetti sulla neurogenesi dell’armina sono stati inoltre studiati in
culture cellulari contenenti progenitori di cellule umane (hNPC, cellule umane positive alla nestina) derivati da cellule staminali pluripotenti, riproducendo i primi stadi di sviluppo del sistema nervoso. Le cellule in coltura venivano trattate per 4 giorni con armina, mostrando un aumento della proliferazione del 71,5%. Gli effetti proliferativi sembrerebbero indotti dall’inibizione del gene DYRK1a da parte dell’armina. Abbiamo già osservato (cap. 9) come il gene DYRK1a svolga un ruolo di regolazione della proliferazione cellulare e dello sviluppo neurale. Gli effetti proliferativi dell’armina in vitro contribuiscono alla comprensione degli effetti antidepressivi dell’ayahuasca in vivo (Dakic et al., 2016). Questi studi preclinici avvalorano l’idea che l’armina possa essere un importante candidato per la gestione farmacologica della depressione. Un altro fattore coinvolto nella patogenesi della depressione è la disfunzione degli astrociti, che sono cellule di sostegno del sistema nervoso che contribuiscono all’integrità delle funzioni neuronali. Studi in vivo hanno dimostrato che l’esposizione cronica a fattori stressanti o la deprivazione materna provoca una riduzione degli astrociti ippocampali. Uno studio preclinico ha evidenziato come l’armina svolga una funzione modulatoria sui trasportatori del glutammato astrocitari, evidenziando una sua funzione neuroprotettiva ripristinando le funzioni degli astrociti, mediante promozione dell’espressione del gene del glutammato GLT-1 e prevenendo la riduzione dei livelli delle proteine BDNF (Liu et al., 2017). Tenendo conto degli effetti antidepressivi dell’armina osservati in studi in vivo, in Brasile sono stati avviati i primi studi sull’uomo per valutare il potenziale terapeutico in persone affette da depressione maggiore. Uno studio esplorativo è stato condotto su tre donne con diagnosi di disturbo depressivo ricorrente ed episodi depressivi moderato-gravi senza sintomi psicotici. Le pazienti si trovavano in un periodo di “washout” (eliminazione) di due settimane dai farmaci antidepressivi che stavano assumendo, in attesa di cominciare un nuovo trattamento farmacologico. È stata somministrata una dose orale di ayahuasca e lo stato mentale è stato monitorizzato attraverso scale d’uso psichiatrico (Hamilton Depression Scale, HAM-D), 10 minuti prima della somministrazione di ayahuasca e in seguito a intervalli regolari per un periodo di 28 giorni. Già dopo 40 minuti dall’assunzione di ayahuasca si è potuto osservare una riduzione del punteggio di tutti i valori della scala, e questo punteggio si manteneva piuttosto stabile fino al quattordicesimo giorno, dopodiché si ripresentavano i
sintomi depressivi (Osorio et al., 2011). È interessante notare come i miglioramenti osservati nella scala HAM-D possono essere corroborati dalle testimonianze dei pazienti: “ero rannicchiata e piangevo silenziosamente, ero completamente rannicchiata e non riuscivo a rispondere perché mi sentivo come se il demonio e Nostra Signora stessero combattendo per la mia anima e io non potevo intromettermi. Dopo una lunga battaglia la Nostra Signora vinse e mi tirò vicino a sé e io sentii un’intensa gioia”. Un altro racconto: “mi sentivo come se stessi cercando di mantenere una palla di energia blu. Non ci riuscivo perché le mie mani erano come i poli opposti di un magnete, che si respingevano. Quando finalmente ci riuscii, l’energia mi attraversò e tutto ebbe senso. Da quel momento, non mi sono mai più sentita depressa” (Palhano-Fontes et al., 2014). La medesima équipe brasiliana ha esteso lo studio ad altri tre pazienti depressi, con somministrazione di una dose singola di ayahuasca, che era stata ricevuta dalla comunità del Santo Daime. Ad ogni soggetto sono stati dati da bere 120-200 ml di ayahuasca (2,2 ml/kg di peso corporeo). La quantità di DMT calcolata nell’infuso era di 0,8 mg/ml e 0,21 mg/ml di armina, assente l’armalina. Si è osservata una riduzione dell’82% dei sintomi depressivi e dell’ansia nel confronto tra il controllo prima della sessione con ayahuasca e a 1, 7, e 21 giorni dopo la somministrazione, a dimostrazione del fatto che gli effetti dell’ayahuasca sono immediati e si mantengono nel tempo. Inoltre, la valutazione del punteggio dei disturbi del pensiero ha evidenziato che l’ayahuasca non induceva alcun episodio di mania o ipomania, e che le modificazioni del contenuto del pensiero associati con l’effetto psichedelico non erano essenziali per il miglioramento del tono dell’umore (Osorio et al., 2015). In un altro studio è stata somministrata una dose di ayahuasca a 17 pazienti con diagnosi di disturbo depressivo maggiore. Il grado di severità è stato valutato prima, durante e dopo la seduta con ayahuasca, mostrando una riduzione significativa dei sintomi già dopo la prima ora dall’ingestione dell’infuso, e questo effetto si è mantenuto significativo per 21 giorni (Sanches et al., 2016). Di recente è stato pubblicato il primo studio controllato su 29 pazienti affetti da depressione-resistente trattati con ayahuasca presso l’Onofre Lopes University Hospital di Natal (Brasile). Dei pazienti reclutati, sono stati ammessi quelli che rispondevano per i criteri di depressione maggiore unipolare resistente ai trattamenti come definito dal DSM IV, dove per resistenza ai trattamenti veniva intesa la risposta inadeguata ad almeno due
farmaci antidepressivi di differenti classi farmacologiche. I pazienti sono stati randomizzati per ricevere ayahuasca o placebo, e hanno ricevuto una dose singola di ayahuasca. Il grado di depressione è stato valutato con la Montgomery-Asberg Depression Rating Scale (MADRS) e con la Hamilton Depression Rating Scale. Le misurazioni sono state eseguite al tempo zero, prima di iniziare l’esperimento, e poi a distanza di un giorno, di due giorni e dopo 7 giorni la somministrazione di ayahuasca. I risultati hanno mostrato una significativa riduzione del punteggio nelle scale metriche rispetto al placebo in tutti i tempi di misurazione. L’effetto antidepressivo aumentava notevolmente dal primo al settimo giorno, per raggiungere il 64% di risposta nel gruppo ayahuasca rispetto al 27% nel gruppo controllo (Palhano-Fontes et al., 2018). Sebbene sia l’ayahuasca che la ketamina mostrino azione antidepressiva rapida, l’andamento della risposta nel tempo e il meccanismo d’azione sono differenti. Mentre la ketamina raggiunge il picco degli effetti dopo un giorno di trattamento (la percentuale di risposta si colloca tra il 37 ed il 70%), l’ayahuasca mostra il massimo degli effetti al settimo giorno (64% vs 7-35% della ketamina). Un’altra osservazione interessante dello studio brasiliano è la percentuale dell’effetto placebo, che risulta particolarmente alta (il 46% dopo un giorno ed il 26% dopo sette giorni; al contrario negli studi con ketamina la percentuale si aggira intorno allo 0-6% a un giorno e 0-11% a sette giorni). Questo fenomeno è stato spiegato come una risposta dei soggetti all’ambiente confortevole in cui era stato effettuato lo studio, in quanto molti di questi pazienti provenivano da un contesto socioeconomico difficile e pieno di fattori stressanti, e il solo fatto di sentirsi “curati e protetti” faceva migliorare la loro situazione psicologica. Considerati i risultati positivi, sarebbe stato utile poter monitorare i pazienti per un tempo più lungo di quello di 7 giorni, e non conosciamo le motivazioni per cui lo studio è stato interrotto dopo un periodo così breve. Dopo i 7 giorni è stato ripreso il trattamento antidepressivo al quale erano stati precedentemente sottoposti (Palhano-Fontes et al., 2018). Le modificazioni neuroanatomiche dopo assunzione di ayahuasca sono state visualizzate con immagini SPECT, facendo notare un incremento della perfusione in quelle regioni cerebrali che nei pazienti depressi sono generalmente ipoperfuse. I pazienti sono stati valutati dopo la seduta con ayahuasca con scale psicometriche e hanno mostrato un miglioramento
significativo del punteggio in tutti i valori (questionari HAM-D, MADRS) (Sanches et al., 2016). I pazienti depressi sono affetti anche da disturbi del sonno, come si osserva dall’esame polisomnografico. Reperti tipici di questo esame sono un’alterata continuità del sonno, ridotta latenza per il sonno REM (intesa come l’intervallo tra l’insorgenza del sonno e l’occorrenza del primo periodo REM), aumento della quantità di sonno REM, allungamento del primo periodo REM, aumentata densità REM (numero di movimenti oculari durante il sonno REM) e riduzione delle onde lente. La ridotta latenza del sonno REM nel contesto della depressione è correlata con la secrezione notturna di cortisolo, indicando una interconnessione tra l’alterazione dell’umore, il sonno e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) (Palagini et al., 2013). Sulla base delle conoscenze dell’influenza della neurotrasmissione serotoninergica sulla modulazione e sulla qualità del sonno, è stato studiato l’effetto dell’ayahuasca su 22 volontari sani, confrontandolo con l’effetto di un placebo e di una dose di d-amfetamina come controllo positivo. A differenza della d-amfetamina, l’ayahuasca non provoca deterioramento della qualità del sonno, non altera né l’induzione né il mantenimento del sonno, allunga la fase 2, inibisce il sonno REM – riducendone la durata, sia in termini assoluti che sulla percentuale del sonno totale – e ne prolunga il tempo di latenza dell’insorgenza. Questi risultati indicano che gli psichedelici serotoninergici interagiscono con i circuiti modulatori del sonno migliorandone la qualità (Barbanoj et al., 2008). Dopo due ore dall’assunzione di una singola dose di ayahuasca, sono stati osservati incrementi dei livelli plasmatici di prolattina e di cortisolo. L’aumento di cortisolo ha un impatto sull’immunità cellulare, i linfociti CD3 e CD4 diminuiscono e aumentano le cellule natural killer (NK). A lungo termine, queste differenze tra le sotto-popolazioni linfocitarie non sono comunque più osservabili (Santos et al., 2011). Lo studio è stato ripetuto somministrando due dosi di ayahuasca a un intervallo di 4 ore. A parte l’aumento della concentrazione del DMT e l’aumento degli effetti psicotropi, gli effetti endocrini e immunomodulatori riportati sono risultati sovrapponibili a quelli precedenti (Santos et al., 2012). In linea generale e riassuntiva, l’uso regolare di ayahuasca (su una base di due volte al mese, che è la media del suo impiego nei contesti dei culti sincretici) è associato a un’azione modulatoria su vari sistemi dell’organismo: un’azione simpaticomimetica, aumentando il diametro pupillare e la
pressione arteriosa in maniera simile all’amfetamina; sui sistemi di trasporto della serotonina (SERT), potenziando il sistema serotoninergico e contribuendo all’effetto antidepressivo; ha anche un effetto positivo sul sistema endocrino, sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) e sul sistema immunitario.
La scopolamina nella depressione In questi ultimi decenni la scopolamina ha visto una rivalutazione come farmaco antidepressivo, sulla base teorica che il sistema del recettore colinergico muscarinico parrebbe essere implicato nella patofisiologia della depressione. Questo sistema recettoriale è iperattivo o iperresponsivo nella depressione, e studi genetici hanno mostrato variazioni della codifica genica di questo sistema recettoriale che si associano a un più elevato rischio di sviluppare depressione. In una rassegna dell’équipe statunitense di Drevets, è stata esaminata una serie di studi mirati a valutare se una riduzione della funzione del recettore muscarinico avrebbe potuto migliorare i sintomi depressivi. I dati provenivano da studi randomizzati e in doppio cieco di 52 pazienti con depressione unipolare o bipolare (con età comprese tra i 18 e i 55 anni, non fumatori) trattati con dosi parenterali di scopolamina. Dai risultati l’antagonista recettoriale muscarinico scopolamina aveva manifestato effetti rapidi e robusti in confronto agli altri antidepressivi convenzionali. La scopolamina era stata somministrata alla dose di 4,0 mcg/kg mediante infusione endovenosa lenta, inducendo potenti effetti antidepressivi rispetto al placebo, che si rendevano evidenti a partire da tre giorni dopo l’infusione iniziale. I miglioramenti si mantenevano per due settimane dopo l’infusione finale. Gli effetti avversi al trattamento comprendevano principalmente vertigini, visione offuscata, secchezza delle fauci e stordimento, ma questi effetti erano transitori (si risolvevano entro 2-4 ore) e ben tollerati, e nessun paziente ha interrotto il trattamento a causa di questi effetti. Non si erano manifestati effetti collaterali gravi, e nemmeno sintomi psicotici. Conseguenze emodinamiche (rallentamento della frequenza cardiaca e riduzione della pressione arteriosa) non si erano manifestate alle dosi somministrate. L’insorgenza e la durata della risposta antidepressiva alla scopolamina
indicava un meccanismo al di là dell’antagonismo colinergico muscarinico diretto. In base alla relazione temporale è stato ipotizzato che responsabili del meccanismo terapeutico della scopolamina siano l’induzione genica e la plasticità sinaptica (Drevets et al., 2013). La scopolamina è un antagonista non-selettivo del recettore muscarinico dell’acetilcolina. Essa può modificare la plasticità sinaptica o l’espressione genica attraverso una serie di meccanismi diretti e indiretti. Oltre a produrre gli effetti antagonisti sui recettori muscarinici, essa aumenta il rilascio di acetilcolina (attraverso l’inibizione degli autorecettori muscarinici a controllo di rilascio) e gli effetti colinergici sui recettori nicotinici, a un grado che può essere determinante per gli effetti antidepressivi o antinfiammatori. Inoltre, modifiche del tono muscarinico hanno mostrato influenzare anche altri sistemi trasmettitoriali rilevanti nella depressione, quali il dopaminergico, il serotoninergico e il sistema immunitario innato (Drevets et al., 2013). Un ulteriore effetto della scopolamina condiviso da alcuni degli altri trattamenti antidepressivi riguarda la modulazione della funzione del recettore NMDA. L’espressione genica del recettore NMDA viene promossa dalla stimolazione del recettore muscarinico in diverse regioni cerebrali, e quindi, l’aumentata sensibilità del recettore muscarinico identificata nei disturbi dell’umore può contribuire a un potenziamento della trasmissione del recettore NMDA. Il blocco dei recettori muscarinici da parte della somministrazione della scopolamina riduce le concentrazioni di RNA messaggero per i recettori NMDA di tipo 1A e 2A nel ratto, e protegge i neuroni ippocampali dalla neurotossicità mediata dal glutammato in vitro. La somministrazione cronica degli antidepressivi triciclici e lo shock elettroconvulsivo riducono la funzione corticale del recettore NMDA, e i trattamenti associati a una rapida insorgenza degli effetti antidepressivi agiscono attraverso un effetto diretto antagonista sui recettori NMDA (ketamina) o che inducono l’internalizzazione del recettore NMDA (deprivazione da sonno). Data l’evidenza che un’abnorme funzione glutammatergica parrebbe essere coinvolta nella patogenesi della depressione, questi dati suggeriscono che gli effetti della scopolamina sulla riduzione dell’espressione genica del recettore NMDA potrebbero occupare un ruolo nella loro azione antidepressiva. È interessante notare come la scopolamina condivida in parte con la ketamina l’effetto sulla plasticità sinaptica che è stato ipotizzato alla base della sua efficacia antidepressiva (si veda oltre) (Drevets et al., 2013).
Un ostacolo all’impiego esteso della scopolamina come antidepressivo è dovuto al fatto che i suoi effetti centrali sul sistema parasimpatico ne limitano l’uso a dosaggi superiori con lo scopo di incrementare l’efficacia terapeutica. Per ovviare a questo inconveniente e poter sfruttare l’efficacia della scopolamina, sono in corso sperimentazioni pre-cliniche sulla cosomministrazione di basse dosi di scopolamina (0,1 mg/kg) con ligandi selettivi dei recettori metabotropici del glutammato mGlu (AMN082), che mostrano proprietà antidepressive in modelli animali. I primi risultati di tale combinazione sembrano promettenti, e questa potrebbe costituire una nuova strategia di somministrazione con migliore efficacia e minori effetti collaterali (Podkowa et al., 2018).
La ketamina nella depressione Meccanismi d’azione Il dorsal nexus (DN) è una regione bilaterale dorsale della corteccia prefrontale mediale che nei pazienti depressi mostra un aumento drammatico della connettività funzionale con ampie porzioni del default mode network (DMN), col network di controllo cognitivo (CCN), e con il network affettivo rostrale (AN). È stato ipotizzato che la riduzione dell’aumento della connettività del DN potrebbe essere una strategia per migliorare la sintomatologia depressiva e un potenziale bersaglio terapeutico per i disturbi dell’affettività. In soggetti sani, la ketamina riduce la connettività funzionale del DMN col DN e con la corteccia cingolata anteriore pregenuale e la corteccia prefrontale mediale (mPFC) attraverso il suo centro rappresentativo, la corteccia cingolata posteriore (PCC) (Scheidegger et al., 2012). L’area subgenuale anteriore del giro cingolato (sgACC), o area 25 di Brodmann, è una regione ricca in trasportatori della serotonina. Essa funziona come centro di coordinazione per una vasta rete formata da regioni come l’ipotalamo e il tronco encefalico, che regolano l’appetito e il sonno; per l’amigdala e l’insula, che modulano il tono dell’umore e l’ansia; per l’ippocampo, coinvolto nella formazione dei ricordi; e per alcune parti della corteccia frontale ritenute implicate nella valutazione e nei sentimenti di autostima. L’iperattività metabolica di quest’area è associata a una scarsa risposta terapeutica nel disturbo depressivo maggiore. Dal momento che la
connettività tra la sgACC e le regioni del default mode network è stata considerata segno funzionale della ruminazione depressiva, l’interruzione di questa connettività potrebbe essere un bersaglio potenziale di nuove terapie. In uno studio svolto su 13 volontari sani, la somministrazione di ketamina ha determinato la riduzione della connettività funzionale dell’area sgACC con altre regioni cerebrali come il talamo, l’ippocampo, la corteccia retrosplenica. È plausibile quindi che la funzione antidepressiva della ketamina dipenda in parte dalla sua capacità di interrompere la tendenza della mente a tornare alla ruminazione depressiva, mediante modificazione della connettività funzionale all’interno di questo network (Wong et al., 2016). Un ulteriore meccanismo d’azione si basa sulla costatazione che una delle funzioni biologiche della ketamina è quella di attivare la via del bersaglio della rapamicina nei mammiferi (mTOR), probabilmente mediata dalla stimolazione dei recettori glutammatergici AMPA.51 L’attivazione di mTOR è collegata funzionalmente con la sintesi proteica sinaptica, con aumento della produzione di proteine richieste per la formazione, maturazione e funzionalità di nuove spine dendritiche. Questi effetti della ketamina porterebbero a un aumento della trasmissione serotoninergica, che è anche l’obbiettivo primario degli antidepressivi tradizionali (Li et al., 2010). L’efficacia degli antagonisti NMDA è stata testata su modelli in vivo: è stato simulato uno stato depressivo mediante la somministrazione prolungata di stimoli stressanti, definiti come stress cronico non-prevedibile (CUS). L’esposizione al CUS riduce l’espressione delle proteine sinaptiche e delle spine dendritiche e la frequenza/ampiezza delle correnti sinaptiche (EPSC) nello strato V dei neuroni piramidali nella corteccia prefrontale. È stato sperimentalmente osservato che gli antagonisti NMDA e in particolare la ketamina inducono un rapido miglioramento dell’anedonia e del comportamento ansiogeno. Il blocco della protein-chiansi mTOR abolisce questi effetti della ketamina, a dimostrazione del fatto che questa proteina è il mediatore funzionale della ketamina (Li et al., 2011). Fra i meccanismi d’azione è il caso di citare anche la possibile azione della ketamina sulla flora microbiotica intestinale. Come già accennato, una delle più recenti teorie sulla patogenesi della depressione vede negli squilibri del microbiota intestinale uno dei fattori patogenetici dell’insorgenza del disturbo depressivo. L’alterazione del microbiota intestinale indotto da fattori stressanti cronici o dall’infiammazione cronica sarebbe responsabile dello squilibrio dell’asse intestino-cervello, e la normalizzazione attraverso
supplementi dietetici o mediante trapianto fecale da soggetti sani potrebbe migliorare i sintomi depressivi. Anche negli effetti antidepressivi della ketamina (R-ketamina) sembra coinvolto il microbiota intestinale, come evidenziato recentemente in modelli murini, ed è stato identificato il phylum di batteri potenziali bersagli terapeutici per la depressione associata all’infiammazione (Actinobacteria, classe Coriobacteriia) (Huang et al., 2018). Ketamina e plasticità sinaptica Come abbiamo già esposto, l’ipotesi monoaminergica della depressione viene gradualmente superata da teorie che vedono il coinvolgimento dell’infiammazione e del metabolismo del glutammato tra le nuove modalità eziopatogenetiche principali di questa patologia; inoltre, il profondo effetto antidepressivo della ketamina ha motivato l’interesse in ulteriori approfondimenti sul ruolo del glutammato nei disturbi dell’umore. Il legame tra l’infiammazione e la patogenesi della depressione è avvalorato da varie evidenze di laboratorio e cliniche. I pazienti con depressione maggiore mostrano un aumento dei marker infiammatori, così come l’attivazione di vie del segnale infiammatorio nel sangue periferico, nel fluido cerebrospinale e nelle autopsie cerebrali post-mortem. Il polimorfismo genetico associato alla risposta infiammatoria può essere predittivo per la manifestazione della patologia depressiva e della risposta ai farmaci convenzionali. Lo stato infiammatorio influenza il metabolismo del glutammato: pazienti con disturbi del tono dell’umore presentano uno stato infiammatorio generale; le citochine infiammatorie influenzano il metabolismo del glutammato mediante azioni specifiche sugli astrociti e sulle cellule della microglia. Questi pazienti presentano un aumento degli indici infiammatori come la proteina C reattiva, e tale aumento corrisponde a un aumento del glutammato nei gangli della base, che sembra associato ai sintomi negativi della depressione. Il glutammato che raggiunge lo spazio intersinaptico può attivare i recettori NMDA, facendo ridurre i fattori neurotrofici come il BDNF, che in combinazione con un’eccessiva stimolazione del segnale NMDA contribuisce all’eccitotossicità e alla distruzione sinaptica. L’aumento delle citochine infiammatorie è predittivo della risposta agli antagonisti del glutammato come la ketamina. L’infiammazione può quindi alterare il comportamento attraverso
modifiche del metabolismo del glutammato, responsabili attraverso l’eccitossicità dei sintomi negativi della depressione quali l’anedonia e il rallentamento psicomotorio. La quantità di dati che appoggiano la teoria infiammatoria della depressione è in crescita e appare evidente che il blocco dell’infiammazione potrebbe migliorare la sintomatologia depressiva (Haroon e Miller, 2017). Studi preclinici sui meccanismi terapeutici degli antagonisti NMDA come la ketamina suggeriscono che il sistema del glutammato è un target per lo sviluppo di nuovi antidepressivi con veloce tempo di onset e ampia efficacia. Probabilmente la principale differenza tra gli antidepressivi tradizionali e gli antagonisti del recettore NMDA sta nel tempo di sinaptogenesi nell’ippocampo. La plasticità neurovascolare dell’ippocampo è stata osservata in vivo un giorno dopo la somministrazione di ketamina, la quale ha indotto rapidamente sia la sinaptogenesi che la vascolarizzazione dell’ippocampo. Queste modifiche strutturali appaiono simili a quelle osservate in seguito a trattamento cronico da antidepressivi tradizionali (Ardalan et al., 2017). Il recettore maggiormente implicato nella neuroplasticità sembra essere l’AMPA, e anche il rapido effetto antidepressivo potrebbe dipendere da questo recettore (come è stato osservato anche da Duman e Aghajanian, 2012). L’attivazione del recettore AMPA avverrebbe per opera del metabolita idrossinorketamina, che si potrebbe considerare il fattore determinante per l’azione antidepressiva della ketamina. L’effetto antidepressivo della ketamina potrebbe quindi essere indipendente dall’antagonismo sul recettore NMDA (Zanos et al., 2016). La plasticità sinaptica dipende in parte dalla sintesi del BDNF. Gli effetti della ketamina vengono mediati da questo fattore neurotrofico. Il blocco dei recettori NMDA nello stato inattivo da parte degli antagonisti NMDA induce una de-soppressione della traduzione del gene del BDNF, facendone aumentare i livelli circolanti. È stato osservato che l’aumento dei livelli di BDNF produce effetti antidepressivi sul comportamento in modelli murini (Autry et al., 2017). La ricerca futura potrebbe essere indirizzata sul genotipo, come nelle differenti varianti alleliche del gene per il BDNF, che sarebbero responsabili di differenti tipi di risposta agli antidepressivi. Studi su topi knock-in per diverse varianti alleliche aprono la porta all’identificazione di genotipi resistenti ai trattamenti (Laje et al., 2012). Un piccolo studio pilota randomizzato su tre soggetti affetti da
depressione-resistente trattati con ketamina intranasale ha evidenziato un aumento della neuroplasticità nella corteccia motoria nei soggetti riceventi ketamina rispetto a quelli che avevano ricevuto il placebo (midazolam) (Gálvez et al., 2016). Studi di neuroimaging di pazienti depressi hanno evidenziato una riduzione del volume delle regioni corticali e limbiche, come la corteccia prefrontale e l’ippocampo – regioni che controllano le emozioni, l’umore, la cognizione – mentre in altre regioni la connettività aumenta, e l’atrofia neuronale sembra rispecchiare la durata della malattia e del tempo di trattamento. Quest’alterata regolazione dei network tra la corteccia prefrontale e i suoi target di connessione nelle regioni limbiche è responsabile delle anomalie della regolazione emotiva, cognitiva e autonomica nei disturbi dell’umore. La ketamina induce sinaptogenesi e blocca i deficit sinaptici provocati dallo stress cronico. Questi dati sottolineano l’importanza del controllo omeostatico delle connessioni nel circuito dell’umore, e gettano le basi per le ipotesi sinaptogenetiche della depressione e della risposta al trattamento (Duman e Aghajanian, 2012). Correlati neurofisiologici È stato sperimentalmente osservato che l’effetto antidepressivo di una bassa dose di ketamina insorge entro un’ora dalla somministrazione e persiste per alcuni giorni. Tuttavia, le modifiche della funzione cerebrale responsabili per questo effetto persistente non sono tuttora chiare. In una recente indagine di neuroimaging sono stati reclutati 24 pazienti con depressione resistente ai trattamenti convenzionali; questi venivano suddivisi in 3 gruppi, due dei quali ricevevano due differenti dosaggi di ketamina e il terzo gruppo riceveva una soluzione salina come controllo. Venivano poi sottoposti a un esame PET con infusione di FDG (fluorodeossiglucosio) per valutare il grado di captazione di glucosio e quindi di attivazione cerebrale in base alle differenti dosi di ketamina. I pazienti che avevano ricevuto la dose più alta di ketamina (0,5 mg/kg) presentavano anche maggiori valori di captazione di glucosio nell’area motoria supplementare (SMA) e nella corteccia cingolata anteriore dorsale (dACC), rispetto a quelli che avevano ricevuto la dose più bassa (0,2 mg/kg). Il fatto che l’effetto antidepressivo alla dose di 0,5 mg/kg si protraesse oltre il tempo di emivita è stato messo in relazione all’attivazione della neurotrasmissione glutammatergica nelle aree SMA e dACC (Chen et al., 2018).
Recentemente è stato studiato con la fMRI l’effetto di un’infusione di ketamina (alla dose standard di 0,5 mg/kg) su un gruppo di 58 soggetti, di cui 33 con diagnosi di disturbo da depressione maggiore (MDD) non in trattamento farmacologico, con lo scopo di osservare l’effetto sul DMN nel resting state a 2 e a 10 giorni dopo l’infusione rispetto ai volontari sani. Dopo 2 giorni dall’infusione la connettività dell’insula con il DMN era normalizzata, prevalentemente nell’emisfero destro. Questi cambiamenti non erano visibili nel gruppo placebo e sparivano nell’osservazione a distanza di 10 giorni. La normalizzazione della connettività tra l’insula e il DMN nei soggetti con MDD è un elemento importante, essendo associato al miglioramento dei sintomi depressivi. L’insula condivide delle connessioni anatomiche e funzionali con alcune regioni che sono state implicate nelle differenze neurologiche osservate negli individui con MDD. L’insula è anche implicata nell’integrazione di stimoli emozionali esterni, e ha mostrato un ruolo fondamentale nell’interpretazione dell’informazione emotiva e il passaggio dal CEN (network esecutivo centrale) al DMN. L’aumento della connettività tra l’insula e il DMN dopo l’infusione di ketamina indica un incremento dell’abilità a elaborare gli stimoli esterni che possono portare al miglioramento dei sintomi. L’insula posteriore, che era maggiormente implicata nello studio, è la porzione collegata al dolore, alle elaborazioni sensoriale-motoria e al linguaggio. Questa normalizzazione potrebbe indicare il sollievo dei sintomi depressivi somatici collegati a una interocezione anomala associata all’insula. Un grado elevato di cambiamenti si potevano osservare anche nella corteccia occipitale nel gruppo di pazienti con MDD. La connettività tra la corteccia occipitale e il DMN era aumentata due giorni dopo la ketamina, ma si era ridotta dopo 10 giorni, indicando un effetto rebound potenziale. La connettività aumentava anche nel giro precentrale e postcentrale nei pazienti MDD; altri studi hanno messo in evidenza che nei pazienti depressi si presenta una riduzione della sostanza grigia di queste regioni rispetto ai soggetti sani. Quindi questi risultati indicavano anche un aumento della plasticità neurale. Scheidegger e coll. (2012) avevano riscontrato una riduzione della connettività funzionale della ACC pregenuale con la corteccia prefrontale mediale a un giorno dall’infusione: in questo studio invece a due giorni dall’infusione si poteva osservare un aumento di questa connettività, riflettendo probabilmente una rinormalizzazione dell’effetto notato dall’équipe di Scheidegger. Infine, in questo studio era stata trovata una connettività aumentata nel talamo, nella corteccia occipitale
e in quella prefrontale; modificazioni in queste aree corrispondono ai risultati osservati in altri studi che hanno esaminato le modifiche immediatamente dopo e durante l’infusione di ketamina. Gli aumenti osservati nella ACC e nella corteccia visiva possono essere attribuiti alle modifiche nell’equilibrio del SN (network di salienza) e del CEN (network esecutivo centrale) (Evans et al., 2018). La ketamina come antidepressivo ad azione rapida Sulle ipotesi del funzionamento della ketamina come antidepressivo ad azione rapida (RAAD) sono state elaborate teorie contrapposte. Da un lato v’è la teoria dell’inibizione dei recettori NMDA. Gli antagonisti NMDA sembrano di fatto bloccare l’atrofia dendritica che viene descritta in seguito a danno neuronale da stress cronico. Dall’altro lato, responsabile degli effetti antidepressivi di dosi sub-anestetiche di ketamina sarebbe l’attivazione della neurotrasmissione glutammatergica. Dagli anni ‘90 l’attenzione sui fattori eziopatogenetici della depressione si è spostata verso lo studio dei fattori neurotrofici, ciò in parte spiegabile dal fatto che gli antidepressivi tradizionali aumentano l’espressione del BDNF. L’attivazione acuta della trasmissione glutammatergica è associata inizialmente ad up-regulation dell’espressione del BDNF e altri fattori neurotrofici. Anche l’attivazione dei recettori AMPA fa aumentare l’espressione del BDNF. A partire dagli anni 2000, sono aumentate le conoscenze sul legame tra la plasticità neuronale e l’azione antidepressiva, e si è fatta luce sul ruolo del glutammato nello sviluppo di nuovi farmaci antidepressivi. Tuttavia, non era stato chiarito se il ruolo di questi antidepressivi fosse quello di inibire o di attivare la neurotrasmissione glutammatergica. A tal riguardo è stato ideato un modello denominato “dello stress cronico patologico” (CSP), secondo il quale la ripetizione nel tempo di traumi e stress provoca un rimodellamento neuronale diffuso, che consiste in un aumento o in una riduzione delle connessioni sinaptiche, a seconda della regione cerebrale: nella corteccia prefrontale (PFC) e nell’ippocampo si verifica prevalentemente una riduzione della connettività sinaptica, mentre nel nucleo accumbens (NAc) e in alcuni nuclei dell’amigdala le connessioni sinaptiche si intensificano. L’ipoconnettività sinaptica nella corteccia prefrontale è evidenziata dalla ridotta lunghezza e arborizzazione dendritica, così come dalla ridotta densità e robustezza delle sinapsi. Le cellule della glia sono
deputate alla captazione del glutammato extracellulare e alla prevenzione dell’eccitotossicità, e anch’esse risultano danneggiate dallo stress cronico. Come risultato della combinazione tra l’alterato rilascio di glutammato e la ridotta captazione di glutammato per deficit delle cellule della glia, si ottiene un accumulo di glutammato extracellulare. Questo accumulo è responsabile di atrofia neuronale da eccitotossicità e conseguente riduzione della trasmissione glutammatergica, che dal punto di vista anatomico si manifesta con la ridotta lunghezza e arborizzazione dendritica, ridotta densità e formazione di bottoni sinaptici. Quindi si può concludere che, sebbene ci sia un aumento iniziale delle concentrazioni extracellulari di glutammato, si ottiene complessivamente una riduzione della neurotrasmissione glutammatergica come evidenziato dalla ridotta connettività sinaptica (Abdallah et al., 2018). Dosi sub-anestetiche di ketamina sono in grado di contrastare i danni da stress cronico già entro 24 ore dall’infusione: essa sembra indurre una transitoria attivazione postsinaptica del glutammato che a sua volta può innescare dei processi intracellulari che culminano con l’aumento di connettività sinaptica prefrontale. Attraverso la stimolazione dei segnali neurotrofici, aumento del rilascio di BDNF e attivazione del complesso target della rapamicina mTORC, si ottiene il ripristino duraturo della connettività sinaptica. Oltre all’ipotrofia della PFC e al ridotto volume ippocampale, la risonanza magnetica ha messo in evidenza un altro reperto caratteristico nei pazienti affetti da depressione maggiore causata da stress cronico: l’ipertrofia del nucleo accumbens (NAc). Ciò sembra dovuto alla attivazione fasica dei neuroni dopaminergici della area tegmentale ventrale (VTA), che attiva il corilascio di dopamina e di BDNF nel NAc. Sembra che l’efficacia antidepressiva dipenda da questa transitoria attivazione del glutammato postsinaptico, che induce un aumento duraturo della connettività sinaptica. Probabilmente l’inibizione del glutammato è responsabile delle proprietà antidepressive, e questi dati sembrano riguardare l’azione degli antidepressivi ad azione lenta (SAAD) Il modello dello CSP parrebbe essere alla base di molte patologie psichiatriche, oltre che della depressione, quali il PTSD, i disturbi d’ansia, il disturbo ossessivo compulsivo e la depressione bipolare (Abdallah et al., 2018).
Studi clinici La prima evidenza di efficacia della ketamina nel trattamento della depressione grave refrattaria è stata prodotta nel 2000, con la pubblicazione dei risultati di un primo trial su 7 pazienti con diagnosi di depressione maggiore, che hanno ricevuto un’infusione di 0,5 mg/kg di ketamina o placebo in condizioni randomizzate e in doppio cieco. I risultati sono apparsi significativi, nonostante il campione analizzato fosse molto limitato: i pazienti avevano ottenuto un miglioramento dei sintomi depressivi entro 72 ore dopo l’infusione di ketamina, ma non dopo l’infusione di placebo (riduzione statisticamente significativa dei sintomi depressivi misurati alla Hamilton Depression Rating Scale). Lo studio era stato proposto per le crescenti evidenze precliniche sul potenziale ruolo degli antagonisti del recettore NMDA nei modelli animali della depressione; è stato tra l’altro ipotizzato che l’affinità della ketamina per il recettore mu oppioide e la debole attività antagonista per il trasportatore della dopamina possano contribuire ai suoi effetti sul tono dell’umore (Berman et al., 2000). Questi risultati particolarmente positivi hanno promosso l’interesse a estendere lo studio su campioni più ampi. Carlos Zarate, psichiatra del National Institute of Mental Health Clinical Research Center (Maryland, USA), ha dedicato la sua carriera allo studio degli antagonisti NMDA nel trattamento della depressione resistente e al disturbo bipolare. Nel 2006 ha pubblicato i risultati di uno studio svolto su un campione di 18 pazienti: la ketamina è stata somministrata alla stessa dose dello studio precedente (0,5 mg/kg) in infusione continua per 40’, e gli effetti antidepressivi si sono manifestati entro 24 ore-4 giorni, mantenendosi fino a due settimane. Questa volta i risultati sono apparsi ancora più positivi: il 71% dei soggetti aveva risposto alla ketamina entro 24 ore dall’infusione, e il 30% aveva raggiunto un punteggio sufficientemente basso da essere considerato in remissione; nessuno dei pazienti aveva risposto al placebo. Un elemento importante è stata la constatazione che l’uso dell’antagonista a moderata affinità per il recettore NMDA memantina, utilizzato per via orale, non dava un simile effetto antidepressivo. Era evidente che fossero necessari antagonisti NMDA ad alta affinità, e anche la via di somministrazione endovenosa appariva determinante ai fini del risultato terapeutico. Il campione di pazienti era rappresentato da soggetti refrattari ai trattamenti con una lunga storia di depressione severa, e tali risultati non potevano essere considerati validi anche per pazienti con un tipo differente di depressione, per esempio meno
grave e di recente insorgenza (Zarate et al., 2006). L’ideazione suicidaria che si può manifestare nella fase acuta della patologia depressiva grave è una vera emergenza medica, e sono stati sinora fatti pochi sforzi per trovare un rimedio farmacologico che possa essere indirizzato verso questo problema, che richiede un trattamento immediato. Il fatto che la ketamina abbia dimostrato un effetto così rapido, ha fatto presupporre che questa potrebbe costituire una delle sue indicazioni principali. La sua efficacia è stata provata in uno studio preliminare su 33 pazienti con una diagnosi DSM-IV di depressione maggiore e un punteggio alla scala per l’ideazione suicidaria SSI (SSI= Scale for Suicide Ideation) maggiore di 3, indicante un rischio significativo di suicidio: su questi pazienti la ketamina ha mostrato un miglioramento significativo entro 230 minuti. Nonostante questi studi siano preliminari, costituiscono un incoraggiamento a essere ripetuti con campioni più grandi (DiazGranados et al., 2010a). Il disordine bipolare è uno dei disturbi psichiatrici più gravi, e i trattamenti attualmente disponibili spesso non sono efficaci e sono associati ad un lungo tempo di onset, che può aumentare la morbidità, compreso il rischio di suicidio. Le evidenze sul coinvolgimento del sistema glutammatergico nella patogenesi del disturbo bipolare hanno spinto la ricerca verso l’uso di questi agenti, tra cui la ketamina. Il disturbo bipolare costituisce una delle controindicazioni all’uso di sostanze psicoattive, che potrebbero peggiorare acutamente la situazione clinica; la ketamina rappresenta quindi il primo farmaco con proprietà psicoattive a essere sperimentato in pazienti bipolari (DiazGranados et al., 2010b). I pazienti con una diagnosi recente di cancro presentano un rischio aumentato di disturbi psichiatrici, e secondo studi epidemiologici presentano un rischio di suicidio doppio rispetto a quello della popolazione generale, soprattutto nei primi mesi dalla diagnosi. L’effetto antidepressivo della ketamina sulla depressione e sull’ideazione suicidaria è stato testato su 42 pazienti con una diagnosi recente di cancro (3 mesi), ottenendo un effetto positivo entro un giorno dalla somministrazione di ketamina (dose standard di 0,5 mg/kg in 40 minuti), risposta che si manteneva per almeno 3 giorni; il follow-up limitato a 7 giorni non ha permesso un’osservazione nel lungo periodo (Fan et al., 2017). Con risultati altrettanto promettenti l’infusione di ketamina è stata testata in uno studio pilota nei pazienti depressi anziani (George et al., 2017) e negli
adolescenti (Cullen et al., 2018). Dai risultati ottenuti fino a questo momento sembra evidente che gli effetti antidepressivi della ketamina sono pressoché immediati ma limitati nel tempo. La durata di questi effetti dopo infusione singola va da 3 a 14 giorni. Questo implica la necessità di ripetere le somministrazioni a scadenze ripetute settimanali o bisettimanali per mantenere l’efficacia terapeutica, e ciò rappresenta un limite logistico a tale terapia. Alcuni interpretano gli effetti antidepressivi della ketamina come più brevi rispetto agli altri antidepressivi, ma analisi più attente rivelano che questa è un’interpretazione inaccurata, in quanto la durata del trattamento richiede un’unica dose di ketamina. Dopo un’infusione singola, la ketamina e i suoi metaboliti sono eliminati dal corpo entro 24 ore. Quindi, qualsiasi effetto antidepressivo indotto da ketamina è molto più lungo della durata stessa del farmaco. Negli studi presentati la ketamina è stata somministrata alla dose standard di 0,5 mg/kg in infusione continua per 40 minuti. Un gruppo di studio statunitense ha sperimentato un incremento delle dosi di infusione a 0,75 mg/kg, dimostrando maggiore efficacia in caso di depressione cronica severa con ideazione suicidaria, paragonata alla dose di 0,5 mg/kg che non aveva un’efficacia superiore al placebo (Cusin et al., 2016; Ionescu et al., 2018). In uno studio recente guidato da un’équipe cinese presso l’Ospedale di Guangzhou Huiai, sono state applicate sei infusioni di ketamina endovenosa alla dose subanestetica standard in un periodo di 12 giorni, a intervalli di due giorni l’una dall’altra (lunedí, mercoledí e venerdí), mostrando un’efficacia superiore alla dose singola sia nella risposta che nella remissione dei sintomi della MDD (percentuale di risposta 67,5% e percentuale di remissione=48,1%). Risultati simili erano stati ottenuti da Shiroma et al. nel 2014 dopo la somministrazione di sei infusioni di ketamina rispetto all’infusione unica (Zheng et al., 2019). Somministrazione intranasale Il 5 marzo 2019 la FDA (Food and Drug Administration) statunitense ha approvato lo spray nasale a base di esketamina come terapia di “breakthrough”52 per la depressione farmaco-resistente. L’esketamina è l’l-enantiomero della ketamina, per la prima volta approvata dalla FDA per l’uso clinico, sebbene in diversi paesi europei venga già utilizzata in anestesia. L’esketamina intranasale è ora somministrabile come coadiuvante a un
altro antidepressivo orale, per il trattamento di pazienti adulti con depressione maggiore farmaco-resistente (TRD). Il farmaco è disponibile sotto uno stretto sistema di distribuzione, con attenta valutazione del rischio. A causa della possibilità di sedazione e di dissociazione, i pazienti devono essere monitorizzati dal proprio medico curante per almeno due ore dopo la somministrazione del farmaco. L’autosomministrazione del farmaco è possibile sotto supervisione, in uno studio medico o in una clinica, e lo spray non potrà essere portato a casa dal paziente. Dopo ogni somministrazione, il medico curante deve constatare se il paziente è in grado di lasciare la clinica per tornare al proprio domicilio. La via di somministrazione intranasale presenta dei vantaggi farmacocinetici: maggiore biodisponibilità perché supera il metabolismo di primo passaggio; presenta un rapido assorbimento attraverso la mucosa olfattoria al liquor cefalorachidiano (bypassando la barriera ematoencefalica); e consente l’auto-somministrazione. Questo tipo di somministrazione è particolarmente conveniente nei bambini, in quanto costituisce un accesso rapido e si evita l’iniezione. Altre vie di somministrazione La ketamina è stata somministrata per via orale a 81 pazienti in combinazione con la sertralina come trattamento adiuvante per la patologia depressiva, con risultati positivi. La breve durata di follow-up (6 settimane) in questo studio è stata principalmente dovuta alla mancanza di conoscenze sull’uso a lungo termine della ketamina, ai suoi effetti collaterali e al suo potenziale d’abuso (Arabzadeh et al., 2018). La via di somministrazione sublinguale assicura una migliore biodisponibilità (ca. 30%) e minore conversione in norketamina rispetto alla via orale. Questa via di somministrazione è stata studiata su 26 pazienti non ricoverati con depressione maggiore resistente o depressione bipolare, dove la somministrazione è stata ripetuta a distanza di 2-3 giorni o settimane. La ketamina ha mostrato buona efficacia antidepressiva, buona tollerabilità (lieve stordimento, nessun effetto euforico o psicotico o sintomi dissociativi) e possibilità di ripetere il trattamento se necessario (Lara et al., 2013).
CAPITOLO 11
GLI PSICHEDELICI NEL TRATTAMENTO DELLE DIPENDENZE
Fra gli indirizzi delle nuove TP ritroviamo le dipendenze patologiche da abuso di sostanze. Come abbiamo esposto nel primo volume, il trattamento dell’alcolismo con l’LSD, sviluppato soprattutto in Canada e negli USA negli anni ‘60, aveva dato dei risultati che, aldilà delle carenze metodologiche di quei periodi, non possono essere trascurati, soprattutto se si considerano i magri, o lunghi, o parziali, o costosi risultati delle terapie moderne. Oggigiorno abbiamo maggiori conoscenze sulla neuropatologia delle dipendenze, così come sulla neurofisiologia degli psichedelici, e la combinazione di queste acquisizioni sta aprendo nuove e promettenti “finestre terapeutiche”, dove al valore curativo dell’esperienza psichica indotta dai “rivelatori della mente”, si affiancano proprietà e meccanismi più propriamente chemioterapici che, soprattutto nel caso delle dipendenze, si stanno rivelando contemporaneamente “medicine per lo spirito” e “medicine per il corpo”. Peter Hendricks – giovane ricercatore di uno studio clinico in corso sul trattamento con psilocibina della dipendenza da cocaina presso l’università dell’Alabama – definisce la dipendenza come una forma di egoismo: “L’individuo dipendente sa che sta facendo del male a sé stesso, alla sua salute, alla sua carriera, al benessere sociale, ma spesso non considera il male che fa agli altri. L’esperienza con psilocibina fa percepire il sentimento di ‘rispetto’, l’emozione umana che promuove il comportamento altruista, che fa sentire il soggetto parte di qualcosa di più grande di sé stesso. Promuove la sensazione del ‘piccolo sé’ che porta l’attenzione dall’individuo al gruppo. Con la psilocibina, noi somministriamo il rispetto con una pillola”
(Hendricks, in Pollan, 2018: 374). Sebbene in questi ultimi anni siano stati sviluppati studi clinici di trattamento delle tossicodipendenze mediante soprattutto psilocibina e ketamina, esiste una più abbondante casistica di trattamenti con psichedelici, ad esempio con l’ayahuasca, intrapresi in strutture private, in certi casi con supporti istituzionali. Purtroppo, di questo ampio settore privato non sono ancora stati prodotti prospetti dei risultati sufficientemente rigorosi dal punto di vista metodologico, continuando quindi ad avere un valore meramente aneddotico, pur obiettivamente non trascurabile.
