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Latin/Italian Pages 537 Year 2017
DE VULGARI EIENTIA cura di Mirko Tavoni
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OSCAR CLASSICI
Di Dante Alighieri negli Oscar De vulgari eloquentia La Divina Commedia. Inferno La Divina Commedia. Purgatorio La Divina Commedia. Paradiso Il Fiore - Detto d'Amore Vita Nova
Dante Alighieri
DE VULGARI FLOQUENTIA A cura di Mirko Tavoni
© 2017 Mondadori Libri S.p.A., Milano I edizione Oscar Classici marzo 2017
ISBN 978-88-04-67586-0
Questo volume è stato stampato
presso ELCOGRAF S.p.A. Stabilimento - Cles (TN)
Stampato in Italia. Printed in Italy
L'edizione del De vulgari eloquentia a cura di Mirko Tavoni è stata pubblicata in Dante Alighieri, Opere, Edizione diretta da Marco Santagata, volume I, Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia, a cura di Claudio Giunta, Guglielmo Gorni, Mirko Tavoni, Introduzione di Marco Santagata, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2011.
Anno 2018 - Ristampa
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Introduzione
a Gaia e Giulio
Dante esule compose il De vu/gari eloguentia probabilmente fra la metà del 1304 e l’inizio del 1306, in parallelo
alla composizione dei primi libri del Convivio, nel quale il trattato linguistico, con il suo titolo, è annunciato: «Di
questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza» (I V 10). Gli argomenti a favore di questa datazione, come del probabile luogo di composizione, che a mio giudizio è Bologna, appariranno via via nel seguito e sono sintetizzati alla fine di questa Introduzione. Il De vulgari eloquentia si presenta come un trattato linguistico universale. Prende le mosse addirittura dalla definizione di che cosa è il linguaggio umano in confronto alla comunicazione degli angeli e degli animali, passa poi alla storia linguistica dell’umanità a partire da Adamo, “si restringe” quindi al quadro etno-geo-linguistico dell’intera Europa, poi focalizza l’ambito linguistico e letterario
romanzo, poi tutta la dissonante fenomenologia dei volgari municipali dell’Italia, e sullo sfondo di questa addita la linea luminosa dei poeti volgari illustri, e di lì parte per costruire una teoria filosoficamente fondata della poesia e letteratura volgare, che costituirà il nucleo della lingua italiana destinata a dispiegarsi in tutti i suoi usi civili intorno a una futura Curia imperiale d’Italia.
Vv
CHE COS'È IL LINGUAGGIO
Sotto il segno della filosofia politica Nell’argomentare che «il parlare non fu necessario agli angeli, non agli animali inferiori, anzi sarebbe stato dato loro inutilmente» (I II 2 «non angelis, non inferioribus animalibus necessarium fuit loqui, sed nequicquam datum fuisset eis») — i capitoli II e II del primo libro dedicati a questo tema, lungi dall’essere un preambolo esornativo, sono fondamentali per capire l’intento e la natura del De vulgari - Dante conclude: «cosa che la natura rifugge dal fare» («quod nempe facere natura aborret»). Questa frasetta non certo originale ci mette in mano un bandolo importante, perché, rimandandoci alla prima pagina del commento di san Tommaso alla Politica di Aristotele, proprio nel punto in cui viene commentata la notissima definizione dell’uomo come animale politico, ci fa vedere entro quale universo di discorso Dante abbia focalizzato l’importanza della locutio, cioè del fatto che l’uomo è il solo esse-
re vivente che parla. È infatti nella pagina di apertura della Politica di Aristotele commentata da san Tommaso che Dante ha trovato la nozione di /ocuzio, che egli pone come
subiectum del suo trattato, definita come la facoltà distintiva
dell’uomo che fa sì che l’uomo sia animale politico. Poiché il linguaggio è stato dato solo all’uomo; poiché il fine del linguaggio è che gli uomini possano comunicare fra loro circa il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’utile e il nocivo; e poiché la natura non fa nulla di inutile, ne consegue che
l’uomo ha come proprio fine, per natura, la società civile. Dunque illuminare il discorso umano è di capitale importanza per illuminare i principi della convivenza civile, e il proposito di «giovare al parlare delle genti illetterate» (II 1 «locutioni vulgarium gentium prodesse») è cruciale per il programma dantesco di educare eticamente e politicamente una nuova classe dirigente italiana. Cogliamo VI
Introduzione
qui l’idea del trattato linguistico nel momento in cui germoglia, rendendosene autonoma, dalla tematica politicocivile del Convivio. E questo concetto aristotelico che permette a Dante di mettere in relazione due parti di sé, due parti della propria esperienza, cultura e vita, che erano in realtà scisse:
da un lato la propria esperienza lirica amorosa, in tutta la sua varietà di stili, dall’altro la propria esperienza di politico, priore, combattente ed esiliato.
Naturalmente sono
le canzoni dottrinarie, e la loro interpretazione nella cornice prosastica del Convivio, il luogo della composizione di una coerenza fra poesia e politica. Ma questo specifico concetto aristotelico dà al Dante di questo momento un punto di forza teorico preciso. La poesia — e non solo la poesia civile o filosofica, ma tutta la poesia, in virtù della
sua intrinseca ricerca formale — è la forma più alta di e/oquentia, cioè il massimo raffinamento della /ocutio: e la locutio è di per sé ciò che destina l’uomo alla società civile, e può agevolare più o meno, a seconda della propria qualità, il reggimento di una società più o meno civile. Il tradizionale abbinamento della “rettorica” all’arte di “reggere” la cosa pubblica, tipico della civiltà comunale, e in nessun altro Comune più vivo che a Firenze e a Bologna, era qualcosa di troppo prosaico, pragmatico, inferiore ed estraneo rispetto alla poesia aristocratica di un Cavalcanti, del giovane Dante suo allievo, nonché
del Dante allievo di Arnaut Daniel delle canzoni petrose. Ma la più rarefatta e tecnica esperienza lirica svela un alto potenziale civile se è vista come la punta di diamante di un processo di raffinamento e rafforzamento della lingua della comunità, che potrà abilitarla a parlare del giusto e dell’ingiusto, dell’utile e del nocivo, con la neces-
saria sottigliezza. L'idea portante del De vulgari eloquentia, che la lingua dei poeti illustri prefiguri e crei la lingua illustre degli italiani, si fonda, nell’audace mente di Dante, sulla filosofia politica di Aristotele. VII
“Locutio vulgaris” vs “locutio secundaria” o “gramatica” Fin dal primo capitolo Dante pone la dicotomia fra la locutio vulgaris, il parlare naturale, fondato sull’uso, cioè semplicemente la facoltà umana del linguaggio, e la locutio secundaria, artificiale, detta anche grarzatica:
una lingua di secondo livello, codificata in modo riflesso, fondata sull’arte. La locutio vulgaris è primaria e universale: «chiamiamo parlar volgare quello che i bambini acquisiscono con l’uso da chi si prende cura di loro quando cominciano ad articolare le parole; ovvero, come
si può dire più in breve, definiamo parlar volgare quello che assorbiamo, al di fuori di qualunque regola, imitando la nutrice» (I I 2 «vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius
dici potest, vulgarem locutionem asserimus quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus»). La locuzio secundaria è propria solo di alcuni popoli (greci e romani, più forse altri che Dante non nomina) e di alcuni in-
dividui; cioè, all’interno dei pochi popoli che hanno costruito una lingua di questo tipo, solo dei pochi individui che sono stati scolarizzati, «dato che non riusciamo a far-
ne nostre le regole e a divenirne esperti se non col tempo e attraverso uno studio assiduo» (I I 3 «quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur
et doctrinamur in illa»). Questa è, evidentemente, una ipostatizzazione della diglossia fra volgare e latino. Diglossia — cioè coesistenza con specializzazione funzionale di una varietà di lingua “bassa”, parlata, per gli usi quotidiani, e una varietà di lingua “alta”, scritta, per gli usi colti — in cui Dante e
gli uomini del suo tempo erano immessi, in Italia e in ge-
nerale nel mondo romanzo, entro il quale un’affinità so-
stanziale fra i volgari e il latino si percepiva; mentre nel VII
Introduzione
resto dell'Occidente cristiano, cioè nell’area germanica e
slava occidentale, non esisteva alcuna affinità percepibile fra i volgari e il latino. Vedremo che Dante spingerà lo sguardo su entrambe queste parti dell'Europa, e tenterà brillantemente di rendere ragione dell’esistenza del latino nell’una e nell’altra. Per restare all'Italia, l’esperienza materna del volgare, dei volgari, e l’esperienza esclusivamente scolastica del latino rendevano impossibile (e renderanno impossibile ancora per altri 130 anni, fino alla discussione umanistica fra Leonardo Bruni e Biondo Flavio) capire che i volgari non erano altro che le diverse trasformazioni locali del latino parlato ininterrottamente sull’arco di un migliaio di anni, mentre il latino scritto rima-
neva tramandato artificialmente uguale a se stesso dalla scuola. Rendevano impossibile, cioè, capire che il lati-
no era stato una lingua storico-naturale, parlata, appresa spontaneamente dalla nutrice: cioè un volgare, non una grammatica — ciò che sarebbe parso una contraddizione in termini. L'affinità percepibile, in ambito romanzo e ancor più italiano, fra i volgari e il latino, che hanno evidentemente
in comune la stessa base lessicale, poteva essere spiegata solo in senso inverso, ed è quello che fa Dante — più esplicitamente e lucidamente di qualunque altro suo contemporaneo — nei capp. I IX-X. La spiegazione è che, per reagire alla mutevolezza delle lingue volgari nello spazio
e nel tempo, e preservare la leggibilità dei testi antichi e la comprensibilità fra popoli lontani, gli uomini hanno inventato, strutturando artificialmente il materiale offerto dalle loro lingue naturali, la grarzatica, cioè nel nostro
mondo, in Europa occidentale, la lingua latina.
IX
LA STORIA LINGUISTICA DEL MONDO
“Linguistica biblica” Nei capp. I IV-VI Dante si dedica a «riscrivere il Genesi», come è stato detto (Barariski 1996 [1989]) con una formula che esprime quasi sconcerto di fronte alla disinvoltura con cui egli mostra di rapportarsi al testo sacro. Il «Perché no?» («Quid ni?») che conclude il cap. IV ci suona in effetti abbastanza stupefacente, se non altro nel tono, come commento a che cosa Adamo, Eva e Dio si
siano detti o non detti, dove, quando e in che lingua, dentro il paradiso terrestre o fuori: tutti punti sui quali Dante non ci fa mancare la sua versione dei fatti. Ma lo stupore diminuisce se guardiamo al De Genesi ad litteram di sant'Agostino, che fa più o meno la stessa cosa. Cioè sant'Agostino, e precisamente allo scopo di difendere il testo sacro dai suoi possibili detrattori, i quali potrebbero far leva sulle sue non poche oscurità, lacune e apparenti contraddizioni, tenta di dare della lettera del testo, su ogni dettaglio, una spiegazione il più possibile razionale (la famiglia di termini afferenti alla ratio si effonde così nel De Genesi ad litteram come nel De vulgari). La critica razionale non corrode affatto il rispetto sacrale del testo, ma si pone al suo servizio, assumendo che
il testo sacro non è, e non è tenuto a essere, perfettamente completo e ordinato nell’esporre i fatti. Dunque una critica razionale può aiutare, magari integrando verosimilmente fatti o dettagli che il testo omette di dire, a ridurre al minimo i casi dai quali proprio non si riesce a estrarre un senso letterale accettabile, e per i quali dunque non resta che ricorrere all’interpretazione allegorica. Dante, certo parecchio fiducioso nelle proprie capacità critiche, ma anche autorizzato da un’autorità così grande, si mette sulle orme di sant'Agostino. Nella razionale “riscrittura” dantesca del Genesi spicX
Introduzione
cano quattro soluzioni originali, che illuminano l’idea di linguaggio che Dante persegue. 1) Perché è più razionale credere che a parlare per prima non sia stata la «presumptuosissima Eva» quando si è messa in combutta col
serpente, come sembrerebbe stando a ciò che il Gexesi dice, bensì che sia stato Adamo, e che abbia detto per prima cosa “Dio” (I IV 2-4)? Non tanto per misoginia, quan-
to per tutelare la somma nobiltà della /ocutio, che non si può credere sia stata inaugurata per preparare il peccato originale, ma deve aver avuto un esordio che sancisse il suo essere segno distintivo della perfezione umana e massimo dono di Dio. 2) Dante non prende in considerazione come atto linguistico la nominazione degli animali non perché gli sfugga, ovviamente, ma perché nella sua visione (su questo ha insistito giustamente Irène RosierCatach 2006) la /ocutzo costituisce il vincolo nobilmente sociale dell’uomo, e quindi è tale solo se è inter-locuzione,
dunque non un solipsistico atto nomenclatorio. 3) Dante opta per un atto linguistico fisico compiuto da Dio rivolgendosi ad Adamo, mediante vibrazione dell’aria, piuttosto che per una comunicazione mentale (I IV 6), perla stessa ragione per cui non ammette che possa chiamarsi locutio la comunicazione puramente intellettuale degli angeli: cioè per riservare la /ocutio all'uomo, ovvero per mettere in scena fra l’uomo e il Creatore uno scambio linguistico 477410, quindi insieme «razionale e sensibile» (I III 2 «rationale et sersuale»). 4) La curiosa discussione se il primziloguium abbia avuto luogo dentro il paradiso terrestre o fuori (I V) evidenzia l’idea duale della creazione dell’uomo, la distinzione tra l’atto della anizzazione, cioè
l’insufflazione dell’anima razionale nel primo uomo, e la sua creazione in quanto animale dotato di anima vegetativa e sensitiva. La “messa in scena” di questo dualismo enfatizza la locutio come segno distintivo ed esclusivo dell’uomo in quanto animale dotato di anima razionale. Quanto all’idea che l’ydiorza concreato da Dio nell’aniXI
Introduzione
ma di Adamo fosse l’ebraico (I VI), o meglio che fosse quella lingua originaria e unica dell’umanità che andò perduta a Babele, e che da allora si chiamò ebraico perché era rimasta solo ai figli di Eber che non avevano partecipato all’empia impresa della torre (I VII 8), questa idea non è né scontata né, all’opposto, originale di Dante: è l’idea che sant'Agostino propone come propria nel De civitate Det,
e che Dante riprende da lui. Assistiamo qui al primo cambiamento nel tipo di fonti sottostanti allo sviluppo delle successive tematiche del trattato: dalle fonti aristotelico-scolastiche, centrate sulla filosofia politica, che supportano i capp. I-III, alle fonti di esegesi biblica, essenzialmente i due testi di sant Agostino citati, che supportano i capp. IV-VII. Non c’è dubbio, comunque, che la «determinata for-
ma di linguaggio» (I VI 4-6 «certa forma locutionis») concreata da Dio in Adamo è l’«hebraicum ydioma» (I VI 7), e dunque non può essere la struttura universale del linguaggio, come è stato proposto da Maria Corti sulla base dell’assunto che il De vu/gari sia influenzato dalla grammatica modistica, assunto che molti hanno già dimostrato infondato. La ricerca dell’ydiorza adamitico apre la fase due del trattato, che scende dalla /ocutio, universalmente
umana, agli ydiorzata, le lingue particolari. E la ricerca dell’ydiorza originario è subito connotata dalla varietà dissonante dei volgari odierni, che fanno sì che gli uomini non si capiscano con le parole più di quanto non si capirebbero senza parole (I VI 1). Chi abbia colto, all’inizio del trattato, il valore-chiave del linguaggio come fondamento della civiltà, coglie qui un’allusione alla vanificazione di tale valore che l’attuale assetto politico dell’Italia comporta. L'ingresso nella dimensione degli idiomi particolari è marcato dall’antimunicipalismo: prima sarcastico (I VI 2), poi nobilmente universale (I VI 3). Più avanti, la selva dei volgari municipali diventerà il correlato linguistico dell’anarchica, violenta, tirannica frammentazione di feudi, comuni, signorie senza guida. XI
La torre di Babele
La confusione babelica (I VIT), che Dante interpreta come frammentazione per mestieri, per gruppi di operai e tecnici rimasti isolati ciascuno nel proprio idioletto, è stata giustamente vista (D’Ovidio 1931 [1892], poi Corti 1978) come metafora del Comune diviso per corporazioni. L'episodio di Babele colloca il castigo della confusione delle lingue nella costruzione di una città: Babele infatti è Babilonia, nella Bibbia, e l’esegesi biblica ne è ben
consapevole. Ciò che Dante ricava dalla successione delle sue fonti, prima filosofico-teologiche poi bibliche, è quindi che il linguaggio, supremo dono dato da Dio all’uomo per consentirgli di raggiungere il suo fine, che è di costruire la propria rodrteia, viene colpito per castigo divino perché l’uomo si è dedicato alla costruzione di una città empia: una città empia che il De civitate Dei identifica appunto con la città terrestre, in senso negativo, con-
trapposta alla patria celeste. Che Dante poi rappresenti Babele nella forma di una babele corporativa comunale, è un tocco in più altrettanto significativo. Nell’esegesi biblica esisteva un’altra spiegazione, alternativa a Babele, della divisione delle lingue come conseguenza del ripopolamento del mondo ad opera dei tre figli di Noè. Dobbiamo ritenere che Dante fosse consapevole di questa spiegazione alternativa, non solo perché Isidoro e sant'Agostino ne tengono conto; non solo perché le mappe del mondo “T in O” (illustrate sotto) assegnano a Sem l’Asia, a Cham l’Africa e a Japhet l'Europa, tanto è vero che sono dette anche “mappe noachiche”; ma perché i segnali di dubbio lasciati cadere nel testo (I VIII 1-2 «non senza gravi ragioni riteniamo», «forse» [«non leviter opinamur», «forte»], ecc.) non si spiegano se non in riferimento a questa diversa ipotesi che le lingue si siano naturalmente differenziate per effetto dell’allontanamento dei gruppi umani nello spazio: proprio come teorizzerà XII
Introduzione
Dante in I IX 10, ma prirza di Babele, il che rende l’epi-
sodio babelico irrilevante. Nel XXVI del Paradiso Adamo reciterà la sua famosa palinodia: «La lingua ch’io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta», ecc. (vv. 124-38). Nel De vu/gari la storia linguistica dell’umanità è divisa in una prima fase, precedente a Babele, in cui la lingua concreata da Dio in Adamo perdura unica e immutata; e una seconda fase, dopo Babele, in cui le lingue particolari, imperfette come tutto ciò che è semplicemente umano, sono mutevoli nel tem-
po e con ciò destinate anche a diversificarsi nello spazio. Nel Paradiso Adamo dirà invece che anche la sua lingua era mutevole e arbitraria, togliendo al mito di Babele ogni valore epocale. Secondo Nardi 1983 (1921), ciò è dovuto al pregiudizio teologico che ancora permane nel De vu/gari e che nel Paradiso verrà definitivamente soppiantato dalla scoperta razionale della intrinseca mutevolezza del linguaggio. Può essere, ma da una parte la torre di Babele non era affatto un dogma nell’epoca di Dante, e dall’altra Dan-
te non è mai stato tanto “laico” quanto lo è nel De vu/gari. Tendo piuttosto a credere che la spiegazione babelica, non dogmatica ma accreditata dall’autorevole interpretazione biblica di sant'Agostino, entrasse in sintonia, pro-
prio perché chiamava in causa la costruzione empia di una città, con l'interesse profondo del De vulgari. Credo che sia questa la ragione per cui Dante ha preferito la spiegazione babelica a quella noachica. Nel Paradiso, invece, la dimensione della costruzione della città terrestre, che nel De vulgari è totalizzante, non lo è affatto. E
c'è forse un’altra ragione, non dogmatica ma al contrario logica, per cui Dante opta per porre la torre di Babele alla base della storia linguistica “moderna” dell’umanità: la toccheremo sotto parlando dell’origine comune dei volgari d’oc, d’oil e di sì. XIV
Introduzione
Quel che mi sento di escludere è che la confusio linguarum a Babele porti con sé, nell’assetto del De vu/gari,
la nostalgia dell'Eden, e che la ricerca della lingua poetica sia un modo per perseguire questa nostalgia, come hanno sostenuto Dragonetti 1961 e Corti 1981a. L'assetto e la finalità del De vu/gari sono tutt’altri. Che il castigo sia stato paterno e pietoso (I VII 5) significa che Dio ha colpito ma non distrutto la facoltà linguistica dell’uomo, il quale con le sue forze limitate è rimasto tuttavia capace di ricostruire le proprie lingue volgari, poi di inventare la gramatica, e ora di perseguire il volgare illustre: e a questa meta non si tende con la regressione poetica individuale, ma attraverso una costruzione sovraindividuale proiettata verso un futuro politico.
La “mappa mundi” e la geografia linguistica dell'Europa Con il cap. I VIII, al Genesi e alla sua esegesi subentrano, come sotto-testo del trattato, le fonti geografiche, «i volumi e dei poeti e degli altri scrittori che hanno descritto il mondo nella sua interezza e nelle sue parti» (I VI 3 «poetarum et aliorum scriptorum volumina quibus mundus universaliter et membratim describitur»). La mappa del mondo nel quale Dante ambienta tutta questa storia antichissima dell’umanità, a partire dal paradiso terrestre, è la tipica mappa cristianizzata detta “T in O”, ovvero orosiano-isidoriana, dai due grandi
testi che la tramandano, le Historiae adversus paganos di Paolo Orosio e le Etyzologiae di Isidoro di Siviglia: che Dante conosceva certamente. “T in O” significa che l’ecumene circolare, cioè la terra emersa nella “quarta abitabile”, nell'emisfero boreale, circondata dall'Oceano che
ricopre tutto il resto della superficie terrestre, è rappresentato sulla carta da un cerchio (O) orientato con l'est XV
Introduzione
in alto, diviso in due da una linea orizzontale nord-sud
che lascia l’Asia al di sopra e l’Europa-Africa al di sotto. Questa linea orizzontale corrisponde al corso del Tanai (il Don) nel segmento di sinistra (cioè settentrionale), al corso del Nilo nel segmento di destra (cioè meridionale). La parte dell’ecumene al di sotto di questa linea Tanai-Nilo, cioè la parte occidentale, è divisa da una linea vertica-
le corrispondente al Mar Mediterraneo, «la maggior valle in che l’acqua si spanda» (Pd IX 82), in direzione ovestest, che lascia l'Europa a sinistra (cioè a nord) e l'Africa
a destra (cioè a sud). Che la mappa del mondo di Dante sia di questo tipo lo dice già la metafora viticola della propaggine (I VII 1), cioè del ramo di vite tirato e interrato a distanza dalla radice, dal quale punto di interramento butta nuove radici, per dire la linea migratoria dell’umanità ancora tutta unita dal paradiso terrestre, posto all’estremità orientale dell’ecumene, sull’Oceano, in coincidenza con il punto cardinale dell’est (questo significa «in oris orientalibus»), fino alla piana di Sennaar, o in mezzo o all’altro
capo dell’Asia, luogo più prossimo al Mediterraneo o forse (se Dante ha confuso Babilonia con la Babilonia d’Egitto) sul Mediterraneo: da questo punto, dove avviene la confusione delle lingue e quindi la dispersione delle genti, parte la diffusione radiale dell’umanità verso tutti gli angoli del mondo, e in particolare in direzione dell’Europa. Verso la quale si dirige una corrente migratoria che porta con sé «un triplice idioma» (I VIII 2 «ydioma secum tripharium homines actulerunt»), cioè tre idiomi, ognuno
nato dalla confusione babelica: un idioma che possiamo chiamare (con parole nostre) “proto-germanico-slavo”, che va a occupare l'Europa settentrionale (I VII 3); uno che possiamo chiamare “proto-greco”, che va a occupare l'Europa orientale sconfinando anche in Asia (I VII 4); e uno che possiamo chiamare “proto-romanzo”, che va a occupare l'Europa meridionale (I VII 5). XVI
Introduzione
Questo è ciò che il testo dice, e che gli interpreti dal Cinquecento al primo Novecento avevano capito senza problemi (Trissino 1529: «questi cotali portorono tre idiomi seco»; Rajna 1906: «tre lingue vennero ad occupare l'Europa»). Marigo interpretò invece questo «ydioma tripharium» come un unico idioma “pan-europeo” nato a Babele, “potenzialmente” triforme e infatti successiva-
mente differenziatosi, attualizzando questa potenzialità, nell’idioma “proto-germanico-slavo”, in quello “protogreco” e in quello “proto-romanzo”. Con questa interpre-
tazione Marigo fece dire al testo una cosa incompatibile con numerose affermazioni esplicite e inequivocabili del testo stesso, così generando una discussione che rimase avvitata su se stessa per un cinquantennio nel vano tentativo di risolvere contraddizioni non risolvibili. L'interpretazione di Marigo faceva di Dante un precursore della linguistica indoeuropea, cioè qualcosa di impossibile: Dante era in condizione di riconoscere l’affinità fra le lingue romanze, e infatti la riconobbe e giustamente e acutamente la spiegò in termini genetici. Con una intuizione
audace, poi, arrivò a postulare che le lingue delle nazioni ultramontane, che ignorava ma aveva sentito, fossero le-
gate da una analoga affinità e parentela; ma non era minimamente in condizione di sospettare che fra le prime e le seconde, nonché il greco, sussistesse una affinità e pa-
rentela di livello superiore. La mappa dell’Europa che si ricostruisce dalle sue parole presenta diverse sfasature rispetto alla nostra, la più importante delle quali è una forte “settentrionalizzazione” dell’intero dominio “greco”. Noi tendiamo a tradurre la descrizione di Dante in una mappa in cui l’idioma “proto-germanico-slavo” sta a nord, quello “proto-romanzo” sta a sud-ovest e quello “proto-greco” sta a sud-est. Ma il testo non dice questo: dice che il “proto-germanico-slavo” sta a nord, che il “proto-romanzo” sta a sud, e che il “proto-greco” sta a est, si deve intendere a est di XVII
Introduzione
entrambi gli altri domini. Questa aporia si può tentare di spiegare anzitutto con il fatto che le fonti di Dante erano verbali (poeti e prosatori) ben più che cartografiche; con il fatto che imappamondi del tipo “T in O” presentavano precisamente una torsione dell'intero Mediterraneo orientale verso nord; e forse con altre considerazioni
sviluppate nel commento. È possibile che Dante abbia conosciuto dei portolani, le carte nautiche italiane che, come la Carta pisana (in realtà genovese) del 1280, stavano per imporre una visione rivoluzionariamente esatta, fondata sulla bussola e la trigonometria, del profilo costiero dell’Italia e del Me-
diterraneo. Ma la sua immagine del mondo, dall’universale al particolare, è letteraria, e sembra semmai influen-
zata da una simmetria di stampo tutt'altro che empirico quale la ripetizione dello schema ternario Asia-EuropaAfrica prima nei tre domini linguistici corrispondenti ai tre ydiomata babelici europei, poi nei tre vu/garia, d’oc, d’oil e di sì, risultanti dalla diversificazione dell’ydiorza
babelico “proto-romanzo”. LA TERMINOLOGIA LINGUISTICA: “LOCUTIO?” - “YDIOMA” - “VULGARE”
La prima terna di capitoli (I-II) del trattato, di natura filosofico-teologica,
è dominata dal termine /ocuzio, in-
contrastato (undici occorrenze): nomzen actionis di loqui, indica il parlare, la facoltà esclusivamente umana del linguaggio, di cui questi capitoli definiscono l'essenza. Nella seconda, dedicata al prirziloguium (capp. IV-VI), all’ancor maggioritario locutio (dodici occorrenze) si affianca ydioma (quattro occorrenze): termine che indica, con piena valorizzazione della sua etimologia, le lingue particolari in cui la facoltà del linguaggio si concretizza, a cominciare dall’ydiomza di Adamo. Nella terza terna di capitoli (VII-IX) ydiorza è dominante (undici occorrenze, XVIII
Introduzione
contro tre di /ocutio), a designare appunto le lingue particolari risultanti dalla confusio linguarum babelica, e ad esso si affianca vulgare (otto occorrenze), a designare le
lingue moderne risultanti dall’ulteriore diversificazione degli idiomi babelici. Quest'ultimo termine, poi, domi-
na incontrastato dal cap. X fino alla fine del primo libro (trentasette occorrenze, contro solo quattro di /ocutzo e
una di ydiorza). A ulteriore riprova, in tutto il secondo libro compare solo il termine va/gare (ventitré occorrenze). È questo il primo fondamentale esempio della specializzazione terminologica a cui Dante sottopone rigo-
rosamente il flusso della sua argomentazione. In questo caso la distribuzione sembra, più che il risultato spontaneo della successione dei contenuti, il risultato programmato conseguente all’adozione dei tre termini come termini-chiave delle tre successive sezioni. L'«YDIOMA TRIPHARIUM» “ROMANZO” E L'INVENZIONE DELLA “GRAMATICA”
L'origine comune dei volgari d’oc, d’oil e di sì e la scoperta del mutamento linguistico D'ora in poi, dice Dante all’inizio del cap. I IX, nessuna autorità potrà guidarci nell’indagare il fatto che ogni lingua babelica (ydiorza) si è poi trasformata e trasformandosi si è divisa in più lingue (vu/garza). Solo la ragione potrà guidarci, e dovremo metterla a dura prova. Dante dice il vero: le fonti che abbiamo fin qui individuato gli vengono meno, la razio (che è comunque l’eroina di tutto il trattato) da questo punto in poi potrà contare solo su se stessa. Dante ha fin qui trovato nelle sue fonti solo la spiegazione iniziale del mutamento e della diversificazione linguistica, optando, come abbiamo visto, per la spiegazione babelica. Ma perché, dopo quell’unico trauma di origine soprannaturale, le lingue continuano a mutare e a differenziarsi? XIX
Introduzione
Per prima cosa, Dante sa che ciò avviene. Non dobbiamo assolutamente darlo per scontato. Al contrario — anche se in realtà ne aveva trovato lo spunto in Restoro d’Arezzo — questa è una grande scoperta, di cui egli è orgogliosamente consapevole: «audacemente dichiariamo che...» (I IX 7 «audacter testamus quod...»). E come ha fatto a diventarne consapevole? Di solito non ce lo chiediamo, ma invece anche qui Dante va preso sul serio quando dice che il mutamento linguistico nessuno lo percepisce, perché è lentissimo (I IX 8). Dunque come ha fatto lui ad accorgersene? La risposta è che se ne è accorto perché si è accorto della somiglianza fra i volgari d’oc, d’oile di sì, e ne ha dedot-
to che dovevano derivare da un unico idioma babelico (I IX 2-3): dunque st sono trasformati, divaricandosi rispetto a quello che erano un tempo. Tanto che oggi, dice Dante, il nostro ydiorza è diventato tripharium, ovvero triso-
num (I X 1). Anche qui, Marigo aveva inteso invece che
l’«ydioma tripharium» “romanzo” era il “proto-romanzo”, potenzialmente triforme, prima di diventarlo davve-
ro: errore uguale e parallelo a quello compiuto a proposito del presunto «ydioma tripharium» europeo. Questa intuizione di Dante, che le somiglianze fra le
lingue d’oc, d’oîl e di sì si spiegano solo se esse derivano dalla trasformazione di un’unica lingua precedente, può essere stata una ragione in più per cui egli ha preferito il modello babelico, con il quale combacia perfettamente. Se fosse così, la torre di Babele nel trattato si spiegherebbe non già come residuale pregiudizio teologico, ma all'opposto per la sua superiore razionalità eziologica. Comunque, è la scoperta di un “proto-romanzo” comune che ha portato con sé la scoperta del fatto che le lingue mutano nel tempo, e mutando nel tempo si diversificano nello spazio (I IX 10).
XX
L'invenzione della “gramatica” Il rimedio alla mutevolezza delle lingue naturali è stata l’invenzione delle lingue artificiali, il latino e il greco, che essendo fondate sulla ragione, diciamo sulla codificazione riflessa, invece che sull’uso, sono sottratte alla variazione nel tempo e nello spazio, restano identiche a se stesse sempre e dovunque (I IX 11). Gli inventores o positores gramatice non hanno niente che fare né coi grammatici positivi (come Prisciano, del quinto-sesto secolo)
né coi grammatici speculativi (come Boezio di Dacia, del tredicesimo), i quali tutti com'è ovvio descrivono o spiegano lingue esistenti, di fatto il latino, mentre qui stiamo
parlando di personaggi che le hanno create. L'idea che la lingua latina sia una lingua artificiale preesisteva a Dante, anzi dobbiamo ritenere che fosse quella comune all’epoca, dato che l’idea alternativa che fosse una lingua storico-naturale, al pari delle lingue volgari, si farà strada molto faticosamente solo in età umanistica. Dell’idea del latino come lingua artificiale esisteva una versione diciamo scolastica, che lo vedeva come lingua internazionale dei clerici. La troviamo per esempio in Egidio Romano, di nuovo in un trattato politico, il De regimine principum, noto a Dante. E ne esisteva una versione
più popolare, che troviamo per esempio nella versificazione toscana del Tresor di Brunetto Latini, e che è molto
più vicina all'idea di Dante. Qui «i Latini antichi e saggi / per rechare inn uno diversi linguaggi, / che s’intendesse insieme la gente, / trovaro la gramatica comunemen-
te». Cioè la lingua latina, «quam Romani gramaticam vocaverunt» (I 13), è stata costruita dopo che esistevano già i «diversi linguaggi» che essa si riprometteva di «rechare inn uno» — nei termini del De vu/gari, dopo che i volgari d’oc, d’oil e di sì si erano già diversificati — ma in età antica, prima dello sviluppo della letteratura latina, che altrimenti non avrebbe avutola lingua per esistere. XXI
Introduzione
Questa versione del Tesoro versificato ci dà forse la chiave per risolvere una vexata quaestio, fra la natura “esperantistica” del latino che Dante avrebbe teorizzato nel De vulgari e l’idea del latino come lingua storico-naturale che avrebbe concepito nel Convivio e altrove: una presunta contraddizione su cui ha insistito soprattutto Vinay 1959. La soluzione che oggi si riesce a vedere è che Dante ha sempre avuto la stessa idea: cioè che la codificazione da parte dei gramzatice positores è avvenuta sulla base dei soli volgari d’oc, d’oi/ e di sì, quindi all’interno dei continuatori di 47 solo idioma babelico, ed entro
questi privilegiando il volgare italiano (I X 1). Dunque la gramatica è sì artificiale e “comune”, ma non è un “esperanto”, bensì è latina ovvero italiana: «i Latini, secondo
il loro ydioma, / trovarono la loro gramatica a Roma». Questa visione non cambierà mai nella storia intellettuale di Dante, e Sordello elogerà Virgilio perché nella sua opera «mostrò ciò che potea /a lingua nostra» (Pg VII 17). Naturalmente non è affatto vero, come dice Dante (II
3), che i romani abbiano chiamato grazzatica la lingua latina che si erano costruiti. Il termine grarzatica, per designare la varietà alta, grammaticalmente codificata, della
diglossia, contrapposto al termine volgare per designa-
re la varietà bassa, può nascere e sussistere solo dertro la
diglossia, e logicamente all’interno della cultura volgare.
E infatti un uso medievale, comunale, e direi anche par-
ticolarmente se non esclusivamente italiano, che alligna per eccellenza nella dimensione contrastiva dei volgarizzamenti, sia di testi dottrinari e letterari, sia degli statu-
ti cittadini. Che Dante attribuisca la coniazione del termine, in questa accezione, agli antichi romani è il segno più genuino della sua convinzione che la diglossia risalga ai loro tempi, e che appunto i gramatice positores l’abbiano inaugurata.
XXII
«... nobilior est vulgaris» La maggior nobiltà della /ocutio vulgaris rispetto alla locutio secundaria, audacemente affermata subito all’ini-
zio del trattato (I I 4-5), contraddice il giudizio dato nel coevo primo libro del Convivio, per cui il latino è sovraro, rispetto al volgare, «per nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e cor-
ruttibile» (I V 7). Di questa contraddizione si può dare una spiegazione tattica, visto che i due giudizi opposti, in realtà, servono entrambi a difendere la causa del volgare, nella diversa economia delle due opere. Ma soprattutto importa che l’instabilità del volgare, focalizzata nel Convivio come un difetto, nel De vz/gari svela in sé un ben
più importante pregio filosofico e addirittura teologico, cioè la naturalità del volgare, contro l’artificialità del latino, per cui il volgare è più vicino a Dio. È questo chiaramente uno sviluppo concettuale ulteriore, che conferma
la cronologia relativa fra le due opere quale dichiarata nel già citato annuncio del Convivio: «Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'i0 intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza» (I V 10). LO SPAZIO LINGUISTICO E LETTERARIO “ROMANZO”
Dante anzitutto pone le tre lingue d’oc, d’oile di sì come lingue sorelle, la cui affinità postula una lingua madre comune, che nel suo schema universale egli identifica con un idioma babelico — geniale anello di congiunzione fra l’antichissima storia linguistica sacra dell’umanità e il panorama letterario volgare moderno. Ma la coincidenza delle tre lingue «in molti vocaboli», e segnatamente nella parola amor (I IX 2-3), coinvolge anche il latino, sarebbe im-
possibile non vederlo. E poiché è inconcepibile che sia la
lingua madre, il latino è la locuzio secundaria, la gramatica, di questo dominio linguistico, quello geneticamente omoXXI
Introduzione
geneo dell’Europa meridionale. La presunta “universalità” del latino ne viene, quanto all'origine, ridimensionata. Il volgare di sì può esibire un privilegio rispetto ai volgari d’oc e d’oil, perché dovette essere in primo piano davanti agli occhi dei positores gramatice, se questi adottarono sic,
derivandolo da s, come particella affermativa (I X 1). Tanto è vero che il volgare di s? «magis videtur initi gramatice que comunis est» (I X 2: ritengo la lezione «videtur» decisamente preferibile a «videntur»). Bene, questo privilegio sta dentro al fatto che la formazione del latino è tutta interna all’idioma babelico “proto-romanzo”. Le tre lingue hanno sviluppato tre letterature: quella d’oil specializzata nella prosa, romanzesca, storica e dottrinaria; quelle d’oc e di sè, la prima anteriore alla seconda,
specializzate nella poesia (I X 2). Quindi, poiché la parte scritta del trattato verte sulla poesia alta, i riferimenti ai francesi saranno ben pochi, numerosi quelli ai provenzali. Sul piano linguistico, la divisione in tre dell’idioma babelico “proto-romanzo” si continua nell’ulteriore frammentazione del volgare di sì, che arriva ad annoverare «almeno
quattordici volgari» («adminus xiiii vulgaria»), e iperbolicamente giunge «alla millesima diversificazione della lingua, anzi ... anche molto più in là» (I X 7 «non solum ad millenam loquele variationem ... sed etiam ad magis ultra»). Con ciò, il panorama iper-frammentato dei volgari municipali (fino alla micro-differenza fra la parlata di Strada Maggiore e quella di Borgo San Felice, non a caso a Bologna) si spiega come risultato di un principio di diversificazione endemico, al quale la inventio gramatice ha dato una risposta artificiale al massimo livello di generalità possibile, quello del dominio corrispondente all’idioma babelico, e
al quale il volgare italiano (ve/gare latium), con il suo ruolo
cardinale, darà una risposta non artificiale su scala italiana. Sul piano letterario, Dante inventerà una comune clas-
sificazione filosofica delle due tradizioni liriche, provenzale e italiana (vedi pp. XXXIX-XLI). XXIV
L'ITALIA
La geografia dell’Italia Per passare in rassegna ivolgari italiani, Dante si appoggia su una ideale mappa “fisica” e “politica” della penisola. Dal punto di vista della geografia fisica, il fatto che, as-
sumendo come linea divisoria longitudinale dell’Italia il crinale appenninico, il versante tirrenico risulti destro e quello adriatico sirzstr0 (I X 4), cioè l’inverso che nelle no-
stre carte moderne, si spiega perché le mappe cristianizzate erano orientate con l’est in alto, e insieme perché l’asse
della penisola era, fin dalla cartografia tolemaica, notevolmente più allineato in direzione est-ovest che nord-sud. In conseguenza di questi due fattori, le regioni meridionali risultavano in alto nelle carte, quelle settentrionali in basso, e quindi il Tirreno stava a destra, l'Adriatico a sinistra.
Dal punto di vista della geografia politica, le regioni passate in rassegna da Dante, sulle quali si dispongono e dalle quali prendono il nome i volgari (non c’è nessuna individuazione di entità o aree dialettali indipendenti dalle partizioni territoriali), sono le regioni politico-amministrative moderne, e non hanno niente che fare (come
pure è stato sostenuto) con le regioni augustee o dioclezianee. È all’Italia del suo tempo che guarda Dante: il che 4 priori è quello che ci si aspetta, e a posteriori si rivela decisamente significativo per l’ottica politica che traspare dalle partizioni da lui adottate e dai nomi con cui le designa. Una prima indicazione di come la geografia politica, in senso lato, prevalga su quella fisica è nell’assunzione della Apulia (I X 6, e ancor più XII 7-8) come entità unita-
ria, anche linguisticamente, corrispondente all’intero meridione continentale, a scapito della partizione in Italia di destra e di sinistra. Questa assunzione è peraltro politicamente neutra, dato che riflette «la forte impronta unita-
ria che le successive dominazioni normanna, sveva e, dal XXV
Introduzione
1266, angioina avevano impresso al mezzogiorno continentale» (Arnaldi 1998, p. 41); anche se l'abbinamento
di siculi e apuli entro la scuola poetica siciliana nel cap. I XII è tutt'altro che neutro, dato che rievoca l’unità del
federiciano Regno di Sicilia, spezzata dall’ingloriosa pace
di Caltabellotta (cfr. IXII 5, II VI 4). L'adozione del termine Laztur per ‘Italia’ (da I X 4 in poi) e di /atius per ‘italiano’ (da I X 3 in poi), entrambi per nulla ovvi, risponde a un forte intento culturale, di-
rei proprio per significare l’italianità del latino e la latinità dell’italiano, in una sorta di doppia e solidale rivendicazione, che possiamo dire “patriottica”, del valore della «lingua nostra». Ma ha anche un riflesso geografico, perché viene a mancare il nome per designare il Lazio. Roma è solo Roma nel De vu/gari, i romani sono solo romani, il volgare romano è solo il volgare romano. Sembra che non ci sia nessuna regione intorno a Roma, che Roma non abbia un proprio territorio, né politico-amministrativo né linguistico. A ciò si aggiunge che l’Italia centrale (I X 5) è rappresentata dal ducato di Spoleto, dalla Marca Anconetana (I XI 3-4), e dalla Tuscia (I XIII). Nell’Italia di Dante, cioè,
è scomparso del tutto lo Stato della Chiesa. Non c’è traccia di un intero secolo di recuperationes pontificie, da Innocenzo III (1198-1216) a Bonifacio VIII (1294-1303). Il ducato di Spoleto era stato ceduto al papato nel 1198, la Marca Anconetana, almeno formalmente, nel 1253. Può anche darsi che Dante semplicemente adotti nomi con-
solidati di entità politico-amministrative, e che la rimozione del loro avvenuto passaggio sotto la giurisdizione della Chiesa sia preterintenzionale. Ma un altro dettaglio
curioso è che la Tuscia romana, che arrivava a sud fino
al Tevere, e cioè la provincia pontificia del Patrimonio
di San Pietro, Dante la tratti insieme con la Toscana, nel momento stesso in cui dice che Perugia, Orvieto, ViterXXVI
Introduzione
bo e Civita Castellana linguisticamente ror sono affini ai toscani, bensì proprio ai romani e agli spoletini (I XIII 3). Certamente non è casuale l’assetto dialettale, in realtà politico-territoriale, dell’Italia di sinistra, cioè padana,
con le contrapposte macro-regioni linguistiche dell’aspra Lombardia, assieme alla Marca Trevigiana, e della molle Romagna, che si incontrano e virtuosamente si contem-
perano nel volgare della città di Bologna, affiancata a est dalle recenti signorie ghibelline di Imola, Faenza e Forlì, a norde a ovest dal guelfo e minaccioso dominio degli Este con le sottomesse Modena e Reggio. Ma questo mondo, che in tutti i sensi fa capo a Bologna, lo vedremo meglio nei paragrafi seguenti.
I volgari municipali L'ordine in cui Dante prende in esame i volgari d’Italia, alla ricerca della parlata più illustre, suggerisce varie cose. È sintomatico che, volendo anzitutto “sradicare”
i volgari peggiori, egli parta da quello dei romani (I XI 2), giudicato turpissimo, con la motivazione che i romani hanno l’arroganza di volersi anteporre a tutti. Il che, sul piano del prestigio linguistico, non è tanto verosimile, data la grande modestia della produzione volgare romanesca a quella data, e alluderà piuttosto ad arroganza di potere. E coi romani vengono sradicati anconetani
e spoletini (I XI 3-4), che facevano parte dello stesso dominio temporale dei papi, anche se questa circostanza viene taciuta. Gli altri volgari peggiori — milanese e bergamasco (I XI 5), friulano e istriano, casentinese e frattese (I XI 6), sardo (I XI 7) — sono sparsi qua e là per l’Ita-
lia e regioni limitrofe. Sradicato il peggio, ecco subito il meglio: il siciliano (I XII), reso glorioso dalla scuola poetica creata dall’eroico Federico II, anche se il volgare siciliano allo stato naturale, e
ancor più quello apulo, sono inadeguati. E, dal meglio, di XXVII
Introduzione
nuovo al peggio: ivolgari toscani (I x). Dalla Magna Curia alla regione epicentro del municipalismo, tratteggiato con sarcasmo. Il volgare siciliano da una parte, quelli toscani dall’altra, sono accostati per massimizzare il contra-
sto fra le rispettive civiltà poetiche: fra la curialità attinta dai poeti siciliani e la bassezza municipale in cui versano i rimatori toscani. L'autore ha evidentemente il dente avvelenato coi suoi concittadini che lo hanno esiliato, ma ri-
versa la sua aggressività tanto sui Comuni guelfi quanto su quelli ghibellini: anche su Arezzo, che gli aveva dato rifugio, e verso la quale del resto non era stato tenero neanche col riferimento a Pietramala (I VI 2), come non era stato
tenero verso casentinesi e frattesi, che ugualmente lo avevano ospitato: luoghi appartenenti a quella cerniera appenninica «fra Tuscia e Romandiola» su cui ha giustamente richiamato l’attenzione Umberto Carpi (2004). L'ottica di Dante è imperiale, ma ciò non significa per lui ghibellina, bensì sopra le parti: «noi, a cui è patria il mondo come ai pesci il mare...» (I VI 3 «Nos autem, cui mundus est pa-
tria velut piscibus equor...»). Non ha riguardi per nessuno — particolarmente per quelli con cui aveva avuto un’esperienza da esule che doveva considerare conclusa: lo stesso varrà infatti per Verona (I XIV 5). La massima divaricazione polemica che Dante mette in scena fra “siciliano” illustre e volgari toscani municipali oblitera la sostanziale toscanità della lingua dei siciliani, nella veste linguistica nella quale anche lui li leggeva, la stessa tramandata dai canzonieri a noi pervenuti. L'accusa ai toscani di vaneggiare arrogandosi il primato linguistico richiama quella già rivolta ai romani, e questa sorta di pari trattamento riservato alla ricchissima cultura poetica volgare dei primi e alla corrispettiva indigenza dei secondi vale di per sé a “sgonfiare” la boria dei toscani. I “blasoni” delle città toscane mettono alla berlina tratti linguistici bassi e locali, ma alludono anche variamente, come quello dei romani, alla «bruttura di costumi e abiXXVIII
Introduzione
tudini» (I XI 2 «morum habituumque deformitas») dei rispettivi parlanti. Passando a nord dell'Appennino, all’inizio del cap. I XIV, Dante riprende quell’ordine da est a ovest che, dal lato destro dell’Italia, aveva tralasciato per procedere per sbalzi di merito e demerito, e comincia dunque dalla Ro-
magna. Ma, venendo a rappresentare il quadro linguistico di quella parte d’Italia nella quale, non dimentichiamolo, si trovava a vivere nel momento in cui scriveva il trattato, introduce un macro-fattore strutturante di tipo del
tutto nuovo. Egli nota (I XIV 2-5) che esistono in Italia due volgari che si oppongono per caratteristiche contrarie e complementari. Il primo è il romagnolo, tanto molle che fa sembrare anche un uomo che lo parli una donna. Al secondo Dante non dà un nome, ma dal testo si evin-
ce che occupa la Marca Trevigiana (I XIV 4-5) nonché la Lombardia, o almeno la parte orientale di essa (I XV 2-4). Questo secondo volgare è tanto irsuto e aspro che fa sembrare anche una donna che lo parli un uomo. Le espressioni che Dante adduce a riprova dall’uno e dall’altro (a questo proposito, il blasone del veronese è molto probabilmente «maia!» ‘mangia!’, certo non l’inesistente «magara») possono avvalorare, in effetti, questa opposta impressione fonosimbolica, ma è ben difficile credere che siano
stati i dati linguistici empirici ad avergli induttivamente imposto questa così marcata categorizzazione. Può darsi che abbiano agito gli opposti stereotipi etnici dei duri e rozzi longobardi (cfr. I XV 3) — che ai loro tempi avevano occupato anche tutta l’Italia di Nord-est — e degli effeminati bizantini. Quel che a me sembra certo è che Dante ha costruito questa bipartizione linguistica dell’Italia di sinistra al preciso scopo di esaltare la centralità di Bologna; la quale, trovandosi esattamente sul confine fra le due aree, è nella privilegiata condizione di mescidare le loro opposte caratteristiche producendo così il volgare municipale più temperato e dunque più bello d’Italia (I XV 5). XXIK
Introduzione
Personalmente, sono convinto che ci sia una ragione
biografica per questo: e cioè che Dante si trovasse a Bologna quando scriveva il trattato, e soprattutto che lo abbia scritto per Bologna (cfr. pp. LI-LIV). Il dominio del romagnolo è di fatto quello delle signorie ghibelline di Imola e Faenza (sotto Maghinardo Pagani da Susinana) e di Forlì (fulcro, meditullium, I XIV 3, dell’intera regione, sotto il
protettore di Dante Scarpetta degli Ordelaffi). Il volgare oppositur: (I XIV 8) al romagnolo, ai confini nord-occidentali di Bologna, è quello di Ferrara e Modena, sottomesse alla signoria dell’aborrito (cfr. I XII 5, II VI 4) e minaccioso marchese Azzo VIII d’Este. I bolognesi contemperano l’uno con l’altro, prendendo «dagli imolesi, dai ferraresi e dai modenesi che li circondano» (I XV 2 «ab Ymolensibus, Ferrarensibus et Muti-
nensibus circunstantibus»), e questo sembra una perfetta metafora dell’equilibrio politico vigente nella Bologna sotto il regime guelfo bianco degli anni 1303-5, che, perdurando almeno sulla carta il tradizionale dominio della pars Ecclesiae, la parte geremea, l’aveva in realtà quanto meno temperato, con la riammissione dei lambertazzi
dagli esili appunto romagnoli e la loro cooptazione nella resistenza alla minaccia estense.
I «doctores eloquentes» La successione dei poeti volgari che nelle varie regioni si sono distaccati (diverterunt) dal loro volgare municipale, elevandosi o tentando di elevarsi al vulgare illustre, configura un disegno generale, che è giusto definire politico sia in senso lato sia in senso contingente, coerente con
quello che emerge dalla rassegna dei volgari municipali. All’origine sta la scuola siciliana, vero atto di fondazione imperiale della tradizione illustre italiana. Il fatto che i «molti maestri» («perplures doctores») siciliani e apuXXX
Introduzione
li non vengano citati per nome, al loro primo apparire (I XII 2 e 8), può significare che Dante non li vuol ricordare come individui ma come gruppo, la cui esistenza va tutta accreditata all'iniziativa di Federico II e del suo nobile figlio Manfredi. Dante aveva evidentemente cambiato opinione sui siciliani dai tempi della Vita Nova, quando aveva scritto (16. 5): «E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì» (come Petrarca, Triurzphus
Cupidinis IV 35-6, dirà: «e i Ciciliani / che già fur primi e quivi eran da sezzo [cioè ‘ultimi’]»). Il fatto nuovo, che
ora campeggia nella mente di Dante esule, è il valore enormemente positivo dell’iniziativa di Federico II. Il secondo gruppo che spicca è quello dei fiorentini Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Dante stesso, più Cino da Pistoia, cioè quelli che noi chiamiamo stilnovisti, i quali,
distinguendosi dai rimatori municipali toscani nominati uno per città in I XIII 1, «riteniamo che abbiano cono-
sciuto l'eccellenza del volgare» (I XIII 4 «vulgaris excellentiam cognovisse sentimus»). Il terzo gruppo e ultimo è quello dei bolognesi: il “massimo” Guido Guinizelli, Onesto, Guido Ghisilieri e Fa-
bruzzo de’ Lambertazzi (I XV 6). A parte la centrale e scontata presenza del caposcuola Guinizelli, anche quella di Onesto corrisponde all’importanza della sua produzione poetica giunta fino a noi. Lo stesso non si può dire degli altri due, di cui non ci è arrivato praticamente nulla. Con prudenza, perché non possiamo sapere quanto sia andato perduto e quali eventuali titoli di merito poetico potessero esservi contenuti, osserviamo tuttavia che il secondo porta il nome di famiglia eponimo della fazione che dava il segno al regime bianco del 1303-5, mentre il primo è di famiglia guelfa, peraltro imparentata con Guido Guinizelli (a sua volta, come si sa, ghibellino esiliato coi lambertazzi nel 1274). Ben difficilmente possono essere interpretati altro che asa
Introduzione
come appendice ai bolognesi idue poeti faentini Tommaso da Faenza e Ugolino Buzzola Manfredi (I XIV 3). È un po' inquietante che il secondo, guelfo,icui meriti poetici ci sono sconosciuti, sia col padre Alberigo il massacratore di parenti della strage di Pieve di Cesato (If XXXIII 118-9), delitto clamoroso che peraltro aiutò il ghibellino Maghinardo Pagani, nel tempo, a insignorirsi di Faenza. Di Tommaso ci è pervenuta qualche poesia, ma la cosa a mio giudizio più rilevante per spiegare la sua presenza nel De vulgari è la tenzone politica a tre con Onesto e con Cino (due figure cruciali nella logica del trattato), di assoluta attualità in quel momento. In essa infatti Tommaso e Onesto, che si rivelano guelfi bianchi, giudicano Boni-
facio VIII simoniaco (in termini che troveranno riscon-
tri testuali abbastanza puntuali nel XIX dell’Inferz0) per il suo tentativo di sovvertire con Carlo di Valois (il «Totila secundus» di II VI 4) i Comuni toscani, mentre Cino
si conferma guelfo nero, che difende il papa. Di fatto, Dante mostra di conoscere vari poeti bolognesi e romagnoli praticamente ignoti a tutti imanoscritti tosca-
ni due-trecenteschi: il che è di per sé indizio di una conoscenza ir loco. Inoltre, i nomi di questi poeti citati si combinano in un insieme quanto mai coerente, direi omologo,
con il regime bianco di Bologna in quegli anni: un insieme formalmente bipartisan, diremmo noi, in sostanza molto sbilanciato verso la parte a cui Dante doveva, io credo, né
più né meno che la possibilità di sopravvivere a Bologna. Del resto i bolognesi attingono per il loro volgare «da entrambe le parti» («utrinque»), dai romagnoli e dai lombardi, ma i difetti complementari degli uni e degli altri non sembrano di pari gravità, se la piccola Faenza ha prodotto ben due poeti mentre «tra i ferraresi, imodenesi o i reggiani [che equivale a dire i domini degli Este] non troviamo nessuno che abbia poetato» (I XV 4 «Ferrarensium, Mutinensium vel Regianorum nullum invenimus poetasse»), perché la loro garrulitas di origine longoXXXII
Introduzione
barda impedisce alla radice di poetare. Allo stesso modo, la Bologna bianca del 1304-5 non era certo equidistante fra gli Este, la cui incombente minaccia precisamente teneva in piedi il regime bianco, per diffidenza contro i geremei cospiranti con Azzo VIII, e le signorie ghibelline romagnole che in quegli anni erano alleate di Bologna contro di lui. Nell’oculato equilibrio poetico creato da Dante entro il testo, che a mio parere ricalca l'equilibrio politico della realtà bolognese ed è costruito in funzione di esso, il ruolo di Cino è fondamentale. Sono lui e Dante, nel De vulgari,
i rappresentanti del gruppo fiorentino-pistoiese di quanti hanno conosciuto l’eccellenza del volgare. E Cino, ben più di Dante, è l’ideale trat d’union fra questo gruppo e il gruppo bolognese. Cino giurista, infatti, era di casa nello Studio; è noto quanto l’ambiente poetico volgare cittadino fosse compenetrato con l’ambiente giuridico e notarile (a cominciare dal giudice Guido Guinizelli); e con Onesto, che fra i poeti bolognesi recenti era l’indiscussa autorità, Cino aveva intrattenuto una intensa e significativa corrispondenza poetica. Per questo Dante spin-
ge Cino continuamente davanti a sé, con la ripetutissima formula «Cynus Pistoriensis et amicus eius». Lo fa perché il suo nome gli apra le porte dell'ambiente bolognese, universitario e poetico.
La coppia di punta della poesia italiana, Cino poeta della verus e Dante poeta della 017145, è costituita da due banditi: Cino guelfo nero si trovava esiliato forse a Prato o addirittura a Firenze; Dante guelfo bianco, io ritengo, a Bologna. Il valore simbolico di questo fatto a me pare altissimo, e duplice. Significa in primo luogo il sovvertimento del giusto e dell’ingiusto che affligge l’Italia (cfr. I XII 5). In secondo luogo, che le vittime dell’ingiustizia di-
lagante sono di entrambi gli schieramenti. Dante evita accuratamente, in tutto il trattato, di identificare l’idea im-
periale che lo affascina con una delle due fazioni in lotta. XXXIII
Introduzione
Che «Cynus Pistoriensis et amicus eius» siano vittime, di parti opposte, di un’ingiustizia speculare è l’incarnazione del pensiero che egli vuol comunicare. Comunque, in attesa che una Curia italiana futura (e in essa un re dei romani che trascenda le fazioni) riunisca Cino e Dante onorandoli come la Magna Curia ave-
va riunito gli «excellentes animi Latinorum», la Bologna bianca degli anni 1304-5 è il luogo dove i nomi di Cino e di Dante, abbinati come li abbina Dante nel trattato, sul-
lo sfondo delle relazioni poetiche e personali sopra ricordate e riflesse nel testo, danno più senso che in qualunque altra situazione immaginabile in Italia. IL VOLGARE ILLUSTRE
La via “razionale”al volgare illustre Poiché la caccia alla «lingua più decorosa d’Italia, la lingua illustre» (I XI 1 «decentior atque illustris Ytalie loquela»), ci ha lasciato a mani vuote, Dante lancia una
nuova caccia (I XVI 1) alla pantera che spande il suo profumo ovunque e non si lascia catturare in nessun luogo. Una ricerca non empirica, questa volta, ma “razionale”: «rationabilius investigemus». La ricerca razionale consiste nell’applicazione del principio aristotelico della reductio ad unum degli enti all’interno — occorre sottolinearlo — del proprio genere. E lo stesso principio che veniva invocato dai temporalisti per teorizzare la riduzione dell’autorità dell’imperatore a quella del papa, teoria che Dante nel III della Monarchia confuterà con la motivazione appunto che le due autorità sono ciascuna somma nel proprio genere, e in quanto tali irriducibili l’una all’altra (Imbach — Rosier-Catach 2005, Rosier-Catach 2009).
Qui nel De vulgari il principio della reductio ad unum viene declinato, anzitutto, per postu/are che un volgare italiano sirplicissimum, che sia metro di tutti gli altri, deve XXXIV
Introduzione
esistere, come esiste il numero più semplice, l’uno, che è metro di tutti inumeri, e come esiste il colore più semplice, il bianco, che è metro di tutti i colori (I XVI). Poi, dopo
che di questo volgare sono stati dichiarati gli attributi di illustre, cardinale, aulicum e curiale (I XVI-XVII), il prin-
cipio della reductio ad unum mette in moto un meccanismo geografico di inclusione dell'individuo nella specie, della specie nel genere, per cui la base delle mille e più (I X 7) frammentazioni dialettali si riduce progressivamente, salendo nella piramide, a volgari regionali e sovraregionali, fino ad arrivare al vu/gare latium che è unum in quanto essenziale, scrostato di tutte le scorie municipali.
