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Italian Pages 120 [114] Year 2015
BIBLIOTECA DI «QUADERNI URBINATI DI CULTURA CLASSICA» Collana fondata da Bruno Gentili, diretta da Paola Bernardini e Carmine Catenacci @@.
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A PIÙ MANI LINEE DI RICERCA TRACCIATE IN “SAPIENZA” a cura di LU CA BE T T ARINI
PI SA · ROMA FA BRIZIO S E R R A E D I TO R E MMX V
Pubblicato con un contributo del PRIN 20@0/20@@ Agoni poetico-musicali nella Grecia antica. Dipartimento di Lettere · Lingue, Letterature e Civiltà antiche e moderne, Università degli Studi di Perugia. A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included oπprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 20@5 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net U√ci di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56@27 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] U√ci di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00@85 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy is s n @ 8 28-86 77 is b n 9 7 8 - 8 8 - 6 2 2 7 - 8@0 -2 ( b r os s u r a ) is b n 9 7 8 - 8 8 - 6 2 2 7 - 8@ @ -9 ( r ilega t o) e- i s b n 9 7 8 - 8 8-6 227-8@ 2-6
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SOMMA RIO Luca Bettarini, Premessa Bruna M. Palumbo Stracca, Riflessioni sulla monodia di Upupa (Aristoph. Av. 227-262): un pastiche senza ironia? Luca Bettarini, Stratti fr. 49 K.-A.: ma come parlano i Tebani? Enrica Borsoni Ciccolungo, Il potere e l’audacia del tiranno: una riflessione sul significato di tovlma e duvnami~ in Tucidide e Pindaro Francesca D ’ Alfonso, Il paesaggio del mito. Aliarto, la fonte Cissussa e il fiu me Lophis Tristano Gargiulo, Qualche modulo di ripresa e di ripetizione nel Romanzo di Alessandro Emanuele Lelli, Lettura folklorica di Theocr. Id. @0, 38-58 Laura Lulli, Epica ed elegia. Incontri di due generi letterari nei luoghi della performance Valentina Raimondi, Nel solco di Teocrito: alcune osservazioni su ap 9, 3@7
89 @03
Indice dei passi discussi
@@@
9 @@ @9 29 45 73 79
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P RE ME SSA
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li studi raccolti in questo volume sono stati presentati il 20 maggio 20@3 durante la giornata seminariale Polyphonia tenutasi alla “Sapienza” in occasione della conclusione dell’attività di docenza di Bruna Marilena Palumbo. Protagonisti di quella giornata sono stati, non a caso, studiosi di diverse generazioni che alla scuola di Marilena Palumbo si sono formati (Luca Bettarini, Valentina Raimondi, Emanuele Lelli, Laura Lulli, Enrica Borsoni). Ma proprio perché di studi di scuola si tratta, sono presenti in questa raccolta anche i contributi di altri allievi che a quella giornata non poterono partecipare (Tristano Gargiulo e Francesca D’Alfonso), e la stessa Marilena ha voluto contribuire con un suo saggio, nello spirito di quel lavoro comune e appassionato che ha sempre contraddistinto la sua vita professionale: “una lunga, entusiasmante routine”, per dirla con le parole che proprio lei ha usato a conclusione di quel 20 maggio. Risulta evidente che questi lavori, pur nella diversità dei contenuti, riflettono in realtà una profonda unità di metodo, e traggono origine dalla molteplicità delle linee di ricerca proposte e sviluppate da Marilena nel corso della sua attività di insegnamento universitario, anche se ogni allievo ha poi seguito la sua strada maturando propri interessi di studio: la dialettologia (Luca Bettarini), l’epigramma (Valentina Raimondi), la produzione popolare (Emanuele Lelli), l’elegia (Laura Lulli), l’analisi filologica dei testi (Tristano Gargiulo), le tradizioni mitiche (Francesca D’Alfonso), la critica delle fonti (Enrica Borsoni). Un lavoro a più mani dunque, realizzato in “Sapienza” e – ci auguriamo – con sapienza. Mi è infine gradito ringraziare Paola Bernardini e Carmine Catenacci per aver accolto questo volume nella Biblioteca di Quaderni Urbinati di Cultura Classica e Antonietta Gostoli, che ne ha resa possibile con pronta disponibilità la pubblicazione. Luca Bettarini Roma, novembre 20@4
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RI F L E S SIONI S ULLA MONODIA DI U PUPA ( A RI STOPH. AV . 227-26 2): U N PAS TICHE SENZA IRONIA?* B r u n a M. P alu mbo Stracca Abstract This paper tries to contribute to the solution of the B. Zimmermann’s “paradox”, i.e. the simultaneous presence in the same comedy (Birds) of acceptance of the ‘New Music’ (Hoopoe’s Song) and criticism (Cinesias’ scene). In my opinion, there is no “paradox” if we interpret Hoopoe’s Song as a pastiche not without irony, but with a substantial degree of appreciation of the best innovations of the ‘New Music’.
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ella valutazione di Aristofane lirico si è andata sempre più radicando negli ultimi decenni la tendenza a tracciare una netta linea di demarcazione tra lirica cosiddetta “seria”, di alta caratura, e lirica parodica o di registro basso. Questa drastica dicotomia, che a mio parere soπre di un certo schematismo pur nella sua indiscutibile verità, ha avuto alcune ricadute di un certo rilievo negli studi aristofanei: ha costituito, per esempio, il punto d’avvio obbligato per la ‘provocazione’ di M. Silk, che, come è noto, ha considerato pregevole solo la low lyric, mentre ha dato un giudizio fortemente svalutativo sulla high lyric. @ Ne è nato un vivace dibattito che ha visto protagonisti da un lato G. Mathews, 2 che ha portato validi argomenti per ‘difendere’ Aristofane da un giudizio così severo, dall’altro lo stesso Silk che di fatto ha continuato a sostenere la validità delle sue argomentazioni, pur ammettendo di essere stato eccessivamente drastico su alcuni punti e riservando un giudizio più favorevole proprio alla monodia di Upupa. 3 Ma non è di questo che intendo parlare in questa sede; vorrei invece tornare a riflettere sulla contrapposizione tra high e low lyric, e sulle conseguenze di un atteggiamento che non tenga nel débito conto la vasta gamma delle sfumature che intercorrono tra la cruda invettiva e il lirismo incantato. In questo senso mi pare che il recente orientamento della critica mirante ad applicare anche alla produzione lirica aristofanea la categoria del pastiche possa condurre a risultati significativi. 4 Come è noto, con il termine pastiche si indica quella particolare tipologia di composizioni che
* Queste ‘Riflessioni’ nascono da un ciclo di lezioni seminariali sulla monodia di Upupa nell’ambito del corso magistrale da me tenuto nell’anno accademico 20@@-@2 (Aristofane lirico: i canti degli Uccelli): vorrei dedicarle in primis agli studenti di quel corso, che con le loro domande e osservazioni hanno contribuito non poco a far luce sui punti più controversi del testo aristofaneo; più in generale le dedico a tutti gli studenti che in varie maniere e in tempi diversi hanno incrociato la mia attività di docenza. @
2 3 Silk @980. Mathews @996. Silk 2000, @60-206. Mi riferisco in particolare a due contributi assai stimolanti: Rocconi 2007; Lomiento 2007.
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‘imitano’, ‘si ispirano’ a testi o modelli codificati, senza che per questo si possa parlare di imitazione pedissequa, al grado zero di originalità, o al contrario di una intenzione parodica e denigratoria: ebbene, numerosi brani lirici di Aristofane possono rientrare agevolmente nella suddetta categoria, ma è chiaro che individuare se si tratti o meno di composizioni a là ..., e se vi sia – e in quale misura – una volontà parodica, non è operazione di poco conto. Tra i testi più controversi c’è senza dubbio la monodia di Upupa, che non a caso la critica ha valutato in maniera oscillante, inserendola ora nella categoria della high lyric, ora nella categoria della parodia denigratoria con evidente riferimento alla ‘Nuova Musica’. @ È per l’appunto in tale contesto che si colloca la questione più volte sollevata da Bernhard Zimmermann, questione che si può riassumere in questi termini: come è possibile che Aristofane nella stessa commedia adotti, nella monodia, gli stilemi tipici dell’avanguardia musicale (si badi bene, senza alcuna intenzione denigratoria!) e poi, nella scena di Cinesia (vv. @372-@409), li metta ferocemente alla berlina? A parere dello studioso il paradosso può essere risolto supponendo che Aristofane considerasse lecito in commedia ciò che era improponibile nell’ambito di altri generi: in altre parole, al nuovo stile musicale il commediografo imputava soprattutto la responsabilità di avere contaminato in maniera impropria il genere tragico, a cui era demandato il compito morale e politico di rappresentare il mondo eroico, mentre alla sfera della commedia poteva legittimamente appartenere la nuova modalità musicale. L’attacco a Cinesia avrebbe dunque una valenza specificamente etico-politica. 2 Per parte mia ho qualche dubbio che questa argomentazione rappresenti la soluzione del problema; 3 in ogni caso ciò che più importa ai nostri fini è che, a parere di Zimmermann, Aristofane aveva composto la monodia precisamente nel solco della ‘Nuova Musica’ e senza alcun intento critico o parodico. Un’altra maniera per superare l’impasse è stata sperimentata da Roberto Pretagostini, 4 che in controtendenza con quella che sembra essere l’opinione prevalente ha puntato a far emergere le caratteristiche tradizionali dell’architettura metrico-ritmica del brano, interpretando così la monodia come una sorta di manifesto della vera monodia aristofanea, ben lontana dalle stravaganti innovazioni del nuovo ditirambo (e di certe monodie euripidee). In particolare lo studioso, sulla scia di Fraenkel, 5 ha messo in luce la perizia con cui il commediografo assegna ad ogni gruppo di uccelli il ritmo che gli è proprio: dopo la sequenza onomatopeica che riproduce il verso dell’upupa e un primo generico invito a tutti gli uccelli (vv. 227-229), le varie categorie sono convocate in maniera ripartita e con ritmi distinti; si passa perciò dai kat∆ ejnovplion-epitriti e docmi agli ionici a minore seguiti ancora dal docmio, ai ritmi giambici, ai cretici, agli alcmani, fino alla conclusione in anapesti e trochei.
@ La bibliografia sulla ‘Nuova Musica’ è vastissima: per una incisiva panoramica sul fenomeno che caratterizzò la vita culturale e politica di Atene sullo scorcio del v secolo rinvio a Csapo 2 2004. Zimmermann @993 e 2006. 3 Vd. già le obiezioni di R. Patterson in appendice al contributo di Zimmermann @993. 4 5 Pretagostini @988 e @989. Fraenkel @950.
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Ora, se è certamente vero che le qualità tecniche di Aristofane nel comporre un brano di alto virtuosismo sono fuori discussione, non si può tuttavia trascurare il fatto che la struttura astrofica del brano presenta inevitabili ambiguità ed incertezze di scansione, sicché è possibile che talune scelte siano state influenzate anche dall’esigenza di trovare conferma a una determinata linea interpretativa. Un caso emblematico, che tratto qui brevemente, è costituito dai vv. 240-24@, in cui le questioni metriche si intrecciano strettamente con questioni testuali e interpretative. Riporto il testo secondo l’edizione di Zanetto @987 che mi sembra preferibile per ragioni che esporrò tra poco, con l’avvertenza che il v. 240 rispecchia in toto la redazione dei mss. e il v. 24@ la rispecchia in parte (i due rami della tradizione si dividono tra aujdavn e ajoidavn): tav te kat∆ o[rea tav te kotinotravga tav te komarofavga, aJnuvsate petovmena pro;~ ejma;n aujdavn
2ia do 2an
La questione riguarda la funzione del triplice te nel v. 240. Premesso che l’intera monodia nel suo stile catalogico presenta un uso massiccio della particella te in funzione di snodo da una categoria all’altra di uccelli, la sua ripetizione per tre volte nella stessa frase è parsa sospetta a Fraenkel in base a questo ragionamento: se ta; kotinotravga e ta; komarofavga (“beccaolive” e “mangiacorbezzoli”) sono da intendere come apposizioni di tav te kat∆o[rea, il secondo te nel verso non può che essere inteso come il primo elemento di una coppia te ... te all’interno dell’apposizione, e dunque non può essere in linea con il primo te ‘catalogico’; ma una tale sequenza – sottolinea lo studioso – può essere accettabile solo sulla carta, mentre non lo è sul piano performativo, in quanto l’ascoltatore era indotto a ritenere erroneamente che tav te kotinotravga rappresentasse una categoria di uccelli diversa da tav te kat∆ o[rea. Se invece si espunge il secondo te, e nel contempo si provvede ad elidere komarofavga dinanzi ad aJnuvsate, se ne avvantaggia l’architettura della frase, e in aggiunta si ottiene un ritmo limpido che consiste in un periodo di sei metra giambici interamente soluti con clausola catalettica (ajoidavn w – u U). Al contrario, nella forma non emendata avremmo due metra giambici (tav te kat∆ o[rea tav te kotinotrav- ) seguiti da un docmio (-ga tav te komarofavga), che in questo caso sarebbe indistinguibile dal ritmo precedente, e poi altri tre metra giambici di cui l’ultimo catalettico (aJnuvsate petovmena pro;~ ejma;n ajoidavn). @ Fin qui le argomentazioni di Fraenkel, il cui testo è adottato da Pretagostini in sintonia con la sua linea interpretativa dell’intera monodia. Un ulteriore passo nella emendatio è stato compiuto da A. M. Dale, 2 che espunge anche il terzo te del verso in questione sulla base di considerazioni che a me appaiono non particolarmente cogenti e in ogni caso soggettive. 3 Il testo proposto da Dale (tav te kat∆ o[rea, ta; kotinotravga ta; komarofavga, / ajnuvsate petovmena pro;~ ejma;n aujdavn), da intendere metricamente come trimetro giambico e dimetro anapestico, ha avuto
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2 Oppure un dimetro anapestico, nel caso che si opti per aujdavn. Dale @959. Nell’ordine: gli ultimi quattro metra a partire da tav te komarofavg∆, diversamente dai precedenti, non sono nettamente definiti con la fine di parola; l’elisione di komarofavg∆ distrugge la rima, ajoidavn produce una catalessi estranea alla tecnica del brano. 3
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ottima accoglienza tra gli editori recenti: l’accolgono tra gli altri Dunbar @995, Mastromarco 2006 e Wilson 2007. Per parte mia ho molti dubbi che l’ ‘operazione chirurgica’ attuata da Fraenkel, e ancor più da Dale, sia realmente indispensabile: è certamente vero che con essa si recupera un flusso metrico più semplice, più ordinato, più lontano dalle bizzarrie dell’avanguardia musicale; ma siamo proprio sicuri che fosse questa la scelta del commediografo? Una questione analoga si pone subito dopo, nell’ambito della descrizione degli uccelli delle paludi (vv. 244-249). La di√coltà consiste essenzialmente nella presenza di un nome al singolare (o[rni~) dopo il verbo al plurale (e[cete); inoltre la serie cretico-peonica che contraddistingue il passo subisce di fatto in questo punto una brusca interruzione. Ciò ha indotto Wilson 2007 a optare per la soluzione estrema della crux: oi{ q∆ eJleiva~ par∆ aujlw`na~ ojxustovmou~ ejmpivda~ kavpteq∆, o{sa t∆ eujdrovsou~ gh`~ tovpou~ e[cete leimw`nav t∆ ejroventa Maraqw`no~, † ojrni~ pteropoivkilo~ † ajttaga`~ ajttaga`~.
Altri editori (Dunbar @995; Zanetto @987; Mastromarco 2006) hanno invece adottato la lezione isolata del codice tricliniano L (o[rni~ te pteropoivkilo~), che ha tutta l’aria di essere una congettura emendatrice. È per altro una buona correzione, ma è guardata con sospetto per ragioni metriche, dal momento che introduce una sequenza eolica (-ni~ te pteropoivkilo~ – – w w – w u U tel, oppure o[rni~ te pteropoivkilo~ – – – w w – w u U gl) all’interno di un brano che appare costruito interamente sul ritmo cretico. Nel commento ad loc. Dunbar @995 prova a giustificare l’anomalia supponendo un riecheggiamento parodico di Alceo 345 V. (panevlope~ poikilovdeiroi tanusivpteroi), cosa certamente possibile, ma non indispensabile a mio parere, bastando la cifra del nuovo stile musicale a giustificare la poikiliva del brano. L’ultimo caso che vorrei segnalare è di carattere prosodico. L’anomalia si situa nei versi conclusivi (250-254), che si snodano interamente sotto il segno di Alcmane: w|n t∆ ejpi; povntion oi\dma qalavssh~ fu`la met∆ ajlkuovnessi pothvtai, deu`r∆ i[te peusovmenoi ta; newvtera: pavnta ga;r ejnqavde fu`l∆ aJqroi?zomen oijwnw`n tanaodeivrwn.