Neuropatologia delle dipendenze Lo stato attuale delle conoscenze Il “sistema di ricompensa” (reward pathway) è un circuito cerebrale dopaminergico coinvolto nella gratificazione e nell’apprendimento indotti da stimoli che, attraverso il rilascio di dopamina, creano le basi neurobiologiche per lo sviluppo della dipendenza. Caratteristica comune a tutte le sostanze in grado di indurre dipendenza è la capacità di attivare i meccanismi del reward, provocando un aumento extracellulare di dopamina nel circuito mesolimbico, e producendo in tal modo gli effetti soggettivi di “high” e “rush” ricercati dalla persona con dipendenza da sostanze d’abuso. Le droghe d’abuso stimolano il sistema dopaminergico del nucleo accumbens (NAc) che si proietta al fascio proencefalico mediale. Sono riconosciuti due principali sistemi neuronali dopaminergici nel mesencefalo: un sistema primario composto da fibre discendenti, i cui corpi cellulari sono localizzati nel NAc e altre strutture limbiche: queste fibre si proiettano al fascicolo proencefalico mediale e sono in contatto sinaptico con i neuroni di una seconda via dopaminergica, i cui corpi cellulari sono localizzati nell’area tegmentale ventrale (VTA) del mesencefalo. Gli assoni dei neuroni di questa seconda via dopaminergica emanano proiezioni che si dirigono nuovamente al proencefalo, tornando così al NAc, alla corteccia frontale, all’amigdala. In pratica, queste due vie neuronali costituiscono un loop dopaminergico tra il proencefalo ed il tegmento ventrale (VTA) (Julien, 2001). L’aumento della dopamina mesolimbica avviene sia con meccanismo diretto attraverso l’inibizione della ricaptazione della dopamina e
facilitazione del suo rilascio presinaptico (valido per cocaina, amfetamine, MDMA), che con meccanismo indiretto (stimolazione dei sistemi GABAergico, colinergico, glutammatergico), che influisce sulla scarica dei neuroni dopaminergici (valido per alcol, sedativi, oppioidi, cannabis, nicotina, antagonisti NMDA, cioè PCP e ketamina, destrometorfano). Il potenziamento della trasmissione dopaminergica nel nucleo accumbens innesca processi di neuroplasticità che favoriscono l’apprendimento per stimoli precedentemente neutrali, i quali portano alla ricerca compulsiva di una sostanza negli individui predisposti a sviluppare disturbi dello spettro additivo. Unico è il comportamento dell’ibogaina, del suo metabolita noribogaina e del congenere sintetico 18-MC, che riducono l’efflusso di dopamina nel nucleo accumbens se somministrati in concomitanza a oppioidi e a nicotina. Questa capacità riduttiva spiegherebbe l’efficacia anti-additiva dell’ibogaina, indipendentemente dal meccanismo specifico che l’ha generata (Maisonneuve et al., 1991a,b; Glick et al., 1994). Seguendo il razionale del modello suddetto, l’approccio anti-additivo tradizionale è rappresentato dal blocco della trasmissione dopaminergica nei circuiti cerebrali della ricompensa, prevenendo la distribuzione delle sostanze additive al sito recettoriale (una prospettiva futura è rappresentata dai vaccini), usando antagonisti recettoriali dopaminergici, o antagonisti che bloccano un particolare recettore coinvolto nel circuito della dipendenza. Per quanto riguarda gli psichedelici, a differenza di altre droghe non producono ricompensa. Inoltre, la maggior parte, eccetto l’LSD, non agisce sul sistema di trasmissione dopaminergico, non ha affinità per il recettore dopaminergico o per il trasportatore della dopamina DAT. Nonostante immagini PET abbiano evidenziato un aumento della trasmissione dopaminergica nello striato in seguito a somministrazione di psichedelici, questo aumento non si verifica nel nucleo accumbens. Il NIDA, l’organo statunitense preposto al controllo delle droghe,53 non considera i serotoninergici sostanze d’abuso, in quanto non producono comportamenti compulsivi nella ricerca della sostanza, e nell’impiego non clinico molti consumatori ne riducono o ne interrompono l’uso nel tempo. Oltre all’antagonismo dopaminergico, un altro approccio in funzione antiadditiva è la terapia sostitutiva o sostituzione con un agonista, dove un agente additivo è sostituito da un altro con proprietà meno additive e che risponda a specifiche caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche
quali: – potenza/affinità del recettore (per esempio, agonisti, agonisti parziali, antagonisti) – percentuale di assorbimento nel SNC (una più bassa percentuale di assorbimento è associata a una minore potenza additiva) – emivita (sono preferibili gli agonisti con emivita più lunga). Esempi di questo approccio che abbiano dimostrato efficacia terapeutica sono rappresentati dal metadone e dalla buprenorfina per l’abuso di oppioidi e la varenciclina per la dipendenza da nicotina. L’ipotesi della sindrome ipodopaminergica Sebbene il blocco della trasmissione dopaminergica nel circuito mesolimbico resti il bersaglio principale della terapia anti-additiva, sono state proposte nuove ipotesi a favore dell’attivazione di questo circuito. È stata descritta una sindrome ipodopaminergica, indicata come “sindrome da deficit di ricompensa” (reward deficiency syndrome), con riferimento a un quadro di ipoattività del sistema dopaminergico a livello del nucleo accumbens, che sarebbe causata da un polimorfismo genetico di alcuni recettori tra i quali gli adrenergici, i dopaminergici D2, e della COMT,54 recettori coinvolti nel comportamento impulsivo, compulsivo e additivo. Oltre che nel disturbo da abuso di sostanze, questa sindrome è stata ritenuta responsabile della sindrome da iperattività e deficit dell’attenzione (ADHD), dell’obesità e di altri comportamenti aberranti. Questo quadro rientrerebbe nella “predisposizione genetica” allo sviluppo di una sindrome additiva (Blum et al., 2008). Due fattori contribuiscono in maniera determinante allo stato additivo: – La variazione della concentrazione della dopamina me-sencefalica; – Il livello di dopamina nella corteccia prefrontale e la funzione del glutammato. Secondo la teoria della sindrome ipodopaminergica, un danno all’interno del circuito dopaminergico può contribuire alla transizione da una condizione di abuso a una di dipendenza, e il corrispettivo neurofisiologico della dipendenza sembra essere, da un lato la riduzione della densità recettoriale, dall’altro il ridotto rilascio di dopamina nell’accumbens e nella corteccia prefrontale (PFC), diminuendo in questo modo la capacità della dopamina di rispondere a nuovi stimoli biologici rilevanti. In studi pre-clinici è stato osservato che la stimolazione ripetuta e a bassa-
soglia dei recettori dopaminergici D2 può indurre proliferazione piuttosto che down-regulation recettoriale, il che è interessante se si considera che la bassa espressione dei recettori D2 si attribuisce ai comportamenti additivi nell’uomo (Blum et al., 1996). L’approccio terapeutico che si basa sulla sostituzione degli agonisti potrebbe essere attuata attraverso una stimolazione bassa e ripetuta dei recettori D2, up-regulation genica e sintesi di nuovi recettori, e recupero delle loro normali funzioni, come il ripristino della risposta fisiologica agli stimoli di natura biologica. Sembra plausibile che gli psichedelici serotoninergici agiscano proprio mediante una stimolazione dopaminergica di basso grado, favorendo la rigenerazione dei recettori D2 e ristabilendone il funzionamento. Se questo fosse possibile, sembra poco probabile che un effetto acuto e limitato nel tempo dell’ordine di qualche ora possa essere sufficiente a generare effetti anti-additivi prolungati. Sia la somministrazione di dosi ripetute che l’innesco di processi biologici a lungo termine potrebbero essere responsabili di questo risultato. Ruolo dei recettori 5HT2a nella risposta allo stress e nelle ricadute Nel capitolo 9 abbiamo abbiamo riportato come la rapida down-regulation e desensibilizzazione dei recettori corticali 5HT2a sia una caratteristica fondamentale degli psichedelici serotoninergici. L’equilibrio del sistema neuroendocrino coinvolto nella risposta endogena a stimoli di natura stressante (produzione di cortisolo, ACTH) viene anch’esso influenzato dai recettori 5HT2a frontolimbici. L’aumento della densità dei 5HT2a in queste aree sembra amplificare la risposta allo stress inducendo una sindrome ansiosa. Questo circuito psico-endocrino è coinvolto nel processo di ricaduta, ed è possibile che la sotto-regolazione dei 5HT2a indotta dagli allucinogeni classici possa modificare e diminuire la ricaduta all’abuso di sostanze innescata da stimoli stressanti (Bogenschutz e Johnson, 2015). L’apprendimento diabolico Nel contesto delle dipendenze, la neuroplasticità sembra essere alla base di quello che i ricercatori hanno chiamato apprendimento diabolico. Questo termine si riferisce ad apprendimenti disadattativi che si innescano quando
meccanismi biologici che sostengono l’apprendimento e la memoria vengono deviati dal processo additivo. Questo apprendimento disadattativo, sebbene patologico nei dipendenti, origina probabilmente dalla ricompensa che l’essere umano riceve quando soddisfa impulsi biologici legati alla sopravvivenza e alla riproduzione, e che stimola gli individui verso la ricerca di risorse naturali quali gli alimenti, il rifugio e l’attività sessuale. I comportamenti che portano all’approvvigionamento di queste risorse vengono rafforzati dal rilascio di dopamina nel circuito mesolimbico. Questi rinforzi positivi portano all’apprendimento attraverso la ripetizione del comportamento e diventano automatizzati. Si presenta una notevole differenza di intensità e di durata dell’attività dopaminergica delle sostanze d’abuso rispetto agli stimoli naturali. Le sostanze d’abuso rilasciano dopamina in maggiori quantità e per tempi più lunghi rispetto agli stimoli naturali, inducendo l’approvvigionamento ripetuto della sostanza. Gli effetti biochimici di queste sostanze deviano un circuito cerebrale benefico in uno disfunzionale e disadattativo, e sensibilizzano il circuito mesolimbico verso stimoli precedentemente neutrali, che ora inducono la ricerca e il craving. Un dipendente da eroina imparerà ad associare particolari angoli della strada, cucchiai, aghi, il colore del divano, o una particolare ora del giorno all’uso di questa sostanza. In studi in vivo è stato osservato che i fattori di crescita BDNF e GDNF possono facilitare o inibire i comportamenti additivi a seconda del tipo di sostanza d’abuso e del suo sito d’azione, così come modificare il comportamento da essa indotto (Bogenschutz et al., 2015a,b). Più avanti vedremo come il GDNF sia in parte responsabile delle proprietà anti-additive dell’ibogaina. Omeostasi del glutammato Con l’avanzare del processo additivo, i circuiti della ricompensa diventano corrotti, si riorganizzano in maniera sregolata e il sistema neurotrasmettitoriale cambia da uno di tipo prevalentemente dopaminergico nell’accumbens (coinvolto nell’attribuzione del rilievo a nuovi stimoli e l’instaurarsi dell’apprendimento e di risposte condizionate) a un sistema di tipo glutammatergico nella corteccia prefrontale mediale, e si crea un’alterata trasmissione glutammatergica nelle proiezioni dalla corteccia prefrontale al nucleo accumbens. Si ha quindi un aumento della risposta glutammatergica
dell’accumbens in risposta a stimoli associati alla droga, e una ridotta risposta in seguito a normali stimoli di natura biologica. Inoltre, sembra che un’alterata plasticità del circuito tra corteccia prefrontale e nucleo accumbens limiti la capacità degli individui tossicodipendenti di discriminare tra stimoli comportamentali motivazionali e stimoli compulsivi verso la sostanza. Su questa ipotesi di disfunzione omeostatica glutammatergica sta emergendo una nuova linea di interventi farmacoterapeutici centrati sulla modulazione del glutammato. Come spiegato nel capitolo 9, i serotoninergici aumentano le concentrazioni extracellulari di glutammato, ed è auspicabile che una normalizzazione della connettività funzionale in questo circuito esplichi effetti anti-additivi (Ross et al., 2016). Modelli d’intervento terapeutico Sulla base dell’ipotesi dopaminergica delle dipendenze sono stati proposti due modelli di terapia. – Il “modello antagonista” propone l’uso di farmaci che bloccano il rilascio di dopamina nella via mesolimbica dopaminergica riducendo l’autosomministrazione di droghe d’abuso. In realtà, se consideriamo gli antagonisti dopaminergici (alcuni neurolettici), la condizione di anedonia conseguente all’assunzione di questi farmaci peggiora la predisposizione all’abuso di sostanze (già associata ai disturbi psicotici) e questi pazienti cercheranno una sostanza per “automedicarsi”. Una spiegazione per questo fenomeno potrebbe essere l’ipersensibilizzazione compensatoria al blocco dopaminergico attraverso una up-regulation recettoriale. Per esempio, neurolettici tipici, che hanno un potente blocco D2, possono provocare aumentata sensibilità alla stimolazione dopaminergica. I farmaci che presentano un blocco dopaminergico più debole, come i neurolettici atipici, hanno mostrato invece prevenire la ipersensibilizzazione e non sono associati a un aumento della dipendenza da sostanze. – Il “modello agonista” prevede l’impiego di farmaci che inducono un aumento del rilascio di dopamina nella via mesolimbica, contrastando il craving e i sintomi d’astinenza che insorgono con l’astinenza dalla sostanza, riducendone l’auto-somministrazione. In accordo con questo modello sono stati proposti farmaci con minore potenza e un ridotto sviluppo di dipendenza rispetto a cocaina, anfetamine e altre droghe d’abuso, con lo scopo di ridurne il potenziale d’abuso. Tuttavia, questi farmaci “normalizzanti” inducono essi
stessi dipendenza attivando la via mesolimbica dopaminergica. Affinché un trattamento contro la dipendenza possa risultare efficace, un agonista deve rilasciare dopamina in quantità sufficienti da normalizzarne i livelli (secondo la teoria ipodopaminergica), ma non in eccesso per non creare un rinforzo responsabile della dipendenza. Bassi livelli di dopamina sono responsabili della sindrome di astinenza, mentre alti livelli portano a ricompensa e impulso alla ricerca della droga. Il possibile contributo degli psichedelici È stato suggerito che per ridurre la suscettibilità agli agonisti dopaminergici sia necessario aggiungere un farmaco con proprietà serotoninergiche. Alcuni neuroni serotoninergici hanno un effetto inibente sul rilascio di dopamina nel circuito mesolimbico, attenuando il rinforzo generato dagli agonisti dopaminergici. Gli agonisti serotoninergici contrastano gli effetti rinforzanti della dopamina nel circuito mesolimbico, e il precursore della serotonina, l’l-triptofano, riduce in maniera diretta l’autosomministrazione di cocaina e anfetamine. Si può quindi concludere che farmaci che attivano i circuiti serotoninergici nel cervello riducono l’autosomministrazione di stimolanti e di altre droghe d’abuso. L’attivazione dei recettori 5-HT può sia aumentare che ridurre il rilascio di dopamina, in base al tipo di recettore coinvolto (Prickett e Liester, 2014). Con uno sguardo d’insieme sulle recenti evidenze, gli psichedelici classici si mostrano promettenti nel trattamento delle dipendenze, sebbene, a parte il caso dell’alcolismo con LSD, i dati a disposizione sulla loro efficacia siano per ora limitati. Le principali caratteristiche favorevoli sono: 1)– non inducono dipendenza 2)– sono sicuri se utilizzati con le dovute precauzioni 3)– i loro target molecolari hanno importanti proprietà anti-additive 4)– innescano intense reazioni psicologiche che vanno dall’introspezione alle esperienze di picco che spesso portano a guarigione spontanea, o che comunque rafforzano la visione dell’“Io sobrio” e la volontà di guarigione 5)– possono indurre modifiche persistenti nella personalità e nel comportamento, mentre per molti farmaci gli effetti del trattamento durano solo per il periodo durante il quale il paziente assume quel farmaco.
L’ayahuasca nelle dipendenze
Il meccanismo biochimico del “tiro alla fune” In base al razionale biochimico che abbiamo descritto, un trattamento ideale per le dipendenze dovrebbe garantire: 1) un aumento del livello globale di serotonina; 2) una normalizzazione di dopamina nel circuito mesolimbico. L’ayahuasca mostra proprietà anti-additive attraverso le sue azioni dirette e indirette sui neuroni dopaminergici e serotoninergici nel circuito mesolimbico. Essa bilancia la dopamina nel circuito mesolimbico tra i bassi livelli associati con l’astinenza e gli alti livelli associati con il rinforzo e il comportamento additivo. La bevanda dell’ayahuasca, che contiene sia DMT che alcaloidi betacarbolinici dalle proprietà MAO-inibitrici, coinvolge i recettori 5-HT in vari modi, in particolare: 1) le beta-carboline possono aumentare i livelli di serotonina attraverso l’inibizione degli enzimi MAO; 2) il DMT lega buona parte, se non tutti, i recettori per la serotonina. Abbiamo visto come bruschi aumenti di dopamina siano responsabili del comportamento compulsivo e come possano essere alla base dell’induzione biochimica della ricompensa. D’altro canto, un deficit relativo di dopamina (astinenza) sembra predisporre al comportamento additivo, specialmente all’autosomministrazione cronica di una sostanza, per riportare la dopamina al livello desiderato. Il trattamento ideale della dipendenza dovrebbe normalizzare e stabilizzare i livelli di dopamina nel circuito mesolimbico tra i due estremi di astinenza e di rinforzo. Esso dovrebbe assicurare livelli di dopamina abbastanza elevati da controllare l’astinenza, e allo stesso tempo abbastanza bassi da evitare ulteriori rafforzamenti della dipendenza. L’ayahuasca, esplicando sulla dopamina un effetto duplice – da una parte aumentando e dall’altro riducendone i livelli nel circuito mesolimbico – parrebbe favorire questa finestra terapeutica attraverso l’opposizione di forze agoniste ed antagoniste che si controbilanciano in un effetto complessivo di tiro alla fune. Le beta-carboline presenti nell’ayahuasca bloccano il metabolismo delle catecolamine, aumentando i livelli globali di dopamina. L’armina contenuta nella bevanda induce rilascio diretto di dopamina nell’accumbens e blocca il trasportatore della dopamina (DAT) sulle membrane sinaptiche. Il DMT contribuisce all’aumento di dopamina attraverso il legame dei recettori 5HT1a. Inoltre, esso lega i recettori delle ammine in tracce TAAR1, e questi recettori bloccano a loro volta il trasportatore DAT, bloccando la
ricaptazione di dopamina e aumentandone la concentrazione nello spazio sinaptico. Dall’altro lato della “fune” troviamo il DMT, che mediante legame con i 5HT2a e 5HT2c inibisce il rilascio di dopamina nel circuito mesolimbico, meccanismo che è condiviso dagli altri psichedelici serotoninergici. Il legame del DMT col recettore sigma-1, distribuito anche nel sistema limbico, influenza negativamente il rilascio di dopamina in questo circuito (Prickett e Liester, 2014). Come detto, gli effetti dell’ayahuasca sono mediati dai recettori della serotonina: il DMT è un agonista dei recettori 5HT2a e 5HT2c, responsabile dei suoi effetti psicoattivi, e la tetraidroarmina – l’altro alcaloide betacarbolinico presente nell’ayahuasca – è un inibitore del reuptake della serotonina; inoltre, l’armina lega i recettori 5HT2a/2c. I recettori 5HT2a e 5HT2c sono determinanti nella mediazione degli effetti della serotonina nell’abuso di sostanze, e sono coinvolti nella risposta di ricompensa alle droghe di abuso. In studi preclinici in vivo, è stato evidenziato come l’ayahuasca riduca sia la risposta locomotoria che la risposta di preferenza di luogo condizionata (CPP, conditioned place preference) indotte dal pre-trattamento con etanolo (Cata-Preta et al., 2018). I centri di terapia che usano l’ayahuasca Il trattamento assistito con ayahuasca per la dipendenza da sostanze è oggigiorno offerto in diversi paesi dell’America Latina: Perù, Brasile, Ecuador, Colombia, Argentina, Cile, Messico. Vengono impiegati differenti metodi, che sono il risultato dell’evoluzione degli ultimi decenni di sincretismi e sinergie fra modelli e tecniche terapeutiche tradizionali e occidentali, più specificatamente fra l’impiego tradizionale indigeno e l’uso religioso di ayahuasca e le tecniche moderne di psicoterapia. Tra i principali centri di terapia multidisciplinare che offrono la possibilità di ricovero e di trattamento delle tossicodipendenze v’è il centro peruviano Takiwasi. Takiwasi Il centro Takiwasi ha sede presso la cittadina peruviana di Tarapoto; è un’organizzazione no-profit fondata nel 1992 dal medico francese Jacques Mabit; inizialmente finanziata dall’Unione Europea e dal governo francese, è nata come progetto di trattamento sperimentale delle dipendenze con
ayahuasca (circa 20 sessioni in 6 mesi). Fra le caratteristiche del centro vi sono quelle di essere aperto, non coercitivo, apolitico e aconfessionale (Mabit, 2002). Il progetto pionieristico di Takiwasi – termine che in quechua significa “la casa che canta” – è stato fondato sulla base delle osservazioni del lavoro degli sciamani amazzonici, specialmente in riferimento all’uso di piante medicinali per il trattamento del consumo additivo di pasta di coca, cannabis, cocaina e alcol. Nel protocollo del trattamento l’ayahuasca occupa il ruolo principale, ma viene associato l’uso rituale di altre piante medicinali inspirate dalle pratiche ancestrali dell’Amazzonia peruviana come la purga, la dieta, bagni a base di piante, suzione, esalazione, ecc. Occupano un ruolo fondamentale i metodi depurativi, attuati mediante piante vomitive, purganti e saune. Queste pratiche sono inserite all’interno di una dinamica che comprende l’accompagnamento psicoterapeutico e la convivenza con una comunità di residenti.55 A Takiwasi il tossicodipendente è considerato “uno sciamano che ha sbagliato carburante e che agisce fuori da un contesto adeguato” (Mabit, cit. in Giudici, 2012: 72). L’uso innovativo e pionieristico delle piante medicinali ha portato Takiwasi a diventare un punto di riferimento nazionale, e molte istituzioni governative dell’America Latina sono entrate in contatto con il centro con lo scopo di organizzare centri affini nei rispettivi paesi. Sebbene il centro Takiwasi non abbia sinora prodotto dati sui risultati considerabili sufficientemente controllati,56 uno studio ha riportato i primi risultati su 175 pazienti che avevano partecipato al trattamento Takiwasi dal 1992 al 1997, dei quali il 67% dipendenti da cocaina base in pasta e l’80% da alcol o alcol più altre sostanze. Il follow-up dei partecipanti ad almeno due anni dopo aver lasciato il centro ha mostrato che il 67% non ha avuto ricadute, ha stabilito una reintegrazione familiare e sociale, e ha subito positive modifiche comportamentali permanenti (Bouso e Riba, 2014). Report di pazienti e psicoterapeuti Dai resoconti delle interviste rivolte ai soggetti che hanno preso parte ai rituali terapeutici, emerge che l’ayahuasca è in grado di catalizzare il processo terapeutico, abbreviandolo e rendendolo più efficace; una constatazione che conferma e prosegue il modello delle terapie psicolitiche degli anni ‘50-’60. In un setting ben preparato, le esperienze con ayahuasca possono contribuire al processo di guarigione dalle dipendenze facilitando la
consapevolezza corporea e psicologica, risorse terapeutiche efficaci per la guarigione dalla dipendenza e la prevenzione delle ricadute. L’ayahuasca ha aiutato i soggetti ad acquisire una migliore comprensione delle cause che avevano provocato la loro dipendenza, a comprendere quali atteggiamenti psicologici li avevano spinti ad assumere la sostanza nel passato, e a mobilizzare le risorse positive del momento. Uno dei risultati ottenuti dai partecipanti è l’attenuazione dei sintomi d’astinenza (craving) dopo la partecipazione alla sessione con ayahuasca, effetto che generalmente si mantiene da alcuni giorni fino a diversi anni. Come riporteremo anche nel caso dei disturbi alimentari, il forte vomito, in condizioni di stato di coscienza modificato, può indurre il rilascio di endorfine, che contribuisce all’attenuazione dei sintomi d’astinenza. Ciò fa ricordare il trattamento delle dipendenze, soprattutto oppiacee, che viene praticato al Wat Tham Krabok (Monastero delle Grotte di Bambù), un noto monastero buddista tailandese presso il quale dagli inizi degli anni ‘60 sono affluiti decine di migliaia di tossicodipendenti, anche dall’Europa, per sottoporsi a una tecnica alquanto originale basata sulla pratica emetica. Elaborato dal monaco Chamroon Parnchand, il trattamento si basa sulla somministrazione di un decotto vegetale, denominato yotak, la cui formula è mantenuta segreta e nella quale rientrerebbe un centinaio di piante. È possibile che il numero cento sia simbolico o che venga citato con lo scopo di incrementare la difficoltà di determinazione dei reali costituenti della ricetta.57 Fra gli ingredienti attivi rientrano certamente degli emetici d’origine vegetale. Dopo una decina di minuti dall’assunzione dello yotak (in quantità di 20-25 cc), il soggetto deve bere una grande quantità d’acqua (5-7 litri) nel minor tempo possibile. Segue un violentissimo e spettacolare vomito, e l’operazione viene ripetuta diverse volte durante i primi cinque giorni del programma di disintossicazione, congiuntamente a delle saune di vapore a base di piante medicinali. Sia i monaci buddisti che molti pazienti riportano che questo trattamento riduce notevolmente il craving da eroina, oppio e altri oppiacei (Barrett, 1997). Il fattore comune di riduzione del craving di questo trattamento e di quello dell’ayahuasca potrebbe quindi essere la forte emesi. Riguardo lo yotak, vi sono ripetute voci, pur non controllabili per via del rigido stato di segretezza in cui viene mantenuta la sua ricetta, che oltre a ingredienti emetici e lassativi, rientrerebbero ingredienti psicoattivi, nella fattispecie semi di datura (Mabit, 1993: 76). Se ciò fosse vero, si tratterrebbe di un ulteriore indizio di una possibile efficacia degli alcaloidi tropanici nel
trattamento delle tossicodipendenze, non sappiamo se di natura chemioterapica o psicologica, o entrambe; abbiamo già incontrato l’impiego dei tropanici nella “cura belladonna” promossa dalla Town Hospital di New York nella prima metà del XX secolo, e a cui si sottopose con successo il fondatore degli Alcolisti Anonimi Bill Wilson;58 aggiungiamo un dato etnografico raccolto presso i Bulamogi dell’Uganda, i quali sono soliti aggiungere semi di stramonio all’alcol per far smettere di bere l’alcolista cronico (Tabuti et al., 2003). Tornando all’ayahuasca, analizzato da un punto di vista psicologico, il meccanismo anti-craving potrebbe anche essere visto come una conseguenza dello stato di coscienza indotto dalla bevanda. Secondo il resoconto di alcuni partecipanti, l’esperienza trascendentale avrebbe trasformato la loro consapevolezza in modo da superare il craving senza particolari sforzi: Dopo la prima seduta di ayahuasca non ho bevuto alcol per due settimane. Non mi passava neanche per la testa [...] dopo aver bevuto ayahuasca, astenermi dal bere era diventato naturale [...] non c’era più alcun vuoto da colmare [...] sentivo che la vita aveva un senso [...] Ciò che realmente mi ha aiutato è stata la connessione spirituale ricevuta durante le cerimonie [...]. Queste mi hanno dato un senso della natura spirituale della vita, che mi ha fatto realizzare di non voler bere mai più, perché la vita è molto più importante di tutto questo [...]. Non ho più sentito il forte desiderio di bere e ho iniziato a rivalutare la mia vita (in Loizaga-Velder e Verres, 2014: 67).
Un altro aspetto terapeutico è la capacità dell’ayahuasca di abbassare le difese psicologiche e permettere ai partecipanti di accettare gli aspetti della psiche precedentemente negati, normalmente difficili da indirizzare in un setting terapeutico ordinario. Secondo uno degli psichiatri intervistati: La dipendenza è un processo in cui si mente a sé stessi, e l’ayahuasca è una vera medicina [...] quello che l’ayahuasca fa è smascherare il modo in cui il tossicodipendente ha permesso la malattia [...]. Non si può mentire a sé stessi sotto ayahuasca. Essa ti costringerà a vedere quello che hai sempre ignorato e che ti disturba estremamente [...] e ciò diventa un’opportunità di cambiamento [...]. La consapevolezza di come il tossicodipendente stia ingannando sé stesso è il meccanismo fondamentale per diventare indipendenti. Questo può comportare un cambiamento drammatico nella consapevolezza, che può essere doloroso da raggiungere ma che ha grandi benefici. Non conosco un metodo più efficace di portare le persone a confrontarsi con il proprio sé. Nessuna delle medicine o metodi occidentali è in grado di farlo come lo fa l’ayahuasca (Professor H, in Loizaga-Velder e Verres, 2014: 67).
Oltre al ruolo svolto nei confronti dei pazienti, alcuni dei terapeuti intervistati hanno sottolineato l’importanza del valore dell’ayahuasca come uno strumento di training professionale. L’uso personale di ayahuasca ha favorito l’auto-esplorazione, ha migliorato l’intuito terapeutico e ha apportato
contributi effettivi al lavoro psicoterapeutico. Ciò rimanda a quanto affermavano molti psicoterapeuti degli anni ‘50-’60, circa l’opportunità che il personale medico e infermieristico che tratta i pazienti con gli psichedelici abbia conosciuto personalmente l’esperienza con la sostanza che sta impiegando. L’importanza dello stato non-ordinario di coscienza indotto dall’ayahuasca e l’importanza dell’integrazione viene così descritta da uno psicologo: Gli stati non-ordinari di coscienza rimuovono la persona dal loro modo abituale di pensare e di percepire, e inducono un nuovo modo di pensare e di sentire [...]. Se il set e setting terapeutico sono adeguati, il soggetto potrà osservarsi sotto una nuova luce [...]. L’induzione di un nuovo insight è lo strumento di base per l’auto-consapevolezza e la sfida è rappresentata da come integrare queste nuove acquisizioni nella vita di tutti i giorni. Quel che trovi in uno stato non-ordinario di coscienza, devi riportarlo alla coscienza ordinaria (Professor K, in Loizaga-Velder e Verres, 2014: 67).
I seguenti fattori influenzano i risultati del trattamento della dipendenza da sostanze: 1) motivazione del paziente a ricevere il trattamento; 2) la sostanza d’abuso principale e il grado di dipendenza; 3) lo stato psicologico del paziente e comorbidità psicopatologiche (queste ultime controindicate per l’esposizione di ayahuasca); 4) adeguata durata del trattamento; 5) l’alleanza terapeutica tra paziente e terapeuta; 6) il trasferimento del trattamento all’esterno del luogo del ricovero; 7) fattori culturali. Riguardo quest’ultimo punto, e secondo l’esperienza dei terapeuti intervistati, le cerimonie tradizionali di ayahuasca possono risultare efficaci per individui con un background culturale occidentale, così come per i mestizo o i nativi. A tal riguardo uno dei membri del team terapeutico di Takiwasi ha riferito: Se c’è un’indicazione all’uso rituale di piante, questa può essere valida al di là delle differenze culturali. Non è necessario capire razionalmente perché e come lavora l’ayahuasca. C’è un’interazione con le predisposizioni culturali dell’individuo che può influenzare il contesto delle visioni e il lavoro personale. Specialmente per persone di cultura occidentale, è importante l’analisi e la contestualizzazione delle esperienze visionarie, attraverso la conversazione e l’integrazione nella realtà quotidiana delle persone (Dottor G, in Loizaga-Velder e Verres, 2014: 68).
Studi valutativi dell’influenza dell’ayahuasca sulle dipendenze Nelle comunità tradizionali e religiose che usano l’ayahuasca come sacramento è stato osservato un particolare benessere psicologico, una maggiore consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse, una predisposizione alla vita di gruppo e alla collaborazione, un miglioramento dei disturbi precedenti all’ingresso nel gruppo – dipendenze comprese – e questo benessere si mantiene nel corso degli anni. Accanto alla pionieristica indagine svolta dall’équipe di Fericgla fra gli Shuar dell’Ecuador, che abbiamo presentato nel capitolo 7, citiamo l’indagine svolta da Charles Grob negli anni ‘90, volta ad analizzare l’ayahuasca da una prospettiva biomedica, valutando gli effetti della bevanda in ambito religioso rituale nella comunità dell’Uñao do Vegetal (UDV) in Brasile. Le valutazioni psichiatriche hanno evidenziato che una percentuale apprezzabile di soggetti che avevano aderito ai rituali di ayahuasca riportava una storia di abuso di alcol o di disturbi depressivo-ansiosi prima del loro ingresso nella comunità. Dopo le prime cerimonie dell’UDV, si era osservata una remissione di tutti i disturbi, e questi non si erano più ripresentati. Ciò è risultato particolarmente evidente per il consumo di alcol, la cui astinenza era quasi immediata dopo il loro ingresso nella comunità religiosa. Tutti i punteggi nelle scale di valutazione psicologica sono risultate significativamente più bassi rispetto al gruppo di controllo, espressione di un maggiore benessere psicologico (Grob et al., 1996). In alcuni studi trasversali è stata osservata una riduzione consistente dell’abuso di alcol tra i membri delle sette religiose che usano ayahuasca, misurato con la scala Addiction Severity Index (ASI). Un campione di 95 utilizzatori di ayahuasca, con un consumo medio di due volte al mese per più di 15 anni, ha mostrato una riduzione dell’uso di alcol, barbiturici, sedativi, cocaina, amfetamine e solventi rispetto al periodo precedente all’incontro con l’ayahuasca (Fábregas et al., 2010). In un recente sondaggio, il più esteso al momento eseguito sui consumatori di ayahuasca (con un campione di 1947 membri dell’UDV), è stato confrontato l’uso di alcol e tabacco tra i membri dell’UDV rispetto a un campione esterno a questi proveniente dalla medesima popolazione locale. Nel campione dell’UDV, l’uso di alcol e tabacco è risultato significativamente inferiore rispetto a quello della popolazione generale. L’impatto della partecipazione alle cerimonie di ayahuasca durante i 12 mesi
precedenti l’analisi è risultato determinante nella riduzione dell’esposizione ad alcol e tabacco (Barbosa et al., 2018). Ciò che emerge dalle interviste ai pazienti e agli psicoterapeuti nei report analizzati è l’impossibilità di discernere tra aspetto farmacologico e contesto rituale dell’ayahuasca. Secondo Loizaga-Velder e Verres (2014), l’ayahuasca è un catalizzatore terapeutico il cui valore è subordinato alla gestione appropriata delle esperienze e alla loro integrazione attraverso guide in grado di supportare le dinamiche psicologiche. I sintomi del craving risultano mitigati dagli effetti dell’ayahuasca: Anche solo da un punto di vista fisico, i sintomi del craving che hai quando interrompi il metadone sono migliorati dal daime (ayahuasca). Ti senti bene nelle 24 ore dopo la cerimonia, e questo ti permette di scalare una buona quantità di metadone in pochi giorni. Nei giorni che seguono il trabalho (la seduta con daime), fai molto meno sforzo a ridurre il metadone, e puoi dimezzare la sua dose in pochi giorni. Più è forte il trabalho, più risulta semplice fare questo (Talin e Sanabria, 2017: 26).
Attraverso il vomito e la diarrea – purga o limpeza, indotti dalle azioni serotoninergiche sul tratto gastroenterico e sui centri nervosi del vomito – l’ayahuasca agisce da purgante, innescando un processo psicosomatico profondo: le persone eliminano gli attaccamenti, i comportamenti o le emozioni negative attraverso la catarsi corporea. Il processo di purificazione può prendere diverse forme, come un flusso di lacrime: “Non ho avuto visioni né ho vomitato. C’era solo pace e le mie palpitazioni si sono fermate. Per una persona sopraffatta dai sensi di colpa, è stato un evento straordinario” (Talin e Sanabria, 2017: 26). L’ayahuasca conferisce una maggiore consapevolezza del proprio corpo: “quel che posso e quello che non posso mangiare. Il Daime mi ha dato un metodo per prendermi cura del mio corpo”. Uno dei partecipanti al rituale, che faceva uso di eroina da anni e che aveva tentavo più volte di disintossicarsi, ha riportato che, mentre la congregazione stava cantando nel mezzo della cerimonia, ha avuto una visione di sé stesso che viaggiava all’interno di un tunnel: Avevo chiesto spesso a me stesso come, nel corso dei venti anni di dipendenza, le mie condizioni mentale e fisica si fossero modificate. Come sarei stato se non avessi fatto uso di tante droghe? Mentre cantavano ho sentito una grande agitazione. Mi sono sentito di nuovo come un quindicenne. Sono entrato in un tunnel all’interno del quale ho cominciato a sentire tutti gli odori e gli effetti che le droghe mi facevano. Ho provato il sapore di tutto, tutti i tipi di eroina e di cocaina. In tutto questo tempo, l’eroina e la sua qualità erano cambiate. L’eroina di quando avevo iniziato non era la stessa dell’eroina di oggi. Era grigia, poi beige, poi giallastra, quindi bianca. Ho percepito tutti i cambiamenti. Questa esperienza
è stata molto forte. Quando gli effetti della visione sono svaniti, mi sono sentito come un giovane ragazzo con la gioia di vivere. Avevo iniziato il rituale che ero depresso, e ne sono uscito felicissimo. L’ayahuasca ha ripulito tutto e mi sono sentito come una persona nuova, come se non avessi mai fatto uso di droghe nella mia anima, nel mio corpo, in tutto me stesso (Talin e Sanabria, 2017: 26).
Il medesimo soggetto dopo qualche giorno ebbe una ricaduta, assumendo nuovamente eroina. Questo evento non lo ha tuttavia riportato allo stesso processo di dipendenza. Egli ha spiegato che questa ricaduta gli ha permesso di realizzare che non era più così attaccato all’eroina: “Avevo avuto bisogno di capire quanto l’eroina fosse disgustosa. Avevo visto la differenza tra l’essere sporco e pulito, e realizzai che non avrei mai più desiderato l’eroina” (Talin e Sanabria, 2017: 27). Una delle caratteristiche principali avvertite dai partecipanti ai rituali del Daime che vi si recano per la disintossicazione, è la differenza tra la comunità del Daime e le altre comunità per la disintossicazione. Mentre le cliniche per tossicodipendenti sono concepite come delle prigioni, dove il paziente è costantemente controllato e non ha possibilità di uscita se non sotto sorveglianza, nella comunità del Daime le regole sono auto-imposte dai membri della comunità stessa. Uno dei partecipanti alla comunità del Daime in Italia ha riferito che, sebbene la comunità fosse collocata a soli 15 km da una delle più grandi città per spaccio di droghe, non ha mai sentito il desiderio di recarvisi (Talin e Sanabria, 2017). Uno studio condotto presso una comunità brasiliana dell’UDV ha sviluppato un’analisi psichiatrica su quindici persone che avevano assunto ayahuasca per più di cinque anni. Undici di queste persone avevano presentato problemi di abuso o dipendenza da alcol precedenti alla partecipazione ai rituali, dai quali si erano rimessi alcuni mesi dopo aver ricevuto ayahuasca. Lo studio è stato eseguito tramite quattro interviste etnografiche ai membri dell’UDV. Il risultato principale è stata la capacità dello stato non ordinario di coscienza indotto dalla bevanda di re-instaurare l’integrazione sociale dell’individuo dipendente all’interno della comunità, formando un nuovo gruppo sociale dove non si verificava il consumo di alcol (Labigalini, 1998). In un altro studio sono stati intervistati 40 utilizzatori di crack che hanno assunto ayahuasca per disintossicarsi. I partecipanti hanno riportato che la bevanda psichedelica ha dato loro l’opportunità di accedere a dimensioni della coscienza che li hanno messi in condizione di risolvere problemi e traumi e di ridurre il consumo di crack. Il cerimoniale religioso induceva un
incremento della spiritualità dei consumatori e l’accoglienza nella comunità, conferiva un senso di auto-stima e rafforzava le capacità di integrazione sociale, e ciò dopo il fallimento di altri tentativi di disintossicazione (Cruz e Nappo, 2018). Spostandoci in Nord America, nel 2013 è stato condotto uno studio preliminare sul trattamento assistito con ayahuasca dell’uso problematico di sostanze e dello stress all’interno di una comunità rurale nella Columbia Britannica (First Nation). In Canada, la comunità First Nation e gli altri nativi sono stati fortemente colpiti da malattie e problemi sociali, incluso l’abuso di sostanze, come conseguenza dell’eredità del colonialismo e della dislocazione territoriale e culturale. Nel 2009 Gabor Matè, medico canadese specializzato in medicina delle tossicodipendenze e con esperienza di lavoro con i nativi, ha iniziato a interessarsi alle potenzialità dell’ayahuasca come adiuvante della terapia di gruppo. Negli anni 2009-2010 egli ha favorito incontri di counseling di gruppo (“Working with Addiction and Stress”) in collaborazione con ayahuasqueros provenienti dal Perù e dalla Columbia Britannica, ottenendo risultati positivi sulla popolazione canadese generale e soprattutto su partecipanti non-nativi. In questo modo il team di ricercatori ha ridefinito la struttura e la condotta del loro approccio, che è stata in seguito applicata all’ambito della terapia nella comunità rurale. Si combinavano quattro giorni di counseling di gruppo con due cerimonie di ayahuasca guidate da esperti e condotte su 12 partecipanti, sui quali veniva valutato il miglioramento del profilo psicologico e comportamentale correlato all’abuso di sostanze. L’uso di alcol, tabacco e cocaina si riduceva, ma non quello di cannabis e oppiacei.59 La riduzione dell’uso di cocaina è risultata statisticamente significativo (Thomas et al., 2013).