Importa vedere il filo rosso razionalista che percorre tutto il trattato: dalla razionalità del signurz locutionis, alla razionalità dell’esegesi biblica che illumina l'origine del linguaggio, alla razionalità del principio del mutamento linguistico e delle sue conseguenze (che include, non esclude l’evento di Babele), alla necessità razionale, qui,
dell’esistenza del vu/gare latium. A cui seguirà la razionalità dell’equiparazione della poesia volgare a quella latina; la razionalità dei tre magnalia, cioè della sistemazione filosofica delle tradizioni poetiche d’oce di sò, e altro ancora. Questo è davvero il filo rosso del trattato, è l’identità intellettuale di Dante in questo momento. È anche l’esibizione dei titoli di pienissimo credito scolastico che tutta questa filosofia laica, volgare (secondo la pertinente etichetta di Imbach 1996), meriterebbe da quanti avrebbero l’autorità per accreditarla. “Mustre”, “cardinale”, “aulicum”,
PD
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“curiale”
Il primo dei quattro famosi epiteti che definiscono il volgare risultante dalla reductio ad unum esprime l’idea emanatista della luce che pervade l’intera dimensione della locutio vulgaris in Italia; proprio come, non sembri un XXXV
Introduzione
paragone troppo alto, «la gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove» (P4I 1-3). Ma, nel gusto dettatorio del passo, poliptoti come «quid illuminans et illuminatum prefulgens» (I XVII 2 «qualcosa che illumina e che, illuminato, risplende») affiancano alla metafisica emanatista del volgare che illumina dall’alto, di scorcio, la prospettiva fabbrile del volgare che viene illuminato dai «viri illustres», i suoi cultori, i poeti, che infatti superano in fama re, marchesi, conti e magnati (I XVII 5), e che è scopo del trattato promuovere. Il secondo epiteto, cardinale, definisce qual è, almeno
in linea di principio, il rapporto fra il volgare illustre e la variegata fenomenologia dei volgari sottostanti. Questo rapporto non è, o non vuol essere, come pure ci indurrebbe a pensare tutta la protratta contrapposizione del volgare illustre ai disprezzati volgari municipali nei capp. I XI-XV, un rapporto polare, statico, dal positivo al negativo, ma un rapporto di regolazione, dall’uno al molteplice. Il volgare illustre non deve schiacciare i volgari inferiori, ma guidare il loro movimento spontaneo: come fa il pastore col gregge, come fa il padre di famiglia. Si verifica qui che il volgare illustre non è affatto un nostalgico recupero poetico di ciò che l’uomo ha perso a Babele, ma il cardine, appunto, di una razionale riparazione di tutti gli strumenti linguistici della comunità. Gli altri due epiteti, aulicurz e curiale, esprimono il valore politico del volgare illustre. L’au/a è il palazzo reale, sede e simbolo della monarchia. La curia invece è immateriale: è il complesso delle funzioni e delle persone che costituiscono la corte dell’imperatore, l’alto consesso e consiglio del governo. Mentre per quanto riguarda l'aula, materiale, Dante può solo constatare che ne siamo privi (I XVII 3), della curia, in quanto immateriale, possono
esistere le membra disperse (I XVIII 5), ed è ciò che apXXXVI
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punto egli vuol affermare, per identificare tali membra nei poeti cultori del volgare illustre. Il dilemma se il volgare illustre sia la lingua dei poeti o la lingua degli italiani, su cui ha insistito Vinay 1959, divaricando le due interpretazioni per evidenziare una crepa nel pensiero di Dante, a mio giudizio non è affatto un dilemma. È precisamente lo scopo del trattato dimostrare che la lingua dei poeti, il vulgare illustre,èla prefigurazione di quella che sarà la lingua degli italiani, il vu/gare latiurm nella sua piena esplicazione civile: ciò che fa appunto dei poeti «le membra ... unite dal divino lume della ragione» (I XVIII 5 «membra ... gratioso lumine rationis unita») della futura Curia. LA TEORIA LETTERARIA
Poesia e prosa All’inizio del secondo libro (I 1) Dante si premura di chiarire che il volgare italiano illustre si applica sia alla poesia sia alla prosa. Certamente allo scopo di estendere anche a quest’ultima il raggio di applicazione della propria dottrina, rettificando l'impressione che poteva derivare dal fatto che nel primo libro aveva parlato solo di poeti, e che lui stesso aveva essenzialmente fama di poeta. E allo scopo di cementare la solidarietà fra vulgare illustre e vulgare latium, fra lingua dei poeti e lingua degli italiani. Questa estensione alla prosa poggia sulla tradizione retorica mediolatina per cui il dictazzen (termine riferito infatti alla canzone in II XII 7) è triplice: prosazicur (prosa), metricum (poesia quantitativa latina), ritbrzicum (poesia accentuativa volgare). In termini di pubblico, significa che Dante si rivolge ai cultori di artes dictandi: che nella Magna Curia avevano costituito il retroterra della scuola poetica siciliana, e in nessun centro italiano erano così
fiorenti come a Bologna, radicati nell'ambiente univerXXXVII
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sitario, con maestri fiorentini quali Boncompagno da Signa e Bene da Firenze. Ma, mentre le artes dictandi privilegiavano la prosa, e in particolare l’epistolografia, qui Dante rivendica il ruolo guida della poesia, sulla base del
fatto che il volgare avietum, ‘legato’ dai vincoli metrici, funge da modello a quello dissoluto della prosa, secondo lo stesso principio della parola «per legame musaico ar-
monizzata» del Convivio (I VII 14), che nel De vu/gari ri-
comparirà nelle metafore del “legare, fasciare, stringere” metricamente il dettato (II VIII 1). Ma che cosa è la poesia, nella sua essenza? Dante la definisce «fictio rethorica musicaque poita» (II IV 2 «una composizione ad arte fatta di retorica e di musica»), con un uso prezioso del rarissimo participio passato di pozre, greco roreîv, equivalente del latino fingere (da cui appunto fictio), ‘comporre, plasmare’; ed è sulla base di questa
definizione tecnica che non solo i poeti latini e greci, ma anche i rimatori volgari, meritano il nome di poeti, dato
che essa si applica indipendentemente dalla lingua. Questa affermazione di Dante è estremamente audace, e fonda
l'estensione semantica della parola poeta nelle lingue moderne europee. Fictio ha il significato formale, fabbrile di ‘prodotto artificiale’ (Paparelli 1960), prodotto dell’ars (segnatamente, di quelle due arti che sono la retorica e la musica); non il significato di ‘finzione allegorica’ (Schiaffini 1958), concetto estraneo alla teoria e all’esemplifica-
zione poetica del De vulgari. L'osmosi fra poesia e prosa trova una concreta verifica dove Dante tratta di sintassi, del «gradus constructionis excellentissimus» adatto allo stile sommo e alla canzone (II VI 5). Qui infatti egli invoca a modello il periodo ampio dei grandi poeti “tragici” latini — Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano — ma anche, più inaspettatamente, i grandi prosatori latini, esemplificati dai nomi di Orosio, che effettivamente Dante conosceva bene, e altri tre che invece
sono molto peregrini — Livio, Plinio e addirittura FrontiXXXVIII
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no. Se si intendono correttamente, le parole di Dante (II VI 7) rimandano alla Biblioteca Capitolare di Verona, cit-
tà dove egli risiedeva l’anno prima, e dove un amico bibliotecario doveva avergli mostrato questi rarissimi cimeli. Poco prima (II VI 4), per esemplificare i quattro gradi della costruzione, Dante produce, a confermare la continuità fra poesia e prosa, esempi prosastici; ma, con scelta davvero singolare, si tratta di esempi latini. Di crescente
abilità e complessità retorica, esibiscono la sua competenza come dictator. Ma, ancor più che la forma dettatoria, lega questi esempi al pubblico bolognese il loro contenuto. In un sapiente crescendo, il secondo esempio, quello appena «saporito» («sapidus»), esprime una generica compassione, si direbbe elegiaca, per chi si trovi a essere esiliato; il terzo, «saporito e aggraziato» («sapidus et venustus»), è una sarcastica aggressione contro Azzo VIII, cioè contro il minaccioso capo dello schieramento guelfo nero, alleato di Firenze,
dal quale il regime guelfo bianco bolognese si difendeva con l’aiuto delle signorie ghibelline romagnole; e il quarto, il «saporito e aggraziato ed eccelso, che è dei dettatori illustri» («sapidus et venustus ... et excelsus, qui est dictatorum illustrium»), riprende il tema dell’esilio ma con un
riferimento collettivo ai fiori cacciati dal seno di Firenze, cioè ai Bianchi — che con ogni probabilità si trovavano numerosi a Bologna —, e attacca Carlo di Valois, cioè al tem-
po stesso il responsabile della disgrazia e dell’esilio di Dante e l’alleato dell’aborrito marchese nella guerra in atto. “Salus”, “venus”, “virtus” Superando la limitazione posta nella Vita Nova, dove Dante si era espresso «contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa» (16. 6), qui il campo del poetabile nello stile sommo si allarga a tre yzagnalia, tre grandi XXXIX
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domini, corrispondenti alle tre anime dell’uomo (II Il 6): l’anima vegetativa, che l’uomo ha in comune anche con le piante; l’anima sensitiva, che ha in comune con gli altri animali; l’anima razionale, che ha in comune con gli
angeli (un’impostazione che richiama la discussione sul linguaggio dell’uomo, degli animali e degli angeli in I IIIII). In corrispondenza delle tre anime l’uomo ricerca l’utile, il delectabile e l’honestum, e quindi i tre grandi temi
poetabili sono la sa/4s ovvero la sopravvivenza (poesia delle armi), la venus (poesia d’amore), la virtus (poesia morale). Imaestri occitani dei tre #zagralia sono Bertran de Born per la poesia delle armi, Arnaut Daniel per la poesia d’amore, Giraut de Borneil per la poesia morale; i maestri italiani sono solo due, perché nessuno in Italia ha coltivato
la poesia delle armi: Cino da Pistoia per la poesia d’amore e Dante stesso per la poesia morale. Occorre rendersi conto della assoluta novità di una tale fondazione e classificazione filosofica dei generi poetici, totalmente imprevista nell’ambito delle riflessioni metaletterarie fino ad allora prodotte in entrambe le tradizioni. È un passo cruciale per quell’inserimento della poesia volgare entro l’universo di discorso della filosofia a cui Dante punta; un deciso passo in avanti rispetto all'impegno filosofico della poesia volgare, che aveva avuto un antesignano in Guinizelli («ancor che ’l senno venga da Bologna...», gli aveva rimproverato Bonagiunta nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera), e di cui l'esempio più vicino era il commento latino alla canzone Dora we prega del Cavalcanti a opera del medico fiorentino Dino del Garbo, che nel 1304-6 era precisamente in servizio come professore nella Facoltà delle Arti di Bologna. Le parole salus e venus ci fanno notare lo iato che si è aperto rispetto ai tempi della Vita Nova: l’amore sublime e unico, che aveva aperto alla poesia, al di là del vicolo cieco dell'amore cortese, una proiezione paradisiaca, qui è ridot-
to alla pulsione erotica (vers) comune agli uomini in quanXL
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to animali; e la parola beatriciana salute è riconvertita a significare l’istinto biologico alla sopravvivenza comune agli uomini in quanto esseri viventi. A parte il completo mutamento nel quadro di riferimento ideologico, che è intervenuto nella sua storia personale, qui Dante si è spersonalizzato, parla a nome della categoria dei poeti, e le tematiche devono essere quelle standard, perché vi deve trovare posto tutta la produzione poetica illustre che può essere esibita per accreditare il ruolo dei poeti come fabbri del parlare materno e dunque benemeriti dell’Italia. Ponendo sullo scalino più alto la virtus, Dante chiude il cerchio che aveva aperto con il fondativo aggancio alla Politica di Aristotele commentata da san Tommaso, che ab-
biamo visto all’inizio. I poeti, tutti ipoeti, ma segnatamente i poeti della virtus, e cioè Dante Alighieri, esemplificato dalle canzoni dottrinarie citate nel De vu/gari, che sono solo un assaggio dell’operazione dispiegata nel Convivio, sono precisamente coloro che forgiano il volgare per comunicare «in utili et nocivo, iusto et iniusto, et aliis huiusmodi», secondo l’espressione di san Tommaso, e cioè rendo-
no il linguaggio capace di adempiere allo scopo per cui la natura lo ha dato all'uomo: quello di costruire la società.
Stile tragico, comico, elegiaco Dopo aver definito gli argomenti sommi, i tre rzagralia, degni del volgare illustre, Dante pone in scala discendente tre stili: tragico, comico ed elegiaco. Solo il primo di essi è degno del volgare illustre: «per “tragedia” intendiamo lo stile superiore, per “commedia” quello inferiore, e per “elegia” lo stile degli infelici» (II IV 5 «Per tragediam superiorem stilum inducimus, per comediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum»). I termini tragedia/commedia, definiti come si vede in modo formale e polare, sinonimi di “stile alto”/“stile meXLI
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dio-basso”, si capiscono bene. Risultano da un processo di de-teatralizzazione della tragedia latina, conseguente alla caduta in disuso delle rappresentazioni sceniche che risale all’età imperiale, in seguito al quale tragedie e poemi epici sono confluiti in un unico genere di presentazione
al pubblico, le declamationes, per cui l’Eneide è appunto una tragedia (If XX 112-3 «e così ’l canta / l'alta mia tragedìa in alcun loco») e tragici sono i poeti latini a cui il De vulgari invita a ispirarsi: «la cosa più utile ... sarebbe aver studiato i poeti regolati, vale a dire Virgilio, l’Ovidio delle Metarzorfosi, Stazio e Lucano» (II VI 7 «utilis-
simum foret ... regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum»). Per tutto l’arco della sua carriera Dante mostra di concepire la coppia di termini tragedia/commedia come quella
che esaurisce la totalità del poetabile. Si confrontino CvI V 8 «Onde vedemo nelle scritture antiche delle corzedie e tragedie latine», e nella Corzzzedia l'opposizione fra la tragedîa di Virgilio, cioè l’Ezeide, e la comedîa di Dante, cioè il poema sacro: I{XVI 127-8 «e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro»; XXI 1-2 «Così di ponte in ponte, altro parlando / che la mia comzedîa cantar non cura». E si confronti anche Pd XXX 22-4 «Da questo passo vinto mi concedo / più che già mai da punto di suo tema / soprato fosse corzico 0 tragedo». Nel De vulgari tutto l’interesse è concentrato sullo stile tragico, come è concentrato sui tre r24gralia e sulla canzone, cioè su ciò che è di pertinenza del volgare illustre.
Gli altri stili, come gli altri contenuti, come gli altri generi metrici, sono rimandati a un seguito della trattazione che non verrà mai. Quali che siano le ragioni per cui il trattato rimane interrotto (e io tendo a credere che la ragione sia esterna, traumatica), tuttavia è indubbio che il
“motore” dell’operazione De vu/gari è in alto, ed è probabile che mentre scriveva questi capitoli Dante non si XLII
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fosse ancora chiarito tanto le idee su cosa avrebbe detto una volta che fosse arrivato a parlare degli stili inferiori. Per quanto riguarda questi ultimi, quindi, rimaniamo con l’acerba compresenza della commedia, nozione che si capisce bene, anche se è imprecisata, e della elegia, definita invece in tutt’altri termini, non formali, ma contenutistici, o tonali, molto più restrittivi, come «stile degli
infelici» («stilus ... miserorum»). La categoria di elegia verrà messa in opera una volta nel seguito del trattato, in
II XII 6: sospetto che lì ci sia una possibile spiegazione, contingente, di cosa ci stia a fare l’elegia nel De vulgari (vedi pp. XLVII-LI). Poesia e musica
Il rapporto fra poesia e musica è un tema dibattuto negli ultimi trent'anni, da quando nel 1978 Aurelio Roncaglia scrisse un fondamentale saggio Sul “divorzio tra musica e poesta” nel Duecento italiano. Un saggio che tratteggiò una figura di poeta volgare profondamente diversa da quella del trovatore: il trovatore come una figura dalla doppia competenza, poetica e musicale, in linea di principio autore sia delle parole che della melodia dei propri testi; il nuovo poeta italiano, dalla scuola siciliana in
poi, come una figura, spesso di cultura universitaria, dalla competenza solo verbale. Numerose ricerche successive (fra le altre di Ziino e Lannutti) hanno teso a ridimensionare tale “divorzio”, sostenendo che la messa in musica
dei testi poetici dovette resistere più a lungo e in misura più massiccia di quanto sia documentato, a causa del fatto che le melodie erano in Italia, più che nella tradizione
provenzale, tramandate solo oralmente. Che cosa ci dice a questo proposito il De vu/gari, che costituisce la testimonianza senza paragoni più esplicita di cui disponiamo? Il De vulgari, proprio nel definire l’essenza della poesia, XLII
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assegna alla musica un ruolo costitutivo, alla pari con la
retorica: «... se consideriamo che cos'è, a rigore, la poesia: la quale non è altro che una composizione ad arte fatta di retorica e di musica» (II IV 2 «... si poesim recte conside-
remus: que nichil aliud est quam fictio rethorica musica que poita»). Ruolo ribadito dal Convivio: «ponete mente la sua bellezza [della canzone], che è grande sì per [la] construzione, la quale si pertiene alli gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici, sì per lo numero delle sue parti, che si pertiene alli musici» (II XI 9). Nell’affrontare però la trattazione della canzone, Dante discute preliminarmente se carzio sia il testo o la musica (II VIII 4-6), e rivendica decisamente che solo il testo merita questo nome e solo il poeta ne è l’autore. Chi eventualmente intoni la canzone (e chiaramente è una figura distinta da quella del poeta) viene relegato al ruolo di mero esecutore, e la canzone può essere cantata ma an-
che recitata. Ora, se il canto è solo una delle due possibili esecuzioni della canzone, non necessaria, in che senso
la musica attiene all’essenza della poesia? La trattazione della stanza, poi, costituisce un terzo mo-
mento, nella discesa sempre più tecnica dalla poesia alla canzone alla stanza che «racchiude in sé tutta intera la tecnica» (II IX 2 «totam artem ingremiat»), e questo terzo momento risolleva l’importanza della musica, poiché
si afferma che la struttura metrica della stanza è in funzione della melodia che ogni stanza è destinata a ricevere: «ogni stanza è armonizzata per ricevere una certa
melodia» (II X 2 «omnis stantia ad quandam odam recipiendam armonizata est»). E infatti, argomenta Dante, la stanza è divisa (in piedi e volte, o piedi e sirma, o fronte e volte; comunque con diesis, cioè stacco, fra la prima e
la seconda parte) oppure è indivisa (oda continua), a seconda che si dia o non si dia ripetizione della frase musi-
cale. E la rigorosa necessità che i piedi fra loro, e le vol-
te fra loro, siano identici per numero, tipo e disposizione XLIV
Introduzione
di versi, è dovuta alla necessità che a ciascuno di essi si attagli la stessa frase musicale. Per cui è stato sostenuto (Bigongiari 1964) che la melodia teleologicamente determina la struttura metrica della stanza, e questo è incontrovertibile, stando alla lettera di ciò che afferma Dante.
Queste affermazioni apparentemente discordanti si compongono, io credo, se assumiamo che la musica che insieme con la retorica costituisce la fictio poetica sia «la scienza dei rapporti proporzionali, in senso boeziano» (Roncaglia 1978, p. 381), musica in senso speculativo: una competenza che il poeta possiede, come possiede quella grammaticale e quella retorica; che in pratica impone la rigorosa regolarità della struttura metrica, che rende il testo musicabile; e che è ben distinta dalla competenza
pratica di chi, «flautista o organista o citarista» (II VIII 5 «tibicen, vel organista, vel cytharedus»), sappia eventualmente tradurla in una melodia determinata. La corrispondenza così postulata da Dante fra struttura della stanza e struttura della melodia è però contraddetta dalla documentazione musicale provenzale e francese, dato che molto spesso stanze divise venivano accompagnate da melodie indivise, ma questo non è probabilmente da imputare a disinformazione da parte di Dante, piuttosto al fatto che, nella sua impostazione, questa possibile
variazione doveva sembrargli relegata nel campo non rilevante dell’esecuzione (Lannutti 2008). La testimonianza di Dante sembra dirci che le figure del poeta e del musico erano nettamente distinte; che l’ac-
compagnamento musicale dei testi poetici doveva essere non generale ma ancora molto frequente; che solo il testo, non la musica, veniva scritto; che la musica in quanto disciplina teorica, arte del Quadrivio, doveva essere
percepita come nettamente distinta dalla capacità pratica di comporre ed eseguire melodie, doveva essere considerata appannaggio dei poeti colti, e poteva anche ridursi alla consapevolezza che una rigorosa disposizione XLV
Introduzione
delle parti (babitudo partium) del testo poetico era imprescindibile per garantire quell’omologia con la (potenziale) melodia che Dante considera parte dell’essenza specifica della poesia. TROVATORI E POETI
I trovatori
Fra i trovatori citati da Dante spicca la terna posta a
rappresentare i tre rzagnalia: Bertran de Born la salus, Arnaut Daniel la vers, Giraut de Borneil la virtus (II Il 8).
La scelta di questi tre, quale che fosse la precisa informazione di cui Dante poteva disporre in materia, comun-
que non stupisce trattandosi di trovatori rinomatissimi. Dei tre, il più lontano da Dante è decisamente Bertran de Born, come lontana da Dante in tutta la sua storia è la
poesia delle armi (nel senso di plazer guerresco, incomparabile con l’epica dei poeti latini a lui familiari: Virgilio, Stazio, Lucano). Infatti Bertran de Born nel parallelo
Convivio è citato come esempio di liberalità (IV XI 4), e qui nel De vu/gari per un “serventese-canzone”, Non puosc mudar, per nulla tipico, che tematicamente è anch'esso
orientato non alla guerra ma alla liberalità, e metricamente ricalca la struttura dell’arnaldiana S7-772 fos Arz0rs, molto
apprezzata da Dante, che la cita in II XIII 2 come esempio di stanza senza rime («stantia sine rithimo»). Viceversa, il Bertran cruento, oltre a essere decapitato come seminato-
re di discordia nel XXVIII dell’Irferzo, fornisce anche il sottotesto per la rappresentazione della bolgia come parodia infernale di un campo di battaglia. Ben diverso il rapporto di Dante, fra De vu/gari e Commedia, con Arnaut Daniel e Giraut de Borneil. Nella fase Convivio-De vulgari, quando Dante si pone come poeta
della virtù, è Giraut, suo omologo occitano, a tenere il primato. Una sintonia che si riflette in echi giraldiani nelle XLVI
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canzoni dottrinarie ascrivibili a questa fase: Tre donne, Doglia mi reca, Poscia ch’Amor, Le dolci rime. Arnaut, mo-
mentaneamente messo in secondo piano, esercita in real-
tà su Dante un fascino più forte, fin dalle prove giovanili di Lo doloroso amor e di Com’ più vi fere Amor, poi nella cruciale esperienza delle petrose, imprescindibile per la futura componente linguistica “aspra e forte” del poema. Se nel De vulgari lo stile tragico si deve comporre (II VII) di vocaboli ‘pettinati’ (pexa) ma anche ‘folti’ (yrsta), superando la convenzione retorica che escludeva i secondi, è perché Dante ha metabolizzato la lezione di Arnaut. Esperimento di punta entro le petrose, tecnicamente oltranzistico, è la sestina A/ poco giorno (II X 2, XIII 2), che Dante scrive in emulazione di Arnaut assumendo la stanza che considera più tipicamente sua, la «stantia sine rithimo» corrispondente a una «oda continua»; col seguito
della cosiddetta “sestina doppia” Arz0r, tu vedi ben. Esperimenti tenuti in gran conto nel De vu/gari: anzi, a questo proposito, occorre ribaltare l’interpretazione secondo la quale in II XII 13 Dante prenderebbe le distanze da queste sue prove, quando al contrario le equipara a «qualcosa di tecnicamente inaudito e intentato» («novum aliquid atque intentatum artis») che gli merita un’investitura poetica paragonabile a quella cavalleresca. Nella Corzzedia la gerarchia dei valori si inverte, e Guinizelli, nel XXVI del Purgatorio, sancirà che è Arnaut
il «miglior fabbro del parlar materno», aggiungendo: «e lascia dir li stolti /che quel di Lemosì [cioè Giraut] credon ch’avanzi» (vv. 117-20). Il nuovo assetto culminerà nell’assunzione al cielo di Venere del vescovo Folchetto di Marsiglia (P4IX) che ricorda il suo passato di trovatore d’amore. Di Folchetto nel De vu/gari è citata come esempio di «gradus constructionis excellentissimus» la canzone Tar m'abellis (II VI 6): canzone che aveva accompagnato Dante da Gentil pensero a Voi che ’ntendendo, influenzando
l’intero ciclo della «donna gentile» (Squillacioti 1993); e XLVII
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nel Purgatorio presterà ad Arnaut le parole per congedarsi in provenzale da Dante nella chiusa del canto XXVI. Il senso complessivo di questo riassetto dei valori trobadorici nella Comedia è di ridimensionare la poesia morale che nel “laico” De vu/gari rappresentava il più alto dei magnalia, e rivalutare la poesia d’amore, così di
Arnaut come di Folchetto, che previo pentimento per la pasada folor fornisce incandescenza lirica sublimabile in prospettiva teologica.
I poeti italiani e Dante Abbiamo visto sopra delinearsi tre gruppi di poeti illustri: i siciliani-apuli della scuola federiciana, i fiorentini-pistoiesi stilnovisti, ibolognesi con appendice faentina. Focalizzando ora autori e testi citati, possiamo osservare che
fra i siciliani prevale decisamente Guido delle Colonne, di cui sono citate due volte, e come esempi assoluti della scuola, due canzoni, Ancor che-ll’aigua e Amor, che lungiamente (I XII 2, II V 4 e VI 6), a scapito di Giacomo da
Lentini, con Madonna, dir vo voglio (I XII 8), scambiato per apulo accanto a Rinaldo d'Aquino, di cui si cita Per fin amore (I XI 8, II V 4). Stando al De vulgari ci sarebbe da dubitare che davvero Dante attingesse, come riteneva Contini 1952, a un canzoniere affine al Vaticano latino 3793, che dà invece a Giacomo un vistoso primato. Nella Vita Nova, però, egli aveva scritto: «Lo primo che
cominciò a dire sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole d’intendere li versi latini» (16. 6): e costui non sembra «un generico anonimo, bensì colui che apre il canzoniere Vaticano con la canzone “Madonna, dir vo
voglio / como l’amor m’à priso”, cioè il Notaro» (G. Gorni, in Opere [Meridiani], I, p. 966). In II XII 6 si dà il caso singolare di ben tre canzoni addotte per illustrare non un tratto proposto all’imitazione, XLVIII
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e nemmeno una caratteristica neutra, ma un difetto, e cioè
che il primo verso è un settenario. Seconda circostanza singolare è che tutte e tre queste canzoni sono di doctores bolognesi, già citati con lode. Ma, aggiunge Dante, se si guarda meglio al senso di questi testi, «questa poesia tragica non si è sviluppata senza una certa sfumatura di elegia» («non sine quodam elegie umbraculo hec tragedia processisse videbitur»). Ora, nella corrispondenza poetica fra Cino e Onesto, già ricordata, quest’ultimo aveva criticato Dante come «quei che sogna e fa spirti dolenti», intendendo con ciò probabilmente criticare la Vita Nova. E la Vita Nova, in effetti, poteva essere interpretata come elegiaca (Carrai 2006).
Ma ancor più monocorde nello «stilus miserorum», obiettivamente, era Onesto, anche se Dante si guarda bene dal
criticarlo esplicitamente («uno è il registro: quell’ostinato immorare sul proprio affanno, e perdercisi tutto, e non sen-
tir altro che quelle parole di dolore», De Robertis 1951, p. 298; tanto che Onesto è stato visto come iniziatore di una
«poesia del dolore» che costituirebbe «la nota fondamentale della musa del Cavalcanti e di Cino», Marti 1967, p. 43). Su questo sfondo, mi chiedo se lo stile elegiaco, allo-
trio com'è rispetto al tragico e al comico (vedi sopra), non stia a rappresentare, nel De vz/gari, il rischio di una caduta stilistica sempre in agguato nella lirica d'amore, quando si riduca all’autocommiserazione per i «dolores amantium». Dante potrebbe aver introdotto e usato questo concetto per scrollare da sé la critica che gli era venuta dall'ambiente bolognese (le proprie canzoni che cita nel trattato non hanno la minima macchia di elegia, non derogano minimamente dall’altezza tragica) e, seppur in modo semi-reticente e col dovuto riguardo, rimandare quella critica al mittente. Quanto ai fiorentini-pistoiesi, Guido Cavalcanti e Cino
godono ciascuno di tre citazioni. La prima di Cino è Drgno sono eo di morte (II Il 8), con la quale egli viene insediato come massimo poeta d’amore in volgare di sì con XLIX
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una canzone che comincia con un settenario e addirittura con una rima imperfetta: il che forse non è il massimo che Dante poteva fare se voleva davvero accreditare il suo amico nel ruolo tanto alto che aveva deciso di fargli giocare. Le altre due sono Nor spero che giamai (II V 4) e Avegna che io aggia (II VI 6), canzone per la morte di Beatrice intrisa di devozione di Cino per Dante. Guido compare con la canzone monostrofica Pos che di doglia (II VI 6) e con la grande canzone dottrinaria Donna me prega, citata due volte nello stesso capitolo, in II XII 3 e 8. La prima volta la citazione è seguita da quella della dantesca Donne ch’avete, la canzone della Vita Nova che
inaugura lo stile della lode ed è ideologicamente antitetica a Donna me prega: aristotelica radicale, cioè materialistica, la canzone del Cavalcanti; celebrante Beatrice come
creatura del paradiso la canzone di Dante. Non credo quindi che Dante le ricordi qui una dietro l’altra soltanto perché sono entrambe di soli endecasillabi. Se è giusta, come
credo, la tesi di Tanturli 1993 e altri che Donna me prega sia stata la risposta di Cavalcanti alla Vita Nova in generale e a Donne ch’avete in particolare, risposta di rottura ideologica, allora qui Dante, mettendole in questo
ordine, in un certo senso si riprende l’ultima parola, ribadendo che Guido è in ogni caso un suo predecessore. Questa doppia citazione di Donna me prega nel cap. II XII è peraltro la sola di un altro italiano (a parte le bolognesi “elegiache”) inframmezzata nell’ultima parte del testo alla lista di citazioni dal solo Dante; il quale, dopo essersi citato in II IT 8 con Doglia mi reca e in II V 4 con Arzor
che movi, dal cap. II VI in poi occupa tutta la scena con Amor che nella mente (VI 6), Donne ch'avete (VIII 8), Al
poco giorno (X 2), Traggemi de la mente (XI 5), Amor che
movi (XI 7), Donna pietosa (XI 8), Donne ch’avete (XI 3),
Poscia ch’Amor (XII 8), di nuovo A/ poco giorno (XII 2) e Amor, tu vedi ben (XII 13).
Quale immagine di poeta configurano queste autocitaL
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zioni? Delle nove canzoni menzionate, sei sono d'amore. A
parte la perduta Traggerzi de la mente, due sono dalla Vita Nova: Donne ch'avete (10), che inaugurando la poesia della lode è certamente immune dall’ombra di elegia che poteva gravare sulle poesie della prima parte del prosimetro; e Donna pietosa (14), ben più allucinata che dolente. Quin-
di le due prove petrose in emulazione di Arnaut, la sestina A/ poco giorno e la “sestina doppia” Amor, tu vedi ben, messe positivamente in evidenza per la loro oltranza tecnica, in un trattato che afferma che l’essenza della poesia è tecnica. Poi Arzor che movi, canzone filosofica d'amore e
sull’amore. Sei canzoni che ingombrano non poco la casella del «fuoco d’amore» (II II 7 «amoris accensio») in teoria lasciata a Cino, e spaziano dallo stile dolce a quello aspro, non identificandosi più Dante né nell’uno né nell’altro, ma accreditandosi per le prove superate in entrambi. Le altre tre canzoni rientrano nel campo che Dante si è riservato del «retto governo della volontà» (IT IT 7 «directio voluntatis»): Amor che nella mente, dal III del Convivio; Doglia mi reca e
Poscia ch’Amor, probabilmente destinate al Convivio. Esse rappresentano il Dante attuale, il Dante lirico maturo costruitosi sull'intero arco delle precedenti esperienze, e pronto a spendere tanta maestria in un nuovo orizzonte pubblico. QUANDO E PER CHI È STATO SCRITTO IL «DE VULGARI ELOQUENTIA»
Il riferimento a Giovanni di Monferrato (I XII 5) viene considerato un termine ante quer: per la composizione del trattato, dato che il marchese morì nella seconda metà
di gennaio 1305. In realtà il termine vale, e con un margine di tolleranza, solo per la composizione del testo fino a questo capitolo, perché Dante potrebbe aver scritto la parte seguente anche dopo aver avuto notizia della morte del marchese, senza necessariamente correggere il riferimento nella sua copia di lavoro rimasta interrotta e inedita. ;
Introduzione
Io ritengo che due dati di fatto capitali del primo libro collochino la composizione del trattato dopo la definitiva sconfitta militare dei fuorusciti che chiuse loro ogni speranza di rientrare a Firenze, cioè dopo la battaglia della Lastra del 20 luglio 1304. Questi due dati di fatto sono l’assoluta esaltazione di Federico II e di Manfredi che occupa il cap. XII, e più in generale tutta l'impostazione imperiale del trattato (anche se più culturale che direttamente politica); e la denigrazione del volgare di Firenze e di tutti i volgari toscani, e dei rispettivi rimatori municipali, primo dei quali Brunetto Latini, nel cap. XIII. È ben difficile che Dante abbia potu-
to concepire, nonché scrivere, queste cose pochi mesi prima, durante il tentativo di pacificazione del cardinale Niccolò da Prato, sviluppatosi tra il febbraio e il 10 giugno 1304, quando, per conto del capitano della «Universitas partis Alborum», indirizza al cardinale l’epistola I tutta anelante alla
riconciliazione. Il cap. IXII del De va/gari ha invece strette concordanze anche formali con l’epistola II, in morte del
primo capitano dei fuorusciti bianchi e ghibellini Alessandro dei conti Guidi di Romena, che è un testo bruciante di
sconfitta, di chi si vede tagliati i ponti alle spalle. E convincente la ricostruzione biografica di Petrocchi 1994 (1966), confermata da Indizio 2004, che colloca il
primo soggiorno veronese di Dante, presso Bartolomeo
della Scala, dal maggio 1303 fino alla morte di Bartolomeo nel marzo 1304, quando Dante si trasferisce in Toscana,
probabilmente ad Arezzo, proprio per seguire da vicino gli sviluppi del tentativo di Niccolò da Prato, al quale infatti scrive in quel periodo l’epistola I. Che dopo il fallimento di quel tentativo (forse dopo la battaglia della Lastra, in coincidenza con la rottura con la «compagnia malvagia e scempia» dei fuorusciti, Pd XVII 62, ma ancora pienamente fedele alla prospettiva politica del guelfismo bianco) Dante si sia trasferito a Bologna, dove in quel momento esistevano condizioni politiche favorevoli per accoglierlo, è secondo me fortemente suggeLII
Introduzione
rito — certo in mancanza di prove documentarie — da come è fatto il De vul/gari eloquentia, cioè dai vari elementi che sono via via emersi nelle pagine precedenti.
Le ragioni addotte in passato a favore di un legame fra Bologna e il De vu/gari, che per esempio hanno indotto Marigo a scrivere che il trattato «fu verosimilmente meditato e preparato nella materia di studio a Bologna e fu steso forse a Verona» (p. XXVI), sono la particolare conoscenza che Dante mostra del dialetto bolognese, in generale la disponibilità di libri di cultura universitaria, e il
rapporto con le artes dictandi. Se la mia analisi è giusta, nel testo c’è molto di più che
lo radica a Bologna. Ripeto che questo ragionamento configura l’ipotesi che Dante abbia scritto qui il trattato, in assenza di qualunque documento a lui relativo in quegli anni. Ma ritengo corretto ragionare sui dati disponibili formulando, se si è maturata una convinzione, conside-
razioni chiare e nette, in quanto tali meglio “falsificabili”, in senso epistemologico, e quindi più utili al progresso delle conoscenze. Dunque, ancor più che indizi del fatto che il trattato sia stato scritto 4 Bologna, io vedo in esso indizi che sia stato scritto per Bologna. Non escludendo che Dante possa aver iniziato a lavorare all'idea del De vu/gari durante il soggiorno veronese (potrebbe farlo pensare il riferimento di II VI 7 a libri molto rari posseduti dalla Biblioteca Capitolare di Verona), gli indizi che il testo quale è stato scritto sia stato scritto per Bologna sono a mio avviso i seguenti: la dicotomia fra volgari lombardi e romagnoli (I XIV 2-5) costruita per esaltare la centralità di Bologna; il primato estetico di conseguenza assegnato al volgare bolognese (XV 2-6) e lo sguardo ravvicinato sulla sua interna varietà sociolinguistica (IX 4); il gruppo dei poeti bolognesi (XV 6) con l’avamposto faentino (XIV 3), con ciò che dicono i loro nomi, le loro biografie, le loro connotazioni politiche e le loro relazioni; la benevolenza verso gli alleati romagnoli e la stronLIII
Introduzione
catura dei nemici ferraresi, modenesi e reggiani; il grande
ruolo accordato a Cino da Pistoia (I X 2, XII 4, XVII 3; II
II 8, V 4, VI 6), giurista di scuola bolognese e privilegiato corrispondente poetico di Onesto; l’evidente interesse per il pubblico universitario e per quello delle artes dictandi; l'esibizione di cultura filosofica e di cultura dettatoria; infi-
ne il contenuto degli esempi retorici “dettati” da Dante (II VI 4), scritti per indurre simpatia per l’esilio suo e degli altri fiorentini bianchi e insieme per eccitare all’indignazione e allo scherno contro i temibilissimi nemici comuni di quegli esuli e del Comune bolognese: il marchese d’Este e Carlo di Valois. La compresenza di tutti questi elementi, ognuno dei quali dà senso solo in funzione di Bologna, o quasi, a me sembra francamente molto significativa. Se è così — proseguendo con lo stesso ragionamento — il rovesciamento del regime bianco nel febbraio 1306, quando il prevalere della Pars Marchexana porterà Bologna «a sottoscrivere un patto con la Firenze dei Della Tosa “ad conculcationem, depressionem, exterminium atque mortem perpetuam ghibellinorum et alborum”» (Carpi 2004, p. 480), mi sembra che possa essere invocato come una buona ragione per cui il trattato è rimasto interrotto a metà
di un capitolo. Non solo per la presumibile fretta, in quel caso, di salvare la pelle; ma anche perché, se di lì Dante si
trasferì presso Moroello Malaspina, dove lo troviamo che assume un incarico ufficiale di fiducia già il 6 ottobre, e al quale sarebbe plausibile che proprio Cino lo avesse introdotto, il trattato diventava totalmente inservibile. Cer-
to per Dante non sarebbe stato il caso di portare a termine
un’opera scritta per una città dove non poteva più met-
tere piede, né di rifinire la teoria della futura Curia imperiale italiana per il capo dei guelfi neri toscani. Se l’ipotesi qui avanzata è giusta, il testo porta segni così profondi della congiuntura biografica entro la quale è stato concepito da non resistere alla distruzione di quello stato di cose. LIV
Nota al testo
Il testo del De vulgari eloquentia qui riprodotto è quello fissato dall’edizione critica di Pier Vincenzo Mengaldo (1968), tranne che
nei punti sotto elencati. Perché il lettore possa seguire queste e altre discussioni testuali diffuse nel commento, è necessario richiamare le informazioni essenziali sulla tradizione del testo (cfr. la voce De vu/gari eloquentia — Tradizione manoscritta di P.G. Ricci, in ED, pp. 399-401). I manoscritti utili alla costituzione del testo sono tre: B = Berlino, Staatsbibliothek, lat. folio 437, secolo XIV metà G = Grenoble, Bibliothèque Civique, n. 580, secolo XIV fine T = Milano, Biblioteca Trivulziana, n. 1088, secolo XIV fine.
Il ms. G è riprodotto in fototipia in Maignien 1892, il ms. B in Bertalot 1922. Secondo gli studi più recenti, l’origine di T e G, già assegnata a Padova da Rajna 1896 (pp. XI-XLIII) e Billanovich 1947 (pp. 13-9), e come tale passata in giudicato, si può solo considerare genericamente settentrionale (certo senza escludere Padova, a cui richiamano nomi di possessori dal Quattrocento in poi): cfr. Pulsoni 2006. Quanto all’origine di B, stante l'opinione consolidata secondo la quale «tra Bologna e Firenze (o la Toscana) si dividono le ipotesi degli studiosi, entrambe non fondate su elementi discriminanti», men-
tre «si può solo ritenere probabilissimo, per non dire certo, che il copista era settentrionale» (Mengaldo 1968, p. CIV), Bologna 2006 avanza l’audace suggerimento che il manoscritto nella sua interezza (commento a Valerio Massimo di Dionigi da Borgo San Sepolcro, Monarchia e De vulgari eloquentia) rifletta un progetto editoriale maturato nella Napoli angioina con il coinvolgimento del Petrarca. Il primo dei tre manoscritti a venire alla luce, dopo una sostanziale eclissi del testo durata per due secoli, fu T, acquistato da Giovan Giorgio Trissino agli inizi del Cinquecento probabilmente a Padova. Sulla base di T egli produsse il volgarizzamento che pubblicò nel 1529. Il secondo manoscritto a entrare in circolazione fu G, scoper-
to dall’abate Piero del Bene in una chiesa padovana nel 1570 e da lui donato al fuoruscito fiorentino Jacopo Corbinelli, che su di esso basò la sua editio princeps pubblicata a Parigi nel 1577. LV
Nota al testo
Il filologo senese Celso Cittadini, agli inizi del Seicento, volgarizzò il trattato dall’editio princeps tenendo presente la versione del Trissino. Questo volgarizzamento, in brutta copia completa e in trascrizione in pulito quasi completa, è contenuto nel manoscritto autografo Rossiano 1118 della Biblioteca Apostolica Vaticana ed è edito in Pistolesi 1998. Solo nel 1917 il filologo svizzero Ludwig Bertalot scoprì presso la Staatsbibliothek di Berlino il ms. B, che rappresenta un ramo della tradizione indipendente da quello al quale appartengono entrambi i manoscritti fino ad allora noti. Infatti, in base a un alto numero di errori congiuntivi e a un sufficiente numero di errori separativi, si-
stematizzati da Mengaldo 1968, pp. CVII-CXII, i rapporti fra i tre testimoni si configurano in questo stemma, dove x rappresenta l’archetipo, individuato da alcuni errori congiuntivi comuni all’intera tradizione, e y rappresenta l’antigrafo comune di T e G (che potrà derivare da x attraverso un intermediario). Autografo
"d E
De
Il ms. B rappresenta una tradizione notevolmente più corretta di quella di GT. Si è discusso se e in che misura questo sia eventualmente il risultato di un’intelligente e subdola azione correttrice.
Ciò premesso, i punti in cui la presente edizione si discosta dall’edizione critica Mengaldo (la quale a sua volta, nella maggioranza di questi casi, coincide con edizioni precedenti) sono i seguenti (la lezione a testo precede quella dell’edizione Mengaldo, le parti modificate sono in grassetto).! Le ragioni dei cambiamenti proposti 1 Tralascio altri ritocchi di interpunzione poco rilevanti ai fini della lettura sintattica e dell’interpretazione. Dell’edizione Mengaldo conservo leparentesi uncinate < >per racchiudere parole mancanti nei manoscritti integrate dall’editore. LVI
Nota al testo
sono argomentate nelle relative note di commento e sono qui brevemente riassunte.
I 1 2: Sed quia unamquanque doctrinam oportet non probare, sed suum aperire subiectum, ut sciatur quid sit super quod illa ver satur dicimus, celeriter actendentes, quod vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt.] Sed quia unamquanque doctrinam oportet non probare, sed suum aperire subiectum, ut sciatur quid sit super quod illa versatur, dicimus, celeriter actendentes, quod vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt. Ritengo che la finale «ut sciatur...» sia retta dalla principale «dicimus», non dalla causale «Sed quia unamquanque doctrinam...». I Iv 5: Oritur et hinc ista questio, cum dicimus superius per viam responsionis hominem primum fuisse locutum, si responsio fuit, ad Deum: nam, si ad Deum fuit, iam videretur quod Deus locutus ex-
titisset, quod contra superius prelibata videtur insurgere.] Oritur et hinc ista questio, cum dicimus superius per viam responsionis hominem primum fuisse locutum, si responsio fuit ad Deum: nam, si ad Deum fuit, iam videretur quod Deus locutus extitisset, quod con-
tra superius prelibata videtur insurgere. La «questio» non è, ritengo, se la risposta di Adamo sia stata diretta a Dio, ma se le parole che rivolse a Dio furono una risposta, e non una domanda. I IX 10: necesse est ut disiunctim abmotimque morantibus varie varietur, ceu varie variantur mores et habitus qui nec natura nec consortio confirmantur sed humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur.] necesse est ut disiunctim abmotimque morantibus varie varietur, ceu varie variantur mores et habitus, qui nec natura nec consortio confirmantur, sed humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur. La relativa «qui nec natura...» è restrittiva, non appositiva.
I x 2: secundo quia magis videtur initi gramatice que comunis est] secundo quia magis videntur initi gramatice que comunis est Per molte ragioni è da considerare soggetto il volgare italiano, non i poeti italiani; e dunque è da mantenere il tradizionale emen-
damento della lezione «videntur» di GT (B omette), tanto più dati i frequenti inserimenti erronei di nelle carte circostanti.
LVII
Nota al testo
I x11I 2: Bene andonno li fanti de Fiorensa per Pisa.] Bene andonno li fatti de Fiorensa per Pisa. Di fronte a due lezioni ugualmente possibili («fanti» GT, «facti» B), mi risolvo a preferire, come Marigo, la prima, per il fatto che la parola fanti collega il passo a {XXI 94-6, ricordo dell’espugnazione della rocca di Caprona impresso nella memoria di Dante. I XIV 5: Hoc omnes qui maia! dicunt, Brixianos videlicet, Veronenses et Vigentinos, habet;] Hoc omnes qui magara dicunt, Brixianos videlicet, Veronenses et Vigentinos, habet; La lezione «magara», invalsa da secoli, non ha fondamento nei manoscritti, che hanno «mara» B, «mar(r)a» GT, e ha attestazioni solo
meridionali in italiano antico. L’emendamento «maia!» ‘mangia!’ (o
«maiar» ‘mangiare’), di Bertoletti 2010, coglie una voce molto carat-
teristica del veronese e dei volgari lombardi limitrofi. I XIV 6: Per le plage de Dio tu no veras] Per le plaghe di Dio tu no verras Opto, sulla scia di Stussi 1966, per le tre varianti più veneziane: nei casi di «plage» e «de» proprie del ramo GT contro B; nel caso di «veras» lezione singolare di G. I XIV 7: Inter quos omnes unum vidimus nitentem divertere a materno et ad curiale vulgare intendere, videlicet Ildebrandinum Paduanum.] Inter quos omnes unum audividimus nitentem divertere a materno et ad curiale vulgare intendere, videlicet Ildebrandinum Paduanum. La lezione «vidimus» di GT sembra preferibile all’«audivimus» di B per il rapporto di conoscenza diretta del rimatore padovano da parte di Dante.
I XVI 3-4: In quantum ut homines latini agimus, quedam habemus simplicissima signa et morum et habituum et locutionis, quibus latine actiones ponderantur et mensurantur: que quidem nobilissima sunt earum que Latinorum sunt actiones. [4] Hec nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt.] in quantum ut homines latini agimus, quedam habemus simplicissima signa et morum et habituum et locutionis, quibus latine actiones ponderantur et mensurantur. [4] Que quidem nobilissima sunt earum que Latinorum sunt actiones, hec nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt. «Que quidem» non è pronome relativo senza antecedente, prolettico rispetto a «hec»; ma è, come in tutte le altre occorrenze di questo sintagma, normale pronome relativo con antecedente («simLVII
Nota al testo
plicissima signa»), che chiude il periodo precedente con l’affermazione che i segni più semplici sono anche, in quanto tali, i più nobili. II 1 3: quare si quis versificator, quanquam rude versificetur, ipsum sue ruditati admisceat, non solum bene facere, sed ipsum sic
facere oportere videtur] quare si quis versificator, quanquam rude versificetur, ipsum sue ruditati admisceat, non solum bene facit, sed
ipsum sic facere oportere videtur L'indicativo assertivo «facit» di B (GT omettono) fa dire a Dante il contrario di ciò che tutto il passo vuol dire. L'emendamento «facere» proposto dal Rajna (1896) ripristina il senso logico, allineando «facere» a «facere oportere» sotto la comune reggenza di «videtur». II I 4: ethuiusmodi comparationes non fiant nisi per respectum
ad terminum meritorum quem dignitatem dicimus] et huiusmodi comparationes non fiant nisi per respectum ad terminum merito-
rum, quem dignitatem dicimus La relativa è restrittiva, non appositiva. II MN 4: Prima quidem quia, cum quicquid versificamur sit cantio, sole cantiones hoc vocabulum sibi sortite sunt, quod nunquam sine venusta provisione processit.] Prima quidem quia, cum quic-
quid versificamur sit cantio, sole cantiones hoc vocabulum sibi sortite sunt: quod nunquam sine vetusta provisione processit. In un passo che rimane problematico, la lezione «venusta» di B
sembra preferibile al «vetusta» ricavato dal «vestuta» di GT. II VI 7: Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui nisi sunt altissimas prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et
multos alios quos amica sollicitudo nos visitare invitat.] Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimas prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et multos alios quos amica
sollicitudo nos visitare invitat. La lezione unanime della tradizione, «nisi», erroneamente interpretata come congiunzione e quindi emendata in «usi» fin dal Cinquecento, con ciò creando una lezione insoddisfacente sia semanticamente che sintatticamente, è invece perfetta in quanto participio passato di ritor ‘partorire’, autorizzato da Uguccione.
LIX
Nota al testo
II VII 4: nec silvestria propter austeritatem, ut greggi4 et creta]
nec silvestria propter austeritatem, ut greggsa et cetra Data la lezione «et cetera» dei manoscritti, l'’emendamento «et creta» non è più oneroso ed è più conforme alla qualità lessicale richiesta dal passo. II IX 4: Tota igitur ars cantionis circa tria videtur consistere] Tota igitur scilicet ars cantionis circa tria videtur consistere
La lezione «igitur» di GT è preferibile alla sequenza «igitur scilicet» di B, estremamente difficile da giustificare e interpretabile come compresenza di lezioni alternative nell’archetipo mantenuta da B e risolta dall’antigrafo di GT. II IX 5: quod, si de propria cantionis arte rithimus esset, minime liceret.] quod, si de propria cantionis arte rithimus esset, minime liceret — quod dictum est. In un passo che rimane problematico, la lezione «minime liceret quod dictum est» dei manoscritti è molto difficile da giustificare.
II XI 8: Nec per se ibi carmen est omnino, sed pars endecasillabi tantum ad rithimum precedentis carminis velut econ respondens.] Nec per se ibi carmen est omnino, sed pars endecasillabi tantum, ad rithimum precedentis carminis velut econ respondens.
La relativa implicita «ad rithimum ... respondens» sembra più restrittiva che appositiva («/z parte dell’endecasillabo che...»), dato che è la rima interna a creare il trisillabo. II XII 6: Quidam alii sunt, et fere omnes, cantionum inventores qui nullum in stantia carmen incomitatum relinquunt quin sibi rithimi concrepantiam reddant, vel unius vel plurium.] Quidam alii sunt, et fere omnes cantionum inventores, qui nullum in stantia car-
men incomitatum relinquunt quin sibi rithimi concrepantiam reddant, vel unius vel plurium. La lettura sintattica adottata fin dalle prime edizioni isola i «cantionum inventores» come sottogruppo di «Quidam alii» (pronome), i quali si dovrebbero quindi intendere come poeti in generale, anche di altri tipi di componimento, di cui però il trattato non parla. L'aporia non si dà con la nuova interpunzione.
LX
Ringraziamenti Ringrazio vivamente, oltre a Marco Santagata, gli altri amici che hanno letto in tutto o in parte il commento e mi hanno dato preziosi suggerimenti: Gabriella Albanese, Pietro Beltrami, Maria Clotilde Camboni, Umberto Carpi, Stefano Carrai, Mila De Santis, Gianfranco Fioravanti, Fabrizio Franceschini, Claudio Giunta, Roberto Greci, Gianfranco Lotito, Paolo Mastandrea, Giuliano Milani, Paolo Pontari, Irène Rosier-Catach, Alfredo Stussi. Essi ovviamen-
te non sono in alcun modo corresponsabili delle tesi qui sostenute.
LXI
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LXIV
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De vulgari eloquentia Edizioni e traduzioni
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Bertalot 1922 L. Bertalot, I/ codice B del «De vulgari eloquentia», in «La Bibliofilia», dicembre 1922, pp. 261-4 (più riproduzione facsimilare del ms. B in 4 fogli [8 pagine] numerati 95-8). Cecchin 1983 De vulgari eloquentia, a c. di S. Cecchin, in Opere minori di Dante Alighieri, a c. di G. Bàrberi Squarotti, S. Cecchin, A. Jacomuzzi, M.G. Stassi, UTET, Torino 1983, pp. 353-533. Cittadini post 1600. Celso Cittadini, Del parlar volgare di Dante, volgarizzamento autografo, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Ross. 1118, edito in E. Pistolesi, I/ «De vulgari eloquentia» di Dante nella riflessione linguistica di Celso Cittadini, in «Bullettino senese di storia patria», CV (1998), pp. 109-309, alle pp. 174-233. Coletti 1991
De Vulgari eloqguentia, a c. di V. Coletti, Garzanti,
Milano 1991. _LXV
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1577 (editio princeps). Fraticelli 1840 Dantis Aligherii De vu/gari eloquio sive idiomate libri duo ... cum disquisitionibus atque italica interpretatione P. Fraticelli, Allegrini et Mazzoni, Florentiae 1840.
Fraticelli 1857 La vita nuova, i trattati De vulgari eloquio, De monarchia, e la questione De aqua et terra di Dante Alighieri, con traduzione italiana delle opere scritte latinamente e note e illustrazioni di P. Fraticelli, Barbèra, Bianchi e comp., Firenze 1857.
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XCVIII
De vulgari eloquentia
Liber primus
I. Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam inveniamus tractasse, atque talem scilicet eloquentiam penitus omnibus necessariam videamus, cum ad
eam non tantum viri sed etiam mulieres et parvuli nitantur, in quantum natura permictit, volentes discretionem I 1. CUM NEMINEM... INVENIAMUS TRACTASSE: la prima cosa che Dante vuol annunciare è l'assoluta novità della sua trattazione. Questo
annuncio, se in generale corrisponde a un topos ricorrente (ma non altrettanto perentorio) nella trattatistica retorica latina, nelle poetrie medievali e nei trattati di versificazione provenzale, nella fattispecie ha un’inconfondibile impronta dantesca. Drastico nel negare qualunque anche minimo precedente («Cum nerziner ... quicquam inveniamus tractasse», azzerando anche la Rettorica del maestro Brunetto Latini), francamente egocentrico («Cum neminem ante ros»,
«aquam mostri ingenti», e tutta la gestione del discorso, con plurale maiestatis, in una forte prima persona autoriale), fa serie con analoghi annunci che marcano ogni opera di Dante. Contini 1970 (1965), p. 399, per illustrare «quel suo ricorrente topos del nuovo», richiama «il proponimento “di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”, alla fine della Vita nuova [31. 2); “la novità che per tua forma luce, / che non fu mai pensata in alcun tempo”, nella sestina doppia [Arzor, tu vedi ben 65-6); “novum aliquid atque intentatum artis”, di essa appunto nel De vx/gar: [II XIN 13], che a sua volta si apre vantando il proprio inedito contenuto ...; “maxime latens” e “ab omnibus intentata” la materia della Monarchia, il cui autore conseguirà “palmam tanti bravii primus in su27 gloriam” [I I 5)», senza contare l’«inaudita novità» della Commedia, «l’acqua ch’io prendo già mai non si corse» (Pd II 7), ecc. La dichiarazione di novità, peraltro, è
del tutto giustificata. Imodesti precedenti occitani noti in Italia, quali il Donatz proensals di Uc Faidit, le Razos de trobar di Raimon Vidal, la Doctrina d’acort di Terramagnino da Pisa e le Regles de trobar di Jotre de Foixà, «trattatelli di frammentaria dottrina grammaticale e 2
Libro primo
I. Poiché non ci risulta che nessuno prima di noi abbia minimamente coltivato la dottrina dell’eloquenza volgare, e poiché vediamo che proprio tale eloquenza è profondamente necessaria a tutti, dato che ad essa tendono
non solo gli uomini ma anche, per quanto consente loro la natura, le donne e i bambini; volendo in qualche modo poetica, composti per pratica utilità di chi si dedicava alla versificazione provenzale» (Marzgo), nonché le varie Artes dictaminis in vol-
gare, sono infinitamente lontani dall’ambizione teorica totalizzante del De vulgari, che inquadra la trattazione retorica e poetica in un pensiero sistematico audacemente misto di filosofia, teologia, esegesi biblica, storia, geografia e visione politica (vedi la metafora del
«dulcissimum ydromellum»). DE VULGARIS ELOQUENTIE DOCTRINA: da qui si estrapola il titolo del trattato, come da Cv I V 10 «Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza». L'intenzione di trattare «doctrinam de vulgari eloquentia» è ribadita alla fine del
libro I (XIX 2).
ATQUE TALEM ... PRODESSE TEMPTABIMUS: l’elo-
quenza volgare, non trattata da nessuno (perché i dotti, secondo la parallela polemica del Convivio, si dedicano solo, utilitaristicamente, alla Zitteratura in latino, trascurando l’utilità sociale del sapere), è
invece universalmente necessaria, quanto è universale la vu/garis locutio (vedi $ 2 sgg.) di cui la vu/garis eloquentia è la forma retoricamente coltivata. Dante quindi, investito della stessa missione educatrice che anima il Convivio, tenterà di giovare alla locutio delle genti illetterate («la chiosa esatta è Cv I IX 5 “volgari e non litterati” (e ibid., 8)», Mengaldo): cioè al loro parlare, alla loro capacità di esprimersi. Fin da questa prima occorrenza, il termine-chiave /ocuti0, deverbale formato da /ogui con il più tipico suffisso dei nomi di azioni, il suffisso -t0, -si0, ha lo stesso significato del verbo (/ocutio = loqui,
come actio = agere, ecc.), cioè significa ‘il parlare’, ‘la parola”, ‘l’espressione linguistica’, ovvero ‘il linguaggio” colto nella sua essenza di at3
De vulgari eloquentia
aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambulant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes, Verbo aspirante de celis locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum aurientes, sed, accipiendo vel compilando tività
e mezzo di comunicazione (vedi l’Introduzione, pp. VI-
VII). ‘TANQUAM CECI AMBULANT PER PLATEAS: «l’immagine del cieco che ar2bulat a vuoto è topica in testi retorici e dettatorii» (Mengaldo, con citazioni da Goffredo di Vinsauf, Boncompagno da Signa, Guido Faba); ma specificamente il rimando è alle Lamzentazioni di Geremia. Testo già caro al Dante della Vita Nova, dove modella la
lamentanza per l’assenza di Beatrice (2. 13) o significa il vuoto lasciato nella città dalla morte di lei (19. 1), qui lega l’ignoranza retorica delle genti illetterate non solo, attraverso le piazze, alla dimensione urbana, ma alla città per eccellenza punita per i suoi peccati, Gerusalemme assediata: con connotazioni drammatiche — 4, 14 «er-
raverunt caeci in plateis polluti sunt sanguine» — che prefigurano il risentito antimunicipalismo dei capp. XI-XV. ANTERIORA POSTERIORA PUTANTES: può significare che il cieco «crede di aver già percorso (posteriora) uno spazio che è ancora da percorrere (anteriora)» (Marigo); o alludere «ad inversione del retto cammino, e predicativo sarà piuttosto arteriora» (Mengaldo). Sembra più naturale che predicativo sia posteriora, «secondo l’ordine regolare delle parole nel costrutto latino» (Marigo), come dire chi non vede quello che ha davanti agli occhi. Può significare un disorientamento a 360 gradi (già che siamo in una piazza, non in una strada), trovandosi del tutto privi di punti di riferimento. VERBO ASPIRANTE DE CELIS: Dante invoca l'ispirazione divina, usando lo stesso verbo 4(d)spirare che usano Virgilio (Ae. IX 525 «Vos, o Calliope, precor, aspirate canenti») e Ovidio (Mer. I 2-3 «di, coeptis ... / adspirate meis»). Egli invoca Dio anche all’inizio della Monarchia (II 6 «Arduum quidem opus et ultra vires aggredior, non tam de propria virtute confidens, quam de lumine Largitoris illius “qui dat omnibus affluenter et non improperat») e, sotto veste di Muse, Calliope, Apollo, all’inizio delle tre cantiche (IfI1 7, Pg17-12, P41 13-36); è anche pertinente Pg XXIV 52-4 «I mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e’ ditta dentro vo significando». Qui, come nota Mengaldo, «l’in-
vocazione al Verbo è più specifica in senso retorico e sottintende
l'equazione, corrente a partire da san Gerolamo, Verbum-verbum», con rimando a Curtius 1992 (1948), p. 263 nota 22: «Il concetto di
verbum/ Verbum (eloquenza/Cristo) risale forse alla prima lettera di 4
De vulgari eloquentia I I 1
illuminare il discernimento di quanti vagano come ciechi per le piazze, per lo più credendo di avere dietro le spalle quello che hanno davanti agli occhi, tenteremo di giovare, ispirandoci il Verbo dal cielo, al parlare delle genti illetterate; e, per riempire una coppa così grande, non attin-
geremo solo l’acqua del nostro ingegno, ma vi mescoleremo quanto troveremo di più pregiato, desumendolo e Girolamo: “neque eum posse verbo deficere qui credidisset in Verbo”». PRODESSE: ha preciso riscontro nel verbo giovare che nel Convivio descrive la «liberalitate» nel divulgare il sapere: I VII 3 «Ché dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza dalli beneficî di Dio, che è universalissimo benefattore» e «Però chi giova a molti fa l’uno bene e l’altro; chi giova a uno, fa pur l’un bene». NON SOLUM ... DULCISSIMUM YDROMELLUM: Dante esprime qui l’idea del suo impegno educativo con la metafora del “dar da bere (agli assetati)”, così come nel parallelo esordio del Convivio la esprime con la metafora del “dar da mangiare (agli affamati)”: II 6 «e innumerabili quasi sono li mpediti che di questo cibo [del sapere] sempre vivono affamati»; II 11 «Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata», ecc. Il sapere espresso in volgare è il cibo che Dante offre agli illetterati; la dottrina dell’eloquenza volgare, che fiancheggia teoricamente quell’opera di divulgazione del sapere, è la bevanda che lo stesso Dante offre, se non direttamente agli illetterati, a loro permanente vantaggio. L'«aquam nostri ingenii» trova ri-
scontro in Cv I 19 «sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo,
della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata». Ma mentre al cibo del sapere si accompagna la semplice acqua, la teoria linguistica è una bevanda elaborata, ricca di sapori e virtù. AD TANTUM POCULUM: intendendo poculum come ‘coppa’, significherà la grande sete che deve saziare; oppure, intendendolo come ‘bevanda’, la ricchezza, la densità di questa. La costruzione haurire ad,
molto insolita (né registrata in Uguccione, H 9), dovrà intendersi come ellittica: ‘attingere per riversare in’. In ogni caso il recipiente in cui Dante riversa gli ingredienti non è una coppa individuale ma (come il calix di Geremia, vedi qui di seguito) il contenitore generale, nel quale l’inusitata bevanda si formerà (vedi sotto «dulcissimum ydromellum») e dal quale sarà somministrata a tutte le gen5
De vulgari eloquentia
ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum. [2] Sed quia unamquanque doctrinam oportet non proti. POTIONARE: rimanda a Jer 25, 15 (nella lezione dell’Ita/a) «Accipe calicem hunc et potionabis omnes gentes» (nella Vu/gata: «quia sic dicit Dominus exercituum Deus Israhel sume calicem vini furoris huius de manu mea et propinabis de illo cunctis gentibus ad quas ego mittam te et bibent et turbabuntur et insanient»); passo ripro-
dotto in molti luoghi dei Comzentarii di san Girolamo e nelle Derivationes magnae di Uguccione (fonte lessicografica privilegiata di Dante: Toynbee 1904, e vedi la nota a I II 7), P 117 6. Quindi il ge-
sto profetico punitivo, per ingiunzione divina, di somministrare alle genti un vino che le renda ebbre, si rovescia nella somministrazione,
ispirata dal Verbo, dell’idromello dell’eloquenza volgare, che le faccia rinsavire: secondo riscontro con Geremia in questo primo para-
grafo. Potionare non è il semplice dar da bere, ma il somministrare una pozione, appunto, che può essere venefica o salutifera. DULCISSIMUM YDROMELLUM: sia che Dante intenda con ciò un bydromeli (-itos), bevanda fermentata di acqua e miele; sia che intenda un hbydromelum (-i), bevanda fermentata di acqua e mele, cioè un sidro,
ovvero composita di Sydrorzeli più mele (vedi TLL, s.vv.), con altri possibili ingredienti aromatici, in ogni caso si tratta di una bevanda alcolica, che non si produce mescolando gli ingredienti all’atto di servirla, ma facendola prima fermentare. Le Derivationes magnae di Uguccione rimandano a un processo di cottura che distingue l’ydromellum «scilicet aqua mellita, quod constat ex aqua cocta et melle» dall’ydromzelum «quod fit ex aqua et malis matianis» (I 34 5-6), il primo detto anche «MEDO -nis ex aqua cocta et melle conficitur, idem ydromellum» (M 68); e ribadiscono che si tratta di una confectio, una preparazione elaborata: «et hoc ydromel vel ydromellum, ex aqua et melle confectio» (M 74 15). La metafora va dunque intesa nel senso che l’inedita dottrina dell’eloquenza volgare non risulterà da una semplice mescolanza bensì da un processo trasformativo, che non solo amalgama ma genera il nuovo. Poiché questo processo richiede tempo, in exirde si dovrà probabilmente vedere in primo piano, più che il significato locativo (‘da ciò’), il significato temporale (‘in un secondo tempo’, rispetto al mescolamento degli ingredienti), che in effetti è il primo significato in latino, rispecchiato anche dalle frequenze d’uso.