Chi non riconoscerebbe nelle schiere degli uccelli marini che volano insieme con le alcioni una precisa allusione al cerilo evocato da Alcmane nel celebre frammento della vecchiaia? @ Per altro a orientare in direzione alcmanea basterebbe il metro, che si compone di alcmanî chiusi dal paremiaco, nonché la facies linguistica e stilistica. L’impronta alcmanea si individua anche nell’epiteto tanaodeivrwn, che richiama un altro celebre frammento, il cosiddetto “notturno” (PMG 89), dove sono evocati gli oijwnw`n fu`la tanupteruvgwn, ma è da notare che tanaodeivrwn (una
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neoformazione aristofanea attestata solo qui e a v. @394) presenta una vistosa anomalia prosodica, in quanto la prima sillaba del composto (tanaov~, deirhv) è inspiegabilmente lunga, mentre dovrebbe essere breve, come in tutte le attestazioni di tanaov~ (termine già omerico), nonché di tanu- (< *tanuv~) che concorre frequentemente a formare composti. Dunbar @997 ha avanzato l’ipotesi che ci si trovi di fronte a un calco dell’espressione omerica kuvknwn doulicodeivrwn (Il. 2, 460 = @5, 692), e che Aristofane per questo si sia sentito in diritto di adottare in tanaodeivrwn un analogo allungamento privo di giustificazione fonetica. La proposta di Dunbar ha una sua attrattiva, ma mi chiedo se l’anomalia non si possa giustificare meglio nell’ottica di una imitazione del nuovo stile musicale. Si noti che lo stesso vocabolo ritorna nella performance di Cinesia, al v. @394, apparentemente con lo stesso allungamento prosodico, @ in un contesto che è, questo sì, palesemente parodico. Riassumendo: la mia impressione è che nell’analizzare la struttura metrica della monodia, che oggettivamente, come avviene non di rado per un a[strofon, presenta criticità nell’interpretazione delle sequenze, una volta escluso l’intento parodico, ci si sia sforzati di valorizzare quegli aspetti di compattezza che più tenevano Aristofane al riparo dalla ‘disordinata’ polimetria dell’avanguardia musicale, anche a costo di sottoporre il testo a qualche forzatura. Tutto invece diventa più semplice e comprensibile se si utilizza come strumento ermeneutico la categoria del pastiche. A questo punto dobbiamo chiederci: c’è da parte del commediografo anche un intendimento parodico? Probabilmente sì, a mio parere, però lieve: più che altro c’è un uso giocoso e al tempo stesso scaltrito di quegli espedienti tecnici della ‘Nuova Musica’ che potevano tornare utili a rappresentare al meglio l’universo sonoro degli alati. Ma c’è di più. Alle peculiarità di ordine metrico e prosodico possiamo aggiungere un elemento non di poco conto che si colloca nella sfera della lexis. Mi riferisco alla quasi totale assenza di nomi di uso corrente (ojnovmata kuvria) nella ‘convocazione degli uccelli’ da parte di Upupa – è citato con il suo nome soltanto il francolino –, sostituiti con altre tipologie comunicative: per lo più vocaboli composti, ma anche vocaboli semplici, o al contrario intere perifrasi che svolgono di norma una funzione descrittiva, ma non solo. 2 In dettaglio:
- alla categoria degli uccelli campestri (vv. 229-236) appartengono i rodi-orzo (fu`la muriva kriqotravgwn) e i becca-semi (spermolovgwn ... gevnh), nonché gli uccelli che pigolano festosamente nei solchi (o{sa t∆ ejn a[loki qama; / bw`lon ajmfitittubivzeq∆ w|de lepto;n / hJdomevna/ fwna`)/ ; 3
oijwnw`n tanaodeivrwn – – – – – ww– – paroem, ma non v’è certezza, dal momento che la sequenza è inserita in un a[strofon confezionato alla nuova maniera. 2 Si tratta di quel procedimento stilistico che va sotto il nome di kenning (termine in uso nell’ambito delle letterature nordiche e applicato non senza legittime perplessità alla letteratura greca antica); per maggiori dettagli e bibliografia aggiornata rinvio a Luca Bettarini in questo volume, pp. 22-25. 3 Qui lo ‘svelamento’ è a√dato alla forza onomatopeica del verbo, ma si rimane nell’incertezza, dal momento che in Teofrasto (fr. @8@ Wimmer) è usato per il verso delle pernici, mentre in Babrio (@3@, 7) si riferisce alle rondini. @
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- gli uccelli dei giardini (vv. 238-239) sono genericamente quelli che trovano il loro nutrimento nell’edera (o{sa q∆ uJmw`n kata; khvpou~ ejpi; kissou` / klavdesi nomo;n e[cei); - nel gruppo degli uccelli montani (vv. 240-242) ci sono i rodi-olive (kotinotravga) e i mangia-corbezzoli (komarofavga); - gli uccelli delle paludi (vv. 244-249) sono quelli che si cibano di zanzare (oi{ q∆ eJleiva~ par∆ aujlw`na~ ojxustovmou~ / ejmpivda~ kavpteq∆);@ in questa sezione per la prima e unica volta troviamo un o[noma kuvrion: il francolino (ajttaga`~) a cui è riservata un’attenzione speciale; - infine troviamo gli uccelli marini (vv. 250-25@), evocati, come si è detto, nel nome di Alcmane: sono i cerili che volano insieme con le alcioni, ma il loro nome è taciuto, a diπerenza di Alcmane che esplicitamente ne fa menzione.
Ora, questa particolarità della monodia è tanto più significativa se la si mette a confronto con la prassi sistematicamente attuata altrove nel corso della commedia: è infatti ben noto quanto Aristofane si compiaccia di indicare gli uccelli con il loro proprio nome, esibendo una precisione da ornitologo. 2 Basterà citare i vv. 302-304, dove in brevissimo spazio sono menzionati ben diciotto nomi di uccelli:
kivtta trugw;n korudo;~ ejlea`~ uJpoqumi;~ peristera; nevrto~ iJevrax favtta kovkkux ejruqrovpou~ keblhvpuri~ porfuri;~ kercnh;/~ kolumbi;~ ajmpeli;~ fhvnh druvoy
che, aggiunti ai sei menzionati subito prima (vv. 297-30@: pevrdix, ajttaga`~, phnev- loy, ajlkuwvn, khruvlo~, glau`x) indicano con esattezza i ventiquattro coreuti. 3 Un
altro tour de force è poi costituito dalla rassegna degli uccelli impegnati a costruire il muro della nuova città (vv. @@36-@@57): qui sono menzionati nell’ordine gevranoi, krevke~, pelargoiv, caradrioiv, ejrw/dioiv, ch`ne~, nh`ttai, celidovne~ e peleka`nte~. Non può essere un caso, dunque, che nella monodia sia adottata una prassi aπatto diπerente, e che per indicare le varie categorie di volatili si faccia ricorso a espressioni sostitutive (neoformazioni aristofanee) che si possono qualificare come kenningar. Ora, se si considera che proprio l’uso massiccio di kenningar è una delle caratteristiche più vistose della lexis ditirambica, è del tutto credibile che qui Aristofane stia marcando intenzionalmente (ironicamente?) un tratto distintivo della ‘Nuova Musica’. Con una diπerenza, tuttavia: queste kenningar hanno poco a che vedere con le espressioni costruite, e persino lambiccate, che sono magna pars dello stile lussureggiante, poniamo, di un Timoteo, o dello stesso personaggio di Cinesia nella parodia aristofanea (vv. @372-@409): ciò significa che nella monodia di Upupa Aristofane ha inteso riecheggiare gli stilemi della ‘Nuova Musica’ nei loro aspetti più pregiati, riservando ad altri momenti, e per altre motivazioni, la @ Anche ejmpiv~ è una kenning espressiva: “l’insetto che si rimpinza (scil. di sangue)”. Il vocabolo corrente per indicare la zanzara è kwvnwy (di etimologia oscura). 2 Dunbar @990 e @997. 3 Non importa che anche in questi elenchi compaiano nomi che possono essere definiti a tutti gli eπetti kenningar (tali sono, per esempio, termini come ejruqrovpou~ e keblhvpuri~), perché in questo caso si tratta di denominazioni popolari probabilmente già di uso comune, come può essere il nostro “pettirosso”: dunque ben diverse dalle neoformazioni aristofanee presenti nella monodia.
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satira aggressiva che ben conosciamo. Non si riflette mai abbastanza sul fatto che noi conosciamo la ‘Nuova Musica’ attraverso il filtro deformante dei suoi detrattori, e che pertanto siamo indotti ad esasperarne le caratteristiche di novità, intesa come stravaganza, a detrimento di altre e non meno importanti peculiarità di ordine tecnico-musicale, peculiarità che senza dubbio Aristofane doveva apprezzare, e che qui nel canto di Upupa ha adottato: con un filo di ironia, certo, ma in sostanziale concordanza di vedute. @ D’altronde, che non sia corretto vedere in Aristofane un campione della conservazione in campo poetico è dimostrato dalla scena del Poeta d’antan (vv. 904-957), scena che invano da parte della critica si è cercato di valutare in una luce moderatamente positiva, ma che a mio parere ha l’identica carica satirica della scena di Cinesia. 2 In altri termini, più che tra antico e nuovo, la partita si gioca tra buona poesia e cattiva poesia: a ben vedere, è lo stesso ragionamento che sviluppa Timoteo, quando nella sua appassionata autodifesa (Pers. 202-240) dichiara di non avere avversato né i giovani, né i vecchi, né i coetanei (da intendere: né la musica tradizionale, né la musica innovativa), ma di essersi opposto ai poeti scadenti: quelli che corrompono l’antica musa (mousopalaioluvma~), e che recano oltraggio ai canti (lwbhth`ra~ ajoida`n) lanciando urli da banditori (khruvkwn ligumakrofwvnwn teivnonta~ ijugav~).
Bibliografia Csapo 2004, E. Csapo, ‘The Politics of the New Music’, in P. Murray - P. Wilson (edd.), Music and the Muses. The Culture of Mousike in the Classical Athenian City, Oxford 2004, 207-248. Dale @959, A. M. Dale, ‘The Hoopoe’s Song’, Class. Rev. 73, @959, @99-200 (= Collected Papers, Cambridge @969, @35-@36). Dunbar @990, N. Dunbar, ‘The Ornithology of Aristophanes’ Bird-Wall. Birds @@36-@@57’, in E. Craik (ed.), ‘Owls to Athens’. Essays on Classical Subjects for Sir Kenneth Dover, Oxford @990, 6@-68. Dunbar @995, N. Dunbar, Aristophanes. Birds, Oxford @995. Dunbar @997, N. Dunbar, ‘Aristophane, ornithophile et ornithophage’, in P. Thiercy - M. Menu (edd.), Aristophane: la langue, la scène, la cité. Actes du colloque de Toulouse (@7-@9 mars @994), Bari @997, @@3-@29. Fraenkel @950, E. Fraenkel, ‘Some Notes on the Hoopoe’s Song’, Eranos 48, @950, 75-84 (= Kleine Beiträge zur klassischen Philologie i, Roma @964, 453-46@). Lomiento 2007, L. Lomiento, ‘Parodie e generi intercalari nei corali di Aristofane’, in F. Perusino - M. Colantonio (edd.), Dalla lirica corale alla poesia drammatica, Pisa 2007, 30@-334. Mastromarco 2006, G. Mastromarco, Aristofane. Commedie ii, Torino 2006. Mathews @997, G. Mathews, ‘Aristophanes’ “High” Lyrics Reconsidered’, Maia 49, @997, @-42. McEvilley @970, Th. McEvilley, ‘Development in the Lyrics of Aristophanes’, Am. Journ. Philol. 9@, @970, 257-276.
@ Per un sostanziale apprezzamento da parte di Aristofane delle innovazioni tecnico-musicali dell’Avanguardia (ma non dello stile bombastico) si pronuncia McEvilley @970. 2 Mi propongo di argomentare in altra sede il mio punto di vista.
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bruna m. palumbo stracca
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STRA TTI F R. 4 9 K .-A.: M A COME P A RLA NO I TEBANI? Lu c a B e t t arini Abstract In the fr. 49 K.-A. of Strattis an ignote character attacks the Theban dialect and makes a list of nine ridicolous Theban words. The present study tries to demonstrate that the comic eπect of these words doesn’t rely first and foremost on their possible double meaning neither on their Boeotian shape. Indeed, some of them are funny nicknames the Athenians clearly don’t use, some have particular meanings in comparison with the Attic dialect; therefore, the real vis comica of the fragment lies in the Attic point of view.
I
l fr. 49 K.-A. di Stratti, tratto dalle Fenicie, è tramandato da Ateneo (@4, 62@f-622a) a dimostrazione del fatto che i Tebani innovano nel lessico: un personaggio ateniese si fa gioco degli odiati vicini @ mettendone alla berlina le stravaganti denominazioni di diverse realtà. Come ha evidenziato Colvin, 2 si tratta, per la commedia antica, dell’unico esempio di esplicito dileggio di una parlata dialettale: proprio questa circostanza pone di fronte a un dibattuto problema interpretativo, se cioè il ricorso ai dialetti sulla scena comica attica fosse motivo di riso o meno. Non lo crede Dover, 3 che ritiene l’uso dei dialetti un’esigenza di realismo, mentre più articolata a riguardo è la posizione di Colvin, 4 che parla di “stereotypical national characteristics as a source of humour”: il Megarese è cronicamente aπamato, il Tebano è un mangione non troppo intelligente, le donne di Sparta sono vigorose e robuste. Sarebbe stato dunque incongruo e molta parte della comicità sarebbe andata perduta se questi personaggi non si fossero espressi nel proprio idioma, come ulteriore tratto distintivo e al tempo stesso identitario. Ciò significa, secondo Colvin, 5 che il ricorso ai dialetti sulla scena attica non doveva risultare comico di per sé (lo dimostra il fatto che mai i personaggi ateniesi mostrano di essere divertiti, perplessi o esasperati dall’uso di un altro dialetto), 6 ma il fatto di parlare un dialetto ‘altro’ poteva certamente contribuire alla complessiva caratterizzazione comica dei personaggi non attici e quindi alla comicità della relativa scena, proprio perché il ricorso a un idioma diverso poteva costi
@ La critica più recente ha giustamente rilevato un’evidente motivazione politica alla base del dileggio della parlata di Tebe: vd. Colvin @999, 305 e Orth 2009, 2@8 n. 345. 2 3 Colvin @999, 302-308. Dover @987, 240. 4 5 Colvin @999, 302-308 (la citazione è da 306). Colvin @999, 303 s. 6 Peraltro le parti dialettali delle commedie sono proposte con un elevato grado di fedeltà rispetto ai dialetti reali, come ha giustamente rilevato Palumbo Stracca @99@-92 e @995-98, nonché Colvin @999, 303 s.: ciò esclude la possibilità che vi sia un tentativo di rappresentazione parodica dei singoli idiomi, realizzata cioè al solo scopo di suscitare il riso del pubblico.
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tuire, se non la sostanza del ‘Witz’, almeno uno dei suoi spunti. @ In eπetti, non si può ignorare quanta teatrale arguzia si annidi ancora oggi nei fraintendimenti, nei possibili doppi sensi, negli scarti semantici e anche nella diversità di pronuncia delle singole parole; rinunciare aprioristicamente a questo e√cace strumento di comicità, soprattutto dove più facilmente può concretizzarsi, cioè nello scarto tra idiomi diversi, sarebbe scelta singolare per qualsiasi commediografo. A ciò va comunque aggiunto un importante dato sociolinguistico evidenziato da Palumbo Stracca, e cioè il fatto che nella seconda metà del v secolo l’attico ricopriva ormai una posizione di forte prestigio e la sua centralità politico-culturale poteva certamente far apparire ‘provinciali’, e quindi in certo senso comiche, le altre varietà dialettali, almeno sulla scena teatrale ateniese. 2 Una situazione analoga è a mio avviso quella della ben nota figura del medico straniero in commedia: il fatto che parli dorico o ionico non è comico di per sé ma, da un lato, lo caratterizza come medico (in eπetti molte scuole di medicina erano di ambito dorico, e d’altra parte lo ionico era, nella seconda metà del v secolo, la lingua della scienza medica), dall’altro, gli conferisce un’apparente autorevolezza, che teoricamente dovrebbe essere garanzia di successo – è questo il motivo polemico del fr. @46 K.-A. di Alessi –, ma che in realtà tale non è, risultando perfino ingannevole quando esternata da un falso medico, come nel caso dello Scudo menandreo. 3 Quindi, le potenzialità comiche insite nel ricorso a un dialetto diverso non possono essere sottovalutate nel teatro greco. In questo quadro è davvero notevole, come ricordavo all’inizio, la testimonianza del passo di Stratti, perché qui in eπetti la comicità è giocata esplicitamente ed esclusivamente sulle diπerenze linguistiche tra attico e tebano. Ecco il testo del frammento:
5
xunivet∆ oujdevn, pa`sa Qhbaivwn povli~: oujdevn pot∆ a[ll∆. oi} prw`ta me;n th;n shpivan ojpitqotivlan, wJ~ levgous∆, ojnomavzete, to;n ajlektruovna d∆ ˇ ojrtavlicon, to;n ijatro;n de; ˇ savktan, bevfuran th;n gevfuran, tu`ka de; ta; su`ka, kwtilavda~ de; ta;~ celidovna~, th;n e[nqesin d∆ a[kolon, to; gela`n de; kriddevmen, neaspavtwton d∆, h[n ti neokavttuton h\/
Nelle diverse voci tebane elencate da Stratti è immediatamente rilevabile qualche caratteristica propriamente beotica dal punto di vista fonetico e morfologico, ad es. l’assimilazione sth > tth in ojpitqotivla (v. 3) e l’esito -dd- della palatalizzazione @
In Aristofane ciò si verifica almeno due volte, come rileva lo stesso Colvin @999, 304: nella Lisistrata ai vv. 90-92, dove la comicità sta nel doppio senso della forma spartana cai{a pronunciata da Lampitò ma intesa in malam partem da Cleonice, e nella Pace ai vv. 929-936, dove invece l’eπetto comico si realizza per mezzo dell’esclamazione oi[, usata come fosse il dativo ionico oji.? 2 Vd. Palumbo Stracca 2002, 28, la quale giustamente rileva (n. @8) che gli Acarnesi con certezza e la Lisistrata con ogni probabilità furono rappresentate alle Lenee, cioè di fronte a un pubblico esclusivamente attico. 3 A riguardo si vedano Willi 2006, 86 s., Imperio @998, 7@ s., Gigante @969 e soprattutto Rossi @977, in particolare 82 s., secondo cui far parlare il medico in un dialetto straniero rappresentava un espediente in più (non necessariamente presente) per ampliare le potenzialità comiche di questa figura-tipo.