La psilocibina nelle dipendenze Psilocibina e tabagismo L’équipe di Matthew Johnson, del Dipartimento di Psichiatria e Scienze Comportamentali della Johns Hopkins di Baltimora, ha sviluppato il primo studio clinico con impiego di uno psichedelico nel trattamento del tabagismo, e lo psichedelico prescelto è stata la psilocibina. La psilocibina è stata somministrata nel contesto di un programma di 15 settimane di terapia cognitivo-comportamentale, che prevedeva 2-3 sessioni
di psilocibina alle dosi di 0,29 mg/kg o 0,43 mg/kg così somministrate: la prima nel giorno in cui i partecipanti smettevano di fumare (“giorno target di interruzione”) e la seconda e la terza a 2 e a 8 settimane dopo il giorno-target. Per quelli che riuscivano a smettere di fumare dopo la prima sessione, la seconda somministrazione di psilocibina era intesa come supporto alla motivazione per l’astinenza a lungo termine. I risultati ottenuti sono apparsi sorprendenti: 12 dei 15 partecipanti (80%) erano ancora astinenti a 6 mesi di follow-up (Johnson et al., 2008). In questo studio è osservabile la struttura del moderno setting di psicoterapia assistita con uno psichedelico. La sua preparazione aveva seguito le linee guida per la sicurezza nella ricerca sull’uomo con gli psichedelici. I pazienti venivano accuratamente selezionati, escludendo quelli con patologie fisiche o psichiatriche, e venivano monitorati durante la sessione psichedelica. Per ogni sessione era a disposizione un medico su chiamata, ed erano disponibili farmaci per l’emergenza in caso di eventi avversi di natura cardiovascolare o psicologica (Johnson et al., 2008). La percentuale di astinenza dal tabacco è risultata di gran lunga superiore a quella mostrata con altri interventi terapeutici comportamentali e/o farmacologici (con risultati in genere del 35% sulla popolazione trattata), e con effetti collaterali minori rispetto a quelli di altri percorsi terapeutici che richiedono somministrazioni quotidiane dei farmaci (Johnson et al., 2014). L’analisi dei risultati ha evidenziato inoltre una stretta correlazione dell’interruzione del tabagismo con il fatto di avere esperito esperienze “mistiche” durante la seduta psilocibinica (Garcia-Romeu et al., 2014). Un recente follow-up retrospettivo a circa 30 mesi dalla sessione iniziale ha sottolineato l’importanza dei contenuti dell’esperienza. La psilocibina ha conferito una motivazione ai partecipanti nello smettere di fumare che superava la gravità dei sintomi d’astinenza a breve termine. Oltre all’astensione dal fumo, i soggetti hanno riportato cambiamenti psicologici positivi persistenti, responsabili di un nuovo stile di vita (Noorani et al., 2018). Psilocibina e alcolismo Nel 2015, presso il Dipartimento di Psichiatria del New York University School of Medicine, Michael Bogenschutz ha condotto uno studio pilota su 10 partecipanti con diagnosi DSM IV di dipendenza da alcol, ai fini della valutazione della praticabilità di uno studio più ampio sull’efficacia della
psilocibina nell’alcolismo. I volontari avevano una storia di alcolismo di circa 15 anni, ed erano seriamente intenzionati a smettere di bere. La terapia con psilocibina è stata somministrata per via orale in una o due sessioni.60 Le sessioni venivano supervisionate e integrate da una terapia motivazionale (“Motivational Enhancement Therapy”), un tipo di terapia cognitivocomportamentale elaborata specificatamente per la terapia delle dipendenze. Le sessioni di psicoterapia erano multiple, e comprendevano una di preparazione e una di conclusione della sessione con psilocibina. La risposta soggettiva alla psilocibina degli alcolisti si è dimostrata più moderata se confrontata a quella della popolazione generale, e questo sembra corrispondere a quanto accadeva con l’LSD negli anni ‘60, dove gli alcolisti, a parità d’effetti, avevano bisogno di dosi maggiori rispetto alla popolazione generale. Alcuni degli alcolisti sono apparsi completamente insensibili alla psilocibina. I risultati hanno dimostrato che l’astinenza non migliorava durante le prime quattro settimane, dedicate alle sessioni preparatorie di intervento psicosociale, ma aumentava notevolmente dopo la somministrazione di psilocibina, a partire dalla quarta settimana. L’intensità dell’effetto nella prima seduta con psilocibina è risultata anche predittiva per i valori di astinenza e della riduzione del craving durante la settimana successiva. I partecipanti hanno mostrato un netto miglioramento nell’astinenza dall’alcol, con miglioramento anche dei valori metrici degli effetti psicologici. I risultati sono apparsi correlati sia alla somministrazione di psilocibina che all’intensità dell’esperienza, soprattutto nei casi in cui si erano presentate esperienze intense, di tipo “mistico” (Bogenschutz et al., 2015a,b). In seguito ai promettenti risultati di questo studio pilota, la medesima équipe di Bogenschutz sta attualmente sviluppando una più ampia ricerca clinica in doppio cieco randomizzato e controllato sull’efficacia della psilocibina nell’alcolismo. In questo studio vengono reclutati 180 volontari, di cui 90 riceveranno la psilocibina combinata al trattamento psicosociale; quest’ultimo è simile a quello ricevuto nello studio pilota, con sessioni focalizzate alla discussione sull’uso problematico dell’alcol, sessioni di preparazione e conclusive alla seduta col farmaco, oltre alla sessione di somministrazione del farmaco.61 Si prevede che questo studio sarà terminato nel 2020. Altri progetti in corso con la psilocibina
Oltre allo studio dell’équipe di Bogenschutz, sono in corso altri due progetti coinvolgenti il medesimo psichedelico, uno nelle dipendenze da oppioidi da prescrizione, l’altro nella dipendenza da cocaina. Il primo si propone di valutare la differenza di efficacia tra una tecnica farmaco-indotta di modificazione dello stato di coscienza e una non-farmaco indotta, rispetto al placebo, basandosi sul presupposto che, se esiste una terapia non farmacologica per una patologia quale le tossicodipendenze, è opportuno preferire quella. Come terapia di controllo non farmacologica viene proposta la respirazione olotropica (HB, dall’inglese holotropic breathwork, respirazione olotropica),62 e come psichedelico, tra psilocibina e ketamina è stata scelta la psilocibina per il suo profilo di sicurezza e tollerabilità rispetto alla seconda, soprattutto per il potenziale d’abuso di quest’ultima che controindica il suo impiego nei tossicodipendenti. È prevista un’analisi del follow-up a 12 settimane e a sei mesi (Burdick e Adinoff, 2013). Riguardo il secondo progetto, nel 2015 è stato approvato uno studio randomizzato sulla valutazione della praticabilità e dell’efficacia della terapia assistita con psilocibina nel trattamento della dipendenza da cocaina. In corso di studio verranno valutati anche gli effetti sugli altri aspetti del cocainismo, quale la criminalità. Lo studio si avvarrà di immagini fMRI per valutare le modificazioni indotte sul default mode network (DMN) e gli effetti su un metabolita cerebrale coinvolto nel meccanismo della dipendenza di cocaina; è previsto un reclutamento di 40 partecipanti, con un termine previsto nel 2019.63
La ketamina nelle dipendenze La ketamina nell’alcolismo Lo psichiatra russo Evgeny Krupitsky fu il primo studioso a evidenziare un potenziale terapeutico della ketamina in soggetti alcolisti; le sue indagini cliniche svolte in Russia durante gli anni ‘80 e ‘90 destarono sorpresa nell’ambiente delle terapie mediche delle tossicodipendenze. Non sappiamo al momento quali siano i meccanismi neurofisiologici alla base di queste azioni della ketamina. L’équipe di Krupitsky iniziò a lavorare con la ketamina nel 1985 a Leningrado, una terapia promettente ma che dovette interrompere nel 1998 con la messa al bando di questa sostanza in Russia. La procedura adottata da
Krupitsky è stata denominata KPT (Ketamine Psychedelic Therapy, “terapia psichedelica con ketamina”). La KPT risultò un metodo efficace e sicuro del trattamento della dipendenza da alcol, ed ebbe un forte impatto in Russia, che non aveva vissuto l’ondata culturale della “rivoluzione psichedelica” dei sixties, e dove nessuno aveva idea di cosa significasse la parola “psichedelico” o neanche immaginare che la ketamina potesse avere un uso non medico. La ketamina possiede alcuni vantaggi rispetto ad altri psichedelici come coadiuvante in psicoterapia: ha un buon margine di sicurezza, una breve durata d’azione, e a quei tempi ancora non rientrava nella lista degli psichedelici controllati dalla legge. A basse dosi – da circa un sesto a un decimo delle dosi usate in anestesia generale – induce una profonda esperienza psichedelica. La KPT consisteva in tre fasi. La prima prevedeva una psicoterapia preliminare, in cui il paziente veniva psicologicamente preparato e delucidato sulle modalità della terapia, gli veniva spiegato che sotto l’influenza della ketamina avrebbe percepito il mondo in maniera simbolica, che avrebbe avuto modo di “vedere” gli aspetti negativi dell’alcolismo e gli aspetti positivi della sobrietà. Gli veniva anche spiegato che i processi mentali inconsci sarebbero divenuti consapevoli, così come i problemi personali e l’identificazione personale. Questi insight lo avrebbero aiutato ad accettare i valori della nuova vita, ad attribuire un nuovo significato e nuovi scopi di vita, favorendo quindi il superamento dell’alcolismo. La seconda fase prevedeva l’iniezione intramuscolo di ketamina e l’interazione del paziente con lo psicoterapeuta. Quest’ultimo guidava verbalmente il paziente, finalizzando il lavoro alla creazione di un nuovo significato e nuovi scopi di vita. In questa seconda fase la KTP si avvaleva di una modalità modificata delle terapie di avversione, che si basavano sulla creazione di associazioni negative tra l’uso dell’alcol ed effetti fisici spiacevoli.64 Nella maggioranza dei casi, questi metodi non risultavano molto efficaci nel cercare di modificare gli atteggiamenti dell’alcolista. Nella KTP era stato adottato il metodo ACA (“affective contra-attribution”) in cui, attraverso l’uso dell’alcol nel corso della terapia, si cercava di modificare l’abitudine dell’individuo senza indurre associazioni negative. Nell’ACA la ketamina veniva somministrata insieme al bemegride, un farmaco dalle proprietà ansiogene, e all’etimizolo, uno stimolante psichico che aiuta a fissare l’esperienza nella memoria a lungo termine. La ketamina
veniva somministrata a dosi subanestetiche, permettendo di mantenere il contatto verbale del paziente col terapeuta, che avveniva con un sottofondo musicale che facilitava l’induzione di un’esperienza drammatica. Durante il momento più intenso dell’esperienza psichedelica, al paziente veniva fatto annusare e sorseggiare dell’alcol, e con l’aiuto del terapeuta egli associava l’esperienza negativa all’odore e al sapore dell’alcol. Questa procedura era condotta da due medici, uno psicoterapeuta e un anestesista, e durava 1,5-2 ore. Il terzo stadio del trattamento KPT prevedeva la psicoterapia di gruppo il giorno seguente l’ACA. Questa fase era volta ad aiutare l’insight integrativo del paziente nel rientro dall’esperienza psichedelica alla vita quotidiana, e ad associare l’esperienza con la vita e con i problemi di personalità del paziente. La profonda e potente esperienza psichedelica spesso aiutava i pazienti a generare nuovi insight, che permettevano di integrare nuovi valori e attitudini nei riguardi dei loro vissuti individuali e del mondo. I dati di pazienti alcolisti sottoposti alla KPT venivano raccolti e confrontati con quelli di un gruppo di controllo trattato con metodi tradizionali quali il metodo avversivo, il trattamento farmacologico del craving e le terapie individuali e di gruppo. I pazienti selezionati avevano una storia di tentativi di disintossicazione, non riuscendo tuttavia a mantenere la sobrietà per più di tre mesi; tutti presentavano sintomi d’astinenza e nessuno di loro era in grado di controllare il consumo di alcol. Al termine di un anno di terapia, il 70% dei pazienti del gruppo KPT era risultato completamente astinente dall’alcol, mentre nel gruppo di controllo gli astinenti erano il 24%. L’efficacia del metodo KPT superava tutti gli altri metodi conosciuti. L’osservazione dei risultati dell’indagine a 2 e a 3 anni dal trattamento, aveva confermato l’elevata efficacia della KPT. Tutti i pazienti erano stati esaminati con diversi test della personalità prima e dopo il trattamento (Krupitsky et al., 1992). L’analisi dei risultati ha rivelato che dopo la terapia con ketamina si erano presentate significative modifiche positive nell’atteggiamento emotivo nei confronti dello psicoterapeuta, dei parenti e dell’immagine ideale di sé stessi. Erano state osservate modifiche nello spazio semantico della personalità dell’alcolista, in particolare nell’ambito delle caratteristiche di personalità emerse dai questionari multidimensionali. Prima del trattamento, l’immagine “Io ora” era vicina all’immagine “Ubriacone” e lontana dal gruppo di
immagini positive quali “Recupero dall’alcolismo”, “Immagine ideale di sé”, “Moglie”, “Un uomo che va avanti nella vita”. Dopo la KPT l’immagine “Io ora” si era avvicinata al gruppo di immagini positive sopra descritte e lontana dall’immagine “Ubriacone”. Allo stesso tempo, l’immagine “Ubriacone” si avvicinava all’immagine “Io nel passato” (fig. 29). Questi dati testimoniavano che i pazienti alcolisti percepivano emotivamente (identificavano) sé stessi come ubriaconi prima della KPT, e che dopo la KPT questa percezione era stata modificata: essi si identificavano emotivamente con il recupero dall’alcolismo e con le altre immagini positive nello spazio semantico delle caratteristiche della personalità e degli orientamenti di valore, e si identificavano come ubriaconi solo nel passato. Inoltre, la KPT trasformava positivamente soprattutto la percezione (inconsapevole, principalmente emotiva) non-verbale dei pazienti alcolisti, il loro sé individuale. Così, era possibile concludere che la KPT per lo più trasformava positivamente l’auto-identificazione emotiva (auto-concetto) dei pazienti alcolisti (Krupitsky e Grinenko, 1996). Riportiamo alcune descrizioni stese dai pazienti il giorno dopo la terapia con ketamina e discussi nella sessione di gruppo finale, diversi giorni dopo l’esperienza ketaminica. Paziente P.Kh.: Mi trovavo all’interno di un tunnel gigantesco la cui bocca raggiungeva un’altezza terrificante, e alla cui superficie non c’era niente [...]. Una capsula rossa girava rapidamente attorno alla superficie del tunnel. All’interno di questa capsula c’ero io, o io ero la capsula stessa che stava correndo attorno al nulla. Ma allo stesso tempo, mi potevo guardare come se il mio spirito fosse distaccato, come se il mio corpo e il mio spirito fossero distaccati. All’improvviso, mi trovai sulla sommità del tunnel. Quello che vidi mi fece rabbrividire di orrore. Un abisso scuro, freddo, orribile, davanti a me. Era come se fossi in uno spazio sconfinato, impossibile da percepire. Ogni cellula del mio corpo percepiva l’orrore di questo abisso. Un giro in più, e mi sarei trovato in quell’oscurità, e sarei caduto per sempre [...]. Anche dopo la procedura, quando mi tornava questo ricordo, mi sentivo irrequieto [...]. Ma non ci fu un altro giro. Tutto si mescolò, fece un giro, e il vortice mi portò alla superficie. Mi sentii correre ad alta velocità attraverso un tunnel di vetro, attraverso il bicchiere potevo vedere la faccia di qualcuno che mi chiedeva se volevo bere. Io risposi di no. Non volevo [...]. Capii che questo abisso buio nel quale sarei potuto sprofondare rappresentava il mio destino, se non avessi smesso di bere” (Krupitsky e Grinenko, 1997: 180).
Paziente A.S.: Masse appiccicose cominciarono ad attaccare il mio corpo, a scioglierlo. La paura mi invase. Ogni cosa attorno era in un vortice. Una cosa si sovrapponeva all’altra. Sentivo
l’odore dell’alcool. Provavo un’avversione straziante, paura, presentimento di morte. Oggetti luminosi si sovrapponevano a velocità pazzesche, ogni cosa ruotava, e anch’io ruotavo. Avevo la sensazione che non sarei mai uscito da questo incubo, che stavo morendo lentamente e con sofferenza, che tutto il mio corpo si stava sciogliendo in questa massa nera, ma il mio cervello avrebbe continuato a funzionare. E avrei provato non la vita, ma la sofferenza. Alcune voci mi parlavano dell’alcool. Provavo una forte avversione [...]. Tutto ciò che vedevo era il risultato della mia vita senza fine, il mio alcolismo. Era come se l’immondizia accumulata dentro di me durante anni e anni stesse venendo fuori in un’ora. Non voglio ripeterlo; quest’incubo mi ha spaventato [...] non lo dimenticherò mai (ibid., :180).
Fig. 29 – Spazio semantico dei pazienti alcolisti misurato mediante il Mean Color Repertory Grid prima (A) e dopo (B) il trattamento con ketamina (da Krupitski e Grinenko, 1996, fig. 1, p. 22).
Paziente V.Z.: Mi ero perso. Mi sentivo smarrito perché mi ero perso, avevo perso il mio corpo. Arrivò la
morte. La morte, un volo tranquillo attraverso dense nuvole grige e bianche. E all’improvviso la rinascita. Al comando di qualcuno osservai una serie di immagini terrificanti su uno sfondo rosso. Si muovevano orizzontalmente, immagine dopo immagine, indipendentemente una dall’altra. Esse dipingevano le tristi scene della vita da alcolista. Bottiglie rotte, sporcizia, corpi, facce orribili, smorfie da ubriaco. Era assolutamente chiaro che questo sarebbe stato il mio futuro, il futuro della gente come me, se non avessi smesso di bere. Anche il desiderio di comunicare a tutti il più presto possibile dove tutto questo poteva portare. Movimenti veloci di un veicolo strano, una specie di treno. E all’improvviso il sapore disgustoso dell’alcool, e poi il giuramento di sobrietà. Insoddisfazione. Come se ogni cosa potesse essere fatta un altro giorno. La gente dovrebbe conoscere la mia sobrietà e ascoltare questa storia (ibid., :180).
Un pezzo di cotone imbevuto con alcool spesso induceva nei pazienti pesanti esperienze negative e una forte avversione. Paziente G.G: “tutto intorno a me cominciò a ruotare. Mi sentivo freddo e senza peso. A un tratto la voce del medico: ‘la tua paura è il risultato della vodka. È la vodka che ti porta all’apice dell’abisso’. E mi sentii disgustato dall’odore della vodka che accompagnava tutta la procedura”. Paziente D.F.: Quando mi fecero sentire un pezzo di cotone imbevuto di alcool [...] sentii paura per me stesso, per il mio futuro, i miei bambini. Sentii di impazzire o morire per colpa della vodka”. Spesso le esperienze visionarie riguardavano i parenti del paziente, le loro mogli e i loro bambini. Paziente S.L.: “Quindi mi chiesero varie volte: ‘tua figlia si chiama Inna? La ami?’ Quindi io e mia figlia cominciammo a volare su rocce verdi-biancastre. Erano indeterminate, spaventose. Provai di nuovo l’odore e il sapore della vodka. Il mio corpo cadde a pezzi; uno di questi pezzi volò con mia figlia e le creature. A questo punto perdetti mia figlia e mi trovai nel sangue. Stavo soffocando, e sputavo via il sangue. Sentii di nuovo la voce; mi diceva che questo era dovuto alla vodka, ero io che permettevo che ciò accadesse [...]. Non volevo perdere mia figlia, ma la perdetti”. Il paziente S.Y. aveva paura di perdere la sua famiglia: “Vidi la mia famiglia, moglie e bambini. Non si avvicinarono a me, mi attraversarono, non mi rivolsero l’attenzione.
L’esperienza psichedelica spesso coinvolgeva lo psicoterapeuta che cercava di aiutare il paziente a raggiungere qualcosa di desiderabile o di superare l’incubo. Paziente A.K.: “Potevo sentire che il medico mi stava aiutando a uscire da questi vortici [...]. Nuovamente, pensai alla mia famiglia. La certezza che avrei trovato il modo di tornare alla mia gente se avessi smesso di bere” (Krupitsky et al., 1997). La ketamina nella dipendenza da eroina Krupitsky ha sperimentato la ketamina anche nel trattamento della dipendenza da eroina. In uno studio a doppio cieco, 70 partecipanti hanno ricevuto due diverse dosi di ketamina, una bassa di 0,2 mg/kg e una alta di 2 mg/kg, somministrate via intramuscolo in una singola seduta. Dopo la seduta,
è seguito un anno di follow-up, dal quale è emerso che entrambi i gruppi avevano riportato una riduzione significativa dell’ansia e della depressione per almeno sei mesi, sebbene i partecipanti del gruppo trattato con la dose più elevata avessero avuto un’interruzione del craving più stabile e duratura (Krupitsky et al., 2002). Successivamente, 59 pazienti provenienti da un ricovero per disintossicazione da eroina sono stati sottoposti a KPT prima della loro dimissione, e randomizzati in due gruppi: il primo gruppo ha ricevuto due sedute di counseling seguite da due KPT; il secondo gruppo ha ricevuto due sessioni di counseling e una sola KPT. Il gruppo che aveva ricevuto due sessioni KPT ha evidenziato percentuali di astinenza più alte a un anno di follow-up (50% di astinenza continuata) rispetto a quelli che avevano ricevuto una sola seduta ketaminica (22% di astinenza continuata) (Krupitsky et al., 2007). Meccanismo d’azione della ketamina L’interesse nell’uso di ketamina subanestetica nel trattamento di disturbi psichiatrici è sorto nell’ultimo decennio, e sono stati eseguiti alcuni studi per ottimizzare il suo uso in farmacoterapia. Al momento non sono noti i meccanismi sottostanti l’efficacia della ketamina nel craving in pazienti dipendenti, e le ipotesi suddette indicano un meccanismo potenziale nella riduzione delle proprietà motivazionali degli stimoli che inducono reward negli individui soggetti a comportamenti additivi. Sembrerebbe paradossale a questo punto parlare di disintossicazione con un farmaco che a sua volta presenta delle potenzialità d’abuso e di dipendenza. Come per la terapia antidepressiva, non si sa ancora se le dosi e le modalità terapeutiche proposte per le tossicodipendenze abbiano ripercussioni sulla neurotossicità o sulla possibilità di indurre dipendenza. Tuttavia, dal 1985 sono stati trattati più di 1000 pazienti alcolisti con la KPT, senza che si sia verificata alcuna complicanza quali psicosi protratte, flashback, agitazione, o abuso di ketamina. Le osservazioni cliniche suggeriscono che le KPT potrebbero essere d’aiuto in altre forme di dipendenza da sostanze, e forse anche nei disturbi nevrotici. Sia negli animali che nell’uomo, dosi subanestetiche di ketamina producono un aumento globale dell’attività nervosa, a differenza delle dosi anestetiche che sono deprimenti. È probabile che l’aumento dell’attività neurale sia dovuto alla disinibizione delle sinapsi glutammatergiche in alcune
regioni cerebrali che sono sotto il controllo degli interneuroni gabaergici inibitori. La persistenza degli effetti comportamentali della ketamina sembra essere dovuta a uno squilibrio del rapporto tra il recettore AMPA e quello NMDA, a favore del recettore AMPA, la cui stimolazione nella corteccia prefrontale faciliterebbe il rilascio del fattore di crescita BDNF. A questi effetti si aggiunge l’aumento del rilascio di dopamina nel nucleo accumbens. È possibile che le modificazioni neurobiologiche presentate (la combinazione tra l’aumento dell’attivazione corticale prefrontale e l’alterazione dell’omeostasi striatale dopaminergica) inducano nel soggetto tossicodipendente la deviazione del comportamento dipendente verso un atteggiamento propenso al controllo degli impulsi (Fitzpatrick e Morrow, 2017). La ketamina, sebbene agisca in modo differente dagli psichedelici serotoninergici, condivide con questi la modulazione della neurotrasmissione glutammatergica nel circuito corticolimbico e una certa comunanza di effetti psicologici.65 Il recettore NMDA svolge una funzione critica nelle associazioni stimolorinforzo, e la plasticità sinaptica glutammatergica nel sistema mesolimbico sembra sottostare alla patofisiologia delle dipendenze. Come esposto in precedenza, il recettore NMDA è già bersaglio della terapia antidepressiva mediante l’uso di dosi subanestetiche di ketamina, un antagonista recettoriale non competitivo, con risultati sorprendenti che stanno cambiando il paradigma della terapia antidepressiva convenzionale. Sulla base di questi medesimi risultati, sono state provate dosi subanestetiche di ketamina anche in soggetti tossicodipendenti, riscontrando 24 ore dopo l’infusione un aumento della motivazione all’astinenza e riduzione del craving indotto dallo stimolo in soggetti dipendenti da cocaina (Dakwar et al., 2013). La ketamina nella dipendenza da cocaina Dal 2013 l’équipe di Elias Dakwar del New York State Psychiatric Institute sta sviluppando studi clinici di trattamento della dipendenza da cocaina con l’ausilio della ketamina. Dopo 24 ore dall’infusione subanestetica di ketamina somministrata a 8 cocainomani, è stato osservato un aumento della motivazione all’interruzione dell’uso di cocaina e una riduzione del craving. La valutazione dell’esperienza farmaco-indotta di tipo “mistica” che si è verificata nel corso della terapia, è stata controllata dallo stesso gruppo di terapeuti mediante tre
scale metriche alle quali i soggetti sono stati sottoposti a 20 minuti dall’infusione di ketamina: la Clinician Administers Dissociative States Scale (CADSS), un questionario di 27 elementi che valutano la derealizzazione, depersonalizzazione, frammentazione psichica ed altri stati dissociativi; la Hood Mystical Experiences Scale (HMS), questionario di 32 elementi riguardanti dimensioni multiple o esperienze di tipo “mistico” (ineffabilità, unità, qualità noetica, senso di sacralità), che valuta il cambio di ontologia – o della natura dell’essere – che può avere un impatto diretto sui valori, sulle decisioni e sui comportamenti; in pratica misura il nuovo orientamento dell’esistenza nel mondo, il senso rinnovato di umiltà, di rispetto rivolto all’esistenza; e la Near Death Experiences Scale (NDES), di 16 elementi. Lo studio ha paragonato gli effetti della ketamina a un placebo attivo (midazolam). Secondo i risultati, la ketamina ha comportato un miglioramento statisticamente significativo della riduzione del craving e della riduzione dell’impulso all’assunzione di cocaina, quando comparato con il midazolam. Questi risultati unici sono stati attribuiti all’induzione di una neuroplasticità, un miglioramento dell’omeostasi del glutammato prefrontale, e a una marcata riduzione dell’attività e della connettività del default mode network (DMN). La lettura dei risultati relativi alla scala HMS ha suggerito che i fenomeni di tipo “mistico” occupano un posto centrale sull’impatto comportamentale della ketamina (Dakwar et al., 2013, 2018).
Recettori κ-oppioidi e dipendenze Il modello neuropatologico Volgiamo ora lo sguardo a un altro settore della neuropatologia delle dipendenze e a una differente tipologia di psichedelici che possono risultare utili nelle terapie di disassuefazione: la salvinorina A e l’ibogaina. Presentiamo innanzitutto il modello neuropatologico. Come abbiamo esposto in precedenza, l’ipotesi dopaminergica è la teoria che spiega la compulsività e la dipendenza da sostanze stimolanti mediante la loro abilità di aumentare i livelli di dopamina extracellulare. Attualmente, i trattamenti proposti si basano su questa ipotesi. Tuttavia, l’ipotesi dopaminergica sembra chiarire solo alcuni degli aspetti della dipendenza da stimolanti, e al contempo sembrano essere coinvolti altri meccanismi
neurochimici. Per esempio, la cocaina ha affinità per il trasportatore della dopamina (DAT), il trasportatore della serotonina (SERT), il trasportatore della noradrenalina (NET). Il SERT e il NET svolgono un ruolo fondamentale negli effetti farmacologici della cocaina. Esiste un’ampia evidenza che i recettori oppioidi κ potrebbero essere coinvolti nella modulazione di alcuni effetti correlati all’abuso degli stimolanti sul sistema nervoso centrale (SNC). Agonisti selettivi e non selettivi dei recettori κ oppioidi si sono mostrati efficaci nel ridurre l’autosomministrazione di stimolanti in una varietà di modelli animali. In studi preclinici gli agonisti κ-oppioidi hanno evidenziato proprietà anti-rinforzo e attività antagonista verso la cocaina. Ciò è stato attribuito alla loro abilità di ridurre il rilascio di dopamina e di favorirne la ricaptazione attraverso la regolazione del trasportatore specifico. La somministrazione di cocaina o anfetamine aumenta l’espressione dei recettori κ. L’uso cronico di cocaina aumenta la densità dei recettori κoppioidi, la dinorfina nello striato e l’espressione del gene della dinorfina nello striato. La sovraregolazione dei recettori κ oppioidi dopo trattamento con cocaina avviene soprattutto in regioni cerebrali che sono innervate preferenzialmente dalla serotonina. Allo stesso modo di altri recettori oppioidi, i recettori κ hanno evidenziato in vitro un ruolo nella modulazione della risposta immunitaria, così come sul virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV) (Zakharova et al., 2008). Oggi sappiamo che i recettori κ sono coinvolti nella modulazione dei livelli di dopamina. La loro attivazione modula l’accumulo di dopamina nel nucleo accumbens e gli agonisti κ inibiscono direttamente i neuroni dopaminergici nel mesencefalo. Trattamenti ripetuti con agonisti κ sintetici alterano la densità e la funzione recettoriale del recettore dopaminergico D2, e attenuano la risposta motoria alla cocaina nel ratto. La somministrazione di agonisti κ sintetici nei ratti modifica i livelli del trasportatore della dopamina, riduce i livelli di dopamina indotti da cocaina, riduce la possibilità di ricaduta nel craving. Queste osservazioni suggeriscono un potenziale utilizzo degli agonisti κ-oppioidi nel trattamento della dipendenza da cocaina, sebbene il loro impiego sia limitato dagli effetti avversi molto comuni rappresentati da nausea e vomito. L’associazione di un agonista-antagonista μ dovrebbe poter ridurre questi effetti. È quindi possibile che gli agonisti misti κ-μ possano presentare dei vantaggi rispetto agli agonisti selettivi κ nella dipendenza da cocaina (Prisinzano et al., 2008).
Al momento non ci sono farmaci approvati dalla FDA americana nel trattamento della dipendenza da stimolanti o nella prevenzione delle ricadute. È stato suggerito che la sostituzione con agonisti sia un approccio ragionevole nel trattamento della dipendenza da stimolanti. Entrando più approfonditamente nel meccanismo d’azione del recettore κ, questo rientra in un sistema recettoriale accoppiato alla proteina G, è ampiamente distribuito nei circuiti coinvolti nel controllo della motivazione e dell’umore, e si trova in molte aree corticali (bulbo olfattorio, amigdala, ippocampo, talamo, ipotalamo e VTA). Ci sono due isoforme del recettore, κ1 e κ2. Le dinorfine sono dei peptidi endogeni prodotti dalla trascrizione del gene PDYN. La prodinorfina è clivata in diverse dinorfine, le quali si distribuiscono in tutto il SNC. La dinorfina A (Dyn A) è uno di questi derivati, e rappresenta il ligando endogeno per il recettore κ-oppioide, ma possiede un’affinità minore anche per i recettori mu- e delta-oppioidi. Il legame della dinorfina al suo recettore riduce i livelli basali di dopamina e ne blocca gli aumenti, inoltre attenua la risposta motoria alla cocaina. È riconosciuto a livello generale che la stimolazione del complesso KOR/dinorfina antagonizza gli effetti edonici e di rinforzo delle droghe d’abuso. Sembra inoltre che questi effetti si manifestino attraverso effetti punitivi o simil-avversivi, diametralmente opposti a quelli del sistema muoppioide. Il sistema KOR è potenziato dalla esposizione acuta e cronica a sostanze quali cocaina e morfina. La stimolazione del sistema dopaminergico da parte della cocaina ha mostrato anche aumentare i livelli di dinorfina. La somministrazione di agonisti sintetici KOR sembra regolare le concentrazioni extracellulari di dopamina, da un lato riducendone il rilascio e dall’altro aumentando l’attività del trasportatore DAT nel nucleo accumbens. Gli agonisti KOR aumentano l’attività del trasportatore della dopamina DAT riducendo le concentrazioni extracellulari di dopamina. Questo è uno dei possibili meccanismi attraverso cui gli agonisti KOR esercitano il loro effetto. Questi effetti dei KOR sulla captazione e rilascio di dopamina funzionano in maniera opposta all’azione della cocaina e altre droghe d’abuso, che al contrario ne riducono la ricaptazione. È risaputo che il ciclo additivo si compone di tre stadi principali: lo stadio iniziale di assunzione della sostanza, il “binging” o “abbuffata”, seguito dall’astinenza e dai suoi effetti negativi, e infine la preoccupazione per il rifornimento o lo stadio anticipativo che porta all’ulteriore
approvvigionamento della sostanza. Gli agonisti KOR agiscono sia nello stadio di binging che attenuando gli effetti di rinforzo della sostanza (Prisinzano et al., 2008). Il recettore κ-oppioide e il suo ligando dinorfina sono coinvolti anche nella ricerca compulsiva dell’alcol indotta da stimoli stressanti, come sembra avvenire negli animali di laboratorio in seguito a iniezione sistemica di un agonista κ-oppioide, il quale re-instaura la ricerca di alcool dopo un periodo di estinzione della risposta al rinforzo da alcool (Lê et al., 2018). Gli agonisti κ-oppioidi hanno mostrato bloccare i comportamenti derivati dall’uso di cocaina e sono stati proposti come trattamento delle dipendenze. La somministrazione ripetuta di un agonista κ-oppioide selettivo sintetico (U69593) può bloccare gli effetti acuti della cocaina sull’attività locomotoria in vivo, così come l’insorgenza di sensibilizzazione alla cocaina per almeno due settimane dopo l’ultima somministrazione dell’agonista KOR. È stato suggerito che l’effetto degli agonisti KOR (U-69593) su quelli comportamentali della cocaina siano dovuti all’interazione con il sistema dopaminergico. Dopo cinque giorni di somministrazioni ripetute, gli agonisti KOR riducono la densità del trasportatore della dopamina DAT e la densità dei recettori dopaminergici, e aumentano i livelli di tirosina idrossilasi (preposta alla biosintesi della dopamina). Questi effetti non erano osservabili dopo tre giorni di trattamento, dimostrando che sono richiesti periodi prolungati di somministrazione. Gli effetti degli agonisti KOR tuttavia non dipenderebbero esclusivamente da questa interazione con il sistema dopaminergico, e sembrano essere coinvolti anche i recettori serotoninergici nel ridurre l’auto-somministrazione di cocaina. Dopo somministrazione di cocaina aumenta l’espressione dei recettori KOR nelle aree cerebrali prevalentemente innervate dalla serotonina, mentre non si osserva dopo trattamento con inibitori selettivi della captazione della dopamina. I dati di questo studio si sommano alla letteratura crescente, che suggerisce come i KOR agiscano sugli effetti comportamentali della cocaina mediante sistemi trasmettitoriali ulteriori a quello dopaminergico (Collins et al., 2001; Zakharova, 2008). Sfortunatamente, gli agonisti κ classici (di sintesi come il U-69593) presentano effetti collaterali che ne limitano l’uso, quali sedazione, avversione e depressione. Presentiamo ora alcuni KOR derivati da fonti vegetali, la salvinorina A, principio attivo della pianta Salvia divinorum, e l’ibogaina, il principale alcaloide della pianta africana Tabernanthe iboga.
La salvinorina A nella dipendenza da cocaina La salvinorina A è stata identificata come un potente agonista dei recettori κ oppioidi, dimostrando un’efficacia sorprendentemente simile alla dinorfina A. Sembra inoltre produrre minori effetti pro-depressivi e sedativi comparati a quelli indotti dai classici agonisti KOR. La salvinorina A avrebbe quindi un certo potenziale di riduzione dell’auto-somministrazione di cocaina. Purtroppo, la sua breve emivita (ca. 50 minuti) ne limita l’utilizzo medico, e per questo si stanno cercando degli analoghi sintetici caratterizzati da una maggiore stabilità metabolica e migliori proprietà farmacocinetiche, indicati nell’abuso di sostanze, nel dolore, prurito e altri problemi neurologici (Kivell et al., 2014).
L’ibogaina nelle dipendenze L’ibogaina è il principale alcaloide isolato dall’arbusto africano Tabernanthe iboga, ed è localizzata principalmente nella scorza della radice. Isolato nel 1900 e soggetto a una prima serie di studi da parte di farmacologi e medici francesi, nella prima metà del XX secolo furono posti in commercio prodotti farmaceutici a base di estratti di iboga, quali i confetti Nyrdahl, indicati per i disturbi del sistema nervoso (neuroastenie, impotenza, stress), e l’Iperton, venduto come tonico stimolante. Ogni capsula di quest’ultimo conteneva 40 mg di estratto totale della radice d’iboga e 10 mg di estratto di belladonna. Il prodotto farmaceutico probabilmente più noto fu il Lambarene, commercializzato fino al 1970, venduto come stimolante, anti-depressivo, nel trattamento dell’astenia, della convalescenza e delle malattie infettive (una compressa conteneva 8 mg di ibogaina). Negli anni ‘50, la CIBA (internazionale di prodotti chimici) sponsorizzò ricerche sulle proprietà antipertensive dell’ibogaina e come potenziante degli effetti analgesici della morfina, che furono tuttavia interrotte in quanto non convincenti dal punto di vista commerciale. Più recentemente, l’ibogaina è stata usata dagli atleti come stimolante e come farmaco che migliora le prestazioni, sino a che, nel 1970, fu inserita in tabella I dalla FDA americana.
Fig. 30 – Pubblicità di prodotti farmaceutici francesi a base di ibogaina. Sopra, nell’annata 1905 della rivista La Pediatrie Pratique, indicato nelle malattie del sistema nervoso (neuroastenie, impotenza, strapazzi); sotto, nella Guide Rosenwald del 1946, indicato nella fatica, infezione, intossicazione, choc e sotto-alimentazione.
Per quanto riguarda gli usi nella medicina tradizionale (a parte l’impiego come fonte visionaria), in diverse regioni africane la scorza della radice viene utilizzata come stimolante, defaticante, afrodisiaco e nella cura dell’impotenza. In Gabon è impiegata anche come anestetico dentale e come agente antipiretico. Nella Repubblica Centrafricana il liquido spremuto dalle radici è usato come medicina oftalmica nei dolori agli occhi e nelle congiuntiviti (Neuwinger, 1996: 208). Si sa poco sulle proprietà degli altri numerosi alcaloidi indolici della pianta, fra cui i più importanti sono: tabernantina, ibogamina, ibogalina, ibossigaina, coronaridina, voacangina, ibolutina. Sono state osservate rilevanti differenze farmacologiche tra l’estratto di alcaloidi e la sola ibogaina; un dato da tenere in considerazione nella valutazione delle proprietà terapeutiche di questo prodotto vegetale, verificato che gli studi preclinici e clinici sulle potenzialità contrastanti le tossicodipendenze sono finora stati sviluppati pressoché esclusivamente con la sola ibogaina. Ad esempio, è noto da tempo che l’iboga è un potente inibitore delle colinesterasi sieriche (Vincent e Sero, 1942), ma questa proprietà è risultata essere notevolmente più forte nell’estratto crudo della piante che nella sola ibogaina (Popik et al.,
1995). Anche le proprietà anestetiche locali – una caratteristica marcata dell’iboga – sono più forti nella scorza della radice o nel suo estratto che nella sola ibogaina.66 Dal punto di vista degli effetti psicoattivi, l’ibogaina è stata studiata inizialmente da Claudio Naranjo (1969, 1973) che, in un lavoro pionieristico e in realtà rimasto unico, esplorò la possibilità di usare questa molecola per facilitare il lavoro psicoanalitico. Osservando almeno 40 sessioni psicoanalitiche condotte su 30 soggetti, Naranjo riportò che lo stato psichico indotto da ibogaina, quando utilizzata alle dosi di 4-5 mg/kg, potrebbe essere descritto come simile a uno stato sognante ma senza perdita di coscienza. Egli definì l’ibogaina come un catalizzatore psicologico in grado di comprimere un lungo processo psicoanalitico in un arco di tempo più breve. Nello stesso periodo in cui Naranjo studiava i suoi casi, gli effetti antiadditivi dell’ibogaina furono scoperti accidentalmente da parte di un eroinomane, Howard Lotsof (1943-2010). Della prima parte della vita di Lotsof vi sono dati nebulosi e contraddittori, stando alla sua biografia, a quella della sua pagina in Wikipedia e a quelle delle organizzazioni che impiegano il “protocollo Lotsof” per il trattamento delle dipendenze. Forse nato nel Bronx a New York, visse la giovinezza nel New Jersey. Della sua situazione familiare non si sa nulla di certo. Sappiamo che divenne presto un eroinomane, e che nel 1962, all’età di 19 anni, assunse una dose di ibogaina (stimata di 500 mg) ricevuta da un amico chimico, stuzzicato dalla promessa di un “viaggio” di 32 ore. Lotsof si svegliò la mattina seguente l’assunzione di ibogaina con la constatazione di non avere più il desiderio di ricorrere all’eroina, e rimase libero dalla droga per diversi anni successivi. Sebbene Lotsof non fosse un medico, né uno scienziato, la sua esperienza personale con l’ibogaina lo portò a fare ulteriori ricerche. La fece provare ad alcuni amici tossicodipendenti, notando in diversi di questi il medesimo effetto di estinzione dei sintomi di astinenza. In un tempo in cui gli psichedelici non erano ancora tabellati, Lotsof organizzò una serie di esperimenti, in cui diede l’ibogaina a persone che volevano provarla, e tra il 1962 e il 1963 la somministrò a 20 soggetti a diverse dosi, fino ad una dose massima di 19 mg/kg. Di questi 20 soggetti, sette, dipendenti da eroina, notarono una riduzione dei sintomi dell’astinenza e del craving. Inoltre, 5 di questi 7 individui riuscirono a mantenere l’astinenza dall’eroina per 6 mesi o più. Negli anni 1967-68 Lotsof scontò una pena detentiva di 18 mesi, forse per
spaccio di LSD, o comunque per reati associati alle droghe. Prese in seguito un diploma universitario in filmologia. Dopodiché spese il resto della sua vita nello studio e nell’applicazione clinica dell’ibogaina, contattò i principali ricercatori che si occupavano di questa sostanza, e cercò ovunque di sensibilizzare gli studiosi sulle proprietà disintossicanti dell’ibogaina. Viaggiò in Europa e raggiunse anche il Gabon, dove incontrò l’allora presidente della repubblica Omar Bongo, che lo rifornì di 40 kg di radici di iboga per i suoi studi. I suoi scopi non erano puramente scientifici ma anche economici, e dal 1985 al 1992 creò cinque brevetti specifici sull’interruzione delle dipendenze (da eroina, cocaina, amfetamina, nicotina) che prevedevano l’impiego dell’ibogaina. Lotsof e i suoi assistenti somministrarono l’ibogaina a numerosi tossicodipendenti nelle nazioni e nei contesti dove fosse legalmente possibile.67 Stando alle sue affermazioni, la maggior parte di questi pazienti con una singola somministrazione di ibogaina rimaneva libera dalla dipendenza per un periodo di 3-6 mesi, e circa il 10% ne rimaneva libero per due o più anni, mentre un altro 10% tornava ad assumere droghe nel giro di due settimane dopo il trattamento (Lotsof, 1995). Effetti soggettivi dell’ibogaina Con il diffondersi della notizia delle proprietà anti-craving dell’ibogaina, specialmente per le dipendenze da oppioidi, diversi eroinomani vollero provare a disintossicarsi con questo alcaloide, operando in maniera “casalinga”, cioè per i fatti propri, dato che non incontravano medici disposti o in grado di facilitargli questo trattamento. Si trattava di assumere una singola forte dose di ibogaina, un’operazione non scevra di pericoli, sia per alcuni effetti specifici di questo alcaloide sul sistema cardiaco che vedremo più avanti, sia per la pericolosità fisica nel caso di assunzione di oppioidi subito dopo l’esposizione all’ibogaina, un evento che ha causato un certo numero di decessi e che ha contribuito al rallentamento sino alla sospensione degli studi clinici sull’ibogaina. In realtà, nella maggior parte dei casi la causa prima di queste complicanze è stata la mancanza dell’adeguata assistenza che deve supportare questo trattamento nei giorni successivi l’esposizione all’ibogaina, e ciò si è verificato non solamente nei contesti di autotrattamento, ma anche in alcuni contesti ospedalieri o delle strutture cliniche private. L’ibogaina è la molecola psichedelica con più lunga durata d’effetti, e ciò anche in caso di dosaggi bassi. Secondo le esperienze riferite dai soggetti che
hanno avuto esperienza con l’ibogaina, possiamo suddividere le fasi esperienziali come segue. La prima fase (acuta) viene vissuta tra la prima e la terza ora dopo l’assunzione e dura dalle 4 alle 8 ore. Durante questa fase, i soggetti riportano l’attivazione della memoria a lungo termine, il riaffiorare di antichi ricordi, soprattutto sotto forma di “visioni” o “sogni lucidi”; a volte vengono esperiti contatti con esseri trascendenti o con antenati, e alcuni riferiscono un “lungo passaggio”, una sensazione di galleggiamento, ecc. Sebbene non tutti i soggetti abbiano visioni, si è osservato che queste vengono facilitate mantenendo gli occhi chiusi. La seconda fase (valutativa) inizia approssimativamente 4-8 ore dopo l’ingestione e dura 8-20 ore. Durante questa fase, i precedenti “sogni” si riducono lentamente e il tono emozionale diventa neutrale e riflessivo. I soggetti riportano che l’attenzione è focalizzata sulle proprie esperienze soggettive; avviene per esempio una valutazione delle esperienze della fase acuta. Durante queste due fasi, i soggetti tendono a essere focalizzati sulla loro esperienza ed evitano ogni distrazione esterna, preferendo restare in posizione distesa, in un ambiente tranquillo. La terza fase (fase di stimolazione residua) inizia 12-24 ore dopo l’assunzione e dura 24-72 ore. I soggetti ritornano a un normale livello di attenzione verso l’ambiente esterno. Le esperienze psicoattive soggettive si riducono, e permane un moderato stato di eccitazione o di veglia residua. Una riduzione del bisogno di dormire può durare giorni o settimane (Alper, 2001). L’ibogaina nella psicoterapia di Naranjo Claudio Naranjo definisce gli effetti dell’armalina e dell’ibogaina come unici rispetto alle altre sostanze psicoattive, e li definì come oneirofrenici. Questo termine fu coniato originalmente da Ladislas Meduna (1950) e adottato in seguito da William Turner (1963), per riferirsi allo stato indotto da queste due sostanze, uno stato differente da quello indotto dagli altri psichedelici per via dell’assenza di sintomi a quei tempi definiti “psicotici”, mentre condividono con gli psichedelici la predominanza di un processo primario.68 L’armalina e l’ibogaina si caratterizzano nei loro effetti psicologici per uno stato sognante senza perdita di coscienza e senza modificazione percettiva dell’ambiente esterno, non provocano alcuna forma di deterioramento del pensiero né depersonalizzazione, e si manifesta una
intensificazione delle fantasie senza interferenza con le funzioni dell’ego. Secondo Naranjo, queste fantasie sono meglio definibili come “vere visioni” che come sogni ad occhi aperti. I temi e le immagini evocate sono prevalentemente archetipici – secondo la definizione del termine data da Jung – ricordi antichi, sepolti nell’inconscio collettivo. Questi sogni a occhi aperti non ricordano le visioni indotte da LSD o altri psichedelici classici, e Naranjo giunge a ritenerle molto più “estreme” di quelle riportate nei sogni (Naranjo, 1969: 216). Naranjo associava le proprietà defaticanti dell’ibogaina a un’azione di tipo MAO inibitoria, ma le sue conoscenze farmacologiche nei confronti di questa sostanza erano a quei tempi scarse, e inferiori rispetto a quelle che aveva dell’armina. Egli usava l’ibogaina a basse dosi (4-5 mg/kg orale e un quarto di queste per via endovenosa), e descriveva gli effetti dell’ibogaina come meno “esotici” rispetto a quelli dell’armalina. A suo parere, sebbene i contenuti archetipici siano comuni, la qualità delle fantasie è in genere maggiormente personale e riguarda il soggetto stesso, i suoi parenti e le persone significative della propria vita; allo stesso tempo, le fantasie indotte dall’ibogaina sono più facili da manipolare, sia per iniziativa del soggetto che da parte dello psicoterapeuta, di modo che, con maggiore facilità rispetto ad altre sostanze, i pazienti possono smettere di contemplare un’immagine, tornare indietro, esplorare una via alternativa in una data sequenza di immagini, riportare un’antica scena in vita, ecc. Il terapeuta può così indirizzare l’esperienza verso un’area desiderata, e questo è il fattore determinante per il successo della terapia. Gli effetti terapeutici dell’ibogaina impressionarono Naranjo più di qualsiasi altra sostanza. Egli riteneva che in questo tipo di esperienza: l’emersione del materiale inconscio è di tipo simbolico (piuttosto che assumere la forma di emozioni libere in continua trasformazione come con l’LSD), ed è quindi articolato e può essere assimilato successivamente come insight permanenti. Questi insight generalmente si manifestano quando una fantasia o una credenza che era finora inconscia o implicita e che diventa conscia, si è rivelata con una tale chiarezza al punto che il sé di una persona matura è costretto a consapevolizzare questo errore primitivo ben radicato (Naranjo, 1969: 220).
Nel 1969 Naranjo sviluppò un brevetto speciale per “un nuovo farmaco che agisce sul sistema nervoso centrale che può essere utilizzato nei trattamenti psicoterapeutici e come farmaco anti-droga”. Il farmaco era composto dall’estratto degli alcaloidi dell’iboga associato all’amfetamina (Alper, 2001).
Alcuni dei temi riportati nelle interviste dei partecipanti alle sedute con ibogaina appaiono ricorrenti e mostrano caratteristiche simili. Una delle esperienze principali sembra essere quella denominata the slide show, una ricapitolazione panoramica della memoria visiva a lungo-termine, riguardante soprattutto materiale rimosso. Tra i fenomeni maggiormente riportati v’è la notevole capacità di insight e di attribuzione di un significato all’esperienza indotto dall’ibogaina. Secondo quanto riportato da uno dei soggetti: Ho visto tutta la mia famiglia, dai giovani agli anziani, e ho compreso in che modo ogni evento della mia vita sia accaduto e come ho influenzato il corso degli eventi. Quando ho chiuso gli occhi, per la maggior parte del tempo ho avuto visioni del mio passato [...]. Un senso profondo di amore per la mia famiglia e il loro amore per me, e poi un’angoscia penetrante per il sopraggiungere del rimorso e della perdita del sentimento di fiducia nei confronti della mia famiglia, scalfito dalla ricerca incessante della droga [...]. Ho continuato a vedere scene – ricordi reali, di compagni di classe, di me che suonavo con gli amici – ma anche scene del momento presente e di una realtà alternativa in cui non avrei sprecato tanto amore e compassione che mi sono stati offerti (Brown e Alper, 2017: 8).