12. SEDQUIA ... APERIRE SUBIECTUM: il subiectw72 del trattato (eti-
mologicamente, ‘ciò che sta sotto’ di esso, ciò ‘su cui’ esso verte) è di fatto il suo argomento, la materia di cui esso tratta. In tale materia rien6
De vulgari eloquentia II 1-2
compilandolo da altri, così da poter poi arrivare a servire un dolcissimo idromello. [2] Ma, poiché nessuna dottrina ha l’obbligo di dimostratrano sia la vulgaris locutio, cioè ‘il parlar volgare’ di base, sia la vu/garis eloquentia che ne deriva e che costituisce il fine del trattato. Questo, infatti, tratta principalmente di vu/garis locutio, e secondariamente di vulgaris eloquentia, nel libro I; di vulgaris eloguentia nel libro Il e, se fossero stati scritti, nei successivi. Che subiectur significhi l'argomento,
la materia di una disciplina, è confermato da vari passi del Convivio in cui si dice che il subietto di una scienza è ciò di cui quella scienza tratta. Per esempio: II XM 17 «nella Scienza naturale è subietto lo corpo mobile»; II xM 30 l’Astrologia «è nobile e alta per nobile e alto subietto,
ch'è dello movimento del cielo»; Il XIV 19 «la divina scienza ... per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio»; III XI 13 «la filosofia ... ha per subietto lo ’ntendere, e per forma uno quasi divino amore allo ’ntelletto»; III XIV 2 «Filosofia per subietto materiale qui ha
la sapienza, e per forma ha amore». Da cui la dittologia sinonimica «materia e subietto» (IV XX 10), «subietto e materia» (II I 11) e «la materia, cioè lo suo subietto» (IT I 10). Invece, secondo l’interpretazione instaurata da Marigo e accettata da Mengaldo, ci sarebbe opposizione fra il subiectum dell’opera e il suo argomento o materia che dir si voglia: Dante intenderebbe dire che il subiecturz, cioè «il fondamento suo primo», il «presupposto fondamentale della dottrina» (Marigo), ovvero il suo «principio» o «fondamento» (Merngaldo), sarebbe la vulgaris locutio, mentre l’«argomento» o «materia» sarebbe la vw/garis eloquentia. Ma non mi pare che questa opposizione trovi riscontro nel testo, dove non c’è un termine distinto da subiectum che individui ‘argomento’ o ‘materia’, e dove l’intenzione di pertractare anzitutto la vulgaris locutio è esplicita (I I 5), né negli altri passi danteschi e nelle fonti filosofiche addotte. Ritengo piuttosto che si evinca dal nostro passo l’opposizione fra probare e aperire, termini scolastici che significano, rispettivamente, ‘dimostrare l’esistenza e l’essenza’ del subiectur e ‘svilupparlo’, ‘spiegarlo’, ‘dischiuderne’, appunto, i contenuti. Quanto a probare, la dichiarazione di Dante che a nessuna disciplina compete «probare ... suum ... subiectum» era un luogo comune scolastico: per esempio san Tommaso, Expositio libri Posteriorum Analyticorum I, |. 2, n. 3 «de subiecto
oportet praecognoscere et quid est et quia est»; e all’inizio della Surma Theologiae (I, q. 1, a. 7, arg. 1): «in qualibet enim scientia oportet supponere de subiecto quid est, secundum philosophum in I Poster». Quanto ad aperire, «ostendere, prodere, patefacere sive factis sive dictis», «obscura inlustrare, explicare, exponere», secondo le definizioni
II.2.a e II.2.b del TLL (e si confrontino, in volgare, gli esempi due- e 7
De vulgari eloquentia
bare, sed suum aperire subiectum, ut sciatur quid sit super quod illa versatur dicimus, celeriter actendentes, quod vul-
garem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt;
vel, quod brevius dici potest, vulgarem locutionem asserimus quam sine omni regula nutricem imitantes accipi-
mus. [3] Est et inde alia locutio secundaria nobis, quam trecenteschi nel GDLI, s.v. aperire, 28), le numerose occorrenze del ter-
mine in Dante (cfr. DanteSearch) sono univoche: dalla Vita Nova, dove intende aprire in prosa «la sentenzia» (7. 13), o «lo ’ntendimento» (10.
33), o «la ragione» (16. 8) della poesia; al Convivz0, in cui il commento adempie a questa stessa funzione rispetto alle canzoni (I VIN 1, Il VII 1 [«la sentenza»], III V 1 [«la sentenza»], III VI 4 [«la sentenza»], IV
1 11 [«alcuna allegoria»]); e cfr. IXII 3 «la sentenza del Filosofo aperta ne l’ottavo e nel nono libro de l’Etica». Ugualmente nella Monarchia: Il VII 9 «certamine vero dupliciter Dei iudicium aperitur», III Il 4 «aperiende veritatis argumenta».
UT SCIATUR ... CELERITER ACTENDEN-
TES: poiché la dottrina non ha l'obbligo di dimostrare l’esistenza e l’essenza del soggetto di cui tratta (semplicemente assume che esso esista,
della sua essenza si occuperà semmai la metafisica), è sufficiente che ne dia una definizione breve, quanto basta per focalizzare di che cosa si sta parlando. Così si spiegano funzionalmente le espressioni «celeriter actendentes» e poi di nuovo «vel, quod brevius dici potest». La finale «ut sciatur quid sit super quod illa versatur», secondo questa interpretazione, dipende dal seguente «dicimus»: per questo tolgo la virgola tra versatur e dicitur delle precedenti edizioni. L'unica altra occorrenza di subiectum nel trattato è in I IM 3 «Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur», proprio perché lì si conclude la rapida fase iniziale dell’argomentazione attinente a probare ilsubiectum di cui si parla, cioè a dire di esso 9154 sit. QUOD VULGAREM LOCUTIONEM ... NUTRICEM IMITANTES ACCIPIMUS: il parlar volgare, ovvero il linguaggio naturale, si definisce subito dall’uso («eam qua infantes assuefiunt») e dalla mancanza di regole («quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus»). 1 3. EST ET INDE ... DOCTRINAMUR IN ILLA: vengono qui oppo-
ste la vulgaris locutio e la locutio secundaria. La vulgaris locutio è universale (e, come si dirà al cap. II, coestensiva con il genere umano: propria di tutti e soltanto gli esseri umani, non posseduta né dagli animali né dagli angeli). La /ocutio secundaria, invece, è posseduta solo da alcuni popoli («Greci ... et alii, sed non omnes») e, all’interno di questi, solo dagli individui scolarizzati, dato che il suo pos8
De vulgari eloquentia I I 2-3
re l’esistenza e l'essenza del proprio soggetto, bensì quello di spiegarlo in tutti i suoi aspetti, perché si sappia che cos'è ciò di cui tratta la nostra dottrina diciamo rapidamente che chiamiamo parlar volgare quello che i bambini acquisiscono con l’uso da chi si prende cura di loro quando cominciano ad articolare le parole; ovvero, come si può dire più in breve, definiamo parlar volgare quello che assorbiamo, al di fuori di qualunque regola, imitando la nutrice. [3] Abbiamo poi un altro linguaggio, di secondo grado, che i rosesso dipende dallo studio riflesso («doctrinamur») ovvero dall’apprendimento delle regole che la governano («regulamur»: mentre al paragrafo precedente la /ocutio vulgaris era definita «sine omni regula»). La vu/garis locutio e la locutio secundaria sono due tipi di espressione linguistica, due forme di linguaggio qualitativamente diverse, naturale la prima, artificiale la seconda: esistono molte
lingue - tutte le lingue volgari — che rientrano nella categoria della vulgaris locutio, cioè del linguaggio naturale; esistono poche lingue — le lingue grammaticali — che rientrano nella categoria della /ocutio secundaria, cioè del linguaggio artificiale, grammaticalmente regolato. ET INDE ... SECUNDARIA NOBIS: inde e secundaria hanno un significato temporale e un significato di derivazione: la /ocutio secundaria si chiama così perché compare ‘per seconda’, ‘dopo’ (inde), sia nella storia dell’umanità sia nella storia dell’individuo; e
perché è una ‘rielaborazione secondaria’ della locutio vulgaris, ‘trat-
ta da’ essa (ide).
QUAM ROMANI GRAMATICAM VOCAVERUNT: se-
condo Marigo qui gramaticam sarebbe da intendere «come aggettivo che specifichi il precedente secundariam», «un’altra lingua di seconda formazione, quella che i romani chiamarono grammatica-
le». Però non ci sono altri esempi in Dante di grarzaticus aggettivo (l’unico potrebbe essere I IX 11 «inventores gramatice facultatis», ma anche lì è più probabile che sia sostantivo: vedi la nota relativa). Qui gramatica è sostantivo, a indicare ‘lingua grammaticale’ in generale (come appunto inIIX 11 eI X 1): significato risultante da generalizzazione del significato di ‘lingua latina”, l’unica lingua grammaticale universalmente nota nel mondo di Dante, come in I X 2, I XI 7,11 VII 6 «in gramatica» (‘in latino’). Nel Convivio, gramatica significa arte del Trivio, e cioè ‘grammatica latina’, in I XII 4, II XI 5, II
XI 8, 9, 10; significa ‘lingua latina’ in II 11 21 e IV VI 3; mentre in I XI 14 «la gramatica greca» significa ‘la lingua greca’, cioè appunto l’altra lingua grammaticale, oltre al latino, di cui fosse nota l’esisten-
AG
De vulgari eloquentia
Romani gramaticam vocaverunt. Hanc quidem secundariam Greci habent et alii, sed non omnes: ad habitum vero huius pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa. za in Occidente. Vediamo quindi attivati in Dante entrambi i significati medievali di grarzatica: disciplina di studio ovvero arte del Trivio; lingua latina (per sineddoche, dato che, non essendo più lingua materna per nessuno, era per tutti la lingua scolastica per eccellenza, identificandosi lo studio della grammatica con lo studio del latino e viceversa); e quindi anche, per estensione, qualunque lingua grammaticale, e una particolare lingua grammaticale diversa dal latino («la gramatica greca»). ROMANI: Dante intende certamente i romani antichi, come costantemente nel Convivio e nella Monar-
chia. Ma gramatica nel senso di lingua latina ovviamente non esiste in latino antico. Anzi, sembra che non esista neanche nei grammatici latini medievali, stando a Thurot 1869, p. 121, che indica questo come un uso terminologico solo italiano, e solo sulla base del nostro
passo: «En Italie on appelait méme le latin grarzzzatica par opposition à la langue vulgaire». È un significato che può nascere e sussistere solo in opposizione alla lingua volgare, all’interno della diglossia medievale. Quest’uso è infatti tipicamente italiano (cfr. la nota al IX 11), e grazie al TLIO ne abbiamo massiccia documentazione
nei testi volgari dalle Origini fin verso la fine del Trecento (l’uso, del resto, continua in italiano addirittura fino al Cinquecento). Per esempio Statuti senesi (1280-97, 1305): «di buona léttara di testo, e
non in grammatica», «scrìvare le dette Constituzioni per gramatica e per volgare»; Statuto dell’Arte degli oliandoli (1310-13): «debiano fare asemplare questo statuto in volgare, sì che quelli che ignorano e non sanno gramatica possino tutti capitoli di questo constituto leggere e [int]endere per volgare»; Libro fiesolano (1290-1342): «vi si puse nome in prulari e chiamasi in gramatica Pise», «si tiene in gramatica e dicesi el suo nome in plulari Sene»; Storie contra i Pagani di Paolo Orosio (1292): «lo libro primo di Paulo Orosio ... translatato della grammatica in volgare per Bono Giamboni»; Zucchero Bencivenni, Esposizione del Paternostro (XIV in.): «elli parla a Dio patrolianto metà in francesco, e metà in gramatica»; Andrea Lancia,
Eneide volgarizzata (1316): «di grammatica in lingua volgare traslatai». Questo uso di grazzatica, dunque, nasce e alligna nell’ambito eminentemente contrastivo dei volgarizzamenti, sia di testi lettera-
ri, sia degli statuti cittadini. E non si esce dall’Italia neanche con il Donatz proensals di Uc Faidit (scritto in Italia e per italiani, proba10
De vulgari eloquentia I I 3
mani hanno chiamato grammatica. Questo linguaggio di secondo grado lo possiedono i greci e altri popoli, ma non tutti: pochi infatti arrivano a padroneggiarlo, dato che non riusciamo a farne nostre le regole e a divenirne esperti se non col tempo e attraverso uno studio assiduo. bilmente intorno al 1240, e tramandato solo da manoscritti italiani: cfr. Marshall 1969, pp. 62-5), che contrappone la grarzatica al vulgar (provengal) (pp. 88, 90, 94, 98, 108, 120, 122, 128); e così nella traduzione latina la gramzatica al vulgare (provinciallis lingue). Le catalane Razos de trobar, invece, oppongono gramzatica a romans. È estremamente significativo che Dante proietti questo uso medievale, e anzi comunale, all’indietro sull’antichità. E forse la spia più acuta della ipostatizzazione della diglossia in cui era immerso. Cfr. Tavoni 2010b,
pp. 55-7.
HANC QUIDEM SECUNDARIAM GRECI HABENT: l’unica al-
tra lingua grammaticale, cioè codificata e descritta da una tradizione grammaticale e appresa per via scolastica, di cui fosse notissima l’esistenza nell’Occidente cristiano (anche se non era nota la lingua), era il greco, che infatti è l’unica lingua qui nominata accanto al latino. Il dominio del greco come lingua di cultura era il dominio bizantino (o bizantino-ortodosso), evocato in I VIII 2 «quos nunc Grecos vocamus, partim Europe, partim Asye occuparunt»; e in I VIII 4 «a finibus Ungarorum versus orientem...». La nozione, diffusa in Occidente, che esistessero diverse lingue particolari greche e una lingua comune doveva far pensare a un modello, diremmo modernamente,
di diglossia analogo a quello vigente nel mondo latino, con la lingua grammaticale sovrastante e unificante una pluralità di lingue volgari dello stesso ceppo. Il passo di Vr 16. 3 «anticamente non erano dicitori d’amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d’amore certi poete in lingua latina; tra noi dico — avegna forse che tra altra gente adivenisse e adivegna ancora — sì come in Grecia, non volgari ma litterati poete queste cose trattavano» (interpunzione mia) certamente allude a una situazione in cui lingua grammaticale e lingua volgare convivono fin dall’antichità (Tavoni 1984b). La novità del De vu/gari è la teorizzazione in termini filosofici di questa acronica diglossia, non la sua esistenza. Della sua esistenza Dante si mostra, incidental-
mente, consapevole, da molto prima del momento in cui la teorizza. ET ALII, SED NON OMNES: questo reticente «et alii» è, come il «forse ... tra altra gente» del passo ora citato della Vita Nova, uno sguardo insicuro verso l’ignoto. Probabilmente Dante intravedeva in questa penombra — ma non ne sapeva abbastanza da poterlo dire, o si rifiutava di farlo per ragioni religiose — gli arabi: terza situazione, Il
De vulgari eloquentia
[4] Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa po-
tius artificialis existat. [5] Et de hac nobiliori nostra est intentio pertractare.
nel Mediterraneo, di lingua scritta di cultura, per di più “sacra”, sovrapposta a diverse lingue volgari di uso quotidiano. Non mi sembra possibile che pensasse anche agli ebrei, per la diversissima natura dell’ebraico, lingua di grazia originaria (I VI 7) risparmiata dalla confusione babelica (I VII 8), dunque estranea anche alla successiva «inventzo gramatice facultatis» (I IX 11). I 4. HARUM QUOQUE DUARUM
... ARTIFICIALIS EXISTAT: Dan-
te, per finire, sintetizza le caratteristiche della vu/garis locutio in op-
posizione alla locutio secundaria: primarietà, universalità, naturalità. Queste caratteristiche fanno sì che la vu/garis locutio venga audacemente giudicata più nobile della /ocutio secundaria. QUOQUE: è nel senso, notato dal glossario di Marzgo (p. 331) con rimando a Prisciano, di ‘e, inoltre’: congiunzione testuale (che si può tradurre con ‘poi’ o si può omettere), che si trova anche in I VHI 6,1 X 2, I XVII 2, II VII
6. NOBILIOREST VULGARIS: è l’esatto opposto di quanto sostenuto nel coevo primo libro del Convivio, dove il latino viene giudicato sovrano, rispetto al volgare, «per nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile» (I V 7). Non vale a spiegare la contraddizione il fatto, pur indubbio, che nel De vulgari il confronto è fra vulgaris locutio e locutio secundaria, nel Convivio fra volgare e latino: non vale perché le lingue specifiche ereditano le caratteristiche ontologiche dei tipi di linguaggio a cui appartengono. Si osserverà piuttosto, in primo luogo, che i due giudizi opposti sono funzionali, in contesti diversi, all’identico scopo di fondo, cioè la promozione della scrittura letteraria in volgare: nel Convivio la maggior nobiltà del latino serve appunto a giustificare perché sarebbe stato sbagliato scrivere in questa lingua il commento in prosa alle canzoni. Non è quindi escluso un certo grado di disinvoltura tattica, ferma restando la finalità strategica. In secon-
do luogo, le caratteristiche focalizzate sono diverse nei due casi (primarietà, universalità, naturalità della vu/garis locutio nel De vulgari; stabilità e non corruttibilità del latino nel Convivio). Ma la stabilità e non corruttibilità del latino derivano precisamente dalla sua artificialità, come argomentato qui in I IX 11. Per cui, restando stabili 12
De vulgari eloquentia I I 4-5
[4] Di questi due, il più nobile è quello volgare: sia perché è stato usato dal genere umano per primo; sia perché
ne fruisce il mondo intero, per quanto sia diviso in diverse pronunce e in diverse parole; sia perché ci è naturale, mentre l’altro è, piuttosto, artificiale.
[5] E di questo nostro linguaggio più nobile che intendiamo trattare. le caratteristiche contrastive, ciò che si rovescia è il valore a esse at-
tribuito. In ciò sembra introdursi un approfondimento concettuale, coerente con la focalizzazione linguistica del De vu/gari e con l’ampliamento dell’orizzonte teorico dall’opposizione empirica volgare/ latino alla più rivelatrice opposizione generale vulgaris locutio/locutio secundaria. Il confronto svela dunque anche un indizio di cronologia relativa. Sembra che, passando dalla scrittura del primo libro del Convivio a quella del De vulgari, Dante scopra, sotto lo svantaggio vistoso della instabilità del volgare, il pregio nascosto della sua naturalità. Dunque, sotto uno svantaggio pragmatico, un pregio filosoficamente, e addirittura teologicamente, fondamentale: perché la natura deriva direttamente da Dio, mentre l’arte imita la natura,
«sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote» (If XI 105; e Mr I MI 2 «ge-
nus humanum Deus ecternus arte sua, que natura est, in esse producit»). L'evoluzione sembra proprio andare in questo verso, il che concorda coi tempi verbali dell’annuncio, limitrofo al passo appena citato: «Di questo s7 parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza» (CvI V 10). PROLATIONES ET VOCABULA: prolationes significa ‘pronun-
ce’ (fatto fonetico), non ‘desinenze’ (fatto morfologico): vedi la nota al vI14. La vulgaris locutio, il modo naturale di parlare, si differenzia in tante lingue volgari, diverse per fonetica/morfologia e per lessico. I 5. ET DE HAC.... INTENTIO PERTRACTARE: intenzione adem-
piuta per tutto il libro I, che dall’inizio alla fine tratta di vulgaris locutio (confermando che essa rientra a pieno titolo nel subiectur del trattato: cfr. qui $ 2). Solo dal cap. XI accanto a fatti di locutzo cominciano a emergere le manifestazioni della lingua poetica che poi si costituiranno come vulgare illustre, e solo alla fine del libro I Dante riporterà esplicitamente l’attenzione sulla vu/garis eloquentia: I XIX 2 «Et quia intentio nostra, ut polliciti sumus in principio huius operis, est doctrinam de vulgari eloquentia tradere». Nel comparativo robiliori è ribadito l'assunto rivoluzionario posto nel paragrafo precedente. 13
De vulgari eloquentia
II. Hec est nostra vera prima locutio. Non dico autem “nostra” ut et aliam sit esse locutionem quam hominis: nam eorum que sunt omnium soli homini datum est loqui, cum solum sibi necessarium fuerit. [2] Non angelis,
non inferioribus animalibus necessarium fuit loqui, sed nequicquam datum fuisset eis: quod nempe facere natura aborret. II 1. HEC EST ... PRIMA LOCUTIO: ribadisce la primarietà della /ocutio vulgaris (sia rispetto alla specie che all’individuo, onto- e filogeneticamente), che ne definisce l'essenza: in quanto primaria, la locutio vulgaris è il ‘vero’ linguaggio dell’uomo (perché fa parte della sua natura, mentre la grarzazica è secondaria e artificiale).
SIT ESSE: est se-
guito da infinito significa, come nel latino della Vu/gata, ‘è possibile che’ (Marigo, glossario, p. 325: costruzione iterata in I XIX 1 «Nam sicut quoddam vulgare est invenire quod», ecc.). SOLI HOMINI... NE-
CESSARIUM FUERIT: è l’assunto di questo cap. II, mentre il cap. III sarà dedicato a dimostrare perché il parlare fu necessario all'uomo. Dopo aver caratterizzato la /ocutio come propria del genere umano (114 «tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur»), Dante ritiene fondamentale dimostrare — per le ragioni che appariranno chiare alla fine della dimostrazione — che è esclusiva di esso. Stbi è riferito a persona diversa dal soggetto grammaticale della frase, come in I Il 8 (replica della nostra), II XII 10, ein Mx II IV 3, ecc.
Il 2. NON ANGELIS ... FUIT LOQUI: che la parola sia facoltà esclusiva dell’uomo si specifica per Dante in opposizione alle creature superiori, gli angeli, e alle creature inferiori, gli altri animali. Una doppia e simultanea opposizione che è originale di Dante, qui come in Co III VII 9 («Onde è da sapere che solamente l’uomo intra li animali parla, ed ha
reggimenti ed atti che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione»), anche là conseguente alla posizione intermedia dell’uomo nel continuum dell’«ordine intellettuale de l’universo», tale che «tra l’an-
gelica natura, che è cosa intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno ... e tra l’anima umana e l’anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia» (III VII 6). Oggi, dopo tre decenni di ricerche sulla lingua degli angeli e su quella degli animali nella teologia e nella filosofia medievali, le più probabili fonti messe a frutto da Dante restano quelle indicate da Marigo, e cioè: un passo della Sententia libri Politicorum di san Tommaso; altri luoghi di san Tommaso, dal De veritate, dallo Scriptum super Sententiis, dalla Summa contra Gen-
tiles e dalla Summa Theologiae; e da Mengaldo, e cioè: una pagina dallo Speculum historiale o dallo Speculum naturale di Vincenzo di Beau14
De vulgari eloquentia I Il 1-2
II. Questo è il nostro vero, primo linguaggio. Ma non dico “nostro” come se potesse esisterne uno distinto da quello dell’uomo: infatti, fra tutti gli esseri solo all’uomo fu dato di parlare, perché solo a lui risultò necessario. [2]
Il parlare non fu necessario agli angeli, non agli animali inferiori, anzi sarebbe stato dato loro inutilmente: cosa
che la natura rifugge dal fare. vais; alcuni passi di Egidio Romano, De regirzine principum, nonché il passo iniziale del De regno di san Tommaso (vedi $ 5). Ma è possibile capire meglio il senso della ricerca dantesca, cioè l’originale e orientata strategia di selezione-combinazione dei concetti e strutturazione argomentativa imposta all’informazione reperita in queste fonti scolasti-
che.
SED NEQUICQUAM ... NATURA ABORRET: il concetto che la natura
non fa nulla invano — peraltro comune in Aristotele e nella Scolastica,
e «spesso ripetuto e variato da Dante (Cv III Xv 8-9; IV XXIV 10; Pd VII 113-4...)» (Mergaldo) — individua come fonte esatta il passo iniziale della Sententia libri Politicorum di san Tommaso (I, 1. 1, nn. 28-9)
che contestualmente focalizza l'opposizione fra /ocutio bumana e vox animale. Importa rendersi conto dell’intero contesto, a partire dal fatto
che il passo commenta la notissima definizione aristotelica dell’uomo come animale civile, o sociale, o politico che dir si voglia, e lo fa mettendo al centro del ragionamento la locutio: «Deinde cum dicit quod autem civile animal etc., probat ex propria operatione hominis quod sit animal civile, magis etiam quam apis, et quam quodcumque gregale animal, tali ratione. Dicimus enim quod natura nibil facit frustra, quia semper operatur ad finem determinatum. Unde, si natura attribuit alicui rei aliquid quod de se est ordinatum ad aliquem finem, sequitur quod ille finis detur illi rei a natura. Videmus enim quod cur quaedar alia animalia habeant vocem, solus homo supra alia animalia habeat loquutionem ... Sed loquutio humana significat quid est utile et quid nocivum ... Et ideo loquutio est propria hominibus; quia hoc est proprium eis in comparatione ad alia animalia, quod habeant cognitionem boni et mali, ita et iniusti, et aliorum huiusmodi, quae sermone significari
possunt. Cu ergo homini datus sit sermo a natura, et sermo ordinetur ad hoc, quod homines sibi invicem communicent in utili et nocivo, iusto et iniusto, et aliis buiusmodi; sequitur, ex quo natura nihil facit frustra, quod naturaliter homines in his sibi communicent. Sed communicatio in istis facit domum et civitatem. Igitur boro est naturaliter animal domesticum et civile». Questo passo è fondamentale per capire la genesi del De vulgari, il cordone ombelicale che lo lega al Convivio. Ci dice che il concetto di /ocwti0 che sta alla base del trattato è un concetto at15
De vulgari eloquentia
[3] Si etenim perspicaciter consideramus quid cum loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostre mentis enucleare aliis conceptum. Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo cuncti representantur pulcerritinente alla sfera politica, nel quale Dante si è imbattuto compulsando il commento di san Tommaso alla Politica di Aristotele, e che addirittura costituisce la prova del fatto che l’uomo è, per natura, animale civile: poiché il linguaggio è stato dato solo all’uomo; poiché il fine del linguaggio è che gli uomini possano comunicare circa il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’utile e il nocivo; e poiché la natura non fa nulla di inutile, ne consegue che l’uomo ha, per natura, la società civile come proprio fine. È parlando del giusto e dell’ingiusto, dell’utile e del nocivo, che l’uomo «facit domum et civitatem». Dunque illuminare la natura del discorso umano è di capitale importanza per illuminare i principi della convivenza civile, e il proposito di «locutioni vulgarium gentium prodesse» (II 1) è cruciale per il programma dantesco di educare eticamente e politicamente una nuova classe dirigente italiana. In questa fonte cogliamo l’idea del trattato linguistico nel momento in cui germoglia dalla tematica politico-civile del Convivio. Il 3. NICHIL ALIUD ... ALI{S CONCEPTUM: definizione di linguaggio in quanto strumento di comunicazione con altri (tratto che Dante enfatizza) «che trae origine dalla traduzione latina del Tirzeo di Platone da parte di Calcidio (“Siquidem propterea sermonis est ordinata communicatio, ut praesto forent mutuae voluntatis indicia”) ... è estremamente comune nel XIII secolo e circola sotto varie forme prima di Tommaso, in particolare presso i grammatici ... è spesso giustamente
messa in rapporto con una formulazione molto vicina che si trova proprio nei testi di Tommaso d'Aquino dedicati al parlare degli angeli» (Rosier-Catach 2006, p. 438), cioè i testi dai quali Dante la riprende:
De veritate, q. 9, a. 4, arg. 7 «Praeterea, ut Plato dicit, sermo ad hoc datus est nobis ut cognoscamus voluntatis indicia»; q.9, a. 4, arg. 14
«Praeterea, in omni locutione, oportet marifestari aliquid ignotum per notum, sicut nos 77247/festamus conceptus nostros per sonos sensibiles» (cfr. Co I V 12 «lo sermone, lo quale è ordinato 4 manifestare lo concetto umano»); Super Sententiis II, d. 11, q. 2, a. 3, arg. 2 «Praeterea,
in omni locutione oportet esse aliquod signum, quod mentis occultum conceptum exprimat». Tutti questi paragrafi concludono che la /ocytio così definita ron è degli angeli. Rispettivamente: «Unde, cum An16
De vulgari eloquentia III 3
[3] Se infatti guardiamo attentamente a che cosa miriamo quando parliamo, è evidente che lo scopo non è altro che di manifestare ad altri ciò che la nostra mente concepisce. E poiché gli angeli, per effondere i loro pensieri gloriosi, hanno una prontissima e ineffabile capacità intellettuale, grazie alla quale l’uno si rivela totalmente all’altro, o di per sé, o almeno attraverso quello Specchio fulgentissimo nel quale tutti si riflettono nel pieno della loro bellezza e si rigelus per seipsum spiritualem naturam alterius Angeli cognoscat, per seipsum cognoscet voluntatem ipsius; et ita non indiget aliqua locutione»; «Sed tale signum in Angelis sensibile esse non potest, nec intellectuale ... Ergo videtur quod in Angelis manifestatio per locutionem esse non possit»; «Ergo locutio in Angelis esse non potest». E cfr. la nota seguente. AD PANDENDAS ... INNOTESCIT PER SE: per il verbo pandere vedi la nota a I M 1. Per sufficientia e innotescere vedi san Tommaso, De veritate, q. 9, a. 4, arg. 11 «Sed Angelus per seipsum sufficit ad cognoscendum omnia quae naturaliter sunt in alio Angelo per species innatas ... Et ita non videtur quod in Angelis sit ponenda locutio ad hoc quod conceptus unius alteri inrotescat»; Summa Theologiae I, q. 107, a. 1, co. «Ex hoc vero quod conceptus mentis angelicae ordinatur ad manifestandum alteri [cfr. Cv I V 12 citato sopra], per voluntatem ipsius Angeli, conceptus mentis unius Angeli #nrotescit alteri, et sic loquitur unus Angelus alteri. Nihil est enim aliud loqui ad alterum, quam conceptum mentis alteri r2anzfestare»; I, q. 107, a. 2, co. «Angelum loqui Angelo nihil aliud est quam conceptum suum ordinare ad hoc ut ei inzotescat, per propriam voluntatem». VEL SALTIM: significa ‘o almeno” (non ‘o forse’ o ‘oppure’), come nelle altre tre occorrenze del De vu/gari (I VI 1 «vel totius Europe flumina vel saltim quedam»; I IX 11 «vel nullo modo vel saltim imperfecte»; II V 1 «vel satis dixisse videmur vel saltim totum quod operis est nostri») e nelle due della Mozarchia (I XMI 7 «nullam cupiditatis occasionem ... vel saltem minimam»; III 1 13 «aut ab universo mortalium assensu, vel sal-
tem ex illis prevalentium»).
PER ILLUD FULGENTISSIMUM SPECU-
LUM: come ha notato Mengaldo 1978 (1965), pp. 167-74, «l’immagine-concetto di Dio come specchio» — che ricomparirà in Pd XV 61-3 «Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi / di questa vita miran ne lo
speglio / in che, prima che pensi, il pensier pardò (reminiscente del nostro «ad pandendas gloriosas eorum conceptiones») e XXVI 103-8 «Sanz'essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio / che tu qualunque cosa t'è più certa; / perch’io la veggio nel verace speglio / che fa di sé pareglio a l’altre cose; / e nulla face lui di sé pareglio» — i
De vulgari eloquentia
mi atque avidissimi speculantur, nullo signo locutionis indiguisse videntur. [4] Et si obiciatur de hiis qui corruerunt manca nei passi di san Tommaso che andiamo adducendo, e può trovare spiegazione (piuttosto che in «una fonte mistica», come ipotizzava Marigo) in una pagina dello Speculum naturale dell’enciclopedista Vincenzo di Beauvais, nella quale, come in Dante, alla modalità di co-
municazione fra gli angeli «secundum naturam suam» si affianca quella «per gratiam», cioè «secundum representationem speculi» (Dante: «in quo cuncti representantur»): 139 «Unde dicitur quod loquutio angeli est cogitatio directa per voluntatem ostendendi alteri ipsum cogitatum vel intentum. Sed hec est loquutio angelorum secundum naturam suam, in qua comunicant boni et mali angeli. Alia vera est eorum
loquutio per gratiam secundum virtute speculi sive motoris supremi, in qua comunicant angeli boni et anime sanctorum. Unicuique enim innotescit voluntas et intellectus alterius secundum representationem speculi et voluntatem supremi motoris» (il passo ricompare quasi identico nello Speculum bistoriale Il 15). Dietro questa pagina compilativa sta una linea, ricostruita da Mengaldo 1978 (1965), pp. 175-85, che annovera autori scolastici della prima metà del Duecento: Guglielmo d’Auxerre, Alessandro di Hales, san Bonaventura, Alberto Magno. NULLO SIGNO ... VIDENTUR: per l'esatto significato di sign
locutionis (riflesso nella traduzione non ovvia) vedi la nota a I Il 3. In realtà tutto il pensiero della Scolastica — pur con contrasti interni, fra
i quali quello tra i due autori più familiari a Dante, san Tommaso ed Egidio Romano — concorda nell’attribuire agli angeli la /ocuzio (vedi, dopo Mengaldo 1978 [1965], Chrétien 1979, Tabarroni 1985, Faes de Mottoni 1986 e 1988, Panaccio 1997, Suarez-Nani 2002a, 2002b e 2006, Rosier-Catach 2006 e 2009). È stato quindi notato che «Dante
nega un linguaggio angelico con argomentazioni e parole spesso uguali a quelle di cui le sue fonti (come tutto o quasi il pensiero filosofico del Duecento) si servono per affermarne l’esistenza» (Menga/do, p. 34). Più precisamente: è vero che i capitoli di san Tommaso sfruttati da Dante sono, nella loro interezza, volti a dimostrare che gli angeli hanno la locutio; ma i paragrafi iniziali di quei capitoli la negano esplicitamente, e la negano con la motivazione, esattamente ripresa da Dante, che agli angeli la locutio non è necessaria, ovvero che non è loro necessario alcun signu 0 medium sensibile per comunicare. Lo si è visto nei passi riportati sopra, e lo confermano le conclusioni dei passi limitrofi: De veritate, q. 9, a. 4, arg. 1 «ergo nec in Angelis, qui sunt beati, necessaria est locutio»; arg. 2 «Ergo non requiritur ibi locutio,
ad hoc quod unus alterius conceptum sciat»; arg. 3 «Ergo Angeli cognoscunt invicem sensus suos sine locutione»; arg. 4 «Ergo cum An18
De vulgari eloquentia I Il 3-4
specchiano in tutto il loro desiderio, è chiaro che essi non avevano alcun bisogno della parola come segno per comunicare. [4] E a chi muovesse l’obiezione di quegli spiriti che geli non accipiant scientiam a sensibilibus, non accipient cognitionem per aliqua signa; et ita nec per locutionem»; e lo stesso a conclusione degli argg. 5, 7 e 12; e nella Sura Theologiae I, q. 107, a. 1, a conclusione degli argg. 2 («Ergo unus Angelus alteri non loquitur») e 3 («Ergo unus Angelus non loquitur alteri»). Dunque mi sembra troppo riduttivo dire che Dante usa san Tommaso semplicemente, «è la
parola, come repertorio», da cui gli verrebbero solo «molteplici stimoli verbali e tematici» (Mengaldo 1978 [1965], p. 195). Egli in realtà preleva da quei testi la propria argomentazione già pronta e integra, anche se a quei paragrafi iniziali che negano la /ocutio angelica ne seguono altri che la rovesciano dialetticamente, essenzialmente per tener conto dei passi della Bibbia in cui si dice che un angelo parla, o si menziona il linguaggio degli angeli: rovesciamento compiuto assumendo una locutio angelica che continua a essere chiamata così anche se non si avvale di un rzedium sensibile, ma è locutio interior comunica-
ta a un altro angelo mediante un puro atto di volontà spirituale. Nelle parole stesse di san Tommaso, Surzzza Theologiae I, q. 107, a. 1, ad 2 «locutio exterior quae fit per vocem, est nobis necessaria propter obstaculum corporis. Unde non convenit Angelo, sed sola locutio interior; ad quam pertinet non solum quod loquatur sibi interius concipiendo, sed etiam quod ordinet per voluntatem ad alterius manifestationem. Et sic lingua Angelorum retaphorice dicitur ipsa virtus Angeli, qua conceptum suum manifestat». Il libero riuso di Dante, spregiudicato ma anche molto semplice, consiste nel non accettare questa esten-
sione del termine /ocuzi0, che lo stesso san Tommaso definisce metaforica, e nel tenersi stretto alla /ocuzio umana quale definita dal san Tommaso commentatore della Politica (cfr. la nota al $ 2). Rifiutandosi di seguire i suoi maestri nella esplorazione della /ocutio angelica, in nome di un’adesione senza riserve all’idea umana e sensibile di l/ocutio, Dante non mostra interesse per il Gedankenexperiment che essi perseguono, «la recherche philosophique d’un idéal de communication», «une communication intersubjective comme ceuvre de liberté
et un langage à l’enseigne de la clarté et de la transparence» (Suarez-
Nani 2002b, pp. 207 e 256).
Il 4. DE HIIS QUI CORRUERUNT SPIRITIBUS: Is 14, 12 «quomo-
do cecidisti de caelo lucifer qui mane oriebaris corruisti in terram»; «corruere era verbo canonico per gli angeli caduti» (Merga/do). Non sembra che questa ‘obiezione’ abbia una fonte precisabile. 19
De vulgari eloquentia
spiritibus, dupliciter responderi potest: primo quod, cum de hiis que necessaria sunt ad bene esse tractemus, eos preterire debemus, cum divinam curam perversi expectare no-
luerunt; secundo et melius quod ipsi demones ad manifestandam inter se perfidiam suam non indigent nisi ut sciat quilibet de quolibet quia est et quantus est; quod quidem sciunt: cognoverunt enim se invicem ante ruinam suam.
[5] Inferioribus quoque animalibus, cum solo nature instinctu ducantur, de locutione non oportuit provi-
deri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt per proprios alienos cognoscere; inter ea vero que diversarum sunt specierum non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus dampnosa fuisset, cum nullum amicabile commertium fuîsset in illis.
[6] Et si obiciatur de serpente loquente ad primam mulierem, vel de asina Balaam, quod locuti sint, ad hoc res-
pondemus quod angelus in illa et dyabolus in illo taliter II 5. INFERIORIBUS QUOQUE ANIMALIBUS:
la contrapposizione
della /ocutio umana alla vox degli animali ha come fonte il passo del-
la Sententia libri Politicorum di san Tommaso (I, 1. 1, nn. 28-9) citato
qui in nota al $ 2 (e cfr. le note al $ 7), nonché il passo iniziale del De regno sulla differenza fra istinto e ragione (Rosier-Catach 2006) e (Mengaldo, p.38) Egidio Romano, De regimine principum Il 11 «Quia ergo homo non sufficienter ex drstinctu naturae inclinatur ad opera sibi debita, natura dedit ei loquelam sive sermonem ut per sermonem homines se invicem doceant, et unus ab alio suscipiat disciplinam». Conferma la matrice politica del concetto dantesco di locutio (cfr. la nota al $ 2) il fatto che anche questo passo di Egidio, come quelli di san Tommaso, commenta la definizione aristotelica dell’uomo come animale
civile, e lo fa negli stessi termini: «Unde et Philosophus I. Poli. inter alias rationes, quas tangit, probantes hominem naturaliter esse sociale animal, potissime innititur huic rationi, videlicet, quod quis sermo est ad alterum ut ad socios, ex quo natura dedit homini sermonem, quem
non dedit animalibus aliis, sequitur hominem magis naturaliter esse
animal sociale, quam animalia cetera». La stessa idea è ribadita in III 13 «Hoc autem ex parte sermonis ostendere possumus hominem esse
naturaliter animal politicum et civile, ex eo quod vox humana quae dicitur sermo est aliter significativa quam vox brutorum. ... Sed homi20
De vulgari eloquentia I Il 4-6
caddero in rovina, si può rispondere in due modi: in primo luogo che, trattando di cose che sono necessarie a! ben vivere, dobbiamo lasciarli da parte, dal momento che, per-
versi, si rifiutarono di attendere alla divina provvidenza; in secondo luogo, e meglio, che quei demòni, per manifestarsi reciprocamente la loro perfidia, non hanno bisogno se non di conoscere ciascuno dell’altro che esiste e come è: e questo lo sanno, dato che si sono conosciuti l’un l’altro prima della loro rovina. [5] Neanche agli animali inferiori, dato che sono guidati dal solo istinto naturale, fu necessario dare la parola: in-
fatti tutti gli individui della stessa specie hanno gli stessi comportamenti e le stesse passioni, sicché possono attraverso i propri conoscere quelli degli altri; fra quelli invece di specie diverse non solo la parola non era necessaria, ma sarebbe stata propriamente dannosa, dato che fra loro non ci sarebbe stato nessun possibile rapporto di amicizia. [6] E se qualcuno obiettasse, pensando al serpente che parla con la prima donna o all’asina di Balaam, che essi
hanno parlato, a questo rispondiamo che nell’asina operò l’angelo, e nel serpente il diavolo, in modo tale che gli nibus ultra hoc datus est sermo, per quem distincte significatur quid conferens, quid iustum, et quid iniustum ... Utraque ... communitas
erit naturalis tam domestica quam civilis, eo quod per sermonem nobis datum a natura repraesentatur conferens et nocivum, et iustum et
iniustum». AMICABILE: aggettivo ignoto al latino classico, frequente nel latino cristiano medievale.
II 6. ET SI OBICIATUR ... VEL DE ASINA BALAAM: l’indovino Balaam, chiamato dal re Balak perché maledicesse il popolo ebraico, si mise in viaggio a cavallo della sua asina, ma questa venne fermata dall’angelo inviato da Dio, e alle inutili percosse del padrone parlò: Nr 22, 28-33 «aperuitque Dominus os asinae et locuta est quid feci tibi cur percutis me ecce tertio...». I due episodi biblici citati da Dante sono appaiati in sant'Agostino, De Genesi ad litteram XI 27 e 29 «sic ergo locutus est serpens homini, sicut asina, in qua sedebat Balaam, locu-
ta est homini, nisi quod illud fuit opus diabolicum, hoc angelicum»; poi in Pietro Lombardo, Libri Sententiarum II XXI 4; Vincenzo di Beauvais, Speculum naturale XXX 49; san Tommaso, Surzea Theoloa21
De vulzari eloquentia
operati sunt quod ipsa animalia rmoverunt organa sua sic ut vox inde resultavit distincta tanquam vera locutio; non quod aliud esset asine illud quam rudere, neque quam sibilare serpenti. [7] Si vero contra argumentetur quis de eo quod Ovidius dicit in quinto Metamorfoseos de picis loquentibus, dicimus quod hoc figurate dicit, aliud intelli-
gens. Et si dicatur quod pice adhuc et alie aves locuntur, giae Ila-Ilae, q. 165, a. 2, ad 4, ecc.
IPSA ANIMALIA: gli animali stes-
si emettono la fonazione loro propria, che per l'intervento angelico o diabolico risulta in voce articolata.
VOX INDE ... TANQUAM VERA
LOCUTIO: vox distincta designa i suoni articolati del linguaggio, contrapposta alla vox simplex degli animali, capace di significare passiones ma in modo inarticolato: vedi i brani di san Tommaso (vox simplex) ed Egidio Romano («sermo, per quem distincte significatur») citati in nota al $ 7. Gensini 2005, p. 33, riporta giustamente alla Politica e al De anima di Aristotele il valore specifico di vox distincta che il termine locutio ha in Dante. Il verbo distinguere ha lo stesso significato di ‘articolare’ in 11 2 «cum primitus distinguere voces incipiunt» e (con ripresa ambigua) I IV 6 «Ipso distinguente qui maiora distinxit». II 7. OVIDIUS ... DE PICIS LOQUENTIBUS: Mer. V 294-9; le Piche,
ovvero gazze, che mandano voci umane dai rami, sono le nove figlie di Pierio, trasformate in uccelli (V 662-78) come punizione per aver osato sfidare le Muse in una gara di canto. «Notare l’accostamento dell’auctoritas ovidiana a quella scritturale» (Merga/do). In questo caso esso non implica un riconoscimento di verità storica al poeta latino, la cui favola è invece portatrice di un senso morale allegorico. Dante evocherà l’episodio con un chiaro alone di empietà nell’invocazione alle «sante muse» di Pg I 10-2. HOC FIGURATE DICIT, ALIUD INTELLIGENS: Dante postula un’interpretazione allegorica dell’episodio. Le Piche potrebbero rappresentare «coloro che presumono di poetare senza ispirazione e conoscenza d’arte» (Marigo); oppure «le nove dissonanze, in opposizione alle Muse-consonanze», come interpreta Arnolfo d'Orléans seguito anche da Giovanni del Virgilio (Mergaldo). Fa propendere per la prima interpretazione, più che il rimando di Marigo ai versi del Purgatorio (che implicano un’idea sacrale della poesia assente nel De vulgare), l’unica altra occorrenza di figurate (II IV 10), speso per commentare l’epiteto di «Dei dilectos et ab ardente virtute sublimatos ad ethera deorumque filios, quanquam figurate loquatur», inteso come riferito allegoricamente da Virgilio ai poeti sublimi (Aen. VI 129-31): Dante vede in questo epiteto elativo un deterrente contro la stoltezza di coloro che «arte 22
De vulgari eloquentia I II 6-7
animali stessi mossero i loro organi così che ne uscì una pronuncia articolata simile a un vero atto di parola; ma non che l’atto dell’asina sia stato altro che ragliare, e quello del serpente altro che sibilare. [7] E se qualcuno controargomentasse con quello che dice Ovidio nel quinto delle Metamorfosi delle gazze parlanti, diciamo che qui egli parla figuratamente, intendendo altro. E se dicesse che ancor oggi le gazze e altri uccelli parlano, diciamo scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes, ad summa summe canenda prorumpunt», con il caveat, in perfetta sintonia con l’episodio delle Piche: «a tanta presumptuositate desistant, et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari» (II IV 11). ETSI DICATUR ... LOCUNTUR: anche qui continua ad agi-
re la fonte cardine del capitolo (cfr. $$ 2 e 5), cioè san Tommaso, Sententia libri Politicorum I, 1. 1, n. 28 «Videmus enim quod cum
quaedam alia animalia habeant vocem, solus homo supra alia animalia habeat loquutionem. Narz etsi quaedam animalia loquutionem humanam proferant, non tamen proprie loquuntur, quia non intelligunt quid dicunt, sed ex usu quodam tales voces proferunt». Il passo prosegue focalizzando l’opposizione fra locutio-sermo e simplex vox animale: «Est autem differentia inter sermonem et simplicem vocem. Nam vox est signum tristitiae et delectationis, et per consequens aliarum passionum, ut irae et timoris, quae omnes ordinantur ad delectationem et tristitiam, ut in secundo Ethicorum dicitur. Et
ideo vox datur aliis animalibus, quorum natura usque ad hoc pervenit, quod sentiant suas delectationes et tristitias, et haec sibi invi-
cem significent per aliquas naturales voces, sicut leo per rugitum, et canis per latratum, loco quorum nos habemus interiectiones» (il latratus canîs ha una ricca tradizione semiotica, cfr. Eco ... Tabarroni
1984 e no, De sophus ad hoc
1985, a cui Dante non è sensibile). Si aggiunga Egidio Romaregimine principum IMI 1 3 (cfr. la nota al $ 5) «Unde Philoait primo Politi. quod in aliis animalibus ab homine, usque eorum natura pervenit, ut vox sit eis signum delectabilis et tristabilis, ut habeant sensum delectabilem et tristabilem. Hoc enim sibi invicem per vocem significant. Canis enim eo quod latrat, aliter latrat cum delectatur et cum tristatur. «Et cum delectatur vel tristatur potest alteri cani per suum latratum significare tristitiam vel delectationem quam habet. Sed hominibus ultra hoc datus est sermo, per quem distincte significatur quid conferens, quid iustum, et quid iniustum». PICE ADHUC ET ALIE AVES: le alre aves si specificano come pappagalli nel parallelo passo di Cv III VII 9 «Onde è da 23
De vulgari eloquentia
dicimus quod falsum est, quia talis actus locutio non est, sed quedam imitatio soni nostre vocis; vel quod nituntur imitari nos in quantum sonamus, sed non in quantum loquimur. Unde si expresse dicenti pica resonaret etiam
pica, non esset hec nisi representatio vel imitatio soni illius qui prius dixisset. [8] Et sic patet soli homini datum fuisse loqui. Sed quare necessarium sibi foret, breviter pertractare conemur. III. Cum igitur homo non nature instinctu, sed ratione
moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudi-
cium vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus vel passiones, ut brutum animal, neminem
alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, sapere che solamente l’uomo intra li animali parla, ed ha reggimenti ed atti che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione. E se alcuno volesse dire contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente della gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero reggimenti, sì come pare della scimia e d’alcuna altra [cfr. qui I XI 7 «tanquam simie homines imitantes»], rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però che non hanno ragione, dalla quale queste cose convegnono procedere; né è in loro lo principio di queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né intendono per quello alcuna cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono ripresentare». La fonte della coppia gazza-pappagallo sono le Derivationes magnae di Uguccione, come dimostra il fatto che solo in questo lessico «le piche e il pappagallo hanno sede comune in un unico lemma», e che questo è il lemma POYO, fonte di VE II IV 2 (Mazzoni 1966 [1959]): P 100 10-1 «Item a poeta vel poetrida hec pica -ce, quedam avis, quasi poetrica, quia pice verba in discrimine vocis exprimant ut homo: etsi linguas
in sermone nequeunt explicare, sor tamzen vocis bumane imitantur ... Et hic psitacus -ci, quedam alia avis [il che dà alle alie aves di
Dante un senso specifico] que in Indie littoribus gignitur ... grandi lingua et ceteris avibus latiore, unde et articulata verba exprimit ita ut, si eam non videas, hominem loqui putes».
24
De vulgari eloquentia I Il 7-INI 1
che questo è falso, perché il loro atto non è un atto di parola, ma una semplice imitazione del suono della nostra voce; ovvero che essi tentano di imitarci in quanto pro-
duciamo suoni, non in quanto parliamo. Per cui, se uno pronunciasse chiaramente gazza, e si sentisse ripetere g42-
za, questa non sarebbe che una riproduzione o imitazione del suono emesso da lui che aveva parlato prima. [8] E così è chiaro che solo all’uomo è stato dato di parlare. Ma perché a lui fosse necessario, cercheremo di spiegarlo brevemente. III. Poiché dunque l’uomo non è mosso dall’istinto naturale, ma dalla ragione, e la ragione stessa si diversifica tra i singoli e nel discernere e nel giudicare e nello scegliere, al punto che ciascun individuo sembra quasi far specie a sé, riteniamo che nessuno capisca un altro attraverso i propri comportamenti e le proprie passioni, come fanno le bestie. E neppure si dà che uno si immedesimi in un altro per rispecchiamento spirituale, come avviene Il 8. BREVITER PERTRACTARE CONEMUR: prosegue nel far notare la scrittura concisa (I I 2 «celeriter actendentes», «quod brevius
dici potest») che si giustifica funzionalmente perché ci troviamo nei capitoli dedicati a definire preliminarmente «quid sit» (probare), non ad aperire, il subiectum del trattato. E cfr. l’analoga sottolineatura della ce/eritas della scrittura, anche lì per definire un concetto preliminare alla successiva trattazione, all’inizio del libro II
(IT I 1 e nota relativa). INI 1. NON NATURE INSTINCTU: cfr. Egidio Romano, De regimzine principum II 1 1, citato in nota a I Il 5. DIVERSIFICETUR IN SINGULIS... VIDEATUR GAUDERE: san Tommaso, Surrza contra Gentiles III, cap. 113, tit. «Quod rationalis creatura dirigitur a Deo ad suos actus
non solum secundum ordinem ad speciem, sed etiam secundum quod congruit individuo»; n. 2 «Si igitur homo haberet directionem in suis actionibus solum secundum congruentiam speciei, non esset in ipso
agere vel non agere, sed oporteret quod sequeretur inclinationem naturalem toti speciei communem, ut contingit in omnibus irrationalibus creaturis. Manifestum est igitur quod rationalis creaturae actus directionem habet non solum secundum speciem, sed etiam secundum in-
25
De vulgari eloquentia
cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus. [2] Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de
una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset. dividuum».