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in kriddevmen (v. 7: att. krivzein), forma in cui compare pure la desinenza atematica -men usata, come di norma in beotico, per la coniugazione tematica: @ beotico va pure considerato, in questo contesto, il mantenimento di a¯ (ojpitqotivla¯, savkta¯~). È importante tuttavia sottolineare che in tutti questi casi è la distanza lessicale e/o semantica dall’attico ad essere marcata dal commediografo: si tratta infatti di termini che devono suscitare il riso non perché diπerenti foneticamente e/o morfologicamente dall’attico, ma perché ad Atene hanno altri significati (krivzein, savkta~ e forse spavto~, su cui vd. infra) o forse nemmeno esistono (ojpitqotivla). Ciononostante, Stratti non si lascia sfuggire la possibilità di valorizzare sulla scena anche la diπerenza fonetica tra attico e beotico: è quanto accade al v. 5 con tu`kon e bevfura, che proprio su un piano di esclusiva difformità fonetica si pongono rispetto alle corrispettive forme attiche. 2 Ed è quindi evidente che in questo caso la comicità si realizza solo nella diversità dei suoni, certamente avvertita dal pubblico: sebbene infatti attico e beotico solidarizzino negli esiti in dentale delle palatalizzazioni all’interno di parola (-tt- e non -ss- quindi), è noto che tale esito in beotico è esteso anche ai casi di palatalizzazioni con /i£/ omomorfemico (quindi o{tto~ e mevtto~, non o{so~ e mevso~). Per un Ateniese perciò il beotico poteva essere superficialmente considerato il ‘dialetto del tau’, come indica anche Luciano (Iud. voc. 8), che riporta proprio il caso di tu`kon per su`kon. 3 Dunque, dal punto di vista ateniese, tra le ‘colpe’ linguistiche dei Tebani c’era anche quella di storpiare le parole, non solo di crearne di nuove o di assegnare strampalati significati ad altre. Ma nelle altre sette ‘glosse’ la pointe comica si gioca su un piano squisitamente lessicale e semantico: lo conferma il fatto che l’orientamento della critica moderna per spiegare la comicità del frammento è stato quello di ipotizzare, per tutti i termini in questione, un possibile doppio senso, 4 che si è pensato potesse essere specificamente osceno: 5 ma in realtà l’unica parola del frammento per la quale è
@
Su queste caratteristiche beotiche vd. Thumb-Scherer @959, 32 s. e 43. Va tuttavia ricordato che di recente Méndez Dosuna 2006 ha revocato in dubbio la pertinenza dell’assimilazione sT > TT al beotico, pur riconoscendo che nel frammento di Stratti ojpitqotivla è lectio di√cilior: si tratterebbe a suo avviso di un falso beotismo. 2 Sia su`kon sia gevfura presentano problemi etimologici: il primo sembra essere un prestito da una lingua anindoeuropea (mediterranea? micrasiatica?) e dunque la diπerenza tra su`kon e tu`kon potrebbe spiegarsi nel quadro delle oscillazioni nella resa di un termine non greco; quanto a gevfura, Beekes 2002 ha suggerito che sia termine di sostrato, con un’origine verisimilmente anindoeuropea (forse anatolica), rilevando tuttavia la possibilità di una labiovelare iniziale che giustificherebbe appieno l’esito beotico in labiale e quello dorico in dentale (nel cretese è testimoniato devpura [ICr iv 43.B.b.6], nel laconico invece si ha divfoura secondo Esichio d @994 Latte), ma non quello attico in velare. Ma, ovviamente, quel che conta sulla scena è il punto di vista del commediografo e del pubblico: la prospettiva attica della pièce implica che la norma linguistica sia considerato l’attico gevfura e non il beotico bevfura, che dunque risulta comico. 3 Naturalmente, il caso di tu`kon per su`kon è ben diverso da quello degli esiti delle palatalizzazioni all’interno di parola, ma forme come o{tto~, mevtto~ e tu`kon bastavano per poter sfruttare comicamente lo scarto fonetico. 4 Ad es. Colvin @999, 305, ricordando l’ostilità ateniese verso Tebe, aπerma a proposito del frammento di Stratti: “anything specifically Theban was ripe for attack, especially if it gave a chance for doubles entendres to be introduced”. 5 Si veda ad es. Dover @987, 240 s.: “If the quoted words had obscene or absurd associations in Attic, this passage could have been uttered with striking eπect by a good comic actor”.
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testimoniato un possibile doppio senso osceno è savkta~, in adesp. 536 K.-A., @ a parte il caso conclamato di su`kon. 2 Credo perciò sia meglio procedere con un’analisi lemma per lemma, cominciando da quello forse più caratteristico: ojpitqotivla. In quello che è il più recente commento al passo di Stratti, Orth 3 sottolinea la cruda espressività e chiarezza del termine, rinviando al gusto di nominare gli animali in modo descrittivo che è diπuso nel mondo greco. In realtà tale mezzo espressivo ha un nome ben preciso, quello di kenning, tratto dalle letterature medioevali islandese e norrena: è il procedimento in virtù del quale un composto o una perifrasi svolge una funzione icasticamente descrittiva e sostitutiva di un altro nome. 4 Nella letteratura greca il procedimento della kenning è più diπuso di quanto si possa immaginare, ma risale ormai a più di mezzo secolo fa il primo e per ora unico tentativo di uno studio sistematico del fenomeno, ad opera di Ingrid Waern. 5 Che si tratti di procedimento antico è comunque certo, perché un buon numero di kenningar si trova già ne Le opere e i giorni di Esiodo, ad es. ferevoiko~, “la porta-casa” per ‘chiocciola’ (v. 57@), oppure hJmerovkoito~, “il dorme-di-giorno” per ‘ladro’ (v. 605) o ancora pevntozo~, “la cinque-rami” per ‘mano’ (v. 742). 6 Da un punto di vista puramente ‘grammaticale’ vanno distinte dalle kenningar vere e proprie quelle denominazioni ad esse assimilabili che però risultano essere nomi semplici e non composti: in questo caso la definizione di ambito germanico e norreno è heiti, 7 ma vale la pena notare che si tratta – di nuovo – di una tipologia ben presente anche nella cultura greca di età arcaica, se solo si pensa al caso della formica definita in Esiodo i[dri~, “la saggia” (Op. 778): che la funzione sia quella di una kenning pare evidente. 8 Nella classificazione seguita da Waern la kenning può essere puramente descrittiva (è il caso di ferevoiko~ oppure, nel nostro frammento, di ojpitqotivla) o implicare il ricorso a una metafora che richiede di fatto uno sforzo esegetico, seppur minimo, per essere apprezzata (è la cosiddetta image- o riddle-kenning, di cui può essere esempio il summenzionato pevntozo~). A questa bipartizione la studiosa ne sovrappone un’altra, distinguendo da un lato le kenningar ‘colloquiali’, quelle cioè realizzate senza finalità retorico-poetiche e dunque proprie del parlare quotidiano, dall’altro quelle artistiche, che sono invece create appositamente per fini poetici, talora piuttosto elaborate e da attribuire perciò al singolo autore. 9 Ovviamen
@ La forma all’acc. savktan è in eπetti testimoniata nella spiegazione del lemma savrabo~ da Fozio (p. 500, 2 Naber) [= Suida (s @@0 Adler)], mentre Esichio (s 66 Hansen) presenta come lemma savkan: da tenere presente è anche savkandro~, attestato in Aristofane (Lys. 824). 2 Su cui basti il rinvio a Taillardat @962, 76 nr. @@3 e Henderson @975, @@8 nr. 33: il locus classicus del doppio senso osceno di su`kon è Aristoph. Pax @345 ss. 3 Orth 2009, 2@9 e n. 347. 4 Per un primo inquadramento del fenomeno kenning nelle letterature medioevali nordeuropee 5 vd. Koch @984, xxi-xxxi. Waern @95@. 6 Ma il procedimento è in realtà noto già da Omero, vd. ad. es. ajqhrhloigov~, il “distruggi7 pula” per ‘ventilabro’ (Od. @@, @28 = 23, 275). Koch @984, xxii-xxiv. 8 Waern @95@, in ossequio alla ‘grammatica’ della classificazione, non considera kenning se non i composti, ragion per cui ad es. nel novero delle kenningar esiodee non contempla i[dri~, che è invece ritenuta a tutti gli eπetti una kenning da Dornseiπ @934, 405 n. 23 e West @978, 289. 9 Waern @95@, 6 ss. In realtà è dibattuta ancora oggi l’origine di kenningar e heiti, se si tratti cioè di creazioni della lingua popolare assurte a livello letterario (così già Cook @894 e Mierow
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te, non sono mancate critiche, non del tutto prive di fondamento, all’uso del termine kenning nella letteratura greca, nella quale il ricorso al grifw`de~ è parso proprio solo dell’età ellenistica, mentre tutte le altre espressioni ascrivibili a tale meccanismo espressivo in età arcaica e classica non sarebbero altro che termini eufemistici, tabuistici o religioso-sacrali penetrati in letteratura; @ è stato anche notato che nelle letterature nordeuropee medioevali le kenningar costituiscono un ricercato sistema di espressioni perifrastiche per nulla paragonabile alla realtà greca. 2 Ora, senza voler entrare nel merito della questione, non ritengo sia sconveniente continuare a usare per la letteratura/cultura greca i termini kenning e heiti anche solo da un punto di vista formale, per pura comodità espositiva, al fine di intendere quel processo linguistico di sostituzione che, eπettivamente, nelle letterature medioevali islandese e norrena manifesta una precisa fisionomia e un sistematico sviluppo. Per tornare al nostro frammento, prescindendo dalle di√coltà poc’anzi menzionate, credo che un altro evidente caso di kenning o meglio heiti del tutto simile a i[dri~ sia kwtilav~ (v. 6), termine che ‘sostantivizza’ la natura ciarliera attribuita alle rondini per via del loro caratteristico verso: proprio le rondini del resto sono definite kwtivlai già in Anacreonte (fr. 453 P.) e Simonide (fr. 606 P.). Non molto diverso è anche, a mio giudizio, il caso di savkta~ (v. 5), “sacco, borsa”: si tratta di un termine ricordato – sempre con vocalismo non attico – dal grammatico Pausania (fr. 206 Erbse), da Polluce (3, @55 e @0, 64) e soprattutto già da Aristoph. Plut. 68@, dove compare per indicare la borsa usata dal sacerdote di Asclepio per intascarsi (è proprio il caso di dirlo!) le vivande della tavola sacra. Per giustificare il mantenimento del vocalismo non attico, Bjorck 3 lo ha considerato un termine espressivo, ma certamente, dato il contesto della citazione in Aristofane, potrebbe anche trattarsi di un termine conservato con veste fonetica non attica perché originariamente legato alla sfera della sacralità, e non a caso messo in relazione con un sacerdote. 4 Per quanto riguarda il nostro frammento, Bjorck ritiene che sia possibile più di una interpretazione dell’equivalenza savkta~ = ijatrov~ e non si pronuncia, ma una possibile esegesi è stata suggerita en passant da Gil e Alfageme 5 che, esaminando la figura del medico in commedia, fanno
@929, che pensavano a denominazioni create per ragioni tabuistiche di natura magica protettiva; sulla stessa linea anche Bornmann @952, su cui vd. infra) o se invece abbiano la loro origine in un vocabolario oracolare (Wilamowitz @928, @5@) o semplicemente poetico, che le identificherebbe quindi come creazioni del singolo autore (così Edwards @97@, @@@ s. per le kenningar esiodee, alla cui valutazione si allinea West @978, 289 s.). @
Così Bornmann @952, in un saggio-recensione della monografia di Waern. La posizione di Bornmann è già adombrata, ben prima dello studio di Waern, da Meyer @923, @88-@99, che in eπetti distingue nella cultura greca quattro tipi di grifw`de~: gli indovinelli/enigmi, le perifrasi popolari e tabuistiche, le metafore del linguaggio oracolare e sacrale e infine le kenningar vere e proprie, tra le quali inserisce però anche le occorrenze pindariche, eschilee ed euripidee che Bornmann considera comunque di origine religioso-cultuale. 2 Così Hordern 2002, 40 s., nell’illustrare il gusto di Timoteo per le perifrasi e i composti. 3 Bjorck @950, 68. 4 Si noti che nel verso del Pluto l’intento parodico nei confronti delle attività cultuali è palesato anche dall’uso del verbo aJgivzw, che esprime proprio l’atto di ‘consacrare’ il furto nella borsa. 5 Gil-Alfageme @972, 47 e n. 27.
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riferimento proprio al passo di Stratti e rinviano a Eustazio (in Od. @8@8, 4) e alla sua definizione di savkta~ come fortwthv~, per concludere che la curiosa denominazione tebana troverebbe giustificazione nella borsa che i medici portavano con sé nelle visite a domicilio, riempita di medicamenti e strumenti professionali: @ in sostanza, un oggetto tipico della professione sarebbe usato per designare i membri della categoria. 2 In tal modo, savkta~ avrebbe in Stratti lo stesso significato che ha in Aristofane, cioè “sacco, borsa”, e il medico sarebbe dunque chiamato scherzosamente “il sacco”, dal nome dell’oggetto che maggiormente lo caratterizza. 3 Ma non è da escludere a mio avviso un’altra possibilità interpretativa, quella cioè di intendere savkta~ come metafora del medico in carne e ossa. In eπetti, il ricorso a metafore che identificano per mezzo di un oggetto determinati esseri umani è procedimento ben noto in commedia e tipico del parlare colloquiale: valga come esempio il passo delle Nuvole (v. 448 ss.) in cui Strepsiade, a√dandosi proprio al coro delle nuove dee introdotte da Socrate, si augura che gli facciano assumere, tra le altre caratteristiche, anche quelle di una tavola della legge (kuvrbi~), di una nacchera (krovtalon), di una trivella (truvmh) e di una cinghia (mavsqlh~), così da poter essere, fuor di metafora, un azzeccagarbugli (kuvrbi~), logorroico e assordante (krovtalon), che sa cavillare in profondità (truvmh) ed essere flessibile (mavsqlh~) all’occorrenza. In particolare, la metafora del sacco risulta attestata in Alessi (fr. 88, 3-5 K.-A.), come ha sottolineato in un recentissimo contributo Elena Fabbro, 4 che ne ha plausibilmente individuata un’altra possibile occorrenza in Aristoph. Vesp. 3@2-3@4. 5 Per il nostro frammento è particolarmente interessante un passo, pure ricordato dalla studiosa, del Teeteto di Platone (@6@ a), in cui Socrate, rivolgendosi a Teodoro, si definisce scherzosamente, agli occhi del suo interlocutore, un sacco di argomentazioni (… o{ti me oi[ei lovgwn tina; ei\ nai quvlakon), che è possibile estrarre a piacimento ed esporre (rJa/divw~ ejxelovnta ejrei`n): proprio alla luce di questa testimonianza, è lecito a mio avviso chiedersi se il “sacco” che in Stratti identifica il medico non indichi metaforicamente il cumulo delle sue competenze, che devono essere necessariamente tante per poter essere all’altezza del proprio compito. Dall’analisi condotta appare quindi evidente che ojpitqotivla, kwtilav~ e savkta~ rappresentano tre casi di sostituzione di un nome a un altro: una sostituzione
@ Per il trasporto di medicamenti Senofonte (Hell. 2, @, 3) ricorda in realtà l’uso di un kavlamo~ (e cfr. kalamivsko~ in Aristoph. Ach. @034), ma la possibilità del ricorso a una più ampia borsa non sembra inverosimile. 2 Non è sorprendente che un nomen agentis possa indicare un oggetto, trasferendo su di esso il significato ‘attivo’ del su√sso: vd. ad es. il caso di krathvr e, per la radice di savttw, la glossa di Esichio sakth`ro~: qulavkou (s 83 Hansen). 3 L’idea che savkta~ sia un termine in qualche modo derisorio nei confronti del medico è già di Bechtel @92@, 3@0: “der Ausdruck klingt wie ein Spottname für den Beruf”. 4 Vd. Fabbro 20@3, 556: in eπetti in Alessi “per descrivere l’inclinazione di Eracle alla vinolenza e alla crapula si rimanda appunto a un proverbio (altrimenti ignoto) che definisce la natura dell’uomo nella sua somiglianza a un otre e a un sacco (contenitori rispettivamente per liquidi e solidi)”. L’identificazione uomo-contenitore è ovviamente frequente nel caso di beoni, ad es. in Athen. @0, 436e; Dion. Hal. Ant. Rom. @9, 5, 2 e Ael. VH @2, 26. 5 Sarebbe in questo caso uno dei vecchi padri che formano il coro a rivolgersi al figlio chiamandolo qulavkion, “sacchetto” (da riempire), ovverosia ‘bocca da sfamare’.