Un altro tema riguarda l’opportunità terapeutica che segue il trattamento con l’ibogaina, interpretato come un periodo di occasione per il cambiamento personale e riconducibile a frasi come: “puoi dire tranquillamente che l’iboga dà ai tossicodipendenti da oppioidi diversi mesi fino a mezzo anno di libertà dal craving e di espansione di consapevolezza. Questo conferisce al dipendente un periodo di tempo nel quale può tornare alla propria vita e imparare ad affrontare le cose in maniera semplice e diretta, e con onestà. L’iboga non farà il lavoro per te, ma ti aiuterà a fare il tuo lavoro” (Brown e Alper, 2017: 9). L’ipotesi di Goutarel Robert Goutarel (1909-1994), il farmacista francese che isolò diversi alcaloidi dell’iboga, ha ipotizzato che il trattamento con ibogaina elicita uno stato che presenta aspetti funzionali condivisi dal sonno REM e che avrebbe effetti importanti sull’apprendimento e sulla memoria. Durante il sonno REM sembra avvenire il riconsolidamento delle informazioni e la formazione di nuove associazioni in uno stato di aumentata plasticità neurale, mediante il riprocessamento delle informazioni apprese precedentemente e la formazione di nuove associazioni. Durante questa finestra temporale di intensificata plasticità neurale, si verifica un indebolimento dei legami patologici tra stimoli additivi e stato motivazionale al quale si sono associati. L’apprendimento patologico delle dipendenze verrebbe così modificato
dall’ibogaina. Sebbene si tratti di un’ipotesi puramente speculativa, sarebbe in relazione con l’associazione, riscontrata in letteratura, tra apprendimento, dipendenza e la funzione fisiologica; un’associazione misurata mediante elettroencefalogramma (EEG) nello stato REM riguardo al consolidamento delle informazioni apprese. Goutarel credeva in una relazione tra lo stato elettroencefalografico mediato dall’ibogaina e quello indotto dal sonno REM; un’osservazione supportata da studi su animali che riportavano uno stato EEG apparentemente attivato o desincronizzato in seguito a somministrazione di ibogaina. La desincronizzazione EEG è ritenuta determinante nella plasticità neurale responsabile dell’apprendimento e della memoria. L’azione dell’ibogaina sull’apprendimento e sulla memoria sarebbe spiegata anche dalla sua interazione con i recettori NMDA, coinvolti nella long term potentiation (LTP), un processo che si crede fondamentale nella plasticità neurale, memoria e apprendimento, e abbiamo visto come le esperienze di panoramic recall siano centrali nelle descrizioni dei soggetti che assumono ibogaina (Alper, 2001). Secondo Goutarel, le fasi esperienziali che attraversa il neofita durante i riti di iniziazione del Buiti, dove viene impiegata l’iboga come agente visionario, sono suddivisibili in stadi progressivi, che seguono il progredire dell’esperienza psichedelica. Nei primi stadi le visioni corrisponderebbero essenzialmente a quelle che gli psicoanalisti attribuiscono al “mondo sotterraneo” di Freud, mentre negli stadi più profondi le visioni potrebbero essere attribuite all’inconscio collettivo tribale (Goutarel et al., 1993). L’ibogaina agirebbe come “sostituto” del sogno, riprogrammando il cervello. Il “dimenticare” (de-programmare) le acquisizioni epigenetiche avrebbe inizio nella fase delle visioni freudiane. Dimenticando le vecchie acquisizioni, i neuroni si preparerebbero a un nuovo processo di individuazione.69 La riprogrammazione avverrebbe nella fase valutativa, fase di riflessione e rielaborazione delle visioni della prima fase. Michel Jouvet, esperto di onirologia, ha elaborato il concetto di riprogrammazione iterativa, processo che completa la fase della deprogrammazione. Secondo Jouvet, le onde di attivazione PGO (ponto-genicolo-corticali) sono responsabili della registrazione delle acquisizioni genetiche ed epigenetiche necessarie per l’individuazione del cervello umano. Essendo la neurogenesi assente nell’uomo adulto, si potrebbe considerare l’ipotesi che certi gruppi neuronali programmati geneticamente possano essere de-programmati e riprogrammati
nella finalità di una continuo processo di individuazione. Il sogno costituisce uno di questi programmi iterativi (Jouvet, 1998). La ricerca preclinica con ibogaina L’obbiettivo di Lotsof era quello di promuovere e trovare i finanziamenti per la ricerca sull’ibogaina, e a questo scopo nel 1986 fondò una compagnia privata, la NDA International, che finanziò la ricerca a Rotterdam e a New York, testando l’ibogaina in modelli animali sulla dipendenza da oppioidi. La ricerca di Rotterdam portò alle prime evidenze dell’efficacia dell’ibogaina nell’attenuare i sintomi dell’astinenza negli animali di laboratorio. Subito dopo, il dottor Glick, del team di ricerca della Albany Medical College, dimostrò che l’ibogaina era in grado di ridurre l’auto-somministrazione di morfina nei ratti. I ricercatori olandesi e statunitensi pubblicarono i primi risultati sulla riduzione della auto-somministrazione di oppioidi, cocaina, alcol e nicotina e sulla riduzione dei sintomi della sindrome d’astinenza su animali pretrattati con ibogaina (Sershen et al., 1994; Glick et al., 1992). La riduzione dell’auto-somministrazione emergeva da diversi esperimenti, con un effetto dose-dipendente e che persisteva per diversi giorni. La ripetuta somministrazione di ibogaina a distanza di una settimana per più settimane consecutive determinava un migliore risultato nei topi condizionati all’autosomministrazione di cocaina, dimostrando che un programma di disintossicazione più efficace poteva consistere nella modificazione del regime a dose unica precedentemente elaborato per la dipendenza da oppioidi, a uno costituito da dosi ripetute (Cappendijk et al., 1993). La presomministrazione di ibogaina, in media alla dose di 40 mg/kg, riduceva anche la sindrome d’astinenza (manifestata come jumping, “salto” nel topo) indotta dal naloxone. Da questi studi emergeva anche che gli effetti anti-additivi dell’ibogaina erano riconducibili al legame con il recettore NMDA (Layer et al., 1996). Sempre con studi su animali, Maisonneuve ha dimostrato che la stimolazione mesolimbica indotta dalla morfina e dalla dopamina striatale vengono bloccate dall’ibogaina, per un lasso di tempo che supera quello del metabolismo dell’ibogaina, e si è osservata una riduzione dell’efflusso di dopamina nel nucleo accumbens (Glick et al., 1994; Maisonneuve et al. 1991a,b).
Evidenza di efficacia sull’uomo In questo paragrafo presentiamo i dati provenienti dagli studi clinici, o da quelli che, sebbene non tutti controllati, sono quantomeno dotati di metodologia di ricerca medica. Dal 1989, i trattamenti con ibogaina hanno avuto luogo in Olanda in ambito non-medico, con il supporto della NDA International, del DASH (Dutch Addict Self-Help) e dell’ICASH (International Coalition Addict SelfHelp). Durante il periodo che va dal 1989 al 1993 sono stati trattati 40-45 pazienti. Sulla base delle evidenze precliniche e sui case report che suggerivano l’efficacia dell’ibogaina, la NIDA Medication Development Division incominciò a finanziare sia la ricerca preclinica che alcuni studi sull’uomo. Nel 1993, la Drug Abuse Advisory Panel della FDA americana aveva approvato uno studio di fase I sulla farmacocinetica e la sicurezza dell’ibogaina in soggetti di sesso maschile, studio guidato da Deborah Mash, una docente di neurologia all’Università di Miami, Florida, che si è dedicata particolarmente allo studio dell’ibogaina nel trattamento delle dipendenze, e nel 1995 la FDA aveva approvato un protocollo revisionato per condurre uno studio di questo tipo con soggetti dipendenti da cocaina. Nel frattempo, mentre erano in corso di approvazione ulteriori protocolli di studio sull’uomo, il decesso di una paziente olandese durante un trattamento bloccò tutti gli studi in atto, e la NIDA sospese i finanziamenti. Nonostante le indagini giudiziarie non avessero in seguito trovato alcuna responsabilità dell’ibogaina nella morte della donna, gli entusiasmi degli olandesi a proseguire le ricerche si erano smorzati.70 L’attenzione sull’efficacia dell’ibogaina si è concentrata soprattutto nella dipendenza da oppioidi e cocaina, per il suo effetto eclatante sulla sindrome di astinenza e interruzione del craving. Tuttavia, la sua azione si estende probabilmente anche ad altre dipendenze come alcol e nicotina. Questo era stato già riportato da Lotsof, che aveva creato dei brevetti anche per questo tipo di ricerche. Circa la possibilità dell’iboga di favorire l’interruzione del tabagismo, riportiamo un dato aneddotico di natura etnografica, raccolto da uno di noi (G.S.) nel corso delle sue ricerche sul campo in Gabon volte allo studio del culto religioso del Buiti. Diversi informatori di varie sette buitiste fang distribuite nella regione dell’Estuaire, nel Gabon settentrionale, affermavano spontaneamente che molti tabagisti smettevano improvvisamente di fumare in seguito al tobe si, il rito iniziatico del Buiti sincretico durante il quale il
soggetto assorbe un’enorme quantità di iboga. Questa interruzione avveniva senza che l’individuo si fosse preposto lo scopo di smettere di fumare. È opportuno considerare che queste affermazioni furono raccolte in un periodo (gli inizi degli anni ‘90) in cui in Gabon non si era ancora diffusa la notizia della ricerca dell’iboga da parte dei ntang (i Bianchi) come farmaco per l’interruzione delle dipendenze. Ciò significa che, nel contesto dell’impiego tradizionale dell’iboga, le sue proprietà di interrompere il tabagismo erano già state riconosciute. La dipendenza da oppioidi è l’indicazione più comune per la quale è stato cercato il trattamento con l’ibogaina, che avviene in genere in unica somministrazione. Dai case report descritti emerge una riduzione del craving e dei segni e sintomi di astinenza entro 1 o 2 ore dall’ingestione di ibogaina. Una serie di 33 casi sono stati presentati da Alper nel 1999; questi soggetti erano stati trattati in un setting non-medico in condizioni di studio aperto. Nonostante l’ambiente non clinico dove questi pazienti erano stati accolti, il fenomeno delle crisi d’astinenza era stato riconosciuto in quanto rappresentano un evento clinico importante e di inquadramento non ambiguo. I soggetti ammessi alle cure erano dipendenti da eroina ai quali fu somministrata una dose di ibogaina in dosaggi compresi fra 6 e 29 mg/kg. 25 di questi pazienti mostrarono risoluzione dei segni d’astinenza senza ulteriore ricerca della droga. In altri quattro si era manifestata ricerca della droga ma senza segni di astinenza, in due si erano verificati sintomi attenuati d’astinenza, e un paziente aveva avuto sintomi d’astinenza e ricerca della droga. Durante questo report è stato registrato anche il caso fatale accennato prima, legato probabilmente all’uso furtivo di eroina (Alper et al., 1999). Deborah Mash e coll. riferiscono di aver trattato oltre 150 soggetti per dipendenza di sostanze in una clinica situata nell’isola di St. Kitts e Nevis, nelle Piccole Antille, un luogo scelto per la libertà legale dell’ibogaina. Un sottogruppo di questi, 30 individui dipendenti da cocaina e/o eroina, prese parte a uno studio di fase I per determinare la sicurezza e l’efficacia dell’ibogaina nella dipendenza da droghe. Prima dell’ammissione allo studio, i partecipanti compilarono i questionari per l’Addiction Severity Index (ASI) insieme a una valutazione psichiatrica e, dopo randomizzazione delle dosi, ricevettero una dose unica di 500, 600, o 800 mg di ibogaina idroclorido in condizioni di studio-aperto. Ai pazienti veniva anche fatto compilare un questionario sull’umore (Beck Depression Inventory) e il Drug Craving Questionnaire, tre volte durante il ricovero e a un mese dalle dimissioni. Dai
risultati emergeva una riduzione significativa del punteggio dei questionari, sia nei dipendenti da oppioidi che da cocaina, e questi risultati si mantenevano fino a un mese di controllo (Mash et al., 1998). Un altro sottogruppo di soggetti, formato da 32 dipendenti da oppioidi, fu trattato con dose unica di 800 mg di ibogaina e studiato per gli effetti sulla sindrome di astinenza. I medici usarono la Objective Opiate Withdrawal Scale (OOWS) per valutare la presenza dei sintomi di astinenza, e questa mostrò come il punteggio post-ibogaina fosse significativamente più basso di quello di un’ora prima dell’assunzione dell’ibogaina. Questi pazienti mostrarono anche una riduzione nel punteggio del craving da eroina e della Beck Depression Inventory fino a un mese di follow-up. Sui pazienti del primo gruppo furono valutati anche gli aspetti sulla sicurezza dell’ibogaina. Dopo l’assunzione dello psichedelico seguiva monitoraggio cardiaco intensivo. Sei dei soggetti del gruppo mostrarono un abbassamento della frequenza cardiaca rispetto alla linea di base, uno di questi ebbe un calo significativo della pressione arteriosa, ma il monitoraggio non evidenziò anormalità all’elettrocardiogramma che si intensificassero durante il trattamento. Gli episodi ipotensivi si manifestarono solo in alcuni pazienti dipendenti da cocaina, e questi risposero positivamente alla reintegrazione fluidica. Gli effetti collaterali maggiormente osservati furono la nausea e tremore lieve. Segni vitali ed esami di laboratorio non mostravano modificazioni sostanziali. I risultati dimostrarono che a queste dosi l’ibogaina si rivelava sicura. Questa ricerca rappresentò il primo studio eseguito in un setting convenzionale di ricerca medica (Mash et al., 1998). La subcultura medica dell’ibogaina Come abbiamo riferito, in un’epoca in cui venivano negate le approvazioni per ulteriori studi clinici sia in Europa che negli Stati Uniti, l’ibogaina divenne sempre più disponibile in scenari di cura alternativi, creando i presupposti per quello che si potrebbe definire “un enorme esperimento non controllato”. Oltre alle pratiche curative svolte nelle nazioni occidentali, si è sviluppato un flusso di eroinomani, cocainomani e altri tossicodipendenti verso le regioni dell’Africa Equatoriale, coadiuvato da organizzazioni più o meno profit che facilitano il contatto con le comunità buitiste – sia sincretiche che tradizionali – per essere sottoposti al rito iniziatico e alla forte dose di iboga. Uno studio su questa “subcultura medica dell’ibogaina” ha stimato che approssimativamente 3.400 individui (più un
20-30 % di questi non dichiarati), la maggior parte dei quali per dipendenza da oppioidi, si sarebbero sottoposti a trattamenti con l’ibogaina fino al 2006 nell’Africa centro-occidentale. Molte delle cliniche che usano ibogaina operano in paesi dove l’uso è ancora consentito, e i tossicodipendenti trovano i contatti attraverso Internet, dove queste cliniche si pubblicizzano con specifici siti-web (Alper et al., 2008). Una recente rassegna retrospettiva ha raccolto i dati provenienti da trattamenti condotti nel 2015 in Messico, includendo i pazienti che si erano sottoposti al trattamento per dipendenza da oppioidi (dipendenza diagnosticata secondo il DSM V). L’ammissione dei pazienti prevedeva la compilazione del questionario ASI (Addiction Severity Index, V edizione), per la valutazione dei sintomi d’astinenza pretrattamento; i pazienti erano quindi tenuti a compilare la COWS (Clinical Opioid Withdrawal Scale), la SOWS (Subjective Opiate Withdrawal Scale) e la BSCS (Brief Substance Craving Scale), raccolte da un medico a 24 e 48 ore dopo la somministrazione di ibogaina. I risultati dei questionari post-trattamento venivano confrontati con quelli pretrattamento. Si tratta del campione di pazienti sinora più grande osservato nella disintossicazione da oppioidi, con un totale di 50 partecipanti. Gli oppioidi maggiormente usati erano eroina e oppioidi da prescrizione. Il confronto dei risultati COWS ha mostrato una riduzione significativa del punteggio post-trattamento. Su un campione di 50 partecipanti, a 48 ore dal trattamento, il 78% dei pazienti non esibiva segni di astinenza da oppioidi, il 20% mostrava segni lievi, il 2% segni moderati. Dal punteggio SOWS è emerso che prima del trattamento i pazienti presentavano una sindrome d’astinenza71 che si riduceva a 24 e 48 ore dopo l’ibogaina. A 48 ore, il 68% dei pazienti riferiva una sindrome di astinenza lieve, il 10 % ne riferiva una moderata, ma il 22% riferiva ancora una sindrome d’astinenza severa. La scala BSCS a 48 ore mostrava che il 79,2% dei pazienti aveva un craving minimale per gli oppioidi, il 14,6% un craving moderato, e il 6,3% un craving grave. In conclusione, i risultati erano positivi sia nell’indagine soggettiva che obiettiva della sindrome d’astinenza e del craving da oppioidi (Malcolm et al., 2018). Profilo di legame recettoriale e farmacocinetica Esponiamo di seguito i modelli neurofarmacologici che spiegherebbero le
proprietà disintossicanti dell’ibogaina. Secondo l’analisi del profilo di legame recettoriale dell’ibogaina, sono implicati meccanismi multipli nell’attività antiadditiva. Per stabilire il vasto profilo farmacologico dell’ibogaina sono stati usati circa 50 tipi distinti di neurorecettori, canali ionici e componenti del sistema di secondi messaggeri. I risultati dimostrano che l’ibogaina interagisce con diversi target molecolari, compresi i recettori μ e κ oppioidi, muscarinici M1 e M2, e siti di reuptake delle monoamine. Inoltre, l’ibogaina interagisce con il recettore NMDA e con il canale del sodio. Non si è osservata affinità per i 5-HT2, il che implica che l’attività allucinogena dell’ibogaina è mediata da altri recettori. Più avanti vedremo che l’ibogaina agisce anche sui recettori sigma-2 (σ2) (Bauman et al., 2001). Verso metà degli anni ‘90, l’équipe di Debora Mash scoprì e identificò il metabolita principale dell’ibogaina, la 12-idrossibogamina (noribogaina). L’ibogaina viene metabolizzata a noribogaina nella parete intestinale e nel fegato, e la via metabolica principale è la O-demetilazione da parte del citocromo CYP2D6. Oltre a questo, altri due citocromi sono responsabili del suo metabolismo (CYP2C9 e CYP3A4). Studi in vivo hanno dimostrato un’ampia variabilità metabolica per l’ibogaina, dipendente dalla distribuzione polimorfica del CYP2D6, e per questo motivo gli individui possono essere classificati come metabolizzatori veloci o lenti di ibogaina. È opportuno considerare che anche molti farmaci sono substrato di questo enzima e, nel caso di soggetti tossicodipendenti, che sono soliti assumere una molteplicità di sostanze, queste potrebbero essere metabolizzate dallo stesso citocromo epatico, interferendo nel metabolismo e aumentando la possibilità di reazioni avverse gravi. Dopo 24 ore dall’ingestione dell’ibogaina, quasi il 90% di questa è stata trasformata in noribogaina, la quale si presenta a concentrazioni ancora elevate. Per i metabolizzatori lenti via CYP2D6, la formazione di noribogaina avviene per opera degli altri citocromi citati (CYP2C9 e CYP3A4). La potenza di affinità della noribogaina per i recettori μ-oppioidi è risultata maggiore rispetto a quella dell’ibogaina (Mash et al., 1995). Tossicità cerebellare dell’ibogaina Lo sviluppo della ricerca dell’ibogaina come farmaco anti-additivo è stato ostacolato, oltre che dalla casistica di reazioni avverse, dalle incertezze sulla potenziale neurotossicità cerebellare emersa da studi in vivo. O’Hearn e
Molliver avevano mostrato che dosi elevate di ibogaina (100 mg/ kg) provocano degenerazione delle cellule del Purkinje nei ratti. Tuttavia, trovarono che una dose di 40 mg/kg di ibogaina, effettiva nel ridurre l’autosomministrazione di morfina e cocaina, non mostrava degenerazione neuronale, concludendo che le proprietà anti-additive e quelle degenerative dell’ibogaina riflettevano azioni differenti del farmaco, dose-dipendenti (O’Hearn e Molliver, 1993; Molinari et al., 1996). Nel protocollo di fase I della Mash, è stata valutata anche la potenziale tossicità cerebellare sull’uomo, mediante misurazioni sulla stabilità posturale, il Neurotest, la posturografia dinamica, e l’esame clinico neurologico; analisi dalle quali non sono stati evidenziati cambiamenti indicativi di danno cerebellare (Mash et al.,1998). L’azione agonista dell’ibogaina sui recettori sigma-2 potenzia la trasmissione eccitatoria nelle proiezioni olivocerebellari, e ciò potrebbe essere responsabile del danno neurotossico delle cellule di Purkinje verificatosi sui ratti. Ma le dosi somministrate agli animali sono di gran lunga superiori a quelle somministrate nel trattamento della dipendenza, e queste ultime dosi non si sono mostrate neurotossiche né nei primati né nel topo. Nell’analisi dei casi di decesso avvenute in corso di trattamento con ibogaina, in alcuni soggetti si erano manifestate crisi tonico-cloniche, attribuibili alle crisi di astinenza da alcool o benzodiazepine, e non a tossicità cerebellare. D’altronde, la stimolazione cerebellare è stata ipotizzata come un possibile trattamento antiepilettico, e si è visto che l’ibogaina rappresenta un fattore protettivo verso le convulsioni nell’animale, attraverso l’azione antagonista dell’NMDA (Alper et al., 2012). Tutto ciò evidenza un’esagerazione della tossicità cerebellare che è stata attribuita all’ibogaina. Analisi critica dei decessi per ibogaina All’ibogaina sono stati attribuiti una serie di decessi, sebbene a una più attenta analisi diversi di questi non siano da attribuire all’azione diretta della sostanza, e in certi casi la sostanza non avesse nemmeno a che vedere con le cause del decesso. Uno di questi casi è quello studiato dal gruppo di Deborah Mash, che fu coinvolto nella valutazione neuropatologica di una donna tossicodipendente che si era sottoposta a trattamento disintossicante con ibogaina. Alla donna furono somministrate nel giro di 15 mesi quattro dosi di ibogaina nella fascia fra i 10 e i 30 mg/kg. La donna soffriva di dipendenza da oppioidi e cocaina.
Durante i controlli richiesti dal programma di disintossicazione in una clinica di Miami, la paziente fu ricoverata per la valutazione di un tremore. All’esame clinico presentava un’ulcerazione alla coscia, e parametri vitali lievemente alterati, mentre i parametri neurologici erano normali. Fu dimessa dopo somministrazione di clonidina. Tornata a New York, le furono somministrate benzodiazepine per il trattamento di ansia e insonnia. La paziente, tornata a Miami, raccontò a un’amica di aver vomitato in seguito a ingestione di pesce crudo, ma non si rivolse ai medici, nonostante il peggioramento di questo sintomo, e morì. L’autopsia rivelò una trombosi dell’arteria mesenterica con infarto del piccolo intestino, e a ciò fu attribuita la morte. La sorgente di infezione (l’ulcerazione alla gamba) aveva innescato un processo trombotico con infarto intestinale. Gli esami tossicologici erano positivi solo per le benzodiazepine. Alla valutazione neuropatologica, non si evidenziò degenerazione delle cellule del cervelletto e le cellule del Purkinje erano normali. L’ultima somministrazione di ibogaina aveva preceduto di 25 giorni la morte della paziente. Il gruppo di Deborah Mah concluse che il decesso non era stato causato, né direttamente né indirettamente, dal trattamento con ibogaina, e che alle dosi usate per la disintossicazione il rischio di tossicità cerebellare resta basso (Mash et al., 1998). A parte i casi dubbi o insussistenti, tra il 1990 ed il 2008 sono stati elencati 19 casi di decesso associati all’ingestione di ibogaina, sei dei quali in seguito a insufficienza cardiaca acuta o arresto cardiopolmonare. I rischi maggiori di tossicità da ibogaina nell’uomo sono in effetti di natura cardiaca, e sono legati al prolungamento dell’intervallo QT con insorgenza di torsione di punta.72 Questo effetto dell’ibogaina fu scoperto solo in un secondo momento, dato che nello studio di Mash e coll. (1998) i test tossicologici preclinici sul cane non avevano evidenziato un allungamento del QT, e non era stata osservata alcuna anomalia dell’ECG nel monitoraggio continuo riportato. L’ibogaina ha la capacità di ridurre i potenziali di membrana attraverso l’interazione con una subunità proteica del canale al potassio voltaggiodipendente cardiaco codificata dal gene hERG. Mutazioni di questa proteina sono responsabili di una sindrome del QT lungo. Anche alcuni farmaci hanno questo effetto deleterio. Nello specifico, l’ibogaina lega la proteina e la blocca nello stato conformazionale aperto e inattivo. Analisi farmacocinetiche hanno dimostrato che le concentrazioni plasmatiche terapeutiche per trattare i pazienti tossicodipendenti (da 6 a 30 mg/kg di
ibogaina) corrispondono ai livelli plasmatici che determinano allungamento del QT (Schep et al., 2016), il che potrebbe essere fatale soprattutto in quei pazienti con storia di abuso di agenti simpaticomimetici come cocaina e anfetamine, che di per sé inducono degenerazione cardiaca (Koenig e Hilber, 2015; Rubi et al., 2016).73 Un’altra concausa per la tossicità cardiaca è rappresentata da un fattore di ordine farmacocinetico, nei soggetti che per motivi di polimorfismo genetico sono metabolizzatori lenti via CYP2D6 – l’isoenzima maggiormente responsabile per il metabolismo dell’ibogaina – provocando aumento delle concentrazioni plasmatiche del farmaco. Sono stati riportati diversi casi di pazienti che hanno sviluppato allungamento QT e aritmie cardiache in seguito a ingestione di ibogaina (Pailing et al., 2012; Pleskovic et al., 2012). Effetto dell’ibogaina sui recettori oppioidi I recettori oppioidi sono accoppiati negativamente all’adenilato ciclasi, e sia l’ibogaina che la noribogaina potenziano in maniera selettiva l’inibizione di questo enzima mediata dal recettore. Questi composti non agiscono né da agonisti né da antagonisti sui recettori oppioidi. L’antagonismo dell’attività motoria indotta dalla morfina nei ratti sarebbe dovuta non a un blocco dei recettori, bensì a un antagonismo funzionale. Anche l’attenuazione della sindrome d’astinenza nei topi dipendenti da morfina descritta in studi in vivo, non può essere attribuita alla sostituzione dell’ibogaina come un agonista, e questa migliorerebbe la sindrome d’astinenza potenziando gli effetti residui della morfina. Si ipotizza che anche il ridotto introito di alcol in seguito alla somministrazione di ibogaina negli alcolisti possa essere mediato da un potenziamento delle azioni degli oppioidi endogeni indotto da ibogaina. Anche se il ruolo comportamentale dell’ibogaina sui recettori oppioidi è al momento solo speculativo, in quanto si basa su scarsi dati, è probabile che l’ibogaina potenzi l’effetto analgesico della morfina, sebbene non abbia potere analgesico intrinseco (Rabin e Winter, 1996). In questo modo l’ibogaina potenzia la letalità degli oppioidi, non attraverso il legame sui recettori come farebbe un agonista, piuttosto potenziando il segnale intracellulare indotto da questi (antagonismo funzionale). Se l’ibogaina fosse un agonista oppioide, non potrebbe essere tollerato dagli individui oppioidinaive: le dosi di metadone somministrate per il controllo delle crisi di astinenza negli individui tolleranti supererebbero la dose letale stimata di 40-
50 mg negli individui che non hanno tolleranza agli oppioidi; l’ibogaina è capace di controllare le crisi di astinenza come fa il metadone. Il potenziamento evidente degli effetti tossici e analgesici degli oppioidi da parte dell’ibogaina può essere stato determinato nei decessi in cui sono stati assunti oppioidi in prossimità temporale all’ingestione di ibogaina. Nel caso fatale della giovane donna olandese che abbiamo citato sopra, questa aveva fumato eroina poco dopo aver assunto ibogaina e poco prima del decesso. Dalle analisi tossicologiche fu evidenziata la presenza di una concentrazione di morfina pari a quella che nell’uomo adulto si misura mezz’ora dopo aver fumato eroina riscaldando un foglio di carta stagnola (metodo conosciuto come chasing the dragon), suggerendo il potenziamento della tossicità degli oppioidi come causa di morte (Alper et al., 2012). Per quanto riguarda la noribogaina, questa condivide con la buprenorfina alcune caratteristiche farmacodinamiche. La buprenorfina è un’alternativa al metadone per la terapia di mantenimento della dipendenza da oppioidi. Sia la buprenorfina che la noribogaina sono agonisti μ. Paragonata all’alta affinità come agonista parziale della buprenorfina, la noribogaina ha un’affinità recettoriale più bassa, ma aumentata attività intrinseca rispetto alla buprenorfina come agonista μ. La buprenorfina ha anche effetto di antagonista-κ oltre a quello di agonista parziale μ. La noribogaina lega i recettori κ, ma agisce come agonista parziale. Entrambi i farmaci hanno una lunga durata d’azione dovuta alla lenta frazione di dissociazione dai siti dei recettori oppioidi. Quindi, l’abilità dell’ibogaina di inibire il craving da oppioidi può essere dovuta al profilo misto sui recettori μ e κ da parte del suo metabolita noribogaina. In confronto, l’ibogaina è un antagonista μ più potente e un agonista κ più debole. Dato il suo metabolismo, gli effetti dell’ibogaina sono dovuti più alla miscela noribogaina-ibogaina che alla sola ibogaina (Maillet et al., 2015). Per l’ibogaina non ci sono al momento studi di tossicità sull’uomo, e i dati che abbiamo finora provengono da studi su animali. Per stabilire il rischio di tossicità sull’uomo negli studi clinici, si parte ad esempio dalla definizione del valore NOAEL (no observable adverse effect level), definito come la dose più alta alla quale una sostanza non causa un evento avverso in test su animali, che per l’ibogaina è stata calcolata in 25 mg/kg intraperitoneale. Questo valore può essere estrapolato all’uomo attraverso calcoli matematici di conversione mediante un fattore di sicurezza. Il valore NOAEL
nell’animale viene così convertito a una dose equivalente nell’uomo (HED, human equivalent dose). Da questi calcoli è emerso un valore stimato di 0,87 mg/kg, un valore che appare dubbio, poiché è di gran lunga inferiore alle dosi utilizzate nei centri per l’interruzione delle dipendenze (Schep et al. 2016), ed è di gran lunga inferiore alle concentrazioni di ibogaina presenti nelle dosi di scorza di radice di iboga delle iniziazioni tradizionali buitiste. Dal momento che l’ibogaina potrebbe essere considerata il profarmaco della noribogaina, e che questa possiede tutte le proprietà detossificanti, se fosse dimostrata la sua sicurezza in studi aperti, ciò potrebbe giustificare studi in doppio cieco di confronto tra noribogaina e clonidina-naltrexone (Mash et al., 2001). Dai precedenti studi in vivo sulla farmacologia della ibogaina e della noribogaina, emergono differenze farmacodinamiche e comportamentali rilevanti per il loro uso in clinica. Nonostante le strutture chimiche simili, ibogaina e noribogaina esibiscono differenze farmacologiche. Per esempio, l’ibogaina induce tremori e atassia, mentre la noribogaina no; l’ibogaina è uno stimolatore dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene più potente della noribogaina; e sebbene entrambi i composti aumentino i livelli extracellulari di serotonina interagendo con il SERT, la noribogaina è più potente in questa funzione. Gli effetti serotoninergici, simili a quelli di altri inibitori del reuptake della serotonina, potrebbero contribuire agli effetti terapeutici. La tossicità della noribogaina è risultata essere 2,4 volte più bassa rispetto all’ibogaina (Kubiliene˙ et al., 2008). Ancora, la noribogaina ha minore affinità per i recettori σ e per gli NMDA rispetto all’ibogaina, e si ipotizza che gli effetti neurologici quali tremore e atassia siano mediati da questi recettori. In base a questi dati, sembra che la noribogaina possa essere un’alternativa più sicura ed efficace nel trattamento delle tossicodipendenze (Baumann et al., 2001). Studi prospettici con ibogaina Come detto, la ricerca clinica con l’ibogaina per il trattamento delle tossicodipendenze si è fermata, a causa soprattutto delle reazioni avverse e dei decessi attribuiti al trattamento. Ma se dalla casistica delle reazioni avverse e letali si sottraessero i casi dovuti a mancanza di adeguato controllo medico nel corso della terapia, quelli dovuti all’esposizione agli oppioidi subito dopo l’assunzione di ibogaina – casi anche questi da ascrivere all’inadeguatezza del supporto clinico –, oltre a quelli fortemente dubbi o
insussistenti, la statistica avversa si ridurrebbe notevolmente, e sarebbe obiettivamente tale da non giustificare la sospensione delle ricerche nei confronti di un farmaco che resta promettente, per via di quella peculiare proprietà di “resettare” i circuiti neuronali coinvolti nelle dipendenze. L’unico studio clinico svolto con adeguato supporto e controllo medico – quello dell’équipe della Mash – aveva evidenziato un buon livello di sicurezza di questo farmaco. Magari, si tratterrà di cercare molecole affini all’ibogaina maggiormente manipolabili in termini di sicurezza, cercando eventualmente fra le decine di altri alcaloidi prodotti dall’iboga e che non sono ancora stati oggetto di approfonditi studi farmacologici, o forse sarà sufficiente studiare ancor più approfonditamente l’ibogaina e le noribogaina, in modo da focalizzare al meglio la loro finestra terapeutica. Comunque sia, riteniamo fortemente auspicabile la ripresa della ricerca sull’ibogaina. In questi ultimi anni, MAPS ha completato due studi osservazionali sugli effetti a lungo termine del trattamento con ibogaina su pazienti dipendenti da oppioidi che si sottoponevano al trattamento in centri di trattamento indipendenti in Messico e Nuova Zelanda. Il primo è stato condotto in Messico, Baja California, su 30 pazienti che hanno ricevuto una dose media totale di 1,540 ± 920 mg di ibogaina HCl. I pazienti erano dipendenti da ossicodone ed eroina, e alcuni si erano già sottoposti ad altri trattamenti per la disintossicazione. I risultati sono stati valutati con la comparazione dei punteggi ottenuti dal questionario SOWS pre e post-trattamento. La Addiction Severity Index (ASI) è stata fatta compilare a intervalli trimestrali fino a un anno di follow-up, prima e dopo il trattamento, paragonando i risultati finali con il punteggio della linea di base pre-trattamento. Dopo il trattamento il punteggio SOWS si è ridotto raggiungendo un valore statisticamente significativo (p < 0,001). A un mese di follow-up, 15 soggetti (50% del campione) hanno riportato nessun uso di oppioidi durante i 30 giorni precedenti. Tutte le misurazioni hanno evidenziato miglioramenti che raggiungevano il massimo a un mese dal trattamento, per tornare lentamente alla situazione precedente nel corso dei mesi successivi. Nonostante il limite di uno studio osservativo e senza controllo, l’ibogaina mostra un’efficacia statisticamente significativa nella disintossicazione da oppioidi, con riduzione dell’uso della sostanza a un mese, effetto che si è mantenuto fino a 12 mesi in un sottogruppo di pazienti (Brown e Alper, 2017). Il secondo studio, neozelandese, ha descritto l’effetto di una dose unica di
ibogaina su dipendenti da oppioidi a 12 mesi dal trattamento. Lo stato legale dell’ibogaina in Nuova Zelanda permette la procedura e il monitoraggio dei risultati del trattamento. La Addiction Severity Index-Lite (ASI-Lite) è stata utilizzata per valutare la severità della dipendenza e gli effetti longitudinali del trattamento; i sintomi dell’astinenza sono stati misurati con la Subjective Opioid Withdrawal Scale (SOWS), prima e immediatamente dopo il trattamento; gli effetti secondari sulla depressione con la Beck Depression Inventory-II (BDI-II). In tutte le scale si è evidenziata una riduzione statisticamente significativa del punteggio nei pazienti che avevano completato tutte le interviste. In accordo con gli studi precedenti, in questo studio è stata confermata l’efficacia dell’ibogaina nell’alleviare l’astinenza, nella riduzione del craving e nell’uso, e in alcuni casi ha portato all’interruzione dell’esposizione alla droga. Tuttavia, anche in questo studio è stato registrato un decesso in corso di trattamento, che è stato sottoposto al giudizio di due investigatori, il primo un medico legale ed il secondo della New Zealand’s Health and Disability Commissioner (HDC). Quest’ultima ha trovato che il fornitore del trattamento era in violazione del dovere di prestare assistenza, ma non è stata in grado di dare una spiegazione alle cause di morte. Ciò implica che, nonostante gli evidenti risultati positivi, resta un rischio specifico di mortalità temporalmente associato al trattamento (Noller et al., 2017).
CAPITOLO 12
GLI PSICHEDELICI IN ALTRE PATOLOGIE
Raduniamo in questo capitolo altre possibili applicazioni terapeutiche degli psichedelici, incluse quelle per le quali l’efficacia clinica non dipende dalla componente psicologica dei loro effetti ma da meccanismi più prettamente chemioterapici, come nei casi del cancro e del Parkinsonismo.
Beta-carboline e ayahuasca nella terapia del cancro Un’ampia aneddotica riporta casi di persone che sono state aiutate dall’ayahuasca nella cura del cancro. Da una ventina d’anni i centri urbani dell’Amazzonia peruviana, quali Iquitos e Pucallpa, si sono trasformati in luoghi di pellegrinaggio, dove migliaia di occidentali provenienti da tutto il mondo, perlopiù malati di cancro, si sottopongono a cicli intensivi di assunzione della “sacra medicina”, nella speranza di un salvifico miracolo. Se da un lato questo fenomeno è sostenuto da un certo grado di mitologia e di “fede”, tale da poter essere paragonato in un’ottica sociologica a ciò che accade a Lourdes, dall’altro lato la ricerca scientifica parrebbe confermare che c’è qualcosa di vero circa le acclamate proprietà anticancerogene dell’ayahuasca. Sono tuttavia ancora scarsi i dati clinici riportati in maniera dettagliata. In una rassegna del 2013 promossa dallo psichiatra brasiliano Eduardo Schenberg, sono stati analizzati nove casi di pazienti malati di cancro (alla prostata, cervello, ovaia, uterino, stomaco, mammella e colon) che avevano consumato l’ayahuasca come parte del trattamento terapeutico. Diversi di questi casi avevano ottenuto un miglioramento, in uno era stato constatato un
peggioramento della situazione clinica, e in un altro la valutazione dei risultati è risultata difficoltosa. Sebbene si tratti per la maggior parte di casi aneddotici, è importante sottolineare come tutti i pazienti avessero ottenuto dei benefici dall’assunzione dell’ayahuasca, valutati in termini di condizioni generali di salute, degli aspetti fisici e psicologici, di una migliore gestione e accettazione della loro patologia, e di una maggior comprensione dell’importanza dell’ambiente e dell’alimentazione per il proprio benessere. Nell’esperienza con l’ayahuasca, sembra importante intervenire con tecniche olistiche in cui vengono valutate le credenze e le tendenze del pensiero del paziente, con l’obbiettivo di minimizzare lo stress, il dolore emotivo, l’ansia, la depressione e migliorare la qualità di vita (Schenberg, 2013). Proprietà anticancerose degli alcaloidi dell’armala È stato stimato che oltre il 46% dei nuovi farmaci e nuovi candidati farmacologici per la terapia anticancro approvati dalla FDA tra il 1989 ed il 1995, sono prodotti naturali o derivati di prodotti naturali. Tra questi, gli alcaloidi beta-carbolinici, in particolare l’armina, hanno mostrato spiccate attività anticancerose in vari tipi cellulari (Gao et al., 2017). Sin dai tempi antichi gli alcaloidi dell’armala – presenti in piante quali il Peganum harmala, denominata popolarmente in italiano pègano (Samorini, 2016) – sono usati nella terapia del cancro. Questi rimedi tradizionali trovano in gran parte una spiegazione nei numerosi studi pre-clinici sulle proprietà antiproliferative e proapoptotiche dell’armina e dei suoi derivati. Il pègano è la pianta medicinale maggiormente impiegata nel trattamento del cancro dai curatori tradizionali iraniani, e generalmente viene usata in combinazione con un’altra pianta, la Dracocephalum kotschyi, contenente il flavone xantomicrolo, dotato di spiccate proprietà citotossiche. La proporzione delle due piante è di 9 parti di armala ed 1 di D. kotschyi. Studi in vitro sugli effetti degli estratti dei semi di pègano hanno evidenziato per gli alcaloidi dell’armala, in particolare per l’armina, una potente azione inibitrice sullo svolgimento della doppia elica di DNA, azione che permette normalmente la replicazione del DNA. L’enzima che catalizza questa reazione è la DNA topoisomerasi I, che viene inibita in vitro dall’armina. Oltre ad avere un ruolo importante nelle varie fasi della replicazione del DNA, questo enzima contribuisce a mantenere la stabilità del genoma, ed è considerato un bersaglio delle terapie antibatteriche e antineoplastiche (Sobhani et al., 2002).
Tra le varie forme di neoplasie curate dalle fonti vegetali che contengono armina, emergono soprattutto quelle del tratto digerente; sebbene i meccanismi biochimici non siano ancora stati delucidati, l’armina esibisce effetti potenti antitumorali in vitro, promuovendo l’autofagia e l’apoptosi in colture cellulari di carcinoma gastrico (Chuan et al., 2017). Inoltre, l’armina inibisce in maniera dose-dipendente cellule di carcinoma del colon, inducendo apoptosi mitocondriale mediante inibizione delle vie di trasduzione del segnale Akt ed ERK, e arrestando il ciclo cellulare nelle fasi S e G2/M (Liu et al., 2016). Gli effetti antiproliferativi dell’armina sono stati dimostrati anche su cellule di carcinoma epatico (Zhang et al., 2015). Altri studi in vitro hanno evidenziato per l’armina un’inibizione tempo- e dose-dipendente della capacità di proliferazione delle cellule tumorali e l’induzione di apoptosi di cellule di carcinoma tiroideo. Le capacità di migrazione e invasione delle cellule tumorali nei tessuti sani vengono ridotte e, sempre secondo osservazioni in vivo, l’armina è in grado di ritardare significativamente la crescita del cancro della tiroide in maniera dosedipendente (Ruan et al., 2017). Anche la proliferazione e la migrazione di cellule di carcinoma ovarico in coltura (SKOV-3) vengono soppresse in maniera significativa dall’armina attraverso l’inibizione della via del segnale ERK/CREB (Gao et al., 2017). Una delle funzioni biologiche dell’armina responsabili delle proprietà anticancerose consiste nell’inibizione della protein chinasi DYRK1A. L’importanza di quest’azione risiede nel fatto che la iper-espressione di questa proteina è implicata in diverse patologie, nell’oncogenesi, nella proliferazione cellulare incontrollata e nella resistenza ai chemioterapici. L’inibizione della DYRK1A induce l’attivazione della caspasi-9 (le caspasi sono un tipo di proteasi), e termina con l’apoptosi massiva di differenti tipi di cellule maligne e di cellule di melanoma, che sono forme tumorali intrinsecamente resistenti agli stimoli apoptotici per iperespressione della DYRK1A. Per queste sue proprietà, l’armina potrebbe prestarsi come modello per la sintesi di nuovi analoghi beta-carbolinici ad essa strutturalmente correlati con le stesse proprietà antitumorali (Frederick et al., 2012). Gli estratti dei semi di Peganum harmala si sono rivelati in vitro utili anche come fattori anti-angiogenetici, grazie alla down-regulation di fattori di crescita come il VEGF (vascular endothelial growth factor) (Yavari et al., 2015).
Oltre agli studi in vitro e in vivo, sono stati recentemente pubblicati due interessanti case report umani sul trattamento del cancro con estratti di Peganum harmala, descritti dall’équipe israeliana di Ephraim Lansky (2017: 189-200). Un primo caso ha riguardato un giovane 29enne affetto da un oligoastrocitoma ad alta malignità; dopo numerose escissioni chirurgiche e terapie tradizionali senza successo, il giovane decise di passare alle terapie alternative con erbe medicinali (compreso l’olio di Cannabis), dieta chetogenica e semi di pègano. Dopo quattro anni di queste terapie e due anni di somministrazione continua di semi di pègano, il paziente ha ottenuto una remissione completa dal tumore. La dose di pègano somministrata non aveva raggiunto quelle consigliate dai rimedi tradizionali (2-6 grammi), ma aveva apportato molti benefici psico-fisici, tra i quali un miglioramento della qualità del sonno e la stimolazione dell’appetito; inoltre, aveva favorito la propensione a uno stile di vita con tendenze a sentimenti di trascendenza e di connessione con la natura (Lansky et al., 2017: 189-194). Nel secondo caso è stata descritta la somministrazione dell’armina a livello transdermico. Una donna di 53 anni con diagnosi di carcinoma ovarico decise di sottoporsi a trattamenti fitoterapici con olio di Simpson (Cannabis), di semi di melagrana e di Peganum harmala, resi sotto forma di estratti. Dopo un iniziale fallimento della terapia a base di pègano, che prevedeva l’ingestione degli estratti, il medico decise di cambiare strategia e di utilizzare il pègano come formulazione topica. Gli alcaloidi dell’armala sono fluorofori o fluorocromi, cioè sono fluorescenti ed emettono luce; possono essere fotoattivati e diventare potenti fitotossine fototossiche. Alcuni veicoli facilitano la penetrazione dell’armina nell’organismo attraverso applicazioni transdermiche: per questo motivo fu deciso di tentare l’applicazione topica del pègano preparato sotto forma di estratto alcolico dei semi e combinato prima con la dimetilsulfosside (DMSO) e quindi con glicerolo, per poi essere applicato sulla cute in corrispondenza della massa tumorale anteriormente e posteriormente. Dopo l’applicazione dell’unguento, una lampada a raggi infrarossi veniva proiettata sulla regione per favorire l’attivazione degli alcaloidi. In seguito alla seconda seduta di somministrazione dell’unguento, dopo diverse ore la paziente cominciò ad avvertire i segni di un’intossicazione acuta da pègano, con vomito, incoordinazione motoria e visione offuscata, probabilmente perché non aveva lavato via la miscela dalla cute dopo la seduta, lasciandola agire tutta la notte. Questa fu la prova che
l’estratto di pègano aveva potuto attraversare la cute, e quindi della fattibilità di una sua applicazione transdermica (Lansky et al., 2017: 195-9). Immunoregolazione e potenziale anticancerogeno del DMT Studi sugli effetti neurofisiologici e immunologici dell’ayahuasca hanno evidenziato che questa possiede un effetto immunomodulante, caratterizzato dalla redistribuzione dei sottotipi linfocitari, una riduzione della conta dei linfociti CD4 e un aumento delle cellule natural killer (NK) (Santos et al., 2011). L’aumento delle NK potrebbe essere benefico, poiché queste cellule sono coinvolte nella lotta alle infezioni virali e alle cellule cancerose. Queste proprietà sono state attribuite al DMT presente nell’ayahuasca, e sembrano mediate dal suo legame con il recettore sigma-1 (Santos et al., 2012). Il DMT agisce da agonista del recettore sigma-1, ed è al momento l’unico allucinogeno che si conosca ad agire su questo recettore. Il sigma-1 non sembra essere implicato nelle proprietà visionarie del DMT, ma parrebbe svolgere importanti funzioni fisiologiche come la modulazione del sistema immunitario. In questo senso, esso protegge il sistema nervoso dagli insulti infiammatori, prevenendo alcune malattie neurodegenerative, e regola la differenziazione delle cellule del sistema immunitario favorendo l’eliminazione delle cellule maligne (Szabo et al., 2014). È stata osservata un’ampia distribuzione dei recettori sigma-1 in molte linee cellulari di tumore umano, come quello del polmone, della prostata, del colon, delle ovaia, della mammella e del cervello, dove potrebbero rappresentare dei bersagli importanti della terapia antineoplastica (Schenberg, 2013). La somministrazione di DMT in vitro ha evidenziato anche un aumento dei livelli di interferone γ e interferone ß in colture di cellule NK e cellule dendritiche. Gli interferoni non hanno solo azioni antivirali, ma possono essere considerati potenti fattori anticancerosi. Il bersaglio della modulazione della risposta all’interferone è effettivamente prevista tra le moderne strategie farmacologiche per favorire l’efficacia della terapia del cancro (Frecska et al., 2013). Citiamo ancora un recente studio che è partito dall’individuazione di un insieme di alcaloidi nell’Erythroxylum pungens, una pianta dell’area ecologica della caatinga brasiliana appartenente alla famiglia delle Erytroxylaceae. Oltre ad alcaloidi tropanici, è stato sorprendentemente ritrovato il DMT, che non era mai comparso nelle precedenti analisi
biochimiche di questa famiglia. Si è compreso che la produzione di DMT era stata una risposta della pianta a condizioni di stress ambientali a cui era stata sottoposta, in quanto era stata coltivata in un’area ecologica dove non si manifestavano piogge da circa cinque anni. Il dato più interessante per il nostro tema riguarda i successivi test di proliferazione cellulare eseguiti con il DMT isolato dalla pianta, che hanno evidenziato un suo significativo effetto citotossico (Pereira Macedo et al., 2018). Il DMT aveva già evidenziato un potenziale citotossico su colture di monociti di sangue periferico, dove aveva potenziato la risposta citotossica delle cellule del sistema immunitario (monociti e linfociti) nei confronti di cellule tumorali. Quest’azione citotossica era stata permessa dall’inibizione di un’enzima, la IDO (indolamina 2,3 diossigenasi), un meccanismo che è stato considerato una possibile strategia per la terapia anticancro (Tourino Cavalheiro et al., 2013). In conclusione, la combinazione delle beta-carboline e del DMT nell’infuso di ayahuasca permette un’azione sinergica contro le cellule tumorali. Innanzitutto, l’armina e le altre beta-carboline permettono al DMT di entrare nel circolo sanguigno insieme agli altri componenti dell’infuso; l’armina inibisce la formazione di nuovi vasi tumorali (neoangiogenesi), riduce la proliferazione delle cellule tumorali e induce apoptosi. Contemporaneamente, una volta entrato nel tessuto tumorale il DMT è in grado di penetrare lo spazio intracellulare attraverso i trasportatori di membrana SERT e VMAT2. Secondo un’ipotesi relativa alla funzione del legame del DMT con il recettore sigma-1, una volta attivato questo recettore potrebbe influenzare l’influsso di calcio nel mitocondrio, provocando uno sbilanciamento energetico cellulare che indurrebbe l’apoptosi (Schenberg, 2013).