CUM GROSSITIE.... SITOBTECTUS: san Tommaso, Sw77277%4
Theologiae I, q. 107, a. 1, ad 1 «clauditur mens hominis ab alio homine per grossitiem corporis»; Super Sententtis II, d. 11, q. 2, a. 3, arg. 1 «Vi-
detur quod Angeli non accipiant cognitionem aliquorum per mutuam locutionem. Dicit enim Basilius: si nuda et irtecta anima viveremus, ex
solis nutibus intentionum cogitationes alterutrum panderentur [cfr. I Il 3 «ad pandendas gloriosas eorum conceptiones»]. Sed Angeli habent intellectum ron obtectur corpore. Ergo unus alterius cogitationes videt; et ideo mutua locutione non egent». La triplice concordanza lessicale dimostra l'immediata pertinenza di questa fonte, e insieme la validità della lezione «obtectus» del ms. B contro la variante facilior «obtentus» di GT; questo argomento, che non trovo addotto in sede ecdotica, con-
ferma argomenti interni a favore di «obtectus» quali la ricorrente immagine del corpo come veste mortale dell’anima: cfr. {XIII 103-4; PgI 75, XI 43-4, XVI 37-8, XXX 13-5; Pd XIV 43-4 (Peirone 1967 [1965]). III 2. RATIONALE SIGNUM ... PER MEDIUM SENSUALE: Dante de-
duce la necessità del signur razionale dalla razionalità dell’uomo, contrapposta alla istintualità degli animali, sulla base delle fonti di fitosofia politica (san Tommaso ed Egidio Romano) citate nelle note a I 1 2 e 5. E deduce la necessità del sigur sensuale, ovvero medium sensuale, dalla corporeità dell’uomo, contro la spiritualità dell’angelo, esattamente come san Tommaso: cfr. il passo della Surzzza Theologiae citato in nota al paragrafo precedente, che così prosegue: «Unde cum etiam voluntas ordinat conceptum mentis ad manifestandum alteri, non statim cognoscitur ab alio, sed oportet aliquod signum sensibile adhibere ... Hoc autem obstaculum non habet Angelus. Et ideo quam cito vult manifestare suum conceptum, statim alius cognoscit»; Super Sententiis II, d. 11, q. 2, a. 3, arg. 3 «in omni locutione oportet esse aliguod medium, per quod intentio loquentis ad audientem deferatur. Sed tale medium in Angelis inveniri non potest. Ergo nec locu26
De vulgari eloquentia I II 1-2
agli angeli, dato che lo spirito umano è recluso dalla materialità e dall’opacità del corpo mortale. [2] Fu dunque necessario che il genere umano, per comunicarsi i propri pensieri, disponesse di un qualche segno razionale e sensibile. Fu necessario infatti che fosse razionale, dovendo prendere dalla ragione e portare alla ragione. E fu necessario che fosse sensibile, perché niente potrebbe trasmettersi dalla ragione di uno a quella di un altro se non attraverso un mezzo sensibile. Per cui, se fosse solo razionale, non potrebbe passare; se fosse solo sensibile, non
potrebbe prendere dalla ragione né portare alla ragione. tio» e a. 3, ad 3 «Unde [presso gli angeli] non exigitur aliguod medium per quod deferatur locutio unius ad alterum; sed sufficit ad hoc solus ordo intentionis unius ad manifestandum alteri»; De veritate, q. 9, a. 6,
arg. 4 «Praeterea, locutto oportet quod deferatur a loquente in audientem ... locutio sptritualis per medium corporale non defertur». SITANTUM RATIONALE.... SITANTUM SENSUALE....: l’argomentazione simmetrica,
costruita ponendo l’uomo al centro della doppia e speculare opposizione agli angeli e agli animali, si deve considerare, allo stato delle conoscenze, originale di Dante. Egli ne trovava entrambe le componenti nelle sue fonti, e cioè essenzialmente in san Tommaso, ma in opere di-
verse: la Sententia libri Politicorum e il De regno (con il probabile complemento del De regimzine principum di Egidio Romano) per il confronto uomo-animali; tutte le altre opere citate di san Tommaso (con il probabile complemento dello Speculum naturale o dello Speculum bistoriale di Vincenzo di Beauvais) per il confronto uomo-angelo. In uno di questi passi, come segnala Rosier-Catach 2006, p. 458, angeli e animali cooccorrono (De veritate, q. 9, a. 4, ad 10 «Animalia autem
bruta habent paucos conceptus, quos paucis naturalibus signis exprimunt. Unde, cum in Angelis sint multi conceptus, requiritur etiam ibi locutio»), ma si tratta di una contingenza locale, che non basta a sup-
portare la costruzione argomentativa dantesca. C'è ovviamente, sullo sfondo, l’idea generale che l’uomo è creatura intermedia fra gli angeli e gli animali inferiori (cfr. per esempio Sura Theologiae I, q. 90, a. 4, ad 2 «anima si per se speciem haberet, magis conveniret cum Angelis. Sed in quantum est forma corporis, pertinet ad genus animalium, ut formale principium»; I, q. 96, a. 2, co. «Est autem in homine quatuor considerare, scilicet rationem, secundum quam convenit cum Angelis; vires sensitivas, secundum quas convenit cum animalibus; vires na-
turales, secundum quas convenit cum plantis; et ipsum corpus, secun27
De vulgari eloquentia
[3] Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sodum quod convenit cum rebus inanimatis»), ma sembra originale di Dante la sua specifica applicazione al linguaggio. III 3. HOC EQUIDEM SIGNUM.... DE QUO LOQUIMUR: per equidem
cfr. Mr II I 6 «Hec equidem duo» (‘Proprio queste due cose’). Importa cogliere il fatto che questa affermazione, contenente l’unica altra occorrenza del termine subiectum nel trattato dopo quella di I I 2, chiude appunto il ragionamento là aperto con le parole «Sed quia unamquanque doctrinam oportet non probare, sed suum aperire subiectum». SIGNUM: è passato inosservato presso gli interpreti moderni (ma ha lasciato traccia nella storia della tradizione del testo, da Trissino a Rajna, dove si è instaurata e mantenuta per quattro secoli una
lezione congetturale volta a superare la difficoltà della lezione dantesca: vedi Tavoni 2010a, $ 2) il fatto che questa nozione di sigr477, identificato con la locutio, è completamente diversa dalla nozione di sigru72 che parte da Aristotele e passando attraverso Boezio, e intrecciandosi con quella agostiniana, giunge fino alla Scolastica e ai modisti, con raffinate disquisizioni, fra gli altri, di Abelardo, Alberto Magno, Ruggero Bacone, ps.-Kilwardby, san Tommaso (commento al De interpretatione), Duns Scoto, Tommaso di Erfurt, ecc. (cfr. Markus 1957, Simone 1969, Baratin 1981, Bottin 1981, Maierù 1981, Pinborg 1981, Eco ..+ Tabarroni 1984 e 1985, Manetti 1987, Marmo 1994). Tutta questa
tradizione, pur variegatissima, chiama s/gr2477 (nel senso linguistico, lasciamo qui da parte s7gr77 nel senso inferenziale di ‘indizio’) il singolo elemento della lingua, e cioè fondamentalmente la dictio, la parola,
il segno linguistico per eccellenza, portatore di significato lessicale. In tutta questa tradizione di lunga durata, nella quale Dante non si inserisce, è detto o sottinteso che la lingua è ur irzsierze di segni, e non capita che il termine s7gr72 venga usato per designare ‘il parlare’, ‘il linguaggio’. Questi autori si addentrano invece nell’analisi del “triangolo semiotico”, cioè dei rapporti fra i tre termini costitutivi del sigr272 (= dictio): la res, la vox e il conceptus (in termini moderni: il referente, il si-
gnificante, ilsignificato). Questa problematica semiotico-lessicale è tanto assente in Dante quanto l’ancor più sofisticata problematica semiotico-grammaticale dei modi significandi. La cosiddetta “teoria del segno” di Dante, nella versione modista di Corti 1981b (cfr. Lo Piparo 1983 e 1986), non ha fondamento nel testo. In questo cap. INI Dante non «torna all'uomo che può comunicare in quanto possiede un signs, che è insieme razionale e sensuale ... dopo la trattazione per così dire proemniale del cap. 1 e quella parentetica del Il sul modo di comunicare degli angeli e degli animali ..., tema estraneo ai grammatici in quan28
De vulgari eloquentia I IN 3
[3] Bene, questo segno è precisamente il soggetto nobile di cui parliamo: il quale, infatti, è qualcosa di sensibile to tali» (Corti 1992, p. 192; cfr. Corti 1981a, p. 43 e 1993, p. 86), ma all'opposto conclude la compatta argomentazione dei capp. I-II1 precisamente desumzendo la propria nozione di signur-locutio dal confronto fra uomo, animali e angeli. Infatti il peculiare uso dantesco di sign = locutio, privo di riscontri nei grammatici e nei filosofi del linguaggio, trova invece riscontro in san Tommaso (contrariamente a quanto sostiene Corti 1981a, p. 44: «non andrei a scomodare ... san Tomma-
so, ma continuerei a restare con Boezio»), negli stessi testi che sono
fonte dei presenti capitoli. Qui, accanto a contesti del tipo «omnis locutio fit per aliqua signa» (Super Sententiis IV d. 1, q. 1, a. 1, qc. 2, arg. 3), «quamvis in Angelis non sit locutio exterior, sicut in nobis, scilicet
per signa senstbilia» (De veritate, q.9, a.4, ad 9), «locutio omnis fit per aliqua signa» (De veritate, q. 12, a. 7, s.c. 4), si trovano contesti al sin-
golare, del tipo «in omni locutione oportet esse aliguod signurm, quod mentis occultum conceptum exprimat» (Super Sententiis II, d. 11, q. 2, a.3, arg. 2), «Exterior autem locutio fit per aliguod sensibile signum, puta voce vel nutu vel aliquo corporis membro, puta lingua vel digito» (Surzzza Theologiae 1, q. 107, a. 1, arg. 2), «omnis locutio est per
aliquod signun» (De veritate, q. 9, a. 4, arg. 4), e contesti in cui la /ocytio è francamente identificata come signumz: «locutio est signur interioris actus» (Super Sententiîs II, d. 42, q. 2, a. 2, qc. 1, ad 3), «locutio est signum intellectus» (Surzzza Theologiae I, q. 58, a. 4, arg. 3), «locutio autem est signum audibile interioris conceptus» (Surzzza Theologiae Ila-Ilae, q. 181, a. 3, co.). SUBIECTUM NOBILE: la nobiltà della locutio (vulgaris), dichiarata a 11 4 sulla base della sua naturalità, viene non solo ribadita, ma decisivamente arricchita di senso dall’argomentazione, che qui si conclude, sviluppata a partire dai commenti di san Tommaso e di Egidio Romano alla definizione aristotelica dell’uomo come animale civile (vedi le note a I Il 2 sgg.) — anche se questo arricchimento non viene del tutto esplicitato, a causa del «carattere fortemente scorciato, ellittico [infatti «celeriter actendentes», ecc.] con cui le singole tesi e le loro concatenazioni per lo più si presentano ... e de/
parallelo alto grado di condensazione e superba febbre stilistica che assumono nella pagina» (Mengaldo 1978 [1965], p. 196). La locutio, tipica ed esclusiva dell’uomo, data dalla natura a lui solo perché a lui solo necessaria, quasi marchio distintivo della sua posizione nell’ordine delle creature, è la prova e insieme il fondamento — dunque nobilissimo — del suo essere etico e civile, del suo essere per la società, per il sapere e per la giustizia (vedi in particolare il già citato Egidio Romano, De regimzine principum II 1 1 «natura dedit ei loquelam sive ser29
De vulgari eloquentia
nus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum. IV. Soli homini datum fuit ut loqueretur, ut ex premissis manifestum est. Nunc quoque investigandum esse existimo cui hominum primum locutio data sit, et quid primitus locutus fuerit, et ad quem, et ubi, et quando, nec non
et sub quo ydiomate primiloquium emanavit. [2] Secundum quidem quod in principio Genesis loquitur, ubi de primordio mundi Sacratissima Scriptura pertractat, mulierem invenitur ante omnes fuisse locutam, scimonemut per sermonem homines se invicem doceant, et unus ab alio
suscipiat disciplinam» e III I 3 «per sermonem nobis datum a natura repraesentatur conferens et nocivum, et iustum et iniustum»).
SIGNI-
FICARE VIDETUR AD PLACITUM: «la dottrina aristotelica della significazione ad placitum è comunissima nel pensiero medievale, a partire dall’interpretazione boeziana di Aristotele, De interpr. I Il 16b (“Nomen igitur est vox significativa secundum placitum”) e passi simili, tanto da degradarsi a formula scolastica ... e cfr. qui I IX 6 (“loquela ... a nostro beneplacito reparata”)» (Merga/do). IV 1. NUNC QUOQUE.... EMANAVIT: «ordinata esposizione delle serie di circumestantiae in cui va analizzato l’atto umano secondo la tradizione retorica» (Mergaldo, con rimandi da Cicerone ad Albertano da
Brescia). Ai sei quesiti qui posti Dante risponderà nella terna di capp. IV-VI. SUBQUO YDIOMATE: apre la serie delle occorrenze di ydi0774, tutte concentrate nei capp. IV-IX del libro I. Se /ocuzio ‘il parlare’, ‘la facoltà del linguaggio’ è, a designare il subiecturz del trattato, il termine-chiave che domina incontrastato i capp. I-II, ydiorz4 è il terminechiave che gli si affianca nella seguente terna di capitoli (IV-VI) dedicata al primiloquium di Adamo, per dominare poi la successiva (VII-IX) dedicata agli ydiorzata risultanti dalla confusione babelica. È infatti determinante il valore etimologico del termine, il tratto semantico della
particolarità. Papia: «Idioma proprietas vel consuetudo: nam ideon est proprium graece, vel proverbium»; Uguccione, I 32 1-3 «YDIOS grece, latine dicitur proprium ... et componitur cum HEMIUM, idest sermo vel modulatio ... Ab hemium et ydios dicitur hoc ydiorza, proprietas loquendi in qualibet lingua: unusquisque enim suo ydiomate loquitur». Sulla sua scia il Catbolicon: «Idioma, -atis ... dicitur ab idos quod est proprium et berzu7 quod est sermo vel modulacio. Inde idiorza proprietas loquendi in qualibet lingua. Quot enim sunt lingue tot sunt et 30
De vulgari eloquentia I Ill 3-IV 2
in quanto è suono, ed è qualcosa di razionale in quanto, evidentemente, significa in modo arbitrario.
IV. Solo all’uomo fu dato di parlare, come è chiaro per
le ragioni dette sopra. Ora penso che dobbiamo ricercare anche a quale fra gli esseri umani per primo fu data la parola, e che cosa abbia detto per prima cosa, e a chi, e dove, e quando, e infine in quale particolare lingua sia stato emesso quel primo atto di parola. [2] Secondo quanto racconta all’inizio il Geresi, dove la Santissima Scrittura tratta dei primordi del mondo, si trova che a parlare prima di tutti sia stata una donna, cioè la idiomata. Unusquisque enim idiomate suo loquitum». Queste definizioni riflettono il significato originario del termine, di «proprietas loquendi», peculiarità 4iorzatica, appunto: è il solo significato attestato in latino classico, e ricorre per esempio nell’esegesi biblica e in san Tommaso, a denotare le peculiarità semantiche del testo ebraico dell’Antico Testamento (e cfr. Tavoni 1987, pp. 398-403). Dante assume invece il termine nel senso posteriore di ‘lingua’ (cfr. Tavoni 1989, pp. 477-81), valorizzandone con piena consapevolezza la connotazione di lingua particolare, per marcare la seconda fase della propria argomentazione, che scende dall’universale della /ocutio umana al particolare delle antichissime lingue dell’umanità. Cfr. l’Introduzione, pp. XVIIXIx. Peculiare, e probabilmente preziosa, la reggenza da sub invece che da 1.
PRIMILOQUIUM: bapax dantesco, sul modello di turpiloquium
(I XI 4) e (ugualmente unico) tristiloguiure (I X1 2).
IV 2. QUOD IN PRINCIPIO GENESIS LOQUITUR: alle fonti filosofiche e teologiche che nutrivano i capp. I-II subentra, a sostenere il racconto dell’antichissima storia linguistica dell’umanità, la Bibbia con la sua esegesi. Si apre qui quella che è stata chiamata (Barariski 1989 e 1996 [1989]) la «linguistica biblica» o «scritturale» di Dante, caratterizzata dall’audacia nell’integrare, se non riscrivere, la Scrittura, dove
appare difettiva rispetto alla “ragione”, ovvero al disegno intellettuale che l’autore persegue con determinazione. MULIEREM INVENITUR ... LOCUTAM: risposta, che occupa i $$ 2-3, al primo quesito: «cui hominum primum locutio data sit». Veramente il primo atto linguistico umano di cui dà notizia il Gerzesi (dunque escluse le parole di Dio o del serpente, essendo Dante concentrato sulla locutio come esclusivamente umana) è la nominazione degli animali da parte di Adamo: 2, 19-20 «formatis igitur Dominus Deus de humo cunctis animantibus 31
De vulgari eloquentia
licet presumptuosissimam Evam, cum dyabolo sciscitanti respondit: «De fructu lignorum que sunt in paradiso vescimur: de fructu vero ligni quod est in medio paradisi precepit nobis Deus ne comederemus nec tangeremus, ne forte moriamur». [3] Sed quanquam mulier in scriptis prius interrae et universis volatilibus caeli adduxit ea ad Adam ut videret quid vocaret ea. Omne enim quod vocavit Adam animae viventis ipsum est nomen eius, appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia et universa volatili caeli et omnes bestias terrae». La ragione per cui Dante non prende in considerazione questo atto come prirzziloquium (anzi positivamente lo esclude: vedi la nota a I IV 4) è certamente (Dragonetti 1961, pp. 13-4; Mergaldo; Rosier-Catach 2007) la sua idea e definizione di locutio come comunicazione interpersonale, interlocuzione (I I1 3 «nichil aliud quam nostre mentis enucleare aliis conceptum»; e cfr. I II 2 e qui $ 1 «et ad quer»). Primo atto di parola in questo senso registrato dal Genesi è quindi la risposta di Eva al serpente (3, 2-3). IV 3. SED QUANQUAM MULIER....
A FEMINA PROFLUXISSE: «l’incon-
venientia a lume di ragione deriva certo dalla tesi tradizionale dell’inferiorità della donna, e forse anche da quella, prevalente, della maggior
peccaminosità dell’atto di Eva» (Merga/do). Topiche fonti misogine sono a questo proposito la Prirza epistola ai corinzi di san Paolo (14, 35 «Mulieres in ecclesiis taceant...») e relativi commenti, e iMoralia in Iob (IV 1, XXVII Praef) di Gregorio Magno sui «verba male suadentis uxoris»; su questa base, «si sviluppò anche una solida tradizione iconografica che raffigurava ilserpente parlante con le sembianze di una giovane donna» (Barariski 1996 [1989], p. 103). Motivazione specifica di Dante è certamente il rifiuto di far iniziare l’esercizio della più nobile e identificante facoltà umana con il peccato originale. Nel metodo, il marchio di indipendenza intellettuale, in questa prima precisazione come nel definire tutta la scena del primzzloguium, è notevolissimo, ma non si tratta di una «esplicita smentita da parte della ragione ... a un passo della Scrittura» (P.V. Mengaldo in ED, s.v. Adamo, pp. 47-8), piuttosto di una lecita, per quanto audace, proposta di integrazione. La Scrittura, infatti, non afferma che Eva abbia parlato per prima, ma soltanto registra per prima la risposta di Eva (è rivelatrice la ripetizione «mulierem invenitur ante omnes fuisse locutam» e «quanquam mulier in scriptis prius inveniatur locuta»), e non è detto che registri tutto ciò che è accaduto,
o tutto nell’ordine in cui i fatti si sono susseguiti (se ne ha un chiarissimo esempio nell’episodio babelico, I VI-VII). Nel caso specifico, si potrebbe osservare estemporaneamente che le parole stesse di Eva qui riportate presuppongono un precedente atto comunicativo di Adamo: 32
De vulgari eloquentia I IV 2-3
presuntuosissima Eva, quando al diavolo che l’interrogava rispose: «Ci nutriamo dei frutti degli alberi che sono nel paradiso; però del frutto dell’albero che è nel mezzo del paradiso, Dio ci ha ordinato di non mangiarne, e di non toccarlo, che non abbiamo a morirne». [3] Ma, benché nel sono infatti una parafrasi delle parole «Ex omni ligno paradisi comede, de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo morte morieris» (Gr 2, 16-7), che Dio aveva detto ad Adamo prima che Eva fosse formata dalla sua costola, e che dun-
que Eva può aver sentito solo riferite da Adamo. Dante non lo dice, o perché non ci ha pensato o meglio perché voleva molto di più: voleva che l’uso del linguaggio esordisse, gloriosamente, con la pronuncia del nome di Dio. Ma in generale non è eterodosso constatare casi in cui ciò che è scritto, benché sia tutto vero, non costituisce un racconto esaustivo e del tutto coerente e soddisfacente quanto a verosimiglianza fattuale. Tutto il De Genesi ad litteram di sant'Agostino, che costituisce la guida di Dante in questi capp. IV-VI, è improntato a questo, chiamiamolo così, razionalismo ortodosso, volto a ricavare dalla lettera l’interpretazione più verosimile dei fatti, precisamente al fine di difendere il testo sacro dagli attacchi dei miscredenti, dovunque sia possibile — con ciò riducendo al minimo i casi disperati in cui un fatto apparentemente assurdo o contraddittorio si possa giustificare solo per interpretazione allegorica. Vedi particolarmente IX 22: «Neque hoc opere suscepimus prophetica aenigmata perscrutari, sed rerum gestarum fidem ad proprietatem historiae commendare, ut quod impossibile videri vanis atque incredulis potest, aut ipsi auctoritati sanctae Scripturae velut testificatione contraria repugnare, id pro meis viribus, quantum Deus adiuvat, disserendo demonstrem neque impossibile esse neque contrarium; quod autem possibile quidem apparet, nec habet ullam speciem repugnantiae, sed tamen quasi superfluum, vel etiam stultum quibusdam videri potest, hoc ipsum disputando demonstrem quod ideo non tamquam rerum gestarum naturali vel usitato ordine factum est, ut cordibus nostris fidelissima sanc-
tarum Scripturarum auctoritate praelata, quia stultum esse non potest, mysticum esse credatur, quamvis eius expositionem vel inquisitionem aut alibi iam exhibuerimus, aut in tempus aliud differamus» (e passt772);
e cfr. Barariski 1996 (1989), p. 116: «Come [sant'Agostino] scrisse con epigrammatica concisione, “Scripsit hoc Moyses, scripsit et abiit” (Conf XI 1 5), lasciando alle generazioni successive il compito di penetrare la profondità delle Scritture. Egli affermò anche che la ragione, se adoperata correttamente, avrebbe precluso ogni travisamento esegetico (De doctr. Chr. II XXXI 48-XL 61). È facile vedere nell’autore del De vulgari 33
De vulgari eloquentia
veniatur locuta, rationabilius tamen est ut hominem prius
locutum fuisse credamus, et inconvenienter putatur tam
egregium humani generis actum non prius a viro quam a
femina profluxisse. Rationabiliter ergo credimus ipsi Ade prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat. [4] Quid autem prius vox primi loquentis sonaverit,
viro sane mentis in promptu esse non titubo ipsum fuisse quod “Deus” est, scilicet E/, vel per modum interrogationis vel per modum responsionis. Absurdum atque raeloquentia un fedele seguace di Agostino». IN SCRIPTIS: equivale di fatto a in Scripturis (e Marigo così integra: «in Script[ur]is»). Merga/do cita esempi di questo uso, fra cui Fiore CXII 4 «se -Ilo Scritto non erra». La scelta del termine generico ha fatto pensare che «Dante abbia voluto evitare di aver come l’aria di dare una smentita alla Bibbia» (Rajna 1897, p. XVII), ma può ben trattarsi di semplice variatio, dato che egli non si preoccupa certo di dissimulare la propria esegesi critica (che non equivale a una smentita) del testo sacro. RATIONABILIUS
TAMEN EST ... RATIONABILITER ERGO CREDIMUS: la rati0 è l'arma che Dante brandisce con entusiasmo, nel De vu/gari come nel Convivio. La ragione è invocata qui per integrare la lettera difettiva della Scrittura (e in questo senso l’aggettivo rationabile ricorre altre due volte in I IV 4 e V 1), come, in tutt'altro contesto, sarà invocata per integrare l’insufficienza dei dati empirici in I XVI 1. Dante usa distintamente rat/oralis, riservandolo all’uomo (rationalia guctura, rationale animal) e alle sue tipiche proprietà (razionale signum, rationalis spiritus), e rationabilis, -iter (rationaliter nei mss. G e T, ma è lezione da non preferire) per caratterizzare, come qui, una singola affermazione o interpretazione che sia conforme a ragione (vedi Rajna 1896, p. 15 nota 1). Rationabilis è
aggettivo raro in latino classico, frequentissimo nel latino cristiano medievale. L'opposizione, così specializzata, è altrettanto costante in volgare, fra razionale e ragionevole (con ben 16 contro 10 occorrenze fra Convivio e Vita Nova), per cui occorre renderla nella traduzione. Preferisco però tradurre razionabilis, -iter con ‘conforme a ragione’, ‘se-
condo ragione’, piuttosto che con ‘ragionevole, -mente’ (come hanno fatto tutti i traduttori da Trissino a oggi), perché ragionevole in italiano moderno ha assunto una connotazione moderata che non aveva in italiano antico, suona debole, rimanda più al buon senso che alla ratio-r4gione, con valore forte e coraggiosamente euristico, che dei due trattati
danteschi è una bandiera.
QUI STATIM IPSUM PLASMAVERAT: riman-
da all’azione descritta dal Genesi (2, 7-8) come «formavit igitàt Domi-
34
De vulgari eloquentia I IV 3-4
testo si trovi a parlare per prima la donna, tuttavia è più conforme a ragione credere che abbia parlato per primo l’uomo, ed è sconveniente ritenere che un atto così insigne
del genere umano non sia sgorgato prima dall'uomo che dalla donna. Noi crediamo dunque, secondo ragione, che il parlare sia stato dato per primo a lui, Adamo, dall’Essere che poco prima l’aveva plasmato. [4] Che cosa poi abbia pronunciato per prima cosa la voce del primo parlante, non dubito che appaia evidente a chiunque sia sano di mente: fu il suono stesso che significa “Dio”, cioè E/, o in forma di domanda, o in forma di risposta. Appare assurdo e ripugnante alla ragione che nus Deus hominem de limo terrae» e (al piuccheperfetto) «hominem quem formaverat». Plasrzare è sinonimo usstissimo nell’esegesi biblica. Statim «non “d’un tratto” (Marigo), ma ... “poco prima” (Rajna), cfr. Papia (“Statim: continuo, certe, mox”)» (Mergaldo). Richiama il «femmina, sola e pur testè formata» riferito a Eva in Pg XXIX 26; e non implica immediatezza assoluta, come non la implica, proiettato al futuro,
in Ep V 5 «statim invidiosa per orbem videberis» (è l’Italia dopo che sarà stata pacificata da Enrico VII). L'immediatezza è invece enfatizzata nella formulazione parallela «rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, rz0x postquam afflatus est ab Animante Virtute, incunctanter fuisse locutum» (I V 1): differenza significativa per la ragione che appare a I V 3 (vedi la nota relativa). IV 4. QUID AUTEM... SONAVERIT: risposta al secondo quesito posto a IV 1: «quid primitus locutus fuerit». NON TITUBO: passaggio alla prima persona singolare, che marca la «chiara assunzione di responsabilità» (Mergaldo) nell’enunciare una tesi originale, non accreditata dalla tradizione esegetica; «si hanno nel trattato solo due altri esempi di verbo nella prima persona singolare (conscio, reor, in I VII 8; IX 7) e su di essi si può fare un rilievo analogo» (Marigo). SCILICET EL: essendo E/ «il primo e il più tipico dei nomi ebraici di Dio» (Merga/do, con rimandi a fonti a portata di mano per Dante, fra le quali primeggiano Isidoro, Etyz.VII I 3 e Uguccione, E 30 1), Dante manifesta già qui la sua adesione alla tesi che la lingua adamitica fosse l’ebraico. Egli ritratterà questa affermazione in Pd XXVI 133-6, dove Adamo rive-
lerà: «Pria ch'i scendessi a l’infernale ambascia [cioè prima della mia morte], /1s’appellava in terra il sommo bene ... / e E/si chiamò poi»: cfr. la nota a I VI 4 e l’Introduzione, p. XIV. ABSURDUM ATQUE RATIONI VIDETUR ORRIFICUM: netta formulazione del principio a cui 35
De vulgari eloquentia
tioni videtur orrificum ante Deum ab homine quicquam nominatum fuisse, cum ab ipso et in ipsum factus fuisset homo. Nam sicut post prevaricationem humani generis quilibet exordium sue locutionis incipit ab ew, rationabile est quod ante qui fuit inciperet a gaudio; et cum nullum gaudium sit extra Deum, sed totum in Deo, et ipse
Deus totus sit gaudium, consequens est quod primus loquens primo et ante omnia dixisset “Deus”. [5] Oritur et hinc ista questio, cum dicimus superius per viam responsionis hominem primum fuisse locutum, si responsio fuit, ad Deum: nam, si ad Deum fuit, iam vi-
deretur quod Deus locutus extitisset, quod contra suDante si sta attenendo, consistente nella robusta applicazione della ragione a sostanziare il carente racconto del Genesi. ANTE DEUM ... NOMINATUM FUISSE: c’è qui, nel verbo rorzinare, una intenziona-
le negazione che il primo atto di parola dell’uomo possa essere stato la nominazione, appunto, degli animali, riferita in Gr 2, 19-20 (citato
in nota al $ 2) «Omne enim quod vocavit Adam animae viventis ipsum est rorzen eius, appellavitque Adam rorzinibus suis cuncta animalia...». Con ciò le ragioni della necessaria integrazione al Genesi diventano tre: non può aver parlato prima la donna dell’uomo; la parola non può essere stata usata la prima volta per peccare; il primo parlante non può aver nominato gli animali prima di Dio (essendo peraltro la nominazione degli animali un atto meramente nomenclatorio, quella di Dio, come la pone Dante, cioè «vel per modum interrogationis vel per modum responsionis», un atto interlocutorio, cioè un vero atto di parola). Dante, quindi, non ha né dimenticato né rimosso la nominazione degli animali, bensì proprio gli episodi riportati dalla Scrittura, questo come la risposta di Eva, postulano di essere integrati, per necessità razionale, da altri che la Scrittura non riporta. Egli, seguendo Agostino, sta precisamente purgando la Scrittura da qualcosa che rischia di apparire un’assurdità scandalosa. Ne è spia inequivocabile l’aggettivo absurdus, che nel De Genesi ad litterar: ricorre coi suoi affini ben
24 volte in contesti del tutto paragonabili a quello dantesco. ABIPSO ET IN IPSUM: «poliptoto di tipo paolino ... Ir + accusativo sottolinea il fine» (Mengaldo): Col 1, 16 «omnia per ipsum et in ipso creata sunt»; Rrn 11, 36 «quoniam ex ipso et per ipsum et in ipso omnia».
POST
PREVARICATIONEM HUMANI GENERIS: «il peccato del primo uomo è peccato dell’intera umanità» (Marigo), humani generis è genitivo soggettivo: cfr. san Tommaso, Surzrza Theologiae Ta-Ilae, q. 81. Il verbo 36
De vulgari eloquentia I IV 4-5
qualcos'altro sia stato nominato dall’uomo prima di Dio, dato che l’uomo è stato creato da Lui e per Lui. Infatti, come dopo la trasgressione commessa dal genere umano ogni individuo esordisce nel proprio parlare con un abi/, è conforme a ragione che colui che visse prima abbia cominciato con un'espressione di gioia; e poiché non esiste gioia al di fuori di Dio, ma tutta sta in Dio, e Dio stesso è
tutto gioia, ne consegue che il primo parlante per prima cosa e innanzitutto deve aver detto “Dio”. [5] Ma di qui sorge questo dubbio, dove diciamo so-
pra che l’uomo per la prima volta parlò a Dio in forma di risposta (se si trattò di una risposta): infatti, se fu rivolta a Dio, allora evidentemente Dio dovrebbe aver
parlato, il che appare in contraddizione con quanto abpraevaricor, intransitivo, significa ‘andare oltre, fuori dal tracciato’; corrisponde dunque perfettamente alla definizione del peccato originale che darà appunto Adamo in Pd XXVI 115-7: «Or, figliuol mio, non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente 2/ trapassar del segno». INCIPIT AB HEU: il nome di Heua, che Adamo aveva dato alla donna «eo quod mater esset cunctorum viventium» (Gr 3, 20), era stato interpretato etimologicamente da bex, tipica interiezione di dolore e primo vagito di tutti i nati. Così Innocenzo III nel De rziseria I 7: «Masculus enim recenter natus dicit 4, femina
vero e: “Dicentes e vel 4 quotquot nascuntur ab Eva”. Quid est igitur Eva, nisi beu ha?»; «il versetto era diffusissimo ... come topico era il
concetto» (Merga/do, con rimandi). CONSEQUENS EST ... DIXISSET “DEUS”: «illazione per antitesi: se dopo il peccato originale l’uomo nasce con un grido di dolore, Adamo, creato nello stato di perfezione ed innocenza, dovette emettere subito una parola di gioia» (Margo). «L'intreccio dei poliptoti su gaudiur e Deus sottolinea la compenetrazione dei due concetti» (Mergaldo). IV 5. ORITUR ET HINC ... VIDETUR INSURGERE: risposta, che oc-
cupa i $$ 5-7, al terzo quesito posto a IV 1: «ad quem» [locutus fuerit]». Passo di interpunzione e interpretazione controversa, an-
che con diversi emendamenti apportati nei secoli a un testo ritenuto insoddisfacente. Attenendosi alla lezione tràdita, è escluso che st introduca una interrogativa indiretta retta da ista questio (come ancora in Marigo), perché non avrebbe senso chiedersi se la risposta fosse a Dio (a chi altri potrebbe essere?); e perché, si può aggiungeST
De vulgari eloguentia
perius prelibata videtur insurgere. [6] Ad quod quidem dicimus quod bene potuit respondisse Deo interrogante, nec propter hoc Deus locutus est ipsa quam dicimus locutionem. Quis enim dubitat quicquid est ad Dei nutum esse flexibile, quo quidem facta, quo conservata, quo re, nell’uso dantesco in quel caso sarebbe richiesto tru? 0 a”, non si. L'aggettivo iste è di solito anaforico, ma cataforico, come qui, per esempio in Mx II VI 10 («isto modo: ...») e III IV 2 («ista duo regimina: scilicet spirituale et temporale»). Rispetto al testo Mengaldo (che riprende quello di Rajna) introduco una virgola dopo /u:, per isolare l’inciso «si responsio fuit». Il punto, infatti, non è se fu una risposta a Dio, dato che l’interlocutore è scontato, ma se fu una ri-
sposta. Cioè, se quella di Adamo fu una domanda (l’altra possibilità prospettata all’inizio del $ 4), la questio non si pone; se invece fu una risposta, allora si impone la spiegazione data al $ 6. La successiva ipotetica «si ad Deum fuit» è un’ipotetica apparente, ovvero di «ipoteticità puramente fittizia» (U. Vignuzzi in ED, s.v. se, p. 114, con molti esempi volgari); infatti è all’indicativo, mentre l’apodosi è al congiuntivo. «Spesso è data la forma d’ipotetica all’indicativo all’enunciazione di un fatto, evidente o accertato, dal quale
ciò che è detto nell’apodosi discende necessariamente. Il se assume press’a poco il senso di ‘poiché; dato che’» (F. Brambilla Ageno in ED, Appendice, s.v. periodo ipotetico, p. 412). La vera ipotesi è «si responsio fuit»; se lo fu, allora «si ad Deum fuit» non è una vera ipotesi, ma un fatto. Altri esempi di ipotetica apparente nel trattato: I V 1 «Si ergo Faber ille...»; I IX 10 «Si ergo per eandem gentem sermo variatur...», ecc.
IV 6. POTUIT RESPONDISSE: Dante sta solo seguendo l’ipotesi che Adamo abbia detto E/ «per modum responsionis», non ha affatto lasciato cadere la possibilità che lo abbia detto «per modum interrogationis» (anzi il capitolo seguente scioglierà il dubbio in quest’ultimo senso).
NEC PROPTER HOC... QUAM DICIMUS LOCUTIONEM: con-
tinua a essere determinante la definizione dantesca di /ocutio come interlocuzione, esclusivamente umana e necessariamente composta
di un lato razionale e di un lato sensibile. Questa definizione, sulla cui base Dante ha escluso che una /ocutio propriamente detta fosse
degli angeli (capp. 1-11), gli fa ugualmente escludere che lo sia stata quella di Dio, e gli fa adottare la soluzione agostiniana (vedi sotto) di Dio che “parla” acusticamente «per subditam creaturam», attraverso un sommovimento dell’aria, scartando così l’ipotesi della comunicazione attraverso “discorso interiore” (come negli ange38
De vulgari eloquentia I IV 5-6
biamo prospettato sopra. [6] Al che osserviamo che può ben aver risposto a Dio che lo interrogava, ma non per questo Dio deve aver “parlato”, nel senso di compiere quello che chiamiamo un atto di parola. Chi dubita infatti che ogni cosa che esiste si pieghi docilmente al cenno di Dio, dal quale tutte le cose sono state create, conserli), che non avrebbe permesso al primziloguium adamitico di essere un vero, cioè simmetrico, atto di interlocuzione «per medium sen-
suale» (I III 2).
QUIS ENIM DUBITAT ... QUI MAIORA DISTINXIT?:
nei libri VIII-XI del De Genesi ad litteram Dante trovava ripetuti e precisi riferimenti a come Dio possa, anzi debba, aver parlato ad Adamo ed Eva. Anzitutto (VIII 18) nel comunicare ad Adamo il divieto di mangiare del frutto proibito (Gr 2, 16-7): «Item quaeri potest quomodo nunc deus locutus sit ad hominem, quem fecit, iam
certe sensu ac mente praeditum, ut audire et intellegere loquentem valeret». Forse, ipotizza Agostino, attraverso un discorso interiore: «Utrum intus in mente secundum intellectum, id est ut sapienter in-
tellegeret voluntatem ac praeceptum dei sine ullis corporalibus sonis vel corporalium similitudinibus rerum». Ma Agostino opta per un discorso acustico, sia perché l’uomo non è una creatura solo spirituale, sia perché era certamente acustica la voce minacciosa di Dio sentita dopo il peccato: «Sed non sic existimo primo homini locutum deum. Talia quippe scriptura narrat, ut potius credamus sic esse deum locutum homini in paradiso, sicut etiam postea locutus est patribus, sicut Abrahae, sicut Moysi, id est in aliqua specie corporali. Hinc est enim, quod audierunt eius vocem perambulantis in paradiso ad vesperam, et absconderunt se [Gy 3, 8]». E più avanti (VIII 27) precisa: «certissime ... tenere debemus deum aut per suam substantiam loqui aut per sibi subditam creaturam», e che rivolgendosi all’uomo «nonnisi per creaturam loquitur aut tantummodo spiritalem sive in somnis sive in ecstasi in similitudine rerum corporalium aut etiam per ipsam corporalem, dum sensibus corporis vel aliqua species adparet vel insonant voces». Infatti (ivi) «Illud ... quod postea scriptum est, cum peccassent, eos audisse vocem domini dei ambulantis in paradiso [Gr 3, 8] ... non per ipsam dei substantiam, sed per subditam ei creaturam factum est, nullo modo dubitat qui fidem catholicam sapit». E in XI 33: «Nunc tamen quod audierunt vocem Dei ambulantis in paradiso ad vesperam, nonnisi per creaturam visibiliter factum est». È esattamente l’opinione ripresa da Dante (la quale dunque zor «pare tutta personale», Marigo). San Tommaso invece opta per la comunicazione interiore: Sumzza Theologiae Ila39
De vulgari eloquentia
etiam gubernata sunt omnia? Igitur cum ad tantas alterationes moveatur aer imperio nature inferioris, que mi-
nistra et factura Dei est, ut tonitrua personet, ignem ful-
goret, aquam gemat, spargat nivem, grandines lancinet, nonne imperio Dei movebitur ad quedam sonare verba, Ipso distinguente qui maiora distinxit? Quid ni? [7] Quare ad hoc et ad quedam alia hec sufficere credimus.
V. Opinantes autem non sine ratione, tam ex superioribus quam inferioribus sumpta, ad ipsum Deum pri-
mitus primum hominem direxisse locutionem, rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, mox postquam Ilae, q. 5, a. 1, ad 3 «in statu primae conditionis non erat auditus
ab homine exterius loquente, sed a Deo interius inspirante, sicut et prophetae audiebant, secundum illud Psalm. [Ps 84, 9] audiam quid loquatur in me dominus Deus». Ma è un passo incidentale, e Dante non tiene presenti testi tomistici in tutta questa parte “biblica” del trattato.
CUM AD TANTAS ALTERATIONES ... GRANDINES LAN-
CINET: anche la scena spettacolare dei sommovimenti atmosferici (per quanto numerosi siano, nella Bibbia e nella sua esegesi, i passi in cui Dio si manifesta attraverso tuoni, fulmini, ecc.) appare ripre-
sa, per le concordanze stringenti, dal passo del De Genesi ad litteram addotto dallo stesso Marzgo: III 10 «ubi tamen et aer sit et humore tenui contexatur, qui commotus ventos et vehementius concitatus etiam ignes ac tonitrua et contractus nubila et conspissatus pluviam et congelantibus nubilis nivem et turbulentius congelantibus densioribus nubilis grandinem et distentus serenum facit occultis imperiis et opere dei a summis ad infima universa, quae creavit, administrantis». Che prosegue: «Unde in illo psalmo [cioè Ps 148, 8], cum commemorata essent ignis, grando, nix, glacies, spiritus tem-
pestatis, ne talia sine divina providentia fieri moverique putarentur continuo subiecit: Quae faciunt verbum eius». Ma in quest’ultimo caso, osserva Mengaldo, «il verbum è traslato della volontà divina
che muove tutte le cose, mentre per Dante, naturalisticamente, come Dio determina i vari fenomeni atmosferici così può muovere la natura ad quaedam sonare verba». GRANDINES LANCINET: «non si guardi con sospetto /ancinare, usato nel senso di ‘lanciare’ perché il Medioevo lo credeva derivato da /az:cea» (Rajna 1896), con riman40
De vulgari eloquentia I IV 6-V 1
vate e anche governate? Dunque, se l’aria si muove fino a produrre così grandi perturbazioni al comando del-
la natura inferiore, che di Dio è ministra e creatura, da
far rimbombare tuoni, lampeggiare fulmini, precipitare pioggia, spargere neve, scagliare grandine, forse che non si muoverà al comando di Dio per far risuonare qualche parola, scandita da Colui che separò e distinse cose ben più grandi? Perché no? [7] Perciò, quanto a questo e a qualche altro punto, crediamo che tanto basti.
V. Giudicando dunque, non senza motivi razionali, desunti sia dalle cose già dette sia da quelle che diremo, che il primo uomo abbia rivolto la parola la prima volta a Dio stesso, secondo ragione affermiamo che lo stesso primo parlante parlò immediatamente, non appena fu investido a Uguccione; il quale però (L 35 23) ha l’etimologia, ma non il nostro significato («/arcino -as idest lanceis ludere vel confligere vel lancea percutere vel lacerare»). IPSO DISTINGUENTE QUI MAIORA DISTINXIT: «il poliptoto distinguente-distinzit gioca su due diversi significati del verbo, ‘articolare’ (vedi I I 2) e ‘distinguere, separare’ nel senso teologico della creazione come divisto o distinctio rerum (cfr. Gr 1, 3; tematica particolarmente sviluppata da san Tommaso, Contra Gentiles II, capp. 39-45)» (Mengaldo). QUID NI»: «quel
sorprendente “Quid ni?”, così pieno di fiducia, potrebbe benissimo fungere da epigrafe per tutti i primi nove capitoli del De vu/gari eloquentia» (Baratiski 1996 [1989], p. 105); ma Dante non fa che ricalcare il metodo di Agostino, quindi sbaglieremmo a leggere il suo atteggiamento quasi come baldanzosa incoscienza. V 1. OPINANTES.... INCUNCTANTER FUISSE LOCUTUM: risposta,
che occupa i $$ 1-2, al quinto quesito posto a IV 1, cioè «quando» il primo parlante abbia parlato (postponendo la risposta al quarto, per la ragione che si vedrà). OPINANTES: opiror nel trattato introduce giudizi fondati e convinti, piuttosto che opinabili: cfr. I II 1, I VINI 1, I XV 2..
TAM EX SUPERIORIBUS QUAM INFERIORIBUS
SUMPTA: si riferisce al capitolo precedente e al $ 2 di questo: «risponde al frequente uso formulare di supertora/inferiora nel trattato e in genere nel latino dantesco (cfr. I XII 9; II115; MzIVII 1
41
De vulgari eloquentia
afflatus est ab Animante Virtute, incunctanter fuisse locutum. Nam in homine sentiri humanius credimus quam sentire, dummodo sentiatur et sentiat tanquam homo. Si ergo Faber ille atque Perfectionis Principium et Amator
afflando primum nostrum omni perfectione complevit, rationabile nobis apparet nobilissimum animal non ante
sentire quam sentiri cepisse.
[2] Si quis vero fatetur contra obiciens quod non oportebat illum loqui, cum solus adhuc homo existeret, et e 2, ecc.)» (Mengaldo).
AB ANIMANTE VIRTUTE: Co III va 5 «la
prima simplicissima e nobilissima vertute ... cioè Dio»; IfV 36 «la
virtù divina»; Pd XIII 80 e XXVI 84 «la prima virtù»; ma qui definita arimzans perché colta nel momento in cui infonde l’anima in Adamo, così perfezionandone (vedi sotto) la creazione, rendendolo uomo: Gr 2, 7 «et inspiravit in faciem eius spiraculum vitae et factus est homo in animam viventem». INCUNCTANTER FUISSE LO-
CUTUM: risponde, come il seguente «non ante sentire quam sentiri cepisse», infinitive rette da «rationabiliter dicimus» e «rationabi-
le nobis apparet», al quesito se Adamo abbia parlato «per modum interrogationis vel per modum responsionis»: la ragione, afferma Dante, ci dice che è stato l’uomo a parlare per primo, appellando Dio con il suo nome, con intonazione interrogativa, o diciamo interrogativo-esclamativa, per la gioia, comunque in modo allocutivo.
SENTIRI HUMANIUS CREDIMUS QUAM SENTIRE: non sembra
da accogliere l’interpretazione di Ferrario 1986, pp. 115-6, di sentiri come riflessivo («è ilsentire-sé dell’uomo», «sentirsi uomo e par-
lare sono due atti cooriginari, sono la stessa cosa»), perché spezza quella simmetria dei ruoli nell’interlocuzione che Dante sottolinea come essenziale e persegue nel creare la scena del primziloquium, La prima manifestazione del supremo dono della parola consiste nel suo esercizio attivo, nel «nostre mentis enucleare aliis conceptum» (I Il 3), che in questo caso è il primo moto interiore e allocutivo della gioia e gratitudine di esistere. DUMMODO SENTIATUR ... TANQUAM HOMO: è necessario porre questa condizione perché il sentire è comune a tutti gli animali: conviene quindi all'uomo, come
Dante dice in II 1 6, «gratia generis» (in opposizione al ridere, «gratia speciei», cioè esclusivo dell’uomo, e al meilitare, «individui gratia»). Lo stesso concetto è espresso in Cv III II 11-6, che mette in
scala nell’uomo la potenza vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva o ragionativa, la quale ultima «nelle cose animate morta-
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De vulgari eloquentia I V 1-2
to dal soffio della Potenza Animatrice. Infatti riteniamo che nell’uomo il farsi sentire sia atto più umano del sentire, purché si faccia sentire e senta in quanto uomo. Se
dunque quel Fabbro, Principio e Amatore della Perfezione, con il suo soffio riempì il primo di noi di ogni perfezione, ci appare conforme a ragione che il più nobile degli esseri viventi non abbia cominciato prima a sentire che a farsi sentire. [2] Se al contrario qualcuno sostiene che non c’era bisogno che egli parlasse, dato che era ancora il solo uomo li... sanza la sensitiva non si truova, ma la sensitiva si truova sanza
questa, sì come nelle bestie, nelli uccelli, ne’ pesci e in ogni animale bruto vedemo» (13). Sentire-sentiri copre (come non farebbe il restrittivo audire-audiri) tutto l'interscambio degli esseri animati con l’ambiente, quell’interscambio che, al livello dell’uomo, ha
nella /ocutio il suo nobile strumento specifico, insediato appunto tra potenza sensitiva e ragionativa in quanto «rationale signum et sensuale». Il primato, in un certo modo, dell'esercizio attivo del lin-
guaggio, che Dante vuol sottolineare emblematicamente nella scena del primziloquium, è implicito nel termine stesso assunto a designare il subiectum del trattato, locutio, nomen actionis.
FABER ILLE
... ET AMATOR: non credo che alluda all’«opera della creazione ... come propria della SS. Trinità» (Marigo; «l’allusione è alle tre doti fondamentali delle tre persone divine, potentia, sapientia, bonitas», Mengaldo), sia perché gli attributi non corrispondono in modo stringente sia perché, come suggerisce anche la diversità delle congiunzioni atque e et, si tratta probabilmente non di un trinomio ma di un binomio, con Perfectionis retto sia da Principium che da Amator. Così interpretano Trissino 1529 («quel primo fabbro di ogni perfezione principio et amatore») e Cittadini post 1600 («quel fabbro e principio e amator di perfettione»). Questo binomio corrisponde perfettamente al duplice atto creativo sotteso al seguito del capitolo, con il poliptoto Perfectionis Principium-omni perfectione complevit esibito per evidenziare la creazione dell'anima di Adamo come il tocco finale della creazione, di cui il primziloquium è il suggello (I VI 4 «dicimus certam formam locutionis a Deo cure anima prima concreatam fuisse»). V 2. CUM SOLUS ... ANTE QUAM NOS: questo passo e quello sugli angeli che si rispecchiano in Dio (I II 3) trovano corrispondenza nel Paradiso nei molti beati che conoscono in Dio il pensiero di 43
De vulgari eloquentia
Deus omnia sine verbis archana nostra discernat etiam ante quam nos, cum illa reverentia dicimus qua uti oportet cum de Eterna Voluntate aliquid iudicamus, quod licet Deus sciret, immo presciret (quod idem est quantum ad Deum) absque locutione conceptum primi loquentis, voluit tamen et ipsum loqui, ut in explicatione tante dotis gloriaretur ipse qui gratis dotaverat. Et ideo divinitus in nobis esse credendum est quod in actu nostrorum effectuum ordinato letamur. [3] Et hinc penitus elicere possumus locum illum ubi effutita est prima locutio: quoniam, si extra paradisum Dante «absque locutione» (cfr. Terracini 1957, p. 239); particolarmente Cacciaguida: XV 55-63 «Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch’è primo ... Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi / di
questa vita rziran ne lo speglio / in che, prima che pensi, il pensier pandi» (su cui vedi Franceschini? 2008, pp. 55-92); e appunto Adamo: XXVI 103-8 «Sanz’essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio / che tu qualunque cosa t’è più certa; / perch’io la vedo nel verace speglio / che fa di sé pareglio a l’altre cose, / e nulla face lui di sé pareglio»). CUM ILLA REVERENTIA DICIMUS: ctr. Mr II INI 18 «cum quibus illa reverentia fretus quam pius filius debet patri, quam pius filius matri, pius in Cristum, pius in Ecclesiam, pius in pastorem, pius in omnes cristianam religionem profitentes, pro salu-
te veritatis in hoc libro certamen incipio». DE ETERNA VOLUNTATE: cfr. Pd XIX 86 «la prima volontà»; Mr II Il 4 «cum voluntas et volitum in Deo sit idem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ipsum ius». SCIRET... QUANTUM AD DEUM: luogo comune teologico, trova spiegazione intensiva nelle notissime Sentertize di Pietro Lombardo, ai capp. XXXV-XLI del libro I, che esplorano tutte le implicazioni della identità in Dio di scientia e praescientia. E Dante a Cacciaguida: «così vedi le cose contingenti / anzi che sieno in sé, mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Pd XVII 16-8). VOLUIT TAMEN ET IPSUM LOQUI: et, che il ms. B omette, potrebbe non esserci,
e quella di B potrebbe essere la lezione giusta; ma è piuttosto da considerare facilior, come sembrano confermare Trissino 1529 e Cittadi-
ni post 1600 che, pur avendo davanti e? jps77, traducono «volse/volle che esso parlasse». E? ‘psw ‘anche lui’ si giustifica perché anche
Dio “parla”.
UTINEXPLICATIONE... QUI GRATIS DOTAVERAT: dos,
rispetto al più neutro doru72, implica sollecitudine paterna e dotazione permanente. «Il poliptoto dotis-dotaverat ricalcherà Gr 30, 20
44
De vulgari eloquentia I V 2-3
esistente, e dato che Dio discerne tutti i nostri segreti senza
bisogno di parole anche prima di noi stessi, rispondiamo — con quella reverenza che occorre usare quando si esprime un qualche giudizio a proposito della Volontà Eterna — che, benché Dio avesse conoscenza, anzi prescienza (il che nel caso di Dio è lo stesso) del pensiero del primo parlante senza che questi parlasse, tuttavia volle che anche lui parlasse, affinché nel dispiegarsi di una dote così grande venisse glorificato Colui che per sua grazia gliene aveva fatto dono. E perciò dobbiamo credere che sia per volere divino che gioiamo dell’ordinato esercizio delle nostre facoltà. [3] E da ciò possiamo perfettamente ricavare il luogo dove fu prodotto il primo atto di parola: perché abbiamo dimostrato che, se l’uomo ricevette il soffio vitale fuori “Dotavit me Deus dote bona” (e cfr. Francesco da Barberino, Docu-
menti ... VII m [g/ossa] “et dotavit eum magna dote”)» (Mergaldo). V 3. ET HINC... PRIMA LOCUTIO: risposta al quarto quesito («ubi») enunciato in IV 1, posposta a quella al quinto («quando»), perché appunto il dove si deduce dal quando.
ET HINC: ‘E da ciò’, non «An-
che dal fin qui detto» (Marigo), «Anche da ciò» (Mergaldo): il luogo si può desumere solo da qui, non anche da qui. Le ef testuali a inizio periodo sono molto frequenti nel trattato. SI EXTRA PARADISUM... CONVICIMUS: secondo Marigo «la questio sul luogo della creazione di Adamo era stata dibattuta fra i teologi, rimanendo ancora controversa» (opportuna l’aggiunta di Merga/do: «ma con netta prevalenza della tesi che la collocava fuori del paradiso terrestre»). In realtà il testo di Gr 2,8 e 15 — «plantaverat autem Dominus Deus paradisum voluptatis a principio i quo posutt hominem quem formaverat ... tulit ergo Dominus Deus hominem et poszz eum in paradiso voluptatis» — usa verbi e tempi verbali che non lasciano adito a dubbi. E infatti il De Genesi ad litteram, con cui Dante dialoga in tutta questa parte del trattato, si esprime in modi inequivoci: VI 3 «narratur quomodo Deus paradisum plantaverit, in eoque hominem querz fecerat collocarit» e «et plantauit deus paradisum in eden ad orientem et poswzt ibi hominem querr finxerat»; VI 28 «corpus animale habuit Adam, ron tantum ante paradisum, sed etiam in paradiso constitutus»; VIII 3 «quemadmodum paradisum deus plantauerit et illichominem, quer finxerat, constituerit»; VIII 8 «et 54751 dominus deus hominem, quem fecit, et poszzt eum in 45
De vulgari eloquentia
afflatus est homo, extra, si vero intra, intra fuisse locum
prime locutionis convicimus. VI. Quoniam permultis ac diversis ydiomatibus negotium exercitatur humanum, ita quod multi multis non paradiso». Né manifestano dubbi altri due testi che Dante conosceva, cioè le Sententiae di Pietro Lombardo (II XVH 4 «Quod homo extra paradisum creatus, in paradiso sit positus, et quare ita factum sit. Hominem autem ita formatum tulit Deus, ut scriptura docet, et posuit in paradiso voluptatis, quem plantaverat a principio. His uerbis aperte Moyses insinuat quod homo, extra paradisum creatus, postmodum in paradiso sit positus») e la Surzzza Theologiae di san Tommaso, I, q. 102. È vero che Tommaso prima ripete, con la motivazione di principio che ogni creatura fu creata nel luogo per natura a lei destinato, «Ergo videtur quod in Paradiso homo debuit fieri» (a. 4, arg. 1), «Ergo in Pa-
radiso fieri debuit» (arg. 2), «Ergo multo magis vir debuit fieri in Paradiso» (arg. 3), ma poi adduce l’autorità contraria, e inequivoca, del testo sacro: «Sed contra est quod dicitur Gen. II, tulit Deus hominem, et posuit eum in Paradiso» (a. 4, s.c.), e quindi conclude: «Ut ergo hoc [che l’uomo fosse destinato al paradiso] gratiae Dei imputaretur, non humanae naturae, Deus hominem extra Paradisum fecit, et postea ipsum in Paradiso posuit» (a. 4, co.). Su questo sfondo, che è compatto e non controverso, l'osservazione di Dante è invece, a quanto pare, originale. Egli non si chiede “dove Adamo sia stato creato”, nel senso di formari, fieri, fingi, plasmari; si chiede dove sia stato «afflatus ... ab Animante Virtute». Cioè — di fronte al testo di Gn 2, 7-8 «formeavit
igitur Dominus Deus hominem de limo terrae e? inspiravit in faciem eius spiraculum vitae et factus est homo in animam viventem» - ipo-
tizza che : due atti creativi di formare il corpo dal limo e di insufflarvi l’anima possano aver avuto luogo il primo fuori dal paradiso (poiché su questo non c'erano dubbi), ma il secondo dentro il paradiso; ov-
vero che Dio abbia collocato Adamo nel paradiso prima di infondergli l’anima. Il De Genesi ad litteram, in effetti, tratta estesamente, nel
sesto libro, della creazione del corpo e di quella dell’anima come di
due creazioni distinte (in particolare 24-40). Dante, per chiarire ogni aspetto del priziloguium, rifinisce le integrazioni agostiniane del racconto biblico ipotizzando una divaricazione singolarmente forte. La presenza di questa divaricazione alla mente dell’autore è confermata anche dalle sottolineature «dummodo sentiatur et sentiat tanguarz homo» e «Perfectionis Principium et Amator afflando primum nostrum omni perfectione complevit» ($ 1: la perfezione arriva con la creazione
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De vulgari eloquentia I V 3-VI 1
dal paradiso, allora fu fuori, se invece ricevette tale sof-
fio dentro il paradiso, allora fu dentro che ebbe luogo il primo atto di parola. VI. Poiché il commercio umano si esercita attraverso moltissimi idiomi diversi, tanto che molti non si capiscodell'anima). Essa è del resto in linea con le sue coeve e future convinzioni (fedelmente scolastiche) sull’origine dell’anima, dato che l’anima vegetativa e quella sensitiva si sviluppano per generazione natu-
rale, mentre l’anima intellettiva viene creata e infusa direttamente da Dio in ogni essere umano: cfr. Cv IV XXI 4-5, Pg XVI 84-90 e soprattutto XXV 37-75. La singolare eventualità che Adamo sia stato formato come animale fuori dal paradiso terrestre e reso uomo dentro di esso sembra una visualizzazione quanto mai suggestiva del verso «ma come d’animal divegna fante» (Pg XXV 61: dove si noti comunque il parlare sinonimo di umanità; e cfr. Pd XIII 82-3), e insieme una valorizzazione del paradiso terrestre come «luogo eletto / a l’umana natura
per suo nido» (Pg XXVIII 77-8), «loco / fatto per proprio de l’umana spece» (Pd I 56-7). L'originale ipotesi dantesca recupera questo valore del paradiso terrestre che san Tommaso aveva dovuto formulare diversamente per rispetto della lettera del Geresi. La divaricazione trova riscontro figurativo nei mosaici nel voltone nord dell’atrio della cattedrale di San Marco a Venezia, una delle più antiche e importanti rappresentazioni iconografiche del Genesi, che Dante può ben aver visto proprio negli anni di gestazione del De vulgari (cfr. l’Introduzione, p. LII). In essi non solo la formazione di Adamo dal limo e la sua animazione costituiscono due scene diverse, ma la prima avviene nel sesto giorno, la seconda nel settimo: fra la prima e la seconda sta
infatti la scena della benedizione del settimo giorno (la scena successiva all'animazione è poi l’introduzione di Adamo nel paradiso: vedi Tavoni 2010a, con le tavv. 1-5).
VI 1. QUONIAM PERMULTIS ... CREDITUR USUS: risposta all’ulti-
mo dei sei quesiti posti all’inizio del cap. IV («sub quo ydiomate primiloquium emanavit»), che occupa l’intero cap. VI e chiude la terna di capitoli (IV-VI) dedicati al primziloguium. PERMULTIS AC DIVERSIS ... QUAM SINE VERBIS: Dante parte, letteralmente e psicologicamente, dall’attuale molteplicità delle lingue particolari, connotata dalla mutua inintelligibilità, “babelica”, che essa comporta: poiché oggi non ci capiamo a causa dei troppi idiomi, è il caso di chiedersi quale fosse quello di Adamo. Si noti il termine ydiorza, a significare e sottolineare il concetto di lingua particolare (cfr. la nota a I IV 47
De vulgari eloquentia
aliter intelligantur verbis quam sine verbis, de ydiomate illo venari nos decet quo vir sine matre, vir sine lacte, qui
nec pupillarem etatem nec vidit adultam, creditur usus. [2] In hoc, sicut etiam in multis aliis, Petramala civi-
tas amplissima est, et patria maiori parti filiorum Adam. Nam quicunque tam obscene rationis est ut locum sue nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam 1). L’estraneità dell’uomo all’uomo causata dalla diversità delle lingue, in primo piano nella mente di Dante, è la negazione della /ocutio come fondamento del vincolo sociale (cfr. la nota a I II 2), nobilissima dote divina grazie alla quale l’uomo realizza il proprio fine naturale di socialità e giustizia. «Pare di sentire qui un’eco diretta del pensiero di sant'Agostino» (Mar:go), in effetti dal testo agostiniano che subentra al De Genesi ad litteram come guida per questi capp. VI-VII, il De civitate Det: XIX 7 «linguarum diversitas hominem alienat ab homine. Nam si duo sibimet invicem fiant obviam neque praeterire, sed simul esse aliqua necessitate cogantur, quorum neuter linguam novit alterius: facilius sibi muta animalia, etiam di-
versi generis, quam illi, cum sint homines ambo, sociantur. Quando enim quae sentiunt inter se communicare non possunt, propter solam diversitatem linguae nihil prodest ad consociandos homines tanta similitudo naturae, ita ut libentius homo sit cum cane suo quam cum homine alieno». Anche il De civitate Dei, come dice il
suo stesso titolo, è un testo di evidente rilevanza, al pari della Politica di Aristotele col commento di san Tommaso e del De regno (cfr. la nota a I IT 2), al quale è logico che Dante si sia rivolto per la sua ricerca filosofico-politica (Convivio), e di conseguenza storico-linguistica (De vu/gari), sui fondamenti della convivenza civile. DE YDIOMATE ILLO VENARI NOS DECET: non dice ydiorza illud venari (mentre tutte le altre occorrenze di venari reggono il complemento diretto: I XI 1 «decentiorem atque illustrem Ytalie venemur lo-
quelam»; I XV 7 «si latium illustre venamur, quod venamur in illis
inveniri non potest»; I XVI 4 «vulgare quod superius venabamur»;
e II Il 6, II VI 3, II VI 5). C'è qui, 4 priori, una sfumatura di cautela
conoscitiva, nell’investigare un punto che la Scrittura non dichiara, che mi pare in sintonia con le parole del De Genesi ad litteram, testo-guida di Dante “linguista biblico” fino a questo momento (parole che, si noti per inciso, come quelle di Dante muovono dall’attuale diversità post-babelica): IX 12 «pro diversitate linguarum gentilium diversis nominibus appellantur. Unam sane linguam primitus fuisse didicimus, antequam superbia turris illius post diluvium fabri48
De vulgari eloquentia I VI 1-2
no gli uni con gli altri con le parole più che senza parole, è opportuno mettersi alla caccia di quell’idioma che si pensa abbia usato l’uomo che non ebbe madre, che non
prese il latte, che non conobbe né infanzia né adolescenza. [2] Per questo aspetto, come anche per tanti altri, Pietramala è una città grandissima, e patria della maggior parte dei figli di Adamo. Infatti, chiunque ha una mente così
oscena da credere che il posto dov'è nato sia il più delizioso sulla faccia della terra, costui pregia anche il proprio catae in diversos signorum sonos humanam divideret societatem, quaecumque autem illa lingua fuerit, quid adtinet quaerere? Illa certe tunc loquebatur Adam et in ea lingua, si adhuc usque permanet, sunt istae voces articulatae, quibus primus homo animalibus terrestribus et volatilibus nomina imposuit». VIRSINE MATRE... NEC VIDIT ADULTAM: De Genesi ad litteram VI 13 «Sed quomodo eum fecit deus de limo terrae? Utrum repente in aetate perfecta, hoc est virili atque iuvenali, an sicut nunc usque format in uteris matrum? Neque enim alius haec fecit quam ille, qui dixit: Priusguarz te formarem in utero, novi te [Ier 1,5], ut illud tantum proprium habuerit Adam, quod non ex parentibus natus est, sed factus ex terra». Cfr. Pd VII 26 «Quell’uom che non nacque» e XXVI 91-2 «O pomo che maturo / solo prodotto fosti». VI 2. PETRAMALA CIVITAS AMPLISSIMA EST: borgo di infima importanza, emblema della boria municipale contro cui Dante si scaglia con i nervi scoperti dell’esule che della faziosità municipale si sente vittima. Di solito identificato con il villaggio appenninico sulla strada tra Firenze e Bologna, è invece il «castello aretino dei Tarlati, che nella loro superbia e ambizione di formarsi una potente signoria avevano reso noto il nome del loro castello come se si fosse trattato d’una grande città» (Fatini 1922, pp. 79-80 nota 2). Dunque una precisa tessera casentinese che rimanda ai primi anni dell'esilio: «una stoccata ai Tarlati (24507 pars dei figli di Adamo!), con un’ironia pienamente coglibile ed apprezzabile solo da quel suo pubblico di marchiones e comites ed equites [I XVII 5] per i quali “Pietramala” valeva senz'altro “Tarlati”»; «solo nella consuetudine di quei luoghi poteva risultare immediatamente comprensibile ed incisivo un esempio come quello che nel De vu/gari tocca sarcasticamente Pietramala e la vana presunzione dei suoi abitanti, cioè per sottinteso i nobili Tarlati allora ai vertici della classe dirigente aretina (e, si badi bene, in fiera contesa coi Guidi e i Della Faggiola ospiti di Dante)» (Carpi 49
De vulgari eloquentia
pre cunctis proprium vulgare licetur, idest maternam locutionem, et per consequens credit ipsum fuisse illud quod fuit Ade. [3] Nos autem, cui mundus est patria ve-
lut piscibus equor, quangquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste, rationi magis quam sensui spa-
tulas nostri iudicii podiamus. Et quamvis ad voluptatem nostram sive nostre sensualitatis quietem in terris amenior
locus quam Florentia non existat, revolventes et poetarum et aliorum scriptorum volumina quibus mundus universaliter et membratim describitur, ratiocinantesque in nobis situationes varias mundi locorum et eorum habitudinem ad utrunque polum et circulum equatorem, multas
2004, pp. 367 e 478-9).