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certamente realizzata con procedimenti diversi, perché dalla tecnica descrittiva di ojpitqotivla si passa a quella chiaramente metonimica di kwtilav~ e a quella pure metonimica o forse metaforica di savkta~ (due image- o riddle-kenningar, secondo la classificazione di Waern), anche se in tutti e tre i casi si rimane indubbiamente nella logica dell’espressione icastica e fortemente connotativa che è propria anche del parlare quotidiano. Meno perspicuo appare invece il caso di ojrtavlico~ (v. 4) che, a detta di Stratti, è usato a Tebe per “gallo”. Costruito da ojrtaliv~ col tipico su√sso espressivo -ico~, che è peraltro particolarmente diπuso nell’onomastica beotica, @ ojrtavlico~ ha in attico il significato abituale di “pulcino, uccellino”, mentre il personaggio tebano degli Acarnesi (v. 87@) sembra usarlo con l’accezione generica di “uccello, volatile”. 2 Si è di recente dubitato della validità del significato “gallo” testimoniato da Stratti per il beotico, 3 anche perché il verso in cui è inserito è corrotto, ma forse senza vera ragione: sappiamo ad es. da Pausania (8, @7, 3 e 9, 22, 4) che proprio in Beozia, a Tanagra, esisteva, oltre a quella celebre dei galli da combattimento (mavcimoi), una varietà di galli chiamata “merli” (kovssufoi); 4 non sarebbe perciò impossibile ipotizzare che a Tebe con ojrtavlico~ potesse designarsi una tipologia specifica (e per noi non meglio nota) di questi comunissimi uccelli domestici, anche perché la Beozia sembra essere stata rinomata nell’antichità proprio per la varietà e l’abbondanza dei volatili. 5 Un’altra possibile spiegazione, se bisogna dar credito al Tebano degli Acarnesi che attesta per ojrtavlico~ il generico valore di “uccello” in beotico, è che il termine potesse col tempo avere assunto nello stesso dialetto anche un secondo significato, cioè antonomasticamente “gallo”, proprio come in attico accade con o[rni~, un vocabolo che, come è noto, ad Atene assunse, nel corso del tempo, il significato specifico di “gallo”. 6 Ad ogni modo, sia che ojrtavlico~ designasse a Tebe un particolare tipo di gallo, sia che indicasse semplicemente il gallo come uccello per antonomasia, doveva risultare comico per un Ateniese proprio il fatto che ojrtavlico~, che in Attica valeva “pulcino, uccellino”, fosse usato in Beozia (o almeno a Tebe) per un volatile tutt’altro che piccolo e mansueto. 7 Completamente diverso da quelli sin qui trattati è invece il caso di kriddevmen (v. 7): qui sembra evidente che krivzw potesse essere usato per designare un
@
Vd. Chantraine @999, s.v. ojrtaliv~. Il non comune su√sso -ico~ comporta, come è noto, una nuance diminutiva, ma proprio nel caso dei nomi di animali non sempre si rileva questo valore: Chantraine @933, 403 ricorda ad es. kovyico~, forma (apparentemente) attica alternativa a kovssufo~ / kovttufo~, nonché la glossa esichiana bavricoi (= ¸avricoi): a[rne~ (b 234 Latte). 3 Così Douglas Olson 2002, 290, nel commento al v. 87@ degli Acarnesi. 4 Nella descrizione che fa Pausania di questa particolare specie di galli spicca il piumaggio nero (vengono detti di colore simile a quello dei corvi), che potrebbe essere all’origine della ridenominazione kovssufo~. 5 Nella Pace di Aristofane (vv. @003-@004) si ricordano i tanti volatili beotici che arrivano nel mercato di Atene, e non a caso ci sono molti volatili tra le specialità beotiche che il mercante tebano degli Acarnesi (v. 870 ss.) propone a Diceopoli. 6 Sul particolare significato di o[rni~ in attico vd. Orth 2009, 22@ e LSJ, s.v. o[rni~ i e iii. 7 Anche in questo caso quindi, come precedentemente in quello di tu`kon e bevfura (vd. supra, p. 2@ n. 2), è il punto di vista attico che sancisce la comicità della situazione. 2
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particolare modo di ridere, quello eπettuato a denti stretti, o per meglio dire digrignando i denti: proprio al digrignare i denti fa infatti riferimento lo scolio ad Aristoph. Av. @52@ commentando l’attribuzione di krivzw agli Illiri e agli dèi barbari nel relativo verso. Più che di slittamento semantico, si può parlare di un’estensione di significato o di un suo uso traslato. Nel complesso chiara è anche l’equivalenza neaspavtwton = neokavttuton proposta nell’ultimo verso: un nome spavto~ che indica la “pelle” (devrma) è ricordato dallo scolio ad Aristoph. Pax 48 e confermato da Esichio (s @437 Hansen). @ Non si tratta verisimilmente di una pura ‘glossa’ beotica, perché il derivato spativlh, che ha il significato proprio di “lembo di pelle, residuo di pelle” e quello traslato di “escremento”, è attestato in ambito ionico (Hippocr. Acut. 28 e Aristoph. Pax 48) e forse anche dorico. 2 La stranezza evidenziata da Stratti potrebbe dunque consistere nell’uso della radice per indicare, nel dialetto beotico o almeno a Tebe, la suola delle scarpe, che ad Atene, come è noto, si indicava con kavttuma: si avrebbe quindi di nuovo un procedimento metonimico, non dissimile da quello prima considerato per savkta~ e kwtilav~. Oscuro è invece il riferimento ad a[kolo~ (v. 7): 3 si tratta di un hapax omerico (Od. @7, 222), che torna nella poesia ellenistica 4 e poi nella prosa culta di Giuseppe Flavio (Bell. Iud. 5, 432). È di√cile darne una valutazione, ma se la nostra scarna documentazione non ci trae in inganno, forse è proprio la sua caratterizzazione quale parola aulica e poetica che può essere risultata stravagante alle orecchie ateniesi di fine v secolo, quasi fosse un termine démodé ancora in uso però a Tebe. Alla fine di questa analisi, è necessario tornare a chiedersi in cosa consista la comicità dell’intera scena: a mio avviso, è riduttivo pensare che derivi da possibili doppi sensi di tutti i termini in questione, sebbene ciò sia per alcuni di essi al limite possibile, come si è visto. Indubbiamente, una parola come ojpitqotivla sarà risultata comica per il suo significato scatologico, così come ojrtavlico~ per il diverso valore semantico che realizza probabilmente nelle due parlate, ma credo che, come dicevo all’inizio parlando della comicità complessiva dei personaggi non attici sulla scena di Aristofane, sarà stato l’insieme delle parole prese in esame a risultare comico per il pubblico ateniese. I Tebani vengono infatti beπeggiati perché usano nicknames evidentemente bu√ per orecchie attiche (ojpitqotivla, kwtilav~ e savkta~) o perché tendono a dare significati altri, specifici, a parole che ne hanno in attico uno ben diverso (kriddevmen, ojrtavlico~, spat-), o ancora perché storpiano le parole (tu`kon, bevfura), e forse anche perché usano parole ‘fuori moda’ (a[kolo~). Si tratta di procedimenti linguistici ben presenti in tutte le lingue, e
@ L’origine di spavto~ è in genere ricondotta alla radice di spavw con un ampliamento in -t: vd. Chantraine @999, s.v. spavw. Sempre in Esichio si legge: spateivwn: dermativnwn (s @432 Hansen) e spativzei: tw`n patevwn e{lkei, tw`n dermavtwn, tw`n titqw`n (s @434 Hansen). 2 In Aristofane il termine è presente in un passo ionico e come tale è considerato da Cassio @985, @05 n. @. Una possibile attestazione della radice spat- in ambito dorico è un’iscrizione argiva di età imperiale (IG iv 58@) in cui si cita un’associazione di stolhastaiv, cioè di “la3 voratori della pelle”. Di cui è oscura anche l’etimologia, vd. Chantraine @999, s.v. 4 Ad es. in Callimaco (Hymn. Dem. @@5), Leonida (AP 9, 563); per l’età tardoantica vd. Macedonio (AP 6, @76).
stratti fr. 49 k.-a.: ma come parlano i tebani?
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che di certo avranno caratterizzato pure l’attico per altri termini: ma è proprio il punto di vista attico quello che qui conta, e che sancisce la comicità del passo a spese della parlata di Tebe. Quella che segue è una traduzione in cui ho cercato di rendere espliciti, per quanto possibile, i diversi meccanismi comici del passo. Non capite nulla, tutti voi della città di Tebe, niente davvero: in primo luogo la seppia la chiamate, come dicono, “cacadietro”, il gallo “pulcino”, il medico invece “il sacco”, “bonte” il ponte, “tichi” i fichi, e poi ancora le rondini le chiamate “le chiacchierine”, il boccone “tozzo”, dite “stridere” anziché ridere, e poi “ricuoiato” per qualcosa che è stato risuolato.*
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I L P OTE RE E L’A UDA CIA DEL TIRANNO: UNA RI F LE SSIONE S U L S I GNI F I CA TO DI T OLMA E DUN AMIS I N TUCI DI DE E PINDARO En ric a B ors on i C icco lungo Abstract In his brief reference to the extraordinary power reached by the Sicilian tyrants (Thuc. @, @7), Thucydides seems to find its causes in a capacity to act (dynamis) and in a go-aheadism (tolma) of which to them contemporary Greece seems to be free; by the time Thucydides lives, these two attitudes have been laying the foundations of the great power of Athens. In a very different context, Pindar perceives in the same two concepts the ultimate skills that both poet and laudandus must have to gain glory in their respective fields of action. The exaltation of tolma and dynamis, with all the risks and benefits they imply, becomes absolute when the principal of the ode is a monarch or a tyrant: this is particularly noticeable in the poems dedicated to Hiero of Syracuse, in which the sovereign’s profusion of efforts both in agonistic and political enterprises is as effective as possible.
I
n quella che è la più completa raccolta degli influssi pindarici sul testo tucidideo, Simon Hornblower @ ha realizzato un sistematico e suggestivo confronto tra i due autori in molteplici aspetti della loro opera: l’analisi dei rispettivi generi letterari, il contesto politico e geografico in cui essi operano, il rapporto con il potere politico, l’aspetto religioso e, in ultimo, le a√nità di stile nella tecnica compositiva e nell’uso delle figure retoriche. La quantità di materiale è tale per supporre, per quanto non una ripresa diretta, almeno una marcata corrispondenza di valori, temi e stilemi comuni ai due autori, sebbene declinati in generi letterari tra loro profondamente diversi. Tra i molti punti trattati compare anche il rapporto con le diverse forme di potere: lo studioso, che dedica particolare attenzione alle a√nità del rapporto di Pindaro e Tucidide con le povlei~ di Grecia, dubita che influssi pindarici altrettanto evidenti possano riscontrarsi nella riflessione dello storico sulla tirannide arcaica a causa dello scarsissimo interesse che Tucidide nutrirebbe per l’argomento. 2
@
Vd. Hornblower 2004 e le osservazioni di Tosi 2007. Il disinteresse di Tucidide nei confronti del potere tirannico esaltato da Pindaro è a più riprese messo in evidenza dall’autore. Cfr. Hornblower 2004, 65: “though [...] was aware of the power of the Deinomenid rulers of Sicily (i.@7) [...] Thucydides’ prime concern is rather with the coercive power exercised by the citizens of one polis against each other, and it is in these areas that we have to look for political reflections of a Pindaric sort” e @88 s., a proposito dei rapporti degli autori con le vicende siceliote: “Thucydides’ world is not populed by monarchs in need of Pindaric advice on how to rule; Thucydides and Pindar generally agree that the Sicilian tyrants were big spenders and that they founded and destroyed cities, but by Thucydides’ time their day were passed and he had no call to expand on their achievements in detail […]”. 2
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Credo, tuttavia, che esistano alcuni spunti utili a cogliere una possibile a√nità di pensiero tra gli autori anche su questo terreno. Come è noto, nel primo libro delle Storie viene ricostruita per sommi tratti la vicenda delle tirannidi della Grecia arcaica: tali regimi, originatisi per un generale incremento di ricchezze (@, @3, @), hanno poi praticato una politica difensiva e auto-referenziale, riducendo ai minimi termini l’azione politica verso l’esterno e determinando divisioni all’interno delle povlei~ stesse. A questo quadro di progressiva decadenza fanno significativamente eccezione i tiranni di Sicilia, come Tucidide non manca a più riprese di segnalare: essi non solo sono stati gli unici a sottrarsi alla katavlusi~ operata da Sparta, povli~ ajturavnneuto~ par excellence (@, @8, @), ma anzi, alla vigilia delle guerre persiane, possedevano una delle flotte più potenti dell’intera grecità (@, @4, 2). Nel paragrafo @7 le cause della loro superiorità vengono fatte risalire ad una diversità di atteggiamento nei confronti del potere politico. Riporto qui di seguito il passo con una mia traduzione: Tuvrannoiv te o{soi h\san ejn tai`~ ÔEllhnikai`~ povlesi, to; ejf∆eJautw`n movnon proorwvmenoi e[~ te to; sw`ma kai; ej~ to;n i[dion oi\kon au[xein, di∆ajsfaleiva~ o{son ejduvnanto mavlista ta;~ povlei~ w[/koun, ejpravcqh de; @ oujde;n ajp∆aujtw`n e[rgon ajxiovlogon, eij mhv ti pro;~ perioivkou~ tou;~ aujtw`n eJkavstoi~: (oiJ ga;r ejn Sikeliva/ ejpi; plei`ston ejcwvrhsan dunavmew~). ou{tw pantacovqen hJ ÔElla;~ ejpi; polu;n crovnon keteivceto mhvte koinh`/ fanero;n mhde;n katergavzesqai kata; povlei~ te ajtolmotevra ei\nai. 2
E quanti tiranni occupavano le città di Grecia, provvedendo soltanto ai propri interessi, in vista dell’auto-conservazione e dell’accrescimento del patrimonio personale, governavano le città assicurandosi per quanto possibile il massimo della sicurezza e non fu compiuta nessuna azione degna di nota da parte loro, se non da ognuno contro i rispettivi vicini (furono i tiranni di Sicilia, 3 infatti, a raggiungere l’apice della potenza). E così la Grecia rimaneva ovunque per molto tempo nella condizione di non compiere assolutamente alcuna ragguardevole impresa comune e di essere ancor più priva d’iniziativa all’interno delle singole città.