Proprietà antinfiammatorie degli psichedelici Nel corso degli studi delle azioni del DOI74 sulla risposta immunitaria, è stata osservata una spiccata proprietà antinfiammatoria di questa molecola, inclusa la repressione del TNF-α, l’inibizione della espressione genica delle molecole di adesione cellulare ICAM-1 e VCAM-1, e della citochina infiammatoria IL-6. Il TNF-α è uno dei mediatori principali della risposta infiammatoria e attiva numerose vie di trasduzione del segnale proinfiammatorio. Sebbene tutte le molecole psichedeliche abbiano presentato
una certa attività antinfiammatoria, il DOI è risultata la molecola che esprime quest’attività per ordini di potenza superiore. Dall’analisi della letteratura storica, l’azione della serotonina sul recettore 5HT2a è stata sempre vista come pro-infiammatoria; il fatto che gli psichedelici siano risultati al contrario antinfiammatori può essere spiegato con il meccanismo della selettività funzionale, ossia che differenti sostanze inducono differenti risposte sullo stesso recettore.75 Quindi, mentre la serotonina stabilizza il recettore in una conformazione che attiverebbe i fattori pro-infiammatori, gli psichedelici lo farebbero in una conformazione che richiama molecole del segnale anti-infiammatorio. L’azione di regolazione immunitaria degli agonisti 5HT2a indica che esiste un potenziale antinfiammatorio per patologie varie, quali l’asma, l’aterosclerosi, la sindrome del colon irritabile, l’artrite reumatoide, il diabete, e anche la depressione (Flanagan e Nichols, 2018).
Malattia di Parkinson e parkinsonismi Per malattia di Parkinson o parkinsonismo primario si intende una patologia neurodegenerativa che colpisce la funzione motoria, causando la degenerazione dei neuroni dopaminergici nella pars compacta della substantia nigra. Per parkinsonismi o sindromi parkinsoniane si intendono invece un insieme di sintomi, principalmente rallentamento motorio (ipocinesia fino alla acinesia), rigidità muscolare e tremori a riposo, che descrivono sia le manifestazioni del Parkinson primario che il quadro sintomatico secondario ad altre patologie del sistema nervoso. Come curiosità storica, facciamo notare che una primissima descrizione del Parkinson sarebbe stata individuata in un testo cuneiforme inciso su una delle tavolette babilonesi che costituiscono il cosiddetto Manuale Diagnostico, datato al XI secolo a.C.: Se la sua testa trema, il suo collo e la sua spina sono piegati, la saliva continuamente fluisce dalla sua bocca, le sue mani, le sue gambe e i suoi piedi tremano tutti contemporaneamente, e quando cammina cade in avanti, non migliorerà (Scurlock, 2010: 60).
Il trattamento sintomatico più efficace del Parkinsonismo è basato sulla terapia sostitutiva della dopamina con l’aminoacido precursore L-DOPA. Ma l’uso cronico di L-DOPA causa una perdita di efficacia e la comparsa di movimenti involontari (discinesia). Per aumentare la durata degli effetti della
L-DOPA e ridurre la dose richiesta, vengono somministrati inibitori delle MAO-B, come la selegilina, che inibiscono il metabolismo della dopamina (Fisher et al., 2017). Abbiamo ripetutamente visto come le beta-carboline contenute nella liana della Banisteriopsis caapi – armina, armalina e tetraidroarmina – possiedano proprietà MAO-inibitorie. La storia dell’uso degli estratti di caapi nelle rigidità e ipocinesia da Parkinson risale a circa 90 anni fa, nell’era pre-L-DOPA, quando alcuni studiosi iniziarono a riportare risultati promettenti dell’uso degli alcaloidi della Banisteriopsis in pazienti con parkinsonismo secondario a encefalite (Fischer et al., 2017). Aspetti storici Il primo studioso a identificare la risorsa botanica dell’ayahuasca fu Richard Spruce, nel 1853, osservando i nativi brasiliani della regione settentrionale del Rio Negro preparare la corteccia di una malpighiacea del genere Banisteriopsis per uso cerimoniale (Spruce, 1874). Rafael Zerda Barron, dopo aver provato gli effetti dell’ayahuasca nel 1905, intuì che l’infuso doveva contenere un alcaloide dalle proprietà telepatiche, che denominò telepatina. Egli tentò di isolare l’alcaloide ma senza successo. Fu Guillermo Fischer Cardenas a isolare il composto nel 1923, conservando il nome di telepatina. Un altro isolamento fu eseguito due anni dopo per opera di Barriga Villalba, che ottenne la sua cristallizzazione in forma impura; infine la forma pura della telepatina venne estratta da Perrot e Raymond-Hamet nel 1927. Louis Lewin, farmacologo tedesco che dedicò la sua carriera all’esplorazione degli effetti farmacologici delle piante e delle droghe psicoattive, nei suoi ultimi studi esplorò le proprietà della Banisteriopsis caapi, dalla quale isolò un alcaloide che denominò banisterina. In seguito a esperimenti sugli animali e sull’uomo, Lewin notò che la banisterina produceva un’iniziale stimolazione del sistema nervoso, per essere seguita, specialmente ad alte dosi, da una marcata depressione (Lewin, 1928). Lewin fu in seguito informato dai chimici tedeschi dell’industria farmaceutica Merck che la banisterina era chimicamente identica all’armina, un alcaloide che era stato isolato 87 anni prima dal Peganum harmala. Inizialmente Lewin non fu totalmente d’accordo con questa identificazione, e concordò solo sulle proprietà affini di questi due composti di aumentare l’eccitabilità motoria fino alle convulsioni. L’urgenza di chiarire la formula della banisterina era dovuta al fatto che, se fosse effettivamente risultata
identica all’armina, quest’ultima sarebbe stata maggiormente disponibile poiché la sua fonte vegetale eurasiatica, il Peganum harmala, è molto più disponibile rispetto all’amazzonica Banisteriopsis caapi (Gunn, 1929). Fu così che J.A. Gunn, docente di farmacologia presso l’Università di Oxford, si dedicò alla ricerca degli alcaloidi dell’armala, armina e armalina. Egli aveva una grande conoscenza degli alcaloidi dell’armala, e sperimentò l’armina sugli animali, avendo quindi la possibilità di osservare la forte corrispondenza delle caratteristiche farmacologiche dell’armina con quelle della banisterina (Gunn, 1929). Dai suoi esperimenti Lewin osservò una generale eccitazione muscolare indotta dall’alcaloide, e decise di approfondire l’uso di questa sostanza nelle rigidità muscolari dell’uomo. Presso l’Ospedale di Neukölln somministrò a diversi pazienti iniezioni sottocutanee di banisterina alla dose di 0,025-0,075 grammi. Tra i vari casi, fu riportato quello di una donna affetta da emiplegia, che subito dopo l’iniezione si sentì meglio. In seguito alla seconda iniezione la donna affermò di poter camminare meglio, e chiese di ricevere un’ulteriore somministrazione. In un’altra paziente, con una diagnosi di degenerazione muscolare, si manifestò come primo segno un tremore delle dita, cui fece seguito un movimento consensuale della mano, seguito da parestesie della mano e adduzione involontaria delle dita: era evidente che la banisterina aveva la capacità di migliorare notevolmente la rigidità muscolare. Incoraggiato da questi primi risultati, Lewin si rivolse al Prof. Wilmanns presso la clinica psichiatrica di Heidelberg, proponendogli di proseguire gli esperimenti con la banisterina su pazienti con patologie neuromuscolari. Il primo esperimento fu eseguito su di un collega di Wilmanns, ma si verificò un errore nel calcolo della dose, per cui furono somministrati 0,2 grammi intramuscolo di banisterina invece di 0,02grammi. Il soggetto si sentì subito male, manifestò forti tremori, nausea grave, stanchezza e sonnolenza, ma con impossibilità ad addormentarsi a causa dell’intenso “tremore interno”. A seguire il soggetto ebbe acufeni, nistagmo monolaterale, vomito, difficoltà di concentrazione, contrazioni muscolari involontarie, pupille midriatiche ma con riflessi conservati. Dopo circa due ore gli effetti cominciarono a diminuire (Lewin, 1927). L’osservazione di un’eccitazione muscolare da parte della banisterina su tutti i soggetti osservati, indusse Lewin a richiedere di eseguire gli esperimenti presso la clinica di Kurt Beringer, farmacologo tedesco che aveva sviluppato una lunga serie di studi clinici con la mescalina.
L’indicazione di Lewin era quella di saggiare la banisterina su pazienti postencefalitici, e al contempo ne controindicava l’uso in pazienti cardiopatici, a causa della sua azione bradicardizzante (Lewin, 1927). Kurt Beringer accettò il consiglio di Lewin e decise di sperimentare la banisterina per studiarne gli effetti su 15 pazienti affetti da rigidità muscolare e reduci da encefalite letargica. Alla dose di 20-40 mg sottocute la banisterina si rivelò efficace nel migliorare la rigidità motoria e la bradicinesia, fu facilitata la marcia, e i pazienti riferirono di “sentirsi alleggeriti”. Gli effetti svanirono entro 1-2 ore. In particolare, fu osservato un netto miglioramento nella scrittura dopo la somministrazione di banisterina (fig. 31) (Beringer, 1928a,b).
Fig. 31 – Miglioramento della scrittura osservato in un paziente affetto da parkinsonismo prima (sopra) e dopo (sotto) l’iniezione sottocutanea di banisterina (armina) (da Beringer 1928b., tav. 3, p. 26).
Nel frattempo, altri ricercatori stavano ottenendo risultati positivi con l’uso dell’armina nei disturbi extrapiramidali. Rustige somministrò 3-50 mg di armina sottocute a 18 pazienti parkinsoniani post-encefalitici. Tutti i pazienti presentavano rigidità e bradicinesia prima della terapia; la rigidità muscolare diminuì obiettivamente in sei pazienti dopo iniezioni di 20-30 mg di armina. In tre di questi, la grave rigidità addirittura scomparve. In tutti i sei pazienti che avevano mostrato risultati positivi la riduzione della rigidità perdurò 6 ore. Gli effetti dell’armina sul tremore furono invece variabili su nove pazienti, diminuendo in alcuni ed esacerbandosi in altri. L’effetto
principale dello studio di Rustige fu comunque il miglioramento dei movimenti volontari in 13 pazienti. Movimenti alternati rapidi potevano essere eseguiti con particolare fluidità (miglioramento della adiadococinesia). Questi pazienti si sentirono più veloci e liberi, e avevano acquisito una maggiore lucidità mentale (Rustige, 1929). Non tutti gli esperimenti sulla banisterina diedero risultati positivi. In uno studio su 38 pazienti con parkinsonismo post-encefalitico, la somministrazione di armina provocò un drastico peggioramento di tutti i sintomi parkinsoniani. Questo gruppo di pazienti era in trattamento con ioscina, un farmaco al tempo efficace nel curare i tremori del Parkinson. La ioscina fu sospesa una settimana prima di iniziare la cura con l’armina. Gli autori dello studio conclusero che i risultati positivi degli studi precedenti erano sicuramente dovuti al “potere della suggestione” (Hill e WorsterDrought, 1929). In seguito alle prime pubblicazioni sugli effetti anti-rigidità della banisterina, il medico d’origini tedesche Lipman Halpern studiò le proprietà dell’armina nei parkinsonismi, somministrandola prima su di sé per via orale e sottocute per due settimane; successivamente provandola sui pazienti parkinsoniani. Halpern dedusse che l’armina induceva uno stato di ipereccitazione motoria dovuta alla stimolazione delle cellule motorie corticali (Halpern, 1930a,b). I risultati degli esperimenti di Lewin, Beringer e Wilmanns avevano portato a ipotizzare un’azione della banisterina sulle vie extrapiramidali, poiché gli effetti terapeutici si manifestavano con una riduzione della rigidità muscolare ma non sul tremore o sulle condizioni mentali dei pazienti. Anche secondo Beringer le indicazioni principali dell’armina erano nei confronti della rigidità e dell’acinesia dovute a disturbi extrapiramidali (Beringer e Wilmanns, 1929). Al contrario, dai risultati dei suoi esperimenti Halpern ipotizzò una motivazione differente per gli effetti dell’armina: questa non agirebbe sulle vie extrapiramidali, come fa la ioscina, a quei tempi impiegata nella terapia del Parkinson, perché mentre quest’ultima ha un’azione deprimente sul tratto extrapiramidale, l’armina stimolerebbe le cellule motorie della corteccia cerebrale. Nei pazienti parkinsoniani difatti si verifica una stimolazione o iper-attivazione dei tratti extrapiramidali, che verrebbe soppressa dalla ioscina. L’armina non agirebbe su questi tratti, ma, stimolando le cellule motorie corticali, faciliterebbe il passaggio degli impulsi volontari attraverso il tratto piramidale. Quest’ipotesi spiegava tra l’altro il
motivo per cui l’armina non migliorava il tremore, mentre determinava quella sensazione di “leggerezza” muscolare descritta dai pazienti. Se ne dedusse che la combinazione di armina e ioscina avrebbe potuto sommare i benefici perché le due sostanze agiscono su due componenti differenti che riguardano i movimenti volontari. Secondo Halpern l’eziopatogenesi del Parkinson sarebbe dovuta a questo “doppio” meccanismo (Halpern, 1930b). Paul Schuster (1931) confermò l’efficacia dell’armina in alcune forme di parkinsonismo, e per trattamenti prolungati consigliò la combinazione dell’armina con la scopolamina o con lo stramonio. Poco dopo Cooper, interessato a comprendere se l’azione dell’armalolo fosse paragonabile a quella di armina e armalina, lo trovò anch’esso efficace nel sollievo della rigidità muscolare e, similmente alle altre beta-carboline, non aveva benefici sul tremore né sulle condizioni mentali e sulla scialorrea. A differenza di armina e armalina, l’armalolo non presentava in vivo gli effetti pro-convulsivanti, ed era quindi dotato di minore tossicità (Cooper e Gunn, 1931). La banisterina/armina fu quindi il primo MAO-inibitore, per di più psicoattivo, a essere impiegato nel trattamento del parkinsonismo. Non si trattava della prima sostanza psicoattiva usata in questa patologia. In precedenza, a partire dal 1888 erano stati impiegati gli alcaloidi tropanici dell’Atropa belladonna – scopolamina, iosciamina e atropina – in combinazione con gli estratti dell’oppio e con la canapa indiana (SanchezRamos, 1991). Ricordiamo che un’altra grave patologia soprattutto dei tempi passati – l’encefalite letargica –, che poteva portare a sintomi di parkinsonismo, veniva trattata con la famosa “cura bulgara”, anche questa a base di belladonna.76 L’entusiasmo per gli alcaloidi dell’armala nel trattamento del parkinsonismo svanì dopo la metà del 1930, forse per la crescente preferenza per le sostanze di sintesi, o per il fatto che i benefici osservati non erano così effettivi come quelli inizialmente descritti (Sanchez-Ramos, 1991); furono presi nuovamente in considerazione quando verso la fine degli anni ‘50 ne furono evidenziate le notevoli proprietà MAO-inibitorie (Udenfried et al., 1958). Gli studi moderni L’attenzione su queste molecole si è recentemente riaccesa, e non solamente per le proprietà anti-parkinsoniane, ma per il loro potenziale
curativo in altre malattie neurodegenerative. In uno studio in doppio cieco, sviluppato presso il Servizio Neurologico del Carlos Andrade Marín Hospital di Quito (Ecuador), una dose di estratto liquido di Banisteriopsis è stata somministrata a 30 pazienti con diagnosi recente di Parkinson, ottenendo un’ora dopo la somministrazione un miglioramento considerevole delle funzioni motorie e un peggioramento del tremore. Questo miglioramento venne attribuito alle proprietà MAOinibitorie delle beta-carboline, più specificamente di un potenziamento della dopamina endogena (Serrano-Dueñas et al., 2001). Oltre alla MAO inibizione, si è osservato che l’armina e l’armalina sono in grado di indurre il rilascio di dopamina dallo striato (Schwarz et al., 2003), aumentando i benefici indotti dalla MAO-inibizione intestinale. È stata inoltre ipotizzata un’interazione dell’armalina con i recettori glutammatergici, i quali sembrano svolgere una funzione fondamentale nella ripresa delle funzioni motorie nel Parkinson. L’armalina infatti ha mostrato proprietà NMDA antagoniste (Serrano-Dueñas et al., 2001). I test per la MAO inibizione avevano inizialmente dimostrato che sia gli estratti di B. caapi che l’armalina possiedono una significativa attività inibitoria per la MAO-A, ma scarsa attività inibitoria per la MAO-B. Successivamente è stata identificata anche una moderata attività MAO-B inibitoria degli estratti di caapi. L’isolamento, la caratterizzazione e le bioattività dei composti attivi della B. caapi hanno permesso di identificare altre due beta-carboline, denominate banistenoside A e banistenoside B, una nuova tetraidronorarmina, due proantocianidine (epicatechina e procianidina B2) e un nuovo disaccaride. Questi composti hanno mostrato potenti attività MAO-A inibitorie e antiossidanti, e inoltre una moderata attività MAO-B inibitoria. L’attività di inibizione delle MAO-A dell’armina e dell’armalina era già nota per le proprietà antidepressive di questi composti, e la scoperta di un’attività MAOB inibitoria ha contribuito alla comprensione degli effetti neuroprotettivi (Samoylenko et al., 2010). Oltre che nei confronti del Parkinson, questa protezione sembra estendersi ad altre malattie neurodegenerative, come la demenza di Alzheimer, la demenza a corpi di Lewy, l’atrofia multisistemica (Wang et al., 2010). Questo potere è dimostrato dal fatto che alcuni dei composti isolati (dimeri di proantocianidina) presentano attività contro le malattie amiloidi, prevenendo la fibrillogenesi da amiloide e da alfasinucleina nel SNC (Samoylenko et al., 2010).
Riguardo la demenza di Alzheimer, che è la malattia neurodegenerativa più frequente nell’età senile, è indotta prevalentemente dal continuo deterioramento della trasmissione colinergica nella corteccia e in altre aree cerebrali. I farmaci colinergici rappresentano il trattamento di prima scelta, inibendo gli enzimi acetilcolinesterasici (AChE) che degradano l’acetilcolina impedendone l’eliminazione. Gli alcaloidi dell’armala presentano attività inibitoria sulle AChE (e sulle butirrilcolinesterasi, BChE), costituendo una fonte vegetale di farmaci colinergici. I semi di Peganum harmala hanno evidenziato effetti terapeutici sull’Alzheimer, riportati anche dall’uso tradizionale nella medicina cinese nel trattamento di disturbi neurologici quali l’amnesia e l’emiplegia (Yabg et al., 2015). Nell’estratto di B. caapi sono state riscontrate altre attività che contribuiscono alla neuroprotezione, fra cui l’inibizione delle acetilcolinesterasi, delle butirrilcolinesterasi, e delle catecol-O-metiltrasferasi (Samoylenko et al., 2010 ). In particolare, gli effetti neuroprotettivi e procognitivi e di miglioramento delle funzioni neuropsicologiche, che sono stati osservati negli utilizzatori assidui di ayahuasca, potrebbero essere in parte spiegate anche da queste attività evidenziate in laboratorio. Le evidenze scientifiche di questi effetti provengono da modelli animali, dove è stata evidenziata la riduzione dell’eccitotossicità, dell’infiammazione e dello stress ossidativo, così come dall’aumento dei livelli del BDNF. Il miglioramento delle capacità mnemoniche e di apprendimento sono probabilmente legate alle proprietà inibitrici delle MAO e delle acetilcolinesterasi, e di upregulation dei trasportatori del glutammato (Santos e Hallak, 2016). Inoltre, la presenza delle due potenti molecole ad attività antiossidante, l’epicatechina e la procianidina B2, potrebbero proteggere contro lo stress ossidativo da radicali liberi responsabili delle malattie neurodegenerative (Wang et al., 2010). Concludiamo esponendo un dato noto da tempo negli ambienti specialistici, che riguarda la constatazione che i fumatori di tabacco presentano una ridotta incidenza di Parkinson, in concomitanza con l’evidenza che possiedono un livello cerebrale e piastrinico di MAO-B del 40% inferiore rispetto a quello dei non fumatori e degli ex-fumatori. Questa riduzione di MAO-B è stata attribuita all’assunzione delle beta-carboline che sono presenti nel fumo di tabacco. La pratica del fumare tabacco, oltre a essere notoriamente dannosa per la salute, comporta in realtà anche una neuroprotezione, essendo associata a un’aumentata attività dopaminergica e
di altre ammine neurotrasmettitrici, contemporaneamente a una ridotta produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), fattore causale della neurodegenerazione. È stato del resto osservato che pazienti con malattie di Parkinson e Alzheimer hanno aumentati livelli cerebrali di MAO-B. A minor rischio di parkinsonismo e di altre malattie neurodegenerative sono anche i bevitori di caffè, e ciò è probabilmente dovuto, nuovamente, alla presenza di beta-carboline nei preparati tostati di caffè, che contribuiscono all’inibizione della MAO-B, oltre che della MAO-A (Castagnoli e Murugesan, 2004).
Emicranie e cefalea a grappolo Gli psichedelici nella terapia del dolore Gli psichedelici potrebbero alleviare il dolore attraverso un duplice meccanismo. Il primo riguarda l’influenza dell’esperienza psichedelica sull’interpretazione cognitiva del dolore. Le attuali prospettive concepiscono il dolore come un’esperienza percettiva influenzata sia dal “incarnato” (embodied, ossia il corpo che vive la sensazione) che dal contesto socio-ambientale (dall’inglese embedded, cioè, il corpo inserito nell’ambiente nel quale il dolore è esperito). L’esperienza individuale del dolore è influenzata da una serie di stimoli sensitivi, affettivi, cognitivi, sociali e corporei interpretati all’interno di un contesto. Il dolore induce azioni difensive, che tentano di ridurre l’impatto della paura sull’integrità corporea. La capacità di captare lo stato fisiologico attraverso la consapevolezza interocettiva viene ridotta quando il dolore diventa cronico. La tecnica di mindfulness allevia il dolore cronico e migliora la qualità di vita sviluppando l’attenzione interocettiva alle sensazioni corporee. Gli agenti psichedelici agiscono sulle stesse regioni che vengono modulate dal mindfulness quali la corteccia prefrontale mediale, la corteccia posteriore cingolata e l’insula posteriore del default mode network. I meccanismi con cui gli psichedelici agiscono nei confronti del dolore sono mediati dal recettore 5HT2a situati nel midollo rostro-ventromediale che facilitano l’attivazione delle vie discendenti del controllo del dolore, inibendo la trasmissione dell’informazione nocicettiva nel midollo spinale, “chiudendo il cancello alle afferenze nocicettive”. Inoltre, abbiamo visto come gli psichedelici serotoninergici siano dei potenziali agenti antinfiammatori grazie sempre all’attivazione del 5HT2a, che promuoverebbe la regolazione di
citochine pro-infiammatorie come il TNF (tissue necrosis factor), implicato in una serie di patologie infiammatorie, infettive e oncologiche. Questo tipo di regolazione genica potrebbe essere sfruttata in patologie infiammatorie autoimmuni quali l’artrite reumatoide. Al momento gli studi che hanno valutato l’efficacia degli psichedelici nella gestione del dolore sono pochi, ma mostrano benefici potenziali per il dolore oncologico e quello neuropatico. Per i dolori oncologici, rimandiamo agli interessanti studi sviluppati da Kast e presentati nel capitolo 14 (Whelan e Johnson, 2018). Un altro capitolo dell’impiego terapeutico degli psichedelici riguarda il trattamento di varie forme di emicranie e cefalee; un’indicazione di vecchia data che è oggigiorno sfociata negli interessi degli psichedelici serotoninergici per le cefalee a grappolo. Aspetti storici Il primo dato sul trattamento dell’emicrania con gli allucinogeni risale al 1894, quando nel corso di esperimenti clinici con il peyote Prentiss e Morgan (1896) ipotizzarono la possibilità di usare questo cactus mescalinico nel trattamento dell’“emicrania nervosa”. Successivamente, alla fine degli anni ‘50 del XX secolo, Ling e Buckman trattarono con l’LSD alcuni casi di emicranie refrattarie, osservando remissioni complete che duravano da 9 mesi fino a due anni in quattro dei loro sei pazienti. A quel tempo la logica del trattamento delle emicranie mediante l’LSD era basato sul fatto che tale patologia veniva considerata una nevrosi, e si riteneva che gli effetti terapeutici del lisergico e l’associata psicoterapia fossero dovuti a una risoluzione del conflitto psicologico (Ling e Buckman, 1963). Gli studi più strutturati circa l’impiego di lisergici nelle emicranie furono svolti dall’équipe italiana di Federigo Sicuteri presso la Clinica Medica dell’Università di Firenze. Medico toscano, Sicuteri (1923-2003) si occupò per tutta la vita delle cefalee e fondò, forse per primo al mondo, il Centro Cefalee. Fu un sostenitore della teoria serotoninergica delle emicranie, che vedeva come eziologia un’alterazione del sistema serotoninergico, e il suo nome è legato anche all’individuazione di quel quadro nosologico ch’egli inizialmente denominò panalgesia e che più tardi fu ridenominato fibromialgia. Nel 1963, Sicuteri cominciò a sperimentare farmaci serotoninergici nel
trattamento delle cefalee. Partendo dall’ipotesi che nella patogenesi dell’emicrania e di altre cefalee potesse avere importanza la serotonina, furono condotti i primi esperimenti con un derivato dell’acido lisergico, la butanolamide dell’acido l-metil-lisergico (UML-491), noto anche come metisergide. L’esperimento fu condotto con l’idea di utilizzare le elevate proprietà antiserotoniniche del metisergide. Sicuteri provò su larga scala (390 casi) non solo gli effetti del metisergide, ma anche quelli di altri derivati dell’acido lisergico, tra cui l’LSD-25, il BOL-148 (2-bromo-LSD) e altri due derivati (fig. 32). Dagli esperimenti risultò che l’LSD-25 esplicava certamente un effetto antiemicranico, e che doveva essere utilizzato a dosi non-allucinogene, in modo da non scatenare reazioni psichiche. Egli consigliava dosi da 10 mcg due volte al giorno, da aumentare gradualmente fino a 100 mcg al giorno, sfruttando la rapida tolleranza agli effetti psicotropi del farmaco. Gli effetti antiemicranici si manifestavano con la scomparsa o con la rarefazione delle crisi. Gli autori osservarono che dosi maggiori erano anche più efficaci, e che somministrando un antagonista dopaminergico, la clorpromazina, si potevano aumentare le dosi dell’LSD-25 riducendo gli effetti psicotropi. Rispetto agli altri derivati lisergici, con l’LSD-25 si potevano ottenere buoni risultati con dosaggi 10-50 volte inferiori. Per l’équipe fiorentina, la comprensione del meccanismo terapeutico dei derivati lisergici forniva importanti elementi per lo studio della patogenesi dell’emicrania, della cefalea istaminica di Horton (che fu in seguito denominata cefalea a grappolo) e di altre cefalee vascolari (Sicuteri et al., 1963). Anche Fanciullacci, della medesima équipe di ricerca toscana, studiando gli effetti dei derivati lisergici poté osservare che il trattamento cronico con LSD-25, somministrato in dosi sub-allucinogene, aveva un’attività profilattica degli attacchi emicranici. L’azione dell’LSD, così come quelle dell’ergotamina e del metisergide, si manifestava con un potenziamento dell’effetto venocostrittore della serotonina. Rispetto alla precedente idea che vedeva questi composti come degli antiserotoninergici, Fanciullacci dimostrò che essi in realtà agivano da agonisti parziali del recettore serotoninergico, e che come tali gli effetti potevano essere additivi o antagonisti a seconda della loro concentrazione. Questo punto di vista abbracciava anche la teoria centrale dell’emicrania, che attribuiva la patogenesi del dolore cefalgico a una carenza di serotonina nelle strutture nervose centrali devolute alla regolazione del dolore (Fanciullacci et al., 1975). I pazienti emicranici
mostravano inoltre un’aumentata sensibilità agli effetti psicoattivi degli allucinogeni rispetto ai soggetti normali, e questo contribuiva a confermare l’ipotesi di una ipersensibilità monoaminica cerebrale nelle cefalee essenziali (Fanciullacci et al., 1974).
Fig. 32 – Paragone dell’efficacia clinica nel trattamento delle cefalee di alcuni derivati lisergici, ricavato dall’équipe italiana di Sicuteri in studi degli anni ‘60 svolti presso la Clinica Medica Generale dell’Università di Firenze. BOL-148=2-bromo-LSD, LAE-32=ammide dell’acido lisergico; PML-946=propanolamide dell’acido 1-metil-lisergico; UML-491=butanolamide dell’acido 1-metillisergico (da Sicuteri et al., 1963).
Che l’effetto antiemicranico fosse indipendente da quello psicotropo, fu inizialmente osservato da Sicuteri (Sicuteri et al., 1963), e più recentemente da Karst e coll. (2010), osservando che l’analogo non psicoattivo dell’LSD, il BOL-148, si dimostra efficace nel trattamento delle cefalee a grappolo, suggerendo ciò che gli effetti terapeutici non siano dovuti all’azione sui recettori 5HT2a e 5HT1a. La cefalea a grappolo Venendo ora alla cefalea a grappolo (cluster headache, CH, in italiano CG), questa è descritta come la condizione più dolorosa conosciuta dall’uomo. Il dolore, straziante e intollerabile, è paragonato a un ago o a un coltello che trafigge l’occhio, che viene schiacciato o strappato dall’orbita. È soprannominata anche “emicrania del suicidio”, in quanto la percentuale di
suicidi nei sofferenti supera di venti volte l’incidenza di suicidio della popolazione generale. La cefalea a grappolo viene anche soprannominata “la bestia”, espressione metaforica di una belva nascosta nell’ombra che attacca in maniera improvvisa e inattesa. Gli attacchi si manifestano in periodi attivi, denominati “grappoli”, della durata di settimane, intervallati da fasi di remissione della durata di mesi o anni. Circa il 10-15% dei soggetti presenta una forma di cefalea a grappolo cronica senza periodi di remissione. La prevalenza nella popolazione dell’emicrania a grappolo è di 0,5-1/1000, e l’età d’esordio è in genere tra i 20 e i 40 anni. Per motivi ancora sconosciuti la prevalenza è 3 volte maggiore negli uomini rispetto alle donne, sebbene tra queste la prevalenza stia aumentando, probabilmente per una diagnosi in precedenza sotto stimata e un mancato riconoscimento della patologia (International Headache Society, 2018). Il trattamento consiste in una terapia dell’attacco acuto e in una profilassi. La terapia dell’attacco acuto si avvale principalmente dell’uso del sumatriptan (sottocute, orale, nasale) e dell’ossigeno ad alti flussi. Il sumatriptan, essendo agonista 5HT1b/d, agisce come potente vasocostrittore periferico e sui recettori del tronco encefalico. Per questo deve essere usato con cautela ed è controindicato in gravidanza, in caso di coronaropatia, vasculopatia cerebrale e vasculopatia periferica. L’inalazione di ossigeno puro ad alti flussi è utile soprattutto quando i triptani sono controindicati, con l’inconveniente che non tutti i paesi sostengono il rimborso sanitario della relativa strumentazione. Nei casi di refrattarietà ai triptani, può essere tentata l’applicazione nasale topica di lidocaina. La diidroergotamina viene utilizzata raramente, perché la sua efficacia non è superiore a quella dei triptani, con i quali condividono le stesse controindicazioni. Il trattamento profilattico, il cui scopo è quello di ridurre la frequenza degli attacchi, si avvale come farmaco di scelta del calcio antagonista verapamil, seguito dagli steroidi, dal metisergide e da altri farmaci come il litio e l’acido valproico. La scelta del trattamento dipende comunque dall’inquadramento diagnostico della forma di CH. Altre opzioni sono il topiramato, il litio, la melatonina e altri farmaci. Il blocco del più grande nervo occipitale consiste nell’iniezione di steroidi o lidocaina attorno al nervo occipitale omolaterale all’altezza della sede del dolore, e può dare una remissione che va dai 5 ai 73 giorni.
Il metisergide è anch’esso un farmaco serotoninergico verso il quale molti pazienti hanno una buona risposta, ma la sua combinazione con i triptani è rischiosa poiché può indurre una crisi serotoninergica. Con l’uso prolungato questo farmaco può presentare complicanze importanti come la fibrosi polmonare, retroperitoneale o cardiaca, e per questo si effettua l’interruzione del trattamento per un mese dopo sei mesi di terapia continuata. Gli approcci chirurgici, la stimolazione profonda ipotalamica e la stimolazione del nervo grande occipitale, sono riservati ad alcuni casi refrattari di CH. Questi interventi sono molto delicati e devono essere eseguiti in centri appropriati e da mani esperte, onde evitare rischi potenzialmente gravi (Lance e Goadsby, 2005). Clusterbuster Nonostante le numerose possibilità terapeutiche, la gestione delle cefalee a grappolo è molto complessa e raramente i pazienti riescono a trovare beneficio dai farmaci convenzionali. La disperazione legata al dolore insopportabile e al fallimento delle varie terapie a disposizione, ha spinto spesso questi malati a cercare forme alternative di trattamento. Nel 1998 un uomo scozzese di 35 anni, affetto da questa patologia da molti anni, raccontò in un forum di supporto per pazienti sofferenti di CH che dopo aver iniziato ad assumere LSD a scopo ricreativo i suoi attacchi non si erano più presentati. L’uomo aveva continuato ad assumere periodicamente LSD continuando a stare bene fin quando, dopo aver interrotto l’uso di LSD, gli attacchi ricominciarono. Era evidente che la remissione della sintomatologia era associata alla somministrazione di LSD. Dopo un iniziale scetticismo, altri malati che avevano letto la sua storia tentarono il metodo descritto, e i risultati ottenuti apparvero entusiasmanti (McGeeney, 2012). Nel 2002 un gruppo di pazienti decise di raccogliere i dati aneddotici su questi auto-trattamenti e di rivolgersi a MAPS, chiedendo il supporto nella ricerca sulla terapia delle CH con gli psichedelici. Tra questi pazienti c’era Robert Wold, un uomo affetto da una lunga storia di cefalea a grappolo intrattabile, il quale, dopo aver deciso di provare il metodo consigliato nel forum, ottenne il miglioramento dei sintomi. Con il supporto di MAPS, Wold fondò l’associazione non-profit Clusterbuster, nata con lo scopo di appoggiare la ricerca e la legittimazione degli effetti positivi degli psichedelici nelle emicranie a grappolo (Wold, 2013). Oltre a Clusterbuster, altri gruppi di sostegno emergenti stavano
raccogliendo evidenze aneddotiche attraverso lo scambio di informazioni sulle varie possibilità di terapie alternative. Ma in più di un’occasione l’interesse nei confronti di sostanze illegali quali l’LSD si scontrò con i tabù e il perbenismo dei gestori di queste organizzazioni. Tale fu il caso della OUCH (Organisation for the Understanding of Cluster Headaches), che bannò le conversazioni sui trattamenti alternativi dalla piattaforma dei messaggi. Gli argomenti avevano suscitato numerose polemiche e attacchi personali, a volte richiedendo l’espulsione di alcuni membri del gruppo. La comunità dei “grappolati” aveva bisogno di veri studiosi per dare a questi risultati un minimo di credibilità (Frood, 2007). John Halpern, assistente di psichiatria all’Università di Medicina di Harvard, insieme ad Andrew Sewell dell’Istituto di Ricerca sull’Alcol e le Sostanze d’Abuso di Belmont (Massachusetts), furono contattati da un uomo di 34 anni affetto da una forma episodica di CH dall’età di 16. L’uomo raccontò di aver avuto una remissione completa dei suoi grappoli dopo l’uso ripetuto di LSD a scopo ricreativo all’età di 22-24 anni. I grappoli ricominciavano non appena interrompeva l’assunzione di LSD. Sulla base di questa esperienza, l’uomo tentò di trattare gli attacchi assumendo funghi psilocibinici ogni 3 mesi, ottenendo nuovamente la remissione degli attacchi. In tre occasioni in cui dimenticò di assumere la dose programmata, gli attacchi tornarono. Interessati da questa vicenda, Halpern e Sewell decisero di radunare i dati sull’uso degli allucinogeni per alleviare i dolori da CH mediante delle interviste e una survey online. I risultati furono sorprendenti: la psilocibina risultava superiore all’ossigeno ad alti flussi e al sumatriptan nell’abortire gli attacchi acuti, e l’LSD e la psilocibina erano entrambi efficaci nell’indurre ed estendere i periodi di remissione rispetto ai farmaci standard. Lo studio mise in luce diversi aspetti interessanti: fino a quel momento nessun farmaco era stato in grado di interrompere un grappolo; a differenza degli altri farmaci, che vanno assunti quotidianamente, era bastata una sola dose di LSD per indurre remissione di un grappolo, e la psilocibina raramente aveva richiesto più di tre dosi; essendo state usate nella maggior parte dei casi dosi sub-allucinogene, appariva evidente che queste sostanze agivano con un meccanismo indipendente da quello che determina il loro effetto psicoattivo (Sewell et al., 2006). Risultati altrettanto positivi furono ottenuti in seguito all’uso dei semini hawaiiani, contenenti LSA,77 dimostrando efficacia nell’abortire gli attacchi,
allungare i periodi di remissione e prevenire gli attacchi (Sewell et al., 2008; si veda anche la survey di Schindler et al., 2015). Internet e i forum dei “grappolati” Anche un’equipe italiana di studiosi nel campo delle emicranie ha intrapreso uno studio sull’uso di allucinogeni e di altre sostanze illegali da parte dei pazienti con CH. Molti dei pazienti che avevano aderito alla survey erano membri di gruppi di auto-sostegno su internet che avevano ricevuto consigli sull’uso di auto-trattamenti alternativi con varie sostanze, tra le quali anche LSD o funghetti psilocibinici. Nella survey non sono stati descritti gli effetti delle sostanze sui pazienti, ma solo la propensione di questi pazienti all’uso di sostanze illegali pur di ottenere un sollievo dal dolore (Di Lorenzo et al., 2016). Osservando i forum di discussione nazionali dei pazienti affetti da cefalea a grappolo, Di Lorenzo ha notato quanto sia diffuso anche in Italia, oltre a una generale insoddisfazione e sfiducia da parte dei malati nei confronti dei trattamenti classici e dei medici curanti, la pratica di assumere sostanze illegali come l’LSD, usando terminologie ritenute “in codice”, quali “metodo cluster buster”, “cura con i semi”, “prendere i funghetti”. Egli conclude che “poter offrire ai pazienti un’alternativa legale, con farmaci di comune reperibilità (sebbene off label) ai trattamenti con sostanze allucinogene, sarebbe un buon inizio per provare a rispondere alla maggior esigenza di cura dei pazienti con cefalea a grappolo farmaco-resistente. Da quando le sostanze ergoliniche sono state tolte dal commercio è sicuramente più arduo questo compito, ma non impossibile”, e cita anche le numerose segnalazioni presenti in Internet di pazienti che, sotto controllo anestesiologico, hanno utilizzato la ketamina come terapia emergenziale (Di Lorenzo, 2017: 7), un’ulteriore alternativa che descriveremo poco oltre. Una recente analisi retrospettiva sui forum digitali presenti in Internet ha svelato che questi vengono impiegati come piattaforme comunicative per cercare compassione, comprensione e solidarietà, in quanto una delle principali sofferenze che riguarda pazienti con patologie dolorose croniche è la sensazione di sentirsi soli. I pazienti con emicrania a grappolo si trovano in una situazione di disperazione, hanno bisogno di trattamenti efficaci e sono disposti a tutto pur di alleviare le sofferenze, perfino a infrangere la legge. Questa condizione di disperazione non crea un problema solo durante gli attacchi di CH, ma l’ angoscia nell’attesa che si ripresenti un altro attacco attribuisce un aspetto traumatico alla patologia; non è raro che questi pazienti
sviluppino un PTSD. Anche le relazioni familiari, lavorative, sociali subiscono frequentemente un deterioramento. Sono queste le motivazioni per cui le sostanze psicoattive illecite sono spesso considerate l’ultima risorsa. I malati di CH mostrano poco o nessun interesse negli effetti psicoattivi delle sostanze, e il fatto che vengano utilizzate soprattutto dosi sub-allucinogene conferma questa osservazione. Lo scambio di informazioni sui forum sembra concentrarsi soprattutto nel massimizzare l’efficacia e minimizzare i rischi, come quelli derivanti dalla concomitante assunzione di altri farmaci (viene per esempio sottolineato di fare cautela all’uso delle triptamine sintetiche in caso di uso concomitante di antidepressivi, per il rischio di sindrome serotoninergica) (Andersson et al., 2017). Oltre alle sostanze già conosciute dalla letteratura medica, ossia LSD, psilocibina e semi contenenti LSA, emerge l’uso di altre sostanze di sintesi, tra cui diverse triptamine sintetiche di nuova generazione. In vari report ne viene descritto l’utilizzo: “sto somministrando alla mia ragazza 4-AcO-MET o 4-AcO-DMT. Ha abortito un attacco di emicrania di livello 10 in 30 minuti o meno, che normalmente l’avrebbe lasciata urlare incapacitata dal dolore”. Alcune triptamine venivano preferite alla psilocibina per i loro effetti “più maneggevoli”: “il 4-HO-MiPT e il 4-HO-MET sembrano essere meno caotici dei funghetti”.78 La lunga lista di sostanze utilizzate comprende farmaci non ancora approvati, forme adulterate di sostanze, come ad esempio compresse che vengono triturate e aspirate per via nasale, o l’uso di dosi di gran lunga superiori a quelle indicate dalla prescrizione. Tra le altre sostanze menzionate come trattamenti alternativi sono riportati: cannabis, melatonina, oppio, ketamina, cocaina, lidocaina, MDMA. Vengono utilizzati di frequente anche gli energy drinks, che contengono caffeina e taurina (Andersson et al., 2017). Regimi posologici Nei forum di discussione vengono raccomandati tre differenti approcci o regimi posologici: il metodo abortivo (o “clusterbuster”), il metodo del “microdosing”, e le dosi “piene” singole e occasionali. – Il metodo “clusterbuster”, o metodo abortivo, prevede la somministrazione degli indolici psichedelici in dosi medie, facendo coincidere l’assunzione con l’insorgere degli attacchi, seguendo la natura
ciclica degli episodi CH. L’intervallo tra le dosi può variare tra gli individui e le dosi consigliate sono generalmente indicate come “la metà di una dose ricreativa lieve”. – La tecnica del “microdosing”, si riferisce alla pratica di assumere dosi sub-percettive onde evitare effetti psicoattivi importanti. Questa tecnica viene comunemente utilizzata come trattamento profilattico, ma non è efficace per tutti e alcuni soggetti necessitano della dose piena. – L’uso di dosi singole più elevate è ritenuta da alcuni ne-cessaria per poter fronteggiare la gravità dell’attacco. L’approccio maggiormente consigliato nei forum è comunque quello di iniziare con dosi basse per poi incrementarle progressivamente fino a raggiungere una dose efficace individuale. Tra le varie sostanze riportate, gli indolici psichedelici sono senza dubbio ritenuti i più efficaci, e l’LSD è considerato il più efficace in assoluto. Gli indolici rappresentano soprattutto l’unico trattamento in grado di bloccare la ricorrenza del grappolo, quindi efficaci come trattamento profilattico (Andersson et al., 2017). Nonostante le numerose controversie sul tema, l’uso dell’LSD e della psilocibina rappresenta senza dubbio un mezzo di trattamento delle emicranie. Quest’area suscita tutt’ora numerosi interessi non solo scientifici, ma anche per i loro potenziali benefici clinici. Lo studio sugli psichedelici indolici ha aperto anche la strada alla sintesi di analoghi non allucinogeni come il BOL-148, creando la possibilità di disporre di farmaci più maneggevoli (Sewell e Gottschalk, 2011). Studi in corso Non è stato ancora chiarito il meccanismo d’azione che rende gli allucinogeni efficaci nelle CH. Quelli serotoninergici sono strutturalmente simili ai triptani, anch’essi caratterizzati da una struttura indolica (fig. 33). Molti degli alcaloidi indolici non psichedelici che sono strutturalmente correlati all’LSD e alla psilocibina (metisergide, ergotamina, diidroergotamina e metilergonovina) sono stati usati nel trattamento dei grappoli; tuttavia questi farmaci non abortiscono né allungano le distanze tra gli attacchi allo stesso modo dell’LSD e della psilocibina. Al momento sono in corso due studi nel trattamento delle CH. Presso la Yale University, si stanno reclutando 24 pazienti con CH per uno studio randomizzato di fase I. Lo scopo è quello di analizzare gli effetti
di una dose orale di psilocibina sulla CH. I soggetti vengono randomizzati per ricevere un placebo, una dose bassa di psilocibina (0,0143 mg/kg), o una dose alta di psilocibina (0,143 mg/kg), nel corso di tre sessioni tenute a distanza di 5 giorni l’una dall’altra. I soggetti mantengono un diario sul quale annotano la frequenza e l’intensità degli attacchi prima, durante e dopo la somministrazione. Lo studio è iniziato nel novembre 2016 ed è previsto il suo completamento nel novembre 2021. Un secondo studio in corso, fase II a doppio-cieco randomizzato, prevede la somministrazione di LSD a 30 soggetti con CH. L’obbiettivo è quello di osservare le modifiche di frequenza e intensità degli attacchi mediante la registrazione personale degli attacchi. La somministrazione di LSD prevede un regime di 3 dosi da 100 mcg di LSD in tre settimane verso placebo. Lo studio è iniziato nel gennaio 2019 ed è previsto il suo completamento nel dicembre 2023.79
Fig. 33 – Similitudine fra le strutture chimiche della psilocibina e del sumatriptan, quest’ultimo un farmaco impiegato nelle cefalee a grappolo.