PROPRIUM VULGARE ... IDESTMATERNAM
LOCUTIONEM: cfr. Spitzer 1944 e 1948; e Tavoni 1990b, p. 218: «Il
passaggio dal termine romano antico sero patrius al termine medievale lingua materna marca il passaggio da una situazione in cui la propria lingua viene definita in opposizione (orizzontale, ancorché politicamente gerarchica) alle lingue straniere a una situazione in cui la lingua primaria, naturale, viene definita in opposizione (verticale) alla lingua secondaria, scolastica. Di qui il passaggio dalla lingua del padre, cioè dello Stato, alla lingua della madre, cioè dell’educazione domestica». Nel sistema di Dante materna locutio equivale perfettamente a vu/garis locutio, quale definita a I 1 2. Cfr. I XIV 7 e Pg XXVI 117 «parlar materno». LICETUR: «liceri è verbo raro, ma regolarmente attestato dai lessici (Papia, Uguccione [L 65 6], Catholicon) col valore appunto di ‘apprezzare’» (Mergaldo). CREDIT IPSUM ... FUIT ADE: non è senza senso chiedersi, per scrupolo, se Dante potesse davvero avere in mente una rivendicazione di un certo volgare come lingua originaria dell’umanità, che sarebbe una assoluta novità per l’epoca, mentre vere e proprie teorie di questo genere vengono sviluppate dai nazionalismi linguistici europei del Cinque e Seicento (una rassegna in Tavoni 1990c, pp. 216-42). Ma lo si può escludere, e anzi la matrice biografico-politica del riferimento a Pietramala evidenzia che i $$ 2-3 sono un’intrusione esterna nella linea logica del discorso, rivelatrice però della tensione antimunicipale del trattato.
VI 3. CUI MUNDUS ... PISCIBUS EQUOR: Ovidio, Fasti 1493 «Omne
solum forti patria est, ut piscibus aequor», verso che suggella l’evo50
De vulgari eloquentia I VI 2-3
volgare, cioè il parlar materno, al di sopra di ogni altro, e di conseguenza crede che sia stato proprio quello che fu di Adamo. [3] Invece noi, a cui è patria il mondo come ai pesci il mare, benché abbiamo bevuto all’Arno da pri-
ma di essere svezzati, e benché amiamo Firenze al punto che, perché l'abbiamo amata, soffriamo ingiustamente l’esilio, noi poggeremo la bilancia del nostro giudizio sulla ragione piuttosto che sui sensi. E benché per il nostro piacere ovvero per la pace dei nostri sensi non esista al mondo luogo più caro di Firenze, tuttavia, leggen-
do e rileggendo i volumi e dei poeti e degli altri scrittori che hanno descritto il mondo nella sua interezza e nelle sue parti, e riflettendo dentro di noi sulle varie disposi-
zioni delle località del mondo anche in rapporto all’uno e all’altro polo e al circolo equatoriale, abbiamo tratto
cazione degli esili di Evandro, Cadmo, Tideo e Giasone; «verso ...
tra i più ripetuti e citati nel Medioevo ... e lo riprende in particolare Brunetto, Tresor II LXXXIV 11 ... mentre l’immagine del pesce proverbialmente a suo agio nell’acqua era topos della lirica romanza» (Mengaldo). SARNUM: «come anche in Ep IV 2; VI 27; Eg I 44 Dante identifica l’Arno col Sarnus nominato nell’Ezeide (VII 738), che in realtà è fiume della Campania: l’errore deriva da Orosio (IV XV 2), una delle sue fonti geografiche. Anche nel passo della Farsaglia, II 424, ben presente al Poeta per la descrizione del displuvio appenninico (cfr. I X 6), avrà visto una conferma della stessa identificazione» (Marigo).
ET POETARUM
ET ALIORUM
SCRIPTORUM
VOLUMINA: in questa sintetica anticipazione delle proprie fonti geografiche, quali si dispiegheranno nei capp. VIII (l'Europa) e IXXVI (l’Italia), Dante allude probabilmente, con poete, al consueto manipolo dei “suoi” «regulatos ... poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum» (II VI 7); con alt scriptores, cioè i prosatori, certamente a Orosio, nominato nella stes-
sa selezione di poeti e prosatori (appunto Virgilio, Lucano e Orosio sono stati appena evocati a proposito del Sarrs); e fondamentalmente ad autori patristici e scolastici, da Isidoro ad Alberto Magno, che tramandano l’immagine cristiana dell’ecumene. UNIVERSALITER ET MEMBRATIM: la descrizione di tutta intera la terra (soprattutto prosatori cristiani mediolatini) e di singole parti (anche poeti
51
De vulgari eloquentia
esse perpendimus firmiterque censemus et magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam Tusciam et Florentiam, unde sumus oriundus et civis, et plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos. [4] Redeuntes igitur ad propositum, dicimus certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse. Dico autem “formam” et quantum ad rerum vocabula
et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum pagani). MAGIS NOBILES ... ET URBES: «più nobili, forse, secondo la posizione rispetto alle stelle, dalle quali deriva sulla terra un grado maggiore o minore di “virtus” ... più amene per la loro posizione rispetto ai poli e all’equatore, dalla quale dipende l’appartenenza a una delle sette zone (“climata”) in cui è diviso il mondo» (Marigo). NATIONES ET GENTES: «penso che qui (come a I VIII 3) natio sia in sostanza sinonimo di gers (in Uguccione, s.v. NATIO [N
12 1-2], è riportato il significato di “gens” subito sotto quello primario di “actus vel passio nascendi” che ricorre qui al $ 2)» (Mengal-
do).
DELECTABILIORI ATQUE UTILIORI SERMONE: «l’affermazione
... è essenzialmente dialettica ed astratta, poiché delle lingue volgari non conosce, oltre l'italiana, che quelle d’oc e d’oi/ ... parrà probabile che il cenno a sermo delectabilior et utilior si riferisca, pur nella generalizzazione, alla lingua francese» (Marigo), che in I X 2 verrà appunto elogiata «propter sui faciliorem ac delectabiliorem vulgaritatem». Psicologicamente, è pertinente la svalutazione del fiorentino e degli altri volgari toscani attuata in I XIII. VI 4. CERTAM FORMAM LOCUTIONIS: secondo l’interpretazione unanime da Marigo a Mengaldo (cfr. Tavoni 1987, pp. 409-10) questa certa forma locutionis (sintagma ripetuto quattro volte nei $$ 4-5) non è la semplice facoltà del linguaggio, ma una struttura linguistica compiutamente formata, cioè una lingua determinata — che alla fine del capitolo
verrà identificata senz'altro con la lingua ebraica. Invece secondo Corti 1981a, pp. 45-52, «non è una lingua concreta, bensì la “causa formale” e il principio generale strutturante della lingua» (p. 47); cioè, conformemente alla teoria modistica, sarebbe forza substantialis universale e innata, contro le «formzae accidentales proprie dei diversa idiomata» (p. 48; e cfr. Corti 1992, pp. 193-4). Questa interpretazione fonde due idee che vanno invece tenute distinte: l’idea della universalità e quella della struttura. La prima idea deriva esclusivamente dalla presunzione di un influsso della grammatica modistica su Dante e, poiché questo 52
De vulgari eloquentia I VI 3-4
la convinzione, e fermamente giudichiamo, che esistono
molte regioni e città e più nobili e più amabili della Toscana e di Firenze, di cui siamo nativi e cittadini, e che
molti popoli e genti usano una lingua più bella e utile di quella degli italiani. [4] Tornando dunque al tema, diciamo che con la prima anima fu concreata da Dio una determinata forma di linguaggio. E intendo “forma” sia riguardo ai vocaboli per indicare le cose, sia riguardo alla costruzione dei vocaboinflusso francamente non esiste, non ha fondamento, anzi contrasta in
pieno con la logica del testo. È indubbio, infatti, che Dante si riferisce alla struttura di una lingua determinata. Lo dimostrano, oltre agli argomenti addotti da Mergaldo (e cfr. anche, di Mengaldo, la voce Ad4mo, in ED, p. 48), la linea argomentativa del capitolo, che punta a determinare, e arriva a farlo, in quale ydiorza (I IV 1, VI 1, VI 7) abbia
parlato Adamo: enunciare che Adamo ricevette da Dio gli universali linguistici non sarebbe stato affatto pertinente a questa linea argomentativa; l'equivalenza o almeno solidarietà fra certa forma locutionis
e ydioma, implicita nella deduzione che, essendosi tale forrza locutionis conservata intatta fra gli ebrei, l’ydiorza di Adamo fu l’ebraico ($$ 5-7); l'equivalenza o almeno solidarietà fra questa forza locutionis e la lingua del Redentore ($ 6); la coincidenza lampante fra questa «certa forma locutionis a Deo cum anima prima concreata» e la «loquela ... illa homini primo concreata a Deo» di I IX 6 (le due sole occorrenze di concreare nel trattato). E invece sensato sottolineare come con l’espressione certa forma locutionis Dante voglia focalizzare la “struttura” (fono-morfo-sintattica), potremmo dire la “forma interna” (inclusa forse una qualche idea di “struttura del lessico”), di quella particolare lingua, struttura che ammette anzi richiede il complemento della creatività, anzitutto lessicale, del primo parlante: cfr. la nota al $ 7 e cfr. IIX 6 e nota. CUM ANIMA PRIMA: la specificazione (rispetto all’espressione generale «homini primo concreata», I IX 6) non è casuale: ribadisce la pertinenza della locutto alla creazione dell’aria (ciò che rende l’uomo uomo), creazione distinta dalla formazione del corpo di Adamo (cfr. IV e note relative). AD RERUM VOCABULA ... CONSTRUCTIONIS PROLATIONEM: cioè il lessico, la sintassi e la pronuncia. Sia Marigo che Mengaldo interpretano prolatto in senso non fonetico ma morfologico («desinenze della costruzione»), per omologia con la terna «certi vocabuli, certe declinazioni, certe construzioni» di Cv II XII 10 (e per altri ri-
scontri esterni non dirimenti). Ma il significato etimologico di prolatio
53
De vulgari eloquentia
ad constructionis prolationem: qua quidem forma omnis lingua loquentium uteretur, nisi culpa presumptionis humane dissipata fuisset, ut inferius ostendetur. [5] Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma
locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel, que “turris confusionis” interpreè univoco: ‘emissione’, ‘pronuncia’, «actus proferendi vel pronuntiandi» (Forcellini). Si ha pro/atio vocis, sonus, e dictionum, vocabulorum,
come confermano le attestazioni classiche e medievali e Uguccione, F 30-1 «vel proferre quasi procul ferre, et secundum hoc pertinet ad verba: verba proferuntur, quasi procul, idest extra, feruntur et emittuntur; unde prolatus et prolatio». In qualche esempio, come «ut pronomina singulas varient personarum et casuum prolationes» (Prisciano, citato in TLL, s.v. prolatio), il significato sfuma da ‘pronuncia’ a ‘desinenza’, ma questo non si applica bene a «constructionis prolatio», Nel De vulgari il significato fonetico è poi l’unico possibile in I XIV 2 «propter vocabulorum et prolationis mollitiem».
OMNIS LINGUA LOQUENTIUM
UTERETUR: se qui lingua significasse loguela, Dante affermerebbe che una pluralità di lingue sarebbe esistita nel mondo anche se non ci fosse stata Babele: cioè negherebbe in pieno l’assetto del De vu/gari. Converrà quindi intendere lingua nel senso proprio di ‘organo fonatorio”, come labiur in Gn 11, 1 e 9 «erat autem terra labii unius» e «ibi con-
fusum est labium universae terrae». Il sintagma orzzzis lingua trova riscontro, nello stesso senso non-figurato (e anche riscontro ritmico, dato
l’endecasillabo «omnis lingua loquentium uteretur»), in «ch’ogne lingua deven tremando muta» (Tanto gentile 3). NISICULPA ... UT INFERIUS OSTENDETUR: riferimento alla costruzione della torre di Babele,
evocata al paragrafo seguente e dichiarata colpa di presupt0, al pari del peccato originale indotto dalla «presumptuosissima Eva» (I IV 2), da intendere come arroganza della creatura verso il suo creatore (confrontabile con la presunzion di Pg III 140 per indicare la condizione dello scomunicato). Nella visione del De vulgari l’unica lingua originaria dell’umanità, lingua di grazia, si mantiene inalterata fino a Babele, e solo in conseguenza della punizione babelica si apre l’epoca della molteplicità e instabilità delle lingue, nella quale il parlare dell’uomo «instabilissimum ... animal», regolato «a nostro beneplacito» (I IX 6), necessariamente e continuamente si differenzia nel tempo e nello spazio. Questa visione verrà contraddetta in Pd XXVI, dove Adamo assolutizzerà questa dinamica (130-2 «Opera naturale è ch’uom favella; / ma così o così, natura lascia / poi fare a voi secondo che v’abbella») negando l’inalterabilità della lingua originaria e con ciò il significato 54
De vulgari eloquentia I VI 4-5
li, sia riguardo alla pronuncia della frase: e di questa stessa forma di linguaggio farebbe uso ogni lingua di esseri parlanti, se non fosse andata distrutta per colpa dell’umana presunzione, come si mostrerà più sotto.
[5] In questa forma di linguaggio parlò Adamo; in questa forma di linguaggio parlarono tutti i suoi discendenti fino all’edificazione della torre di Babele, che si in-
terpreta come “torre della confusione”; questa forma di del mito babelico (124-6 «La lingua ch'io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta»): cfr. la nota a I IV 4 e l’Introduzione, p. XIV. VI 5. HAC FORMA LOCUTIONIS LOCUTUS ... USQUE AD EDIFICA-
TIONEM TURRIS BABEL: «affermazione fondata sopra una esegesi biblica, che pare tutta personale», secondo Marigo. Opposto il giudizio di Mengaldo: «l’opinione che la lingua umana prima di Babele fosse una (vedi già Gr 11, 1 e 6) e fosse l’ebraico, in connessione con Heber ... era ..., più che comune, ovvia», con riscontri. A me sembra
che la verità stia in mezzo. Il Geresi dice che prima di Babele la lingua era una sola (11, 1 «erat autem terra labii unius et sermonum eorundem»; 11, 6 «ecce unus est populus et unum labium omnibus»), non
dice esplicitamente che fosse la stessa che parlava Adamo, né quale questa fosse; e Dante presenta questo come l’ultimo dei sei quesiti su cui «investigandum es» (I IV 1), «venari nos decet» (I VI 1), esibendo cautela. Se avesse considerato questa informazione ovvia, non
avrebbe detto solennemente che ne andava in cerca. Si può aggiungere che, fra i plausibili riscontri addotti da Mergaldo, e sull’imponente sfondo illustrato da Borst 1957-63, Dante, come suggeriva già Marigo, segue qui precisamente la guida del De civitate Dei, libro XVI, con cui concorda ogni singolo passaggio (cfr. intanto la nota al $ 1); e lì trovava formulata questa idea per quello che era per sant'Agostino, cioè non un luogo comune ma un’idea originale e argomentata (e dunque non «tutta personale» di Dante). QUE “TURRIS CONFUSIONIS” INTERPRETATUR: l’etimologia è nel testo stesso di Gr 11, 9 «et idcirco vocatum est nomen eius Babel quia ibi confusum est
labium universae terris»; ed è ribadita nel Liber interpretationis hebraicorum nominum di san Girolamo, p. 62 (e pp. 150, 159): «Babylon vel Babel confusio». Nel De civitate Dei XVI 4, la torre di Babele è
la città storica di Babilonia: «Ista civitas, quae appellata est confusio, ipsa est Babylon, cuius mirabilem constructionem etiam gentium
commendat historia. Babylon quippe interpretatur confusio»; ed è il prototipo della Città terrestre contrapposta alla Città di Dio: XVI 5 55
De vulgari eloquentia
tatur; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber,
qui ab eo dicti sunt Hebrei. [6] Hiis solis post confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis,
sed gratie frueretur. [7] Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt. «Et descendit Dominus videre civitatem: et turrem, quam aedificaverunt fili hominum, hoc est non filii Dei, sed illa societas secundum
hominem vivens, quam terrenam dicimus civitatem»; per cui l’etimologia - XVI 9 «scriptura divina cum terrenarr civitatem in Babylone, hoc est în confusione, monstrasset» — acquista una speciale pregnanza.
HANCFORMAM LOCUTIONIS ... HEBREI: questo non è detto nel
Genesi, ma nel De civitate Dei, in più passi. Si noti come in sant’ Ago-
stino la casa di Eber, ovvero ir nuce il popolo di Israele, astenutasi dal partecipare (concetto che Dante esplicita in I VII 8) all’edificazione di Babele-Babilonia — cioè per Agostino della Città terrestre — incarni in quell’epoca storica la Città di Dio: XVI 3 «ex Heber Heberaei appellati sunt, ac deinde una detrita littera Hebraei, quarz linguam solus Israel populus potuit obtinere, in quo Dei civitas et in sanctis peregrinata est et in omnibus sacramento adumbrata»; XVI 11 «quando
merito elatioris impietatis gentes linguarum diversitate punitae atque divisae sunt ef civitas impiorum confusionis nomen accepit, hoc est, appellata est Babylon, non defuit domus Heber, ubi ea quae antea fuit omnium lingua remaneret ... Quia ergo in eius [= di Eber] familia remansit haec lingua, divisis per alias linguas ceteris gentibus, quae lingua prius hbumano generi non inmerito creditur fuisse communis, ideo deinceps Hebraea est nuncupata. Tunc enim opus erat eam distingui ab aliis linguis nomine proprio, sicut aliae quoque vocatae sunt nominibus propriis. Quando autem erat una, nihil aliud quam humana lingua vel humana locutio vocabatur, qua sola universum genus humanum loquebatur». Forse la formula «non inmerito creditur» ha indotto Marigo a giudicare che Dante trasformi «in recisa affermazione l'opinione che sant'Agostino aveva espresso con certa cautela». In realtà sant'Agostino sostiene il punto più volte e in modo univoco (vedi anche la nota al paragrafo seguente), però, come si vede, non come un'idea risaputa ma come un'affermazione originale che deve essere argomentata. VI 6. HIIS SOLIS ... FRUERETUR: anche questo è detto nel De civitate Dei, che specifica progressivamente (cosa che Dante scorcia saltando direttamente da Eber al Redentore) come la lingua comu56
De vulgari eloquentia I VI 5-7
linguaggio ereditarono i figli di Eber, che da lui furono detti ebrei. [6] A questi soli rimase dopo la confusione, affinché il nostro Redentore, che da loro era destinato a
nascere in quanto uomo, non usasse una lingua della confusione, ma della grazia.
[7] Fu dunque ebraico quell’idioma che plasmarono le labbra del primo parlante. ne fosse tramandata solo alla casa di Tara, da cui sarebbe nato Abramo, e da Abramo solo alla linea che attraverso Giacobbe si restringe alla stirpe da cui sarebbe nato Gesù: XVI 11 «Et ideo credenda est ipsa fuisse prima illa communis, quoniam de poena venit illa multiplicatio mutatioque linguarum et utique praeter hanc poenam esse debuit populus Dei. Nec frustra lingua haec est, quam tenuit Abraham, nec in omnes suos filios transmittere potuit, sed in eos tanturn, qui propagati per lacob et insignius atque eminentius in Dei populum coalescentes Dei testamenta et stirpem Christi habere potuerunt. Nec Heber ipse eandem linguam in universam progeniem suam refudit, sed in eam tantum, cuius generationes perducantur ad Abraham».
In questo modo si salva non solo la lingua del Redentore ma anche quella delle Scritture: XVI 11 «Cum enim legitur unam fuisse linguam primitus omnium ... et Hebraea vocatur lingua, guar patriarcharum et prophetarum non solum in sermonibus suis, verum etiam in litteris sacris custodiuit auctoritas». NON LINGUA CONFUSIONIS, SED GRA-
TIE: lingua confusionis deriva dal Genesi e dal De civitate Dei; lingua gratie è concetto dantesco: I V 2 «voluit tamen et ipsum loqui, ut in explicatione tante dozs gloriaretur ipse qui gratis dotaverat». VI 7. FUIT ERGO HEBRAICUM YDIOMA ILLUD QUOD: per la pre-
cisione (anche se il concetto fondamentalmente non cambia nei due casi) il soggetto è ydioma illud e il predicato bebraicum (come nella traduzione di Marigo: «Ebraico fu dunque quell’idioma che formaron le labbra del primo parlante»); non il soggetto #//ud e il predicato hebraicum ydioma (come nella traduzione di Mergaldo: «Fu dunque l’idioma ebraico quello che plasmarono le labbra del primo parlante»). Infatti la risposta alla domanda posta all’inizio del capitolo — “quale fu quell’idioma che...?” («de ydiomate illo venari nos decet quo...») — è: “quell’idioma che... fu...”. Ydioma illud è il tema, bebraicum è il rema. Altri esempi di sostantivo + i/le aggettivo + relativa: I II 7 «soni illius qui»; I V 3 «locum illum ubi»; I VIII
6 «ad promuntorium illud Ytalie qua»; I IX 6 «post confusionem illam que». PRIMI LOQUENTIS LABIA: che la lingua umana comune prima di Babele fosse la stessa di Adamo.non è detto esplicitamenDI
De vulgari eloquentia
VII. Dispudet, heu, nunc humani generis ignominiam renovare! Sed quia preterire non possumus quin transeamus
per illam, quanquam rubor ad ora consurgat animusque refugiat, percurremus.
[2] O semper natura nostra prona peccatis! O ab initio et nunquam desinens nequitatrix! Num fuerat satis
ad tui correptionem quod, per primam prevaricationem te né nel Genesi né nel De civitate Dei. Dante può averlo trovato esplicitato (come suggeriscono Nardi 1983 [1921] e Merga/do), per esempio, in Rabano Mauro, Commentarium in Genesim II 11 «Si quis quaerit in qua familia illa permansit lingua quae primitus Adam data fuit, sciat credibile esse quod in familia Heber, ex quo Hebraei dicti sunt, in ea parte hominum qua Dei portio permansit, in qua et Christus nasciturus erat». Ma non si sa se Dante conoscesse questo commento (vedi Nicolò Mineo in ED, s.v. Rabano Mauro), e la frase successiva di Rabano contrasta col suo pensiero. Oppure
Dante può aver dedotto che la lingua unica prebabelica, in quanto tale, dovesse essere, immutata, la stessa che era stata di Adamo. Pro-
pendo per questa seconda interpretazione, che corrisponde esattamente all’argomentazione sviluppata nel capitolo, dove l’informazione offerta da Genesi-De civitate Dei viene assunta per ricavarne come conclusione («ergo») la risposta di cui Dante andava in cerca («de ydiomate illo venari nos decet»). FABRICARUNT: secondo Corti (1981a, p. 50), «il verbo “fabbricare” conferma, se ce ne fosse bisogno, che da Dio fu creata una forma locutionis, non una lingua bell’e fatta». Ma il coevo esempio dei cattivi dicitori che «incolpano la materia, cioè lo volgare propio, e commendano l’altrui [il provenzale], lo quale non è loro richesto di fabricare» (Cv I XI 12; e cfr. Pg
XXVI 117 «fu miglior fabbro del parlar materno» detto del trovatore Arnaut Daniel) dimostra che il verbo, evidentemente, ha o può
avere in Dante un significato più limitato: la formza locutionis (cfr. $ 5) è la struttura #plemzentabile di una lingua particolare, soprattutto sul piano lessicale. Inducono a crederlo, oltre al verbo fabricare, in generale l’enfasi posta sulla nobile attività del parlare (I v 1); e in modo specifico e dirimente l'episodio della nominazione degli animali: Gr 2, 19-20, citato in nota a I IV 2. Dante non prende in con-
siderazione l'episodio come atto di /ocutio perché non è un atto di interlocuzione, ma è inevitabile che lo avesse presente, e si tratta di
un episodio in cui Adamo esercita la sua creatività lessicale: il che è perfettamente compatibile con l’idea di una struttura grammaticale 58
De vulgari eloquentia I VII 1-2
VII. Ah, che vergogna rinnovare ora l’ignominia del genere umano! Ma non possiamo fare a meno di passa-
re per quella strada, per quanto il rossore monti al viso e l’animo ne rifugga: dunque, percorriamola. [2] O natura nostra sempre pronta a peccare! Dall’inizio e senza fine scellerata! Non era bastato a correggerti che, privata della luce per la prima trasgressione, te ne (determinata) innata, ed è una conferma del nobile ruolo attivo che
Dio vuole (I V 2) che l’uomo eserciti parlando. La tesi sostenuta in questo capitolo — ebraico lingua originaria, di grazia, concreata in
Adamo, conservatasi immutata fino a Babele come lingua comune del genere umano, e dopo Babele solo presso gli ebrei — verrà ribaltata in Pd XXVI 124-38, dove Adamo sosterrà che la lingua da lui parlata e prodotta, che non era l’ebraico, si era già estinta prima di Babele, con ciò riducendo quella lingua a un prodotto umano naturale, 24 placitum, togliendo all’episodio babelico ogni valore epocale ed estendendo all’indietro fino all'origine la legge della inevitabile mutabilità di ogni lingua umana (cfr. I IX 6). Sul significato di questa palinodia vedi l’Introduzione, pp. XIV-XV. VII 1. DISPUDET ... PERCURREMUS: come nota Marigo, echeggia
il notissimo passo virgiliano (Aer. II 3-13) «Infandum, regina iubes renovare dolorem / ... / Sed si tantus amor casus cognoscere nostros / quarquarm animus meminisse horret luctuque refugit / incipiam». Il rubor del volto come segno di vergogna è frequente nei poeti di Dante: Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio. Dispudet è forma rara in la-
tino sia classico che medievale. VII 2. O SEMPER NATURA NOSTRA: cfr. Mr I XVI 4 «O genus humanum, quantis procellis atque iacturis quantisque naufragiis agi-
tari te necesse est» (Menga/do).
PRONA PECCATIS: cfr. Gr 8, 21
«sensus et cogitatio humani cordis in malum prora sunt», aggetti-
vo e concetto poi comunissimi nella letteratura cristiana medievale. NEQUITATRIX: è probabilmente una coniazione dantesca; il suffisso -atrix è molto frequente in latino classico, biblico e me-
dievale.
PER PRIMAM PREVARICATIONEM ELUMINATA: di «praeva-
ricatio Adae» parla san Paolo, Rrz 5, 14, citato in De civitate Dei XIV 11. Da quest’ultimo testo, come nota Marigo, sembra desun-
to il concetto di elurzinata (il verbo è rarissimo, si trova solo nei carmi di Sidonio Apollinare); precisamente riconducendo il peccato di Adamo a superbia, sant'Agostino afferma: XIV 13 «Illud itaque malum, quo, cum sibi homo placet, tamquam sit et ipse lumen, DI
De vulgari eloquentia
eluminata, delitiarum exulabas a patria? Num satis quod, per universalem familie tue luxuriem et trucitatem, uni-
ca reservata domo, quicquid tui iuris erat cataclismo perierat, et «que» commiseras tu animalia celi terreque iam luerant? Quippe satis extiterat. Sed, sicut proverbialiter dici solet «Non ante tertium equitabis», misera miserum avertitur ab eo lumine, quod ei si placeat et ipse fit lumen».
DELI.
TIARUM EXULABAS A PATRIA: cfr. Gr 3, 23 «emisit eum Dominus Deus de paradiso voluptatis»; sant Ambrogio, De interpellatione Iob et David IV IX 34 «Adam eiectus de patria caelesti et illa sede paradisi in insulam peccati est relegatus» e Explaratio psalmorum XII XL IV 1 «fraude serpentis ... exclusi de paradiso, eiecti de patria, in exilium relegati». PER UNIVERSALEM ... TRUCITATEM: si riferisce alla causa del secondo castigo divino, dopo la cacciata dal
paradiso terrestre, cioè il diluvio universale, causa che il Genesi (6, 1-7) pone negli amori carnali tra ifili Dei e le filiae hominum. Il De civitate Dei (XV 22-3) interpreta questi due gruppi sociali come incarnazioni rispettivamente della Città di Dio e della Città terrestre, di nuovo attribuendo alla donna la colpa (22 «Quod malum a sexu femineo causam rursus invenit») di aver traviato gli
uomini dall'amore procreativo a quello lussurioso (23 «prius, ancequam sic caderent filii Dei, Deo generabant, non sibi, id est non
dominante libidine coeundi, sed serviente officio propagandi»). Ciò spiega la luxuries, meno la trucitas. Secondo Marigo la trucitas alluderebbe ai «feroci giganti» nati da tali «connubi impuri ... col concorso di demòni», ma questa interpretazione è fondata su un passo marginale di san Tommaso (Surzzza Theologiae I, q. 51, a. 3, ad 6), mentre Dante non evoca i giganti menzionati nel passo del Genesi in questione (che comunque non li dice feroci, né nati da quei connubi); e la sua fonte, il De civitate Dei (al pari di Isidoro, Etym. XI Ill 14), non li mette affatto in relazione coi connubi impuri ed esclude ogni intervento di angeli o demòni. Non si vede quindi perché la lussuria debba essere truce, in cosa consista la crudeltà o ferocia collegata a essa (in Dante semmai associazioni opposte, come Pg VII 102 «lussuria e ozio», Pd XIX 124 «la lussuria e
"l viver molle»). La traduzione ‘bestialità’ attinge all'idea dantesca di lussuria (Pg XXVI 84 e 87 «seguendo come bestie l’appetito» e «che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge»; Cv II VII 4 «non vive uomo ma vive bestia»), e sembra autorizzata dal sinonimo ferzs in Uguccione, T 174 4 «hic et hec #r4x -cis, crudelis, austerus, ferus
... unde hec trucitas -tis». Ma non trovo questa soluzione del tutto 60
De vulgari eloquentia I VII 2
andassi esule dalla patria delle delizie? Non ti era bastato che, per l’universale lussuria e bestialità della tua stir-
pe, fatta salva una sola famiglia, tutto ciò che era in tuo dominio fosse perito nel cataclisma, e gli animali del cielo e della terra avessero già espiato quel che avevi fatto tu? Certo sarebbe dovuto bastare. Ma, come dice il proverbio, «alla terza si bastona»: e tu, miserabile, preferisti ofsoddisfacente. Soprattutto, alla lezione «et trucitatem» del ms. B
corrisponde la lezione «et trucitantem» dei mss. G e T, che trovo difficile da spiegare se l’antigrafo aveva «et trucitatem», sintatticamente pacifico. E legittimo il sospetto che la lezione dell’antigrafo fosse un participio presente della prima concordato all’accusativo con luxuriem, difficilior, paleograficamente fraintendibile e frainteso già nell’archetipo, e poi normalizzato da B per congettura in «et trucitatem». Se questo participio fosse «exestuantem» avrebbe il vantaggio di una doppia coerenza metaforica, da una parte con la libido (sullo sfondo di numerosi esempi classici, «exaestuans libido» è precisamente nel De civitate Dei VII 22; e, a caratterizza-
re la Città terrestre, «istam tenebrosis cupiditatibus turbulentam ... istam suo fastu subdendi et nocendi libidine exaestuantem», XI 33); dall’altra col diluvio punitore: quasi un contrappasso (come sarà un contrappasso il castigo babelico) rispetto all’incendio della libidine: «Item ab uro hic estus -tus quasi ustus, idest calor, fervor ... et estuo -as, fervere, ebullire, calere; et componitur exestuo
-as» (Uguccione, U 51 1, che riporta la famiglia a un’etimologia orientale: «UR lingua caldaica ignis sive flamma dicitur»). UNICA RESERVATA DOMO:
la casa di Noè, presentata come eccezione
a quanto precede (l’universale lussuria) e insieme a quanto segue (la generale distruzione): cfr. Gr 6, 8-9, 29. ANIMALIA CELI TERREQUE: le colpe dell’uomo sono pagate anche dagli animali, trascinati innocenti nell’ira di Dio: Gw 6, 7 «delebo inquit hominem quem creavi a facie terrae ab homine usque ad animantia a reptili usque ad volucres caeli paenitet enim me fecisse eos». «NON ANTE TERTIUM EQUITABIS»: frase proverbiale, del tipo «Alla prima si perdona, alla seconda si ragiona, alla terza si bastona». «La scenetta scolastica medievale, ritratta con curiosi particolari in una miniatura del codice Urbin. 308, f. 1 della Biblioteca Vaticana ... ci mostra il discepolo, che è sottoposto alla punizione, costretto a stare a cavallo sul dorso di una persona più adulta, che lo immobilizza afferrandogli le braccia, mentre uno scolaro lo tiene per i
piedi ed il maestro gli fustiga il sedere denudato. - Questa inter61
De vulgari eloquentia
venire maluisti ad equum. [3] Ecce, lector, quod vel oblitus homo vel vilipendens disciplinas priores, et avertens oculos a vibicibus que remanserant, tertio insurrexit ad verbera, per superbam stultitiam presumendo.
[4] Presumpsit ergo in corde suo incurabilis homo, sub persuasione gigantis Nembroth, arte sua non solum superare naturam, sed etiam ipsum naturantem, qui Deus
est, et cepit edificare turrim in Sennaar, que postea dicta pretazione è ben sorretta da disciplinas, vibicibus e verbera, che seguono subito, e da scuzica e verberibus del $ 5» (Marigo). E notevole che Dante metta le tre punizioni (la cacciata dal paradiso terrestre, il diluvio, la confusione babelica) in ordine ascendente,
in linea con il motto proverbiale che indica la terza come la più severa. Né il Genesi né il De civitate Dei esprimono questa climax, per nulla ovvia, che conferma l’altissimo valore della /ocutio nella
gerarchia mentale di Dante: «più severa ancora pare a Dante ... la terza, in quanto sminuisce gravemente e per sempre il valore uni-
versale della parola, mezzo razionale per l’umano perfezionamento, intellettuale e morale» (Marigo). VII 3. DISCIPLINAS PRIORES ... AD VERBERA: vedi la nota prece-
dente.
PER SUPERBAM STULTITIAM PRESUMENDO: la presuzzptio,
connotata di superba stoltezza, è il marchig,del peccato babelico, come anticipato dalla «culpa presurzptionis humane» di I VI 4 e ribadito dal «Presumpsit ergo» che segue immediatamente, al $ 4, con esibita anadiplosi (e cfr. Pg XII 34-6 «Vedea Nembròt a piè del gran lavoro / quasi smarrito, e riguardar le genti / che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro»). Come, del resto, del peccato originale indotto dalla «presumptuosissima Eva» (I IV 2): entrambi peccati di temeraria e folle (termine collegato nella Comedia) insurrezione della creatura contro il suo creatore. Presuzzere «ha il significato di ‘osare’, ‘ardire’, ‘mostrarsi temerario’ nello spingere la propria pretesa al di sopra dei limiti personali e umani in genere»; presuntuoso «spesso allude a un’arroganza di ordine intellettuale, manifestata nella pre-
sunzione di stabilire il proprio intelletto a norma di verità assoluta» (F. Vagni in ED, s.vv., con molti riscontri danteschi e nell’etica aristotelico-tomistica). Per presumptio-superbia nel racconto babelico del De civitate Det vedi la nota seguente. VII 4. PRESUMPSIT ERGO: vedi la nota precedente. SUB PERSUASIONE GIGANTIS NEMBROTH: il nome di Nembrot non compare per esteso nei manoscritti del De vu/gari: è assente in GT e abbre62
De vulgari eloquentia I VII 2-4
frirti a quella miserabile bastonatura. [3] Ed ecco, lettore,
che l’uomo, dimentico o incurante delle punizioni precedenti, distogliendo gli occhi dai lividi che gli erano ri-
masti, per la terza volta insorse a farsi frustare, nella sua
presunzione e superba stoltezza.
[4] Presunse dunque in cuor suo, inguaribile, l’uomo, sot-
to l’istigazione del gigante Nembrot, di superare con la propria arte non solo la natura, ma lo stesso creatore della natura, che è Dio, e cominciò a edificare una torre in Sennaar, che viato con la sola iniziale («gigantis .n.») in B. Nella Vu/gata Nembrot non è qualificato come gigante, ma solo come iniziatore del regno di Babilonia e di altre città della regione di Sennaar (G% 10, 10), e non è nominato nel racconto della torre di Babele (11, 1-9). È invece gi-
gante nell’Ita/a, e l’idea della sua responsabilità nella costruzione della torre (ovvero della città di cui la torre è segno eminente: Gx 11, 4 e 5
«civitatem et turrem»; 8 «et cessaverunt aedificare civitatem») è largamente diffusa nella tradizione patristica. Dante si conferma dipendere dal De civitate Dei, dove la costruzione della torre viene identificata con la costruzione della mirabile città, anzi metropoli, di Babilonia,
interpretata come confusto, dal che Agostino deduce («Unde colligitur») che Nembrot ne fosse il fondatore, cioè il responsabile dell’empia impresa: XVI 4 «Ista ciuitas, quae appellata est confusio, ipsa est
Babylon, cuius mirabilem constructionem etiam gentium commendat historia. Babylon quippe interpretatur confusio. Unde colligitur gigantem illum Nebroth fuisse illius conditorem, quod superius breviter fuerat intimatum, ubi, cum de illo scriptura loqueretur, ait initium regni eius fuisse Babylonem». L'impresa è connotata, come in Dante, di presumzptio e superbia (e impietas): 4 «Quid autem factura fuerat humana et vana praesurmptio» e «Erigebat ergo cum suis populis turrem contra Deum, qua est impia significata superbia»; 5 «quantum superba cogitabat impietas. Nam nimia disponebatur altitudo, quae dicta est usque in caelum»; 10 «sed ab illa superbia aedificandae turris usque in caelum, qua impia significatur elatio, apparuit ciuitas, hoc est societas, impiorum».
ARTESUA ... IISUM NATURAN-
TEM: che l’uomo intendesse superare, con la propria arte, la natura, è empio perché la natura è diretta creazione di Dio (vedi I 1 4 e nota relativa); che intendesse addirittura superare il creatore della natura (natura naturans, contrapposta a natura naturata nella terminolo-
gia scolastica; cfr. Mw II Il 3 «preter intentionem Dei naturantis»), lo è doppiamente. IN SENNAAR: nome biblico della regione corri63
De vulgari eloquentia
est Babel, hoc est “confusio”, per quam celum sperabat
ascendere, intendens inscius non equare, sed suum su-
perare Factorem. [5] O sine mensura clementia celestis
imperii! Quis patrum tot sustineret insultus a filio? Sed exurgens non hostili scutica sed paterna et alias verberibus assueta, rebellantem filium pia correctione nec non
memorabili castigavit. [6] Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat: pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, pars amussibus regulabant, pars trullis linebant, pars scindere rupes, pars mari, pars terra spondente alla Mesopotamia: Gr 11, 2 «cumque proficiscerentur de oriente invenerunt campum in terra Sennaar et habitaverunt in eo»; e cfr. Pg XII 36 citato in nota al $ 3. BABEL, HOC EST “CONFUSIO”: etimologia implicita in Gw 11, 9 «et idcirco vocatum est nomen eius Babel quia ibi confusum est labium universae terrae»; esplicita in san Girolamo, Liber quaestionum hebraicarum in Genesim, p. 16: «Babel
... interpretatur confusio», Liber interpretationis hebraicorum nominum, p. 62: «Babylon vel Babel confusio», Commmentarii in Isaiam
VI 13, 1 «Babylon, quae hebraice dicitur Babel, interpretatur confusio»; sant'Agostino, De civitate Dei (vedi nota a IVI5); Uguccione, B 2 «BABEL interpretatur confusio, unde Babilon vel Babilonia, ci-
vitas ubi olim homines turrem edificantes dispersi sunt, immissa divinitus confusione linguarum inter eos». Come si vede, l’esegesi patristica è ben consapevole dell’identità storica di Babele e Babilonia e dell’etimologia ebraica del nome. In effetti, il nome accadico Bab-
ilu o Babil-ani ‘porta del dio”, o ‘degli dei’ (trascritto in greco e poi in latino come Babylon), viene ricondotto dall’autore biblico al verbo ebraico da/a/ ‘confondere’. L'impatto della plurilingue metropoli babilonese sta alla base di questa rietimologizzazione come del racconto eziologico della torre. L'associazione Babilonia-plurilinguismo è ancora attiva nella Semiramide dantesca, «imperadrice di molte favelle» (IfV 54).
PERQUAM CELUM SPERABAT ASCENDERE: Gr 11,
4 «et dixerunt venite faciamus nobis civitatem et turrem cuius culmen pertingat ad caelum». Gli studi biblici riconoscono concordemente nella torre di Babele una 2994727, la tipica piramide mesopotamica a gradoni culminante in un tempio (la zi99ur4t Etemenanki di Babilonia, molto più antica del racconto biblico, era di altezza eccezionale, quasi 100 metri). L'autore biblico interpreta come empia
64
De vulgari eloquentia I VII 4-6
poi fu detta Babele, cioè “confusione”, con la quale sperava di ascendere al cielo, intendendo, folle, non di eguagliare,
ma di superare il suo Creatore. [5] O sconfinata clemenza dell’impero celeste! Quale padre sopporterebbe tanti insulti dal figlio? E invece, levandosi non con la sferza del nemi-
co, ma con quella del padre, già abituata altre volte a colpire, egli castigò il figlio ribelle con una punizione pietosa oltre che memorabile. [6] E certo quasi tutto il genere umano si era mobilitato per l’iniqua impresa: chi dirigeva, chi progettava, chi tirava su i muri, chi li controllava con la livella, chi li into-
nacava con la cazzuola, chi badava a spaccar pietre, chi a trasportarle per mare e chi per terra, e altri si dedicavano sfida a Dio quello che era un monumento religioso per la comunicazione col divino, ‘porta degli dei’. VII 5. O SINE MENSURA CLEMENTIA ... CASTIGAVIT: «la tematica del
pietoso e paterno castigo di Dio è diffusamente scritturale» (Merga/do, con rimandi a Dt 32, 39; Iob 5, 18; Apc 3, 19; san Paolo, Hbr 12, 6ea testi medievali latini e volgari). PIA CORRECTIONE NEC NON MEMORABILI: «il castigo è pietoso, perché salva l'umanità; memorabile, perché gli effetti negativi della diaspora linguistica sono durevoli» (Merga/do).
VII 6. SIQUIDEM PENE TOTUM HUMANUM GENUS: siquider vale, come in I XII 4, ‘certamente’ (Marzgo, glossario, p. 333); pene, ‘quasi’,
per la ragione esplicitata al $ 8. Conferma che il genere umano era ancora tutto unito: la dispersione avverrà appunto in seguito alla confusione babelica (cioè non era già avvenuta fra i discendenti di Noè dopo
il diluvio: cfr. IVIII 1-2).
PARSIMPERABANT... OPERIBUS INDULGE-
BANT: come nota Margo, la descrizione è fortemente influenzata dal-
la scena della costruzione di Cartagine in Aen. I 420 sgg., di cui «sono ripetuti alcuni vocaboli ed è riprodotto l'organismo membrato del periodo». Cfr. particolarmente 423-9 «Instant ardentes Tyrii: pars ducere muros / molirigue arcem et manibus subvolvere saxa; / pars optare locum tecto et concludere sulco / ... / fundamenta locant alii immanisque columnas / rupibus excidunt». La rappresentazione del cantiere ha inoltre punti di contatto con il mosaico di San Marco a Venezia di cui si è già parlato (cfr. la nota a I V 3). In particolare, nella parte sinistra del mosaico sono rappresentate figure corrispondenti alle funzioni di architectari, imperare, muros moliri e operazioni connesse.
PARS MARI,
PARS TERRA: la città di Babilonia, sull’Eufrate, èmolto lontana dal mare,
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De vulgari eloquentia
vehere intendebant, partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant; cum celitus tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis desinerent et nunquam ad idem commertium convenirent. [7] Solis etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit: puta cunctis architectoribus una, cunctis saxa volventibus una, cunctis ea parantibus una; et sic de singulis operantibus accidit. Quot quot autem exercitii varietates
tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humae né il Genesi né la sua esegesi fanno alcun riferimento al mare. Orosio (I I 21) e Isidoro (E#yz. XIV MI 12-4), principali fonti geografiche di Dante nel cap. VIII, la collocano in mezzo all’ Asia, a sud della Mesopotamia e a nord della Caldea. I planisferi dedotti dai due testi (cfr. per esempio il mappamondo di Hereford, ca 1280, in Scafi 2007 [2006], p. 75) la pongono a metà strada fra l’estremità orientale del continente e dell’intera ecumene, cioè il paradiso terrestre, e Gerusalemme. Ci si
deve quindi chiedere dove Dante si sia fatto la singolare idea che fosse una città sul mare. Avrà influito il modello della Cartagine virgiliana, col suo porto (I 427 «hic portus alii effodiunt», e pass); ed eventualmente, se davvero Dante lo ha visto e notato, il mosaico veneziano,
che nella linea di base rappresenta un’onda (probabilmente fluviale, nell’intenzione dell'artista), dalla cui riva un operaio cava la ghiaia o sabbia per la muratura: vedi Demus 1984, II 2, tav. 180. Ma, soprattutto, questo indizio sembra confermare quella confusione con la Babi-
lonia d'Egitto (Il Cairo, sul delta del Nilo, e quindi praticamente città marittima) che è stata ipotizzata per spiegare il fatto che Semiramide e il Sultano hanno governato la stessa città (If V 58-60), nonché la noti-
zia che Alessandro Magno morì «apud Aegyptum» (Mr II VII 8), se essa è in rapporto con la notizia di Orosio che «Alexander vero apud Babylonam ... interiit» (III XX 4). CUM CELITUS ... PERCUSSI SUNT: cum inversum (unico in tutto il trattato), artificio espressivo dell’epica antica ampiamente usato nell’Exeide, nonché dagli storici, da Cesare a Sallustio a Livio a Tacito (cfr. i poeti epici e gli storici delle «altissime prose» maestri di «supprema constructio» in II VI 7), «per dare rilievo ad alcuni momenti del loro racconto e per conferire drammaticità alle loro rappresentazioni»; costruzione marcata che, violando la norma-
le distribuzione dell’informazione fra proposizione principale e subordinata temporale, comunica ad effetto «il senso dell’imprevisto, della sorpresa, del colpo di scena, di quello che nella teoria del racconto si 66
De vulgari eloquentia I VII 6-7
a diverse altre operazioni; quando dal cielo furono colpiti da una tale confusione che, mentre prima lavoravano all’opera servendosi tutti di una sola e medesima lingua, ora, diversificati in tante lingue, dall’opera dovettero desistere, e non poterono mai più cooperare tutti alla stessa impresa. [7] Infatti solo a quelli che lavoravano alla stessa operazione rimase una stessa lingua: per esempio una a
tutti gli architetti, una a tutti quelli che rotolavano sassi, una a tutti quelli che li preparavano; e così accadde per quanti lavoravano alle singole operazioni. E quante erano le varie attività che concorrevano all'opera, in altrettanti idiomi in quel momento il genere umano si divide; e definisce l’“avvenimento”»: con itipici e protratti imperfetti nella principale (corerat, imperabant, architectabantur, moliebantur, regulabant, linebant, intendebant, indulgebant) che, «per la “prospettiva dell’incompiuto” che li caratterizza, sembrano destinati a preludere a un evento imprevedibile» (EV, s.v. cur inversum, pp. 954-5); e nella temporale
un unico perfetto di istantanea violenza: percussi sunt. Dante trasforma in alta rappresentazione drammatica il piano racconto del Genesî: 11, 5-9 «descendit autem Dominus ut videret civitatem et turrem quam aedificabant filii Adam et dixit ... venite igitur descendamus et confundamus ibi linguam eorum ... atque ita divisit eos Dominus ex illo loco in universas terras ... et inde dispersit eos Dominus super faciem cunctarum regionum». Il mosaico veneziano (vedi sopra) riunisce le tre fasi dell’avvenimento affiancando al cantiere della costruzione,
a sinistra, Dio con tre angeli che si affaccia dall’alto (celitus) a guardare l’impresa; e, a destra, Dio disceso con gli angeli e gli uomini divisi in quattro gruppi che si disperdono verso i quattro punti cardinali. UT ... CONVENIRENT: «notare l’intreccio dei poliptoti, che evidenziano i nodi concettuali: diverse-diversis(-diversificati) ...; (operibus-)ad opusab opere ...; loquela-loquelis; convenirent-convenientibus» (Mengaldo). VII 7. SOLIS ETENIM ... GENUS HUMANUM DISIUNGITUR: Dante
fa coincidere la confusione delle lingue con la divisione per gruppi di tecnici e lavoratori. Alcuni testi offrivano non più che spunti in questa direzione: Vincenzo di Beauvais, Speculum historiale II 62 «Dominus autem linguas eorum confudit ut unusquisque vocem
alterius non intelligerent, sed aquam petenti lapides vel aliud quicquam porrigerent»; con più articolata rappresentazione del cantiere, Alfonso el Sabio, General estoria I 43b, 24 «quando ell uno deman-
dava ladriellos ell otro le dava bitumen, et quando ell otro pidie bi67
De vulgari eloquentia
num disiungitur; et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur. [8] Quibus autem sacratum ydioma remansit nec aderant nec exercitium commendabant, sed graviter detestantes stoliditatem operantium deridebant. Sed hec mitumen ell otro aduzie agua, et quando ell otro dizie agua estel traye alguna delas ferramientas que y tienen o alguna otra cosa, de guisa que nunca el uno dava lo que ell otrol pidie, et quedaron de fazer la cibdad et la torre» (cfr. Niederehe 1975, pp. 64-8: ma sembra che Dante ignorasse l’esistenza del castigliano: vedi la nota a I VII 5). Comunque l’idea, come osservò per primo D’Ovidio 1931 (1892), p. 304, «fu una mera escogitazione di Dante», la cui «origine psicologica ... sembra evidente. A un fiorentino di quel tempo la trovata di affidare alle Arti la confusione delle lingue dové balenare assai naturalmente e parer felicissima». Corti 1978, pp. 247-535, coglie giustamente il nesso con la concezione negativa della città comunale come «luogo in cui si producono tutte le lacerazioni della tradizione», luogo della società desacralizzata, con «possibile identificazione fra Babele e la città o Comune», confermata dall’appellativo «alteri Babilonii» che definisce gli «scelestissimi Florentini» nella Ep VI 8 (del 1311). Nesso molto convincente, dato l’antimu-
nicipalismo addirittura ossessivo che anima il trattato (da I VI 2-3 a tutta la rassegna dei volgari, I XI-XV, marcata dall’epiteto negativo municipalis). Trovo meno probabile che questa analogia Babele-città comunale costituisca, come sostiene Corti, una allegoria in
factis: categoria interpretativa da riservare all’esegesi biblica. Piuttosto, la tensione linguistica antimunicipale trova in Babele il proprio mito fondatore, adeguatamente forte (che in Pd XXVI verrà lasciato cadere forse anche per l’esaurirsi della virulenza antimunicipale). Sviluppa l’idea della confusione dei linguaggi come «impotenza tecnica» Stabile 2007 (1990); e cfr. Gensini 2007. EXCELLENTIUS ... BARBARIUSQUE LOCUNTUR:
ET QUANTO
«evidente contrap-
passo, in base al quale Nembròt in I{ XXXI 67 sgg. parlerà un linguaggio “ch’a nullo è noto” in quanto principale responsabile della colpa» (Mergaldo), poiché, «come re e promotore dell’empio tentativo, costituiva ei solo la classe a cui apparteneva; onde a lui toccò una lingua circoscritta alla sua persona» (D’Ovidio 1931 [1892], p. 310): con iperbolica, esemplare negazione della locutio come facoltà di «nostre mentis enucleare aliis conceptum» (I Hl 3). VII 8. QUIBUS AUTEM SACRATUM YDIOMA.... AD SUAM DISPERSIO-
NEM: l’idea che gli ebrei non parteciparono all’empia impresa di Ba68
De vulgari eloquentia I VII 7-8
quanto più qualificata era l’attività, tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano. [8] Invece coloro a cui rimase l’idioma sacro non partecipavano all'impresa né la lodavano, anzi esecrandola severamente deridevano la stoltezza di chi vi lavorabele, e quindi furono risparmiati dalla confusio linguarume, e quindi soli mantennero la lingua che era prima unica dell'umanità (per conservarla fino a consegnarla a Cristo, cfr. I VI 6), la quale da quel momento prese il nome di ebraica (e che da ciò si deduca a ritroso che la lingua di Adamo fosse l’ebraico, cfr. I VI 7); tutta questa articolata idea Dante la desume dal De civitate Dei: XVI 3 «Hebraei, quam
linguam solus Israel populus potuit obtinere, in quo Dei ciuitas et in sanctis peregrinata est et in omnibus sacramento adumbrata»; XVI 11
«quando merito elatioris impietatis gentes linguarum diuersitate punitae atque diuisae sunt et ciuitas impiorum confusionis nomen accepit, hoc est, appellata est Babylon, non defuit domus Heber, ubi ea quae antea fuit omnium lingua remaneret. ... Quia ergo in eius familia remansit haec lingua, diuisis per alias linguas ceteris gentibus, quae lingua prius humano generi non inmerito creditur fuisse communis, ideo deinceps Hebraea est nuncupata. Tunc enim opus erat eam distingui ab aliis linguis nomine proprio, sicut aliae quoque uocatae sunt nominibus propriis. Quando autem erat una, nihil aliud quam humana lingua uel humana locutio uocabatur, qua sola uniuersum genus humanum loquebatur. Cum enim legitur unam fuisse linguam primitus omnium ... Hebraea uocatur lingua, quam patriarcharum et prophetarum non solum in sermonibus suis, uerum etiam in litteris sacris custodiuit auctoritas: profecto, cum quaeritur in diuisione linguarum, ubi lingua illa remanere potuerit, quae fuit ante communis (quae sine ulla dubitatione ubi remansit, non ibi fuit illa poena, quae facta est mutatione linguarum), quid aliud occurrit, nisi quod in huius gente remanserit, a cuius nomine nomen accepit, et hoc iustitiae gentis huius non
paruum apparuisse uestigium, quod, cum aliae gentes plecterentur mutatione linguarum, ad istam non peruenit tale supplicium?». NEC ADERANT ... STOLIDITATEM OPERANTIUM DERIDEBANT: «l’innocen-
za degli ebrei, di fronte a quelli che parteciparono al misfatto di Babele, di semplice congettura esegetica, si muta nella fantasia di Dante in un vero e proprio episodio, come in un bassorilievo: gli ebrei guardano, scandalizzati, l’opera empia, senza prendervi parte» (Terracini 1957, p. 241); con un potenziamento della rappresentazione come al
$ 6 (vedi la nota relativa).
SED HEC... SICUT CONICIO: da Trissino in
poi si è sempre interpretato che la congettura di Dante sia che la fami69
De vulgari eloquentia
nima pars, quantum ad numerum, fuit de semine Sem, sicut conicio, qui fuit tertius filius Noe: de qua quidem ortus est populus Israel, qui antiquissima locutione sunt usi usque ad suam dispersionem. VIII. Ex precedenter memorata confusione linguarum non leviter opinamur per universa mundi climata climatumglia di Eber discenda da Sem (da ultimo la traduzione di Inglese 2002 [1998]: «E questa parte, piccolissima di numero, per quel che posso congetturare era sangue di Sem»). Ma questo è un fatto che il Genesi dice a chiare lettere (10, 21 e 11, 10-7). Per cui Mergaldo: «la congettura, benché espressa con la rara prima persona singolare, non è particolarmente ardita»; e lo stesso Mengaldo in ED, s.v. ebraico, p. 622: «È abbastanza curioso che Dante esprima sotto forma di congettura personale la tesi che il gruppo di ebrei sottratti alla punizione babelica ed eredi del sacratur ydioma appartenesse alla stirpe di Sem». Ma la congettura di Dante non è questa: è che il gruppo fosse molto esiguo, una piccolissima parte soltanto della discendenza di Sem. Congettura giustificata dall'elenco dei discendenti di Sem (Gr 10, 21-5), di cui Eber è solo uno fra i tanti; e in sintonia con il De civitate Dei, che,
da Babele in poi, limita la conservazione della lingua ebraica alla sola casa di Tara, padre di Abramo, «in qua custodita est plantatio ciuitatis
Dei»: XVI 12 «Una igitur Tharae domus erat, de quo natus est Abraham, in qua unius ueri Dei cultus et, quantum credibile est, in qua iam sola etiam Hebraea lingua remanserat ... ceteris ex progenie illius Heber in linguas paulatim alias et in nationes alias defluentibus». «Osservare la paronomasia serzine Sere, come in Rabano Mauro, Commentarium in Genesim II 9 “... filios Israel, qui venirent de semine Sem”, e cfr. Ep III 7 “in semine Semeles”» (Mergaldo). QUI... USQUE AD SUAM DISPERSIONEM: «appare deduzione ovvia, e metodicamente del tutto congrua con la dialettica colpa-punizione-dispersione in cui s'inquadra il precedente episodio della dispersione babelica» (P.V. Mengaldo in ED, s.v. ebraico, p. 622). Tuttavia non risulta che l’idea sia sta-
ta espressa da altri, e resta oscuro che cosa Dante sapesse e pensasse dell’«ebreo parlare, che ànno li Iudei ... che anco dura», come scrive Francesco da Buti nel suo Corzzzento (III, p. 702), mentre l’ebraico
dell'Antico Testamento, seguendo il giudizio di sant'Agostino riportato sopra, doveva apparire ancora la lingua originaria. VIN 1. NON LEVITER OPINAMUR: segnale inequivocabile di giudizio personale e ponderato: che la dispersione dell’umanità in tutti gli angoli della terra fosse avvenuta per la prima volta allora, cioè dopo 70
De vulgari eloquentia I VII 8-VII 1
va. Ma quanto al numero questa fu, suppongo, una parte minima della stirpe di Sem, che fu il terzo figlio di Noè: dal quale ebbe origine il popolo di Israele, che continuò a servirsi dell’antichissimo linguaggio fino alla diaspora. VIN. Non senza gravi ragioni riteniamo che fu allora, in seguito alla già ricordata confusione delle lingue, che per l’episodio babelico, non doveva essere pacifico per Dante, nonostante Gr 11, 4-9 sia univoco: «et celebremus nomen nostrum anteguar dividamur in universas terras ... atque ita divisit eos Dominus ex ilo loco in universas terras ... et inde dispersit eos Dominus super faciem cunctarum regionum»: vedi sotto. PER UNIVERSA MUNDI CLIMATA: dal momento che Dante, in Cv III V 12, Pd XXVII 81 e Mr I XIV 6, inten-
de clima secondo la nozione di Alfragano e Alberto Magno, cioè come una delle sette fasce latitudinali in cui si divide la terra emersa fra il polo boreale e l’equatore, è plausibile che abbia in mente qui la stessa nozione, alla quale si attengono pure Restoro d'Arezzo e l’Ottimo commento. Ma è anche plausibile che in questo caso agisca la nozione di clima dominante nella Patristica, secondo la quale i clirzata sono quattro, cioè i quattro punti cardinali, ovvero i quattro quadranti dell’ecumene; per esempio san Girolamo, Liber quaestionum hebraicarum in Genesim, p. 21: «quatuor climata mundi posuit, orientem et occidentem, septentrionem et meridianum»; Beda, De natura rerum liber 1343,
10, 1 «De plagis mundi. Climata, id est plagae mundi, sunt quattuor: orientalis ab exortu solstitiali ad brumalem, australis inde ad occasum brumalem...»; Pier Damiani, Serzzores 48 «Quatinus mundi princi-
pem ab omnibus undique plagis excluderet, dum quadrifidi orbis climata per quadratam crucis speciem occuparet». Isidoro in Etyr. II XLII ha entrambe le nozioni: 1 «Climata caeli, id est plagae uel partes, quattuor sunt, ex quibus prima pars orientalis est, unde aliquae stellae oriuntur»; 4 «Sunt et alia septem climata caeli, quasi septem lineae ab oriente in occidentem...». A favore della seconda interpretazione stanno: la costante associazione nei passi citati, come in Dante, con la parola plagae; il fatto che non tutti i sette climi («per uriversa mundi climata») sono abitabili, per l'eccessivo caldo o freddo; che nel mosaico di San Marco (Demus 1984, II 2, tav. 180) si dipartono dalla torre quat-
tro gruppi in direzioni a due a due opposte; che in Dante il gruppo che si dirige verso l'Europa ($ 2) è 0; il che concorda con la concezione
della terra emersa (la «gran secca» di If XXXIV 113) comunemente accettata e condivisa da Dante, ovvero con la sua rappresentazione come ecumene circolare del tipo “T in O”, cioè un cerchio, orientato 71
De vulgari eloquentia
que plagas incolendas et angulos tunc primum homines fuisse dispersos. Et cum radix humane propaginis principalis in oris orientalibus sit plantata, nec non ab inde con l’est in alto, diviso in una metà superiore (= orientale) occupata tutta dall'Asia e una metà inferiore (= occidentale) divisa fra l'Europa a sinistra (= nord) e l'Africa a destra (= sud): «a tipica carta cristianizzata» tardo-antica e medievale, come nota Scafi 2007 (2006), p. 73 (ampia
illustrazione alle pp. 73-80 e ad indicem «T-O, carte»). Questi mappamondi sono detti anche orosiani o isidoriani (cfr. la nota al $4) dal nome di due autori entrambi familiari a Dante: per un probabile riscontro lessicale con Isidoro in particolare cfr. la nota al $2. PLAGAS INCOLENDAS ET ANGULOS: per plagas vedi la nota precedente; angulos rimanderà specificamente alle «estremità peninsulari» (Marigo), e particolarmente alla penisola italiana (I X 7 «in hoc minimo mundi argu/o», unica al-
tra occorrenza della parola nel De vu/gari); ma anche alla penisola iberica, in cui finisce l'Europa, che «est figurae trigoni, circumfusa Oceano mari», con un 27g4/us in Galizia che guarda alla Britannia e uno nell’isola di Gades che guarda all'Africa (Alberto Magno, De natura loci II VII 10-23). Del resto l’intera Europa, come quarto nord-occidentale dell’ecu-
mene circolare, è triangolare: Ep VII 11 «tricornis Europa».