I primi editori, convinti che la menzione dei tiranni di Sicilia in tale contesto originasse un’aporia di senso, hanno preferito espungere; 4 le più recenti edizioni
@ Per l’interpretazione della particella coordinante come “continuative dev” o “dev ut gavr”, si vedano in particolare Savino @988 (“nessuna impresa pertanto fu da loro diretta, etc.”) e Donini @982 (“amministravano le città con la maggior sicurezza possibile, e nessuna impresa importante fu compiuta da loro, etc.”). Altre traduzioni preferiscono introdurre la coordinata con un ‘avversative dev’: cfr. in particolare Canfora @983 (“si assicurarono bensì il massimo di sicurezza nelle proprie città, ma neanche loro compirono imprese memorabili, etc.”) e Ferrari @994 (“governavano le città con la maggiore sicurezza possibile, ma da loro non fu compiuta alcuna impresa notevole, etc.”). D’altra parte, sia l’impiego di un dev avversativo in assenza del consueto mevn nell’affermazione precedente che quello di un dev con valore di gavr sono entrambi attestati nella prosa tucididea. Cfr. Denniston, GP2, s.v. dev B (i) (i), @65; C (i) (i), @69. 2 L’edizione di riferimento per i passi di Tucidide è Alberti @972. Per i passi pindarici rimando a Maehler @987 e @989; per quelli bacchilidei a Maehler 2003. 3 Il fatto che anche Erodoto usi una formula molto simile al tucidideo ejpi; plei`ston ejcwvrhsan dunavmew~ in relazione alla potenza di Gelone (Hdt. 7, @45, 2, ta; de; Gelw`no~ prhvgmata megavla ejlevgeto ei\nai oujdamw`n de; ÔEllhnikw`n ouj pollo;n mevzw) fa supporre che Tucidide faccia riferimento all’ascesa dei Dinomenidi e non alla precedente tirannide di Falaride. A sostegno dell’identificazione con i Dinomenidi, cfr. anche schol. ad Thuc. @, @4, @8 Hude. Contra Gomme @945, @28. 4 L’intervento dell’espunzione risale a Wex @85@, @0 ed è accolto nelle edizioni di Krüger @860, e Classen, il quale in una nota d’appendice alla sua prima edizione (Classen @862, Anh. p. 254)
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@
di Tucidide accolgono il testo tràdito, ma molte perplessità sono state espresse a più riprese da commentatori e studiosi sul significato dell’affermazione in questione, ritenuta pleonastica, se non apertamente contraddittoria con quanto detto subito prima. Molti hanno cercato di attenuarne il senso, conferendo di volta in volta diversi valori alla particella introduttiva gavr: con un gavr ‘d’omissione’ si intenderebbe che Tucidide si ricordi in extremis dei tiranni di Sicilia, come a volerne isolare e segnalare cursoriamente la diversità rispetto ai tiranni di Grecia; 2 in alternativa, il gavr servirebbe a circoscrivere l’unico campo di azione in cui la Sicilia avrebbe raggiunto una potenza superiore alle sparute iniziative contro i popoli limitrofi menzionate nell’affermazione precedente. 3 A me sembra, tuttavia, che abbia ragione de Romilly, 4 quando sostiene che non è necessario considerare la frase come un’interpolazione o attenuarne il significato: il gavr implica piuttosto una forte consequenzialità di pensiero con la serie di argomentazioni precedenti, dal momento che esso ha la funzione di enfatizzare l’immobilismo dei tiranni della Grecia continentale attraverso il paradigma opposto del dinamismo dei tiranni sicelioti. 5 Sul piano formale il gioco di litoti,
la identifica con un’interpolazione da parte di un lettore riferita alla menzione dei tiranni di Sicilia nel paragrafo successivo (@8, @). Altrove non compare espunzione, ma vengono segnalate perplessità nelle note di commento (così Poppo @866) o fatte delle integrazioni per rimediare alle di√coltà di senso. È quest’ultimo il caso di Cobet @880, il quale propone di integrare e leggere il testo ga;r oiJ ejn Sikeliva/ ktl. Contro quest’integrazione e a favore dell’espunzione intervengono Stahl nella revisione dell’ultima edizione di Poppo (cfr. Poppo-Stahl @885, @05) e Steup nelle note di commento alle ultime edizioni di Classen (Classen-Steup @897, Anh. p. 349 e @9@9, 403). Su questa linea anche Hude @898 (ed. max.) e @9@3 (ed. mai.). @ Tra le edizioni più recenti che si sono mosse in questa direzione, segnalo Luschnat @954 (@9602), de Romilly @958, e, da ultimo, Alberti @972. Per una prima argomentazione sulla scelta di conservare il testo tràdito, cfr. Croiset @886 (ad loc. @69). Lo studioso coglie nell’affermazione di Tucidide una voluta differenziazione cronologica e qualitativa del potere delle tirannidi nella Grecia continentale rispetto a quella dei Dinomenidi in Sicilia, fautori di un’impresa comune contro una potenza esterna di alto livello quale Cartagine. 2 Vd. Gomme @945, @28: “… gavr means ‘I make this reservation (to my general statement that they did nothing notable in war), because the Sicilian tyrants really did attain to some considerable power by this means; but Greece proper was still divided and achieved nothing in common’”. Così Hunter @982, 29 n. @7 e 269 n. 42, la quale ipotizza che la menzione in @, @7 serva a differenziare e a distanziare l’evoluzione storica delle città di Sicilia all’epoca dei tiranni, senza tuttavia l’interesse a citarne imprese significative. 3 Vd. Hornblower @99@, 50: “This is elliptically put: the thought is that the Sicilian tyrants, though more powerful than tyrants elsewhere, still failed to achieve anything except against neightbours”. Cfr. Crane @998, @49, il quale traduce: “Those in Sicily, as a proof of this, attained to the greatest power (dunamis) of any”. 4 Vd. de Romilly @956, 279 e @958, @2 n. @. 5 Questa soluzione interpretativa restituisce alla particella gavr i suoi usuali valori causale e epesegetico (secondo le classiche definizioni di Denniston, rispettivamente “confimatory/casual” e “explanatory” gavr; cfr. Denniston, GP2, s.v. gavr i-ii). Non mi sembra necessario presupporre un’ellissi da colmare con una perifrasi o con l’introduzione di una proposizione avversativa. Tale soluzione si trova applicata già negli scolî: cfr. schol. ad Thuc. @, @7, p. @9 Hude: ... oiJ ga;r ejn Sikeliva/: shmeivwsai ouj levgw peri; tw`n ejn Sikeliva/: oiJ ga;r ejn Sikeliva/ ejpi; plei`ston kai; ta; ejxh`~. ejpi; plei`ston ejcwvrhsan dunavmew~: h[goun pleivona duvnamin periebavlonto. Allo stesso modo la traduzione
di Croiset @886 (“je ne parle pas des tyrans de Sicile; car, pour ceux là, etc.”) e Annibaletto @963 (“non parlo dei tiranni di Sicilia, poiché quelli giunsero a grandissima potenza”). Si veda anche la maggior parte delle recenti traduzioni: Moreschini @967 (“quelli in Sicilia crebbero invece a
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comparazioni e antitesi, costruito sulla contrapposizione del superlativo di valore positivo ejpi; plei`ston dunavmew~ e del comparativo di valore negativo/privativo ajtolmotevra, sembra rafforzare ulteriormente i termini di questo concetto: l’assenza di tovlma in chi non ha compiuto nulla degno di nota è asserita e contrario con l’esempio di chi effettivamente l’ha avuta per raggiungere i vertici del potere. Questo lapidario giudizio tucidideo è ben commentato da Domenico Musti: “Tucidide attribuisce, da un lato, ai tiranni greci una politica di breve respiro, volta ad assicurare potere a sé e alla propria famiglia e a costituire una posizione di forza della propria città solo nei confronti dei vicini (perivoikoi), ma afferma anche come a questa regola si sottraggano i tiranni di Sicilia, che “si spinsero al massimo della potenza” ”. @ L’osservazione di Tucidide, per quanto isolata, offre una prima occorrenza dei termini duvnami~ e tovlma che sono alla base della riflessione dello storico sull’esercizio del potere: è stato più volte notato che nelle Storie il concetto di duvnami~, in modo del tutto nuovo, non definisce più una statica e acquisita condizione di benessere, ma la capacità di avanzare e progredire e che in essa nulla conta il possesso materiale fine a se stesso, se non si lega a una continua spinta propulsiva all’azione e al confronto con le altre potenze. 2 Tra le cause prime dei rapporti di potenza nell’opera tucididea, come sottolinea l’insistito impiego del verbo duvnasqai e dell’aggettivo dunatov~ con i rispettivi comparativi e superlativi, compare la qualità della disposizione psicologica di chi detiene il potere; 3 nel nostro passo si identifica con la tovlma. Quest’ultima, in Tucidide vox media, non ha un significato assolutamente negativo né indica, come spesso accade nella letteratura successiva, 4 un’avventatezza sconsiderata, a meno che non sia in tal senso esplicitamente connotata; 5 nell’ambito dell’analisi storica
grande potenza”), Canfora @983 (“furono invece i tiranni di Sicilia a raggiungere il massimo di forza”), Savino @988 (“non certo i tiranni di Sicilia, che invece conquistarono una grande potenza”), Donini @982 (“i tiranni di Sicilia invece raggiunsero una grande potenza”), Ferrari @994 (“quelli in Sicilia invece crebbero a grande potenza”). @ Musti 20@@, @98. Sul valore storico dell’eccezione fatta da Tucidide per i sovrani siciliani al panorama delle tirannidi arcaiche, cfr. le simili conclusioni di Diesner @956, 36 s. 2 Per una discussione sul valore di duvnami~ e il suo legame con i termini polupragmosuvnh e paraskeuhv, vd. i contributi di Ehrenberg @947, 46-67 e Immerwahr @973, @6-3@; in generale, vd. anche Woodhead @970 e Allison @989. 3 Vd. Huart @968, 387 n. 2: Accanto alle numerose occorrenze ‘concrete’ del termine duvnami~ come forza fisica o bellica, lo studioso coglie anche un’accezione ‘emozionale’, come potenzialità umana di realizzare azioni di qualità, in particolar modo in riferimento al dinamismo politico ed economico di Atene. 4 Significative in tal senso le occorrenze platoniche, dove la tovlma è collegata alla mancanza di ritegno (cfr. Plat. Ap. 38d, ajll∆ajporiva/ me;n eJavlwka, ouj mevntoi lovgwn ajlla; tovlmh~ kai; ajnascuntiva~), di virtù (cfr. Ep. 7, 336d, eijsi; ga;r kai; ejkei` pavntwn ajnqrwvpwn diafevronte~ pro;~ ajrethvn, xenofovnwn te ajndrw`n misou`nte~ tovlma~) e a più riprese identificata con un’irragionevole sconsideratezza (cfr. Lach. @97b, qrasuvth~ kai; tovlma e @93d, hJ a[frwn tovlma). Ancor più interessante è il valore del termine in Ep. 7, 336b, dove compare accanto all’ignoranza, la sregolatezza e l’empietà di una forza perversa che ha causato la fine dell’aspirante reggitore-filosofo Dione di Siracusa (ti~ daivmwn … ejmpesw;n ajnomiva/ kai; ajqeovthti kai; to; mevgiston tovlmai~ ajmaqiva~, ktl.). Cfr. ThGL, s.v. tovlma, vii. 2270s. 5 Cfr. l’espressione tovlma ajlovgisto~ in 3, 82, 4 in riferimento alle politiche spregiudicate della guerra del Peloponneso e 6, 59, @, dove così viene definito l’operato dei tirannicidi Armodio e Aristogitone.
il potere e l’audacia del tiranno
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rappresenta, al contrario, il principio essenziale dell’azione, una forma di audacia e di slancio che si concretizza nel compimento di un’impresa e, se impiegata al suo massimo grado, diviene uno dei veicoli più e√caci della duvnami~. E’ questo il caso della storia di Atene e dei suoi rapporti con le altre potenze, le cui dinamiche sono interpretate da Tucidide come una vera e propria ‘fenomenologia dell’audacia’. In particolare, nei due discorsi periclei del secondo libro (2, 34-46 e 60-64), la tovlma si rivela la cifra della superiorità di Atene e si manifesta come una positiva attitudine alla risoluzione e all’intervento che mira alla crescita dello Stato; non si tratta di una forza spregiudicata, ma opportunamente applicata alla situazione concreta e al lovgo~, il calcolo dei rischi nei quali si può incorrere. @ In questa visione, corollario imprescindibile dell’‘audacia’ sono xuvnesi~, facoltà intellettuale che permette di prevedere i risultati di un’azione, e gnwvmh, la quale, in quanto applicazione dell’intelligenza a un agire politico concreto e risoluto, è caratteristica precipua dell’eccellente uomo di Stato. 2 Come osservato da Toubeau e poi da Huart, lo spirito d’iniziativa di Atene da un lato e l’immobilismo di Sparta dall’altro divengono centrali fino a condizionare con la loro radicale diversità le scelte politiche di ciascuna potenza. Da un punto di vista espressivo, la dialettica tra le due parti si manifesta attraverso la creazione di veri e propri campi semantici: ai concetti di ardore/ slancio/ pericolo (tovlma/ tolma`n, qavrso~/ qarsei`n, proqumiva, duvnami~, kivnduno~) si oppongono quelli di timore/ esitazione/ sicurezza personale (o[kno~/ ojknei`n, devo~, braduvth~, mevllhsi~, ajsfavleia). 3 Da un punto di vista stilistico, è pregnante l’impiego del grado comparativo (qarsuvtero~/ tolmhrovtero~, ojknhrovtero~), in quanto definisce l’intensità e la qualità con cui queste disposizioni si manifestano, mettendo in moto o, al contrario, facendo ristagnare l’azione storica. 4
@ La strategia ateniese, anche quando vuole farsi difensiva e rendersi immune dal kivnduno~, non rinuncia alla profusione di audacia. Cfr. in particolare 2, 40, 3 (diaferovntw~ ga;r dh; kai; tovde e[comen w{ste tolma`n te oiJ aujtoi; mavlista kai; peri; w|n ejpiceirhvsomen ejklogivzesqai) e 2, 43, @ (tou;~ de; loipou;~ crh; ajsfalestevran me;n eu[cesqai, ajtolmotevran de; mhde;n ajxiou`n th;n ej~ tou;~ polemivou~ diavnoian e[cein ktl.). A proposito del discorso pericleo sulla tovlma, cfr. Toubeau @947, 2@3: “La tolma c’est la force affective d’Athènes, canaliseé par la raison, maintenue par le sens du respect”; 2@9: “Le courage ne consiste pas en un emportement aveugle qui espère le succès des faveaurs de la fortune, mais en une possession refléchie des moyens qu’on adapte à la situation concrète”. Vd. Huart @968, 432-434. 2 Per il concetto di gnwvmh in Tucidide, si considerino almeno, dopo Meyer @939, i contributi di Huart @973 e Edmunds @975. In particolare, Huart mette in luce come l’interazione tra valutazione intellettiva (xuvnesi~) e spirito propositivo (tovlma, proqumiva) sia alla base del concetto di gnwvmh che guida l’agire politico degli Ateniesi, come essi stessi dichiarano parlando della superiorità dei propri meriti in occasione delle guerre persiane (@, 75, @ kai; proqumiva~ e{neka th`~ tovte kai; gnwvmh~ xunevsew~). Questo vincolo inestricabile di tovlma, xuvnesi~ e gnwvmh del potere ateniese si esprime, poco oltre, nell’e√cace iunctura gnovnte~ tolmh`sai (@, 9@, 5) e trova la sua definitiva conferma nelle parole dell’ultimo discorso di Pericle (2, 62.5): kai; th;n tovlman ajpo; th`~ oJmoiva~ tuvch~ hJ xuvnesi~ ejk
tou` uJpevrfrono~ ejcurwtevran parevcetai, ejlpivdi te h|sson pisteuvei, h|~ ejn tw`/ ajpovrw/ hJ ijscuv~, gnwvmh/ de; ajpo; uJparcovntwn h|~ bebaiotevra hJ provnoia. Cfr. Huart @973, 72 ss. e @3@ ss.