La ketamina nelle emicranie e nella cefalea a grappolo L’équipe di Sicuteri ha studiato il potenziale abortivo e le capacità profilattiche della ketamina nei pazienti emicranici, ipotizzando il ruolo del recettore NMDA nella patogenesi delle emicranie (Nicolodi e Sicuteri, 1995). Sebbene i dati siano ancora scarsi e al momento non ci siano studi clinici randomizzati, abbiamo trovato in letteratura alcuni studi osservazionali in cui la ketamina è stata somministrata a pazienti con diagnosi di emicrania cronica
resistente o cefalea a grappolo, rivelando una buona efficacia sia a scopo profilattico che abortivo degli attacchi. L’uso della ketamina nel dipartimento di emergenza in caso di dolore acuto è particolarmente diffuso, e sembra cominciare a riscuotere successo anche nel caso di emicranie primarie benigne acute. La tecnica di somministrazione preferita sembra essere quella utilizzata nel trattamento della depressione grave, mediante l’applicazione di un’infusione endovenosa continua breve di dosi sub-allucinogene rispetto alla somministrazione in bolo di una bassa dose (Long e Koyfman, 2018). Alla base dell’efficacia della ketamina viene ipotizzato il suo potere di neurorigenerazione, rimodellamento, interazione con le ammine biogene e dissociazione del sistema limbico da quello talamocorticale. La ketamina può indurre un’inibizione della ricaptazione della serotonina, e l’interazione con i recettori muscarinici, nicotinici, GABA; non è ancora chiaro se essa agisca anche sui recettori oppioidi.80
La ketamina nel PTSD e nel disturbo bipolare Oltre alla MDMA, anche la ketamina parrebbe avere promettenti proprietà terapeutiche nei confronti del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). In uno studio preliminare sviluppato presso l’Università di Medicina del Monte Sinai (New York), 41 pazienti con diagnosi di PTSD cronico sono stati sottoposti a trattamento con infusione di ketamina (0,5 mg/kg) o controllo (midazolam 0,045mg/kg). Dopo una singola infusione di ketamina si è ottenuto il rapido miglioramento dei sintomi rispetto al midazolam, e i benefici si sono protratti oltre le 24 ore, e il miglioramento dei sintomi in 7 pazienti si è mantenuto fino a 2 settimane (Feder et al., 2015). È stata descritta una variante fenotipica del disturbo bipolare pediatrico, denominata fear of arm (“paura del pericolo”), con caratteristiche cliniche gravi e resistenza alle terapie convenzionali. Questo fenotipo presenta caratteristiche in comune con il PTSD, incluse reazioni aggressive in risposta alla percezione del pericolo (si pensa che questo tipo di disturbo insorga in seguito a incubi ricorrenti). In uno studio retrospettivo, 12 bambini di 10 anni di età con disturbo bipolare sono stati trattati con ketamina intranasale (30120 mg). Come conseguenza del trattamento è stato osservato un significativo miglioramento dell’ansia, dell’aggressività, della paura del
pericolo, del comportamento aggressivo, del sonno e di altri sintomi. Gli effetti collaterali, per lo più di natura dissociativa, svanivano entro un’ora dalla somministrazione, la quale veniva ripetuta ogni 3-7 giorni per mantenere i benefici ottenuti (Papolos et al., 2013). Interessante il caso di un bambino di 7 anni con storia psichiatrica di PTSD e ospedalizzazioni multiple presso il dipartimento di pediatria dell’Università del Minnesota. Il bambino manifestava un disturbo dell’affettività e disturbo da comportamento dirompente, con frequenti manifestazioni quotidiane di esplosioni di rabbia e distruzione delle proprie cose. La gravità degli attacchi con aggressione fisica aveva richiesto più volte il ricorso al contenimento fisico. L’anamnesi riportava esperienze traumatiche con maltrattamenti all’età di 5 anni. Le terapie precedenti, con somministrazione di farmaci stabilizzanti dell’umore, non avevano dato alcun miglioramento. Al momento della descrizione del caso il bambino era ricoverato in un presidio di lungodegenza. All’età di 7 anni, il bambino fu operato per intervento di tonsillectomia e ricevette, oltre ad altri farmaci per l’anestesia generale, 10 mg di ketamina endovenosa. Nei giorni successivi all’intervento, gli infermieri della clinica osservarono che il bambino era molto più tranquillo e non mostrava la frequenza e drammaticità delle crisi precedenti, con una nuova capacità di autocontrollo. Non ci fu bisogno di ricorrere alle restrizioni fisiche, e persino i genitori lo trovarono più affettuoso. Anche il terapeuta osservò che il bambino presentava una maggiore apertura al dialogo e una predisposizione a raccontare i maltrattamenti subiti, che non aveva mai fatto in precedenza. Dopo 13 giorni, il bambino tornò alle condizioni psichiatriche di base. Tre mesi dopo, nel corso di un’indagine diagnostica di risonanza magnetica, il bambino fu nuovamente sedato con 10 mg di ketamina. Per la seconda volta, il bambino tornò calmo e in grado di regolare le emozioni. Fece nuovamente progressi in psicoterapia, così come avvenne la prima volta dopo l’intervento chirurgico. Questa seconda volta la remissione durò 8 giorni, dopodiché si osservò il ritorno alla linea di base (Donoghue et al., 2015).
Gli psichedelici nel disturbo ossessivo-compulsivo Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una condizione cronica e debilitante che si presenta almeno una volta nella vita nel 2-3% della
popolazione. Secondo alcune stime, i pazienti DOC rappresentano più del 10% della popolazione dei pazienti psichiatrici ambulatoriali, e il DOC si posiziona al quarto posto tra le diagnosi psichiatriche, dopo le fobie, l’abuso di sostanze e la depressione maggiore. L’età media di insorgenza è intorno ai 20 anni, la prevalenza è simile in entrambi i sessi e nei maschi si manifesta più precocemente rispetto alle donne. È frequente la concomitanza di altri disturbi mentali, soprattutto la depressione. Il profilo sintomatologico del DOC comprende i pensieri ossessivi e i comportamenti compulsivi. In molti casi il paziente rifiuta l’approccio medico e molti casi restano nondiagnosticati e non trattati. Il trattamento farmacologico convenzionale si avvale di farmaci antidepressivi, ottenendo nella maggior parte dei casi una riduzione limitata dei sintomi. Alla terapia farmacologica viene in genere associato un supporto psicoterapeutico con terapia cognitivo-comportamentale, ma la combinazione dei trattamenti ottiene comunque un’efficacia subottimale. Durante la fase delle TP degli anni ‘50-’60 gli psichedelici furono impiegati nel trattamento del DOC, soprattutto nel contesto della terapia psicolitica.81 Successivamente, si sono presentati alcuni casi riguardanti gli effetti benefici di psilocibina e LSD su pazienti affetti da DOC e disturbo dismorfofobico, che si erano auto-somministrati queste sostanze psichedeliche per motivi perlopiù ricreativi. Benché isolati, questi “report” sono interessanti e meritevoli di considerazione (Delgado e Moreno, 1999). Ad esempio, un ragazzo statunitense di 17 anni che presentava un quadro di DOC sin dall’età di otto anni, ha riportato più di 100 esperienze con LSD e funghi psilocibinici in cui aveva notato che i suoi pensieri ossessivi peggioravano per un’ora, per poi scomparire completamente per 4 o 5 ore (Leonard e Rapoport, 1987). Moreno e Delgado (1997) hanno riportato un caso simile riguardante un uomo di 34 anni con diagnosi di DOC che fin dall’età di 14 anni soffriva di inibizioni eccessive, compulsioni di conta, necessità di ripetere qualsiasi cosa un numero determinato di volte, e una varietà di altri rituali. L’uomo riportò di aver usato allucinogeni a scopo ricreativo sin dai 18 anni, e aveva realizzato che durante i periodi in cui assumeva gli allucinogeni non si manifestavano ossessioni o compulsioni. Aveva cominciato un uso giornaliero di allucinogeni, grazie al quale i sintomi andavano in remissione, e la remissione persisteva per diversi mesi dopo la sospensione della loro assunzione.
La psilocibina nel DOC Sulla base di queste segnalazioni aneddotiche, nel 2006 è stato condotto il primo studio clinico moderno effettuato per testare l’efficacia della psilocibina nel DOC. È stato selezionato un piccolo gruppo di 9 pazienti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo resistente ai farmaci convenzionali, somministrando loro 4 differenti dosi di psilocibina, con un range variabile da dosi basse (100 mcg/kg), medie (200 mcg/kg) e alte (300mcg/kg), che manifestavano effetti da sub-allucinogeni a francamente allucinogeni. Inoltre, una dose molto bassa di 25 mcg/kg è stata inserita casualmente e somministrata in modalità doppio-cieco. Le somministrazioni avvenivano a distanza di una settimana l’una dall’altra; ogni sessione aveva una durata di 8 ore e terminava col trasferimento del paziente in una clinica psichiatrica per l’osservazione notturna. Tutti i pazienti hanno evidenziato un’immediata riduzione dei sintomi di grado variabile, che si è mantenuta per un tempo maggiore di quello degli effetti psicotropi della psilocibina. I pazienti hanno riportato un sentimento di benessere dovuto alla “distrazione” dai sintomi e al “piacere” dell’insight psicologico, oltre a una modificata percezione del vissuto precedente all’esperienza. Dal punto di vista farmacologico l’efficacia della psilocibina potrebbe essere spiegata grazie alla sua attività agonista sui recettori 5HT1a, 5HT2a e/o 5HT2c; la down-regulation indotta sui recettori 5HT2a corticali e la modifica della regolazione genica potrebbero costituire i determinanti anatomobiochimici dell’efficacia terapeutica, come avviene nel disturbo depressivo maggiore (Moreno et al., 2006). La ketamina nel DOC L’entusiasmo scaturito dal successo della terapia con ketamina nel disturbo depressivo, ha spinto alcuni ricercatori a saggiare le potenzialità di questo anestetico dissociativo in altri disturbi psichiatrici. Uno di questi è il disturbo ossessivo compulsivo, alla cui eziopatogenesi sembra contribuire anche uno squilibrio del metabolismo del glutammato, motivo per cui si è scelto di provare la ketamina nel suo trattamento. Gli studi trovati in letteratura sul tema dimostrano risultati contrastanti. In un primo studio, la somministrazione di ketamina in 10 soggetti con DOC aveva dato dei risultati scoraggianti, ottenendo benefici sui sintomi
limitati alla durata degli effetti dissociativi della ketamina. I pazienti reclutati presentavano una concomitante sindrome depressiva, sui quali gli effetti della ketamina erano risultati invece positivi (Bloch et al., 2012). L’equipe di Rodriguez ha sviluppato un paio di studi clinici controllati. Un primo studio, un case report, ha riguardato una donna di 24 anni che si trovava obbligata a impiegare 8 ore al giorno per seguire un’ossessione di simmetria/ esattezza (il bisogno che gli oggetti si trovino nella giusta posizione spaziale, seguendo geometrie simmetriche o di altra natura esatta). Il trattamento con ketamina portò, oltre a un annullamento totale dei sintomi compulsivi nel corso del plateau psicoattivo, a una loro riduzione significativa durante i 6 giorni successivi (Rodriguez et al., 2011). Nel secondo studio, sviluppato su 15 pazienti affetti da OCD, sono stati scelti pazienti affetti soprattutto da ossessioni persistenti, in modo da poter valutare gli effetti immediati della sostanza e non le eventuali influenze esterne. Come nel primo studio, la ketamina è stata somministrata alla dose standard di 0,5 mg/kg in 40 minuti. Nel 50% dei soggetti è stata osservata una significativa riduzione dei sintomi, soprattutto dei pensieri ossessivi, che si è protratta per almeno una settimana dall’infusione (Rodriguez et al., 2013). Per spiegare le discrepanze nei risultati ottenuti fra gli studi delle équipe di Bloch e della Rodrigeuz, sono state osservate le metodiche di studio. Il campione di pazienti era stato selezionato in maniera differente: nello studio di Bloch i pazienti presentavano una diagnosi concomitante di depressione, ed erano tutti in trattamento farmacologico con inibitori del reuptake della serotonina o antipsicotici o benzodiazepine; mentre nello studio della Rodriguez i pazienti avevano sospeso i farmaci. In quest’ultimo studio erano inoltre stati reclutati i pazienti con predominanza di sintomi ossessivi (rispetto ai sintomi compulsivi), e questi sembrano rappresentare un sottotipo più sensibile agli effetti della ketamina.
Ayahuasca e disturbi del comportamento alimentare I disturbi del comportamento alimentare, che la recente classificazione del DSM V denomina disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, sono quelle problematiche psicologiche che concernono il rapporto tra gli individui e il cibo. Rappresentano una condizione medica grave e si manifestano con una
complessa eziologia, colpendo differenti sistemi fisiologici dell’organismo, dal sistema gastrointestinale a quello endocrino, all’alterazione di numerosi organi e apparati. Di frequente sono associati a un ampio spettro di comorbidità psicologiche: difficoltà di concentrazione, ansia, depressione maggiore, uso problematico di sostanze, auto-lesionismo, aumento della suicidalità. Oltre alle più note anoressia e bulimia nervose, i disturbi del comportamento alimentare comprendono il disturbo da alimentazione incontrollata, il picacismo e il disturbo da ruminazione, il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (in precedenza disturbo della nutrizione dell’infanzia o della prima fanciullezza) e altri disturbi.82 Nell’acquisire una popolarità sempre maggiore, le cerimonie di ayahuasca83 sono spesso frequentate da persone con disturbi del comportamento alimentare. Recentemente è stato condotto in Canada uno studio esplorativo sull’esperienza di alcuni partecipanti alle cerimonie, con lo scopo di valutare gli effetti psicologici e fisici dell’ayahuasca, l’impatto della dieta preparatoria e l’esperienza purgativa. Sebbene le pratiche cerimoniali dell’ayahuasca siano molto differenti a seconda del culto e del gruppo praticante, alcuni elementi delle cerimonie sono comuni, come la dieta preparatoria, con sospensione di alcuni alimenti, dell’alcol e dell’attività sessuale. Complessivamente sono stati intervistati 14 donne e 2 uomini, di età media di 33,5 anni, con diagnosi di disturbo dell’alimentazione. Dieci di questi avevano una diagnosi di anoressia nervosa e 6 di bulimia nervosa, e avevano partecipato a un numero di cerimonie totale tra 1 a 30. Le interviste venivano svolte dopo le cerimonie. La maggior parte dei partecipanti ha riferito di aver tratto dei benefici riguardo il proprio disturbo alimentare, e che l’ayahuasca li aveva aiutati a identificare quali fossero le cause psicologiche del disturbo alimentare, e i meccanismi dei sensi di colpa o di auto-commiserazione che li portava a sfogarsi nel comportamento autodistruttivo. Un altro aspetto riguardava la regolazione e l’elaborazione delle emozioni. La maggioranza dei partecipanti aveva acquisito questa aumentata capacità di regolare le emozioni e quindi di controllare i comportamenti compulsivi. Per alcuni, prima di raggiungere un miglioramento, si era verificata una fase di peggioramento o di esacerbazione, in cui il soggetto aveva potuto osservare con maggiore consapevolezza il comportamento autolesionista.
I pazienti con disturbi dell’alimentazione soffrono di un’alterazione dell’immagine corporea, e questo tema viene affrontato sotto ayahuasca, in quanto i potenti effetti comprendono anche la visione differente del proprio corpo: Ho visto me stessa come uno scheletro in putrefazione, e poi mi sono vista in un bellissimo corpo-pieno, una bellissima donna con questi capelli lunghi, e mi è venuta voglia di diventare questa donna. Di essere una donna piena, amabile, che ha tanto da offrire alla mia famiglia e al mondo. Poi ho sentito le mie costole, erano così vuote, e non potevo aspettare a tornare indietro ma dovevo iniziare a prendere peso (Lafrance et al., 2017: 431).
La presenza della dieta restrittiva preparatoria e l’effetto purgativo dell’ayahuasca attraverso il vomito spesso possono mimare o mascherare i sintomi di un disturbo alimentare. Alcuni partecipanti notavano che la dieta preparatoria aveva una somiglianza con alcune abitudini relative alla scelta degli alimenti, su cosa preparare, su cosa evitare. Quando è stato chiesto come percepivano il significato della purga e come lo rapportavano al vomito del disturbo alimentare, nessuno dei 16 partecipanti lo aveva associato con i sintomi patologici: La purga durante la cerimonia non è mai stata la stessa cosa dell’ingozzarmi e vomitare. Quando ho una crisi bulimica mi sento intontito, mangio, lo faccio nuovamente e me ne vergogno, è un modo incontrollato di mangiare e di vomitare tutto [...]. Nel contesto cerimoniale, di solito ho digiunato prima, non c’è niente dentro di me, non sento alcuna vergogna, non c’è sensazione di pienezza, è come una sensazione di ricalibrazione e di essere in grado di buttar fuori qualcosa che è stato trattenuto per parecchio tempo, ma non del cibo, non c’è spiegazione per quello che stavo rimettendo [...] e dopo, la sensazione di un sollievo immenso, l’opposto della vergogna, semplicemente gioia (Lafrance et al., 2017: 431).
Salvinorina A e disfunzioni gastrointestinali Nella medicina tradizionale gli estratti di Salvia divinorum sono usati nel trattamento della diarrea. I Mazatechi del Messico centrale usano la Salvia divinorum per curare anemia, emicrania, reumatismi, depressione e il “panzon de barrego” (addome gonfio) (Valdes et al., 1987). Studi sugli estratti di S. divinorum e sul suo principio attivo psichedelico salvinorina A hanno mostrato effetti sulla motilità gastrointestinale sia in vitro che in vivo, suggerendone un ruolo futuro nel trattamento dei disturbi gastrointestinali dell’uomo.
L’attivazione dei recettori KOR media la percezione del dolore e l’analgesia, e regola l’umore e la risposta alle sostanze d’abuso. I recettori KOR, insieme ai MOR (recettori oppioidi mu) svolgono una funzione importante nel tratto gastrointestinale; ad esempio i KOR inibiscono la trasmissione colinergica e non-colinergica nel plesso mioenterico, e inducono una riduzione della contrattilità della piccola muscolatura e ridotto transito intestinale. Abbiamo già illustrato la farmacologia dei recettori KOR nel capitolo 11. La salvinorina A non differisce molto dalla dinorfina A nel legame sui recettori KOR, attraverso i quali esplica anche un potere antinocicettivo. La salvinorina A riduce la contrazione della muscolatura liscia intestinale elicitata dall’acetilcolina endogena, suggerendo la sua azione su un sito di legame pre-giunzionale. La sua azione periferica sui gangli del plesso mienterico che esprimono recettori KOR ha un effetto antinocicettivo e favorisce la distensione del colon. Grazie a questi effetti benefici sulla motilità gastro-intestinale e sulla percezione del dolore addominale, un buon target terapeutico potrebbe essere costituito dalla sindrome del colon irritabile a prevalente sintomatologia diarroica. La salvinorina A potrebbe agire anche attraverso i recettori cannabinoidi CB1 centrali, influenzando la motilità gastrica e la funzione dello sfintere esofageo inferiore, e l’omeostasi intestinale attraverso l’alterazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Così come altri agonisti KOR, la salvinorina A può influenzare l’apporto di cibo favorendo l’appetito e l’aumento del peso (anche attraverso la stimolazione sul recettore CB1 cerebrale). In quest’ultima azione la salvinorina A potrebbe essere utilizzata in futuro come un agente stimolante dell’appetito. Nuove prospettive farmacologiche sugli agonisti dei recettori KOR, come abbiamo già descritto ne capitolo 11, prevedono lo sviluppo di analoghi che non attraversino la barriera emato-encefalica, che abbiano un migliore profilo farmacocinetico e maggiore selettività recettoriale della salvinorina A (Fichna et al., 2009).
CAPITOLO 13
L’IMPIEGO TERAPEUTICO DEGLI EMPATOGENI
Aspetti storici Come anticipato agli inizi di questo libro, includiamo nella nostra trattazione l’impiego degli empatogeni nei trattamenti psicoterapeutici, date le implicazioni storiche, sociali e mediche che queste terapie hanno in comune con quelle psichedeliche, fermo restando il riconoscimento della netta distinzione delle proprietà farmacologiche, tossicologiche e nella sfera psicologica fra queste due classi di sostanze psicoattive. Per comuni implicazioni sociali intendiamo in particolar modo il loro impiego non medico e le problematiche d’accettazione sociale e di natura legislativa cui sono stati soggetti entrambi gli psichedelici e gli empatogeni. Quando, verso la fine degli anni ‘60, l’LSD e gli altri psichedelici divennero tabù negli ambienti istituzionali della ricerca scientifica, gli studiosi interessati all’impiego di sostanze modificatrici dello stato di coscienza nei trattamenti psicoterapeutici cercarono nuove sostanze che non fossero soggette a controllo legislativo. Fu così che si verificò una reiterata “corsa contro il tempo”, dove ogni nuova sostanza psicoattiva veniva provata e impiegata nei contesti psicoterapeutici, prima che dilagasse il suo impiego non medico, e che di conseguenza venisse incluso nella lista delle droghe sottoposte a limitazione legislativa. Fu così per la MDA, MMDA, MDMA, 2C-B e altre molecole del gruppo 2C, MEM, 2C-T-2 e altre molecole del gruppo 2C-T. La maggior parte di queste sostanze, in quegli anni considerati ancora degli psichedelici, appartengono oggi alla classe degli empatogeni.84 Ci soffermiamo solamente su due empatogeni, MDA e MDMA.85 Dopo la scoperta da parte di Gordon Alles degli effetti psicoattivi della
MDA nel 1959, in seguito a studi su soggetti normali e osservando la mancanza di allucinazioni, Claudio Naranjo e Alexander Shulgin suggerirono un possibile impiego di questa sostanza in psicoterapia, per via della sua capacità di accrescere l’accesso alle sensazioni e alle emozioni senza la distrazione della distorsione sensoriale (Naranjo et al., 1967). Naranjo si cimentò in un lavoro pionieristico di impiego della MDA e di un altro empatogeno meno noto, la MMDA,86 nel corso di sedute psicoanalitiche di gruppo e individuali su soggetti non patologici, e giunse a considerare la MDA la “droga dell’analisi”, per via anche della facilità di induzione dell’emersione di contenuti di vita dell’infanzia: Un aspetto di questa esperienza è che comporta la percezione della realtà immediata. A differenza della persona sotto effetto di LSD, che è portato a vedere dei o demoni, forze impersonali che si manifestano attraverso la sua esistenza personale, qui la coscienza dell’individuo è centrata sulle qualità uniche delle sue sensazioni tattili, propriocettive, auditive, ecc. E queste senza mostrare demoni o principi astratti, ma la realtà particolare del soggetto (Naranjo, 1973: 66).
Secondo l’équipe di Richard Yensen, le riemersioni delle esperienze dell’infanzia con la MDA sembrano avere una qualità unica: le funzioni dell’ego restano intatte e forniscono un senso di prospettiva che spesso manca nel medesimo tipo di esperienze sotto gli effetti del lisergico (Yensen et al., 1976: 243). La medesima équipe guidata da Yensen, del Maryland Psychiatric Center di Baltimora, verso la metà degli anni ‘70 sviluppò uno studio clinico su dieci pazienti nevrotici, introducendo nel programma psicoterapeutico la somministrazione di MDA. Questo empatogeno fu somministrato per os da due a quattro volte, con dosaggi iniziali di 75 mg, incrementati successivamente sino a raggiungere i 200 mg. Lo studio fu sviluppato senza placebo e senza gruppo di controllo, e i risultati furono valutati con un follow-up a sei mesi. Con l’ausilio di diverse scale psicometriche – fra cui MMPI e SHQ87 – fu osservata una generale riduzione delle principali caratteristiche delle nevrosi, e cioè le tendenze ossessive-compulsive, la depressione e l’ansia (Yensen et al., 1976: 233). Nel frattempo, l’impiego non medico della MDA si diffuse nella società statunitense, dove veniva denominata gergalmente love drug (“droga dell’amore”) (Weil, 1976) e alcuni decessi causati da questa sostanza contribuirono alla sua collocazione nel 1973 nella Tabella I delle droghe negli Stati Uniti (Climko et al., 1986-87), e successivamente nelle altre
nazioni. La relativamente meno tossica molecola MDMA iniziò a diffondersi negli ambienti underground statunitensi agli inizi degli anni ‘70, o forse ancor prima, e per alcuni anni sia Shulgin che diversi psicoterapeuti che la impiegavano nei loro trattamenti evitarono di pubblicizzarla e di pubblicare i risultati delle loro ricerche inerenti questo empatogeno, nonostante non fosse illegale, per il timore di incorrere nel medesimo iter in cui era incorso la MDA. Ma a partire dal 1983 la sua notorietà e impiego non medico dilagò al punto che fu messa sotto controllo nella Tabella I degli USA nel 1985.88 Pur tuttavia, negli anni 1977-1985 la MDMA fu studiata e impiegata da diversi psicoterapeuti e psichiatri, fra cui Ann Shulgin,89 Claudio Naranjo, George Greer, Richard Yensen.90 La MDMA fu impiegata soprattutto come coadiuvante il lavoro psicoanalitico nei soggetti non affetti da patologie mentali, spesso in sessioni di gruppo, o nelle terapie di coppia e familiari, come facilitante dell’analisi delle dinamiche inter-relazionali. In più rari casi fu impiegato in pazienti afflitti da patologie mentali. Citiamo la ricerca di Greer e Tolbert (1986), i quali si cimentarono in uno studio sugli effetti della MDMA in un setting clinico, somministrando l’empatogeno in dosaggi di 75-150 mg a 20 soggetti normali e a nove individui afflitti da patologie mentali. Fra questi, un distimico e un fobico riportarono una guarigione completa (con follow-up a 9 mesi), e gli altri – depressi e afflitti da disordini della personalità – riportarono dei miglioramenti.
L’MDMA nel PTSD Dopo una quindicina d’anni di “esilio forzato” dalla ricerca medica, agli inizi del terzo millennio la MDMA si è riaffacciata sulla scena degli studi clinici, per merito soprattutto dell’incessante opera dell’organizzazione MAPS, che sviluppò un primo progetto quinquennale, con un supporto finanziario di 5 milioni di dollari, volto alla realizzazione di studi clinici con questo empatogeno. Come patologia su cui sviluppare la ricerca fu scelto il Disturbo da Stress Post Traumatico (acronimo inglese PTSD), sulla base di specifiche considerazioni teoriche psicoterapeutiche e neurofarmacologiche. Questo disturbo si presenta con una certa frequenza in conseguenza di pesanti traumi psichici, in particolare quelli indotti da eventi bellici, violenze
sessuali, torture e altri tipi di violenze fisiche e psicologiche, incidenti che hanno messo l’individuo in pericolo di vita, ecc. L’elemento caratteristico del PTSD è un debilitante stato ansioso accompagnato da sintomi di ossessività di riesperienza dell’evento traumatico, di ipervigilanza e di comportamenti di evitazione. Gli individui che soffrono di questo disturbo cronico sono inclini a una paralisi emotiva o a un’ansia travolgente di livello estremo. Oltre a trattamenti farmacologici, il PTSD viene affrontato con varie tecniche di psicoterapia, ma con un’inefficacia cumulativa che può raggiungere il 50%. La psicoterapia si basa sulla rivisitazione del trauma subìto, un evento che in molti casi non riesce a essere tollerato dal paziente, per via del sopraggiungere di un blocco emotivo o di attacchi di paura e panico, che di fatto precludono il processo di rielaborazione e di integrazione del trauma. Una serie di studi clinici di Fase 1 con somministrazione di MDMA a soggetti sani ha evidenziato, oltre alla mancanza di rischi in un contesto controllato, un insieme di effetti psicologici che includono euforia, aumento di sensazione di benessere e di fiducia in sé stessi, sociabilità, estroversione e riduzione della paura.91 È proprio la riduzione della paura congiuntamente con l’aumentata fiducia in sé stessi che può essere d’aiuto nel trattamento psicoterapeutico del PTSD, potendo creare o allargare quella “finestra di tolleranza” necessaria per la rivisitazione del trauma con il relativo carico emotivo.92 L’aspetto teorico dell’impiego dell’MDMA nel trattamento del PTSD si basa anche su alcune considerazioni farmacologiche e neurofarmacologiche. Il PTSD può essere inquadrato a livello neurofisiologico come uno squilibrio tra l’attività dei centri della paura nel cervello, principalmente dell’amigdala, e le parti del cervello dove si elabora il ragionamento logico e razionale per superare la risposta alla paura – principalmente la corteccia prefrontale (PFC). Una iper-attivazione dell’amigdala è il correlato neurofisiologico dell’ansia, e si osserva anche nella depressione e nel PTSD negli adulti e nei bambini. L’ossitocina rilasciata in seguito a somministrazione di MDMA attenua significativamente la paura associata all’attivazione dell’amigdala, riducendo la risposta allo stress e all’ansia sociale. L’amigdala è associata anche al giudizio che abbiamo delle persone in base alla loro espressione del volto, e il monitoraggio della sua attivazione/disattivazione è utilizzato in neuroimaging sperimentale. La stimolazione dell’amigdala può avvenire attraverso la presentazione di
immagini di volti che presentano diversi stati emotivi – felici, tristi, paurosi – e l’analisi della congruenza alla risposta dell’amigdala in base al tipo di volto presentato è un marker sia diagnostico che dell’efficacia terapeutica di una sostanza (Sessa, 2016b). L’MDMA riduce l’identificazione con sentimenti negativi e le reazioni di rifiuto sociale, mentre favorisce le altre emozioni positive. Le osservazioni cliniche e i riscontri soggettivi dell’effetto pro-sociale dell’MDMA indicano che la riuscita della terapia viene facilitata dalla capacità dell’MDMA di promuovere la relazione terapeutica; è possibile che l’MDMA riduca i sintomi del PTSD attraverso la riconsolidazione dei ricordi o promuovendo l’apprendimento e la memorizzazione dell’estinzione della paura. Il riconsolidamento dei ricordi e l’estinzione della paura sono due processi differenti, e possono essere entrambi bersaglio della terapia con MDMA. Il riconsolidamento dei ricordi descrive un tipo di neuroplasticità che interessa l’elaborazione di un ricordo stabile che viene riattivato, destabilizzato, e quindi modificato o riaggiornato con informazioni aggiuntive. Durante la seduta con MDMA, la rievocazione di un ricordo traumatico può avvenire con una percentuale di errore, in quanto la traccia dei ricordi viene influenzata dal particolare assetto neurochimico generato dall’MDMA e dal setting terapeutico. La mancata corrispondenza tra il ricordo denso di paura e ansia e lo stato indotto dall’MDMA in cui prevale l’amore e l’empatia, permette un update delle informazioni attraverso meccanismi molecolari. Da un punto di vista neurochimico, osserviamo da un lato il potenziamento della trasmissione dopaminergica a causa dell’aumento di dopamina nello striato e nel mesencefalo; dall’altro, il rilascio di serotonina che stimola l’effetto prosociale, importante per un’ambientazione terapeutica positiva e che trasmette sicurezza. Il soggetto viene così messo in condizione di elaborare i ricordi traumatici in maniera obiettiva, sicura. È in grado di pensare e di discutere di quei ricordi in maniera oggettiva, come se fosse un osservatore esterno. Al momento non ci sono studi di brain imaging su soggetti con PTSD durante la somministrazione di MDMA. Tuttavia dati provenienti da soggetti sani hanno dimostrato che l’MDMA aumenta la connettività funzionale nel resting state tra l’ippocampo e l’amigdala, regioni limbiche responsabili per l’elaborazione dei ricordi emotivi. La connessione tra queste due regioni si è dimostrata ridotta nei pazienti con PTSD, e l’accoppiamento tra queste due
regioni potrebbe essere responsabile della riorganizzazione delle informazioni emotive contenute nei ricordi e nel trauma. L’MDMA riduce il flusso cerebrale all’amigdala, il centro anatomo-funzionale che guida la paura, e aumenta l’attivazione della corteccia prefrontale (Feduccia e Mithoefer, 2018). La stimolazione emotiva è ritenuta importante per il successo dei vari approcci psicoterapeutici, il che significa superare il comportamento di evitamento dei ricordi che mettono paura. Un ruolo fondamentale nel riconsolidamento dei ricordi traumatici sembra essere occupato dagli ormoni glucocorticoidi. I recettori dei glucocorticoidi sono concentrati nell’ippocampo e nell’amigdala, e gli ormoni glucocorticoidi, tra i quali il cortisolo che viene rilasciato dopo somministrazione di MDMA, sono potenti modulatori della memoria, specialmente dei ricordi che trasmettono la paura. L’ossitocina, ormone che promuove l’effetto prosociale, riduce l’attivazione dell’amigdala, dando una possibile spiegazione per la ridotta attivazione dell’amigdala da parte dell’MDMA (Feduccia e Mithoefer, 2018). Un primo tentativo di aprire la strada ai nuovi studi clinici con l’MDMA fu fatto dall’équipe di José Carlo Bouso presso l’Ospedale Psichiatrico di Madrid, dopo aver conseguito i relativi permessi dalle istituzioni sanitarie spagnole e mediante il finanziamento di MAPS. Lo studio, iniziato nel 2000, prevedeva la somministrazione multipla dell’empatogeno in dosaggi progressivi a 29 donne sofferenti di PTSD conseguente ad atti di violenze sessuali subite. Ma poco dopo l’inizio della ricerca, i quotidiani spagnoli sollevarono in maniera scandalistica un “polverone mediatico” tale, da indurre le istituzioni sanitarie a revocare i permessi, con conseguente brusca interruzione dello studio clinico.93 Evidentemente la società comune, “plasmata culturalmente” da decenni di visione unicamente negativa degli empatogeni, non era ancora pronta per concepire un loro impiego terapeutico. L’équipe di Bouso pubblicò solamente nel 2008 i risultati della fase iniziale di questa ricerca, relativi alla somministrazione dell’MDMA a 4 soggetti (ad altri 2 era stato somministrato un placebo), in dosi da 50 mg in 3 casi e 75 in un altro caso. I dosaggi avrebbero dovuto essere incrementati in sedute successive sino a raggiungere i 125 mg. I risultati furono considerati promettenti nell’alleviare i sintomi di PTSD, sebbene i dati furono così esigui, per via dell’interruzione dello studio, che non permisero di apportare un’elaborazione più significativa (Bouso et al., 2008).
È opportuno osservare che i pazienti sofferenti di PTSD scelti in questo studio, così come in quelli successivi, erano risultati resistenti a precedenti terapie farmacologiche e/o psicoterapeutiche. La somministrazione di MDMA nel contesto psicoterapeutico è una metodica che è stata sempre più ottimizzata attraverso le esperienze pionieristiche di Stanislav Grof, George Greer, Requa Tolbert, Ralph Metzner, Leo Zeff, Myron Stolaroff, Ann Shulgin; una metodica che prevede una determinata preparazione di psicoterapeuti e l’adozione di specifici protocolli terapeutici, che sono stati fissati in un paio di manuali impiegati nei moderni studi clinici (Passie, 2012; Mithoefer, 2011).94 La caratteristica principale della terapia empatogena consiste in una modalità non-direttiva da parte del terapeuta, dove questi instaura una presenza e un rapporto empatico con il paziente, con una comunicazione enfatizzata più sull’invito che sulla direzione, e dove la sua funzione resta il più possibile nell’ambito del mero supporto all’esperienza fisica e psicologica personale del paziente. Il processo curativo è affidato all’esperienza stessa e alle abilità del paziente, in pratica, alla “intelligenza curativa interna, che è la capacità innata di una persona di curare le ferite del trauma” (Mithoefer, 2011: 6). La seduta vera e propria con l’empatogeno è preceduta da una serie di incontri preparatori e seguita da altre sedute psicoterapeutiche volte all’integrazione dell’esperienza empatogena. Il setting dell’esperienza prevede la sistemazione del paziente in un ambiente confortevole, dove gli viene suggerito di mantenere perlopiù gli occhi chiusi, con la possibilità di ascolto di musica attraverso delle cuffie. Sebbene non venga promossa la comunicazione verbale da parte del terapeuta, questi rimane disponibile nell’instaurare dialoghi richiesti dal paziente, a eccezione dei casi in cui si evidenzi un impiego del dialogo come mezzo di difesa e di distrazione dall’esperienza stessa. Allo sfortunato tentativo spagnolo di Bouso seguì uno studio clinico statunitense dell’équipe di Michael Mithoefer, sempre finanziato da MAPS, dove furono trattati 20 pazienti sofferenti in media da 19 anni di PTSD, di cui una parte ricevette l’empatogeno e l’altra un placebo inattivo (lattosio). Nella prima parte della ricerca i soggetti furono sottoposti in doppio-cieco a due sedute sperimentali, sia con psicoterapia + 125 mg di MDMA, che con psicoterapia + placebo. Due mesi dopo, ai pazienti che risultarono aver ricevuto il placebo fu offerta la possibilità di riceve la dose di MDMA (+ psicoterapia), trasformando quindi lo studio da doppio-cieco ad aperto. Nel
corso dello studio fu approvato un emendamento del protocollo, per poter dare l’opportunità ai pazienti di assumere una dose supplementare di 62,5 mg di MDMA 2-2,5 ore dopo l’assunzione della prima dose, con lo scopo di prolungare il tempo della finestra terapeutica aperta dall’empatogeno. Nove soggetti poterono usufruire della dose supplementare. Fra le scale di valutazione impiegate, citiamo il CAPS – un’intervista strutturata ampiamente impiegata nella valutazione dei sintomi di PTSD –, l’IES-R, che misura la risposta psicologica allo stress, e alcune scale neurocognitive (RBANS e PASAT), accanto alle misurazioni fisiologiche di routine.95 I risultati a 4 mesi di follow-up furono alquanto promettenti: la risposta clinica (calcolata con una riduzione di più del 30% dei sintomi PTSD) fu di 83,3% nei soggetti che ricevettero l’MDMA nella prima parte (quella cieca) rispetto al 25% del gruppo che ricevette il placebo; la maggior parte dei soggetti che ricevettero l’empatogeno non rientravano più nei criteri del DSM-4 che diagnosticano il PTSD, quindi erano considerabili guariti. Nella seconda parte, quella aperta, dove ricevettero l’MDMA coloro che in precedenza avevano assunto il placebo, la risposta clinica fu del 100%. Di questi, tre soggetti che non potevano lavorare a causa dei disturbi invalidanti da PTSD poterono riprendere la normale attività lavorativa (Mithoefer et al., 2010). Un’ulteriore valutazione dei medesimi soggetti di questo studio clinico, promossa a un follow-up di 17-74 mesi dallo studio originale, ha evidenziato valori – misurati mediante le scale CAPS e IES-R – rimasti pressoché invariati rispetto a quelli ottenuti nel precedente follow-up di 4 mesi, a testimonianza del perdurare degli effetti benefici della terapia con MDMA (Mithoefer et al., 2013). Un altro studio clinico è stato sviluppato in Svizzera dall’équipe di Peter Oehen su un campione di 12 malati cronici di PTSD. In questo caso è stato impiegato come placebo attivo la bassa dose di 25 mg di MDMA, e tutti i pazienti sono stati esposti a tre sedute con MDMA. Nella prima parte dello studio, in doppio-cieco, sono stati distinti in maniera randomizzata due gruppi di pazienti, dove il primo (n=8) ha ricevuto per tre volte a distanza di tempo 125 mg di MDMA, e 2,5 ore dopo altri 62,5 mg, mentre il secondo (n=4) ha ricevuto 25 mg + 12,5 mg del medesimo empatogeno e con la medesima tempistica. Similmente allo studio di Mithoefer, dopo questa prima fase la ricerca è stata aperta, dando la possibilità a coloro che avevano ricevuto il placebo di ricevere l’empatogeno nelle medesime posologie e
tempistiche precedenti. Dopo aver verificato una risposta clinica insufficiente in diversi soggetti, il protocollo è stato emendato con l’aggiunta di una terza parte, dove questi medesimi soggetti sono stati sottoposti a due ulteriori sedute con una dose maggiore di MDMA (150 mg + 75 mg). Come scale di valutazione sono state impiegate il CAPS e il PDS (Posttraumatic Diagnostic Scale), essendo anche quest’ultima una scala di auto-valutazione dei sintomi PTSD. I risultati sono apparsi contraddittori, in quanto non è stata evidenziata un’efficacia clinica del trattamento misurata con il CAPS, mentre è stata osservata una significativa riduzione dei sintomi PTSD misurati con il PDS (Oehen et al., 2013). I calcoli statistici relativi ai risultati di questo studio sono stati rivisti da Chabrol (2013), producendo un risultato meno contraddittorio, che ha evidenziato un generale miglioramento dei sintomi dei pazienti. Un ulteriore studio clinico di Fase 2 dell’équipe di Mithoefer è stato sviluppato su 26 individui facenti parte dell’esercito, dei pompieri e della polizia, che avevano contratto il PTSD nel corso di eventi traumatici nel contesto del loro lavoro. Il protocollo ha previsto la doppia somministrazione (a distanza di 3-5 settimane l’una dall’altra) in doppio-cieco di MDMA a due gruppi in due differenti dosaggi, 75 e 125 mg, oltre al gruppo di controllo al quale è stato somministrato come placebo attivo la bassa quantità di 30 mg del medesimo empatogeno. In tutti i casi è stata somministrata una dose opzionale pari a metà della dose iniziale, 1,5-2 ore dopo la prima somministrazione. Dopodiché, come nei precedenti studi clinici, lo studio è stato aperto, e coloro che avevano ricevuto il placebo (30 mg) o 75 mg di MDMA sono stati sottoposti a tre ulteriori sedute con 100-125 mg di MDMA. I risultati sono stati alquanto positivi, riassumibili cumulativamente con un 67% dei pazienti che a un anno di follow-up sono stati considerati guariti, non incontrando i criteri diagnostici per il PTSD misurati dal CAPSIV. Un interessante spunto di questo studio ha evidenziato come i soggetti sottoposti al dosaggio di 75 mg di MDMA mostravano un miglior risultato di quelli sottoposti a 125 mg del medesimo empatogeno. Ciò può essere dovuto o all’esiguità del campione trattato, o al fatto che il gruppo sottoposto a 125 mg soffriva di maggiore depressione del gruppo sottoposto a 75 mg, per cui è risultato maggiormente resistente alla terapia; oppure, è possibile che la dose di 75 mg possa permettere un processo di focalizzazione dell’esperienza
traumatica maggiore che la dose di 175 mg, per cui potrebbe risultare ottimale in questo tipo di pazienti. Per questo motivo, nella Fase 3 di questi studi clinici, iniziata nel 2018, che prevede il trattamento di 200-300 pazienti, verranno impiegati differenti dosaggi nella fascia di 80-120 mg, con lo scopo di individuare la dose ottimale per il trattamento del PTSD. Un’ulteriore considerazione tratta da questo studio clinico riguarda i soggetti che hanno ricevuto il placebo attivo, che si sono mostrati maggiormente refrattari al trattamento con le dosi piene di empatogeno ricevute nella seconda fase aperta dello studio, e ciò in accordo con il precedente studio di Oehen et al. (2013), che aveva osservato un miglior risultato nei soggetti trattati nella parte cieca con un placebo inattivo che quelli trattati con il placebo attivo di 30 mg di MDMA. È come se le basse dosi di empatogeno impiegate come placebo comportassero per un qualche motivo un effetto anti-terapeutico, che influenza negativamente i risultati del successivo trattamento a dose piena nella parte aperta di questi studi (Mithoefer et al., 2018). Un ultimo studio di Fase 2, il più recente e precedente la Fase 3 già iniziata, è quello dell’équipe statunitense di Ot’alora, che ha somministrato per due volte a distanza di un mese dosi di 40 (placebo attivo), 100 e 125 mg di MDMA a 28 malati di PTSD. Anche in questo caso è stata resa disponibile la somministrazione di una quantità opzionale di empatogeno (metà del dosaggio iniziale) 90 minuti dopo la prima somministrazione; un mese dopo il termine della prima fase lo studio è stato aperto, e i soggetti che avevano ricevuto il placebo attivo sono stati sottoposti a tre sedute di 100-125 mg di MDMA, mentre quelli che avevano assunto i dosaggi pieni di 100 e 125 mg, sono stati sottoposti a un’ulteriore seduta con l’empatogeno. I risultati sono stati misurati sino a un anno di follow-up mediante il CAPS-IV e altri strumenti valutativi.96 È stata osservata una significativa riduzione dei sintomi PTSD, e il 76% dei pazienti è stato considerato guarito. Lo studio statistico dei risultati ha evidenziato un’utilità della terza somministrazione dell’empatogeno, poiché con questa i sintomi PTSD si sono ulteriormente ridotti rispetto alla riduzione osservata a seguito delle prime due somministrazioni. I sintomi hanno del resto continuato a ridursi nei mesi successivi, a riprova che “l’MDMA aiuta a catalizzare un processo terapeutico che continua a lungo dopo l’ultima somministrazione della droga” (Ot’alora et al., 2018).
Altri studi con MDMA A questi studi di Fase 2 ha fatto eco un insieme di pubblicazioni, che non riportiamo nel dettaglio, focalizzate sulla discussione dei risultati e sui possibili meccanismi d’azione psicologici e farmacologici dell’MDMA nel trattamento del PTSD, così come sono state teorizzate possibilità d’impiego di questo empatogeno in altre patologie quali l’autismo negli adulti e l’alcolismo (Danforth et al., 2016; Sessa, 2017). Recentemente, l’équipe californiana guidata da Alicia Danforth ha portato a termine un primo studio di Fase 2 riguardante il trattamento con MDMA di 8 adulti affetti da autismo. Sviluppato in maniera randomizzata, con placebo inattivo (lattosio) e a doppio-cieco, lo studio ha previsto due esposizioni all’empatogeno a distanza di circa un mese l’una dall’altra, e a 6 mesi dal trattamento il doppio-cieco è stato aperto, permettendo ai 4 soggetti a cui era stato somministrato il placebo di sottoporsi a due trattamenti con MDMA (ma i risultati della fase aperta non sono ancora stati pubblicati). Gli 8 soggetti che hanno ricevuto l’empatogeno sono stati suddivisi in due gruppi a cui sono stati somministrati differenti dosaggi: 75 e 100 mg il primo, e 100 e 125 mg il secondo. La scala valutativa principale valutava il livello di ansia (LSAS, Leibowitz Scale Anxiety Scale), seguita da una scala di valutazione della depressione (BDI-II, Beck Depression Inventory) e da alcune altre scale. Tutti i soggetti hanno ricevuto un pretrattamento con sedute psicoterapeutiche, e durante le sedute con l’empatogeno (o il placebo) è stata impiegata una terapia di tipo mindfulness adattata alla terapia comportamentale dialettica (DBT), quindi con i pazienti non mantenuti in isolamento dall’ambiente fisico e sociale (cioè senza occhi bendati e cuffie), ma permettendo loro un contatto con lo sguardo e un dialogo con i terapeuti presenti. I risultati sono stati molto incoraggianti, con una significativa riduzione (75%) dei sintomi ansiosi nel gruppo di pazienti che aveva ricevuto l’empatogeno (indipendentemente dal dosaggio) che si è mantenuta sino a 6 mesi di follow-up (Danforth et al., 2018).
Fig. 34 – Quadro riassuntivo delle moderne indicazioni terapeutiche degli psichedelici. In alcuni casi si tratta di studi in corso i cui risultati non sono ancora stati pubblicati.
CAPITOLO 14
L’APPROCCIO TANATODELICO ALLA MORTE
In questo capitolo finale raduniamo i dati inerenti gli approcci psichedelici alla fase terminale della vita umana, proponendone anche una sistematizzazione e nomenclatura che fino a oggi non ci sembra siano state affrontate in maniera adeguata. Esiste un intimo rapporto fra droghe e morte, un rapporto differenziato nella sue accidentalità o intenzionalità, nelle sue analisi epidemiologiche, nelle modalità e implicazioni forensi, nei suoi giudizi sociali, ma anche nei suoi simbolismi e filosofie che raggiungono il nucleo più intimo dell’esistenzialismo umano. Un rapporto, quello fra droghe e morte, carente di studi ad ampie vedute, che comprendano tutti gli aspetti qui elencati. Una carenza di cui non intendiamo farci carico in questa sede, dove limiteremo la nostra attenzione al rapporto fra psichedelici e morte. Distinguiamo la relazione fra psichedelici e morte in tre categorie, basate sulla differenza funzionale nell’impiego dello psichedelico: come tanatogeno, Viatico e tanatodelico. L’impiego come tanatogeno riguarda l’uso degli psichedelici per indurre la morte; quello viatico si riferisce alla pratica di trovarsi sotto effetto di uno psichedelico nel momento del trapasso (Viatico pre-mortem) e alla pratica religiosa di fornire il deceduto di una fonte psichedelica per il suo “viaggio nell’aldilà” (Viatico post-mortem); quello tanatodelico riguarda una particolare forma di terapia psichedelica nel corso della fase terminale della vita umana, con scopi che esulano dalla cura del male che sta portando alla morte l’individuo. Quest’ultima pratica clinica rientra a tutti gli effetti nelle TP trattate in questo libro.
Fig. 35 – Tipi di relazioni degli psichedelici con la morte.