RADIX
HUMANE PROPAGINIS PRINCIPALIS: principalis significa ‘originario’,
come in «[ydioma] principalius» (unica altra occorrenza di questo aggettivo) di I IX 4. L'immagine della hurzaza propago, come ha ben visto Marigo, deriva da Ps 79, 9-12 (versione dei Settanta) «vineam de
Aegypto transtulisti eiecisti gentes et planzasti eam ... et plantasti radices eius ... extendit palmites suos usque ad mare et usque ad Flumen propagines eius» (e anche «usque ad mare» è riecheggiato da Dante in «demumque ad fines occidentales», e «usque ad flumen» negli «Europe flumina»); «suggestioni largamente produttive in contesti analoghi», come ha documentato Mergaldo. L'immagine va però intesa con preciso riferimento alla tecnica agricola della propagginazione della vite: il primo ramo della pianta, dopo essere sufficientemente cresciuto, viene propagginato, cioè interrato, a distanza dalla radice, e da emette nuove radici (secondarie appunto rispetto alla prixcipalis) che diventano nuove propaggini. Questa «pianta non nata da seme», dunque, r0r è, come
propone Marigo, «immagine della prima coppia umana ... creata da Dio nella pienezza dell'età». Anzi, Adamo ed Eva sono la «radix principalis», piantata da Dio «in oris orientalibus», cioè (vedi sotto) nel paradiso terrestre; la bumzana propago è il ramo esteso dall’umanità, ancora unita, nella sua migrazione dal paradiso fino alia piana di Sennaar (Gn 11, 2 «cumque proficiscerentur de oriente invenerunt campum in terra Sennaar et habitaverunt in eo»), d2 dove prolifica dividendosi in 72
De vulgari eloquentia I VII 1
la prima volta gli uomini furono dispersi ai quattro angoli del mondo, per tutte le regioni da abitare e tutti i recessi. E, poiché la radice originaria dell’umana propaggine era stata piantata sulle spiagge d’Oriente, e la nostra propaggine, da quel punto in cui avvenne la confusione in poi, molti tralci. IN ORIS ORIENTALIBUS SIT PLANTATA: Gy 2, 8 «Et plantavit Dominus Deus paradisum in Eden ad ortenterz, in quo posuit hominem, quem formaverat». Iw oris orientalibus, quindi, non significa genericamente «nelle terre orientali», «nelle terre d’Oriente» (Marigo e Mengaldo).I primi significati di orz in latino sono ‘margine, bordo, limite, estremità’ e ‘costa, spiaggia, litorale’, e si attagliano entrambi alla
definizione del luogo originario dell’umanità, il paradiso terrestre, posto esattamente all’estremità orientale dell’ecumene, e assunto come dato geografico fondamentale da Isidoro (Etymz. XTV MI 2 «Paradisus est locus in orientis partibus constitutus»), che da lì inizia la trattazione dell'Asia, prima parte del mondo («Habet autem provincias multas et regiones, quarum breviter nomina et situs expediam, sumzpto initio a Paradiso»). Nella traduzione cartografica che ne deriva il paradiso si identifica con l'Oriente ed è il primo luogo, sul bordo dell'Oceano in alto al centro della mappa, da cui discende tutta la rappresentazione dell’ecumene nella tipica forma “T in O”. «La maggioranza delle carte T-O raffigurano ... il giardino dell'Eden come la prima regione dell'Asia [prima partendo da est, coincidente col punto che identifica l’est] e lo situano all’interno del cerchio che contiene la terra abitata» (Scafi 2007 [2006], pp. 73 e 75). AB INDE: espressione ignota al latino classico, con pochi esempi mediolatini significanti a quanto pare ‘da Îì (in avanti)”, preferibilmente con ripresa di un precedente complemento di moto da luogo, come in Dante poco sotto ($ 4): «Ab #sto incipiens ydiomate ... aliud occupavit totum quod 40 ide vocatur Europa»; e per esempio, in un contesto simile, in Ugo da San Vittore, Practica geometriae, Praenotanda, p. 20, 1. 113 «Postea ab orizonte meridiano usque ad verticem subterius tertius constituitur et 45 ide usque ad orizontem septentrionalem quartus demonstratur hoc modo» (ed. Buttimer 1939). Anche per questo motivo, ma non solo, 46 ‘de non rimanda (come intendono tutti icommenti) alla radix principalis, ossia all’inizio, della pwmana propago, cioè al paradiso terrestre; bensì al punto opposto in cui essa, la propago, emise nuove radici e dal quale punto diffuse molteplici tralci: cioè da Babele, riconnettendosi al complemento «Ex precedenter memorata confusione linguarum», che è sempre in primo piano nella gerarchia dell’informazione che Dante sta comunicando; e dietro
di esso, in trasparenza, al complemento di moto da luogo nel testo base, (e)
De vulgari eloquentia
ad utrunque latus per diffusos multipliciter palmites nostra sit extensa propago, demumque ad fines occidentales protracta, forte primitus tune vel totius Europe flumina vel saltim quedam rationalia guctura potaverunt. [2] Sed sive advene tunc primitus advenissent, sive ad Europam indigene cioè «divisit eos Dominus ex #//0 loco [ossia dalla piana di Sennaar] in universas terras ... et de dispersit eos Dominus super faciem cunctarum regionum» (Gr 11, 4-9). Infatti il soggetto cambia: a essere plantata nel paradiso terrestre non è la hurzana propago ma la sua radix principalis; a essere extensa in tutte le direzioni, a partire dalla piana di Sennaar, è la nostra propago stessa. Se invece si intende, come si è sempre fatto, che ab inde si colleghi al complemento di luogo più vicino nella frase, cioè ir oris orientalibus, tutta la metafora viticola della pro-
pago viene cancellata e con essa la fondamentale “tappa” babelica nella storia dell'umanità.
AD UTRUNQUE LATUS: non «verso oriente e
verso occidente» (Marigo e Mengaldo), ma piuttosto da entrambi i lati rispetto al cammino est-ovest fin lì percorso dal paradiso a Babele; e cioè verso nord e verso sud (o meglio radialmente — «per diffusos multipliciter palmites» — in più direzioni dal lato nord e in più direzioni dal lato sud). Alla stessa interpretazione inducono i climzata precedentemente menzionati, che li si intenda nel senso di fasce latitudinali o di
punti cardinali. PER DIFFUSOS MULTIPLICITER PALMITES: vedi sopra la citazione da Ps 79, 9-12. FORTE PRIMITUS TUNC: forte è il secondo segnale di dubbio, dopo «non leviter opinamur»: se, come dice Gr 11, gli uomini erano ancora tutti uniti e provenivano da oriente, l'Europa non poteva essere stata abitata prima: vedi la nota seguente. VII 2. SED SIVE ADVENE ... INDIGENE REPEDASSENT: terzo e ulti-
mo segnale di dubbio: dato Gr 11, non dovrebbe essere ipotizzabile che i migranti da Babele all'Europa potessero essere degli indigeni europei che vi facevano ritorno. La perplessità di Dante è manifesta, è ha origine nell’incoerenza del racconto biblico, con le sue stratificazioni
redazionali, che prima, nel cap. 10, tratta dell’origine e della dispersione dei popoli e delle relative lingue dopo il diluvio, seguendo le genealogie dei tre figli di Noè; poi, nel cap. 11, riparte dicendo che tutta la terra aveva una sola lingua, assume inequivocabilmente che l’umanità era ancora tutta unita, quindi racconta l’episodio della torre e laconseguente dispersione. Filastrio da Brescia (secolo IV), nel suo De baeresibus liber, riteneva addirittura eretica la tesi della confusio linguarum a Ba-
bele, e pensava che le lingue si fossero già divise prima, per effetto naturale della dispersione dei Noachidi. Nardi 1983 (1921), p. 192, suggerisce che Dante possa esserne stato influenzato nel far recitare ad 74
De vulgari eloquentia I VIN 1-2
si estese da una parte e dall’altra moltiplicando a distesa i suoi tralci, e da ultimo si spinse fino ai confini occiden-
tali, fu forse allora per la prima volta che gole di esseri razionali bevvero ai fiumi di tutta Europa, o almeno ad alcuni. [2] Ma, sia che vi arrivassero allora per la prima volta da stranieri, sia che ritornassero in Europa da indigeni, Adamo la sua palinodia in Pd XXVI, ma è praticamente impossibile che egli conoscesse Filastrio. Dante, invece, prese coscienza dell’aporia del Genesi con l’aiuto del De civitate Dei, che (precisamente stimolato da Filastrio) la risolve con l'espediente esegetico della recapitulatio: XVI 4 «Cum ergo in suis linguis istae gentes fuisse referantur [cap. 10], redit tamen narrator ad illud tempus, quando una lingua omnium fuit, et inde iam exponit, quid acciderit, ut linguarum diuersitas nasceretur [cap. 11]» (e più ampiamente sulla recapitulatio in De doctrina christiana, testo che Dante cita in Mw III IV 8, III XXXVI 52-3). Ma non
dovette rimanere pienamente soddisfatto di quella soluzione, perché la dispersione causata dalla incomunicabilità introdottasi nelle operazioni, e dalla conseguente aggregazione delle genti sulla base della lingua rimasta in comune a questo o a quel gruppo, come in sant'Agostino, De civitate Det XVI 4 («Sic illa conspiratio dissoluta est, cum quisque ab eo, quem non intellegebat, abscederet nec se nisi ei, cum quo loqui poterat, adgregaret; et per linguas diuisae sunt gentes dispersaeque per terras, sicut Deo placuit, qui hoc modis occultis nobisque incomprehensibilibus fecit») e nello stesso Dante (I VII 7), non si conciliava con
una divisione per linee genealogiche, con le formule, iterate in Gr 10 e variamente riportate da Agostino, «unusquisque secundum linguam suam et familias suas in nationibus suis», «1 cognationibus, et linguis,
et generationibus terrisque et gentibus suis», «secundum cognationes, et linguas, et regiones, in gentibus suis». Cfr. Tavoni 1987, pp. 433-9. Un altro testo che doveva mettere Dante sull’avviso dell’aporia erano le Etymologiae di Isidoro, che accettava la recapitulatio al punto da invertire la trattazione corrispondente ai capp. 10 e 11 del Genesi (IX I 14 «Ideo autem prius de linguis, ac deinde de gentibus posuimus, quia ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt»), ma assegnava l'Asia a Sem, l'Europa a Japhet e l'Africa a Cham, fatto evidenziato dalle diffusissime mappe isidoriane del mondo, di tipo “T in O”, perciò dette anche “mappe noachiche”. Queste potevano rappresentare, agli occhi di Dante, il più vistoso elemento di incompatibilità con la dispersione dei popoli come conseguenza di Babele. L'origine noachica della varietà delle lingue si trova anche in un testo volgare vicino a Dante (cfr. la nota aIIX 11), il Tesoro di Brunetto Latini versificato (1310): «Da 75
De vulgari eloquentia
repedassent, ydioma secum tripharium homines actulerunt; et afferentium hoc alii meridionalem, alii septentrionalem regionem in Europa sibi sortiti sunt; et tertii, quos nunc Grecos vocamus, partim Europe, partim Asye occuparunt. lo ’ncominciamento una parlaura fue; / come si divisero le parlature vi dicerò / dove, innanzi, i figliuoli di Noè vi diviserò». In questo schema
noachico potevano convergere le spiegazioni della varietà delle lingue per diversitas locorum portate alla luce da Stabile 2007 (1997); e cfr. Gensini 2007.
YDIOMA SECUM TRIPHARIUM HOMINES ACTULERUNT:
secondo l’interpretazione di Marigo accettata da tutti per mezzo secolo ydioma tripharium significa un unico idioma babelico europeo portatore di una tripartizione potenziale che in seguito si attualizzerà: traduzione «un idioma triforme»; «gli uomini migranti in Europa portarono con sé un ydiorza già differenziato in tre maniere diverse (tripharium) senza perdere tuttavia l’impronta dell’unità originaria». Così Vinay 1959, p. 384 («tutti i linguaggi europei derivano per Dante da un solo linguaggio di confusione che sta all’origine non dell’unità romanza, ma dell’unità romanzo-germanico-greca»); Panvini 1966, p. 189 («ognuna delle tre varietà nate dall’originario ydiorza tripharium europeo în vindice confusione recepto»); Mengaldo (traduzione «una lingua triforme»: «qui si allude naturalmente a tripartizione potenziale o incipiente»; «quella lingua che recarono con sé in Europa i transfughi di Babele, e che poi a sua volta si divise in tre rami, quello germanico ..., quello dei “Graeci” e quello “romanzo”», lo stesso Mengaldo in ED, s.v. tripharius, p. 722). Ma questa interpretazione comporta contraddizioni insanabili: vedi le note a I VIN 3 e I IX 2. In realtà (Tavoni 1987, pp. 41733, e 1990a; e cfr. Marazzini - Del Popolo 1990, p. 134 nota 3; Inglese 2002 [1998], pp. 17 e 66 nota 2; Rosier-Catach 2008, pp. 9-10) ydiomza tripharium significa ‘un triplice idioma’ nel senso di tripartizione attuale, non potenziale, cioè ‘tre idiomi’, dato che solo questo è il significato degli avverbi classici trifariarz e trifarie e dell'aggettivo postclassico trifarius. In san Tommaso si ha un uso frequente di tutta la serie avverbiale bi-, tri-, quadri-, multifariam e -farie, sempre nel significato normale di ‘duplice’, ‘triplicemente’, ecc., e qualche attestazione dell’aggettivo r2u/tifarius, anch'esso soltanto nel semplice significato di ‘molteplice’. E in Uguccione, F 50 39-40 (con rietimologizzazione su farà):
«Item for componitur cum bis et dicitur bifarizs -a -um, et cum tris et dicitur trifarius -a ‘um, et quadrifarius «a «um, et multifarius ce) e la conservazione di -s (cor-
retta in fas da FACIS, ipercaratterizzata in ces); la forma interrogativa fas-t4, con posposizione del pronome personale, si conserva ancora nel veneziano moderno. Perfetta la coincidenza con il verso «Ce fastu achì tan plasèvol e tan cortès?» del “soneto furlan” E là four del nuestri chiamp (Pellegrini! 1965), che però difficilmente è anteriore a Dante. Zuliani 2007 ha dimostrato che forme allocutive contratte come questa erano tronche (vedestà) in toscano antico, sulla base degli accenti degli endecasillabi che le conten-
gono nel TLIO. Anche «crudeliter accentuando» farebbe propendere per l’interpretazione tronca, ma lo stesso argomento prosodico richiede fast piano nel verso citato del “soneto furlan” e nel v. 4 «e certo cusì fas-tu en Riolto» del sonetto veneziano di Nicolò de’ Rossi Vergo, co’ tu sis struolego (cfr. la nota a I XIV 6). CRUDELITER ACCENTUANDO
ERUCTUANT:
«eructuant non avrà con-
notazione negativa ... ma indicherà semplicemente l’esprimersi» (Mengaldo, sulla scia di Contini), comunque con particolare impeto (cfr. II IV 2 ed Ep III 2); ma in combinazione con «crudeliter accentuando» assume valore molto negativo. MEDIASTINIS:
vedi la nota a I XV 6.
UT CASENTINENSES ET FRACTENSES: a dif-
ferenza di tutte le altre parlate “sradicate” in questo capitolo, di cui non ha nessuna reale esperienza, con quelle del Casentino e
della Fratta Dante era stato a stretto contatto nei primissimi anni dell’esilio: per il Casentino cfr. Ep I e II, I{XXX 64-6, Pg V94-5 e 136
De vulgari eloquentia I XI 6-7
[6] Dopo questi setacciamo via aquileiesi e istriani, i quali prorompono in un rozzo Ces fas-t4? E assieme a queste buttiamo via tutte le parlate montanare e rusti-
che, che all’orecchio dei cittadini stridono per la deformità dell’accento, come quelle del Casentino e della Fratta. [7] I sardi poi, che non sono italiani ma andranno associati agli italiani, gettiamoli via anche loro, dal momento che, unici, sembrano privi di un proprio volgare, e imi114-5; la Fratta, precisamente, rimanda a «un minore castello ap-
partenente ai conti Guidi di Modigliana e sito nell’alta valle del Montone sopra San Benedetto in Alpe» (Carpi 2004, p. 479; e già Pézard 1969, pp. 19-29), per cui cfr. I{XVI 94-102. Il giudizio linguistico riflette in questo caso un implicito giudizio negativo sulla degradata realtà tardo-feudale dell'Appennino tosco-romagnolo,
come la battuta su Pietramala in I VI 2. Il Casentino e la Fratta così identificata si affrontano rispettivamente sul versante toscano e su quello romagnolo di questo crinale, il che rende preferibile l’identificazione rispetto alla Fratta in Val di Chiana e alla Fratta in Val Tiberina, oggi Umbertide (Rajna 1896, Margo). XI 7. SARDOS ... VIDENTUR: che la Sardegna, come la Sicilia, non
faccia parte dell’Italia vera e propria, ma sia da “associare” a essa, era già stato detto in I X 5 (e cfr. «un che fu di là vicino», cioè vicino
all’Italia, per designare un sardo in I{TXXII 65-7). La Sardegna, sotto influenza pisana e genovese, rientrava pienamente nelle vicende politiche del Duecento, e ha lasciato molti riferimenti nella Corzzedia nei personaggi di Frate Gomita di Gallura e Michele Zanche di
Logudoro (IfXXTII 81-90), del giudice Nino Visconti (Pg VIII 52-4), dello stesso Ugolino della Gherardesca (If XXXII-XXXIII), ecc.; e in Pg XXIII 94-6 Dante stigmatizza i costumi proverbialmente impudichi delle donne di Barbagia. Ma non c’è ragione di credere che egli abbia mai messo piede nell'isola. SOLI... IMITANTES: la caratterizzazione linguistica del sardo è unica: l'estrema conservatività di questa lingua romanza (la sola che deriva dal latino repubblicano) doveva presentarsi a Dante come appariscente identità col latino in qualche lessema e nelle -s finali, tanto da suggerirgli il paradossale giudizio che i sardi siano privi di un volgare proprio e che comunichino imitando come scimmie il latino. Giudizio che non sarà da prendere alla lettera, perché sarebbe incompatibile con i postulati teorici di Dante (I I, I IX 11, ecc.), ma da intendere come tagliente caratterizzazione i iproperium («iperbole motteggiatrice», Ma137
De vulgari eloquentia
videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus locuntur.
XII. Exaceratis quodam modo vulgaribus ytalis, inter ea que remanserunt in cribro comparationem facientes honorabilius atque honorificentius breviter seligamus. [2] Et primo de siciliano examinemus ingenium: nam videtur sicilianum vulgare sibi famam pre aliis asciscere eo quod quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur, et eo quod perrigo). DOMUS NOVA ET DOMINUS MEUS: «domus nova» è di tutti e tre i manoscritti, «dominus meus» è di GT contro «dom’ novus» di
B. La lezione qui mantenuta a testo (seguendo Rajna 1896, che però non conosceva B, e Mengaldo 1968) è dunque la più semplice. Marigo propone la soluzione congetturale «domzinus nova et domus novus», che esprimerebbe l’«impressione che il sardo sia una parlata piena di irrazionali solecismi»; soluzione giudicata «elegantissima e definitiva» da Contini 1939, p. 286. Ma la lezione tràdita è difendibilissima, e non si vede perché, essendo il tratto messo alla berlina la scimmiottatura del latino, questa dovrebbe essere ulteriormente
complicata dal solecismo. Domus nova deve provenire dal frequente toponimo Domusnovas (al plurale), e dorzinus dal sardismo donno ‘padrone, governatore’, di cui Dante è consapevole, dato che lo
usa solo in riferimento a personaggi legati alla Sardegna: If XXII 83 e 88, XXXIII 28. XII 1. EXACERATIS ... BREVITER SELIGAMUS: si salta dall’estre-
mo più basso della scala di dignità dei volgari nel cap. XI all’estremo più alto in questo cap. XII. XII 2. DE SICILIANO EXAMINEMUS INGENIUM: costruzione identi-
ca a Pg III 56 «essaminava del cammin la mente», non ovvia né in la-
tino né in volgare. Ha un significato diverso dalla comune costruzione «si tuscanas examinemus loquelas» (I XII 5), ovvero «essamina le colpe ne l’intrata» (IfV 5). Mentre in questi esempi ilverbo significa ‘giudicare”, il che implica nel soggetto una capacità di giudizio presupposta e superiore all’oggetto sottoposto a esame, nel nostro caso significa ‘interrogarsi’, azione mentale introspettiva di fronte a un dato che chiede di essere interpretato: qui il volgare che si impone indubitabilmente per primo come «honorabilius atque honorificentius». Dante non si chiede se ilvolgare poetico siciliano sia eccellente, ma perchélo sia. SIBI
FAMAM PRE ALIIS ASCISCERE: non tanto «si attribuisce» fama (Mari-
go, Mengaldo), ma con più forza ‘si arroga’, ‘rivendica a sé”: asciscere è, 138
De vulgari eloquentia I XI 7-XII 2
tano la grammatica come le scimmie imitano gli uomini: dicono infatti dorzus nova e dominus meus. XII. Liberati in qualche modo dalle scorie i volgari italiani, passiamo a confrontare quelli che sono rimasti nel setaccio e scegliamo rapidamente quello che merita e conferisce più onore. [2] E per primo interroghiamoci sul siciliano: è evidente infatti che il volgare siciliano attira a sé fama superiore agli altri perché tutto ciò che scrivono in poesia gli italiani si chiama siciliano, e perché troviamo che molti non a caso, il verbo costantemente usato nella Monarchia per ribadire il concetto che il popolo romano rivendica a sé l’ufficio, la dignità, il diritto dell’Impero (I 1 3,II 11, IM 1,IV19,IIX7, II xv 16). E la giustezza della rivendicazione è confermata dal «remansisse» del $ 3, che dà come oggettivo il permanere di tale fama. EO QUOD... SICILIANUM VOCATUR: l'affermazione trova riscontro (Marigo, Mengaldo) nelle Regles de trobar del catalano Jofre de Foixà, che menzionano fra le lingue della lirica, accanto a provenzale, francese, gallego e catalano, il cicilià. Ma si tratta di un testo scritto per Giacomo II re di Sici-
lia (1286-91). Non se ne ha invece conferma in nessun testo volgare italiano: sulle più di 1000 occorrenze di cigliaro, siciliano del TLIO bisogna
arrivare al Triumphus Cupidinis IV di Petrarca per trovare un riferimento ai siciliani in chiave letteraria: 35-6 «e i Ciciliani, / che fur già primi, e quivi eran da sezzo». L'affermazione di Dante, che assertivamente presenta questo uso terminologico come un dato di fatto, e lo ribadisce al $ 4, in realtà, più che registrarlo, vuole instaurarlo.
POETAN-
TUR: per il valore di poetari, riservato a quanti hanno composto versi in volgare illustre e stile alto, vedi la nota a I X 2. Ha il nome di siciliana, per Dante, tutta la produzione italiana in versi che merita di essere detta poesia.
ET EO QUOD ... IN CANTIONIBUS ILLIS: secondo
motivo della superiore fama dei siciliani è che la produzione in versi che merita il nome di poesia è, da parte di loro, ampia («perplures doctores indigenas»), solenne («graviter cecinisse»), metricamente alta («in
cantionibus illis»). Nel seguito del capitolo nome di “siciliano”, la produzione poetica idealmente riunendo le due parti del Regno la Sicilia e l’Apulia, attualmente divise, per
Dante accomuna, sotto il dei siciliani e degli apuli, federiciano di Sicilia, cioè effetto della sconfitta sve-
va, fra Aragonesi in Sicilia e Angioini nel meridione continentale; e con
ciò riunendo i poeti della Curia federiciana, che erano in parte siciliani 139
De vulgari eloquentia
plures doctores indigenas invenimus graviter cecinisse, puta in cantionibus illis Ancor che l’aigua per lo foco lassi in parte apuli. Questa unità è sancita, nel capitolo, dalla disposizione a chiasmo di due canzoni illustri siciliane — un verso popolare siciliano = un verso popolare apulo — due canzoni illustri apule. IN CANTIONIBUS ILLIS: queste due canzoni illustri siciliane, come le due canzoni illustri apule menzionate al $ 8, sono citate senza nome d’autore. La mo-
tivazione che viene ripetuta per questa omissione (Marigo, Mergaldo, Marti nelle voci corrispondenti dell’ED), cioè che erano talmente note
da rendere superfluo nominarne gli autori, non persuade. Perché queste quattro canzoni avrebbero dovuto essere tanto più note, al pubblico di Dante, delle più rinomate canzoni di Guinizelli, Cavalcanti, ecc.? Perché i nomi degli autori avrebbero dovuto essere taciuti per il solo fatto di essere celebri? Tre di queste canzoni Dante le cita una seconda volta, in II V 4 e VI 6, lì facendole precedere dai nomi degli autori:
perché in quel caso il criterio della chiara fama non si applica? Non è neanche vero che ://e aggettivo posposto al nome comporti una speciale messa in evidenza, indice di notorietà: cfr. inormali esempi di I XVI 2, Mn I XII 7, XVI 1, ecc. Le citazioni di versi incipitari di canzo-
ni illustri nel trattato sono 50. Le altre 46 sono tutte precedute dal nome del poeta. Solo le quattro citazioni di questo cap. XII — cioè tutte e soltanto le citazioni scelte per illustrare la scuola poetica federiciana — sono anonime. Si potrebbe pensare che l’informazione a disposizione di Dante sia aumentata nel tempo fra la composizione di questo capitolo e quella dei capp. V-VI del libro II. Ma, senza escludere del tutto condizionamenti contingenti di questo tipo, credo che la ragione sia strategica: Dante vuol presentare i poeti federiciani come un collettivo, formato da un nucleo molto numeroso di siciliani («perplures doctores irzdigenas») e da uno ancor più ampio intorno creatosi per attra-
zione dei migliori fra tutti gli italiani ($4 «corde nobiles atque gratiarum dotati ... excellentes animi Latinorum»). Perciò non fa nessun nome, e parla di questi poeti solo al plurale ($ 6 «ab ore prizzorur Siculorum emana», $ 8 «prefulgentes eorum quidam polite locuti sunt, vocabula curialiora in suis cantionibus compilantes, ut manifeste apparet eorum dicta perspicientibus»), e le poche canzoni citate sono solo un esempio («puta in cantionibus illis», «ut manifeste apparet eorum dicta perspicientibus, 2 puta»). Mentre i pochi altri doctores eloquentes sparsi per l’Italia hanno attinto il volgare illustre per propria conquista individuale, imolto più numerosi poeti federiciani sono il risultato di una eccezionale “politica culturale”. ANCOR CHE ... MHAI MENATO: le 140
De vulgari eloquentia I XII 2
maestri siciliani hanno cantato con solennità, per esempio nelle canzoni Ancor che l’aigua per lo foco lassi due canzoni illustri siciliane messe in massima evidenza sono entrambe di Guido delle Colonne, che dunque si impone (fatto salvo l’anoni-
mato, di cui sopra) come il massimo rappresentante della scuola agli occhi di Dante (mentre ha un rilievo minore il Notaio Giacomo da Lentini, scambiato per apulo al $ 8, che invece è l’indiscusso caposcuola non solo per noi moderni, ma anche per il canzoniere V, cioè il ms. Vaticano latino 3793, fiorentino: il più ampio e organicamente ordinato dei tre canzonieri toscani di fine Duecento che ci hanno tramandato la lirica duecentesca; che, sulla scorta di Contini 1952, p. 386, comunemente si ritiene affine al canzoniere che dovette essere di Dante; ma
vedi sotto). Il giudice Guido delle Colonne di Messina, nato verso il 1210 e attivo come poeta fra il 1240 e il 1280 circa, si identifica probabilmente con l’autore della Historia destructionis Troiae composta nel 1287, all’estremo «di una eccezionalmente tarda e verde e latina vecchiezza dello stesso uomo che in giovinezza era stato autore di rime volgari» (Dionisotti 1965, p. 456). Forse questa stessa statura latina del personaggio (coerente con la complessità sintattica attibuitagli, ai sensi di II VI 7) può averlo fatto spiccare agli occhi di Dante; 0, «più ancora forse che la preziosità retorica e la tecnica illustre, si può congetturare che abbia attirato Dante l’euristica delle immagini, in particolare
delle scientifiche di tipo guinizzelliano avanti la lettera» (Contini 1960, I, p. 96). Le due canzoni (su cinque pervenuteci) qui citate senza nome d’autore sono entrambe menzionate una seconda volta, con nome d’autore, in II VI 6 e V 4; in entrambi i casi qualificate come cantiones
illustres. Tutta la produzione illustre propriamente siciliana citata da Dante si riduce dunque a queste due canzoni di Guido delle Colonne. Il che non andrà affatto interpretato come segno di scarsa ammirazione («evidentemente egli non trovava in essa [la produzione lirica siciliana], salvo poche eccezioni, molti pregi intrinseci», Marigo). Al contrario, Dante intende evidentemente esaltare la scuola poetica siciliana. Se ne cita poche canzoni sarà semmai per scarsa documentazione, in assoluto o nel momento contingente della composizione del De vul/gari. ANCORCHE.... LASSI: citata anche in II VI 6 come esempio di «gradus constructionis excellentissimus», «persuade per tutto ciò che riguarda la constructionis elatio, la excellentia vocabulorum e la gravitas sententiaruri, lascia ben perplessi circa la fondamentale regola della superbia carminum» per l'eccessivo «uso del settenario (sono 13 settenari in ciascuna stanza di 19 versi), che da Dante è ammesso nella metrica “tra141
De vulgari eloquentia et
Amor, che lungiamente m'hai menato.
[3] Sed hec fama trinacrie terre, si recte signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in obproprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico more sed plebeio secuntur superbiam. [4] Siquidem illustres heroes, Fredericus Cesar et benegenitus eius Manfredus, gica”, dummodo ... vincat endecasillabum (VE II XII 6), a patto cioè che il numero dei settenari sia inferiore a quello degli endecasillabi»; nell’alta valutazione dantesca, quindi, «sembra reperibile una motivazione autobiografica», cioè «quell’“usufruimento scientifico in forma di metafora” ... [cfr. Contini 1960, I, p. 107] che era stato anche suo e che di solito si dice iniziato da Guinizzelli» (M. Marti in ED, s.v. Gu?
do delle Colonne, p. 323). Il fatto che Ancor che-ll’aigua non compaia nel canzoniere Vaticano latino non depone a favore del luogo comune, ripetuto sulla scorta di Contini 1952, p. 386, che il canzoniere a cui attingeva Dante fosse un suo affine. Anzi «si sottrae alla presenza incombente di questo manoscritto la precedenza data tra i siciliani a Guido delle Colonne su Giacomo da Lentini: il primo, non il secondo ... venendo assunto a specimen di sicilianità trascendentale, sciolta dalle bassure del dialetto natio» (Giunta 1998, p. 38). AMOR... MENATO: citata anche in II V 4 come esempio di canzone cominciante con
un endecasillabo, «a una verifica tecnica effettuata attraverso il crivello delle teorie dantesche ... risponde a tutti i requisiti richiesti dalla consistenza dello stile “tragico”» (M. Marti in ED, s.v. Guido delle Colonne, p. 323): la superbia carminum, condizione fondamentale della gravitas (è composta di soli endecasillabi, con rime interne), la excel-
lentia vocabulorum (è ricca di gallicismi) e la elatto constructionis. XII 3. SED ... SUPERBIAM: ecco la risposta (politica) all’interrogativo circa la perdurante fama poetica del siciliano: essa viene ascritta al glorioso merito dell’imperatore Federico II e di suo figlio Manfredi e al vergognoso demerito dei principi italiani attuali. 'TRINACRIE TERRE: che trinacrie sia aggettivo (Rajna 1896, Marigo, Mengaldo) è possibile ma non certo (nell’uso latino l’aggettivo è molto più raro del sostantivo). Comunque, la scelta di trinacria terra o Trinacrie terra che sia non è casuale: in questo capitolo, che mette alla berlina anzitutto Federico III d'Aragona e Carlo II d'Angiò ($ 5), cioè i due re che con la recentissima pace di Caltabellotta (1302) si erano spartiti il Regno unico del grande Federico II, il toponimo Trinacria (esattamente come nell’esempio di II VI 4 in cui è collegato a Carlo di Valois) allude intenzionalmen142
De vulgari eloquentia I XII 2-4
Amor, che lungiamente m’hai menato.
[3] Ma questa fama della terra di Trinacria, se guardiamo bene a quale bersaglio punta, appare esser rimasta in vigore solo a vergogna dei principi italiani, i quali seguono la superbia non al modo degli eroi ma al modo dei plebei. [4] E certo quegli eroi luminosi, Federico imperatore e il suo degno figlio Manfredi, spante al Regnum Trinacriae, creato in quell’occasione per distinguerlo dal Regnum Siciliae, nome rimasto alla parte continentale. Vale qui la stessa intenzione che sottostà all’uso di Trinacria in Pd VIII 67, come no-
tato da Toynbee 1902, p. 276: «The employment ... by Charles Martel of this particular name for Sicily adds an additional sting to his utterances (which, of course, are partly prophetic) in rebuke of his house; and there can hardly be a doubt that Dante introduced it here with this intention, and not as a mere synonym for Sicily as the commentators take it». E il trinaoria (0 Trinacrie) terra è un declassamento di Regnum Trinacriae a mera espressione geografica, a conferma della “geogra-
fia militante” già dimostrata da Dante in tutta la descrizione dell’Italia del cap. X. QUI... SECUNTUR SUPERBIAM: uso medio di superbia, a un estremo vizio plebeo ma all’estremo opposto stigma di eroismo. XII 4. ILLUSTRES HEROES: Uguccione, H 16 11 «beros -ois, idest barro, vir fortis, sapiens et potens, quasi vir herus vel quasi dominus terre; vel heros quasi ethereus quia pro fortitudine et sapientia celo dignus est»; «ma ancor meglio la concezione aristotelica, Eh. Nic.
11452 ... della virtus heroica o divina quale virtù sovrumana che fa l’uomo simile alle sostanze separate, contrapponendosi alla bestialitas ... il che chiarisce l’antitesi burz4za-brutalia; e vedi naturalmente l’opposizione viver come bruti / seguir virtute e canoscenza di IFXXVI 11920 ... e forse ha qui sapore aristotelico anche i/lustres, vedi Eth. Nic. 1099a “eorum, qui in vita bonorum et optimorum operantes recte, illustres fiunt” (e vedi commento tomistico, I, 1. 12, n. 15)» (Mergaldo).
Heros-heroicus sono parole dantesche caratteristiche di questo preciso momento: gli equivalenti volgari non compaiono mai in tutta l’opera di Dante, ed heroicus si ritrova esclusivamente nell’Ep II in morte del conte Alessandro di Romena — «Et quid aliud berozca sua signa dicebant» — che ha uno stretto parallelismo col $ 5 di questo capitolo (vedi la nota relativa).
FREDERICUS CESAR ET BENEGENITUS EIUS MAN-
FREDUS: è questo, in tutta l’opera di Dante, il momento di massima, incondizionata esaltazione di Federico II. Il merito di aver catalizzato 143
De vulgari eloquentia
nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec
fortuna permisit humana secuti sunt, brutalia dedignantes. Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inherere tantorum principum maiestati conati sunt,
ita ut eorum tempore quicquid excellentes animi Latinorum enitebantur primitus in tantorum coronatorum
aula prodibat; et quia regale solium erat Sicilia, factum la prima realizzazione del volgare poetico italiano non è che il riflesso letterario della sua “eroica” azione politica. «La collocazione di Manfredi ... allo stesso livello del padre, e soprattutto la definizione benegenitus, andranno intese come polemiche nei confronti della libellistica guelfa, che ne sfruttava la nascita illegittima» (Merga/do; per contro «“figlio ... che mal nacque” è chiamato il bastardo abate di San Zeno, figlio di Alberto Scaligero, Pg XVIII 124», Marigo). Sarà ben diversamente guelfo il punto di vista dell’Iferzo su Federico II: condannato come eretico in X 119 ed evocato in luce non positiva nell’episodio di Piero della Vigna (XIII 64-9). Mentre nel Purgatorio l'amato Manfredi (ITI 107 «biondo era e bello e di gentile aspetto») viene sì salvato grazie alla «bontà infinita» di Dio (121 «Orribil furon li peccati miei»), ma ciò che conta è l'eccezionale salvezza dello scomunicato figlio e successore di Federico. NOBILITATEM ... PANDENTES: «forrz4 è termine scolastico che designa la natura sostanziale delle cose; nell'uomo l’anima,
mentre il corpo è la materia. Anche in Cv III VI 5 “la forma umana”, l’anima umana» (Marigo): e forma significa ‘anima’ anche in Cv III VI 12, {XXVII 73, Pg IX 58 e XVIII 49, Pd IV 54. Dunque la robilitas di Federico e Manfredi che Dante esalta è la loro nobiltà d’275770, non la loro — pur suprema —- nobiltà di sangue; nobiltà d’animo che attira empaticamente, due righe più sotto, i «corde nobiles» (ovvero gli «excellentes 27272») di tutta Italia. Così Dante attrae Federico II nell’orbita della teoria della nobiltà d’animo espressa nella canzone Le dolci rime (che porrà a base del quarto libro del Convivio), composta a Firenze proprio in contrapposizione alla teoria della gentilezza attribuita all'imperatore, sbrigativamente evocato con «Tale imperò che gentilezza volse, / secondo ’] suo parere, / che fosse antica possession d’avere / con reggimenti belli» (vv. 21-4). DONEC FORTUNA PERMISIT: il rimando al virgiliano «dum fortuna fuit» (Aew. III 15, Marigo) appare pertinente perché la rovina di Troia è un parallelo appropriato, nell’ottica imperiale di questo capitolo, alla rovina della Casa di Svevia. HUMANA... BRUTALIA: vedi sopra la matrice aristotelica di questa opposizione.
QUICQUID EXCELLENTES ANIMI LATINORUM:
144
Dante vuol
De vulgari eloquentia I XII 4
dendo la nobiltà e la dirittura del loro spirito, finché la fortuna lo permise perseguirono ciò che è umano, sdegnando ciò che è da bruti. Per questo, quanti erano nobili di cuore e ricchi di qualità si sforzarono di restare vicini alla maestà di principi tanto grandi, sicché ai loro tempi tutto ciò che partorivano gli spiriti più insigni fra gli italiani vedeva la luce nella reggia di quei sovrani; e poiché il trono regale era in Sicilia, accadde che enfatizzare che l’attrattività della Magna Curia si estendeva all’intera Italia. In realtà, la produzione poetica della scuola siciliana a noi giunta è — quantificandola meccanicamente — per l’85% opera di siciliani (oltre a Giacomo da Lentini: Ruggeri d’Amici, Tommaso di Sasso, Guido delle Colonne, Odo delle Colonne, Arrigo Testa, Stefano Protonotaro, Iacopo Mostacci, Ruggerone da Palermo, Giacomino Pugliese [?], Mazzeo di Ricco, Filippo da Messina), per non più del 10% opera di apuli (Rinaldo e Iacopo d’Aquino, Piero della Vigna, Folco di Calavra), per non più del 5% opera di rimatori esterni al Regno di Sicilia: Percivalle Doria (genovese), Ruggeri Apugliese (senese), Paganino da Serzana (Lunigiana? Toscana?). Ma Dante considerava apulo, almeno all'altezza del De vu/gari (qui al $ 8), Giacomo da Lentini, la cui ingen-
te produzione bastava a riequilibrare il bilancio fra siciliani e apuli. In ogni caso, l’apporto di rimatori che non fossero sudditi di Federico II restava oggettivamente minimo. Ma, al di là della precisa informazione che Dante poteva avere, conta per lui l’idealizzazione dell’esperienza federiciana, posta come primo e unico esempio storico della «excellentissima Ytalorum curia» e quindi modello della sua proiezione futura (I XVII 4-5). ENITEBANTUR: ‘partorivano’ (rispetto a traduzioni più incolori come «sforzandosi, riuscivano a compiere» di Marigo, «producevano» di Mengaldo) è la forte metafora che rispetta il significato letterale nonché il registro poetico alto dell’originale. Cfr. II VI 7. REGALE SOLIUM: l’imperatore è per definizione «rex Romanorum». Dante si rivolgerà a Enrico VII come «Romanorum Regi et semper Augusto» nell’Ep VII, e a sua moglie Margherita come «Romanorum Regine et semper Auguste» nelle Ep VIII, IX e X. Quindi s’intende che la «cu-
ria regis ... Ytalie» (I XVIII 5) che attualmente manca e la Curia imperiale si identificano; il che non si dà per altri regni contenuti nell’Impero, come quelli di Castiglia e d'Aragona (Mr I XI 12): in conformità con la missione imperiale affidata a Enea, «sed fore qui gravidam #77periis belloque frementem / Ytaliam regeret» (Aen. IV 229-30, citata in Mx II VI 10), e secondo lo stesso schema per cui Dio «in tutte par145
De vulgari eloquentia
est ut quicquid nostri predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum vocetur: quod quidem retinemus et nos,
nec posteri nostri permutare valebunt. [5] Racha, racha! Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua ti ipera e quivi [nel paradiso] regge» (IfI 127). QUICQUID ... SICILIANUM VOCETUR: ribadisce l'affermazione del $ 2, già mostrata priva di riscontro obiettivo. Non c’è nessuna ragione di emendare il «vocetur» di tutti e tre imanoscritti in «vocaretur», come è stato fatto fino a Rajna 1896 e Marigo: «s’osservi il congiuntivo presente vocetur in dipendenza da un tempo storico della principale, come in volgare» (Mergaldo). QUOD QUIDEM... PERMUTARE VALEBUNT: poiché si tratta di un uso che in realtà Dante non “mantiene”, ma vuol imporre, per volontà di riconoscere enfaticamente il ruolo fondante di Federico II, ritengo, a differenza di Marigo e Mengaldo, che qui il ros, con i collegati «nostri predecessores» e «posteri nostri», sia 7724/est4t75, fortemente autoriale. Dante, lungi dal “mantenere” un presunto, generale riconoscimento dell'origine siciliana della tradizione lirica italiana, vuol preci-
samente ribaltare la damzrzatio memoriae che subito colpì l'eredità poetica sveva, tradotta nella perdita di tutti imanoscritti siciliani originari e anche nella loro toscanizzazione, probabilmente riportabile «non tanto ad un banale episodio di sovrapposizione di una patina linguistica a un’altra nella copiatura dei testi, quanto ad una vera e propria operazione culturale» (Beltrami 1999, p. 193). XII 5. RACHA, RACHA!: «con accento sull’ultima sillaba, come ogni “vox barbara non declinata latine”» (Merga/do), risale al discorso della montagna (Mt 5, 22): «qui autem dixerit fratri suo racha reus erit concilio». Questa parola ebraica, che probabilmente è un insulto (san Girolamo, Commentarii in evangelium Matthaei I5, 22 «id est inanis aut vacuus, quem nos possumus vulgata iniuria “absque cerebro” nuncupare»), viene poi interpretata come interiezione (Gregorio Magno, Moralia in lob XXI 5 «vox interiectionis est, quae quidem animum irascentis
ostendit»). Uguccione, R 6, riporta entrambe le interpretazioni, preferendo la seconda: «RACHA, idest inanis vel vacuus, quem vulgata iniuria absque cerebro dicere possumus, et est ebreum. Vel, quod melius est, racha est interiectio affectum indignantis ostendens». Alla seconda interpretazione si attiene Dante, con duplicazione enfatica. QUID NUNC
PERSONAT ... VENITE AVARITIE SECTATORES»?: ilbrano mostra uno strin-
gente parallelismo con l’Ep II, scritta da Dante in morte di Alessandro dei conti Guidi di Romena, capitano dei fuorusciti bianchi e ghibellini. Dante presenta Alessandro come principe giusto e vendicatore dei 146
De vulgari eloquentia I XI 4-5
tutto quanto i nostri predecessori produssero in volgare si chiama siciliano: ciò che teniamo per fermo anche noi, e i nostri posteri non potranno mutare. [5] Infamia, infamia! Quale richiamo spande ora la tromba di guerra dell’ultimo Federico, quale la campana del seprincipi indegni, in un passo molto simile, per opposizione, a questo sugli indegni signori d’Italia dopo la morte di Federico II e Manfredi: Ep II 1-2 «Hec equidem [cioè la rzagnificentia di Alessandro], cunctis aliis virtutibus comitata in illo, suum nomen pre titulis Ytalorum ereum illustrabat. Et quid aliud heroica sua signa dicebant, nisi “scuticam vitiorum fugatricem ostendimus”? Argenteas etenim scuticas in purpureo deferebat extrinsecus, et intrinsecus mentem in amore virtutum vi-
tia repellentem». Le due indignate interrogazioni retoriche sembrano calcate l’una sull’altra: «Quid ... personat ... nisi ...?», «quid aliud ... dicebant, nisi ...?»; i soggetti della prima interrogazione sono le trombe, la campana, i corni di battaglia di re, marchesi e magnati degeneri,
il soggetto dell’altra sono le insegne del conte Alessandro, sferze argentee in campo vermiglio, che araldicamente esibiscono l’animo di fustigatore dei vizi precisamente della nobiltà feudale degenere; in entrambi i casi le battute tra virgolette rette dal verbo di dire («Quid ... personat ... nisi ...?», «quid aliud ... dicebant, nisi ...?») fungono da blasone verbale rispettivamente degli uni (i signori indegni) e dell’altro (il conte Alessandro): il blasone dei vizi, il blasone della fustigazione dei vizi. Inoltre «heroica sua signa» richiama «illustres heroes», parola rarissi-
ma in Dante (vedi la nota al $ 4). Lo stretto parallelismo formale fra i due brani esprime l’identico animo e suggerisce, direi, che siano stati composti nello stesso momento biografico e psicologico, di poco posteriore alla disastrosa battaglia della Lastra, 20 luglio 1304, quando era
ancora bruciante la sconfitta e bruciata la speranza di rientrare in Firenze: lo stato d’animo nel quale possono essere stati scritti tanto questo capitolo totalmente sbilanciato in senso filoimperiale quanto la sprezzante rassegna delle parlate toscane del cap. XII. Cfr. Tavoni 2010a, $ 6 e l’Introduzione, p. LII. Dante esemplifica il degrado dei “reggimenti” italiani dopo il crollo della Casa di Svevia disponendo tre livelli gerarchici decrescenti — reges, marchiones, magnates (cfr. IXVII 5 «reges, marchiones, comites et magnates») — e collocando su ognuno dei primi due, marcati da strumenti musicali bellici di sonorità decrescente
- tuba-tintinabulum, cornua —, una coppia di “campioni” contrapposti, uno per la pars Irzperti uno per la pars Ecclesiae. NOVISSIMI FREDERICI ... SECUNDI KAROLI: Federico III d'Aragona e Carlo II d'Angiò sono i due re accomunati dalla colpa storica (d’attualità: la pace di
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De vulgari eloquentia
Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi «Venite carnifices, venite altriplices, venite avaritie sectatores»?
[6] Sed prestat ad propositum repedare quam frustra loqui. Et dicimus quod, si vulgare sicilianum accipere volumus secundum quod prodit a terrigenis mediocribus, ex ore quorum iudicium eliciendum videtur, prelationis honore minime dignum est, quia non sine quodam tempore profertur; ut puta ibi: Tragemi d’este focora
se t’este a bolontate.
Caltabellotta risale al 1302) di essersi infine spartiti, al termine di un
cinquantennio di contese dopo la morte di Federico II, il Regno di Sicilia. Compaiono ugualmente in coppia in Cv IV VI 19-20, in un brano perfettamente complementare che getta luce sul nostro: «Oh miseri che al presente reggete! e oh miserissimi che retti siete! ché nulla filosofica autoritade si congiunge colli vostri reggimenti né per propio studio né per consiglio ... Ponetevi mente, nemici di Dio, a’ fianchi, voi che le verghe
de’ reggimenti d’Italia prese avete — e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni —; guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine dell’umana vita per li vostri consiglieri v'è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime!». L’angioino, come capo del partito guelfo in Italia, è sempre vituperato da Dante (tranne che nell’Inferzo dove non ne parla): Pg VII 126, XX 7981; Pd VI 106-8, XIX 127-9. Federico III è svalutato genericamente in
Pg VII 119-20 e gravemente in Pd XIX 130-2 («Vedrassi l’avarizia e la viltate...») e XX 62-3 («quella terra plora / che piagne Carlo e Federigo vivo»): il che non rende affatto inverosimile che Dante intendesse dedicargli il Paradiso, come testimonia il Boccaccio, quando Federico III si trovò a essere il principale alleato in Italia di Enrico VII e il capo del partito imperiale subito dopo la sua morte, prima di manifestare la suddetta avarizia e viltade e prima che apparisse a Dante l’astro di Cangrande (Carpi 2004, pp. 444-6 e 670-1). .IOHANNIS ET AZONIS MARCHIONUM POTENTUM: passando all’Italia settentrionale, Dante accop-
pia il ghibellino marchese Giovanni I di Monferrato al guelfo marchese Azzo VIII d'Este. La menzione del marchese Giovanni come vivo vale quale termine anze quer per la composizione del trattato (ma solo fino a questo punto), dato che egli morì nella seconda metà di gennaio 1305. Anche qui le colpe storiche dei due non sono pari. Azzo VIII è l’abor148
De vulgari eloquentia I XII 5-6
condo Carlo, quale i corni di Giovanni e Azzo, potenti marchesi, quale le piccole trombe degli altri magnati, se non: «Venite a me carnefici, venite a me ingannatori, venite a
me seguaci della cupidigia»? [6] Ma è meglio tornare al punto che parlare a vuoto. Diciamo allora che il volgare siciliano, se vogliamo prenderlo come esce dalla bocca dei nativi di media condizione, dai quali evidentemente si deve ricavare il giudizio, non merita affatto l’onore del primato, perché non si pronuncia senza una certa quale lentezza, per esempio in: Tragemi d’este focora
se t’este a bolontate.
rito campione del guelfismo nero più intransigente: satireggiato in II VI 4, legato al succitato re Carlo II d’Angiò dalla turpe compravendita della propria moglie (Pg XX 79-81), assassino del proprio padre (IfXII 111-2), mandante dell’uccisione di Iacopo del Cassero (Pg V 77-8), e soprattutto riferimento della fazione guelfa bolognese dei geremei, la Pars Marchexana, filoestense, che nel 1306 chiuderà ogni spazio a Bologna
per gli esuli fiorentini bianchi (Carpi 2004, pp. 411-2, 480, 497-502). Giovanni I Aleramici di Monferrato rappresenta agli occhi di Dante la degenerazione “plebea” di una dinastia fra le più prestigiose per liberalità e legami con la cultura trobadorica, rispetto all’avo Guglielmo VII «intrinseco di Manfredi, irriducibile antagonista settentrionale di Carlo d'Angiò» (Pg VII 133-6), e soprattutto al «buono Marchese di Monferrato» (Cv IV XI 14), Bonifacio I, crociato (come Cacciaguida), la cui liberalità fu celebrata da Raimbaut de Vaqueiras (Carpi 2004, pp. 599601). ALTRIPLICES: Uguccione, A 121 «ALTER ... componitur cum plica et a/terplex -cis, idest qui vel que est animo duplex». XII 6. SI VULGARE SICILIANUM ... MINIME DIGNUM EST: la pre-
cisazione serve a chiarire che il merito non è del volgare siciliano, ma di chi ha catalizzato l’opera «primorum Siculorum». Dante rileva qui la differenza fra il siciliano parlato e la lingua dei poeti siciliani, a lui nota nella forma toscanizzata che è la stessa giunta fino a
noi nei canzonieri. Egli mostra di non sospettare minimamente che quella forma non sia l’originale. Su questa inconsapevolezza, a sua volta frutto della rapidissima scomparsa, nell’arco di un solo cinquantennio, dei testi originali, si basa tutta la teoria del vu/gare la-
tium come pantera «redolentem ubique et necubi apparentem» (I XVI 1), che misconosce la sostanziale toscanità del volgare della lirica illustre.
QUIA NON SINE ... SE TESTE A BOLONTATE:
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Dante
De vulgari eloquentia
Si autem ipsum accipere volumus secundum quod ab ore primorum Siculorum emanat, ut in preallegatis cantioni-
bus perpendi potest, nichil differt ab illo quod laudabilissimum est, sicut inferius ostendemus. [7] Apuli quoque vel sui acerbitate vel finitimorum
suorum contiguitate, qui Romani et Marchiani sunt, tur-
piter barbarizant: dicunt enim non ha alcuna nozione diretta del siciliano parlato, la deduce da un componimento, il contrasto di Cielo d’Alcamo, tramandato insieme
coi testi lirici dal canzoniere Vaticano (vedi la nota al $ 2), all’inizio del quarto fascicolo. Componimento coevo ai più antichi testi della scuola, forse databile a «non molto dopo il 1231», adespoto nel ms. V ma attribuito dal filologo cinquecentista Angelo Colocci a «Cielo (ipocorismo meridionale per Michele, Celi, in forma toscanizzata)
d’Alcamo (cognome di famiglia derivato dal toponimo siciliano e attestato a Palermo verso la fine del Duecento)» (M. Spampinato Beretta in PSS, II, p. 514). Il fatto che, per caratterizzare il volgare dei terrigenae mediocres, Dante «usi come esempio un testo anch'esso tramandato dal Vaticano fa velo al fatto che qui sono opposte due distinte tradizioni: una è quella “alta” dei testi che circolavano toscanizzati, e che avevano assunto valore di modello in Toscana, l’al-
tra è quella dei testi che erano rimasti estranei alla toscanizzazione e alla nuova linea vincente della poesia toscana» (Beltrami 1999, p. 192). La schermaglia fra un dongiovanni e una ragazza di estrazione sociale più bassa che gli resiste, nel genere delle pastorelle, gioca su due registri linguistici nettamente distinti, aulico e popolare, ma non riservando il primo al dongiovanni il secondo alla ragazza, bensì alternandoli in un vivace e imprevedibile code switching fin dalla prima strofa (tristico di alessandrini rimati, con il primo emistichio sdrucciolo e il secondo piano, seguito da un distico di endecasillabi). I primi due alessandrini, «Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state, / le donne ti disiano, pulzell’e maritate», sono infatti perfetta-
mente lirici, con possibile calco dall’episodio delle Metamorfosi di Ovidio in cui si parla della bellezza di Narciso: «multi illum iuvenes, multae cupiere puellae» (III 353); e sicura eco del Cantico dei cantici, «adulescentulae dilexerunt te» (1, 2). Dopo questo esordio alto il terzo alessandrino, quello prelevato da Dante, abbassa di colpo il registro e rivela la natura giullaresca, non lirica, del testo. Il vizio di essere pronunciato «non sine quodam tempore» (nello stesso senso II V 3, ma con valore positivo, per cui l’endecasillabo «vide150
De vulgari eloquentia I XII 6-7
Se invece vogliamo prenderlo come sgorga dalla bocca dei siciliani più insigni, quale si può osservare nelle canzoni sopra citate, non differisce in nulla dal volgare più degno di lode, come mostreremo più sotto. [7] Anche gli apuli, o per la loro crudezza o per la contiguità con i vicini, che sono i romani e i marchigiani, ca-
dono in sconci barbarismi: dicono infatti tur esse superbius, tam temporis occupatione quam capacitate sententie») pertiene in realtà non alla lingua ma alla metrica, che impone numerose forme sdrucciole, nel nostro caso tràgerzi e focora; le quali, se non singolarmente (Traggerzi è nell’incipit di una canzone “tragica” di Dante: II XI 5), nella loro ripetizione almeno appaiono incompatibili con lo stile alto. Sarà «prelationis honore minime digna» anche la ripetizione equivoca di este, ‘queste’ (forma usata però da Dante stesso sia nella Corzrzedza sia nelle Rirze) e forma epitetica per ‘è’ «ampiamente diffusa nei siciliani» (M. Spampinato Beretta in PSS, II, ad locum), e forse anch'essa “strascicata”
all’orecchio di Dante (sebbene la esibisca come latinismo in rima in Pd XXIV 141). Il tratto più dialettale, il betacismo di v- dopo a (con
raddoppiamento fonosintattico inespresso dalla grafia: AD VOLUNTATEM > a bbolontate), è foneticamente comune al meridione continentale e alla Sicilia, tanto che Salimbene de Adam, Cronica (522, 12-3), accomuna siculi e apuli «attribuendo a Roberto il Guiscardo un ironico giudizio sul loro parlare ir gutture, poiché “quando volunt dicere: ‘Quid vis’, dicunt ‘Ke boli?””» (Merga/do), mentre gra-
ficamente è «uso che si distacca dal siciliano ed è invece grafia diffusa nei più antichi testi dell’area di Montecassino» (M. Spampinato Beretta in PSS, II, ad locuma). XII 7. APULI QUOQUE ... TURPITER BARBARIZANT: siciliano e apu-
lo, in questo capitolo, sono presentati come i due volgari sottostanti al volgare illustre dei poeti della scuola federiciana, entrambi inadeguati. Dunque l’apulo conta qui come 7 volgare. In I X 5-6 invece gli apuli di destra e di sinistra erano blandamente distinti, per ossequio formale al criterio dello spartiacque appenninico: quelli di destra erano dati come confinanti coi romani («Apulorum cum Romanis»); quelli di sinistra, per l’occasione ribattezzati Calabri, con gli anconetani («Calabrorum cum Anconitanis»). Ma nella sostanza, e
qui si conferma, Dante vedeva gli apuli come indivisi: sia per scarsità d’informazione linguistica, sia per rispetto dell’entità statuale-amministrativa. I loro comuni confinanti sono qui sempre «Romani et
151
De vulgari eloquentia
Bòlzera che chiangesse lo quatraro.
[8] Sed quamvis terrigene Apuli loquantur obscene comuniter, prefulgentes eorum quidam polite locuti sunt, vocabula curialiora in suis cantionibus compilantes, ut manifeste apparet eorum dicta perspicientibus, ut puta Madonna, dir vi voglio
Marchiani». Anche per tale contiguità con questi volgari pessimi (I XI 2-3, in cui quello dei romani è definito turpissimzur), il giudizio sul volgare apulo è ben peggiore di quello sul siciliano. BÒLZERA... QUATRARO: ‘Vorrei che il ragazzo piangesse’. L'endecasillabo, di cui si ignora la provenienza (le 8 occorrenze di dicunt, peraltro, sembrano introdurre espressioni parlate piuttosto che versi), contiene ben più tratti fonetici e morfologici dialettali che non l’alessandrino di Cielo d’Alcamo, e tutti genericamente meridionali. Bò/zera è condizionale dal piuccheperfetto indicativo (Rohlfs, $$ 602-3), forma originaria del meridione continentale, occasionalmente presente sia nei poeti
della scuola siciliana sia nei toscani. In questo caso da un analogico VOLSERAM, con betacismo cassinese (Baldelli 1983 [1971], ad indi-
cem), cioè con passaggio di V a è in tutte le posizioni (senz’altro preferibile la lezione di B al «volzera» di GT), e con passaggio LS > /z (Rohlfs, $ 267), pure meridionale: «perfettamente inquadrabile tra il boltiera (= bòlzera) del Ritmo cassinese, v. 51 e il bòlzera della let-
tera napoletana del Boccaccio» (Mergal/do). Chiangesse presenta la notissima caratteristica meridionale PL > &y (Rohlfs, $ 186); «questa
risoluzione, ancora presente in poeti sicilianeggianti in Toscana, è attestata assai parcamente nei veri e propri “siciliani” e solo in autori e testi di livello più popolareggiante (Rinaldo d'Aquino, Giacomino Pugliese, Cielo ecc.)» (Merga/do). «Il tipo quatraro o simili è ancora
largamente presente nel Mezzogiorno, con particolare compattezza in due zone, campano-sannita e calabro-lucana, tra cui si èincuneato
il napoletano guaglione ..., per cui si può pensare che la sua antica area fosse più estesa» (Merga/do). Possibili etimi: QUARTARIUS ‘quartogenito’, QUADRARIUS ‘minuzzolo’ o ‘ragazzo quadrato, robusto”.