3 Cfr. Huart @968, 438 n. @ e Toubeau @947, 20 ss. Sulle antitesi strutturali della psicologia tucididea come nucleo fondante dell’azione politica e del corso degli eventi storici, cfr. anche Müri @947, 256 ss. 4 L’impiego di comparazioni e di litoti, già notato per il passo @, @7, costituisce uno dei dispositivi retorici più e√caci delle Storie: esse hanno la funzione di descrivere le dinamiche dei
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A differenza di Atene, l’eccezionalità del potere dei tiranni di Sicilia non è sviluppata in un discorso disteso, ma rimane confinata alle poche menzioni nell’Archeologia: tuttavia, credo che la riflessione tucididea possa essere riletta alla luce del più approfondito trattamento che la poesia eulogistica, in particolar modo quella pindarica, riserva ai medesimi personaggi. Negli epinici pindarici il lessico della potenza (duvnami~) @ e del coraggio (tovlma/ qavrso~), pur nella diversità di contesto, presenta sfumature semantiche vicine a quello di Tucidide: tovlma e qavrso~, voces mediae, indicano un’energia e uno slancio che, se correttamente indirizzati, divengono garanzia dell’e√cacia della lode per il poeta e della vittoria nell’e[rgon agonistico per il laudandus. 2 Anche in questo caso, l’ardimento deve accompagnarsi a una capacità di discernimento che permette di riconoscere la bella impresa per la quale si debba correre il rischio. A tal proposito, una corrispondenza formale sorprendente è tra le parole del secondo discorso di Pericle (2, 62, 5 … kai; th;n tovlman ajpo; th`~ oJmoiva~ tuvch~ hJ xuvnesi~ ejk tou` uJpevrfrono~ ejcurwtevran parevcetai) e un frammento pindarico di incerta collocazione (fr. 23@ S.-M., tovlma tev min zamenh;~ kai; suvnesi~ provskopo~ ejsavwsen), il quale, sulla base della citazione e spiegazione che ne fa uno scolio alla settima Nemea, può essere facilmente ricondotto alla lode dei meriti ideali del laudandus. 3 Come Daniela Battisti a ragione osserva, il concetto di suvnesi~, virtù divisa tra la dimensione etica e quella pragmatica, indica in entrambi gli autori una qualità innata e un possesso naturale soltanto di pochi eletti, i quali, potenziandola attraverso un continuo processo educativo, l’hanno resa base del loro agire pubblico. 4 Nel caso di odi dedicate a monarchi, duvnami~ e tovlma non consistono soltanto in un esercizio inesausto di virtù etiche e fisiche, ma anche in uno sforzo eco
rapporti di potere attraverso mirati effetti di enfasi o di deminutio e in base a un criterio di competizione o di diversità. In tale categoria rientrano espressioni del tipo oujk ajduvnato~, oujk ajxuvneto~, oujk ajtolmovtero~, le quali hanno la funzione di enfatizzare le qualità psicologiche e d’azione che sono al centro della riflessione storica di Tucidide. Cfr. le considerazioni sull’argomento di Allison @997, @3@ ss. e Pontier 20@3, 353-370. Per l’impiego del medesimo dispositivo negli epinici pindarici, cfr. Pontier, ibid. 356 s. e infra, p. 36 n. 3. @ Cfr. Slater @969, s.v. duvnami~ come “power, resource” e le sue occorrenze nelle odi dedicate a Ierone di Siracusa. In particolare, nella prima Olimpica essa è il motivo della superiorità senza eguali del sovrano ed è espressa con la formula del “superlative vaunt” (vd. infra, p. 36 n. 3): ol. @, @03 s., pevpoiqa de; xevnon/ mhv tin∆ajmfovtera kalw`n te i[drin a{ma kai; duvnamin kuriwvteron ktl.). Nella seconda Pitica essa indica la risolutezza e la giustizia di un intervento politico (Pyth. 2, @9 s. Lokri;~ parqevno~ ajpuvei, polemivwn kamavtwn ejx ajmacavnwn/ dia; tea;n duvnamin drakei`s∆ajsfalev~: ktl.). 2 Cfr. Slater @969, s.v. tovlma. La tovlma come dote del laudandus compare in Pyth. @0, 24; Nem. 7, 59; @0, 30; Isthm. 4, 45. Per l’applicazione dello stesso significato del termine al campo poetologico, cfr. Ol. @3, @@-2 e 9, 8@ s., dove, accanto a duvnami~, costituisce la qualità dell’eccellenza del poeta. 3 Cfr. Nem. 7, 58-60, ti;n d∆ejoikovta kairo;n o[lbou/ divdwsi, tovlman te kalw`n ajromevnw/ / suvnesin oujk ajpoblavptei frenw`n e schol. 87, iii @27 Drachm.: o{lw~ ajpodevcetai oJ Pivndaro~ th;n meta; sunevsew~ tovlman: (fr. 23@ S.-M., tovlma… ejsavwsen): hJ me;n suvnesi~ proepiskopou`sa, pw`~ ejkbhvsetai, hJ de; tovlma ejgceivrhsi~ ou\sa. Cfr. Snell @924, 54-55. Nel suo capitolo dedicato alla suvnesi~, intesa come un’innata capacità di comprensione, menziona i loci pindarici in cui essa è collegata alla tovlma e cita a parallelo la sententia del frammento di apertura del Triagmos di Ione di Chio, dove il binomio ‘energia/ discernimento’ costituisce, assieme alla tuvch, la sostanza della virtù (@@4 Leurini = 36 B @ D.-K.): eJno;~ eJkavstou ajreth; triav~, suvnesi~ kai; kravto~ kai; tuvch. 4 Cfr. Battisti @990, 5-25.
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nomico e politico. Pindaro mostra una lucida consapevolezza dei vantaggi e dei limiti che tale fattore comporta per sé e per il committente: da un lato, il plou`to~ del sovrano è visto come un dono, una condizione privilegiata fornita dagli dei che deve essere incondizionatamente lodata; dall’altro, dietro ai concetti convenzionali di kovro~ (sazietà) e fqovno~ (invidia), @ si nascondono i rischi di una ricchezza eccessiva, tesaurizzata e tenuta nascosta, che atrofizza tanto la magnanimità del laudandus, il quale senza investire non può compiere imprese, quanto l’attività del poeta che, privato del misqov~, non può esercitare il suo mestiere adempiendo al crevo~ di lode. 2 Una ricchezza accresciuta per interesse personale (kevrdo~) comporterebbe per entrambi la perdita del proprio ruolo sociale: s’impone dunque una gestione generosa e manifesta del plou`to~. 3
@ Per il valore materiale e poetologico dei due termini in Pindaro, cfr. Slater @969, s.vv. kovro~ e fqovno~. Nel caso delle odi dedicate a monarchi, il kovro~, che altrove corrisponde a un’ambizione
insaziabile a prendere senza dare (tale accezione si trova in Ol. @, 56 in riferimento a Tantalo, exemplum mitico negativo della figura di Ierone), è al contrario il rischio che corre il poeta quando eccede nelle lodi di un soggetto dotato di una ricchezza e una condotta senza pari. D’altra parte, lo fqovno~ rappresenta la detrazione e l’invidia alla quale il sovrano è necessariamente soggetto per la sua soverchiante ricchezza e per l’intelligenza nell’usarla e farne mostra; da un punto di vista metaletterario, esso coincide con il sentimento provato dai competitori di Pindaro stesso, il quale, anche grazie alla qualità dei patroni, esercita la sua professione di poeta eulogistico ai massimi livelli. Il legame tra i due concetti di kovro~ e fqovno~ è particolarmente evidente nella chiusa della seconda Olimpica, dove alla generosità senza precedenti né uguali di Terone di Agrigento (vv. 93-95, tekei`n mhv tin∆eJkatovn ge ejtevwn povlin fivloi~ a[ndra ma`llon/ eujergevtan prapivsin ajfqonevsterovn te cevra/ Qhvrwno~) il poeta associa il rischio dell’eccesso di lode (v. 95 s., ajll∆ai\ non ejpevba kovro~ / ouj divka/ sunantovmeno~, ktl.). Cfr. il commento ad loc. in Gentili et alii 20@3, 4@2 ss. 2 Cfr. in particolare Campagner @988, 82. Vd. Descat @986, 234: “… le riche n’a pas besoin en apparence de l’érgon que Pindare encourage. La tentation est forte sur de ne rien faire, de garder son kerdos et sa richesse pour soi …, mais on se conduirait alors comme un irresponsable, un ouj sofov~”; così anche Medda @987, @@3, il quale nota opportunamente come a Pindaro interessino le “molteplici possibilità di azione e di gloria che la prosperità materiale offre a chi la possiede: da essa deriva una sorta di obbligo morale, che impegna il ricco a fare un uso corretto dei suoi beni”. Vd. anche Cozzo @988, 6@-64. 3 È interessante osservare come tale concezione di kevrdo~ come guadagno personale e ostacolo alla munificenza del sovrano/ committente compaia, funzionalmente rielaborata, nel ben più tardo xvi Idillio teocriteo: sebbene ci troviamo di fronte a un prodotto letterario complesso e ra√nato, dove stilemi omerici e lirici convivono con espressioni di carattere colloquiale, nella sua sostanza l’idillio è chiaramente un encomio indirizzato dal poeta al generale e futuro sovrano di Siracusa Ierone II, con il quale Teocrito auspica di intessere le stesse relazioni che Pindaro ebbe 200 anni prima con il tiranno Ierone I. Il testo si apre con la denuncia delle attuali condizioni in cui versa la poesia eulogistica. Quest’ultima, impersonata more pindarico dalle Cariti, è costretta all’inattività per la mancanza di un committente e dunque della remunerazione che sono condicio sine qua non del suo esercizio (vv. 5-@5). A tale situazione Teocrito replica con un vero e proprio manuale del perfetto patrono e delle vie più nobili verso la liberalità (vv. 22-29): come in Pindaro, anche nel xvi Idillio l’accumulazione incondizionata di ricchezza è dovuta alla continua ansia di guadagno personale (kevrdo~), il quale impedisce al laudandus di cogliere un vantaggio dalle proprie risorse e al poeta di fare il proprio mestiere (cfr. vv. 22-24 e, poco prima, @4 s.). Per gli influssi pindarici sull’Idillio xvi, cfr. in particolare Clapp @9@3, 3@0-3@6; Perrotta @925, 5-29 e, da ultimo Hunter @996, 83 ss. Per l’idillio come esempio letterario del genus mixtum, cfr. Gri√ths @979, 9 ss. Una menzione merita la recente interpretazione del testo proposta da González, il quale prospetta una ricostruzione storica di un processo di tesaurizzazione avvenuto in Sicilia poco prima di Ierone II secondo dinamiche non del tutto dissimili da quelle segnalate da Tucidide (@, @7) per le tirannidi di Grecia in epoca arcaica: “The prosperity of Sicily and the
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L’esposizione e l’investimento della ricchezza in tali contesti non sono legati soltanto alla contingenza del momento agonistico, ma costituiscono a un tempo il valore aggiunto dell’eccellente laudandus e quello del superiore uomo di potere. Ciò è particolarmente evidente nella prima Pitica @ dedicata a Ierone di Siracusa, dove la lode delle imprese militari del sovrano si conclude con una serie di esortazioni alla spesa e all’impresa, a rifuggire da guadagni personali che non arrecano onore e a non risparmiare la propria ricchezza (vv. 90-92): 2
… mh; kavmne livan dapavnai~: 3
90
ejxivei d∆w{sper kubernavta~ ajnhvr iJstivon ajnemoven {petavsai~}. mh; dolwqh`/~, w\ fivle, kevrdesin eujtrapev loi~: 4
90
… largheggia nelle spese senza angustiarti; libera come il nocchiero al vento la vela. Non ti ingannino, amico, gli ambigui guadagni. (trad. B. Gentili)
È d’interesse che Tucidide applichi la stessa osservazione, opportunamente rielaborata, alla situazione della Grecia arcaica e delle sue tirannidi (@, @5-@7): immobilismo e conservazione ostinata del proprio oi\ko~ sono due dei possibili rischi di un eccessivo benessere, dal momento che fanno ristagnare l’azione politica e, con essa, il potere. 5
large numbers of coins in circulation there must have inflamed the pleonexiva of feuding aristocrats and incited them to outdo their rivals in their accumulation of wealth. Lack of political stability and perhaps a certain narrowness of mind counseled sparing use of money that might soon be needed to buy security during turbulent times. This probably precluded the lavish outlays for the arts that might have benefited a young poet trying to make his mark in the world”. Cfr. González 20@0, 92. @ Del tutto calzante è la definizione di Luraghi della prima Pitica come “vero e proprio incunabolo del potere tirannico di Ierone” (Luraghi @994, 352), in cui la congiunta celebrazione delle vittorie locali di Imera e Cuma e quella greca di Salamina proprio nella neo-fondata città di Etna mira a legittimare il ruolo panellenico di Ierone stesso. Cfr. inoltre Bonanno 20@0, @60. Per la struttura dell’ode come specchio di questa costruzione ideologica, cfr. Gentili et alii @995, @7 ss. 2 Questi versi si trovano a conclusione di un vero e proprio ‘prontuario’ dell’eccellente uomo di potere, nel quale l’esortazione a compiere imprese che con la loro grandezza sconfiggano il rischio dello fqovno~ (v. 85 s., ajll∆o{mw~ krevsson ga;r oijktirmou` fqovno~,/ mh; parivei kalav), è associata, senza soluzione di continuità all’immagine di un regime giusto e risoluto (v. 86 s. ... nwvma dikaivw/ phdalivw/ strato;n: ajyeudei` de; pro;~ a[kmoni cavlkeue glw`ssan). Un pensiero affatto simile ritorna nelle parole dell’ultimo discorso di Pericle dove all’e√mero fqovno~ dell’ajpravgmwn viene contrapposta la gloria futura che tocca a chi compie mevgista [2, 64, 4, kaivtoi tau`ta (in riferimento alla capacità di governo ateniese) oJ me;n ajpravgmwn mevmyait∆a[n, oJ de; dra`n ti kai; aujto;~ boulovmeno~ zhlw`sei: ktl]. 3 Per dapavna in Pindaro nel senso di “spesa” in opposizione a un kevrdo~ egoista e privato e per il suo valore di compendio materiale all∆ajretav del laudandus, vd. Szastyn¬ska-Siemon @977, 205-209 e Medda @987, @29 ss. 4 Mi distacco qui dalla scelta della variante ejntrapevloi~ (accettata anche da Turyn) per l’altra lezione attestata eujtrapevloi~ (accettata da Boeckh, Dissen, Gentili et alii). Per le motivazioni della scelta, rimando a Cingano in Gentili et alii @995, 36@ ad loc.). 5 Vd. Immerwahr @973, @9: “In Thucydides wealth, periousia¯ chre¯mato¯n becomes paraskeue¯, preparation for action for the purpose of self preservation or further espansion”. Allo stesso
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In entrambi i casi, come rimedio compare l’audacia, tanto più e√cace se impiegata da chi è consapevole della propria grandezza e sa correre i rischi necessari per accrescerla o legittimarla. Da iniziale disposizione psicologica essa si trasforma in prassi costante, in un mevga e[rgon che è al centro sia del discorso eulogistico, che di quello storico: in tempi e con scopi diversi, la tovlma che Tucidide riconosce ai tiranni di Sicilia e quella a cui Pindaro, poeta alle dipendenze degli stessi, li esorta costantemente a dedicarsi, sembrano due facce della stessa medaglia. @ A conferma di ciò, il superiore esercizio di duvnami~ e tovlma di cui parla Tucidide in @, @7 sembra presentare consonanze con gli elogi che Pindaro tesse in più occasioni per Ierone di Siracusa (478-467/466 a.C.), in particolare nelle prime due Pitiche, dove l’eccellenza del sovrano si identifica con un onore straordinario che non ha confronti nel resto della grecità. Nella prima Pitica questa timhv, condivisa con il fratello e predecessore Gelone, fa riferimento ai successi nelle battaglie militari ed è essa stessa coronamento alla ricchezza (vv. 47-50):
h\ ken ajmnavseien (scil. oJ pa`~ crovno~), oi{ai~ ejn polevmoisi mavcai~ tlavmoni yuca`/ parevmein∆, aJnic∆ euJriv skonto (scil. Ierone e Gelone) qew`n palavmai~ timavn oi{an ou[ti~ ÔEllavnwn drevpei plouvtou stefavnwm∆ ajgevrwcon.
Certo saprà [scil. tutto il tempo (futuro)] ricordargli quali battaglie in guerra sostenne con animo saldo, quando per mano dei numi trovò col fratello quell’onore che nessun altro miete tra i Greci, coronamento insigne di ricchezza.
50
50 (trad. B. Gentili)
Nella seconda Pitica, questo superiore onore viene fatto risalire non soltanto al possesso di beni materiali, ma alla capacità e intelligenza del sovrano nel metterli in mostra con la massima generosità (vv. 56-6@): 2
modo, Edmunds mette bene in evidenza come il concetto intellettuale e al contempo pragmatico di gnwvmh, così come è enunciato da Pericle, corrisponda proprio a questi cambiamenti di carattere psicologico e economico in direzione di un nuovo dinamismo politico: alla necessità dell∆ajsfavleia si sostituiscono la valutazione del rischio e l’azione risoluta, a una concezione statica dei crhvmata come possesso nascosto e immobilizzato la nozione di oggetto d’uso e di capitale in movimento. Cfr. Edmunds @975, 36 ss. @ Un’interpretazione radicalmente diversa è offerta da Crane @998, @48-@52. Stando alla sua interpretazione dell’inciso e del gavr (cfr. supra, p. 3@ n. 3), Tucidide inserirebbe la menzione dei tiranni siciliani non come la più significativa eccezione alla politica dell’accumulo di ricchezza e dell’auto-conservazione, bensì come la sua più evidente manifestazione. Lo studioso sostiene che Tucidide, diversamente da Pindaro, considera gli investimenti e le ‘fatiche economiche’ dei tiranni un capitale inerte e improduttivo, dal momento che sono finalizzati alla pubblicizzazione e celebrazione della propria immagine piuttosto che al rafforzamento del potere politico e all’accrescimento del dominio territoriale. 2 Per Pyth. 2 si confronti anche la spiegazione dello scoliasta (schol. @08, ii 49 s. Drachm.): eij de; ti~ plouvtw/ kai; timh`/ fhsi;n e{terovn tina tw`n kata; th;n ÔEllavda tw`n pro; touvtou meivzona kai; ajxiologwvteron gegevnhsqai, kouvfh/ kai; mataia`/ freni; diapalaivei kai; mavcetai.
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… to; ploutei`n de; su;n tuvca/ povtmou sofiva~ a[riston. tu; de; savfa nin e[cei~ ejleuqevra/ freni; peparei`n, @ pruvtani kuvrie polla`n me;n eujstefavnwn ajguia`n kai; stratou`. eij dev ti~ h[dh kteavtessiv te kai; peri; tima`/ levgei e{terovn tin∆ ajn∆ ÔEllavda tw`n pavroiqe genevsqai uJpevrteron, cauvna/ prapivdi palaimonei` keneav.