Impiego tanatogeno Questo impiego di psichedelici è quello di minor interesse nel contesto della nostra trattazione, ma lo citiamo per completezza di sistematizzazione. Riguarda principalmente alcuni tipi di fonti e sostanze psichedeliche, in particolare le fonti tropaniche e altre sostanze la cui dose letale non è troppo lontana dalla fascia delle dosi impiegate per l’esperienza visionaria. L’impiego tanatogeno, che induce la morte dell’individuo che assume lo psichedelico, è distinguibile in base allo scopo di questo atto: accidentale, omicida, suicida ed eutanasico. Lo scopo omicida rientra nel più generale scopo definito come “uso criminale” delle droghe. La pratica di somministrare a insaputa della vittima una fonte tropanica (datura, giusquiamo, scopolamina, ecc.) per indurgli uno stato di coma o comunque di disabilità mentale al fine di poterla derubare, è diffusa da tempo in tutti i continenti, in particolare in Asia e in Africa97. A
volte accade che la dose è eccessiva e che la vittima muoia, rientrando questi casi nella casistica tanatogena accidentale, pur nel contesto criminale dell’atto (omicidio preterintenzionale). Per citare un solo esempio, un caso recente ha riguardato un uomo francese di 35 anni che, durante un’escursione a un vulcano del sud-est asiatico, si accasciò a terra privo di coscienza e fu derubato dalla sua guida di tutti i beni. L’uomo morì e l’analisi post- mortem rilevò la presenza nei tessuti organici di elevate quantità di alcaloidi tropanici (Le Garff et al., 2016). Oltre all’accidentalità dell’atto tanatogeno, vuoi per scopi criminali o per un errore di calcolo di dosaggio fra gli assuntori di fonti psichedeliche per scopi visionari, si possono presentare casi di impiego di psichedelici per scopi di omicidio intenzionale. Quando assunte in eccesso, le medesime fonti tropaniche inducono una morte per depressione e blocco cardio-respiratorio; una morte che passa da una preliminare fase visionaria (psichedelica), a uno stato di coma, quindi privo di sensi e senza sofferenza fisica percepita, una caratteristica che può essere quindi considerata ideale come mezzo suicidario. L’atto intenzionale di porre fine alla vita di un individuo, ad esempio di una persona moribonda, può essere eseguita da un’altra persona con scopi compassionevoli, e si tratterrà quindi di eutanasia, sia volontaria (cioè con il morente consenziente), sia non volontaria (con il morente non in grado di esprimere la sua opinione, ad esempio perché si trova in uno stato di coma). Nella storia umana si sono presentati casi in cui come agente eutanasico è stata impiegata una fonte psichedelica. Citiamo come esempio un dato etnografico italiano. In Romagna, la dbenda de’ dólz trapas (“la bevanda del dolce trapasso”) si somministrava ai moribondi che così si addormentavano e passavano serenamente dal sonno alla morte, facendo una cosiddetta môrt da ânzul (“morte da angelo”). La ricetta di questa bevanda letale, in vigore fino agli anni ‘30 del XX secolo, veniva tramandata dalla Compagnia del Trapasso, una struttura assistenziale in opera nell’Ottocento che si occupava dell’assistenza ai moribondi. Due studiosi demologi98 hanno raccolto fra le testimonianze delle persone anziane della regione una composizione della ricetta: in mezza caraffa di vino trebbiano si mettevano tre cucchiai di miele e uno di mandorle, un pugno di sementi di canapa e un pugno di semente di finocchio, un mezzo bicchiere di infuso di erba limona (Melittis melissophyllum) e mezzo bicchiere di menta. Si teneva il tutto in infusione
per un giorno e una notte, poi si faceva bollire, si pestava, e si colava. In questa ricetta manca evidentemente l’elemento tanatogeno, che veniva molto probabilmente tenuto nascosto, e v’è da sospettare, per via dei contesti culturali, che riguardasse una fonte tropanica, la datura o la belladonna. Durante l’epidemia di “spagnola” del 1918, la somministrazione della bevanda del dolce trapasso era ancora in uso, e in quell’occasione fu chiamata con nuovi nomi, o ch’e’ va o ch’e’ ven (“o va o viene”, riferito all’agonizzante) e bona nöt scufiöt (“buona notte scuffiotto”) (Silvestroni e Baldini, 1990: 166-7).
Impiego come Viatico Il termine viatico, oggi in disuso, ha plurimi significati, che vanno da quello attribuito nella Roma antica all’insieme di oggetti che una persona portava con sé quando si metteva in viaggio, al significato dei periodi medievali attribuito al contributo materiale che i civili dovevano dare all’esercito in partenza per una missione, al senso letterario di ciò che può servire di conforto e di sostegno per una determinata impresa o attività. Il medesimo termine con apposta l’iniziale maiuscola (Viatico) ha invece il significato ecclesiale di “Eucarestia somministrata ai moribondi come alimento spirituale per affrontare l’estremo viaggio”, cioè la morte.99 È con quest’ultima accezione, di natura spirituale-religiosa, che abbiamo adottato tale termine per indicare un impiego molto particolare degli psichedelici, che per rigorosità e completezza sistematica distinguiamo in due comportamenti: Viatico pre-mortem e Viatico post-mortem. Il primo caso consiste nell’atto di assunzione di uno psichedelico durante la fase agonizzante del morente, quindi quando è ancora in vita, con lo scopo di esperire il momento del trapasso sotto effetto della fonte visionaria. Un caso rimasto celebre negli ambienti della cultura psichedelica fu quello di Aldous Huxley, che volle morire sotto effetto dell’LSD. È importante riconoscere che gli scopi di questo atto non hanno alcuna funzione terapeutica, secondo l’accezione della medicina occidentale moderna, e sono di natura prettamente religiosa. Come puntualizzato da Laura Huxley – la (seconda) moglie di Aldous Huxley –, ci sono persone che, credendo in una qualche forma di continuazione della vita dopo la morte, ritengono che la vita post-mortem dell’“anima” sia influenzata dalla condizione mentale
dell’individuo nel momento del suo trapasso, e per questo motivo danno molta importanza al modo in cui si muore. Anche Aldous Huxley era fermamente convinto di ciò (L. Huxley, 1968: 262). Del resto, in un’ottica di credenza di una forma di vita dopo la morte, e avendo la psicologia moderna scoperto quanto il trauma della nascita influisca sulla vita di un individuo, v’è chi ritiene che anche il trauma della morte possa influenzare la vita dopo la morte (ibid. :196). Huxley morì di un carcinoma alla gola, e nelle ultime ore della sua vita non fu in grado di parlare. A un certo punto chiese a Laura di avvicinargli un foglio di carta, dov’egli scrisse “LSD dammelo, 100 mcg intramuscolo”. Laura gli fece un’iniezione di una prima dose di 100 mcg, e dopo un’ora gliene iniettò altri 100 mcg. Dopo alcune ore Aldous esalò l’ultimo respiro, mentre era ancora sotto effetto dello psichedelico.100 Citiamo ancora il caso di un altro pioniere della ricerca e dell’impiego psicoanalitico e psicoterapeutico dell’LSD, Oscar Janiger (1918-2001). Egli somministrò l’LSD a un migliaio di persone dal 1954 al 1962. Fra i volontari delle sue ricerche e dei suoi trattamenti si annoverano il medesimo Aldous Huxley, la scrittrice Anais Nin e gli attori Cary Grant e Jack Nicholson. Nel 2001, sei mesi prima della morte, gli accadde di svegliarsi una mattina e trovare sua moglie accanto che era deceduta durante la notte, e quest’esperienza lo colpì molto. Quando si avvicinò il suo momento di morire, nell’agosto del 2001, egli decise di impiegare l’LSD come Viatico pre-mortem, similmente a quanto aveva fatto Aldous Huxley. Assunse 100 mcg di lisergico, e si procurò di essere attorniato sul letto di morte da un piccolo gruppo di parenti e amici (Hahn, 2010). L’impiego di fonti psichedeliche come Viatico post-mortem riguarda comportamenti che si svolgono essenzialmente nei contesti funebri, quando l’individuo è già deceduto, e che sono quindi attuati dagli altri individui coinvolti nella sua morte, quindi nel lutto nei suoi confronti. Anche in questo caso le finalità sono di natura prettamente religiosa. Citiamo come esempio un caso che uno di noi (G.S.) ebbe occasione di osservare di persona, nel contesto di studi etnografici in Gabon e nel corso di un rito funebre buitista fang. Ricordiamo che il Buiti è la religione diffusa nell’Africa Equatoriale Occidentale che impiega l’iboga come fonte visionaria enteogena. Nel rito funebre, svolto di notte, il deceduto venne portato nello nzimbé, il tempio sede dei riti buitisti, e fu collocato in posizione seduta con la schiena legata all’akun, il grande palo centrale che sorregge il tempio. L’akun è carico di
valenze simboliche, ed è inteso come un axis mundi attraverso il quale scendono e salgono gli spiriti dei morti (Samorini, 1997-98). Tutti i partecipanti al rito funebre assunsero una dose di iboga e si cimentarono in una ngozé (la “messa” buitista) con canti e danze sfrenate che si svolsero per tutta la notte, e mediante la quale intendevano accompagnare l’anima del defunto nell’aldilà. All’inizio del rito, nella bocca del defunto venne introdotta una dose di iboga, con lo scopo di facilitare la sua anima ad ascendere l’akun e recarsi nel mondo dei morti. Altri esempi di impiego di uno psichedelico come Viatico post-mortem si presentano con una certa frequenza nei contesti archeologici, quando vengono trovate tracce di fonti psichedeliche vegetali fra le suppellettili lasciate nelle tombe. Si tratta di un comportamento funebre attestato in molte regioni del globo e nei più disparati contesti culturali e cronologici. Il più delle volte l’elemento vegetale viene depositato accanto al cadavere, più raramente introdotto nel corpo del deceduto (Samorini, 2017). Questi comportamenti soggiaciono a sistemi di credenze religiose di natura escatologica, e si possono distinguere due motivazioni principali: la fonte psichedelica depositata nell’inumazione può essere intesa per il suo uso nell’aldilà da parte del defunto (o meglio della sua anima); altrimenti – e forse si tratta della motivazione più frequente – la fonte psichedelica viene lasciata al defunto per facilitare il viaggio della sua anima per raggiungere l’aldilà. Una diffusa credenza religiosa ritiene che, una volta deceduto, l’anima del defunto non vada immediatamente e normalmente nell’aldilà, ma debba cimentarsi in un complesso percorso non scevro di pericoli per poter raggiungere l’agognata destinazione ultramondana. Basti citare l’antico testo egiziano del Libro dei Morti e il Libro tibetano dei Morti, che sono dei veri e propri manuali dottrinali dei percorsi dell’anima dopo la morte.
Impiego tanatodelico Volgiamo ora l’attenzione all’aspetto della morte più pertinente al tema di questo libro. Non è mai stato facile parlare di morte e di psicologia del morente. Nella comunità medica occidentale del Ventesimo secolo il malato morente veniva e viene tuttora etichettato come “terminale”, e per lungo tempo il medico (in)curante non si preoccupava neanche lontanamente dei pur evidenti
sintomi psicologici di ansia, depressione, terrore, manifestati dal paziente, focalizzando l’attenzione unicamente sugli aspetti fisiologici e del dolore fisico. Gli aspetti psicologici erano ritenuti di competenza del prete o della suora che ruotavano attorno ai reparti ospedalieri. Eppure, è riconosciuto che, prendendo come esempio i morenti del Grande Male – lo spauracchio del Ventesimo secolo, così terrorizzante da diventare innominabile, il cancro – il 30-40% soffre di profonde crisi d’ansia e depressione, paragonato al 7-10% della popolazione generale (Blinderman, 2016). Altri calcoli statistici vedono una prevalenza di disturbi psichiatrici nei malati di cancro nel 50% dei casi, con presenza di disordini depressivi o d’ansia nel 24%, e una prevalenza della depressione maggiore nel 15% (Grob et al., 2013: 296). Ansia e depressione rientrano il più delle volte in una sindrome di demoralizzazione indicata come angoscia esistenziale, caratterizzata da sensazioni di mancanza di speranza, perdita di volontà di vivere, perdita di significato e senso di dignità, percezione di essere un peso per gli altri e desiderio di raggiungere in maniera affrettata la morte (Reiche et al., 2018: 1). Come evidenziato da Grof, il problema del prolungamento della vita a tutti i costi, dovuto a diversi fattori, da quelli psicologici (il terrore della morte) a quelli più pragmatici dei parenti (la perdita di pensioni o sussidi), il problema del nascondere al malato la sua reale condizione medica da parte dei parenti e l’adeguamento a questo comportamento parentale da parte dei medici, “tutto ciò rende ancora più profondo il senso di isolamento e di disperazione dei morenti, molti dei quali percepiscono il clima di falsità che li circonda” (Grof e Halifax, 1977: 18). La scienza medica iniziò a consapevolizzare il dovere etico di occuparsi anche degli aspetti psicologici-psichiatrici del morente per merito degli interessi pionieristici dello psicologo statunitense Herman Feifel (19152003), che curò il libro The Meaning of Death (1965), dove raccolse le opinioni di psicologi, psicoanalisti, psichiatri e altri studiosi riguardo la morte; e della psichiatra svizzera Elizabeth Kübler-Ross (1926-2004), considerata oggi la fondatrice della psicotanatologia, definita come “il sostegno psicologico davanti alla morte, sia per i pazienti terminali sia per i loro parenti”;101 un sostegno psicologico che in diversi casi si tramuta in un sostegno psichiatrico. In un saggio pubblicato nel 1969 che divenne famoso, On Death and Dying, la Kübler-Ross osservò come l’individuo la cui vita volge al termine
per una malattia non più curabile, passa attraverso cinque fasi psicologiche, a partire da quando riceve la notizia che è destinato a morire: negazione e isolamento, ira, contrattazione, depressione (reattiva e preparatoria), rassegnazione. A seconda del carattere, della cultura e della maturità dell’individuo, questi può soffermarsi maggiormente in una o alcune di queste fasi, o bypassarne altre. In ognuna di queste cinque fasi psicologiche possono presentarsi reazioni patologiche che richiederebbero l’assistenza di un professionista medico: lo psichiatra. Il più delle volte i problemi di natura psichiatrica nei morenti vengono risolti con metodologie sbrigative, volte allo “spegnimento farmacologico” dei sintomi psichiatrici, con conseguente obnubilamento della coscienza; un comportamento che soggiace a un più o meno consapevole giudizio di generale inutilità di qualunque altro tipo di trattamento, e in fondo di inutilità della coscienza del morente. Sotto questo aspetto, per la maggior parte degli ancora viventi il morente continua a essere percepito come un problema, un problema logistico, sociale o per i più coscienziosi un problema etico o morale, ma sempre come un problema e non più come un uomo con le sue facoltà intellettuali e la sua coscienza. Eppure, per dirla con Albert Kurland (1985: 279), “la morte non è un problema, è una condizione umana”. Quando sopraggiunsero le terapie psichedeliche, diverse delle quali si occupavano di trattare i disturbi di ansia e depressione di natura psichiatrica, fra gli studiosi iniziò a insinuarsi l’idea di trattare con gli psichedelici anche i disturbi psichiatrici dei morenti.102 A questo particolare tipo di terapia psichedelica, che come vedremo continua nella nuova fase delle TP dei giorni d’oggi, non è ancora stato dato un nome specifico. Proponiamo in questa sede di denominarla terapia tanatodelica, dove il termine “tanatodelico”, in ovvio parallelismo con quello di “psichedelico” (“rivelatore della psiche”), significa “che rivela la morte”, poiché nella dimensione psicologica di chi sta per morire, l’esperienza psichedelica pone di fatto l’individuo di fronte alla morte in una maniera tale da poter essere considerato come un atto di “rivelazione” della morte, dove alla morte viene tolto il velo dell’interpretazione culturale aggettivata di terrore, negazione e soppressione, ed è quindi possibile vederla nel suo stato “nudo”, come fattore naturale se non addirittura come atto “creativo” (che crea). È attraverso questo processo psicologico che si passa dalla offuscata rassegnazione alla più nitida accettazione della propria morte. Grob ha indicato questo tipo di trattamento come una medicina
esistenziale, “designata per intervenire direttamente e per migliorare la sofferenza emotiva e spirituale dei pazienti morenti”: Sotto l’influenza degli allucinogeni, gli individui trascendono la loro identificazione primaria con i loro corpi ed esperiscono stati liberi dall’ego prima del tempo del loro decesso fisico, e ritornano con una nuova prospettiva e una profonda accettazione del cambiamento costante della vita. Esperendo sé stessi in uno stato di transizione e con nuovi equilibrio e consapevolezza, cessa l’identificazione con il corpo morente. Questa accettazione implicita dei cicli inevitabili della vita portano a un approccio drasticamente modificato al tempo che resta da vivere, senza quelle sensazioni di panico, paura, dolore e dipendenza che erano prima sovrastanti (Grob, 2007: 213).
In altri termini, con lo psichedelico si vive un’esperienza di morterinascita e, per dirla con il frate agostiniano austriaco Abraham a Santa Clara, che visse nel XVIII secolo, “L’uomo che muore prima di morire non muore quando muore” (rip. in Grof, 2010: 12). Fra la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ‘60, un insieme di eventi fece maturare l’idea di somministrare uno psichedelico ai morenti. Come fattore che contribuì l’insorgere di quest’idea, molti autori hanno indicato il libro di Aldous Huxley L’isola, mandato alle stampe nel 1962; un romanzo che fa parte di quel filone letterario in cui vengono descritte società utopiche più o meno perfette o ideali, e di cui alcuni classici esempi sono La Repubblica di Platone, le opere rinascimentali Utopia di Thomas More (1516) e La Città del Sole di Tommaso Campanella (1602), e il romanzo 1984 di George Orwell del XX secolo. L’Isola di Huxley è considerato un capolavoro della letteratura moderna, in tanti aspetti tuttora attuale (come nelle idee sulla genitorialità), e non solamente per i risvolti “psichedelici” del racconto. Nella società utopica del romanzo di Huxley – collocata in un’isola di nome Pala – esiste una medicina chiamata moksha, costituita da funghi psilocibinici, che è assunta dagli isolani in diversi contesti; viene ad esempio data ai giovani nel corso di riti pedagogici collettivi, e viene assunta più privatamente a livello famigliare. Fra i personaggi del racconto è presente un’anziana donna ammalata e nei suoi ultimi giorni di vita, di nome Lakshmi. Diversi autori, fra cui la medesima moglie di Huxley, Laura, hanno enfatizzato l’importanza, nell’ideazione della terapia tanatodelica, dell’evento riportato ne L’isola, dove a Lakshmi morente viene data la medicina psichedelica moksha (Huxley, 1977b: 161).103 Il medesimo Huxley aveva elaborato questa idea alcuni anni prima di dare alle stampe L’isola: in una lettera del febbraio 1958 indirizzata a Humphry Osmond – lo psichiatra che fece conoscere ad Huxley l’LSD – questi scrisse:
“ancora un altro progetto: la somministrazione di LSD nel periodo terminale del cancro, nella speranza che possa rendere la morte un processo più spirituale e meno strettamente fisiologico” (Huxley, 1977a: 143). Ai fini della rigorosità storica e del rispetto delle priorità intellettuali, è tuttavia opportuno osservare – come indicato da Grof e Halifax (1977: 14) – che l’anno precedente, il 1957, Valentina Pavlovna Wasson – la moglie di Gordon Wasson, il padre dell’etnomicologia moderna che contribuì alla riscoperta dei funghi psilocibinici – rilasciò un’intervista al settimanale This Week in cui espresse l’opinione che, una volta che fosse stato isolato il principio attivo di questi funghi,104 questo avrebbe potuto risultare utile in medicina nel trattamento dell’alcolismo e delle altre tossicodipendenze, dei disordini mentali e delle malattie terminali associate a forti dolori. Ancora, in una comunicazione personale non datata, Huxley e Gerald Heard suggerirono a Sydney Cohen, del Neuropsychiatric Hospital di Los Angeles, di provare a somministrare dell’LSD ai malati terminali. Egli eseguì questo esperimento su un piccolo numero di malati terminali fra coloro che avevano manifestato difficoltà di accettare l’idea della morte, ma non riportò risultati interessanti, salvo il fatto che non si presentarono effetti spiacevoli (Cohen, 1960: 37). Essendo questo tentativo datato verso la fine degli anni ‘50, e indipendentemente dai risultati negativi e dalla mancanza di una specifica pubblicazione, si è trattato del primo moderno trattamento tanatodelico clinico. Seguendo invece il criterio delle adeguate pubblicazioni scientifiche, il primo ricercatore che somministrò in maniera metodica uno psichedelico (LSD) a dei malati terminali fu lo psichiatra e anestesista Eric Kast (19161988). Nato a Vienna e trasferitosi successivamente negli Stati Uniti, operò la sua professione principalmente presso gli ospedali di Chicago.105 Agli inizi degli anni ‘60, Kast sviluppò delle ricerche sul dolore fisico, proponendo una nuova teoria sul meccanismo dell’azione analgesica, basata sulle differenze riscontrate fra il dolore patologico e quello sperimentale. Nel corso delle sue indagini, studiò il dolore patologico nei pazienti che erano stati sottoposti a importanti interventi chirurgici (ad es. isterectomia addominale) e nei malati terminali afflitti da metastasi cancerose (Kast, 1962). Studiando l’effetto analgesico di diversi farmaci – codeina, meperidina, diidromorfinone, ecc. – a un certo punto gli venne l’idea di provare l’LSD, per via dei peculiari effetti di obliterare i confini dell’ego e di ridurre la capacità di concentrazione su una sensazione specifica quale un dolore fisico localizzato, inducendo più
facilmente una separazione geografica fra il sé e la parte dolorante. Più specificatamente, gli studi sull’LSD stavano evidenziando come sotto effetto di questo psichedelico l’attenzione potesse venire totalmente assorbita da una sensazione singola per un breve periodo di tempo, ma poi tendeva a spostarsi da una sensazione a un’altra più rapidamente del solito. In tal modo e ad esempio, una singola impressione visiva poteva avere la precedenza sulle sensazioni di dolore o sulle sensazioni riguardanti la sopravvivenza. In un primo studio, sviluppato insieme all’anestesista Vicent Collins, Kast somministrò meperidina, diidromorfinone e LSD a una cinquantina di malati terminali con metastasi cancerose, paragonandone gli effetti. Il risultato fu sorprendente, evidenziando effetti analgesici dell’LSD più duraturi e profondi di quelli indotti dagli altri due farmaci. In questo studio non fu intrapreso alcun lavoro psicoterapeutico prima e dopo la somministrazione del lisergico, poiché ai medici interessava studiare i meri effetti analgesici. Tuttavia, oltre a rilevare in molti pazienti un’attività genitale, interpretata come una regressione alla sessualità infantile, fu osservata in diversi casi: “una indifferenza per la gravità della loro situazione e un parlare liberamente della loro morte imminente con un’affetto considerato inappropriato nella nostra cultura occidentale, ma perlopiù benefico per i loro stati psichici. Questo approccio alla loro malattia fu notato solitamente per periodi più lunghi della durata dell’azione analgesica. Era una comune esperienza per il paziente rimarcare casualmente sulla sua malattia mortale e commentare quindi sulla bellezza di una certa impressione sensoriale. È concepibile che la rilevanza dell’input sensoriale significativo possa per periodi protratti superare la paura di morire” (Kast e Collins, 1964).
In uno studio successivo, Kast somministrò una singola dose di 100 μg di LSD a 128 malati pre-terminali, ai quali la morte era stata diagnosticata nel giro di 1-2 mesi. Tutti soffrivano di cancro con metastasi. Questa volta Kast si preoccupò di intraprendere un abbozzo di lavoro psicoterapeutico nella settimana precedente la somministrazione, cercando di intrecciare un rapporto di fiducia con il paziente e, oltre all’azione analgesica, misurò i cambiamenti affettivi, l’approccio psicologico alla malattia e alla morte imminente e gli effetti sul sonno. Dal punto di vista degli effetti analgesici, una caduta precipitosa del dolore si presentò a circa 2-3 ore dalla somministrazione dell’LSD, e questo sollievo durò 12 ore, e una diminuzione dell’intensità del dolore totale si protrasse per 3 settimane. Fu osservato anche un generale miglioramento nel sonno e una minore preoccupazione per la malattia e la morte.
Fig. 36 – Paragone degli effetti analgesici di tre farmaci, fra cui l’LSD, in malati terminali (rielaborata da Kast e Collins, 1964, fig. 2, p. 287).
Kast attribuiva la riduzione del dolore fisico con l’LSD all’inibizione dell’anticipazione, cioè a quel meccanismo di cui è dotato la mente che si basa sulla capacità verbale di concettualizzare e di promulgare gli eventi futuri a un livello teorico. Questo meccanismo è importante per la sopravvivenza e la dominanza umana. Ma vi sono situazioni, quali quelle dei terminali, in cui il meccanismo dell’anticipazione riduce la sicurezza e la sensazione di pace dell’individuo, aumentando quindi le sensazioni di impotenza e di sconsolatezza. In questi contesti l’individuo non ha più bisogno dell’anticipazione per la sopravvivenza, dato che sta per morire. L’LSD può essere utile in questi casi poiché induce una perdita della capacità di anticipare, mediante la diminuzione del potere delle parole e un’espansione della vita sensoriale immediata (Kast, 1967, 1971). Continuando in ordine cronologico, Sidney Cohen (1965), dopo i primi tentativi infruttuosi della fine degli anni ‘50, riprovò a trattare con l’LSD un malato terminale di cancro, concludendone in maniera più positiva che questo lisergico poteva essere utile per modificare l’esperienza della morte.106 Seguì il programma di terapia tanatodelica sviluppato a Los Angeles da Gary Fischer. Egli selezionò i malati terminali con i seguenti criteri: “che fossero sufficientemente motivati verso il lavoro psicoterapeutico, che
avessero sufficiente forza d’ego per poter far fronte a eventuali eventi traumatici repressi, che avessero sufficiente intelligenza e sofisticazione intellettuale per integrare il materiale scoperto, e avessero il potenziale per lavorare e accettare il fatto della malattia fatale e risolvere il problema della morte”. Egli scelse i malati terminali nei quali il trattamento del dolore fisico era senza risposte soddisfacenti, e quelli i cui attacchi di ansia e di panico li rendevano problematicamente non cooperativi nelle cure mediche. I trattamenti furono svolti in doppio cieco, dove come placebo veniva impiegato un analgesico sperimentale (Fischer, 1970b). Uno dei casi descritti da Fischer riguardava una donna di 45 anni, con cancro alle ossa, spina dorsale e cervello. Durante l’infanzia aveva vissuto il problema di suo padre che non le voleva bene e che la rifiutava. Le fu somministrata la dose di 200 mcg LSD. Durante l’esperienza ebbe un attacco di dolore fisico, e il terapeuta le disse: “Ascolta il tuo dolore, esperiscilo totalmente, fallo venire fuori, fallo venire fuori!”. La donna rispose agitata “non voglio, fallo andare via!”. Dopo numerose esortazioni e agitati rifiuti, a un certo punto la donna disse: “È mio padre, è mio papà. Non mi vuole, non mi ama. Volevo solo che mi volesse bene. Rideva di me. Voleva ch’io soffrissi”. Alla nuova domanda del terapeuta: “Come va il dolore?” la donna rispose “Quale dolore?”. Terapeuta: “Senti qualche dolore nel tuo corpo?”. Donna: “No, non ho alcun dolore”. In questo caso si presentò evidentemente una conversione del dolore fisico in dolore psicologico, e nel corso dell’esperienza questo switch fra dolore fisico e psichico si verificò numerose volte. Mano a mano la paziente diventava sempre più risentita con suo padre, e anche con sua sorella e con la chiesa, cioè con quelle persone e con quelle realtà che l’avevano sempre giudicata e biasimata, rovinandole la vita. Questo processo di consapevolizzazione ebbe una significativa azione catartica e migliorò lo stato psicologico della paziente, al punto che in seguito necessitò di quantità notevolmente inferiori di antidolorifici (Fischer, 1970b). Una considerazione importante che scaturì dallo studio di Fischer si basava sul fatto che “prima si inizia il trattamento con lo psichedelico, meglio è ai fini dell’efficacia terapeutica” (Fischer, 1970b), ricordando che il fine terapeutico non è mirato alla cura del male che sta portando alla morte l’individuo – una puntualizzazione che veniva e viene tuttora sempre chiarita al paziente prima dell’assunzione dello psichedelico – ma a un miglioramento del suo stato psicologico. Come puntualizzato da Alicia Danforth, una collaboratrice di Charles
Grob nel moderno progetto pilota di somministrazione di psilocibina ai morenti (si veda oltre), non è opportuno definire i malati come “pazienti di cancro terminali” e nemmeno “vittime del cancro”, dato che spesso i malati ancora non accettano la prognosi fatale della loro malattia. È più adeguato definire il cancro come “in fase avanzata” o “in fase metastatica”. Inoltre, vi possono essere pazienti terminali che, nella speranza più o meno consapevole di un estremo “miracolo terapeutico”, vedono la TP come una possibilità di cura del loro male, nonostante i medici facciano ben attenzione a non indurre in loro questa speranza, ricordandogli che la TP ha lo scopo di migliorare il loro umore e attenuare lo stato ansioso. Nel caso il paziente elabori l’idea che un miglioramento dell’umore possa fortificarlo e quindi indurre un prolungamento della vita, è comunque opportuno non negargli in maniera recisa questa remota possibilità (Brown, 2010). Arriviamo quindi a quello che fu il più noto studio clinico tanatodelico, svolto presso lo Spring Grove State Hospital di Baltimora (Maryland). In questo centro ospedaliero fu costruito un nuovo istituto come sede dello Psychiatric Research Center di Baltimora, che si interessò specificatamente della ricerca degli stati modificati di coscienza e delle terapie psichedeliche. L’edificio era costituito da più piani; al primo piano v’erano i laboratori per gli esperimenti sugli animali, al secondo piano v’erano diverse abitazioni adibite per le sedute cliniche, oltre a servizi, cucina, saloni e gli uffici dei ricercatori, mentre il terzo piano era sede di un laboratorio chimico di ultima generazione. Attorno a questo centro, diretto da Albert Kurland (1914-2008), si radunò un vivace gruppo di ricercatori, fra cui Walter Pahnke, William Richards, Stanislav Grof, Helen Bonny, Sandy Unger, Richard Yensen.107 Grof aveva eseguito studi con somministrazione di LSD a pazienti psichiatrici a Praga a partire dalla fine degli anni ‘50. A Praga ebbe occasione di lavorare anche con malati di cancro, e iniziò a elaborare un programma di ricerca specifica con applicazione dell’LSD ai morenti; ma nel 1967 fu chiamato a lavorare presso lo Spring Grove di Baltimora. Un ulteriore spunto che promosse la ricerca dell’impiego tanatodelico degli psichedelici allo Spring Grove si presentò nel corso delle TP con gli alcolisti, quando uno dei medici impiegati nel programma – una donna quarantenne di nome Gloria – si ammalò di cancro al seno, e dopo un’operazione chirurgica le fu diagnosticato un cancro incurabile al fegato. La donna soffrì di una forte depressione, ed ebbe l’idea di chiedere al gruppo di colleghi di ricevere il trattamento con LSD. I risultati furono molto
positivi, la donna uscì dallo stato depressivo per il resto di tempo che le rimase da vivere, e fu registrato anche una significativa riduzione dei segni patologici della malattia. Cinque settimane dopo l’assunzione di LSD la donna morì, in uno stato psicologico di pace interiore (Pahnke et al., 1970a). Insieme a Grof, nel 1967 si unì e diresse il progetto tanatodelico di Spring Grove Walter Pahnke. Ma nel 1971 questi morì tragicamente108 e dopo la sua morte Grof assunse la direzione del progetto. Nel 1972 Joan Halifax – allora moglie di Grof – si unì al gruppo, e dal 1974 oltre cento individui malati di cancro presero parte alla terapia psichedelica dello Spring Grove. I risultati di questa ricerca furono esposti, oltre che in una serie di articoli specialistici, in un libro che Grof scrisse con la Halifax, The human encounter with death (1977), di cui esiste una versione italiana pubblicata nel 1978.109 Non tutti i morenti erano considerati adatti al progetto tanatodelico, e furono stabiliti alcuni criteri di selezione: 1) presenza di forti stati depressivi, di ansia e/o isolamento psicologico; 2) prognosi stimata di almeno tre mesi di vita; 3) assenza di metastasi cerebrali o malattie cerebrali organiche; 4) assenza di storia recente di infarto miocardico o imminente pericolo di accidente cardiovascolare, e assenza di storia di attacchi epilettici; 5) assenza di psicosi corrente o storia di psicosi cronica (Grof et al., 1973). La fase precedente la somministrazione dello psichedelico durava 2 o 3 settimane, con un lavoro psicoterapeutico focalizzato sulle problematiche relazionali fra il morente e le persone importanti della sua vita e sulla problematica dell’accettazione della diagnosi funesta e della vicina morte. Il giorno prima del trattamento il terapeuta aveva un incontro con i familiari del paziente. Veniva chiesto di portare fotografie, opere d’arte o altri oggetti che avessero un significato particolare per il morente, oltre a frutta e fiori. A partire da una settimana prima veniva sospesa l’eventuale somministrazione di fenotiazine, in quanto queste interferiscono riducendo gli effetti dell’LSD e degli altri psichedelici, mentre venivano lasciati gli eventuali narcotici, citostatici e ormoni. I dosaggi iniziali di LSD erano di 200-300 mcg, somministrati oralmente, a meno che non vi fossero complicazioni fisiche al sistema gastro-enterico con nausea e vomito, nel qual caso si procedeva alla somministrazione via intramuscolo. Se dopo 1-2 ore il paziente manifestava ancora segni d’ansia poiché ancora rigidamente aderente ai legami della realtà, veniva somministrato ulteriore LSD, sino a raggiungere i 600 mcg. Era stato notato
che in linea generale le dosi basse erano meno efficaci. Nel caso di impiego di DPT, questo era somministrato sempre via intramuscolo, con dosi di 90150 mg (Kurland, 1985: 281). Nel contesto della seduta psichedelica, veniva svolto un lavoro psicoterapeutico di 12-33 ore prima, durante e dopo il plateau degli effetti. Nel corso del plateau, il paziente stava perlopiù sdraiato, con gli occhi coperti da paraocchi e dotato di cuffie per l’ascolto di musica. A intervalli venivano tolte cuffie e paraocchi e si instaurava un breve contatto verbale con il paziente, per dargli la possibilità di comunicare visioni e sentimenti. Nella fase di discesa degli effetti veniva facilitato il contatto fra il paziente e i parenti, contatto che “spesso facilitavano più aperte e leali comunicazioni e portavano interazioni insolitamente proficue” (Grof e Halifax, 1978: 46). La maggiore influenza dell’esperienza psichedelica era nelle sfere affettive ed emotive (Kurland, 1985). I risultati immediati consistevano in riduzione degli stati depressivi, ansiosi e dei disturbi del sonno, e riduzione della paura di morire. Altri cambiamenti riguardavano la filosofia di vita, l’orientamento spirituale e la sfera di valori. In alcuni casi si presentavano modifiche significative anche nella percezione del dolore fisico; modifiche misurate in base alle quantità di antidolorifici richiesti dal paziente. In caso di risultato non pienamente soddisfacente, o di nuovo peggioramento delle condizioni emotive, veniva ripetuta un’ulteriore seduta psichedelica. Occasionalmente si presentò la possibilità di condurre la seduta a casa del paziente (ibid., 1978: 48). Fra i fattori positivi fu osservata la risoluzione della frustrante sensazione dei lavori non finiti, indotta da una minor preoccupazione per il futuro conseguente al profondo senso di pienezza raggiunto (Pahnke et al., 1970a: 74). In termini statistici, su 22 pazienti trattati, in 14 (circa due terzi) fu osservato un cambiamento pienamente positivo, e in 6 di questi un drammatico miglioramento (Pahnke et al., 1969). Con un altro gruppo di 33 trattamenti, si ottennero i rapporti di 1/3 di ampi risultati positivi, 1/3 di risultati significativi, e 1/3 di nessun cambiamento utile (Pahnke et al., 1970a). Con un’analisi estesa a 60 pazienti trattati (44 con LSD, 19 con DPT e 3 con entrambi gli psichedelici), il 29% dei soggetti mostrò un miglioramento “drammatico” e un altro 42% un miglioramento moderato (Grof et al., 1973; Kurland et al., 1973). I risultati generalmente persistevano da un paio di settimane sino a un mese, e svanivano gradualmente, riducendosi a memorie che potevano ancora influenzare l’attitudine e il
comportamento (Pahnke et al., 1969). In quei casi in cui si verificò anche un sollievo dal dolore fisico, questo durava spesso per periodi di settimane o anche mesi. Ciò appariva ai ricercatori dovuto a una componente psicologica dell’effetto analgesico. Come possibili spiegazioni furono considerate “aumento della tolleranza al dolore; defocalizzazione dell’attenzione dallo stimolo doloroso e allargamento del campo della consapevolezza; aumentato orientamento “qui e ora” che attenua la componente del passato e del futuro coinvolto nell’esperienza del dolore (sovrasensibilizzazione dovuta a memorie dei dolori passati e all’anticipazione del dolore nel futuro)” (Grof et al., 1973: 143). Cohen (1965) aveva in precedenza ipotizzato che l’LSD non agisse direttamente sulla parte del cervello che riceve gli impulsi del dolore, bensì modificasse il significato del dolore, di fatto diminuendolo. La medesima équipe dello Spring Grove sviluppò un programma sperimentale tanatodelico dove fu somministrata una singola dose di DPT (dipropiltriptamina) a 34 malati di cancro diagnosticati come terminali. Alla fine degli effetti del DPT, il paziente veniva fatto ricongiungere con i membri della famiglia, e si presentava spesso una terapia altamente produttiva all’interno della famiglia. Come risultati, su 34 soggetti trattati 15 furono classificati come peakers (cioè avevano raggiunto un’esperienza di picco), e gli altri 19 come non peakers, e fu osservato un migliore risultato (misurato in miglioramento dello stato psicologico e del senso di auto-realizzazione) fra i peakers rispetto ai non-peakers. Gli studiosi conclusero con l’osservazione che i peakers potrebbero aumentare con un programma di somministrazione multiplo dello psichedelico, dato che per alcune persone il processo della dissoluzione dell’ego, che è un prerequisito per lo sviluppo di un’esperienza di picco, potrebbe richiedere un’assunzione multipla per un’acquisizione di fiducia del trattamento (Richards et al., 1977). Nelle terapie tanatodeliche è stato saltuariamente impiegato anche la MDMA. Per citare uno dei pochi casi descritti con una certa estensione, psichiatri dell’Heffter Research Institute di Santa Fe (New Mexico, USA) praticarono un trattamento tanatodelico con questo empatogeno su un uomo settantenne affetto da mieloma multiplo, sofferente di dolori fisici e di un forte stato depressivo. Nel primo trattamento fu coinvolta anche la moglie, e nelle prime cinque ore, quindi per tutto il plateau dell’esperienza, i due coniugi furono tenuti in stanze separate, e quindi ricongiunti, con conseguente forte interazione emotiva. Sin da questo primo trattamento
l’uomo beneficiò di una significativa riduzione del dolore fisico, oltre che di un innalzamento dell’umore, di tipo estatico e di “amore cosmico”. Dopo due settimane egli comunicò ai medici che “il suo dolore era tornato, ma che la sua abilità di “ri-ancorarsi” all’esperienza [in MDMA] libera dal dolore lo aiutava molto nel ridurre il dolore”. Nel giro di nove mesi gli fu somministrato l’empatogeno altre quattro volte, con ulteriori riduzioni di dolore fisico e successivi “ri-ancoraggi” che lo aiutarono a prolungare gli effetti analgesici delle esperienze con la MDMA. Con il sopraggiungere, nel 1985, della messa al bando della MDMA negli Stati Uniti, il trattamento tanatodelico fu sospeso; l’uomo morì alcuni mesi dopo l’ultima seduta empatogena, con una grande sensazione di pace sebbene dolorante fisicamente (Greer e Tolbert, 1998). Nel 2014 è iniziato un progetto finanziato dall’associazione MAPS di Rick Doblin e diretto dallo psichiatra e psicoterapeuta Phil Wolfson, per il trattamento con MDMA degli stati ansiosi dovuti a malattie terminali. Fra i criteri di inclusione v’è una prognosi di almeno 9 mesi di aspettativa di vita. I presupposti teorici dell’impiego di un empatogeno sono stati così riportati nel protocollo del progetto: La combinazione di MDMA e psicoterapia può essere specificatamente utile nel trattamento dei disordini di ansia perché la MDMA può attenuare la risposta di paura di un pericolo percepito nei confronti dell’integrità emotiva, e diminuire le difese senza bloccare l’accesso alle memorie o prevenendo un’esperienza profonda e genuina dell’emozione. Questa riduzione delle difese può permettere un più profondo impegno nei confronti di materiale che potrebbe altrimenti essere troppo angosciante da affrontare. I soggetti sono in grado di esperire ed esprimere paura, rabbia e dolore con minor probabilità di sentirsi travolti da queste emozioni (Doblin-MAPS, Protocol MDA-1, 2015: 10).
Tornando agli psichedelici, nella nuova serie di studi clinici gli approcci tanatodelici sono iniziati per opera dello psichiatra statunitense Charles Grob e mediante il finanziamento dell’Heffter Research Institute. Egli ha sviluppato una ricerca clinica presso l’Harbor-UCLA Medical Center di Los Angeles su 12 pazienti in fase avanzata di cancro, tutti con una diagnosi di disordine da stress acuto. Di questi, 11 erano donne e l’età era compresa fra i 36 e i 58 anni. Furono stabiliti i seguenti criteri di esclusione: coinvolgimento del SNC del cancro, funzioni epatiche o renali abnormali, diabete, storia passata di schizofrenia, disturbo bipolare e ansia o disordini affettivi entro un anno prima dell’inizio del cancro. Le controindicazioni mediche nelle due settimane prima della TP includevano chemioterapia attiva del cancro,
medicazioni di anti-epilettici, insulina e ipoglicemizzanti orali, e farmaci psicotropi.110 Ai pazienti era richiesto anche la sospensione di qualunque medicazione dal giorno prima al giorno dopo la somministrazione della psilocibina, fatta eccezione di farmaci analgesici non narcotici, e con sospensione di farmaci narcotici per il dolore limitata dalle 8 ore prima alle 6 ore dopo la seduta psilocibinica. Furono programmate due sessioni TP a distanza di numerose settimane l’una dall’altra. In una delle due fu somministrata oralmente una dose moderata di psilocibina (0,2 mg/kg), e nell’altra un placebo attivo (niacina, 250 mg). Lo studio venne sviluppato in doppio cieco e con randomizzazione nella scelta dei gruppi. La somministrazione veniva eseguita alle h. 10 della mattina, e durante le prime ore al paziente veniva richiesto di tenere gli occhi coperti e di ascoltare della musica con delle cuffie, seguendo le modalità che erano state sviluppate negli anni ‘60-’70 allo Spring Grove di Baltimora. I risultati non furono così significativi come quelli delle ricerche successive e di quelle precedenti del progetto Spring Grove; probabilmente il motivo risiede nel dosaggio troppo basso di psilocibina. I risultati furono misurati principalmente mediante una scala valutativa dell’ansia (State-Trait Anxiety Inventory, STAI) e una della depressione (Beck Depression Inventory, BDI); fu osservata una riduzione dell’ansia che si conservava a 1 e a 3 mesi dopo il secondo trattamento, mentre i sintomi depressivi si erano ridotti del 30% a un mese dal secondo trattamento. A 6 mesi dopo si è osservato un lieve aumento dello stato ansioso, un dato che potrebbe essere in relazione, più che con lo svanire degli effetti della TP, con il deterioramento dello stato medico dei morenti. Anche l’umore migliorò nelle due settimane dopo la TP, e si mantenne fino a 6 mesi dopo. A differenza di altri studi clinici, non fu osservata una riduzione della percezione del dolore né una riduzione della necessità di farmaci antidolorifici narcotici. Numerosi pazienti espressero l’opinione dell’utilità di una seconda sessione con psilocibina per rinforzare ed estendere gli effetti terapeutici percepiti nella prima sessione (Grob et al., 2011). Seguì uno studio clinico svizzero, sempre con un numero esiguo di casi (N=12) trattati con LSD. Come placebo fu impiegato un basso dosaggio del medesimo lisergico (20 mcg), mentre il dosaggio effettivo era di 200 mcg, in entrambi i casi con assunzioni per os. Il trattamento lisergico era preceduto 23 settimane prima da due giornate intere di psicoterapia, e nel corso del plateau lisergico venivano scoraggiati dialoghi troppo lunghi fra il paziente e
lo staff medico. Dopo l’esperienza veniva sviluppata psicoterapia in tre sedute della durata di 60-90 minuti. Lo studio fu sviluppato con una modalità particolare: in una prima fase furono somministrate le due dosi, di LSD o di placebo, a distanza di 4-6 settimane di distanza; quindi lo studio venne aperto, con somministrazione di LSD in due dosi piene – anche queste a distanza di alcune settimane – ai pazienti che avevano assunto in precedenza il placebo. I risultati furono valutati con follow-up a 2 e 12 mesi di distanza dal trattamento e misurati principalmente mediante la scala STAI di valori di ansia. Fu osservata una riduzione significativa dell’ansia a 2 mesi, che si mantenne sino a 1 anno dal trattamento (Gasser et al., 2014). Nel corso dello studio di follow-up a 1 anno mediante interviste semistrutturate, fu sviluppata un’approfondita valutazione qualitativa degli effetti psicologici a lungo termine che andava oltre la mera valutazione del grado di ansia dei pazienti. Fu osservata una riduzione della paura della morte, un cambiamento soggettivo della personalità che comportava una maggiore apertura e consapevolezza, e in definitiva un miglioramento della qualità della vita. Gli autori hanno evidenziato la differenza fra i risultati dell’équipe dello Spring Grove – che calcolavano un terzo di miglioramenti “drammatici”, un terzo di miglioramenti moderati e un altro terzo privo di miglioramenti – con i loro risultati, che pur non avendo osservato alcun miglioramento “drammatico”, hanno osservato miglioramenti, da alti a bassi, in tutti i pazienti. Essi hanno addotto questa differenza al differente dosaggio di LSD somministrato, che nel loro caso non era così “drammatico” come negli studi allo Spring Grove (Gasser et al., 2015: 66), ma poteva anche essere dovuta, almeno in parte, alle differenti modalità di misurazione degli effetti e dei risultati. Nel 2016 sono stati pubblicati i risultati di altri due studi clinici tanatodelici sviluppati negli USA. Il primo studio è stato sviluppato alla Johns Hopkins di Baltimora e ha riguardato il trattamento con psilocibina di 51 malati di cancro con diagnosi terminale e con sintomi di forte depressione e ansia. Nonostante anche in questo studio, randomizzato e a doppio-cieco, sia stato somministrato un placebo attivo costituito da una piccola dose di psilocibina (1-3 mg/70kg), mentre la dose piena era di 22-30mg/70kg, è tuttavia stata impiegata una metodologia differente da quella dell’équipe di Gasser, ovvero un metodo crociato, cioè a ogni paziente veniva somministrato ciecamente sia il placebo che la dose effettiva, osservando il periodo di 5 settimane di distanza fra una
somministrazione e quella successiva. Per cercare di minimizzare le aspettative sia dei pazienti che delle persone addette al monitoraggio del trattamento – aspettative che notoriamente possono influire sugli effetti e risultati del trattamento con psichedelici – è stata presa l’accortezza di informarli del fatto che la psilocibina sarebbe stata somministrata in entrambe le sedute, e che i dosaggi avrebbero potuto o non potuto essere gli stessi nelle due sedute. La valutazione dei risultati si è avvalsa della somministrazione di tutta una serie di questionari nei seguenti momenti: prima della seduta psichedelica, a sole sette ore dopo la somministrazione della psilocibina (o del placebo), 5 settimane dopo e 6 mesi dopo dalla seduta psichedelica. Osservando solo uno di questi momenti valutativi, sette ore dopo la somministrazione il paziente – non importa in quale situazione psicologica si trovasse – ha dovuto compilare ben quattro questionari, uno dopo l’altro: l’Hallucinogen Rating Scale (HRS), il 5-Dimensional Altered States of Consciousness (5D-ASC), il Mysticism Scale, e lo States of Consciousness Questionnaire (SOCQ). Mediante il sistema metrico predisposto, il principale risultato terapeutico è stata l’osservazione, a 6 mesi di follow-up, di una riduzione degli stati depressivi e ansiosi rispettivamente nel 78% e nell’83% dei pazienti, con un 65% di pazienti che ha evidenziato una remissione di questi sintomi (calcolata sulla base di una diminuzione di almeno il 50% dei sintomi iniziali) (Griffiths et al., 2016). Il secondo studio pubblicato nel 2016 è stato sviluppato a New York e ha riguardato il trattamento di 29 malati di cancro nuovamente con psilocibina (0,3 mg/kg per os), e dove come placebo è stata somministrata la niacina. Lo studio era doppio-cieco e crociato, e con una periodo di 7 settimane fra le due assunzioni. In questo studio la somministrazione è stata accompagnata da psicoterapia prima, durante e dopo il trattamento (per un totale di 4 mesi). Fra i risultati, è stata osservata una riduzione della depressione nell’83% e dell’ansia nel 58% dei pazienti a 7 settimane dal trattamento, che si sono mantenute al 60-80% a 6,5 mesi di follow-up. È stata osservata anche una generale riduzione dell’angoscia esistenziale e un miglioramento nella qualità della vita: “questo dato farmacologico è nuovo in psichiatria in termini di una singola dose di un medicamento che porta a effetti immediati antidepressivi e ansiolitici con effetti clinici durevoli (di settimane e mesi)” (Ross et al., 2016: 1175). In questi ultimi due studi clinici, lascia perplessi la quantità di questionari
somministrati al paziente per la valutazione dei risultati. Nel caso dello studio dell’équipe di Ross, il paziente ha dovuto compilare da uno a sei questionari nei seguenti giorni: alcune settimane prima, il giorno prima dell’assunzione della dose 1 (che poteva essere la psilocibina o il placebo), sette ore dopo l’assunzione della dose 1, il giorno dopo la dose 1, due settimane dopo la dose 1, 6 settimane dopo la dose 1, 7 settimane dopo la dose 1 e il giorno prima della dose 2 (che poteva essere il placebo o la psilocibina), sette ore dopo la dose 2, il giorno dopo la dose 2, 6 settimane dopo la dose 2, 26 settimane dopo la dose 2. Fra i tipi di questionari somministrati citiamo, senza pretesa di completezza: Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), subscala di autovalutazione dell’ansia (HAD A), subscala di autovalutazione della depressione (HAD B), Beck Depression Inventory (BDI), Spielberg State-Trait Anxiety Inventory (STAI), Demoralization Scale (DEM), Hopelessness Assessment and Illness (HAI), Death Anxiety Scale (DAS), Death Transcendence Scale (DTS), versione breve della World Health Organization Quality of Life Scale (WHO-Bref), Functional Assessment of Chronic Illness Therapy-Spiritual Weel-Being (FACIT-SWB), Mystical Experience Questionnaire (MEQ 30), Persisting Effects Questionnaire (PEQ).111 È lecito sollevare il dubbio che i risultati di questo ammasso di questionari possano risultare falsati, pur senza intenzione da parte del paziente. Come abbiamo evidenziato in precedenza112, basandoci anche sui giudizi di altri studiosi, la compilazione di questionari durante la fase di discesa di uno psichedelico risulta molto facilmente per il paziente un’operazione tediosa, percepita come inutile, molesta e in definitiva frustrante, rispetto all’importanza e alla “grandiosità” di ciò che si è vissuto e che ancora si sta esperendo, e tale per cui v’è da dubitare sul valore scientifico di centinaia di crocette fatte disporre dentro a dei quadratini solo per dimostrare il valore scientifico dell’esperimento terapeutico in corso, utilizzando il paziente come mera “estensione” degli strumenti di misurazione predisposti, e ciò indipendentemente da quanto egli sia stato pre-deliberatamente consenziente nel sottoporsi a tutto ciò. Non si deve dimenticare che si tratta di pazienti che stanno per morire, che hanno una valutazione degli eventi, delle persone, degli oggetti, dei fogli di carta pieni di quadratini, alquanto differente dagli individui sani, a maggior ragione se hanno appena esperito un forte stato modificato di coscienza; una differenza di valutazione della realtà che non sappiamo quanto siano in grado di tenerne conto strumenti di valutazione
della realtà “a quadratini”. Questa osservazione ci riporta direttamente al problema già esposto della inadeguatezza, nel contesto delle terapie psichedeliche, degli strumenti di controllo e di valutazione dei risultati impiegati normalmente nella ricerca clinica, e dell’esigenza di elaborare altre metodiche specifiche per lo studio degli stati modificati di coscienza e delle conseguenze terapeutiche a questi associati.