XII 8. PREFULGENTES: sinonimo di #//ustres: IXVII 2.
VOCABULA
CURIALIORA: l’aggettivo curialis, che diventerà uno degli epiteti chiave del volgare illustre (cap. XVIII), compare qui per la prima volta giustamente in rapporto con la Curia federiciana (44/2 al $4). EORUM DIGTA PERSPICIENTIBUS, UT PUTA: si ripete per gli apuli, come peri siciliani al $ 2, la citazione di due canzoni in forma anonima, di autori indicati 152
De vulgari eloquentia I XII 7-8
Bòlzera che chiangesse lo quatraro.
[8] Ma, per quanto i nativi dell’Apulia parlino generalmente in modo osceno, quelli tra loro che rifulgono si sono espressi in modo raffinato, trascegliendo per le loro canzoni i vocaboli più degni della curia, come appare evidente a chi esamini i loro versi, per esempio Madonna, dir vi voglio
con un plurale indistinto, e a titolo esemplificativo. MADONNA, DIR VI VOGLIO: canzone di Giacomo da Lentini (“il Notaio” per antonomasia), siciliano, come dice il suo luogo di nascita, e anzi propriamente il fondatore della scuola federiciana, che Dante scambia per apulo.
Tale scambio sarà stato possibile «certo perché il manoscritto o i manoscritti con cui egli aveva confidenza non avranno portato l’indicazione d’origine, ma solo la dizione “Notaro Giacomo”» (Folena 1965,
p. 277), che è la dicitura del canzoniere V (vedi la nota al $ 2). Folena prosegue: «ed egli avrà potuto confonderlo con Giacomino Pugliese, che appare in un manoscritto anche come “Giacomo”», ma si tratta di una singola occorrenza nel canzoniere L, c. 104v, cioè il ms. Laurenziano, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi 9, pisano, che costituisce
il secondo grande canzoniere della lirica duecentesca. Il fatto che Giacomo abbia tenzonato con l'Abate di Tivoli (ms. V, cc. 111r-v), come suggerisce Boni 1967, p. 77, non sembra una buona ragione per considerarlo apulo. A parte le rubriche, l’origine «da Lentini» è dichiarata due volte entro i testi, nell’expliczt della canzone Meravigliosa-mente (in evidenza in V, al secondo posto dopo Madonna, dir vo voglio), vv. 61-3, e nella canzone Madonna mia 53-4, ma non è affatto scontato «che il nome di Lentino ... dicesse qualche cosa al lettore toscano ... bastasse insomma a qualificare Giacomo come siciliano» (Giunta 1998, pp. 38-9). Nel De vu/gari Dante non cita nessun'altra canzone del Notaio. Può darsi che se lo tenesse per illustrare il sonetto, di cui è l’inventore, nei libri successivi. Ma, allo stato della documentazione, non risulta che Dante, nel De vu/gari, riconosca «la posizione primaziale di Giacomo da Lentini ... indiscutibile» nel canone di V, il suo ruolo
di «grande fondatore letterario, in quanto caposcuola e auctor canonico, per unanime riconoscimento già dei contemporanei» (R. Antonel- liin PSS,I, pp. XVII-XIX); come invece farà mettendo in bocca a Bo-
nagiunta la terna «(i)l Notaro e Guittone e me» (Pg XXIV 56). Anzi, l'assetto del De vlgari «corrisponde meglio alla selezione di P (che di Giacomo è testimone avarissimo ... e latore invece di quattro su cin153
De vulgari eloquentia et
Per fino amore vo sì letamente.
[9] Quapropter superiora notantibus innotescere debet nec siculum nec apulum esse illud quod in Ytalia pulcerrimum est vulgare, cum eloquentes indigenas ostenderimus a proprio divertisse. xII. Post hec veniamus ad Tuscos, qui propter amentiam suam infroniti titulum sibi vulgaris illustris arrogare que delle canzoni di Guido) che all’organizzazione smaccatamente filolentiniana del Vaticano» (Giunta 1998, p. 39). Il canzoniere P, fiorentino, cioè il ms. Palatino, Banco Rari 217 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, è il terzo e ultimo dei canzonieri che ci traman-
dano la lirica del Duecento: tutti e tre — V, L e P— editi, descritti e studiati in Leonardi 2000-1. Madonna, dir vo voglio («vi» è dei mss. V e P,
«vo» di L) è «la grande canzone incipitaria del Vaticano». «Ignoriamo se Dante ... sapesse che ... è in realtà una traduzione da una canzone di Folchetto di Marsiglia (A vos, rzidontg, voill retraîr’ en cantan)» (R. Antonelli in PSS, I, pp. XXXIV-XXXV). PER FINO AMORE VO SÌ LETAMENTE: canzone di Rinaldo d'Aquino: «chiamato “messere” negli antichi canzonieri, e dunque personaggio cospicuo, dovette apparte-
nere alla stessa famiglia di san Tommaso» (Contini 1960, I, p. 111). La canzone è citata una seconda volta in II V 4, con nome d’autore, come
esempio di canzone illustre iniziante con un endecasillabo. «Il criterio d’ordinamento in V, dove il corposo canzoniere di Rinaldo apre il terzo fascicolo [mentre il Notaro apre il secondo], e la vicinanza formale
col Notaro depongono per una collocazione alta del rimatore in seno alla scuola» (A. Comes in PSS, II, p. 137). Il ms. V ha «altamente», P
«allegramente» (lezione messa a testo nelle edizioni critiche). «La variante “letamente”, sconosciuta ai manoscritti ..., èvariante sinonimi-
ca mnemonica o attestazione di una lezione primaria di cui quella del Vaticano potrebbe essere corruzione?» (Menga/do). XII 9. QUAPROPTER.... A PROPRIO DIVERTISSE: come volevasi di-
mostrare (cfr. $ 6), il merito di questo primo, straordinario exp/ott del pulcerrimum vulgare d’Italia non è dei due volgari naturali a esso soggiacenti, il siciliano e l’apulo (ma è degli «illustres heroes» Federico e Manfredi). Si inaugura qui l’uso del verbo divertere, a designare il gesto dei doctores eloquentes che dovunque attingeranno il volgare illustre a/lontanandosi dal proprio volgare naturale: in Toscana (XIII 5), in Romagna (XIV 3), a Padova (XIV 7), a Bologna (XV 6). 154
De vulgari eloquentia I XII 8-XIII 1
Per fino amore vo sì letamente,
[9] Perciò, considerando quanto detto sopra, dev'essere chiaro che né il siciliano né l’apulo rappresentano il volgare più bello che c’è in Italia: abbiamo infatti dimostrato che i nativi di quelle regioni che hanno praticato l’eloquenza si sono distaccati dal proprio volgare.
XII. Dopo di che veniamo ai toscani, i quali, ingordi nella loro dissennatezza, pretendono di arrogarsi il titolo del XII 1. POST HEC VENIAMUS AD TUSCOS: passare dai siciliani ai toscani significa per Dante, dal punto di vista politico, precipitare dal più alto valore imperiale al più basso disvalore municipale; e, dal punto di vista della tradizione poetica volgare (quale rappresentata dal disegno di un canzoniere come il Vaticano, cfr. le note a I XII 2 e 8), saltare dall'inizio alla fine di tale recente tradizione, ma rovesciandone il segno
da progressivo a regressivo. QUI PROPTER AMENTIAM SUAM .... ARROGARE VIDENTUR: la stessa accusa, ma qui più esplicita, di arrogarsi un primato linguistico volgare, Dante aveva rivolto ai romani (I XI 2). Come abbiamo notato, nel caso dei romani si trattava di una rivendicazione molto improbabile, nel caso dei toscani di una rivendicazione molto probabile, anche a livello popolare, benché non ce ne sia rimasta documentazione diretta. Una documentazione indiretta è rappresentata da parodie fiorentine di una parlata altrui come la canzone del Castra (I XI 4: vedi la nota relativa), che implicano una presunzione di superiorità. Il fatto stesso di parificare sotto la medesima accusa i toscani, con la loro pullulante produzione poetica, e i derelitti romani era insultante. INFRONITI: è sempre stato inteso come «fatti stolti» (Mar:0), «rimbambiti» (Merg4/do), e simili, sulla scorta di Uguccione, F 99 2-3 «FRONOS.... Et componitur nfrorztus -a um, idest insipiens, insulsus». Ma, se è così, è un insulto generico e tautologico rispetto a «propter amentiam suam». Ritengo invece probabile che Dante abbia trovato questo raro vocabolo in Macrobio, Saturnalia, precisamente in senso
retorico, in un brano di celebrazione dello stile di Virgilio che è stato proposto come fonte di IfI 79-80 e 87 (G. Rabuse in ED, s.v. Macrobio, p. 759), e cioè VI 15 «Ecce dicendi genus quod nusquam alibi deprehendes, in quo nec praeceps brevitas nec infrurzta copia, nec ieiuna siccitas nec laetitia pinguis», dove infrunita vale ‘smodata’. Questo senso prevale nel latino cristiano, come nel versetto citato dallo stesso Uguc99)
De vulgari eloquentia
videntur. Et in hoc non solum plebeia dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus: puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, cione (di seguito alla citazione precedente), «unde Salomon ait “animo inreverenti et infronito ne tradas me, domine”, sed solet hic esse “infrunito”», dove il termine non significa ‘stolto’ ma ‘incontinente’; e in
vari testi cristiani in cui sviluppa il senso di ‘vorace’, ‘ingordo’, ‘mai sazio’: per esempio (in Egberto di Liegi) «infrunitus est qui neque exsaturari et cui nemo potest ad suffitientiam ventris ministrare», e (in Pa-
scasio Radberto) «vorax gula et infrunita edacitas». Una tale gamma di significati sembra attagliarsi bene all’immagine lutulenta che Dante vuol dare di Guittone e degli altri toscani municipali. NON SOLUM... HOC TENUISSE COMPERIMUS: la presunta superiorità del toscano sussiste a due livelli: a livello “plebeo”, cioè si intenderà a livello di “senso comune linguistico” (quella che oggi si chiama fo/k-lnguistics), che si esprime, come abbiamo visto, in forma di assunzioni implicite (come quella degli abitanti di Pietramala, I VI 2, che è appunto in Toscana), luoghi comuni, “blasoni” popolari, parodia della parlata altrui, e simili; e a livello di rimatori farzosi, i quali evidentemente, a giudizio di Dante, si sopravvalutano. Farzosi non vuol dire #//ustres: lafama, sinonimo di voce,
grido, può benissimo non rispettare il ver (è appunto il caso di Guittone, vedi sotto). E probabile che Dante voglia dire precisamente che essi si sopravvalutano rispetto ai loro predecessori siciliani. Se è così, si conferma che egli condivide con il modello del canzoniere Vaticano (cfr. le note a I XII 2 e 8) il riconoscimento della primazia dei siciliani, ma non
l’altro aspetto di quel “disegno storiografico”, cioè la linea “progressiva” che muovendo dai siciliani culmina in Guittone (per non dire di Monte Andrea o Chiaro Davanzati, che Dante non menziona nemmeno). Quindi le recise asserzioni «quicquid poetantur Ytali siciliamum vocatur» «factum est ut quicquid nostri predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum vocetur» (I XII 2 e 4) non enunciano un dato di fatto, come pretendono, anzi al contrario tentano di ribaltare l'opinione
corrente. GUITTONEM ARETINUM ... DIREXIT: vissuto fra il 1235 circa e il 1294, rimatore laico fino al 1261, quindi frate gaudente e poeta religioso. Dominatore della scena volgare in Toscana nella seconda metà del Duecento, con la sua poesia pluritematica, provenzaleggiante, sicilianeggiante e latineggiante, virtuosistica e oscura, è il primo idolo polemico di Dante, implicitamente fin dalla Vita Nova (16. 6 e 10); esplicitamente qui e in II VI 8, tacciato di igrorantia e accusato di plebescere nella lingua; poi riconosciuto superato in Pg XXIV 55-7 con le parole 156
De vulgari eloquentia I XII 1
volgare illustre. E in ciò non vaneggia solo il sentire del popolino, ma sappiamo che hanno questa convinzione anche tanti uomini famosi: per esempio Guittone Aretino, che mai s’indirizzò al volgare curiale, Bonagiunta Lucchese, Gallo di Bonagiunta: «O frate, issa vegg’ io, diss'elli, il nodo / che ’1 Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’ odo!»; e dichiara-
to giunto alla fine della sua fama usurpata in Pg XXVI 124-6 «Così fer molti antichi di Guittone, / di grido in grido pur lui dando pregio, / fin che l’ha vinto il ver con più persone». Dante misconosce il proprio spiccato debito, soprattutto metrico e lessicale, verso Guittone, che si estende dalle rime giovanili alle stilnovistiche (anche), alle petrose, all’Infer no (Del Sal 1989), secondo la «buona norma tattica che impone che ci si sbarazzi prima del vicino e concorrente» (Contini 1970 [1957], p. 360); in particolare, a giudizio di Mengaldo (1968, pp. XCIX-C), senza il precedente di Guittone «l’edificio della grande poesia dottrinale dantesca, che è alla base della poetica del De vul/gari eloquentia, e del Convivio, difficilmente sarebbe stato costruito». BONAGIUNTAM LUCENSEM: Bonagiunta Orbicciani da Lucca «passa per un guittoniano (grazie certo alla consecuzione dei capiscuola nell’episodio del Purgatorio [vedi sopra], all'ordine dei canzonieri antichi, al fatto della sua corrispondenza col Guinizzelli e forse col Cavalcanti)», ma, operante fra il 1242 e il 1257, «viene a risultare più anziano di Guittone. In realtà la sua ma-
niera nulla ha di specificamente guittoniano ... ed è in cambio vicinissima alla matrice siciliana, anzi lentiniana ... Portarne addietro gli inizi non significa affatto allontanarlo dagli stilnovisti: significa, anzi, sottraendo l’iniziativa del suo poetare al capitale ma ingombrante trobar clus di Guittone, farne più agevolmente un ponte fra Sicilia e Dolce Stile fiorentino» (Contini 1960, I, pp. 257-8). Giunta 1998, poi, ha ribaltato il luogo comune della contrapposizione fra Bonagiunta “conservatore” e Guinizelli “padre dello Stilnovo”, fondato sulla celebre tenzone fra il missivo Voi ch'avete mutata la mainera del primo e il responsivo Orzo ch'è saggio non corre leggero del secondo, nonché precisamente sul giudizio di Dante che assegna all’uno e all’altro questi due ruoli, additando invece «l’esistenza di una sostanziale unità stilistica tra i due poeti», «sui binari di una quieta osservanza siciliana» (pp. 142-3), tanto da accreditare nella poesia del Duecento «la linea Bonagiunta-Guinizelli» (capp. II e IV). Comunque, linguisticamente, Bonagiunta è macchiato di tratti toscano-occidentali (partensa : sensa, consideransa : avansa, allegressa, ecc.) che Dante evocherà ancora nel Purgatorio mettendogli in bocca il settentrionale e lucchese #ssa ‘adesso’. GALLUM PISANUM: il rimatore chiamato concordemente Galletto Pisano dai canzonieri, che 157
De vulgari eloquentia
Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta, si rimari vacaverit, non curialia sed muni-
cipalia tantum invenientur. [2] Et quoniam Tusci pre aliis in hac ebrietate baccantur, dignum utileque videtur municipalia vulgaria Tuscanorum sigillatim in aliquo depompare. Locuntur Florensi autonomina Gallo, è tradizionalmente identificato con un ser Gallo di ser Agnello di cui si hanno notizie fra il 1274 e il 1301, data in cui ri-
sulta già morto. Nelle due poesie tramandate (ed. PS$, III) appare «sicilianeggiante nella prima canzone, guittoniano nel secondo componimento» (Contini 1960, I,p. 283), e in entrambe marcatamente municipale: piò ‘più’, altessa, prodessa, leansa, allegransa, ecc., in continuità pisanolucchese con Bonagiunta (i due volgari toscano-occidentali medievali
sono molto simili).
MINUM MOCATUM SENENSEM: lo si identifica con
il Bartolomeo Mocati, nato fra il 1220 e il 1225, di cui si hanno notizie fino al 1284, autore della canzone Nor pensai che distretto (ed. PSS, III)
tramandata dal Vaticano, «esemplare tutt'altro che illustre a norma dantesca, per la quasi assoluta prevalenza di settenari ... ma di lingua convenientemente aulica» (Merga/do), a parte i congiuntivi imperfetti di prima persona singolare potesse e volesse (in rima con le terze persone singolari avesse e tenesse).
BRUNECTUM FLORENTINUM: iniziato col
caposcuola Guittone, l’elenco si conclude a Firenze col maestro di Dante, com'è qualificato nell’incontro nell’aldilà (inaspettatamente fra i sodomiti, IfXV), Brunetto Latini: nato intorno al 1220, morto nel 1294, notaio e “intellettuale organico” del Comune fiorentino, esule in Francia tra la sconfitta guelfa di Montaperti (1260) e la rivincita di Benevento (1266), e lì autore, in francese, del Tresor, opera enciclopedica, e della Rettorica, volgarizzamento del De inventione ciceroniano. È autore anche di due poemetti didascalici in distici di settenari, il Tesoretto e il Favolello. Nell’interpretazione corrente, che però non si fonda su elementi cogenti, il giudizio di Dante verte sulla produzione lirica, peraltro assolutamente marginale nel profilo di Brunetto, che si riduce per noi all’unica canzone tramandata, Seo sor distretto inamoratamente (ed. PSS, II): «canzonetta per l’autore (e ricca infatti di settenari), ma lin-
guisticamente tutt'altro che mediocre» (Mergaldo), sicilianeggiante (pato ‘soffro’, dolire : tenere, ecc.), che Avalle 1977, pp. 87-106, ha interpretato come omoerotica (di opinione contraria Rossi! 1997), missiva di
cui sarebbe responsiva Arz0r quando mi membra di Bondie Dietaiuti (ed. PSS, III). Fatto sta che la canzone di Brunetto non esibisce quei vocaboli e modi municipali che spesseggiano invece nei poemetti didascalici, e che Dante metterà in bocca a Brunetto personaggio nell’Inferzo, 158
De vulgari eloquentia I XIII 1-2
Pisano, Mino Mocato Senese, Brunetto Fiorentino, i versi
dei quali, se ci sarà spazio per frugarci dentro, si riveleranno non curiali ma solo municipali. [2] E poiché i toscani più degli altri delirano in questa ubriachezza, sembra giusto e utile sgonfiare i volgari municipali della Toscana, uno per uno, in qualcosa. Parlano i infarcendo il suo discorso di espressioni popolari, proverbiali, idiomatiche. QUORUM ... INVENIENTUR: l’affermazione si oppone a quella di I XII 8: i dicta degli apuli (dei “siciliani” in genere) esibiscono «vocabula curzaliora», quelli dei toscani si rivelano «non curialia sed municipalia tantum». Solo in questo punto del trattato sono compresenti e contrapposti i due termini-chiave curzale e municipale, solidali rispettivamente con la Magna Curia e con la Toscana come regione per eccellenza della civiltà comunale. Dicta, in questi due passi collegati, significa ‘versi, componimenti poetici’, come detti in lo mai credea del tutto esser partito 14 «sì che s’accordi i fatti a’ dolci detti» e in E° r2’încresce di me 88-9 «raccomandati / vi sian li detti miei ovunque sono». Non si può dire che il giudizio su questi quattro rimatori toscani sia «molto meno reciso» (Marigo) di quello su Guittone: sono tutti «propter amentiam suam infroniti», anche se il caposcuola è segnato da una speciale censura. «Si rimari vacaverit ... invenientur», tutto al futuro, non è un'ipotetica
dell’irrealtà (‘si rivelerebbero’) ma della realtà: Dante sembra voler dire che prevede di trattarne, forse, più avanti, cioè dopo la trattazione del volgare illustre, scendendo a quello mediocre (e chi sa se e come cen-
surandoli anche a quel livello). Se è così, forse i dicta di Brunetto che ha in mente sono i poemetti didascalici, la cui fisionomia linguistica si attaglia meglio al giudizio qui espresso. Non escluderei che in rizari echeggi la connotazione legata all’origine che ne dà Uguccione, R 36 4 «RIMA -e idest fissura ... r777z0r -aris, idest scrutari, investigare, inquirere, trac-
tum a porcis qui per rimas terre siliquas et radices inquirunt». XIII 2. ET QUONIAM TUSCI ... DEPOMPARE: liquidati i rimatori volgari, i toscani vengono castigati anche sul piano linguistico naturale, attraverso un elenco di “blasoni” popolari, ricevendo cioè lo stesso trattamento di romani, marchigiani, apuli, ecc. SIGILLATIM: è la lezione di B, «variante molto attestata di sigillati» (Mengaldo, con esempi), quasi equivalente a «singulatim» di GT (per il quale si può sospettare l’indebita inserzione di una # nel loro comune antigrafo, vedi la nota a
I x 2). Uguccione, S 126 3, 8 «SIGNUM.... unde szgz/lo ... unde ... et stgillatim, idest expresse ... Et singulus ... unde singulatim adverbium discretivum, idest per singulos, pro qui quidem dicunt sigillati, sed male». IN ALIQUO: significherà, più che «un po'» (Merga/do), ‘in 159
De vulgari eloquentia
tini et dicunt Marichiamo introcque, che noi non facciamo altro. Pisani: Bene andonno li fanti de Fiorensa per Pisa. qualcosa’ (come già hanno inteso Trissino 1529 e Cittadini post 1600): cioè per una singola espressione che caratterizza ogni singolo volgaMANICHIAMO ... ALTRO: ‘Intanto mangiamo, che non facciamo re. altro’. Manichiamo è esibito come forma popolare, esito autoctono da *MANDICARE per MANDUCARE (voce bassa, che in latino volgare è passata dal significato di ‘masticare’ a quello generale di ‘mangiare’, soppiantando il classico ÈDERE), mentre mangiare è francesismo entrato
nei volgari italiani già nel secolo XII (Castellani 2000, pp. 102-3; Cella 2003, p. 61), ed è forma maggioritaria e quindi non marcata al tempo di Dante: si danno infatti più di 5000 occorrenze di mangiare nel TLIO contro meno di 600 di rzarzicare e meno di 300 di r2ar2(d)ucare (due varianti che tendenzialmente si specializzano la prima nelle forme arizotoniche, la seconda in quelle rizotoniche). Dante usa mangiare (11 occorrenze) in tutte le opere, r22r(d)ucare solo nella canzone petrosa Così nel mio parlar 32 «co li denti d’Amor già mi manduca»; nel solenne Cv 117 «Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca!»; e nell’episodio di Ugolino: If XXXII 127 «e come ’l pan per fame si manduca» (dunque in tutti e tre gli esempi si tratta giustamente di forma rizotonica). Nell’episodio di Ugolino, oltre a mangi, mangiar (XXXII 134, XXXIII 62 e 67) compare l’unica oc-
correnza in assoluto della forma popolare mzarzcare: XXXIII 59-60 «ch'io ’l fessi per voglia / di manicar» (arizotonica): tessera intenzionale che contraddice la censura del De vu/gari. I tre manoscritti hanno tutti «introque», ma mantengo la grafia «introcque» introdotta da Mengaldo 1968 perché la pronuncia era rafforzata, come conferma anche la rima con rocque in {{XX 128 :130. La parola è stata interpretata come avverbio, «frattanto» (Marigo), o come congiunzione, introcque che «in-
tanto che, mentre» (Merga/do); nel primo caso stampando una virgola dopo introcque, nel secondo dopo rmarichiamo. Il che è in B, omesso in GT. La forma, comesi è già detto, è poi esibita in {XX 130 «Sì mi parlava, e andavamo introcque», in posizione di massima evidenza, non
solo in rima ma in chiusura di canto, per rimarcare il superamento della censura lessicale qui espressa. È forma rarissima in italiano antico: il TLIO (che non conferma le citazioni da Giordano da Pisa e Livio volgarizzato addotte dal GDL)) registra solo l’occorrenza dell'Inferno coi suoi commenti, e un unico #2trocqua avverbio in un trattato di falcone-
ria fiorentino della prima metà del secolo XIV («e introcqua no gli si vuole mostrare alcuno uccello»), che «farebbe supporre un originario INTER HOC + QUAM (che pare avvalorato anche da forme provenzali
del tipo entroca, entroga, entrosca): da introcqua si sarebbe poi avuto ir160
De vulgari eloquentia I XIII 2
fiorentini e dicono Manichiamo introcque, che noi non fac-
ciamo altro. I pisani: Bene andonno lifanti de Fiorensa per trocque per un incrocio con la composizione tro che ‘finché’ ovvero per un conguaglio con ipronomi e avverbi in -u79%e» (Manni 2003, p. 338). Preferisco iinterpretare /rz/rocque come avverbio perché questo è l’unico valore attestato nei due soli esempi antichi sicuri, e perché «andavamo introcque» ricalca perfettamente «manichiamo introcque». Non appaiono fondati i tentativi (D’Ovidio 1932b [1878], pp. 284-5 e 31820; Marigo) di leggere metricamente, come frammenti poetici, questa frase e le seguenti. Il tema del mangiare è basso quanto il registro linguistico. BENE... PISA: qui i tratti caratteristici sono due: morfologico, la desinenza -onn0, formata dalla terza singolare + x0, tratto specificamente pisano (Castellani 1980 [1965], p. 319 e 2000, pp. 326-7); fonetico, il passaggio 2 > s in Fiorensa, tratto pisano e lucchese di origine settentrionale (Castellani 2000, pp. 136-7; G e T, mostrando di non capire, normalizzano in «Fiorenza»). I manoscritti G e T hanno «fan-
ti», B «facti». Marigo sceglie la prima: «alluderà forse a qualche episodio della guerra di Firenze, associata con Lucca, contro Pisa ... verreb-
be fatto di pensare alla resa di Caprona, rievocata in If XXI 94 sgg.». Mengaldo 1968 stampa «fatti», tacitamente regolarizzando il nesso latineggiante di B. Entrambe le lezioni sono possibili. Mi risolvo per «fanti», per la coincidenza della parola nell’episodio ricordato da Marigo, cioè: «così vid’io già temer li fanti / ch’uscivan patteggiati di Caprona, / veggendo sé tra nemici cotanti», e per il fatto che si tratta di un episodio autobiografico impresso nella memoria di Dante: il quale, dopo aver combattuto come cavaliere fiorentino a Campaldino, nell’estate 1289
partecipa all’assedio portato dalle truppe guelfe di Firenze e Lucca alla rocca pisana di Caprona e assiste alla resa dei fanti pisani, che escono inermi e terrorizzati fra due ali di nemici. Dato appunto che Caprona fu espugnata, questa frase pisana sembra da intendere come ironica o stolta, ma l’ipermunicipalistica versione dell’episodio raccontata da Francesco da Buti, che ribalta la resa in una vittoria di Pisa (cfr. Fran-
ceschini2 2008, pp. 137-55), mi fa sospettare che in qualche modo anche Dante possa averla attribuita a un pisano come detta sul serio e con fierezza. Se invece si propende per «fatti», si può anche ipotizzare che Dante avesse scritto «fati», considerando questo scempiamento un tratto pisano (vedi sotto), e che da «fati» si sia avuta diffrazione in assenza, con inserimento di una r nel ramo GT, esattamente come è avvenuto nei molti esempi citati in nota a I X 2, e aggiustamento con nesso grafico latineggiante in B. Il pisano antico aveva davvero la scempia in cità (Castellani 1980 [1963], pp. 323-4), e nel TLIO si trovano molti esempi di fato, fati ‘fatto, -i’ in testi toscano-occidentali (pisani, lucchesi, pi161
De vulgari eloquentia
Lucenses: Fo voto a Dio ke in gassarra ete lo comuno de Lucca. Senenses: Onche renegata avess’io Siena, ch’ee chesto? stoiesi) nonché senesi fra Due e Trecento. «Sfugge ilpeso caratterizzante di de per di (che si ripropone anche nel successivo esempio lucchese) dato che nella Toscana occidentale, come a Firenze, è normale l’evolu-
zione di e protonica a + (Manni 2003, p. 339). FO VOTO ... DE LUCCA: ‘Giuraddio che il comune di Lucca è in gran festa’. «La formula invocativa fo voto a Dio ... [è] tipica di contesti realistico-plebei, cfr. “Io fo ben boto a Dio...” in Rustico ...; “Io fo boto a Dio” e simili in Boccaccio, Decameron VII 6, 16; VIII 2, 43; 5, 179, 62; IX 5, 61, e in Sacchetti, Trecentonovelle [LXXXIX 6, CII 6, CLII 10]» (Merga/do). I mano-
scritti hanno «grassarra» (B), «gassara» (corretto da «grassarra», G), «gassarra» (T). Marigo e Mengaldo mettono a testo «grassarra» e lo spiegano come «non altrimenti attestato ma da connettersi certo con grascia, grassa» (Mengaldo), per cui il senso sarebbe «è nella grascia (nell’abbondanza)» (Marzgo), «nuota nell’abbondanza» (Mengaldo). Ma grascia-grassa significa propriamente ‘approvvigionamento alimentare’ e simili, mentre il senso traslato «di ‘abbondanza, prosperità’ sembra latitare nel lucchese trecentesco» (Castellani Pollidori 2001, p. 5); inoltre il suffisso -arra non si saprebbe come giustificare in area lucchese, «e tuttavia proprio a tale forma Dante avrebbe riservato l’onere di rappresentare emblematicamente la lucchesità coeva: dal momento che nessun altro componente della frase appare in grado di assolvere in pieno un simile compito»: infatti né fo voto a Dio né eie né comuno né de «potevano esibire una patente di lucchesismo, allignando largamente ciascuno in altre parti della Toscana» (sbiderz: ma per eie vedi sotto). Accolgo la proposta avanzata da Castellani Pollidori 1974, p. 169 (e già in D’Ovidio 1932b [1878], p. 319): «Tutto sommato, converrà pur sempre pensare a una deformazione dell’arabismo gazzarra (per ilquale vedi G.B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all'Italia, Brescia 1972, p. 99), con s sonora in luogo di z sonora secon-
do le abitudini lucchesi». La stessa studiosa ha poi avanzato una diversa proposta (2001, pp. 7-12), e cioè che la lezione originale fosse gassarîa, da gàssaro (con ss sorda), effettivamente attestato in antico lucchese,
< gazzaro < càzaro < CATHARUM < xaBapéc ‘cataro, patarino’, per cui il significato sarebbe che il comune di Lucca è «in eresia (in mano agli eretici)» (p. 7). Questa proposta non mi persuade perché ecdoticamente più onerosa (comporta due errori di archetipo), linguisticamente più complicata, e storicamente poco plausibile. Come ricorda la Castellani Pollidori, infatti, la pataria era notoriamente collegata al ghibellinismo,
e il Comune di Lucca, dalla fine del 1303, era in mano ai guelfi neri, filo-papali estremisti, e particolarmente a Bonturo Dati, barattiere che 162
De vulgari eloquentia I XII 2
Pisa. I Lucchesi: Fo voto a Dio ke in gassarra eie lo comuno de Lucca. I Senesi: Onche renegata avess’io Siena, ch'ee Dante evocherà sarcasticamente nel XXI dell’Inferzo. Viceversa, la «for-
zatura sul piano semantico» avvertita dalla studiosa («gazzarra è in senso proprio ‘schiamazzo’, con connotazione di scomposta festosità, e un’accezione del genere non si ambienta automaticamente in quella data frase», p. 7) è superata dal fatto che gli esempi trecenteschi del TLIO, dalle Crorziche di Giovanni e Matteo Villani — «menando grande gazzarra e trionfo», «con grande festa e gazzarra», «in grande gloria e gazzarra di quello scondito popolazzo» —, indicano precisamente festeggiamenti di popolo; a cui fa riscontro il napoletano Libro de la destructione de Troya VII 106 «Assai fo sollempne la festa e la gazara che foro facte per la venuta de Paris da tutto lo puopolo univierso de Troya». Il vocabolo si attaglia quindi perfettamente all’esempio lucchese, anzi sembra contenere (con precisione e con sarcasmo entrambi paragonabili all'esempio del «Totila secundus», II VI 4, col suo fallimento dell’impresa di Sicilia del 1302) uno specifico riferimento di cronaca, forse a festeggiamenti per la presa del potere da parte dei Neri fra 1303 e 1304. Ete è «da un precedente èe epitetico con successiva epentesi di #; corz4no con metaplasmo di declinazione dalla 3° alla 2° classe» (Manni 2003, pp. 339-40). Quanto a ese, è vero che questa forma è attestata anche in altri volgari toscani, compreso il fiorentino, ma si può aggiungere che, insieme con la variante eglie per passaggio di j a liquida palatale, rimane molto viva in area lucchese: «ese si sente in colle; églie è volgare della pianura» (Nieri 1901, p. XVII). ONCHE ... CHESTO?: ‘Oh, se non avessi mai rinnegato Siena! Che è questo?’. Marigo, Mengaldo, Marazzini - Del Popolo 1990, Inglese 2002 [1998], Manni 2003, p. 340, ritengono più probabile il significato ‘Avessi rinnegata una buona volta Siena!”, ma veramente le attestazioni di onche, unche, onqua, unqua, unque nel TLIO orientano decisamente verso il valore negativo di NUNQUAM. Il senso generale, comunque, non soddisfa: perché è questo l’unico esempio composto non da una frase, ma da due, fra le quali non si vede alcun nesso logico; e perché non si capisce per quale ragione Siena sia particolarmente legata al tema del rinnegare (‘tradire’?). Le due frasi si ridurrebbero a una se fosse possibile attribuire a onche valore di avverbio relativo, come sembrano suggerire esempi senesi quali: «unque noi siamo, ci conviene essare molto intenti contro lo Nemico», «unque noi siamo, a Dio potiamo servire», «unque tu sarai, fa che la tua conscienza sia aitata coll’operazioni», Conti morali d’anonimo senese XIII ex. (in
Zambrini 1862), dove unque significa ‘dovunque’. Analogamente, se emergessero riscontri appropriati, la nostra frase potrebbe significare qualcosa come ‘Quantunque/quand’anche avessi io mai rinnegato Siena, 163
De vulgari eloquentia
Aretini: Vuo’ tu venire ovelle? [3] De Perusio, Urbe Ve-
teri, Viterbio, nec non de Civitate Castellana, propter affinitatem quam habent cum Romanis et Spoletanis, nichil tractare intendimus. [4] Sed quanquam fere omnes Tusci in suo turpiloquio sint obtusi, nonnullos vulgaris excellentiam cognovisse sentimus, scilicet Guidonem, Lapum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem, quem
questo cosa importa?”. Quanto alla forma, è tratto senese la riduzione del nesso labiovelare kw- a £-, sia primario (UMQUAM > onche), sia
secondario (ECCUM ISTUM > chesto). La o di onche ha tutto l’aspetto delle 0 non anafonetiche che caratterizzano il senese contro le u anafonetiche del fiorentino (sen. forgo/fior. fungo, come sen. lengua/ fior. lingua). Nel caso particolare, però, «ci si dovrà ... guardare dall’interpretare onche, con 0 tonica, come esito non anafonetico antifiorentino, tenendo conto della complessità del quadro delle attestazioni toscane dei derivati di -UMQUAM, -CUMQUE (le forme con 0
del tipo donque, donqua sono ampiamente attestate in zone anafonetiche, compresa Firenze, mentre quelle con ricorrono anche a Siena)» (Manni 2003, p. 340; cfr. Castellani 1980, I, pp. 77-8). Tuttavia, non
è detto che Dante o chi per lui avesse chiara cognizione della complessità del quadro, mentre probabilmente aveva la percezione fondamentale del fenomeno e del suo valore contrastivo fra Siena e Firenze. «Da notare inoltre - per quanto non specifici del senese — il mantenimento di e protonica in reregata e l’epitesi di e in ee (che però viene meno se in luogo di ch'ee si legge che è). Potrebbe essere interpretata come ulteriore senesismo la variante avesse, condivisa dai due testimoni meno autorevoli, dato che la desinenza etimologi-
ca di prima persona singolare dell’imperfetto congiuntivo -e, già desueta nel fiorentino del primo Trecento, si mantiene assai più a lungo nel senese» (Manni 2003, p. 340)... VUO'... OVELLE?: ‘Vuoi venire da qualche parte?”. «L'unico elemento specifico è l’avverbio (cfr. aretino moderno uvelle, duvelle, ecc.), della serie centromeridionale di avverbio di luogo + VELLES la cui punta più avanzata è oggi proprio la Toscana sud-orientale (cortonese, aretino-chianaiolo), mentre si
spinge più a nord solo l’affine QUOD VELLES: toscano co-, cavelle, emiliano quèl, ecc.» (Mengaldo). Si noti nelle frasi-“blasone” il pronome personale espresso, traccia del fatto che gli antichi volgari italiani erano tendenzialmente a soggetto obbligatorio: «che roî non facciamo altro», «avess’îo Siena», «Vuo’ #4». XII 3. DE PERUSIO ... NICHIL TRACTARE INTENDIMUS: dunque
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De vulgari eloquentia I XIII 2-4
chesto? Gli aretini: Vuo’ tu venire ovelle? [3] Di Perugia, Orvieto, Viterbo nonché Civita Castellana, data l’affinità
che hanno con romani e spoletini, non intendiamo trattare affatto. [4] Ma, benché quasi tutti i toscani siano ar-
rochiti nel loro turpiloquio, riteniamo che alcuni abbiano conosciuto l'eccellenza del volgare, e cioè Guido, Lapo e un altro, fiorentini, e Cino da Pistoia, che qui nominiamo
Dante considera queste quattro città appartenenti alla Tuscia: cfr. la notaaIX5. XIII 4. IN SUO TURPILOQUIO SINT OBTUSI: il tunpiloguium dei toscani (che significa ‘discorso osceno’ non quanto ai contenuti, come in tutti gli autori cristiani, ma per la forma) fa il paio con il tristiloguium dei romani (I XI 2), a perfezionare il collegamento fra le due genti che stoltamente si arrogano il primato del volgare. Non credo che obtusi significhi «intronati» (Marigo e Mengaldo): sia perché i toscani non sono qui in veste di ascoltatori ma di locutori, sia perché dovrebbe reggere un complemento di causa efficiente, all’ablativo semplice. Né «accecati» (seconda ipotesi di Merga/do), «ottenebrati» (Marazzini - Del Popolo 1990), «rincretiniti» (Coletti 1991), «storditi» (Inglese 2002
[1998]). È più probabile che significhi, con riferimento alla voce, logicamente visto che colpisce dei dicitori, ‘rauchi’, come già in latino classico, e proprio nei retori: «cum vocem in dicendo obtudisset» (Cice-
rone); «vox obtusa» (Quintiliano); e poi: sant Agostino, Serzzo CXVII «vocem meam sentitis obtusam, adiuvate me tranquillitate»; Actus beati Francisci et sociorum eius, XLI 11. «quando orabat faciebat quendam iubilum uniformem et voce obtusa faciebat quasi columbus u, u,
u» (ed. Sabatier 1902). VULGARIS EXCELLENTIAM: excellentes -issimi nel trattato sono i poeti volgari illustri (I XI1 4, II Il 1), «excellentissime poetantes» (II I 4), riuniti nella «excellentissima curia» (I XVII 4-5), ed excellentissimum: è il volgare illustre, lo stile, la forma di canzone, la costruzione sintattica più alta (I XIX 2, II IM 3, II VI5). SCILICET GUIDONEM.... NON INDIGNE COACTI: Guido Cavalcanti, Lapo
Gianni, Dante stesso e Cino da Pistoia. Il quartetto è tipicamente “stilnovistico”, ma la vu/garis excellentia che lo caratterizza deve intendersi linguistica, non implicante alcuna ideologia d'amore, come conferma la citazione per due volte, in posizione di eccellenza, di Donna me prega, II XI1 3 e 8. Il «bisticcio di gusto dettatorio» (Marigo) «quem nunc indigne postponimus, non indigne coacti» viene spiegato di solito con la più giovane età, o la diversa patria, di Cino rispetto ai tre fiorentini. Ritengo invece (cfr. Tavoni 2010a, $ 7) che la spiegazione vada cer165
De vulgari eloquentia
nunc indigne postponimus, non indigne coacti. [5] Itaque si tuscanas examinemus loquelas, et pensemus quali-
ter viri prehonorati a propria diverterunt, non restat in dubio quin aliud sit vulgare quod querimus quam quod actingit populus Tuscanorum. [6] Si quis autem quod de Tuscis asserimus, de Ianuensibus asserendum non putet, hoc solum in mente premat, quod si per oblivionem Ianuenses ammicterent 2 licteram, vel mutire totaliter eos vel novam reparare oporteret locata nel fatto fondamentale che Guido era il «primo amico» di Dante nella Vita Nova mentre Cino è l’amico di Dante nel De vu/gari— anzi Dante è l’«amicus eius». Guido compare come «primo delli miei amici», «lo mio primo amico» e simili sei volte nella Vita Nova (2. 1, 15.3 e 6, 16. 10, 19. 10, 21. 1); Dante, nel De vu/gari, si nomina sei volte di
seguito a Cino come «amicus eius» (I X 2, I XVII 3, II Il 8 due volte, II Vv 4, II VI 6). Non è certamente casuale la costanza dell’uno e dell’al-
tro senbal; né l'inversione dei ruoli, per cui l’amico nella Vita Nova è Guido, nel De vu/gari diventa Dante; e con ciò l'inversione dell’anoni-
mato, di quale dei due nomi venga taciuto, con Dante che nel De vulgari fa un passo indietro, recita un gioco di umiltà. Di questo gioco semi-criptato, attraverso il quale Dante fa i conti con il suo prezzo e con il suo nuovo 47700, fa parte il nostro «bisticcio di gusto dettatorio»,
che inaugura la serie delle occorrenze del nome di Cino, di cui questa è l’unica non seguita da «amicus eius». Qui Dante — credo sia questo il punto — ron si presenta come l’amico di Cino, come si presenterà per
tutto il seguito del trattato, e compare invece un'ultima volta — nella forma più anonima e umile «et unum alium» — come il terzo sodale del terzetto fiorentino fissato dall’ircipit per eccellenza dell’amicizia stilnovista, cioè Gudo, i vorrei che tu e Lapo e io, nonché dai due sonetti di Guido Se vedi Amore, assai ti priego, Dante (2 «in parte là ’ve Lapo sia presente») e Dante, un sospiro, messagger del core (5-6 «e vidi ’] servidore / di monna Lagia», cioè Lapo), e dal sonetto attribuito a Dante Amore e monna Lagia e Guido ed io (monna Lagia è la donna amata da Lapo). Dante chiede scusa a Cino, esplicitamente, nel momento in cui lo nomina per la prima volta; e implicitamente a Guido, forse per un nodo di cose non dette, con la rievocazione per un attimo di un sodalizio che i fatti della vita hanno distrutto. Ha qui luogo un ideale passaggio del testimone da Guido a Cino, e (come si vedrà nei capp. XIVXV) da Firenze verso il nuovo centro verso il quale Dante, attraverso
la mediazione di Cino, è proiettato: Bologna. 166
De vulgari eloquentia I XIII 4-6
ingiustamente per ultimo, costretti da una ragione non ingiusta. [5] Perciò, se esaminiamo le parlate toscane, e consideriamo come gli uomini più insigni si sono distaccati dalla propria, è indubbio che il volgare che cerchiamo è altro da quello a cui arriva il popolo toscano. [6] E se poi qualcuno non crede che quello che abbiamo affermato dei toscani vada affermato anche dei genovesi, si metta bene in testa solo questo: che se i genovesi, per un’amnesia, perdessero la lettera 2, bisognerebbe o che ammutolissero completamente o che si ricostruissero XIII 5. SI TUSCANAS
... POPULUS TUSCANORUM:
periodo ipote-
tico con protasi al congiuntivo, com’è uso prevalente di Dante con verbi di pensare, anche in casi semanticamente molto vicini al tipo della realtà. Divertere è il verbo tipico che designa l’allontanamento dei poeti illustri dal proprio volgare: così per gli apuli (e “siciliani” in genere, I XII 9), i toscani (qui), i romagnoli (XIV 3) e i padovani
(XIV 7), i bolognesi (XV 6). XII 6. SI QUIS AUTEM ... OPORTERET LOQUELAM: «l’abbondanza di z, più tardi passate a s, in luogo di c e g palatali toscane, non era specifica del ligure, ma propria di tutta l’Italia settentrionale nella fase antica, con cospicui residui moderni. Si tratterà invece di un blasone legato alle voci Zena, zereis(e) per Genova, genovese» (Mengaldo). Peraltro le affricate dentali sorde e sonore, non ancora assibilate, erano davvero «fonemi di notevolissima frequenza», benché non solo a Genova ma anche, per esempio, a Venezia (Stussi 1966, p. 113). È un luogo comune resistente: l’umanista romano Paolo Pompilio, nel capitolo De Iotacismo et Labdacismo et Zetacismo aliisque vitiis pronuntiandi apud multas nationes del suo trattato De accentibus (1488), nel quale stigmatizza difetti di pronuncia in latino, nota: «Qui vero maritimam Ligurum incolunt, zetacizant.
Nam pro gente zerterz dicunt, et carmen hoc ita enuntiant: “Irin de zelo misit Saturnia Zuno” [Aer. V 605]» (Dionisotti 2003 [1968],
pp. 32-3). Anche «gens Veneta et plurimi ex Cisalpinis ... dicunt ... Zela pro cella» (qui il fenomeno focalizzato è lo scempiamento), ma il fenomeno settentrionale delle affricate e poi fricative dentali in luogo delle palatali toscane viene riferito da Pompilio particolarmente ai liguri. L'eventualità che i genovesi dovessero «per oblivionem» perdere la z e di conseguenza ammutolire o «novam reparare
... loquelam» ricalca parodicamente la confusione babelica «que nil aliud fuit quam prioris o4livio» dopodiché «omnis nostra loguela» 167
De vulgari eloquentia
quelam. Est enim z maxima pars eorum locutionis, que quidem lictera non sine multa rigiditate profertur.
XIV. Transeuntes nunc humeros Apenini frondiferos levam Ytaliam contatim venemur, ceu solemus, orientaliter ineuntes. fu «a nostro beneplacito reparata» (I IX 6). EST ENIMZ... RIGIDI. TATE PROFERTUR: in II VII 5-6 la z, consonante duplice al pari della x (cioè occlusiva-costrittiva, +5 sorda o d+s sonora, come £+s), caratterizza i vocaboli yrsuta (‘folti’, ‘non pettinati’, che non scorrono, ma pongono ostacoli alla fonazione).
XIV 1. TRANSEUNTES ... FRONDIFEROS: Dante attraversa il crina-
le appenninico passando dalla Toscana alla Romagna-“Lombardia”: è questo il vero crinale appenninico in primo piano nella sua esperienza e percezione, dal suo punto di vista esistenziale e politico di esule ancor prima che dal punto di vista linguistico-letterario. La distinzione fra Italia di destra e di sinistra, in tutta la parte centro-meridonale del-
la penisola, è stata di fatto obliterata nella trattazione dei capp. XI-XIII, perché non rappresenta niente di vivo nella mente di Dante. Non solo l’Apulia, infatti, è stata trattata unitariamente, rispettandone l’unità statuale e in collegamento con la scuola siciliana (cap. XII), ma anche spoletini e anconetani sono stati trattati come contigui ai romani (XI
2-3, XII 7): anche qui, in realtà, rispettando implicitamente una continuità territoriale, pur astenendosi rigorosamente dal nominarla e accreditarla, cioè quella dello Stato della Chiesa. Ben diversa importanza ha per Dante, in questi primi anni dell'esilio, l’area di confine toscoromagnola, come evidenziato da Carpi 2004 nel cap. III «Fra Tuscia e Romandiola» ($ 1 «Una prospettiva dall’Appennino»). LEVAM YTALIAM ... ORIENTALITER INEUNTES: «ceu solemus» è collegato da Marigo, come già da Trissino 1529, a quanto segue: «e cominciamo, secondo il solito, da oriente». Mergaldo invece, sulla scia di Rajna 1896 e
Pellegrini! 1962 (1960), lega «ceu solemus» a quanto precede: «esploriamo con attenta indagine, come siamo soliti, la sinistra dell’Italia», e commenta: «la virgola dopo solemzs ... è indispensabile ... non ci sono prove che Dante abbia mai cominciato l’indagine dell’Italia di destra da oriente, poiché l’inizio con la Sicilia aveva, come esplicitamente dichiarato, altra motivazione (I XII 1)». Credo piuttosto che l’inciso «ceu solemus» si colleghi sia a «contatim venemur» che a «orientaliter ineuntes». Con ilcongiuntivo esortativo «levam Ytaliam contatim venemut», infatti, Dante riprende chiaramente il «decentiorem atque illustrem Ytalie venemur loquelam» con cui aveva aperto il cap. XI, subito 168
De vulgari eloquentia I XIII 6-XIV 1
una parlata nuova. La 2 infatti occupa la massima parte del loro parlare, e questa lettera non si pronuncia se non con grande durezza. XIV. Valicando ora i gioghi frondosi dell'Appennino, mettiamoci in caccia scrutando la parte sinistra dell’Italia, come avevamo preso a fare, cominciando da oriente. dopo aver posto la mappa delle regioni di destra e di sinistra (7 + 7, in X), e dei corrispondenti volgari (anch’essi 7 + 7, in x). Quella doppia serie di volgari di destra e di sinistra (per un totale appunto di «adminus xiiii vulgaria», X 7), Dante tale elencata, in X 6, in ordine rigoro-
samente da est a ovest, e credo che qui con «orientaliter ineuntes» egli riprenda quell’ordine che nel cap. X aveva impostato. Da tale ordine, poi, nei capp. XI, XII e XII si era discostato, dandosi prima a eliminare le peggiori brutture indipendentemente dalla geografia, saltando da una parte all’altra dell’Italia (cap. XI), quindi a celebrare l’ammirato siciliano (cap. XII) e a colpire il detestato toscano (cap. XIII), con l’appendice — questa sì di nuovo geografica — del genovese ($ 6), con la quale aveva ripreso l'accostamento «Tuscia et Ianuensis Marchia» — «Tuscorum cum lanuensibus» del cap. X ($$ 5 e 6). A questo punto, quindi, Dante si trova ad aver già trattato dei volgari di destra, e ad averlo fatto senza rispetto per l’ordine geografico che lui stesso aveva impostato, seguendo invece un prepotente impulso di merito e di demerito, cioè un criterio polemico, che lo ha portato a saltare dalla depreca-
zione del romanesco all’esaltazione del siciliano alla deprecazione del toscano. Ora, per trattare dei volgari di sinistra di cui non si è già sbarazzato, cioè di quelli padani che per lui veramente contano, propone di riprendere la rassegna geografica ordinata, partendo da est: cosa che in effetti farà in questi capp. XIV-XV. «Ceu solemus» non discorda da «orientaliter ineuntes» se riconosciamo nel presente s0/e7245, esteso al latino, il valore romanzo di imperfetto: ‘come eravamo soliti fare,
come avevamo preso a fare’. E il «valore consuetudinario d’imperfetto, come in provenzale ... e in francese ... così in italiano» (Contini 1984, commentando E° r2’încresce di me 53 «lil desire] che mi combatte così come suole»), valore attestatissimo in Dante: Io serto sì d’Amor 6 «sì
ch'io son meno ognora ch'io non soglio»; Voi che ‘ntendendo 14 «Suol esser vita dello cor dolente» (e nel commento in prosa di Cv II VI 5 «Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole esse-
re un pensiero soave») e 28 «l’umil pensero che parlar mi sò/e»; {XVI 67-8 «cortesia e valor dì se dimora / ne la nostra città sì come suole» e XXVI 21 «e più lo ’ngegno affreno ch'i’ non soglio». Contatim, avverbio 169
De vulgari eloquentia
[2] Romandiolam igitur ingredientes, dicimus nos duo
in Latio invenisse vulgaria quibusdam convenientiis con-
trariis alternata. Quorum unum in tantum muliebre vide-
tur propter vocabulorum et prolationis mollitiem quod
virum, etiam si viriliter sonet, feminam tamen facit esse
credendum. [3] Hoc Romandiolos omnes habet, et pre-
sertim Forlivienses, quorum civitas, licet novissima sit,
altrimenti sconosciuto attestato da B (G e T hanno «contanti»), Dante
può averlo coniato a partire da Uguccione, C 231 6 «unde contor -aris ... aliquid perquirere et scrutari, et ponitur similiter pro interrogare et investigare, et componitur percontor -aris, idest inquiro vel perquiro, interrogo» (infatti usa percontari all’inizio del cap. XV). XIV 2. ROMANDIOLAM: per la definizione della regione e la storia del toponimo vedi la nota a I X 5. DUO IN LATIO ... CONVENIENTIISCONTRARIIS ALTERNATA: il primo dei due volgari contrapposti con caratteristiche complementari è il romagnolo, che corrisponde
alla Romandiola.
QUORUM UNUM... ESSE CREDENDUM: «nell’acco-
stamento mzulier-mollities (vedi Cicerone, De oratore III 1141 “Sunt ... Certa vitia, quae nemo est quin effugere cupiat: mollis vox aut muliebris...”) avrà agito la connessione etimologica fra i due termini ,.. attestata puntualmente, oltre che nella trattatistica religiosa e morale (vedi ad esempio Boncompagno, Arzicitia XXXIII [ed. Nathan 1909], p. 72), in tutti i principali etimologisti, da Isidoro a Papia, Uguccione e Giovanni da Genova, con molte possibilità di variazioni concettuali ed etiche sull’etimo (ad esempio Isidoro, Etyr. XI Il 18 “Mulier vero a mollitie, tamquam mollier, detracta littera
vel mutata, appellata est mulier”, ecc.)» (Mengal/do). XIV 3. FORLIVIENSES ... TOTTUS PROVINCIE: il significato di rovissima non è ovvio. Già Cittadini post 1600 annotava: «Non so come Dante potelsse] dir ciò, poiché ella è antichissima, Forum Livij detta». L'interpretazione spaziale di Bigongiari, accolta da Mergaldo ed edizioni seguenti, cioè rovissizza nel senso di ‘periferica’, non convince. Non si vede come la città di Forlì, costruita sulla Via Emilia, cioè sull’asse costitutivo della regione, con Faenza e Imola a ovest, Cesena e Rimini a est, possa essere descritta così: «It is near the border of Romagna, far away from its center» (Bigongiari 1964, p. 43 nota 1). Né può renderla periferica il fatto che sia la prima città romagnola che si incontri provenendo dalla Toscana attraverso i passi appenninici (Inglese 2002 [1998]). Novissimzus ha solo occasionalmente il significato spaziale di ‘estremo’ evocato da Bigongiari (che non si attaglia affatto alla reale po170
De vulgari eloquentia I XIV 2-3
[2] Entrando dunque in Romagna, diciamo che in Italia abbiamo trovato due volgari che si corrispondono per caratteristiche opposte. Di questi l’uno suona talmente effeminato, per la mollezza dei vocaboli e della pronuncia,
che fa sembrare donne anche gli uomini, per quanto abbiano una voce maschile. [3] Questo volgare è diffuso fra tutti i romagnoli, e in particolare i forlivesi, la cui signoria cittadina, benché sia la più recente, si presenta tuttasizione geografica di Forlì temporale di ‘ultimo’: così campione) delle oltre 4000 così in Uguccione, N 31 3
in Romagna), ma ha normalmente il senso nella stragrande maggioranza (sondata per occorrenze in latino cristiano nel CLCLT, e «Novissimus tamen mutat significationem:
dicitur enim r0vzssimus, idest ultimus, et raro invenitur in ea significa-
tione quam deberet habere superlativus istius positivi, scilicet novus; unde illus [M? 20, 16] “et erunt novissimi primi et primi novissimi”».
L'interpretazione di A. Vasina (in ED, s.v. Forlì, p. 967), «le lotte di fazione e soprattutto ... le operazioni militari condotte contro la città dalle truppe papali attorno agli anni 1282-83 e anche successivamente ... dovettero richiedere, tra la fine del Duecento e i primi del Trecento, una quasi totale ricostruzione della città; il che ci permetterebbe di spiegare come Forlì potesse apparire a Dante r0vzssizza», non si com-
bina bene con il significato di civitas, che è la parola preferita da Dante, nel De vulgari, nelle Epistole e nella Monarchia, a scapito di urbs,
perché egli parla quasi sempre, come qui, di città in quanto comunità civile e politica, non entità fisica. Resta invece persuasiva l’interpretazione di Marigo: «Forlì era uscita di recente dall’anarchia delle lotte civili, dopo che, divenuta centro di ghibellinismo e superato vittoriosamente il lungo assedio (1281-83) dei guelfi e delle milizie francesi ..., era passata, ultima di tutte le città della Romagna, sotto uno stabile ed oculato reggimento, quello degli Ordelaffi». In effetti «gli Ordelaffi si videro finalmente spianata, a cavaliere dei secoli XIII e XIV, la via all’acquisto del dominio signorile», precisamente con la vittoria nel 1296 sulla famiglia guelfa rivale dei Calboli (A. Vasina in ED, s.v. Ordelaffi, p. 183); «a Forlì si affermarono gradualmente dopo il 1302 gli Ordelaffi con Scarpetta e poi con Cecco, rispettivamente col titolo di podestà e di capitano del popolo» (Vasina 1964, p. 295); cioè proprio nel momento in cui Dante, cancelliere del Consiglio dell’Università dei Bianchi, come sappiamo dalla testimonianza di Biondo Flavio (cfr. Barbi 1975 [1892] e A. Campana in ED, s.v. Biondo Flavio),
trovava rifugio, nel febbraio-marzo 1303, presso Scarpetta nella sua ve-
171
De vulgari eloquentia
meditullium tamen esse videtur totius provincie. Hii deuscì affirmando locuntur, et oclo reo et corada mea proferunt ste di «capitaneus partis Alborum extrinsecorum civitats Florentiae». La maggiore vetustà dei domini signorili delle altre città romagnole echeggia anche nel XXVII dell’Inferzo, dove «Ravenna sta core stata è molt’anni» (v. 40), cioè sotto i Polenta che la reggevano in effetti dal 1275, insieme con Cervia (v. 42), «da quando cioè Guido Minore da
Polenta si era impadronito della città ... instaurando nel comune un regime di parte guelfa» (Vasina 1964, p. 103); mentre i Malatesta a Rimini «là dove soglion fan d’i denti succhio» (v. 48), cioè ‘dove erano soliti’ (soglion con valore di imperfetto: cfr. la nota al $ 1), e non solo dalla cacciata dei ghibellini nel 1295, che ne sancì definitivamente la signoria, ma di fatto fin dai tempi del matrimonio di Gianciotto con Fran-
cesca da Polenta (If V) nel 1275, finalizzato appunto a insignorirsi di Rimini con l’appoggio esterno dei Polentani. Il dominio signorile su Faenza e Imola di Maghinardo Pagani da Susinana — che Dante ricorderà per la sua spregiudicatezza, ghibellino in Romagna, alleato di Firenze in Toscana: IfXXVII 49-51 «Le città di Lamone e di Santerno / conduce il lioncel dal nido bianco, / che muta parte da la state al verno» — si può far datare, seppur interrotto da temporanei rovesci, dalla seconda metà degli anni Ottanta: vedi sotto. MEDITULLIUM ... TOTIUS PROVINCIE: Dante tributa un riconoscimento di centralità politica alla Forlì del suo recente protettore Scarpetta Ordelaffi (e dietro di essa alla Forlì fedele alleata di Federico II e poi alla «Forlì dell’estrema resistenza antipapale e antiangioina dopo Benevento e Tagliacozzo», Carpi 2004, p. 83). Nonostante la signoria degli Ordelaffi sia la più recente della Romagna, Forlì è il cuore della regione: Uguccione, M 66
16 «et quicquid eminet in medio dicitur meditullium, ut eminens locus in medio campo dicitur meditullium et quod eminet in medio rote dicitur meditullium»; dunque anche con un’idea di ‘perno, cardine’ si-
mile a quella che qualificherà il ruolo regolativo del volgare cardinale (I XVI 6, XVII 1, XVIII 1, XIX 1). «E poteva ben apparire a Dante centro di tutta la Romagna anche perché, già negli ultimi decenni del Duecento, la città rappresentava in Romagna il più sicuro rifugio degli esuli “ghibellini” e poi “guelfi moderati”, da Bologna a Ravenna a Rimini, da Firenze e dalla Tuscia fino a Ferrara» (A. Vasina in ED, s.v.