…il meglio è la ricchezza congiunta alla sorte d’esser saggio. Ostentarla tu puoi palesemente con libero senno, principe, sovrano di genti e di molte contrade coronate da mura. E se qualcuno dice che prima di te un altro nell’Ellade ti superò in ricchezza ed onore, con stolida mente lotta invano. (trad. B. Gentili)
Qui Pindaro applica una strategia retorica, definita da Race “superlative vaunt”, 2 che gli permette di asserire la superiorità del soggetto sugli altri, specialmente
@ Sull’interpretazione, ancora oggi discussa, del v. 56, cfr. almeno Gerber @960, @00 ss., Péron @974, @-32, Carey @98@, 44 ss., Gentili et alii @995, 387, Henry 2000, 295 s. Il v. 57 è costruito su una serie di termini che mettono bene in luce questo concetto di liberalità consapevole; in primis l’hapax peparei`n, sia che esso venga ricondotto al significato di “mostrare” attestato nella glossa esichiana (Hsch. p @436: ejndei`xai, shmh`nai) che a quello di “dare, procurare risorse” sulla base del peporei`n tràdito da un ramo di tradizione manoscritta e della spiegazione al passo offerta dallo scoliasta. A favore della prima soluzione si pronuncia la maggior parte degli studiosi, vd. Gentili et alii @995, 388 e inoltre Medda @987, @24 n. 27. Per la connessione con il verbo porei`n, cfr. schol @04a, ii 49 Drachm., tou`to pro;~ to;n ÔIevrwna ei\pe: su; de; ejleuvqero~ w[n, w\ ÔIevrwn, ejleuqevra/ th`/ freni; th;n ajreth;n e[cwn kai; th;n sofivan h}n proei`pe kai; ploutw`n, duvnasai kai; eJtevroi~ peparei`n, h[toi porivzein kai; paraskeuavzein. A favore di quest’ultima soluzione cfr. Floyd @97@, 676-679; diversamente Dietrich @975, 69-72. Una certa rilevanza sembra avere inoltre l’impiego dell’aggettivo ejleuvqero~ in una prima embrionale accezione di “liberale”, che gode di numerose attestazioni in epoca classica. Cozzo offre una convincente spiegazione di questo slittamento semantico: in un’economia che ha ormai superato il momento della tesaurizzazione, la condizione dell’uomo libero comporta in sé una necessità di dare, una forma di generosità connaturata al proprio status e commisurata alle proprie possibilità economiche. È una forma d’indipendenza materiale che deve essere messa a disposizione degli altri da chi la ottiene o la possiede. L’uso pindarico dell’aggettivo, per quanto finalizzato alla necessità contingente di lodare il sovrano e ancora legato a una dimensione aristocratica e di prestigio, anticipa in qualche modo quel concetto di liberalità intelligente che costituisce uno dei più saldi fondamenti della democrazia di Pericle, come ben traspare dalle parole dell’epitafio (Thuc. 2, 40, 5, kai; movnoi ouj tou` xumfevronto~ ma`llon logismw`/ h] th`~ ejleuqeriva~ tw`/ pistw`/ ajdew`~ tina wjfelou`men). Sull’argomento, cfr. Cozzo @99@, 23 ss. e @08 ss. 2 Cfr. Race @983, @@2 s. Lo studioso osserva che l’’espressione del valore del laudandus attraverso la formula negazione + comparazione, oltre a costituire una variatio della formula assertiva, ha la funzione di conferire oggettività al giudizio del poeta e valorizzare enfaticamente i meriti del committente. Sulla frequenza di quest’uso retorico in odi dedicate ai tiranni di Sicilia si vedano, oltre agli esempi citati, anche Ol. @, @04 e 2, 93 ss. e le osservazioni a riguardo di Kurke @99@, 2@8-224 e @999, @29-@33. Sulle potenzialità retoriche e stilistiche della litote nella poesia pindarica, cfr inoltre Köhnken @976.
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quando si tratta di un monarca o di un tuvranno~, attraverso un’enfatizzazione dei vantaggi della lode e una conseguente riduzione dei rischi che essa comporta. Al di là della convenzionalità del mezzo, è d’interesse osservare che solo nel caso di Ierone è contemplato il confronto vincente con il resto della Grecia, che compare anche in un passo del terzo Epinicio di Bacchilide (vv. 63-66), che riporto di séguito con mia traduzione: o{so[i] me;n ÔEllavd∆ e[cousin ou[ti~, w\ megaivnhte ÔIevrwn, qelhvsei favm]en sevo pleivona crusovn Loxiv]a/ pevmyai brotw`n.
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E certo di quanti vivono nell’Ellade, nessuno tra i mortali, o Ierone degno di alte lodi, vorrà affermare che più oro di te ha inviato al Lossia.
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Tuttavia, nella trattazione bacchilidea della ricchezza ciò che viene valorizzato è l’aspetto strettamente encomiastico, e dunque il motivo dell’esibizione e della grandiosità piuttosto che quello dell’investimento e della spesa; @ diversamente, in Pindaro il tema del plou`to~ si inserisce in una prospettiva più ampia, in cui l’esercizio attivo del potere e la sua buona riuscita sono ciò che più valorizza la ricchezza personale. Alla centrale riflessione eulogistica si associano così senza soluzione di continuità gli spunti per una riflessione politica e socio-economica. 2 Le prime due Pitiche, che nel confronto con la Grecia richiamano la formulazione del passo delle Storie, lasciano più spazio delle altre anche alla celebrazione di Ierone come uomo di governo. In particolare, nella seconda Pitica Pindaro offre una summa laudatoria dell’attività politica del sovrano che presenta riscontri interessanti con il pensiero tucidideo (vv. 63-67):
neovtati me;n ajrhvgei qravso~ deinw`n polevmwn: o{qen fami; kai; se; ta;n ajpeivrona dovxan euJrei`n, ta; me;n ejn iJpposovaisin a[ndressi marnavmenon, ta; d∆ ejn pezomavcaisi: boulai; de; presbuvterai ajkivndunon ejmoi; e[po~ poti; pavnta lovgon ejpainei`n parevconti.
Assiste i giovani l’ardire di guerre terribili; donde pure tu traesti, lo affermo, una gloria infinita, ora combattendo tra i fanti, ora nelle mischie degli uomini che spronano i cavalli; il tuo senno più adulto
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@ Per la trattazione del tema della ricchezza e il significato dell’exemplum di Creso in Bacchyl. Ep. 3, cfr. Burnett @985, 67 ss. 2 Tale sensibilità al problema della richiesta finanziaria è ben colta in Radici Colace @978, 735-745.
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fa sì ch’io possa lodarti in tutto ciò che dico senza alcun rischio. (trad. B. Gentili)
Dopo aver asserito la sua posizione di preminenza, Pindaro loda i meriti di un’audacia consapevole nell’esercizio del potere: all’ardore dimostrato nei grandi passati eventi di guerra che conferisce fama (vv. 63-64, qravso~ deinw`n polevmwn) si accompagna una matura capacità decisionale (v. 65, boulai; presbuv- terai). Quest’affermazione collima non solo con l’idea del passo tucidideo @, @7, per cui lo spirito d’iniziativa è alla base di ogni e[rgon degno di fama, ma anche con la concezione della tovlma sviluppata nel resto dell’opera. La corrispondenza è ancora più eloquente nella quinta Pitica, che contiene un elogio del monarca Arcesilao di Cirene costruito esattamente alla stessa maniera (vv. @09-@@3):
krevssona me;n aJlikiva~ novon fevrbetai glw`ssavn te: qavrso~ de; tanuvptero~ ejn o[rnixin aijeto;~ e[pleto ajgwniva~ d∆, e{rko~ oi|on, sqevno~:
@@0
egli nutre intelletto e parola maggiore degli anni, per ardimento è come tra gli uccelli aquila ad ali tese, un baluardo nelle competizioni la sua forza;
o{sai t∆eijsi;n ejpicwrivwn kalw`n e[sodoi, tetovlmake. qeov~ te oiJ to; nu`n te provfrwn telei` duvnasin, kai; to; loipo;n oJmoi`a, Kronivdai mavkare~, didoi`t∆ejp∆e[rgoisin ajmfiv te boulai`~ e[cein ktl.
(trad. B. Gentili)
e vv. @@6-@20:
@20
Quanti sono gli accessi a belle domestiche imprese egli ha tentato; ora il nume benigno gli compie il potere, e nel futuro egual esito, o figli beati di Crono, a lui concedete nei consigli e nell’opere, etc. (trad. B. Gentili)
Dopo una gnome introduttiva sul valore della ricchezza, la lode si concentra sulle virtù morali, etiche e agonistiche, le quali si applicano senza soluzione di continuità anche all’attività politica (vv. @09-@20). @ Ai concetti positivi di novo~ e qavr
@
Cfr. Gentili et alii @995, 539 ss.
il potere e l’audacia del tiranno
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so~, la cui azione congiunta costituisce come nella seconda Pitica la più alta delle
qualità del committente (vv. @@0-@@@), sono collegati quelli, altrettanto qualificati, di tovlma e duvnami~ (vv. @@6-@20). Mi sembra ora possibile, sulla base di queste corrispondenze, trarre alcune conclusioni: sia Tucidide che Pindaro colgono l’oggetto della propria parola nell’azione di qualità e sono interessati a valutarne gli esiti in base alla disposizione psicologica di chi la compie. Nel loro pensiero, l’audacia (tovlma/ qavrso~) è uno slancio che si concretizza in risolutezza e spirito di iniziativa, la duvnami~ è la capacità di portare a termine l’azione e la ricchezza (crhvmata, plou`to~) implica quasi l’obbligo per chi la possieda a farne un uso manifesto, investendola in atti ed opere e sottraendola a una condizione d’inerzia e staticità fine a se stessa. @ Questi concetti, che negli epinici pindarici dedicati ai monarchi, in particolare a Ierone, costituiscono il vertice del momento eulogistico, si ritrovano in Tucidide adattate funzionalmente proprio all’analisi della vicenda dei tiranni di Sicilia. Ciò incoraggia l’idea che nel pensiero dello storico ci siano Dinomenidi e Emmenidi, dedicatari di odi pindariche, e gli atti che ne hanno contraddistinto la politica militare e di governo. Si tratta tuttavia di ipotesi che, per quanto plausibili, non trovano conferma nella narrazione totalizzante della megivsth kivnhsi~ della guerra del Peloponneso. Di certo, alla luce del confronto con Pindaro, il binomio tovlma/ duvnami~ che caratterizza il potere di Atene potrebbe trovare nell’esperienza dei monarchi sicelioti un coerente precedente. 2
@
Vd. Medda @987, @@3 ss. Una possibile eco della concezione pindarica della ricchezza nella riflessione socio-economica di Tucidide sul regime democratico ateniese è suggerita da Musti @987, @02 s. Soffermandosi su un passo dell’epitafio pericleo in cui si dice che gli Ateniesi “esercitano la ricchezza al momento opportuno per agire e non per il vanto vuoto della parola” (2, 40, @, plouvtw/ te e[rgou ma`llon kairw`/ h] lovgou kovmpw/ crwvmeqa), osserva: “… qui mi pare che sia da riconoscere l’aspetto più interessante e trascurato - anche al ricco si chiede l’iniziativa. Pericle infatti prende in considerazione l’uso di puro prestigio della ricchezza; egli sembra avere, come un moderno sociologo, piena consapevolezza del fatto che può esistere […] un’ideologia della ricchezza come bene di prestigio: ma la respinge, per ciò che riguarda la società ateniese, opponendole l’ideologia di una ricchezza impegnata negli erga”. Lo studioso infine rintraccia questa idea dell’investimento ante litteram e della condanna della tesaurizzazione della ricchezza in un passo della prima Nemea, dedicata a Cromio Etneo per la vittoria nella corsa col carro (vv. 3@-33, oujk e[ramai poluvn ejn megavrw/ plou`ton katakruvyai~ e[cein,/ ajll∆ejovntwn eu\ te paqei`n kai; ajkou`sai fivloi~ ejxarkevwn. koinai; ga;r e[rcontai ejlpivde~ / polupovnwn ajndrw`n). A queste osservazioni, si può aggiungere che tale parainesis alla ricchezza assume ancora più rilevanza ai fini della nostra riflessione, se collegata allo status sociale e politico del laudandus: Cromio, combattente a fianco dei tiranni di Siracusa a Imera e Cuma, vicino alla corte di Ierone e designato dal tiranno stesso come reggente della neo-fondata Etna in attesa della maggior età del figlio Dinomene, è a tutti gli effetti coinvolto nella politica di e[rga e plou`to~ e nella pratica di tovlma e duvnami~ esaltate e promosse dai tiranni siciliani. Questa ipotesi sembra trovare conferma nella sezione della Nemea dedicata alla sua lode personale, dove sono riproposte per Cromio, tanto nel lessico quanto nel significato, le stesse qualità di Ierone e Arcesilao (cfr. vv. 26-30, pravssei ga;r e[rgw/ me;n sqevno~,/ boulai`si de; frhvn, ejssovmenon proi>dei`n/ suggene;~ oi|~ e{petai. ÔAghsidavmou pai`, sevo d∆ajmfi; trovpw// tw`n te kai; tw`n crhvsie~). Cfr. inoltre la spiegazione al passo in schol. 39, iii @7 Drachm.: pravssei ga;r ejn e[rgw/ me;n sqevno~: sumpravssei kai; sunergei` toi`~ me;n e[rgoi~ hJ ajndreiva, toi`~ de; bouleuvmasi kai; lovgoi~ oJ nou`~ e 43 tw`n te kai; tw`n: tw`n e{rgwn kai; th`~ sunevsew~. ejnergei`~ ga;r kai; probouleuvh./ 2
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IL PA ESA GGI O D EL MITO. A LIA RTO, LA F ONTE CISSU SSA E IL F I UME LOPHIS F r an c e s c a D’Alfo nso Abstract The Copais Lake shaped a very dynamic landscape in antiquity because of the periodic water level fluctuations, and such a preponderant presence of water was widely mirrored in myth and rite. According to some literary sources, in close proximity to the city of Haliartus there were two sites (the spring Cissussa and the river Lophis), which display an interesting mythical relationship. Indeed their water had unusual qualities, either because they changed into wine in contact with the infant Dionysus (the spring Cissussa), or because they gushed out of the blood of a child (Lophis). It is likely that the civic nature of the Theodaisia festival, celebrated near the spring and linked to the presence of Dionysos, and the aition of the river Lophis (human sacrifice) fell into the realm of the rites of passage. Finché il paesaggio non parla umanamente, non può essere chiamato paesaggio. V. Sµalamov
@. Le acque di Aliarto
I
n questo articolo intendo prendere in considerazione due miti legati all’area meridionale del lago Copaide, nelle immediate vicinanze di Aliarto, dai quali è possibile risalire alla particolare interazione esistente tra acqua/sangue/vino, le cui tracce sono disseminate nella letteratura greca ma che in queste testimonianze sembra conservare una connotazione più arcaica. Si trattava di una relazione ambigua che si rifletteva nelle peculiarità del paesaggio circostante. È noto che lo status privilegiato della palude consisteva nell’essere immagine di morte e insieme garante di fertilità, e non è un caso che una delle divinità più legate alle paludi fosse Dioniso, la cui identità appare spesso sfuggente proprio perché sintesi di prerogative apparentemente inconciliabili. @ È in questo contesto che acquistano rilevanza alcune testimonianze sulla storia mitica di un fiume (Lophis) e di una fonte (Cissussa) presenti nelle immediate vicinanze di Aliarto e del lago Copaide, in cui è rintracciabile un’analoga polarità tra effetti benefici e perniciosi dell’acqua, che l’uomo era solito sperimentare soprattutto nelle zone di confine (palude). Alla vicinanza topografica dei due corsi d’acqua corrispondeva un’a√nità mitica, perché in entrambi i casi le tradizioni facevano riferimento a particolari prerogative dell’acqua, che si trasformava in vino per il contatto con
@
Vd. Casadio @994, 223 ss.; Traina @988, @20 ss.; vd. ora Tortorelli Ghidini 20@@.