Ritorno a Pala L’appunto critico appena esposto, in merito all’inadeguatezza delle metodiche impiegate nei recenti studi clinici di somministrazione di uno psichedelico ai malati morenti, ci porta verso altri più generali dubbi e a formulare opinioni e idee tanatodeliche che esitiamo presentare al lettore dalla normale “sede” di divulgazione scientifica in cui fino a questo momento abbiamo steso il nostro libro; e ciò non tanto per una discutibilità scientifica di queste idee, quanto per la possibile difficoltà di una loro accettazione sociale. Per questo motivo, e con lo scopo di ridurre il rischio di scandalizzare l’impreparato lettore, abbiamo scelto di esporre queste idee finali della nostra trattazione da una sede comunicativa differente, in un’isola utopica, e precisamente a Pala, l’isola di Aldous Huxley. La parola utopia ha un’etimologia greca, dove il prefisso où- significa “no”, e il termine tópos “luogo”, quindi con il significato di “nessun luogo”. Questo termine fu coniato dallo scrittore inglese Thomas More (1478-1535), che lo utilizzò nel suo scritto più famoso, Utopia, pubblicato nel 1516 e dove, prendendo spunto da La Repubblica di Platone, descriveva una società ideale posta in un’isola di nome Utopia.113 Nel coniare questo termine, More si avvalse di un gioco di parole basato sulla omofonia del termine utopia con quello di eutopia, dove il prefisso eu- significa “buono, bene”, quindi con il significato di “luogo buono”. Con questo gioco di parole, che risalta particolarmente nella lingua inglese – dove utopia ed eutopia hanno la medesima pronuncia – More poneva di fatto le basi per un’identificazione semantica dei luoghi utopici con i “buoni luoghi”. L’isola, per il fatto di essere circondata dal mare e di essere una terra isolata, è sempre stato il luogo ottimale per collocarvi società ideali, utopiche, “buone”, e da dove è possibile esporre opinioni e idee difficili e a volte
pericolose da proporre in “terra ferma”. Huxley pubblicò L’isola nel 1962. Fu l’unico documento, ancora in forma di manoscritto, che riuscì a salvare dall’incendio del 1961 che distrusse completamente la sua casa, inclusa la sua libreria. Egli era corso su per le scale per salvare il manoscritto di quel romanzo che aveva impiegato cinque anni per scriverlo, prima che le fiamme avvolgessero la casa.114 Nel romanzo, un giornalista occidentale di nome Will Farnaby naufraga con la sua barca a vela su una spiaggia dell’isola di Pala; un’isola vietata agli stranieri, e soprattutto agli occidentali. Farnaby, che era rimasto ferito a una gamba, viene accolto da un uccello parlante, un mynah, che continuamente dice “Attenzione!” e “Qui e subito!”. Soccorso da una bambina di nome Mary, a Will viene concesso di restare a Pala il tempo necessario perché la sua gamba guarisca. Nel corso del romanzo vengono descritti diversi aspetti della società palanese, evidenziati come scelte migliori di quelle della cultura occidentale, e diverse delle quali sono ancora attuali; ad esempio il modo in cui a Pala viene condotta la genitorialità, che non è relegata alla coppia dei genitori biologici, ma è estesa a Circoli di Adozione Reciproca. Un’altra caratteristica della società palanese è l’impiego di una medicina, chiamata moksha, costituita da funghi psilocibinici, quindi una fonte psichedelica, che viene impiegata in diverse occasioni, sia privatamente che nel corso di pratiche pedagogiche e altri momenti sociali. Nel corso del racconto si presenta in maniera ricorrente il discorso della morte e soprattutto dell’approccio alla morte: “È sciocco chi non si prepara alla morte” (:161).115 A Pala esistono diverse discipline scientifiche, fra cui la neuroteologia, la metachimica, il micomisticismo e “la scienza ultima, la scienza attraverso la quale, prima o poi, verremo tutti esaminati: la tanatologia” (:163). I morenti vengono “aiutati a morire”: (Will) “Che cosa dite ai moribondi? Dite anche a loro di non rompersi la testa sull’immortalità e di tirare avanti? (Susila) “Se le piace esprimersi in questo modo, si, è precisamente quello che facciamo. Continuare a essere consapevoli... è l’intera arte del morire”. (Will) “E insegnate quest’arte?” (Susila) “Io mi esprimerei diversamente. Li aiutiamo a continuare a praticare l’arte del vivere anche mentre stanno morendo. Sapere chi si è in realtà, essere consci della vita universale e impersonale che si manifesta per il tramite di ognuno di noi... questa è l’arte di vivere. E il morente può essere
aiutato a continuare a praticarla. Fino alla fine. Forse al di là della fine” (Huxley, 1977b: 279-280). Nel romanzo trova spazio la storia di una donna ammalata, nei suoi ultimi giorni di vita, Lakshmi, la moglie del dottor Robert, il medico che curò la ferita alla gamba di Will. Il passo dove Robert riferisce di un’ultima esperienza con la medicina moksha che Lakshmi vuole fare con suo marito, pur non essendo intenzionalmente inserito in un contesto di approccio tanatodelico alla morte, sarà destinato a influenzare gli psichiatri che, nella nostra realtà, stavano sviluppando le terapie psichedeliche: Ormai è questione di pochi giorni – disse il dottor Robert [rivolgendosi a Murugan, il giovane Rani (re) di Pala] – quattro o cinque al massimo. Ma [Lakshmi] è ancora perfettamente lucida, pienamente consapevole di quanto le sta accadendo. Ieri mi ha chiesto se non avremmo potuto prendere insieme la medicina moksha. L’abbiamo presa insieme – soggiunse a mo’ di parentesi – una o due volte all’anno negli ultimi trentasette anni, sin da quando decidemmo di sposarci. E ora, una volta di più... per l’ultima volta, l’ultima, l’ultima volta. Ci esponevamo a un rischio, a causa delle lesioni al fegato; ma abbiamo deciso che valeva la pena di correrlo. Ed è risultato che non ci sbagliavamo. La medicina moksha – la droga, come tu preferisci chiamarla – non l’ha sconvolta quasi affatto. Non le è accaduto altro che subire la trasformazione mentale (Huxley, 1977b: 161).
In un passo dove Lakshmi, sul letto di morte, parla della percezione del dolore fisico, Huxley anticipa sorprendentemente i risultati degli studi clinici di Eric Kast: (Susila) “Il dolore è forte?” (Lakshmi) “Sarebbe forte se davvero fosse il mio dolore. Ma, chissà perché, non mi appartiene. Il dolore è qui, ma io mi trovo in qualche altro luogo. È come quello che si scopre con la medicina moksha. Nulla ti appartiene veramente. Neppure il dolore” (Huxley, 1977b: 298).
Susila è la madre di Mary; è un’insegnante di psicologia pratica elementare, una donna alta, una “bianca figura profumata di muschio” (:264), con cui Will dialoga sempre più nel corso della parte finale del romanzo. Ed è con un nostro immaginario dialogo finale fra Susila e Will nell’isola di Pala che intendiamo concludere il nostro libro. “Attenzione!”, gridarono all’unisono i tre mynah che stavano appollaiati sul medesimo ramo, “Qui e subito!”. Will alzò lo sguardo verso quegli uccelli che sin dal momento del suo naufragio sulla costa di Pala non smettevano di ricordargli, a lui, si
specialmente a lui, di prestare attenzione al qui e subito. Oggi erano addirittura in tre a ricordarglielo contemporaneamente. Gli era rimasta impressa l’ultima frase detta dal dottor Robert il giorno dopo che Lakshmi se ne era andata fra le sue braccia, “Devo correre al CTP”; il frettoloso saluto del medico non gli aveva dato il tempo di chiedere chiarimenti. CTP, cosa voleva dire? Era la prima volta che sentiva questo acronimo. Intuiva solamente che aveva a che fare con il lutto per il trapasso di Lakshmi. Poco dopo udì dietro di sé l’incalzare faticoso della jeep di Susila sull’ultima salita delle stradina che raggiungeva il belvedere. Will si voltò per salutarla, ma soprattutto per non restare nell’irrispettosa posizione di voltarle le spalle. Sul belvedere in cima alla collina che si affacciava sul lato orientale di Pala c’erano un tavolo e due panchine di legno fissate sotto a un ombroso cedro del Libano. Da un’ora Will era seduto su una delle panchine, in compagnia dei tre mynah appollaiati sul ramo più orizzontale del cedro. Aveva raggiunto il belvedere con il minibus che faceva la spola fra il paese e la collina. Uscita dalla jeep, Susila sorrise mentre si avvicinava a Will. Era il suo modo di salutare. Will lo trovava un bel modo di salutare, senza parole, senza movimenti, solo un sorriso che riempiva il necessario. Stettero seduti in silenzio per un po’ di tempo, senza fretta di comunicare, anche se era lo scopo del loro incontro. Un ultimo incontro, prima della dipartita di Will da Pala. “Cosa significa CTP?”, disse Will aprendo il dialogo senza preoccuparsi di preamboli formali, ormai inutili nella sua relazione con Susila. “Il CTP è la Compagnia del Trapasso Palanese. Ha sede in quella struttura piramidale laggiù”, disse indicando con il braccio sinistro. “Si occupa dei complessi luttuosi”. “Si occupa della morte quindi”, disse Will. “Si occupa dei complessi luttuosi”, ribatté Susila con l’accento di chi vuol ricalcare ciò che ha appena detto. “Il complesso luttuoso ha ovviamente a che fare con la morte di qualcuno, ma non riguarda unicamente la persona che sta per morire o che è appena deceduta. Riguarda tutta la sfera di relazioni affettive che ruotano attorno al morente. L’evento della morte di una persona affligge il morente e tutte le persone che sono relazionate in un vincolo affettivo con lui, affligge persino il cane, il gatto e gli altri animali domestici. C’è chi è convinto che
affligga anche le piante che sono state amorevolmente curate dal morente”. Susila si fermò per un lungo momento, in attesa di qualche commento di Will. Ma questi attese che l’insegnante di psicologia pratica elementare riprendesse a parlare. “Il CTP è una struttura assistenziale che si occupa contemporaneamente della salute psicologica del morente e dei suoi parenti, amici stretti e quanti altri sono emotivamente coinvolti dal suo trapasso. Li aiuta da quando giunge la notizia che non c’è più nulla da fare per il malato sino a dopo il suo decesso. Uno dei percorsi di cui si occupa il CTP è quello tanatodelico. A Pala il processo del morire non è psichiatrizzato come presso di voi, non si va in un reparto psichiatrico per prendere la moksha, per “morire meglio”, e non si lasciano soli i vivi. Da noi queste cose si fanno dentro le mura domestiche, oppure ci si rivolge al CTP”. “Il dottor Robert quindi si è rivolto al CTP per il lutto di Lakshmi? Mi ha parlato di CTP l’ultima volta che l’ho sentito”. “No – rispose Susila – lui ha organizzato una seduta con la moksha nella sua casa con tutti i membri della famiglia, dopo la morte di Lakshmi; ha sufficiente esperienza e non ha bisogno di rivolgersi al CTP. È che oramai le sedute con la moksha nel contesto del complesso luttuoso vengono tutte chiamate per brevità CTP, anche quelle svolte privatamente”. “Da noi l’idea di coinvolgere i parenti stretti nel trattamento tanatodelico resta ancora inconcepibile – disse Will – nonostante ci siano state delle eccezioni. Ricordo di aver letto di un caso riportato dallo psichiatra statunitense Gary Fischer, che disse che era avvenuto fuori dagli Stati Uniti; secondo me non è vero, disse così semplicemente per evitare problemi, dato che aveva dato l’LSD sia alla morente che al marito sano, un fatto non permesso dal protocollo ospedaliero. Il caso riguardava una donna di 83 anni con cancro al polmone. Suo marito, di 81 anni, 56 anni di matrimonio, era molto apprensivo, era dipendente dalla moglie ed era molto preoccupato su come sopravvivere senza di lei. Fischer diede a entrambi l’LSD nello stesso tempo, ma durante le prime sette ore in due set terapeutici separati. Dopo di che la coppia venne riunita, e si assistette a una scena molto commovente, di forti abbracci e di un “nuovo” incontro fra innamorati. L’anziana donna fu nuovamente coinvolta nella vita per via del suo nuovo innamoramento. L’uomo non provò più ansia e riprese con forza a vivere senza più paura. Vissero pienamente la vita i mesi successivi, sino alla morte di lei. Nessuno dei due aveva più paura della morte di lei. L’uomo non visse il lutto poiché,
come diceva, “non sentiva che sua moglie se ne fosse veramente andata”. Egli continuò a vivere con vivacità e pienezza, molto nel presente, nel “qui e subito” – Will pronunciò il “qui e subito” alzando lo sguardo verso i mynah – Fu ricontattato dopo tre anni, e aveva ancora un umore positivo, un senso di pienezza e un interesse per la vita”.116 Uno rumore di svolazzo d’ali fece interrompere per un momento il dialogo, con entrambi Will e Susila che alzarono lo sguardo per osservare due dei mynah che avevano preso il volo, lasciando il terzo appollaiato sul ramo, che si ridispose più comodamente al centro del ramo, apparentemente interessato al dialogo dei due umani. “Secondo lei perché i mynah dicono di fare attenzione al qui e subito maggiormente a me che agli abitanti di Pala?” “Evidentemente perché lei ne ha più bisogno di noi”. “Attenzione!” gridò il mynah. Will sbuffò spazientito. “È un caso commovente quello che ha descritto – disse Susila – ed è ciò che si presenta normalmente nei nostri percorsi tanatodelici: il dolore che si trasforma in gratitudine attraverso il reindirizzamento della commozione, con conseguente riduzione dello stato ansioso. Ma affinché ciò possa verificarsi in una forma completa, è necessaria l’interazione del morente con le persone che ama e che lo amano nel contesto dell’esperienza tanatodelica. Nel caso che ha appena raccontato, la coppia è stata mantenuta separata nelle prime sette ore, cioè durante la parte più imponente del plateau. Da noi non si priva l’interazione affettiva di questa importante fase dell’esperienza; non ha senso”. “Già, si è trattato di un caso isolato, tenuto pressoché nascosto, e con lo psichiatra probabilmente timoroso di quello che stava facendo. Ricordo anche di un altro caso presentato da Stanislav Grof, riguardante un uomo morente, Ted, e la sua compagna Lilly. Solo l’uomo fu sottoposto a terapia tanatodelica con LSD. I cambiamenti avvenuti in Ted furono così radicali che Lilly li trovò sconcertanti, e si lamentava dicendo: ‘Lui è quello che deve morire e tutti i suoi problemi li ho io. È come s’egli avesse sistemato le cose e accettato la situazione. Come se avesse trovato la risposta e io no; per me è ancora difficile e penoso come prima’.”117 “Vede? – interruppe Susila – è un lavoro lasciato a metà, anzi a un quarto, e che non tiene conto che il problema della morte è anche dei vivi”. “Già. Quanta strada dobbiamo ancora fare in occidente, se mai la faremo. Nel suo libro L’incontro con la morte, scritto insieme alla Halifax, Grof
diceva che ‘la partecipazione al processo che il morente sta attraversando può influire sul concetto di morte dei fanciulli sopravviventi e anche degli adulti, aiutarli a formarsi un modello per la loro propria morte e forse influenzare favorevolmente il loro approccio all’ultimo trapasso’”.118 “Eh! Questo Grof era sulla giusta strada. È ancora vivo?”. “Si, ultraottantenne”. Susila si alzò in piedi per cambiare la posizione in cui era seduta su quella dura panchina, stirandosi le gambe. “Date la moksha anche ai bambini?” continuò Will. “Si, anche ai bambini a partire dagli otto anni d’età. Quelli più piccoli partecipano alla seduta collettiva senza assumere la medicina. La scandalizza ciò?” “Non più di tanto. Anche da noi l’LSD è stato dato ai bambini autistici con risultati interessanti, e oggigiorno diamo un’amfetamina ai bambini vivaci. Inoltre, presso le popolazioni tradizionali che usano fonti visionarie quali il peyote, l’iboga e l’ayahuasca, queste vengono date ai bambini con estrema naturalezza”. Anche Will cambiò di posizione sulla scomoda panchina. “Ha detto che uno dei percorsi di cui si occupa il CTP è quello tanatodelico. Di quali altri percorsi si occupa il CTP?” Susila volse lo sguardo verso Will, stette un momento in esitazione e poi, con un tono fra lo scherzoso e il provocante disse: “È pronto?”. “Pronto a cosa?”. “Pronto a sentire qualcosa di nuovo, qualcosa per voi inconcepibile. È pronto a concepire qualcosa di nuovo?”. Non lasciò a Will il tempo di rispondere e continuò: “Un altro percorso di cui si occupa il CTP è quello eutanadelico. Il percorso tanatodelico associato all’eutanasia”. Will si bloccò, come quando viene improvvisamente alla mente qualcosa di sorprendente, come un’intuizione che lascia a bocca aperta, in quanto necessita del tempo per far fronte e integrare la sorpresa e riorganizzare i pensieri prima di essere riformulati verbalmente. E nel mentre di questa sospensione verbale, Will spostò lentamente lo sguardo dal punto del terreno in cui si era bloccato dirigendolo verso gli occhi di Susila, con un’espressione da sorpreso interlocutore. Raggiunto lo sguardo di Susila, disse a voce bassa, quasi sussurrata, come per non farsi sentire da altri, nonostante non ci fosse nessuno attorno, in realtà per non farsi sentire da quel rompiscatole di
uccello: “Caspita!” riuscì solo a dire Will. Susila sorrise, con quel tipico sorriso che riempiva il necessario. “Modalità?” disse a un certo punto Will rompendo un prolungato silenzio. “Mentre il percorso tanatodelico può essere gestito privatamente, per quello eutanadelico è obbligatorio rivolgersi al CTP. Da noi l’eutanasia è consentita, sia quella volontaria che quella non volontaria, e anche il suicidio assistito. Ma, a parte il caso dell’eutanasia non volontaria, in quanto il paziente non è consapevole, in tutti i casi in cui l’individuo è consapevole e voglia porre fine alla sua vita, deve prima passare attraverso un percorso tanatodelico; deve prima confrontarsi con la morte sotto effetto della moksha, assistito da psicoterapeuti specializzati. Si tratta di un percorso psicoterapeutico particolare, dove non si cerca di far cambiare idea al paziente – ed è qui che risiede l’abilità del terapeuta – ma lo si aiuta, sotto effetto della medicina moksha, a vedere meglio la propria scelta, nel contesto di una visione non egoica, in quanto la moksha porta a una dissoluzione dell’ego”. “C’è chi cambia di opinione? Che non vuole più l’eutanasia?”, disse Will. “Si, a volte qualcuno cambia opinione, ma non consideriamo un risultato positivo il cambiamento di opinione. Ciò che per noi è positivo è il fare questa scelta in conseguenza di un’esperienza visionaria, di un’esperienza di picco, di un’esperienza di morte-rinascita, per usare la vostra terminologia. Dopo, qualunque scelta è quella giusta, non badiamo a chi ha cambiato cosa. E se l’individuo persiste nella richiesta di eutanasia, lo si soddisfa senza ulteriore indugio”. Passò un altro lungo silenzio, dove i pensieri di Will riguardavano la preoccupazione di come comunicare all’impreparato occidente questi comportamenti palanesi. Anche se, in cuor suo, sapeva che non aveva importanza la reazione di quanti non sono in grado di aprirsi alle nuove idee, che gli ostacoli, le urla isteriche e le rabbie di chi “non ce la fa” fanno parte del gioco, fanno parte intrinseca dei meccanismi attraverso cui si aprono le nuove strade; strade che poi forse non sono nemmeno così nuove per l’umanità occidentale. “La vede quella nave laggiù che si avvicina al porto? – disse Susila – “è il traghetto che dovrà prendere per tornare nel suo accidente. Venga”. Sorrisero entrambi per quell’occidente trasformato ironicamente in accidente. Si incamminarono verso la jeep, silenziosi, qualunque parola oramai sarebbe stata futile, e né Susila né Will erano persone futili.
“Attenzione! Qui e subito!” gridò l’uccello mynah.
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1 Al capitolo 4 del primo volume, paragrafo “L’interruzione della ricerca clinica”. 2 Per una generale review delle moderne terapie si veda Nichols et al., 2017. 3 Jordi Riba, in Puente, 2017: 217-8. 4 La lista dei professionisti e intellettuali che hanno fatto esperienze con gli psichedelici, riconoscendole importanti per la loro crescita personale e produttività, sarebbe troppo lunga da esporre. Portiamo come recente esempio il libro di Michel Pollan (2018), noto giornalista del New York Times, dove l’autore si dilunga sulle sue esperienze personali e discute anche i nuovi approcci terapeutici. 5 Alicia Danforth, in un’intervista data a Puente, 2017: 305. 6 Considerazione esposta ad esempio dai medici australiani sopra riportati, Strauss et al., 2016. 7 Per la definizione di effetto sixties si veda il capitolo 3 del primo volume, paragrafo “Set e setting”. 8 Si veda ad es. David Nichols in un’intervista in Puente, 2017: 107-8. 9 Ricordiamo che nell’organismo la psilocibina viene trasformata in psilocina mediante defosforilazione. 10 L’SQR (Self Report Questionnaire), che permette di individuare la presenza di disordini nevrotici ed emotivi, e che era già stato positivamente impiegato nelle indagini di campo in America Latina, e il PERI (Psychiatric Epidemiology Research Instrument), che permette l’individuazione di problemi di natura psicotica. 11 Dei 127 assuntori cronici di ayahuasca, 56 appartenevano alla comunità del Santo Daime di Céu do Mapiá, nell’Amazzonia brasiliana, e 71 appartenevano a una Barquinha della città brasiliana di Rio Branco. I 115 soggetti non assuntori o poco assuntori di ayahuasca provenivano dai medesimi ambiti sociali e geografici dei primi due gruppi (56 + 59). Per una presentazione di questi gruppi religiosi si veda il capitolo 1 del primo volume, paragrafo “I culti sincretici”. 12 International Center for Ethnobotanical Education Research & Service. 13 Al capitolo 3, paragrafo “Tipologie delle esperienze psichedeliche”. 14 Per la presentazione delle prime due fasi storiche si veda al capitolo 4 del primo volume. 15 Per una estesa presentazione delle terapie psicolitica e psichedelica si veda il capitolo 3 del primo volume, paragrafo “Tipi di terapie psichedeliche”. 16 In realtà Grof si distaccò presto dal modello freudiano, ritenendolo inefficace nello spiegare tutto un insieme di esperienze psichedeliche, quali ad esempio quelle transpersonali; cfr. Grof, 1994: 114. 17 Il BOLD (blood oxygen level-dependent) evidenzia il flusso ematico cerebrale e le variazioni di ossigenazione venosa, ed è il meccanismo di base su cui si basa la fMRI. Il voxel è un’unita di misura volumetrica. 18 Metacognizione: conoscenza della propria capacità cognitiva e dell’attitudine a modificare il proprio modo di apprendimento, come definito dal sito web della Garzanti linguistica. 19 Analizzato da un punto di vista delle neuroscienze cognitive, questa modalità di pensiero,
supportato dalle funzioni dell’ego, sarebbe conseguenza dell’effetto sopprimente del DMN sui suoi nodi sub-corticali e sulle reti antitetiche. 20 Si veda Martindale e Fischer, 1977, che hanno svolto indagini somministrando psilocibina a un singolo soggetto. 21 Per il modello della “valvola di riduzione” di Huxley si veda al capitolo 3 del primo volume, paragrafo “Modelli teorici delle TP”. 22 Questa scala valutativa distingue i seguenti parametri, in senso patologico: l’“identità dell’ego” comprende elementi per dubbi, modifiche o perdita della propria identità rispetto alla “gestalt”, fisionomia, genere e biografia. La “demarcazione dell’ego” si riferisce all’incertezza o mancata differenziazione tra le sfere dell’ego/non ego riguardanti il processo del pensiero, stato affettivo ed esperienza corporea. La “consistenza dell’ego” comprende la dissoluzione, la scissione e la distruzione nell’esperienza di un sé, un corpo, pensiero, sentimenti coerenti e un mondo esterno strutturato. L’“attività dell’ego” si riferisce a deficit nelle proprie abilità, forza e potenza o la forza delle azioni, pensieri e percezioni auto-determinate. La “vitalità dell’ego” comprende l’esperienza o la paura della propria morte, del dissolvimento della vitalità, della rovina dell’umanità o dell’universo (Boeker et al., 2006). 23 La salienza può essere definita come un processo nel quale gli oggetti e gli stimoli, attraverso un meccanismo di integrazione, giungono all’attenzione catturando i pensieri e guidando i comportamenti. 24 Il sé minimale o sé mentale (sé pre-riflessivo, o basale) riguarda la coscienza individuale come soggetto immediato dell’esperienza, che è indipendente dal proprio sé narrativo, che è il concetto della propria storia personale e delle proprie credenze. 25 Come scale valutative sono state usate Il PANAS (Positive and Negative Affect Schedule), che è un questionario di autovalutazione che consiste di 10 elementi che misurano sia i sentimenti positivi che quelli negativi; e lo STAI (State-Trait Anxiety Inventory), che è una misurazione generalmente impiegata per valutare lo stato di ansia, e può essere utilizzato per differenziarla da forme depressive. 26 Questo test misura l’abilità a identificare sei emozioni di base nelle espressioni facciali. È un questionario di 10 minuti nel quale vengono mostrate delle immagini sullo schermo di un computer, rappresentanti delle facce che mostrano delle specifiche espressioni. Ogni faccia viene mostrata per 200 ms e coperta immediatamente per impedire un’eventuale elaborazione residua dell’immagine. Il partecipante deve selezionare quale emozione della faccia mostrata riconosce tra 6 opzioni diverse (tristezza, felicità, paura, rabbia, disgusto o sorpresa). 27 Boundlessness viene tradotto in italiano con “illimitatezza” o come forma sostantiva di “sconfinato”. Ci è apparso opportuno tradurlo in questo contesto come “immensità”. 28 Si veda Studerus, 2010 per una rappresentazione grafica della 5D-ASC. 29 L’assorbimento è interpretato come una predisposizione ad avere episodi di attenzione “totale”, che coinvolgono le proprie risorse rappresentative (percettive, immaginative, ideative). Questo tipo di modalità attenzionale è vista come il risultato del potenziamento del senso di realtà dell’oggetto attenzionale, impossibilità di farsi distrarre dagli eventi, e un alterato senso di realtà in generale, inclusa un’alterata percezione del sé. L’assorbimento è correlabile con l’ipnotizzabilità, e per questo viene studiato nel campo dell’ipnosi e della personalità. 30 Revised NEO Personality Inventory, questionario sulla personalità fondato sui cinque tratti principali della personalità di una persona: apertura all’esperienza, coscienziosità, estroversione, piacevolezza, nevroticismo. 31 FFMQ = Five Facets Mindfulness Questionnaire, esplora cinque fattori: osservazione, descrizione, azione con consapevolezza, il non giudizio dell’esperienza interna, e la non reazione all’esperienza interna; EQ = Experiences Questionnaire, comprende 11 item che misurano il
“decentramento”. 32 Per un’approfondita disamina del ruolo della musica nelle TP si veda al capitolo 5 del primo volume. 33 Si veda al capitolo 3 del primo volume. 34 Ad esempio in specie di Panaeolus (Basidiomycetes); cfr. Wier e Tyler, 1963. 35 Si veda anche al primo capitolo del primo volume. 36 Le dosi utilizzate erano altissime: 1 mg/kg di LSD per via parenterale. 37 Head-twitch: è una particolare contrazione della testa osservata nel topo consistente nella comparsa di movimenti parossistici rotazionali della testa; osservato inizialmente dopo somministrazione di triptofano, è stato osservato anche con somministrazione di LSD, mescalina e psilocibina. In alcune specie di animali i movimenti rotazionali interessavano anche il collo e il tronco, e sono spesso paragonati allo “scuotimento del cane bagnato”. Si ritiene che questo comportamento costituisca un indizio comportamentale degli effetti allucinogeni (Corne e Pickering, 1967). Dopo la scoperta della superfamiglia del recettore serotoninergico e della suddivisione dei recettori 5HT2 nei tre sottotipi 5HT2a, 5HT2b e 5HT2c, è stato stabilito che le risposte di tipo head-twitch sono mediate dall’attivazione del recettore 5HT2a, e ne rappresentano lo stimolo discriminativo. Ciò dava ulteriore conferma del fatto che le proprietà allucinogene sono dovute a questo recettore (Glennon et al., 1983, 1984). 38 Il termine “paranoide” è probabilmente inadeguato in tale contesto. La comparsa di una seconda fase in cui avviene un’ulteriore modifica temporale della forma e del contenuto del pensiero non implica necessariamente un’inclinazione paranoide, e tale aggettivazione forza l’interpretazione verso un contenuto psicotico dell’esperienza. Attualmente manca un’appropriata analisi neurofenomenologica di questa fase e un’adeguata terminologia. 39 Si veda il capitolo 1 del primo volume, paragrafo “Gli psichedelici d’impiego terapeutico”. 40 Per una lista delle piante tradizionalmente aggiunte all’ayahuasca si veda Bianchi e Samorini, 1993. 41 Questa lieve tolleranza crociata fra LSD e DMT era già stata osservata negli anni ‘60 (Rosenberg et al., 1964). 42 Si veda il capitolo 1 del primo volume. 43 Ricaurte A. George et al., 2002, Severe dopaminergic neurotoxicity in primates after a common recreational dose regimen of MDMA (“Ecstasy”), Science, 297:2260-3. 44 “Ecstasy’s after-effects”, 2003, Nature, 425: 223. 45 Per una più ampia presentazione del flashback per come era concepito negli anni ‘50-’70, si veda al capitolo 5 del primo volume, paragrafo “Reazioni avverse”. 46 uPA, urochinasi, attivatore del plasminogeno cellulare. 47 Valutato con il Positive and Negative Affect Schedule e il questionario State-Trait Anxiety Inventory. 48 Pahnke et al., 1970b; si veda anche Majic´ et al., 2015. 49 Ulteriori valutazioni venivano fatte mediante altre scale (valutazione del tratto pessimismo, dell’ansia e dell’anedonia a distanza di una settimana, di tre mesi e di sei mesi). 50 È uno strumento di misurazione utilizzato nello screening dei farmaci antidepressivi. 51 La mTOR è una protein chinasi che regola la crescita, la proliferazione, la motilità e la sopravvivenza cellulare, la sintesi proteica e la trascrizione in risposta a diversi stimoli ambientali
(Foster e Fingar, 2010). 52 La terapia di breakthrough rappresenta una delle modalità attraverso cui la FDA rende disponibili farmaci il più rapidamente possibile, accelerando le normali tempistiche richieste per l’immissione di un farmaco sul mercato. Si tratta di un progetto di sviluppo e rassegna di farmaci proposti per trattare una condizione grave, laddove evidenze cliniche preliminari suggeriscono che tale farmaco potrebbe indurre miglioramenti sostanziali che superano le attuali terapie disponibili. 53 National Institute of Drug of Abuse. 54 Catecol-O-metiltransferasi, enzima responsabile della degradazione della dopamina e delle altre catecolamine. 55 Indichiamo l’ottimo saggio italiano di Federico Giudici, 2012, dove sono presentate le varie piante impiegate nel corso del trattamento a Takiwasi. 56 In base a calcoli interni diramati dal centro, con un follow-up di 5 anni vi sarebbe un 54% di casi di netto miglioramento, un 23% di situazione immutata, e un altro 23% di esiti sconosciuti; cfr. Giudici, 2012: 87. 57 Nel culto di possessione Bori degli Hausa del Niger viene somministrata una miscela segreta allucinogena costituita da 99 radici, fra le quali si è venuto a sapere che rientra quella di una specie di Datura. In questo caso il numero 99 è un evidente espediente numerico per nascondere la o le radici realmente responsabili dell’effetto psicoattivo. Cfr. Monfouga-Nicolas,1976. 58 Si veda al capitolo 6 del primo volume, paragrafo “Dipendenze”. 59 Nel caso degli oppiacei si trattava soprattutto di farmaci da prescrizione. 60 Per la prima sessione i partecipanti ricevevano 0,3 mg/kg di psilocibina. Per la seconda, il dosaggio veniva aumentato a 0,4 mg/kg, a meno che i partecipanti rifiutassero questo aumento, o se nella prima sessione avessero avuto degli effetti collaterali, o se nella prima somministrazione avessero già vissuto un’esperienza “intensa, completa”, indicando che la dose di 0,3 mg/kg era già abbastanza forte. 61 Il numero del progetto è NCT02061293. 62 La tecnica della respirazione olotropica, elaborata da Stanislav e Christina Grof, consiste nell’induzione di uno stato modificato di coscienza attraverso la iperventilazione e l’ipocapnia, che nel 60% delle persone che la praticano per la prima volta induce delle visioni. Non ci sono al momento dati sull’efficacia della HB nelle dipendenze. Come letteratura italiana si veda Grof e Grof, 2010. 63 Progetto di studio NCT02037126. 64 Abbiamo esposto questo tipo di terapie nel capitolo 6 del primo volume, paragrafo “Dipendenze”. 65 Allo stesso modo dell’LSD (Carhart-Harris et al., 2016a), la ketamina riduce la connettività tra e all’interno delle reti dello stato di riposo (“resting-state consciousness network”). La connettività tra la corteccia prefrontale mediale (mPFC) e il resto del default mode network (DMN) appare diminuito, insieme alla riduzione dell’attività e dell’integrità delle reti del Salience Network (SN), tipicamente implicato in compiti attentivi, motivazionali ed esecutivi. Si veda al capito 8. 66 Quest’ultima affermazione l’abbiamo dedotta dai casi aneddotici da noi raccolti. 67 L’ibogaina fu messa al bando negli USA nel 1970, in Francia nel 2009 e in Italia nel 2016. 68 Il processo primario è la modalità arcaica della coscienza, durante la quale si manifesterebbe l’inconscio (cfr. Freud, 1900: 359 e per una più ampia esposizione si veda al capitolo 8, paragrafo “Gli psichedelici come strumento per le neuroscienze cognitive”). 69 Il concetto di individuazione, elaborato da Jung, si riferisce a quel processo psichico che consiste
nell’avvicinamento dell’Io col Sé, cioè una crescente integrazione e unificazione dei complessi che formano la personalità. L’avvicinamento avviene tramite l’attribuzione di significato e l’interpretazione ai simboli che l’individuo incontra durante la sua vita (si veda la raccolta di scritti editi in italiano in Jung, 2013). 70 Il caso della donna viene discusso più avanti in questo capitolo. 71 I pazienti erano in trattamento sostitutivo con morfina, la quale, per ragioni di ordine farmacocinetico, non riusciva a evitare la sindrome d’astinenza. 72 Aritmia che può evolvere in fibrillazione ventricolare e arresto cardiaco. 73 La cocaina è un vasocostrittore coronarico, e per questo può indurre infarto e aritmie ventricolari. 74 DOI=2,5-dimetossi-4-iodamfetamina; composto di sintesi utilizzato sperimentalmente per la sua elevata affinità per il recettore 5HT2a. 75 Per la selettività funzionale rimandiamo al capitolo sui meccanismi d’azione degli allucinogeni (cap. 9). 76 Si veda la storia della cura bulgara nel trattamento dell’encefalite letargica conseguente all’epidemia dell’influenza Spagnola degli anni 1918-20; una storia che vide particolarmente coinvolti medici e regine italiane, come descritto da Mazzarello, 2013. 77 Trattasi dei semi della convolvulacea Argyreia nervosa. Si veda al capitolo 1 del primo volume. 78 4-AcO-MET=4-acetossi-N-etil-N-metiltriptamina; 4-AcO-DMT=4-acetossi-N,N-DMT; 4-HOMiPT=4-idrossi-N-metil-N-isopropiltriptamina, nota anche come miprocina; 4-HO-MET=4-idrossi-Nmetil-N-etiltriptamina, nota anche come metocina o metilcibina. 79 Il primo studio ha come numero identificativo NCT: 02981173; il secondo NCT: 3781128. 80 Si vedano: Afridi et al., 2013; Lauritsen et al., 2016; Pomeroy et al., 2017; Moisset et al., 2017. 81 Si veda al capitolo 6 del primo volume, dove abbiamo descritto diversi casi. 82 Dal DSM V, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5th Edition, Arlington, VA, American Psychiatric Association, 2013. 83 Abbiamo presentato il fenomeno delle “cerimonie” al capitolo 1 del primo volume. 84 La maggior parte fu sintetizzata da Alexander Shulgin; cfr. Shulgin & Shulghin, 1991. Per l’impiego psicoterapeutico di queste sostanze si veda Stolaroff, 1994. 85 Per una generale presentazione di queste sostanze si veda al primo capitolo del primo volume. 86 Per questa si veda Shulgin, 1976. 87 MMPI=Minnesota Multiphasic Personality Inventory; SHQ=Social History Questionary. 88 Grob, 2002a: 220. Per una rassegna storica della diffusione dell’ecstasy nella cultura underground si veda Passie e Benzenhöfer, 2016. 89 Moglie di Alexander Shulgin, esiste un suo articolo sulla psicoterapia con MDMA pubblicato in italiano (Shulgin, 1995, liberamente consultabile nel sito samorini.it). 90 Si veda la recente rassegna di Passie, 2018, che espone dati inediti basati su interviste ai diretti protagonisti della psicoterapia con MDMA; cfr. anche il libro di Sophia Adamson (1985), che raccoglie diverse testimonianze e le prime linee guide per l’impiego della MDMA in psicoterapia. 91 Fra questi studi citiamo Vollenweider et al., 1998c; Cami et al., 2000. 92 Questa “finestra di tolleranza” è stata definita anche come “zona di stimolazione ottimale” (optimal arousal zone); cfr. Mithoefer et al., 2010: 440. 93 I dettagli di questo “incidente mediatico” sono descritti in Bouso e Gómez-Jarabo, 2003, e in
un’intervista a Bouso in Puente, 2017: 247-253. 94 Il manuale di Mithoefer (2011), pubblicato da MAPS, è liberamente consultabile in Internet. 95 CAPS=Clinician-Administered PTSD Scale; IES-R=Impact of Events Scale-Revised; RBANS= Repeatable Battery for the Assesment of Neuropsychological Status; PASAT=Paced Auditory Serial Addition Task. 96 Il Beck Depression Inventory-II (BDI-II), il Dissociative Experience Scale-II (DES-II) e il Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI). 97 Per l’Africa si veda Samorini, 2018b. 98 La demologia è lo studio delle tradizioni popolari. 99 Dal vocabolario di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Il Devotino, 2011, Le MonnierMondadori, Milano. 100 Laura Huxley ha descritto questo evento in un capitolo del suo libro biografico su Aldous; cfr. L. Huxley, 1968: 295-308. 101 Come riportato dal Wikipedia italiano. 102 Per una generale review di queste terapie si veda Reiche et al., 2018. 103 A nostro avviso ciò non corrisponde a quanto viene riportato nel racconto. È pur vero che alcuni giorni prima della morte Lakshmi assume la moksha insieme al marito, il dottor Robert, senza tuttavia specifiche funzioni tanatodeliche o come Viatico, ma solo come “ultima volta”, cioè come un’ultima esperienza fra le tante che la coppia aveva fatto con la moksha nei decenni precedenti. Non ci sembra quindi che nel racconto Huxley avesse inteso dare uno scopo tanatodelico a questo evento. Ciò non toglie il fatto che questo stesso travisamento ricoprì in seguito un ruolo nell’idea di dare uno psichedelico ai morenti. 104 Principio attivo – la psilocibina – che fu isolato l’anno successivo da Albert Hofmann. 105 Per una retrospettiva del lavoro di Kast, cfr. Gerard, 1991. 106 Non siamo riusciti a prendere visione della pubblicazione relativa a questo studio. 107 Inizialmente vi partecipò anche John Lilly, che costruì una grande vasca per gli studi sull’isolamento sensoriale. Si veda Grof, in Puente, 2017: 12-13. 108 In una escursione subacquea non tornò più alla superficie, e il suo corpo non fu mai trovato. 109 L’incontro con la morte, edizione che soffre purtroppo di una pessima traduzione. Il medesimo Grof sviluppò una rivisitazione di queste ricerche in un libro anch’esso tradotto in italiano e pubblicato nel 2007, L’ultimo viaggio. 110 È opportuno ricordare che la psilocibina comporta un aumento lieve ma statisticamente significativo della pressione sanguigna sistolica e diastolica, con un picco alle 2 ore dall’assunzione. 111 Tredici dei 29 malati di cancro dello studio dell’équipe di Ross sono stati successivamente sottoposti ad altre indagini mediante interviste semi-strutturate (Belser et al., 2017, Swift et al., 2017), che qui non presentiamo poiché sospettiamo che i loro risultati siano forzati dalla visione “terapeuticospiritualista” degli intervistatori. 112 Al capitolo 5 del primo volume e al capitolo 8 del secondo volume. 113 Il titolo originale in latino del libro di More era Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia. 114 Come riportato da Laura Huxley (1968: 72). 115 Le pagine si riferiscono a un’edizione moderna italiana de L’isola (Huxley, 1977b).
116 Evento accaduto realmente e riportato in Fischer, 1970b. 117 Evento accaduto realmente, citato in Grof e Halifax, 1978: 76. 118 Grof e Halifax, 1978: 145.
INDICE
Capitolo 7. La nuova fase delle terapie psichedeliche Il cambio di paradigma mediatico Il problema della patologicizzazione degli stati modificati di coscienza La pericolosità degli psichedelici Il contributo delle fondazioni private Alcuni aspetti critici delle nuove ricerche Capitolo 8. Neurofenomenologia degli stati psichedelici L’approccio neurofenomenologico Il cervello entropico Le tecniche di neuroimaging Il default mode network Gli psichedelici come strumento per le neuroscienze cognitive L’ipotesi del filtro talamico Il contributo degli studi con l’ayahuasca I correlati neurali dello stato psichedelico Le moderne scale di valutazione dei risultati Le modifiche della personalità indotte dagli psichedelici Capitolo 9. Meccanismi d’azione degli psichedelici La serotonina La trasmissione serotoninergica LSD Psilocibina Meccanismo d’azione degli allucinogeni serotoninergici I recettori TAAR Beta-carboline DMT
Ayahuasca Ketamina Salvinorina A MDMA HPPD Capitolo 10. Gli psichedelici nella terapia della depressione Il disturbo depressivo maggiore (MDD) Terapie convenzionali per la depressione La psilocibina nel trattamento della depressione Ayahuasca e depressione La scopolamina nella depressione La ketamina nella depressione Capitolo 11. Gli psichedelici nel trattamento delle dipendenze Neuropatologia delle dipendenze L’ayahuasca nelle dipendenze Studi valutativi dell’influenza dell’ayahuasca sulle dipendenze La psilocibina nelle dipendenze La ketamina nelle dipendenze Recettori κ-oppioidi e dipendenze L’ibogaina nelle dipendenze Capitolo 12. Gli psichedelici in altre patologie Beta-carboline e ayahuasca nella terapia del cancro Proprietà antinfiammatorie degli psichedelici Malattia di Parkinson e parkinsonismi Emicranie e cefalea a grappolo La ketamina nel PTSD e nel disturbo bipolare Gli psichedelici nel disturbo ossessivo-compulsivo Ayahuasca e disturbi del comportamento alimentare Salvinorina A e disfunzioni gastrointestinali Capitolo 13. L’impiego terapeutico degli empatogeni Aspetti storici L’MDMA nel PTSD Altri studi con MDMA Capitolo 14. L’approccio tanatodelico alla morte Impiego tanatogeno Impiego come Viatico
Impiego tanatodelico Ritorno a Pala Bibliografia