francesca d’alfonso
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Dioniso neonato (Cissussa), oppure che nasceva dal sangue di un fanciullo (Lophis). La configurazione idrogeologica e l’uso dell’acqua nel bacino Copaide sono a mio avviso elementi importanti per comprendere il milieu in cui si svilupparono i miti e rituali che intendo descrivere. Come hanno sottolineato i recenti indirizzi dell’Archeologia del paesaggio, è di grande importanza cercare di ricostruire “la percezione che l’uomo antico aveva dell’ambiente naturale circostante”. @ Il paesaggio esercita un influsso importante sull’uomo, si presta a una tempestiva sacralizzazione e a sua volta trasmette l’identità culturale di una regione (“sacred landscape”). Tale operazione corrisponde perlopiù all’imposizione di un nome, che priva il luogo del suo carattere terrifico: “An environment without place names is fearful. […] The name as well as the place in an evocation”. 2 Nel caso del lago Copaide, il moderno prosciugamento delle acque paludose ha prodotto uno scarto significativo rispetto alla visione della realtà naturale antica, e ciò non può che condizionare i nostri tentativi di comprendere anche il paesaggio del sacro. L’aspetto del lago era anticamente molto suggestivo e rifletteva gli effetti delle periodiche fluttuazioni del livello delle acque. 3 Aridità e umidità convivevano nell’area secondo cicliche fluttuazioni, ma entrambi gli stati erano considerati utili alla fertilità della regione, e ciò è coerente con il rapporto che gli antichi avevano con le acque. 4 Il bacino si presentava dunque ciclicamente ora come una palude ora come un lago vero e proprio, con significative differenze tra le diverse sponde. 5 A causa delle periodiche esondazioni si verificò la scomparsa sulle rive del lago di povlei~ che fu necessario ricostruire più all’interno o su qualche altura più sicura. Fu il caso di Orcomeno, la cui inondazione fu attribuita miticamente all’intervento di Eracle, che a tal fine ostruì i katavothrai (“inghiottitoi”) presso il Cefiso (Paus. 9, 38, 7; Strab. 9, 2, 42; Diod. Sic. 4, @8, 7). 6
@
Farinetti 20@2, @@@. Shepard @967, 4@. Sulla ‘manipolazione’ del paesaggio nella poesia pindarica vd. ora Eckerman 20@3. 3 La livmnh Kopai?~ (chiamata anche Khfisiv~, ÔAliartiv~, ∆Orcomeniva, o Leukwniv~) era alimentata soprattutto dal Cefiso e dal Melas, e da numerosi fiumi minori: sulle diverse eponimie vd. Geiger @922, @346. Il lago copriva un’area di ca. 220-250 km2 (@8x@@ Km): Philippson @95@, 47@; Rackham @983, 329. Nel xix sec. iniziarono ad opera di una compagnia francese i lavori di drenaggio del lago, che venne completamente prosciugato dopo il @889 da una compagnia inglese: vd. Farinetti 2008, @@7 ss. 4 Mancava nei Greci quello che è stato definito un atteggiamento elofobico: Fantasia @999, 66; Krasilnikoff 2002, 56. 5 L’area era circondata da poljes (“open fields”) e soprattutto da profondi canali sotterranei, che riflettevano la natura carsica del territorio. Negli ampi ‘inghiottitoi’ (katavothrai), presenti ancora oggi intorno al bacino, l’acqua in eccesso defluiva o ritornava in superficie, spesso sotto forma di fonti (kephalaria = “karstic springs”). Il processo era determinato sia da fattori naturali (eccesso di sedimentazione) sia da chiusure o aperture artificiali dei katavothrai, realizzate per favorire l’agricoltura nelle regioni circostanti: Farinetti 2008, @@5-@@7. Tali operazioni risalivano ai Minii, re micenei di Orcomeno (ca. @400 a.C.), che avevano realizzato una serie di canali per convogliare le acque dei fiumi ed ampliare la superficie coltivabile. Ai Minii era attribuita anche la costruzione di un lungo terrapieno in muratura sul limite nord-orientale del bacino: sui recenti scavi vd. Kountouri et alii 20@2. Per un ampio e approfondito studio sul lago Copaide, esaminato con i moderni sistemi GIS (Geographic Information System), vd. Farinetti 20@@. 6 Sulla leggenda vd. Brillante @980, 335 ss. 2
il paesaggio del mito
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In epoca ellenistica, grazie ai lavori di drenaggio intrapresi da Cratete, riemerse dalle acque la città di Atene di Beozia che era stata costruita ai tempi di Cecrope, quando la Beozia si chiamava ancora ∆Wgugivh. @ Si trattava di una polis costruita presso il fiume Tritone, a cui era legato il culto di Atena Tritonia, in cui la dea era venerata nel suo particolare rapporto con l’acqua (vd. infra). Il legame tra le peculiarità del territorio e i culti era molto forte: in uno studio sui sei santuari gravitanti intorno alle rive del lago Copaide (Ptoio, Ismenio, Telfusio, Trofonio, Apollo Turio, Tegira), A. Schachter ha individuato come “cult type” caratteristico di questa area proprio la forte interazione tra l’acqua (fonti, lago) e santuari. 2 È significativo a tale proposito che l’inaridimento dell’area del lago in età ellenistica avesse comportato un graduale ma inesorabile declino delle attività cultuali (soprattutto oracolari) e che Plutarco usasse al riguardo quello che è stato giustamente definito “un curioso linguaggio climatico”: “una grande siccità divinatoria (polu;~ mantikh`~ aujcmov~) ha colpito la regione” (De def. orac. 4@@e). 3 Del resto la Beozia era particolarmente sacra a Posidone (ejpei; hJ Boiwtiva o{lh iJera; Poseidw`no~: Et. M. s.v. Kuvpri~), e a Onchesto sorgeva l’importante e antico santuario del dio (Hom. Il. 2, 506; Hymn. 3, 229-238; 4, 87-93; @86-@87). 4 La regione portava il nome dell’antico re del Diluvio (∆Wgugiva), che secondo Corinna (PMG 67@) era, come Onchesto ([Hes.] fr. 2@9 M.-W.), figlio di Beoto. 5 Un ulteriore esempio della forte incidenza della palude sulle tradizioni rituali del luogo si può intravvedere anche nell’uso di sacrificare anguille agli dèi, dopo averle incoronate con ghirlande e cosparse di semi d’orzo. 6 Il sacrificio di pesci, diffuso nel Vicino Oriente, rappresentava un’eccezione per la Grecia. 7 In questo caso, riferito dallo storico-geografo Agatarchide (ii sec. a.C.), si trattava di un rituale ritenuto ‘eccentrico’ anche dagli antichi, dalle origini nascoste e sicuramente remote (ta; progonika; novmima). 8 Anche Aliarto si trovava in una zona decisamente connotata dalla presenza dell’acqua. 9 Sul piano idrologico il sito era ben irrigato: oltre al fiume Lophis (e forse l’Hoplites: vd. infra), secondo Strabone scorrevano nelle vicinanze della città anche il Permessus e l’Olmaeus (9, 2, @9). @0 La contiguità con la palude comportava periodici allagamenti, che rendevano il confine terra/acqua particolar
@ Cfr. anche Diog. Laert. 4, 5, 23 e Steph. Byz. s.v. ∆Aqh`nai; per le possibili identificazioni vd. Lauffer @985, @07; Lauffer @986, @@@, @28 s.: vd. Buck @979, 56-57. Anche Arne e Midea (Hom. Il. 2, 507) erano state sommerse dalle acque (Paus. 9, 39, @; 40, 5; Steph. Byz. s.v. Cairwvneia). 2 Sull’opera di Cratete vd. Fantasia @999, 92-@00. Schachter @967. 3 Panessa @99@, 64; cfr. ora Kowalzig 2007, 376. 4 Schachter @994a, 8@; sul santuario vd. ora Kühr 2006, 289-29@. 5 Larson 2007, 23 ss.; su Ogigo vd. Fontenrose @959, 236 ss.; Buck @979, 59-6@. 6 Le anguille del lago Copaide erano note per essere prelibate e più grandi del normale: Aristoph. Ach. 880-894; Lys. 36-4@; 702; Pax @003-@0@4; Poll. 6, 63; Paus. 9, 24, 2; etc. 7 2 Cfr. Burkert @983, 203-2@2; Thompson @947, 60 e @39; Simmons @994 , 275. 8 Agatarch. FGrHist 86 F 5 = Athen. 7, 297d. 9 Gli studi più importanti su questa area sono stati compiuti da A. Philippson (@95@) e S. Lauffer (@986); più di recente l’area di Aliarto è stata oggetto di analisi da parte del Boeotia Survey Project, diretto da J. L. Bintliff e A. Snodgrass, ed è in preparazione una monografia del Leiden Ancient Cities of Boeotia Project 20@2, coordinato da B. Slaps¬ak: vd. Teiresias 20@2, 3. @0 Sulle possibili identificazioni di questi corsi d’acqua vd. Lauffer @986, 46 s.
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mente instabile: secondo Plutarco (De genio Socr. 578 a) la carestia che colpì la città nel 379 a.C. fu appunto dovuta all’innalzamento del livello del lago, e anche le recenti ricerche di geografia archeologica hanno dimostrato la natura acquitrinosa del sito. @ Questa configurazione rendeva la zona particolarmente verdeggiante (cfr. Hom. Il. 2, 503: poihevnq∆ ÔAlivarton, “l’erbosa Aliarto”; uJdrhlhvn q∆ ÔAlivarton: Nonn. Dion. @3, 7@; cfr. Stat. Theb. 7, 274 s.), ricca di canne da aulos (kavlamo~ aulhtikov~: cfr. Theophr. HP 4, @0, @-@@, 9) e di giunchi (Alciphr. 3, @3, 2). 2 La polis era costruita su un’altura che si elevava da sud verso nord e finiva con un ampio pianoro prospiciente il lago, dove sorgeva l’acropoli di origine micenea. 3 Probabilmente sull’acropoli sorgeva il tempio poliadico di Atena, il cui culto era assimilabile a quello di Atena Itonia, venerata nel vicino santuario Itonion. 4 Sul lato meridionale della polis erano presenti antiche sepolture, tra le quali la cosiddetta tomba di Alcmena e l’heroon di Cecrope, di cui parla Plutarco (Lys. 28, 8). 5 Nelle immediate vicinanze della città sorgeva il santuario ipetrale delle Prassidiche, dove secondo Pausania si prestavano giuramenti “non alla leggera” (9, 33, 3: oujk ejpivdromon to;n o{rkon). Il santuario, non ancora individuato dagli archeologi, si trovava presso il monte Tilfusio, sulle cui pendici sorgevano Alalcomene e l’omonimo santuario di Atena. 6 Anche in questo caso la presenza dell’acqua è preponderante: Alalcomene era una delle Prassidiche, le figlie di Ogigo, mitico re della Beozia legato al primo diluvio, a√ni alle Erinni, rappresentate come ‘teste’ senza corpo. 7 Nel mito emergeva lo stretto rapporto tra acqua, nel suo aspetto terribile di medium e garante dei giuramenti (cfr. l’acqua di Stige in Hes. Theog. 775 ss.), e riti ctoni: le Prassidiche erano legate a Persefone e alle Erinni, e, nella zona di Aliarto, al monte Tilfusio e alla fonte omonima, le cui acque avevano prerogative mantiche ma anche esiziali. 8 Come afferma J.-P. Vernant, “alla pola
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Vd. Fantasia @999, 85 ss.; Farinetti 2008, @2@ e @25. Sulla fama degli auli beotici, le cui ance erano costruite con le canne del lago Copaide, vd. già Pind. Pyth. @2, 25 ss.; cfr. Roesch @989, 204; Loscalzo @989, 20 n. 6. 3 La distruzione di Aliarto nel @7@ a.C. ad opera dei Romani, che la spogliarono di tutti i suoi beni e assegnarono il territorio agli Ateniesi, comportò anche la distruzione dei templi e ciò spiega le scarse testimonianze al riguardo (urbs diruta a fundamentis: Liv. 42, 63, @@): vd. Roesch @982, 2@0-243. 4 Austin @93@-32, @80-205; Schachter @98@, @@5-@@6; Fossey @988, 302-305. 5 L’heroon di Cecrope è stato identificato con un terrazzamento a metà strada tra Petra (forse l’antica Ocalea) e Aliarto: Lauffer @986, 54-55; Farinetti 20@@, @50. A favore della sua antichità vd. Roesch @982, 2@4. Sulla tomba di Alcmena vd infra. 6 Secondo quanto riferisce Pausania il tempio si trovava ejn tw`/ cqamalw`/ (“nella depressione”: 9, 33, 5), vicino al torrente Tritone, in un luogo molto probabilmente soggetto a inondazioni. È probabile che proprio questa situazione idrogeologica avesse causato lo spostamento del santuario verso ovest (vicino a Cheronea) e la successiva fondazione del tempio di Atena Itonia. Per le possibili identificazioni del sito vd. Schachter @98@, @@3 e @994b, 5-6; Farinetti 20@@, 332. 7 Cfr. Hsch., Phot. Lex., Suida (s.v. Praxidivkh). Anche Persefone era chiamata Prassidica (Orph. hymn. 29, 5); gli altri nomi delle Prassidiche erano Telchina e Aulide (Dion. FHG iv p. 394 fr. 3): per tutti i testimonia vd. Schachter @98@, @@@-@@4 e @994b, 5-6. Per una possibile identificazione del santuario vd. Lauffer @986, 66. 8 La fonte Tilfusa si trovava secondo Pausania a ca. 50 stadi da Aliarto (9, 33, @), e secondo la tradizione Tiresia trovò la morte bevendo le sue fredde acque: vd. Fontenrose @959, 366-374. Per l’identificazione del sito vd. Schachter @990. 2
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rità di queste dee che talvolta abbandonano l’uomo allo smarrimento della follia, talaltra gli recano la guarigione, corrisponde la polarità delle fonti e delle acque che spesso sono loro associate”. @ Sempre presso Aliarto anche Atena era venerata nel suo volto acquatico (Atena Tritonia), perché vicino al tempio di Atena Alalcomene scorreva un piccolo fiume (Tritone), presso le cui acque fu allevata la dea (Paus. 9, 33, 7). 2 Si tratta di una variante di una tradizione ampiamente diffusa, che insisteva sul legame tra l’acqua e la dea, nata o allevata presso fiumi o paludi. 3
2. La fonte Cissussa Presso le mura di Aliarto scaturiva la fonte Cissussa, in una zona non lontana dalla palude. 4 Pur nell’esiguità dei testimonia, la sua posizione può essere meglio individuata grazie al fatto che nelle immediate vicinanze si verificò un importante fatto storico, vale a dire la morte dello spartano Lisandro nel 395 a.C. Mentre la retroguardia del suo esercito veniva attaccata dai Tebani presso la fonte Cissussa, il generale spartano si avvicinò alle mura di Aliarto dove, dopo aver superato il fiume Hoplites, venne attaccato dagli Aliarti e dai loro alleati. Il luogo dello scontro è descritto da Senofonte come limitrofo a una gola angusta, accidentato e poco adatto alla battaglia (Hell. 3, 5, 20: duscwriva te kai; stenoporiva; cfr. anche Diod. Sic. @4, 8@, 2). 5 Il fiume dove il generale trovò la morte (Hoplites) scorreva nelle vicinanze della fonte Cissussa e va molto probabilmente identificato con il Lophis, un fiume nominato da Pausania (9, 33, 4-5), la cui storia mitica rimanda al rapporto tra acqua e sangue (vd. infra). Alcune identificazioni della fonte risalgono alle testimonianze degli studiosi viaggiatori dell’Ottocento (E. Dodwell, W. M. Leake), 6 e alle relazioni di J. G. Frazer. Quest’ultimo descriveva la zona nord-occidentale di Aliarto come ricca di acque e di cripte scavate sulla collina prospiciente la città, e identificava un tumulo con la tomba di Radamanto e la fonte Cissussa con “a copious spring of water flowing into the marsh”. 7 Molto simile la descrizione che ne diede H. Schliemann
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Vernant 20@3, 80. Il torrente scorreva presso il villaggio di Solinari, a pochi km dal tempio di Atena Itonia: Buck @979, 6; sul sito, oggi non più riconoscibile, vd. Schachter @98@, @@@-@@4; Lauffer @986, 99 s.; @39. 3 Atena Tritogevneia nasce dal capo di Zeus presso la palude Tritwniv~ in Africa ([Hes.] fr. 343, @@ s. M.-W.; Aesch. Eum. 292-298; Ap. Rh. 4, @3@@; Call. fr. 37 Pf.; Diod. Sic. 3, 53, 6; etc.). Anche in Arcadia Atena era venerata come Tritonia a Feneo (Paus. 8, @4, 4), anche in questo caso in una piana di natura carsica che periodicamente si riempiva di acqua a causa dell’ostruzione di katavothrai, formando un vero e proprio lago: per altri luoghi legati ad Atena Tritonia vd. Moggi-Osanna 2003, 354-356. 4 Il nome della fonte è tràdito nelle fonti ora come Kissouvsh/a (Call. fr. 43, 86 Pf.; Plut. Lys. 28, 7), ora come Kissou`ssa ([Plut.] Amat. narr. 772 b: Kissovessan), ma probabilmente va preferita la forma con il doppio sigma, perché derivata dall’aggettivo kissovessa: per la formazione aggettivale cfr. ÔUdrou`ssan (Call. fr. 75, 58 Pf.), ∆Agaqou`ssa (Call. fr. 58@ Pf.); etc.: così Pfeiffer @949, fr. 43, 86 (appar.); Barigazzi @975, @6; Massimilla @996, 354 (ad. loc.); Harder 20@2, 362 (ad loc.) 5 Bommelaer @98@, @93-@97; Buckler 2003, 75-84. 6 7 Dodwell @8@9, 248-249; Leake @835, 207-209. Frazer @898, @65 s. 2
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nel @88@: “a small rivulet, which gushes forth from the north side of the rock, runs into the swamps of the Copais”. @ Di recente J. Buckler ha affermato di aver individuato la fonte in una sorgente d’acqua (ora incanalata) sita proprio davanti ad Aliarto, ai piedi dell’Elicona. 2 La fonte assolveva funzioni cultuali che possono essere in parte ricostruite attraverso i due principali testimonia (Callimaco, Plutarco), la cui descrizione mostra molti tratti in comune. È dunque opportuno presentarli insieme:
Call. fr. 43, 84-92 Pf. = 50, 84-92 Massimilla w}º~ hJ me;n livpe mu`ªqºon, ejgw; d∆ ejpi; kai; ªto; puºqevsqai h[ºqelon < h\ gavr moi qavmbo~ uJpetrevfªetºo≥