Forlì, p. 967).
HII DEUSCÌ ... PROFERUNT BLANDIENTES: Hii sono
tutti iromagnoli, non i soli forlivesi, visto che fra di loro (Horw) rien-
trano i due poeti faentini sotto citati. Dewscì — ancora un avverbio affermativo, come oc, oil, sì — presenta la palatalizzazione di s davanti a
vocale palatale, come in testi bolognesi: Guido Faba, Parlamenti in vol172
De vulgari eloquentia I XIV 3
via come il fulcro di tutta la regione. I romagnoli per affermare dicono deuscì, e per blandire oclo meo e corada mea. gare e Gemma purpurea, sci ‘sii, che tu sia’, scì ‘così’, scicomo ‘siccome’; altri rimandi in Mengaldo. «Per la formazione il tipo rientra nel modulo degli avverbi rafforzati con de(0)/dio, anche toscani ma particolarmente frequenti nell’Italia settentrionale: eziandio, avegnadio e almendè(0), fordè, quanvisdè(0), stamadè, ecc.» (Mengaldo, e cfr. Rohlfs, $$ 964-a, 784). Per oclo meo cfr. il riscontro stringente con Pàrtite, amore, adeo 9 «or me bassa [‘baciami’], oclo meo», nei Memoriali bolognesi («è uno stereotipo affettivo», Orlando 1981); si ritrova anche in antico mantovano: «oclo me’, sel te plas». Oclo inoltre è in vari testi
settentrionali (TLIO), da Gerardo Patecchio cremonese ai Proverbia forse veneziani, al Lucidario veronese, al Lapidario estense trevisanofriulano. Oc si trova nell’incipit del sonetto Ocli del fronte, ond'eo me ’nde renego del rimatore Ugolino Buzzola nominato subito dopo; e compare al v. 2 del dantesco sonetto alla Garisenda No we portano, nella veste linguistica dei Memoriali bolognesi. Margo ritiene cl una mera grafia. Invece Mengaldo: «probabile che il nesso c/ stia ancora per pronuncia effettiva (è sempre conservato nei documenti bolognesi pubblicati dalla Corti [1962, p. LV], non nella più letteraria Vita)». In effetti, non sarebbe logico che Dante adducesse una forma puramente grafica perché considerava effeminato il suono sottostante che la grafia occultava. L'argomento di Margo, che «non il suono di una c gutturale, ma quello palatale associato colla liquida poteva dare a Dante quel senso sdolcinato», non sussiste perché quando scatta la palatalizzazione la liquida scompare; e non c’è ragione di pensare che la palatale, come nel romagnolo moderno oc’, suonasse sdolcinata a Dante, anzi la palatale
di ochiover (I XI 5) occorre in un verso connotato di asprezza lombarda. Corada, dal neutro plurale corata, dal latino volgare coratur ‘cuore’ (poi ‘interiora’), con sonorizzazione settentrionale, si trova (TLIO) nel-
le Rizze di Francesco di Vannozzo, «la corada», e con la sorda in quelle di Nicolò de’ Rossi, «la corata», in entrambi i casi oggetto di trarre
‘cavare’. Tendo a credere che Dante intendesse corada mea nel senso di ‘viscere’, con un più e appunto un eccesso di pazhos rispetto alla comune metafora del cuore: come nel «veneziano (universalmente noto dall’Ortis foscoliano) vissere zie» ricordato da Mengaldo (in ED, s.v. Romagna — lingua, p. 1021); e questo è il senso obbligato nel binomio «se non gli secca ’l cuor e la curata» di Cecco Angiolieri, Qualungu'om vuol purgar 5. Nello stesso senso di ‘interiora’, ma con opposta connotazione, Dante userà la parola in {XXVIII 26-7 «la corata pareva e ’l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia» (Francesco da Buti, 173
De vulgari eloquentia
blandientes. Horum aliquos a proprio poetando divertisse audivimus, Thomam videlicet et Ugolinum Bucciolam, Commento, I, p. 719: «cioè fegato, cuore e polmone»). HORUM ALI. QUOS ... FAVENTINOS: poetando significa che Dante li considera rimatori illustri (vedi la nota a I X 2), divertisse è il verbo tipico per i poeti che si distaccano dal proprio volgare municipale (vedi la nota a I XII 9). L'infinito perfetto non dimostra «che non solo Ugolino era morto (1301), ma anche Tommaso», come argomenta Margo, visto che diver-
terunt a I XII 5 si riferisce a Cino e a Dante stesso, vivi: e in effetti Tommaso (vedi sotto) risulta ancora attivo nei primissimi anni del Trecento. Audivimus non equivale a vidimus (I XI 4, II XI 3), né a invenimus (IT XI 6): vidimus e invenimus rimandano a testi; audivimus introduce l'affermazione che i due poeti in questione si sono staccati dal loro volgare municipale, senza alcun riferimento a testi, quindi è un’affermazione che Dante fa sottraendola a qualunque verifica. Può significare ‘ho sentito dire’, oppure ‘ho ascoltato’, dalla voce del poeta stesso o di altri. Secondo Marigo, «poiché è da escludere che Dante si accontentasse in tale materia, in cui si presenta giudice sottile, dell’opinione comune — dovremo interpretare: ho ascoltato la recitazione di qualche canzone, notando che alcuni si sono allontanati dal parlare materno». Mi sembra più probabile che Dante voglia dire di aver sentito questo giudizio da una fonte che considera attendibile: quale potrebbe essere, per mera ipotesi, Cino, che con Tommaso ha intrattenuto una corrispondenza poetica di grandissimo interesse contingente per Dante; o anche, sempre per mera ipotesi, Onesto stesso, che ne ha tenuta una sia con lui che con Ugolino Buzzola (vedi sotto). Comunque la scelta di due faentini, quasi a introdurre i bolognesi del capitolo seguente, sembra voler promuovere un collegamento politico-culturale prima che poetico tra la Forlì ghibellina dell’Ordelaffi, rzeditullium della Romagna, attraverso la Faenza ugualmente antipapale di Maghinardo Pagani, e Bologna, s'intende nel cété bianco-lambertazzo con cui Dante è solidale. ‘THOMAM: di questo Tommaso da Faenza gli studi danteschi sanno che fu giudice, figlio di un giudice, che è infondata la notizia che fosse fratello di Ugolino Buzzola Manfredi citato dopo di lui, che operò anche a Bologna verso gli anni Settanta, e che era ancora vivo nel 1290 (in realtà, per la ragione detta sotto, doveva essere ancora vivo ai
primissimi del Trecento). Ci sono tramandate dai tre antichi canzonieri (vedi le note a I XII 2 e 8) una canzone di risposta per le rime a Monte Andrea, una di risposta per le rime a Giovanni Dall’Orto di Arezzo (Renier 1883, pp. 213-22), altre due canzoni e quattro sonetti, tradizionalmente valutati di «poco valore d’arte ... oscuri, faticosi, d'un puro
guittoniano» (Zaccagnini 1935, p. 86). Tommaso è «poeta assai me174
De vulgari eloquentia I XIV 3
Sappiamo che alcuni di loro si sono allontanati poetando dal proprio volgare, come Tommaso e Ugolino Bucciola, diocre e seguace della maniera guittoniana» per Marigo; invece «munito di un bagaglio tecnico non indifferente» secondo Capovilla 2009, p- 63. Tuttavia, non credo che sia stato questo bagaglio, né l’«embrionale guinizzellismo», diagnosticabile nel riuso di metafore di A/ cor gentil (Giunta 1998, pp. 331-2), a imporlo all’attenzione di Dante. Motivo ben più forte, nella reale dinamica costitutiva del De vulgari, può essere stata la tenzone a tre con Cino e Onesto portata alla luce da Ginori Conti 1940 e Zaccagnini 1940 e non ancora registrata nella sua îxtrinseca pertinenza dagli studi sul De vu/gari, pur essendo stata riedita e commentata da Orlando nella sua edizione delle Rirze di Onesto da Bologna (1974, pp. 57-63). Si tratta di un raro esempio di tenzone politica («la marginalità della politica nel verso si può imputare in qualche misura anche ad una sorta di censura esercitata a posteriori dai primi collettori di poesia volgare?», Giunta 1998, p. 270) di pochissimi anni prima e di vitale interesse per il Dante del 1304-5, perché parla di Bonifacio VIII, Carlo di Valois, guelfi neri e bianchi, ed equipara l’azione del papa, che sostituisce la casa imperiale con quella di Francia e vuol sovvertire iComuni toscani, a un comportamento simoniaco: vedi la nota a I XV 6.
UGOLINUM BUCCIOLAM: Ugolino, detto Buzzola, del-
la famiglia guelfa dei Manfredi (vedine l’albero genealogico in Vasina 1964, p. 433), che contese ai ghibellini Acarisi il dominio di Faenza, è
un uomo politico e d’armi la cui attività è documentata a partire dal 1279. Morì l’8 gennaio 1301 (Torraca 1912; Zaccagnini 1935; A. Anto-
nelli in DBI, s.v.). Alleato della fazione dei geremei, soggiornò per vari periodi a Bologna, e nel 1298-99 combatté per la città contro gli Estensi allora alleati dei ghibellini romagnoli. Di lui, autore di un perduto poemetto didascalico De salutandi modis «in ydeomate Faventinorum rimis ornatissimis atque subtilibus», ricordato anche da Francesco da Barberino, ci rimangono solo due sonetti amorosi: uno, Miraî lo specchio ch'a verar notrica (ed. Orlando 1974, pp. 69-70), in cui se la cava a rispondere a Onesto da Bologna su due sole rime non molto illustri (l’explicit di Onesto era «a Ilei e ad Amor fatt'ha la fica»); l’altro, Oddi del fronte ond’io me ne renego (ed. Zaccagnini 1935, pp. 88-9; forse in rapporto con oclo reo), «scherzoso in vernacolo» (Marigo), ovvero «risentitamente espressionistico» (Menga/do). A fronte di questi titoli scarsissimi, per quanto ci è dato sapere, al fine di essere accreditato come poeta illustre, Dante non poteva ignorare che questo condottiero, figlio di fra’ (cioè frate gaudente) Alberigo «da le frutta del mal orto» (If XXXIII 118-9), fu nel 1285 coautore del massacro dei consanguinei Manfredo e Alberghetto Manfredi (strage di Pieve di Cesato), che frut-
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De vulgari eloquentia
Faventinos. [4] Est et aliud, sicut dictum est, adeo vocabulis
accentibusque yrsutum et yspidum quod propter sui rudem asperitatem mulierem loquentem non solum disterminat, sed esse virum dubitares, lector. [5] Hoc omnes qui 72414! terà a suo padre l’inaudito trattamento di ghiacciare fra i traditori dei parenti in fondo alla Tolomea ancor prima di essere morto. Questo proditorio assassinio, peraltro, segna il passaggio di Alberigo e Ugolino alla temporanea alleanza con il capo ghibellino Maghinardo Pagani di Susinana, che aiutò Maghinardo nella sua azione, infine destinata al suc-
cesso, per insignorirsi di Faenza sottraendola al controllo della Chiesa (IFXXVII 49-51): «Maghinardo ... si valse dell’appoggio del tutto occasionale di quella parte dei Manfredi che, responsabile della tragedia familiare di Pieve di Cesato, si era trovata in uno stato di totale isolamento, al bando di Faenza e della curia provinciale, ed ora cercava appunto di reinserirsi nella vita politica locale. Maghinardo offrì ad essa tale possibilità, ma in compenso riuscì a rientrare a Faenza e a precludere sul momento a tutti i possibili rivali la via che portava alla signoria su questa città ... Di importanza non comune per il maturare di questo processo storico [la crescita del potere territoriale di Maghinardo] dovette essere l’atteggiamento antipapale di una parte cospicua dei Manfredi che aveva abbandonato ormai in modo pressoché definitivo le sue tradizioni guelfe» (Vasina 1964, p. 173; e cfr. Larner 1972 [1965], pp. 69-73). Forse questo, oltre all’aver difeso Bologna contro gli Estensi, dà a Ugolino Buzzola qualche merito politico, più che letterario, per essere selezionato (seppur sotto il cautelativo audivir245) fra i due soli romagnoli che si staccarono poetando dal proprio volgare. Comunque Tommaso e Ugolino hanno in comune di essere stati in corrispondenza poetica con Onesto; il primo anche direttamente con Cino. XIV 4. EST ET ALIUD ... ESSE VIRUM DUBITARES, LECTOR: il volgare opposto all’effeminato romagnolo, a cui Dante non dà un nome ($ 8 «nec romandiolum, nec su277 oppositum»), è in realtà un insieme di volgari che, nei termini delle regioni elencate in I x 5, corrisponde alla
Lombardia (che include l'Emilia) e alla Marchia Trivisiana. Ma perché il romagnolo è così mollemente effeminato e questo volgare lombardoveneto è tanto irsuto, ispido, rozzo, aspro, da essere impronunciabile da parte di una donna? Al di là delle impressioni foniche, che difficilmente saranno davvero l’origine induttiva di questa contrapposizione, la sua “causa finale” è certamente Bologna: installare Bologna al confine di due macro-aree fra le quali si esalta come eccellente punto di equilibrio. Non escluderei poi che abbia agito la consapevolezza che il dualismo territoriale Lorzbardia/Romandiola si è instaurato con l’invasione lon176
De vulgari eloquentia I XIV 3-5
faentini. [4] Ce n’è poi un altro, come s'è detto, irsuto e ispido per vocaboli e accenti al punto che non solo, con la sua rozza asprezza, snatura una donna che lo parli, ma ti farebbe dubitare, o lettore, che si tratti di un uomo. [5]
Questo è diffuso fra tutti quelli che dicono r2474/, cioè
gobarda, e perpetua un dualismo etnicamente connotato fra longobardi, di proverbiale, incolta asprezza (cfr. IXV 3 «a Ferrarensibus vero et Mutinensibus aliqualem garrulitatem que proprie Lombardorum est: hanc ex commixtione advenarum Longobardorum terrigenis credimus remansisse»), e greci, di altrettanto proverbiale mollezza di cultura e di
costumi, passibile di tradursi in uno stereotipo etnico di omosessualità. XIV 5. OMNES QUI MAIA! DICUNT: la lezione «magara», che si ristampa da secoli, non ha alcun fondamento. I manoscritti, come correttamente riporta l'apparato di Mengaldo 1968, hanno: B «mara», GT
«mar(r)a». Il Trissino nel suo volgarizzamento del 1529 stampò «manara» (fraintendendo il tt4/us del ms. T di cui disponeva); il Corbinelli nella princeps (1577), fondata su G, riprodusse anche lui a testo «manara» (nonostante G abbia un #/us inconfondibilmente increspato per r), ma in nota, p. 49, suggerì: «Non so se Manara fusse el Magari». Quest'ultima forma, benché impossibile dal punto di vista paleografico, ebbe fortuna. Sulla scia della nota del Corbinelli, il Maffei, nella Pre-
fazione alle Opere del Trissino, rifinì la proposta in «magara», forma che fu ripresa dal Fontanini nella Eloguenza italiana, poi dal Fraticelli (1857), e infine dal Rajna (1896, pp. 78-9 nota 6), che la sostenne, facendola
passare in giudicato. Marigo poi vi vide un «avverbio di affermazione», dunque in linea con jò, 0c, 0î/, sì, e notò che era forma viva «ancora nel-
le campagne lombarde ed emiliane, con pronuncia fortemente gutturale del ga, mentre nella regione veneta domina rz4agar». Come tale r24gara è registrato fra gli altri in Rohlfs, $ 963: «la particella affermativa magara citata da Dante per la Lombardia (VET XIV)»; e nel DELI: «r4gara, per Dante, era tipico di bresciani, veronesi e vicentini». In realtà, né mzagara né magari compaiono, mai, nel TLIO. Non esiste una sola occorrenza della forma settentrionale sonorizzata (dal greco pakdpt(06) ‘felice, fortunato’) in tutto il corps. Esistono nove occorrenze di forme con la sorda, di cui otto siciliane (prima delle quali «Macara se doléseti che cadesse angosciato» del contrasto di Cielo d’Alcamo, v. 96), una in una lauda anonima (Arcor non sagga 96 «Macare ke mme àbberano uccisa», ed. Bettarini 1969). E si trovano forme simili in due testi napoletani: il Libro de la destructione de Troya (amacare, -1) e l’epistola napoletana del Boccaccio (arz4crariddio). Che Dante abbia scelto, come parola per eccellenza lombardo-veneta; un grecismo che, allo stato molto
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De vulgari eloquentia
dicunt, Brixianos videlicet, Veronenses et Vigentinos, haesauriente della nostra documentazione odierna, non è giunto a noi tramandato da nessun testo settentrionale, ma quasi esclusivamente da te-
sti siciliani, non è plausibile. Infine, la scoperta del ms. B (e la pubblicazione del facsimile, Bertalot 1922), che porta chiaramente «mara»,
con la scempia, avrebbe potuto rendere evidente che l'archetipo aveva «mara» 0 «marra», e nient'altro. In un primo tempo ho pensato che la forma autentica fosse semplicemente questa, senza bisogno di nessun emendamento: «mara», con la scempia settentrionale, cioè la ‘zappa’, parola rustica, appropriata anche lessicalmente («adeo vocabulis accentibusque yrsutum et yspidum») a esemplificare la rudis asperitas imputata a questo volgare. Marra naturalmente è parola dantesca, si ritrova nell’Irferno, in bocca a Dante — XV 95-6 «però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e ‘1 villan la sua rz4rra» — che interloquendo col suo maestro Brunetto Latini si conforma al suo modo di parlare idiomatico (65-6 «ché tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico», 72 «ma lungi fia dal becco l’erba», ecc.), a conferma del giudizio che isuoi detti, «si rimari vacaverit, non curialia sed municipalia tantum invenien-
tur» (I xIM 1). Mentre la forma scempia settentrionale, dall’aspetto ancor più rozzamente provinciale, è registrata da Gidino da Sommacampagna, Trattato e Arte deli Rithimi Volgari, esemplificata in un «soneto bestigato [‘bisticciato”] simplice»: «per oprar r2474 troppo l’omo more» (con la glossa: «in questa dictione mara, che tanto sona a dire quanto ‘capa da gapare terra’, mutata la prima 4 in 0, e la seconda @ mutata in e, fit zz0re»); e in altro componimento «asti[g]ato composito»: «nela lamara non va la rara» (con la glossa: «quando questa dictione simplice lamara, che significa una fossa cum pantano, fi astigata con queste due dictione, videlicet la e 12474, che significa ‘la cappa da capparla terra»). E con Gidino (l’unico autore in tutto il corpus del TLIO a presentare la parola 72212) siamo appunto a Verona, retroterra dal quale sembra provenire puntualmente la parola scelta da Dante per caratterizzare «Brixianos ... Veronenses et Vigentinos». Invece non può essere questa la lezione originaria. Non perché il fenomeno fonetico esibito da mara sia solo lo scempiamento settentrionale, cioè un fenomeno generico. È altrettanto generica la z genovese (I XII 6), cioè l’affricata dentale al posto della palatale toscana, ugualmente pansettentrionale (di «banalità del bersaglio dantesco», parla infatti Stussi 1966, p. 113), eppure presentata come stigma unico. E parimenti aspecifico è il #z0rt0 ‘molto’ (LT > nt) dei parmensi (I XV 4), comune in realtà a tutti i dialetti emi-
liani nonché al genovese. La ragione per cui la lezione tràdita è indifendibile è che il tipo lessicale marr4 è solo toscano e sardo, come dimostrano inequivocabilmente l’AIS (VII 1428), Scheuermeier 1996 (1 85-9), 178
De vulgari eloquentia I XIV 5
i bresciani, i veronesi e i vicentini, nonché fra i padovatutti i vocabolari dei dialetti settentrionali e i glossari delle edizioni di antichi testi settentrionali, e appunto la mancanza di ogni attestazione nel TLIO (presenti invece esempi di sapa, qapa, -ar, -are) tranne quella di Gidino da Sommacampagna. A proposito della quale, la pur sorprendente coincidenza veronese è azzerata dall’inaffidabilità degli esempi, artificiali e forgiati come sempre dallo stesso metricista, veronese sì ma di cultura toscana (Caprettini 1980 e 1993). Accolgo quindi il brillantissimo emendamento «maia!» ‘mangia!’ (o «maiam» ‘mangiare’) di Bertoletti 2010, paleograficamente lievissimo ed estremamente mirato sotto il profilo sia dell’area dialettale che della connotazione lessicale: «matar ... variante dissimilata di r24grar, che diversi dialetti lombardi
occidentali riservano a soggetti animali e talvolta estendono agli uomini nel senso di ‘divorare’, ‘mangiare in modo vorace’, nei dialetti moderni della Lombardia orientale e delle province di Como, Trento e Ve-
rona è riferita, come forma rustica e popolaresca, all'atto del mangiare tout court, e sembra che così fosse in fase antica, come mostrano alcu-
ne occorrenze del tipo 724527 riferito a esseri umani in testi volgari di quest'area» (pp. 7-9), e come «è inequivocabilmente garantito dalla ricorrenza della forma nell’onomastica dell’epoca», in composti imperativali tipo Mazavac(c)a attestati a Brescia, Verona, Mantova, Cremona e
aree limitrofe (pp. 11-5). Il blasone è dunque azzeccatissimo anche per significare l'appartenenza “lombarda” del veronese (per cui vedi sotto). BRIXIANOS... VERONENSES ET VIGENTINOS: l’apparentamento di veronese e bresciano appariva dialettologicamente esatto e acuto, alla luce della teoria di Pellegrini? 1966, «stante che ilveronese antico si caratterizzava per tratti linguistici ... che lo separavano dagli altri dialetti veneti avvicinandolo invece a quelli lombardi e in genere “gallo-italici”» (P.V. Mengaldo in ED, s.v. Verona — lingua, p. 978). Gli studi posteriori hanno però aperto «una cesura tra il veronese e i dialetti lombardo-orientali» per cui «il veronese antico appare piuttosto la periferia del Veneto centrale, che non un attardato avamposto lombardo in Veneto» (Bertoletti 2005, p. 137). Il giudizio di Dante, che individua
una concordanza col bresciano molto stringente ma abbastanza isolata, sarà piuttosto orientato, come sempre, dalle articolazioni politicoamministrative del territorio. Del resto Verona appare abbinata a Brescia anche nel passaggio su Mantova, poco sotto (I XV 2). Secondo Folena 1965-66, pp. 487-8 e nota 6, «non ci sono dubbi che per Dante Verona appartenga alla “Lombardia”, che Dante distingue così nel De vulgari eloguentia come nella Commedia dalla Marca Trevisana e dalla Romagna ... Lombardi erano ... i veronesi secondo l’uso comune del tempo (così per esempio iveneziani chiamavano lombardi i feuda179
De vulgari eloquentia
bet; nec non Paduanos, turpiter sincopantes omnia in -tus
participia et denominativa in -ta5, ut z2ercò et bonté. Cum
quibus et Trivisianos adducimus, qui more Brixianorum et finitimorum suorum 4 consonantem per fapocopando proferunt, puta rof pro “novem” et vif pro “vivo”: quod quidem barbarissimum reprobamus. [6] Veneti quoque nec sese investigati vulgaris honore dignantur; et si quis eorum, errore confossus, vanita-
ret in hoc, recordetur si unquam dixit Per le plage de Dio tu no veras. tari veronesi del Negroponte)». Per questo, mentre «il “buon Gherardo” da Camino [trevigiano, Pg XVI 124] ... mai si sarebbe potuto chiamare “lombardo”», Bartolomeo della Scala è invece il «gran Lombardo» (Pd XVII 71), e Dante stesso, approfittando dell'ospitalità di questi nel primo soggiorno veronese del 1303-4, si farà “lombardo”, «come gli rinfaccia in un sonetto Cecco Angiolieri» (è il sonetto Dante Alighier, s'i' so’ buon begolardo 8 «s'io so’ fatto romano, e tu lombar-
do»). O meglio, precisa Folena: «l'Adige segna per Dante il confine occidentale e meridionale della Marca Trivisiana (Pd TX 44 [«che Tagliamento e Adice richiude»]) e Verona col suo territorio appartiene a entrambe le regioni, come il dialetto veronese gli appare quasi un ponte fra bresciano e vicentino»; e, «se da un lato la sua visione dei limiti regionali è dominata dalla tradizione giuridico amministrativa, per la quale la nozione di Marchia Trivisiana si sostituisce incorporandola a quella di Marchia Veronensis di tradizione ottoniana [cfr. su questo Arnaldi 1998, p. 39], dall'altro egli non può ignorare l'autonomia assun-
ta dalla Verona scaligera». Per quanto riguarda il collegamento col vicentino, invece, «le nostre conoscenze dialettologiche indicano la stretta
affinità del vicentino col padovano, e la sensibile differenza ... di entrambi rispetto al veronese» (P.V. Mengaldo in ED, s.v. Vicenza — lingua, p. 1002). Non sarei certo che a suggerire l’improprio apparentamento di veronese e vicentino possa «aver agito su Dante solo la vicinanza
geografica, non il criterio politico, perché [dal 1266] fino al 1311 Vicenza è ancora sotto l’egemonia carrarese [cioè padovana], non scaligera» (ibidem): in generale perché tutta la geografia di Dante nel De vulgari è tendenziosa; in particolare perché Vicenza, che era già stata sotto dominio dei veronesi da Romano, continuava a essere contesa a Padova da Verona, e continuerà fino alla definitiva sconfitta dei pado-
vani su cui profetizza Cunizza da Romano in chiave anti-guelfa: Pd IX 46-8 «ma tosto fia che Padova al palude / cangerà l’acqua che Vincen180
De vulgari eloquentia I XIV 5-6
ni, che sincopano oscenamente tutti i participi in -tus e i nomi derivati in -tas, come rzercò e bonté. E con questi man-
diamo anche i trevigiani, che alla maniera dei bresciani e dei propri confinanti apocopando le parole pronunciano la v come f, per esempio in rof per “nove” e vif per “vivo”: il che stigmatizziamo come grandissimo barbarismo. [6] Neanche i veneziani possono considerarsi degni dell’onore di quel volgare di cui andiamo in cerca; e se
qualcuno di loro, trafitto dall’errore, vaneggiasse a questo proposito, si ricordi se ha mai detto Per le plage de Dio tu no veras. za bagna, / per essere al dover le genti crude». PADUANOS... UT MERCÒ ET BONTEÉ: «l'osservazione è ... puntualissima: la risoluzione -ATUM > Ò e -ATEM > -è è veramente l’acutissima spia del padovano antico» (Mengaldo; e cfr. PV. Mengaldo in ED, s.v. Padova — lingua, p. 247; Pellegrini? — Stussi 1976, p. 452; Tomasin 2004, pp. 111-5); i participi passati pensòo : usòo : marchòo : vitupròo fungono da marchi caratterizzanti nel sonetto padovano del canzoniere di Nicolò de’ Rossi Ser Guarino, eo sì me è ben pensòo (Corti 1966, Brugnolo 1986). I nomi «in -t49»> sono «denominativa» perché il suffisso -TAS, -TATEM (Rohlfs, $ 1145) serve a formare nomi astratti da aggettivi (bons > borztas, ecc.), i quali nella grammatica latina sono una sottocategoria dei nomi (nomen adiectivuri, contrapposto a 7077221 substantivum).
CUM QUIBUS ... ET VIF
PRO “VIVO”: «è felicemente attestata, con corretto accostamento al lombardo orientale, una caratteristica tipica del trevigiano antico, la vasta caduta delle vocali finali diverse da 4 ed e del plurale femminile, con conseguente passaggio di -v a -f> (Mengaldo): cfr. per il trevigiano la canzone di Auliver, in Contini 1960, I, pp. 507-11 (zaf‘nave’, def‘deve?, daràf ‘darebbe’, ar2àf ‘amavo’, ecc.); per il bresciano Contini 1935, p. 146 (veschef, trof, ef ‘vi’), Tomasoni 1989, p. 183 (kaz:f, af, vif); il tratto è comune al bergamasco («et finitimorum suorum»): per esempio Ciociola 1979, p. 63 (avesef, parturisef, nof). Nei due esempi Dante applica correttamente, seguendo i grammatici latini, le nozioni di sincope («ablatio de media dictione» di una sillaba atona) e di apocope («ablatio de fine dictionis litterae aut syllabae»). XIV 6. VENETI: significa veneziani, come si ricava dal confronto con I x 6 «Lombardia, Marchia Trivisiana cum Venetiis» e 7 «Lombardo-
rum cum Trivisianis et Venetis», nonché dal «venetianum» che qui segue al $8.. PERLEPLAGE.... VERAS: ‘Per le piaghe di Dio, tu non verrai’.
Ripristino, seguendo Stussi 1966, pp. 110-1, «plage» di GT al posto di 181
De vulgari eloquentia
[7] Inter quos omnes unum vidimus nitentem diverte-
re a materno et ad curiale vulgare intendere, videlicet Ildebrandinum Paduanum. «plaghe» di B (adottato da Rajna 1921, Marigo, Mengaldo 1968 e successivi), «ripristino necessario» perché «la scrizione senz’acca è con-
forme all’antico usus scribendi volgare veneziano» (cfr. Stussi 1965, p. XXIV); adotto «de», anch’esso di GT, al posto del «di» di B preferito
dagli stessi editori; e mantengo «no» di B contro «non» di GT. In tutti e tre i casi, in cui un ramo della tradizione si oppone all’altro, lasciando libero l’editore di scegliere, preferisco la forma più veneziana, pur consapevole che tale criterio «soggiace ... alla riserva che la maggiore venezianità di cui si discorre potrebbe essere non proprietà dantesca, ma rettifica di copista zelante (e si noti che gli apografi di y [cioè G e T] sono stati trascritti a Padova» (Stussi 1966, p. 111; quest’ultima circostanza, che Pulsoni 2006 ha dimostrato non essere a rigore verificata — vedi la Nota al testo — resta tuttavia piuttosto probabile). Adotto la scempia veneziana anche in «veras», dove per la verità lo stemma, per la concordanza di B («verras») con T («ve(r)ras») contro G («veras»), imporrebbe la doppia. Stussi propende a ritenere «verras», forma evidentemente non veneziana, errore di archetipo (ce ne sono diversi altri nelle citazioni volgari): «Quanto alla genesi, potrebbe trattarsi della conseguenza dell'equazione col tosc. verra e il codice di Grenoble avrà la lezione giusta o per omissione del compendio, o per giusto emendamento, meno probabilmente per accurata trascrizione di un subarchetipo corretto, il che implicherebbe la poligenesi del possibile errore». Tratti caratterizzanti sono la conservazione di p/-, che ha cer-
tamente valore fonetico (Stussi 1965, pp. LI-LIT), e «quella -s di seconda persona singolare che differenzia il veneziano non solo dal toscano, ma, quel che più conta, anche dagli altri dialetti euganei» (Stussi 1966, p. 111), e che torna «insistente, quasi con valore di blasone dialettale»
(Mengaldo), nel sonetto veneziano di Nicolò de’ Rossi Vergo, co’ tu sis struolego che montis (in rima appunto con t'afrontis : contis : t'apontis: Corti 1966, Brugnolo 1986). La citazione dantesca è davvero, in questo caso, un verso, un endecasillabo tronco; che concorda con l’incipit del
sonetto Pelle chiabelle di Dio, no ci arvai (‘Per i chiodi di Dio [di Cristo crocefisso], non tornarci’), attribuito a Cecco Angiolieri, «e l'analogia è tale che si può pensare solo a derivazione dell’uno dall’altro, o di entrambi da un modello comune ...; il riscontro con arvai decide comun-
que dell’interpretazione di verras come ‘verrai’ e non ‘vedrai’ (con cui si ha anche, come osservato dal Rajna, una frase compiuta)» (Mergal/do). XIV 7. UNUM VIDIMUS ... INTENDERE: preferisco la lezione «vidi182
De vulgari eloquentia I XIV 7
[7] Fra tutti costoro ne abbiamo visto uno solo sforzarsi di lasciare il volgare materno e tendere a quello curiale, cioè Aldobrandino Padovano. mus» di GT a «audivimus» di B. Non vedo infatti perché «vidimus» sia «lezione debole diplomaticamente» (Marigo), mentre «audivimus» può essere stato indotto da echeggiamento dell’«audivimus», in contesto estremamente simile, del $ 3. La ragione per preferire, pur senza certezza, «vidimus» è nel diverso rapporto che, allo stato delle nostre
conoscenze, Dante dovette avere da una parte coi due “poeti” faentini, dall’altra con Aldobrandino dei Mezzabati: cioè rapporto indiretto coi primi, probabilmente mediato dal giudizio di altri, che potrebbero verosimilmente identificarsi con Cino e forse Onesto (il che mi sembra corroborare l’interpretazione di «audivimus» nel senso di giudizio riportato, non di ascolto di una recitazione); rapporto diretto con il secondo, con conoscenza di almeno un sonetto (vedi sotto)
che giustifica la valutazione che l’autore sia «nitentem» ecc. Se è così, il giudizio non è più limitativo di quello per i faentini — «Si noti che la lode è limitata (ritenter)» (Mengaldo) — ma anzi più impegnativo; e infatti è integrato dall’esplicitazione del bersaglio più alto: «et ad curiale vulgare intendere». Nitor-enitor ha in generale una connotazione tutt'altro che limitativa: vedi I XII 4, II VI 7, II XIl 13. Anche la variante di costruzione nella proposizione oggettiva retta dal verbum sentiendi (infinito vs participio presente predicativo) indica nel secondo caso e non nel primo «la percezione diretta e immediata di un processo in via di svolgimento» (Traina — Bertotti 1978,
II, p.81). ILDEBRANDINUM PADUANUM: Aldobrandino dei Mezzabati, «doctor utriusque iuris», aggregato al collegio dei giudici di Padova dal 1277 e professore presso lo studio padovano nel 1297, podestà di Vicenza nel 1294, figlio di un altro giudice (Ugo Denario dei Mezzabati, ancora vivo nel 1306), doveva essere poco più
anziano di Dante (Gloria 1884, pp. 148, 240-1, 267-9). Dal maggio 1291 al maggio 1292 fu capitano del popolo a Firenze (Barbi 1898, pp. 9-11), dove tutto fa credere che conobbe Dante. È certamente lui il nostro I/debrandinus (Toynbee 1902, pp. 300-1). Di lui ci sono rimasti due soli sonetti. Il primo, Lisetta voi de la vergogna sciorre, è una risposta per le rime al sonetto dantesco Per quella via che la Bellezza corre (anche se «quello di Dante non è un autentico sonetto missivo e ... quella di Aldobrandino non è un'autentica risposta», C. Giunta, in Opere [Meridiani], I, p. 628, dove si riproduce il so-
netto di Aldobrandino). Il sonetto di Dante parla di una Lisetta che crede di far innamorare il poeta, ma viene respinta, «tutta dipinta di 183
De vulgari eloquentia
[8] Quare omnibus presentis capituli ad iudicium comparentibus arbitramur nec romandiolum, nec suum oppositum ut dictum est, nec venetianum esse illud quod
querimus vulgare illustre. xv. Illud autem quod de ytalia silva residet percontari conemur expedientes. [2] Dicimus ergo quod forte non male opinantur qui Bononienses asserunt pulcriori locutione loquentes, vergogna», perché un’altra donna tiene la signoria della sua mente; e quello di Aldobrandino vuole riscattare Lisetta da questa vergogna. L'ipotesi di Barbi 1975 (1920), pp. 231-51, che questo scambio abbia luogo nell’esilio padovano di Dante, non convince: più probabile che il sonetto dantesco sia giovanile (una datazione 1291-92 consente di ipotizzare che Lisetta coincida con la «donna gentile» della Vita Nova); che invece la risposta di Aldobrandino, che si tro-
vava in quel momento a Firenze, sia immediata, sembra naturale. Il sonetto del padovano è apparso «mediocre e involuto» a Brugnolo 1976, p. 371; ma «qualche indizio dell’“ad vulgare curiale intendere”... si può forse cogliere nelle parole rare (in sostanza latinismi) in rima D [perga ‘pervenga’ : s’erga] e magari nell’interpretazione della rocca come “’l poggio d’esta fede” (ma l’attacco del v. 5 [«Beltà di donna sì se vuole opporre»] è pari pari quello di Bi/tà di donna di Cavalcanti: probabilmente ascoltato direttamente a Firenze)» (De Robertis 2005, p. 329), il che peraltro non doveva apparire un demerito a Dante. L'altro sonetto pervenutoci, Veduta parmi che porti di talpa, indirizzato a Reolfino da Ferrara, insieme con gli elogi altisonanti che Reolfino gli tributa nel sonetto collegato («elogi simili ... credo abbiano riscontro solo in certi panegirici poetici rivolti da contemporanei a Guittone d'Arezzo»), ci mostra che Aldobran-
dino «doveva essere stato, all’interno dell'ambiente letterario veneto (o veneto-emiliano) di fine Duecento, una personalità di primo piano», «un piccolo Guittone, leggi piccolo dettatore letterario, di provincia»; Veduta parmi lo conferma «per l’abilità tecnica di tipo guittoniano, che ha le sue punte esposte nelle rime “care” [-a/pa, -idra, -oppo, -opra] fortemente espressive» (Brugnolo 1976, pp. 371-3). XIV 8. NEC ROMANDIOLUM
... NEC VENETIANUM: il veneziano
viene tenuto distinto dal “lombardo-veneto”, secondo la distinzione delle regioni posta in I X 5 «Romandiola, Lombardia, Marchia Trivisiana cum Venetiis». 184
De vulgari eloquentia I XIV 8-XV 2
[8] Perciò, di fronte a tutti i volgari che compaiono in giudizio in questo capitolo, sentenziamo che né il romagnolo, né il suo opposto, come si è detto, né il veneziano
sono quel volgare illustre di cui andiamo in cerca.
XV. Ora, quel che resta della selva italica cerchiamo di passarlo in rassegna speditamente. [2] Dunque diciamo che forse non giudicano male quanti dichiarano che sono i bolognesi a parlare nell’eloquio XV 1. DE YTALIA SILVA: riprende l’immagine della caccia nella selva impostata in I XI 1, che ritornerà in XVII 1, anche là col sintagma «de ytalia silva». Mantengo prudenzialmente, dato che è di tutti e tre i manoscritti in entrambi i luoghi, sospendendo il giudizio, la lezione «ytalia», proposta da Pellegrini! 1946, p. 8 (Rajna 1896 e Marigo emendano in «ytala») e accettata da Mengaldo 1968. Ma la motivazione di Pellegrini — «è lecito pensare a un aggettivo ytalius (come s'ha latius da Latium), che del resto è già in Virgilio» — non vale: non esiste nessun aggettivo ztalius in Virgilio, né in Uguccione, né in altri vocabolari mediolatini a me noti. PERCONTARI: cfr. contatirz in I XIV 1. XV 2. FORTE NON MALE OPINANTUR: non risulta attestata a questa
data nessuna positiva rivendicazione di un primato linguistico del volgare bolognese. Non è escluso che ne potessero esistere, come non è escluso che ne esistessero di analoghe da parte dei toscani: Dante lo afferma, o lascia intendere, in I XII 1, e le parodie della parlata al-
trui, che il De va/gari porta alla luce, presuppongono un almeno implicito sentimento della propria superiorità linguistica da parte del parodiante. Ma molto meno plausibile è che rivendicassero un analogo primato i romani, come pure Dante afferma in I XI 2; ed è grottesco che gli abitanti di Pietramala pretendessero che la loro parlata fosse quella di Adamo (I VI 2). Dunque sarà prudente assumere anche questa affermazione sul bolognese piuttosto come oggettivazione
di un momento dialettico dell’argomentazione di Dante. QUI BONONIENSES ... LOQUENTES: il capitolo, da qui al $ 6, è dedicato ad assegnare al bolognese la palma di volgare più bello fra tutti i volgari municipali d’Italia, di ciò dando una impegnativa motivazione. Che questo giudizio, insieme alla particolare conoscenza del bolognese esibita in I IX 4 e a molti altri dati, deponga per una composizione del trattato a Bologna, è sostenuto da Marzgo (pp. XXIV-XXVI), mentre Mengaldo osserva che «la presenza di Dante a Bologna tra il 1304 e il 1306 ... luogo abbastanza comune tra gli studiosi ... sarà anche 185
De vulgari eloquentia
cum ab Ymolensibus, Ferrarensibus et Mutinensibus cir-
cunstantibus aliquid proprio vulgari asciscunt, sicut facere quoslibet a finitimis suis conicimus, ut Sordellus de Man-
probabile ma non è provata» (p. 22 nota 14). A me pare necessario evidenziare, anzitutto per la comprensione del testo, come quello sulla maggior bellezza del bolognese non sia un giudizio di gusto estemporaneo, ma il culmine di un’ampia argomentazione costruita mirando precisamente a questo fine; il che, insieme ad altri elementi portanti del testo, mi fa ritenere molto probabile che la composita e unica società letteraria bolognese sia il destinatario privilegiato del trattato: cfr. l’Introduzione, pp. LI-LIV. CUM AB YMOLENSIBUS ... PROPRIO VULGARI ASCISCUNT: la motivazione della particolare bellezza del bolognese è nel felice contemperamento, che sarà meglio esplicitato ai $$ 3 e 5, fra la “mollezza” romagnola e l’“asprezza” lombarda. Non dovrebbe sfuggire che questo non è una sorta di dato di fatto, quasi una constatazione, ovvero la conseguenza logica obbligata che i dati fin qui esposti impongano a Dante. È vero il contrario: tutta l'impostazione dell’indagine sull'Italia “di sinistra”, a partire dal dualismo (che ovviamente non è 21 re) fra il macro-volgare romagnolo e quello “lombardo-veneto”, è stata costruita intorno a Bologna, che si trova esatta-
mente sul confine fra le due macro-aree, per esaltarne la centralità e motivarne l'eccellenza con il contemperamento degli opposti. SICUT ... CONICIMUS: l’idea che le città prendano qualcosa, per osmosi, dalle parlate delle città contermini, idea che ha qui una determinata finalità contingente, è enunciata come principio generale, nonché originale (conzcimus). Essa appare del resto coerente con il principio stabilito in IIX 10: come la separazione delle comunità di parlanti nello spazio produce differenziazione linguistica, così la contiguità fra comunità di parlanti produce avvicinamento e conguaglio. Quoslibet si riferisce appunto ai popoli, non agli individui, all'opposto di quanto afferma Marigo, che fraintende, a mio avviso, l'esempio seguente di Sordello.
UT
SORDELLUS DE MANTUA SUA ... PATRIUM VULGARE DESERUIT: il pas-
so è sempre apparso quanto mai problematico, addirittura disperante. In realtà è solo brachilogico, come tante fulminee terzine dantesche,
ma perfettamente chiaro, a me sembra, una volta che lo si sia capito.
Vanno anzitutto scartate le interpretazioni 2 e 3 riportate da Mengal-
do, e cioè rispettivamente: la 2, quella di Zingarelli 1931, p.574, accol-
ta da Marigo, secondo la quale Sordello avrebbe mostrato «la medesima temperanza [dei parlanti bolognesi] ... quando nel parlare si allontanava dalla sua Mantova tanto diletta ... Parlando qui non solo delle poesie provenzali, ma anche del favellare in generale, deve allu186
De vulgari eloquentia I XV 2
più bello, dato che accolgono nel proprio volgare qualcosa dagli imolesi, dai ferraresi e dai modenesi che li circondano, come supponiamo che facciano tutti prendendo dai propri vicini — e lo dimostra, per la sua Mantova, dere a conversazioni auliche, a discorsi, arringhe, delle quali egli [Dante] doveva sapere, composte in un volgare italiano che non lasciava tra-
pelare il dialetto nativo» (cioè, riformula Mergaldo, Sordello avrebbe «realizzato individualmente ciò che i bolognesi hanno fatto collettivamente, contemperando il mantovano coi volgari vicini, in un linguaggio sovramunicipale»); e la 3, quella di Parodi 1895, p. 122: «non solo poetando (in provenzale) si allontanò dal materno linguaggio, ma anche nel parlar famigliare (il dialetto da lui adoperato non era proprio quello della sua città)» («imbarazzante però - commenta Mergaldo — che a patrium vulgare si debba dare un doppio significato: italiano nel primo caso, mantovano nel secondo»). Queste interpretazioni sono fuorvianti, perché il principio linguistico formulato da Dante è pensato per comunità di parlanti, non per singoli poeti; perché in ogni caso non si potrebbe applicare al mantovano, dato che i volgari contermini sono tutti ugualmente aspri e non potrebbero produrre alcuna mescolanza temperata; e perché non siamo autorizzati a postulate una produzione poetica di Sordello in volgare di s? di cui non c’è traccia — e se mai tale produzione dovesse essere rappresentata, per mera ipotesi, dal Sirventese lombardesco (ed. Contini 1960, I, pp. 501-6), il suo
dettato non sarebbe certamente tale da poter apparire illustre a Dante. Come afferma giustamente Mengaldo (in ED, s.v. Mantova — lingua, p. 813), invece, «è ... necessario ammettere che l’accenno all’eloquen-
za poetica di Sordello non può riferirsi che alla sua produzione provenzale». Ciò dato, però, non è così «arduo giungere a un’interpretazione globalmente accettabile del passo». L'interpretazione giusta, a mio avviso, è sicuramente la numero 1 di Merga/do (risalente a D’Ovidio 1932b [1878], p.316 nota 1), e cioè: «Sordello ha abbandonato totalmente il volgare mantovano (deserzit è più forte del consueto diver tere), irrimediabilmente brutto per l’uniforme asprezza degli elementi ricevuti dai vicini volgari “lombardi”, dandosi tutto al provenzale sia nella produzione poetica che in ogni forma di espressione orale». Le obiezioni a questa interpretazione a me pare che non abbiano ragion d’essere: a) «è difficile ammettere che Sordello si sia espresso in provenzale quomodocunque loguendo». È invece del tutto naturale che non si sia mai espresso in volgare di sè, dato che tutta la sua carriera, dopo i burrascosi inizi presso le corti di Este, Verona e Treviso (i centri di cultura trobadorica della “Marca zoiosa”), dal 1229 al 1265 si è svolta 187
De vulgari eloquentia
tua sua ostendit, Cremone, Brixie atque Verone confini: qui, tantus eloquentie vir existens, non solum in poetan-
do sed quomodocunque loquendo patrium vulgare defuori d’Italia, presso le corti di Spagna, Portogallo, Provenza, e negli ultimissimi anni alla corte di Carlo I d'Angiò; b) «e che Dante, stando
alla polemica del contemporaneo primo libro del Convivio, possa lodarlo per ciò». Neanche questo è vero: in Cv I XI 11-4 Dante non se la prende affatto (benché si ripeta il contrario) con i trovatori italiani in lingua d’oc, bensì con i rimatori mediocri in volgare di sì «che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per iscusarsi dal non dire o dal dire male acusano ed incolpano la materia, cioè lo volgare propio, e commendano l’altrui, lo quale non è loro richesto di fabricare»; c) «d’altra parte verrebbe a mancare la ragione dell’exerzp/ur, e del paragone coi bolognesi». La ragione non viene a mancare affatto, ma per coglierla bisogna rendersi conto di che cosa ha fatto Dante, ossia di qual è lo scopo e la strategia della sua argomentazione, e cioè: 1) egli ha costruito un’abile argomentazione finalizzata a far emergere il bolognese come il volgare più bello in quanto, posto al confine di due macro-aree linguisticamente opposte e complementari, è capace di contemperarle;
2) a questo fine ha enucleato il concetto teorico che ogni comunità linguistica assorbe elementi dalle comunità confinanti; 3) ha quindi affiancato all'esempio di Bologna, positivo perché essa può assimilare dal vicinato elementi linguistici opposti e complementari, l'esempio di Mantova, negativo perché essa può solo assimilare dal vicinato elementi linguistici dello stesso tenore dei propri, aumentando addirittura ed esaltando l’autoctona garrulitas; 4) l’exemplum mantovano, cioè, fa il paio con l’exerzplum bolognese perché rappresenta la riprova e controprova in negativo dello stesso principio linguistico generale; 5) l’impossibilità di poetare in mantovano, a causa della sua asprezza geograficamente non contemperabile, è uguale all’impossibilità di poetare in ferrarese, modenese, reggiano e parmense, per la stessa ragione ($ 4): solo che in queste città nessuno ha poetato, a Mantova è nato Sordello che ha poetato in provenzale; 6) Sordello è la dimostrazione (osterdit) del principio generale per quanto riguarda Mantova (de Mantua sua): il fatto che un uomo di tanta eloquenza abbia totalmente abbandonato il proprio volgare nativo, «non solum in poetando» (s'intende in lingua d’oc, per la qual cosa è rinomatissimo), «sed quomodocunque loquendo» (s'intende perché, espatriato, ha saputo sviluppare anche un’oratoria diplomatica internazionale, in lingua d’oco comunque sempre in lingue diverse dal proprio volgare materno — può darsi che quomodocunque non significhi solo ‘in qualunque occasione’, ma an188
De vulgari eloquentia I XV 2
che confina con Cremona, Brescia e Verona, Sordello: il
quale, pur essendo uomo di grandissima eloquenza, abbandonò del tutto il proprio volgare patrio, non solo nel poetare ma anche nel parlare, in qualunque occasione.
che ‘in qualunque lingua’); bene, tutto ciò costituisce una condanna sferzante della irredimibilità del mantovano. I due exerzp/a, bolognese e mantovano, sono perfettamente opposti anche in questo: Bologna vanta ben quattro poeti illustri citati con testi, Fabruzzo, Ghisilieri, Onesto e Guinizelli (e non sono tutti: $ 6 «et ali poetantes Bononie»). È questo il numero massimo: più dei tre toscani (Cavalcanti, Cino e Dante stesso; o semmai quattro, contando Lapo solo nominato a I XII 4); perfino più dei siciliani (che, apuli inclusi, sono solo tre: Guido delle Colonne, Giacomo da Lentini e Rinaldo d'Aquino, se non contiamo
Cielo d’Alcamo). Il volgare municipale di Bologna, evidentemente, costituisce un terreno fertile perché nascano poeti. All’opposto Mantova, che ha dato i natali a un talento poetico sommo, se lo è visto sfug-
gire completamente, tanto il proprio volgare era respingente. Questa mossa secondaria, per colpire ex passant il mantovano mentre innalza il bolognese, avrà ragioni extralinguistiche contingenti: possiamo ipotizzare che abbia che fare con qualcosa accaduto nei primi drammatici anni dell’esilio, forse durante il soggiorno a Verona, che con Man-
tova aveva una stretta solidarietà politica. Che poi nel VI del Purgatorio Sordello scatti «al nome di Mantova per amore di quella sua patria cittadina» (Carpi 2006, p. 19) è indubbio e altamente tematizzato, tanto da fare di lui l'emblema del senso della patria; ma questo non implica affatto che egli debba aver scritto in mantovano, né in un volgare lombardo sovramunicipale, né comunque in volgare di sì. Sordello esalta patriotticamente il /azir0 di Virgilio: «mostrò ciò che potea la lingua nostra» (Pg VII 17), sulla base dell’idea dantesca, attiva già nel De vul-
gari, della italianità del latino; cfr. la nota a IIX 11 e, più ampiamente, Tavoni 2010b, pp. 59-66. Virgilio infatti, nell'opera del quale il latino ha mostrato tutta la sua potenza, è «gloria di Latin» (Pg VII 16), cioè degli italiani. Né questo implica che, quattro o cinque anni prima, in un testo che ha orizzonte, destinatari e finalità diversi, Dante non possa aver giocato la rinomanza del trovatore Sordello per una pornte polemica contro Mantova. CREMONE, BRIXIE ATQUE VERONE CONFINI: l’apparentamento del volgare mantovano a questi volgari lombardo-veneti, piuttosto che a quelli emiliani fra i quali oggi rientra, concorda con la caratterizzazione del mantovano coevo compiuta da Ghinassi (1965) nello studiare il volgarizzamento scientifico-enciclopedico di Vivaldo Belcalzer: «Dante disegna attorno a Mantova un’area
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De vulgari eloquentia
seruit. [3] Accipiunt enim prefati cives ab Ymolensibus lenitatem atque mollitiem, a Ferrarensibus vero et Mutinensibus aliqualem garrulitatem que proprie Lombardorum est: hanc ex commixtione advenarum Longobardorum terrigenis credimus remansisse. [4] Et hec est causa quare Ferrarensium, Mutinensium vel Regianorum nul-
lum invenimus poetasse: nam proprie garrulitati assuefacti nullo modo possunt ad vulgare aulicum sine quadam linguistica e culturale sostanzialmente coincidente con quella che, secondo i nostri dati, individua il mantovano di Vivaldo, tra i centri lom-
bardi orientali da una parte (“Cremone, Brixie...”) e Verona dall’altra, su un parallelo nettamente distinto da quello dei volgari emiliano-romagnoli, pure citati a paragone nello stesso passo» (Ghinassi 1966, p. 93). Ma questo apparentamento non comporta una valutazione positiva; come invece ivi, in linea con Zingarelli 1931 e Ma-
rigo, conclude Ghinassi: «Sordello ... aveva saputo elegantemente contemperare le diverse qualità dei linguaggi circonvicini, cremonese, bresciano e veronese»; «svolgendo la tesi di una posizione privi-
legiata del volgare bolognese ... [Dante] estende di passaggio un apprezzamento analogo alla Mantova di Sordello» (p. 87); interpretazione ripetuta da Schizzerotto 1985, pp. 71-80. XV 3. ACCIPIUNT ENIM ... ALIQUALEM GARRULITATEM: Bologna
si colloca sull’estremo lembo occidentale della Romagna, il cui confine con la Lombardia è segnato dal fiume Reno, che scorre a ovest
della città poco fuori da Borgo San Felice. Ferrara si trova a nord del ramo più meridionale del delta del Po, dunque in Lombardia (vedi la nota a I X 5). Quindi i bolognesi hanno a est gli imolesi (m20/lities romagnola), a nord e a ovest i ferraresi e imodenesi (garrulitas lombarda). QUE PROPRIE LOMBARDORUM ... CREDIMUS REMANSISSE: la garrulitas lombarda è riportata all'invasione longobarda, come carattere di asprezza germanica, consonante con la connotazione di Pd VI 94 «quando il dente longobardo morse». Verosimilmente, Dante era consapevole che Lombardia e Romandiola erano due territori storicamente complementari, creati dal limite di espansione dell’invasione longobarda, e che la Rorzania-Romandiola si chiamava così a causa della romanità imperiale dell’Esarcato (dopo la riconquista dell’Italia occupata dai goti a cui allude ellitticamente Pd VI 25-7). La contrapposizione Longobardi/Latini è esplicita, in rapporto alla discesa della «sublimis aquila» imperiale di Enrico VII, in Ep V 11 «Pone, sanguis Longobardorum, coadductam barbariem; et si quid 190
De vulgari eloquentia I XV 2-4
[3] In effetti, i cittadini della suddetta Bologna prendono dagli imolesi la lentezza e la mollezza, dai ferraresi e dai mo-
denesi un certo stridore proprio dei lombardi: questo crediamo che sia rimasto ai locali dalla commistione con i sopravvenuti longobardi. [4] E questa è la ragione per cui tra i ferraresi, imodenesi o i reggiani non troviamo nessuno che
abbia poetato: perché, assuefatti come sono al proprio stridore, non possono in alcun modo accostarsi al volgare aulide Troyanorum Latinorumque semine superest». Le due macro-
aree linguistiche della wo/lities romagnola e della asperitas lombarda, a parte questi loro due opposti difetti linguistici (per cui vedi la nota a I XIV 4), che esaltano la centralità di Bologna, hanno origini
storiche di valore opposto: positiva la prima, negativa la seconda. XV 4. FERRARENSIUM, MUTINENSIUM VEL REGIANORUM:
queste
tre genti coincidono con il dominio degli Este, da quando Modena nel 1288 e Reggio nel 1289 si sono consegnate alla signoria di Obizzo II. L'intento politico di Dante — che per individuare esattamente tale dominio nomina anche i reggiani, pur non confinanti coi bolognesi —- è indubbio: la Pars Marchexana, il partito filo-estense di Bologna, cioè i geremei guelfi intransigenti, assumendo che Dante si trovi a Bologna quando compone il De vu/gari, costituisce per lui il più grande pericolo (vedi l’Introduzione, p. LIV); e Azzo VIII d’Este è un obiettivo polemico in primo piano nel trattato: cfr. I XII 5, II VI 4; d’altra parte, l’incombente minaccia estense è precisamente ciò che ha portato alla riammissione dei lambertazzi a Bologna e tiene in piedi il regime bianco che dà ospitalità a un gran numero di fuorusciti fiorentini.
NULLUM INVENIMUS POETASSE.... ACERBITATE VENIRE: Marigo
e Mengaldo citano un rimatore ferrarese e uno reggiano che Dante omette di ricordare: Reolfino da Ferrara, corrispondente e ammirato-
re di Aldobrandino dei Mezzabati (vedi la nota a I XIV 7), e Gherardo
da Reggio, protagonista di uno scambio di sonetti con Cino (Cor sua saetta d'or, missivo di Gherardo, e Arzor, che viene armato, responsivo
di Cino), molto significativi per le loro implicazioni di poetica, su cui De Robertis 1951, pp. 283-6. La ragione per cui Dante li esclude non è la loro qualità linguistica, anzi, essi si possono addirittura considerare una «appendice transappenninica dello Stilnovo» (Merga/do). E quindi ben difficile vedere perché si avvicinassero di più al volgare illustre i due poeti faentini di XIV 3. La ragione del diverso trattamento sarà piuttosto la disposizione politica di Dante, favorevole ai primi e contraria ai secondi. Da notare che compare qui per la prima volta,
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De vulgari eloquentia
acerbitate venire. Quod multo magis de Parmensibus est putandum, qui r0rt0 pro “multo” dicunt. [5] Si ergo Bononienses utrinque accipiunt, ut dictum est, rationabile videtur esse quod eorum locutio per commixtionem oppositorum ut dictum est ad laudabilem suavitatem remaneat temperata: quod procul dubio nostro iudicio sic esse censemus. [6] Itaque si preponentes eos in vulgari sermone sola municipalia Latinorum vulgaria comparando considerant, allubescentes concordamus cum illis; si vero simpliciter vulgare bononiense preferendum existimant, dissentientes discordamus ab eis. Non
etenim est quod aulicum et illustre vocamus: quoniam, e una seconda volta al $ 6, a qualificare il volgare illustre, l'aggettivo aulicum. QUOD MULTO MAGIS ... DICUNT: in realtà il tipo monto, con LT > 12, è, oltre che parmigiano (rz0nbén ‘molto bene’, monbinòn
‘molto benone’), anche reggiano, modenese e bolognese (dirzondi ‘di molto’), e anche genovese: vedi le forme riportate da Marigo e Mengaldo; e cfr. PV. Mengaldo in ED, s.v. Parma — lingua, p.311. Quindi la caratteristica è generica quanto la z dei genovesi (I XM 6). Ai primi del Trecento Parma era retta dalla signoria guelfa di Ghiberto da Correggio. In Ep VI 19 Dante ricorda il clamoroso successo di Parma guelfa contro Federico II a Vittoria, nel 1248, scontato con la sconfitta del 1250 ad opera dei cremonesi, in conseguenza della quale i parmensi «sunt de dolore dolorem memorabiliter consecuti». XV 5. SI ERGO BONONIENSES
... REMANEAT TEMPERATA: «l’af-
fermazione si innesta, più che sulla teoria aristotelica del medium,
sulla nozione matematico-musicale di stampo boeziano dell’armonia come unità dei contrari [De institutione aritbmetica Il XXXI 4 «non sine causa dictum est omnia quae ex contrariis consisterent armonia quadam coniungi atque componi. Est enim armonia plu-
rimorum adunatio et dissentientium consensio»], che tornerà nelle pagine sullo stile illustre» (Merga/do); particolarmente II VII 7 «Quomodo autem pexis yrsuta huiusmodi sint armonizanda per metra» (essendo peraltro la suavitas propria dei vocaboli pexa, i quali, «dolata quasi, loquentem cum quadam suavitate relinquunt», $ 5) e II XIII 13 «lenium asperorumque rithimorum mixtura ipsa tragedia nitescit». Si noti anche che soave è la prima età dell’uomo, temperata la seconda: Cv II 16 «quella fervida e passionata, questa temperata e virile»; Le dolci rime 125-9 «Ubidente, soave e vergo192
De vulgari eloquentia I XV 4-6
co senza una certa crudezza. Il che molto a maggior ragione è da ritenere dei parmensi, che dicono monto per “molto”.
[5] Se dunque i bolognesi prendono da entrambe le parti, come si è detto, sembra conforme a ragione che il
loro parlare, per la mescolanza di opposti di cui si è detto, risulti temperato in una lodevole soavità: e senza dubbio, a nostro giudizio, riteniamo che sia così. [6] Quin-
di, se quelli che li considerano primi nel parlar volgare prendono a confronto solo i volgari municipali d’Italia, volentieri concordiamo con loro; se invece ritengono che
il volgare bolognese sia da preferire in assoluto, allora discordiamo e dissentiamo da loro. Non è infatti il volgare che chiamiamo aulico e illustre: perché, se lo fosse, il gnosa / è nella prima etate ... / in giovinezza, temperata e forte» e relativo commento in Cv IV. Dal che si può forse inferite che la parlata bolognese, «ad laudabilem suavitater ... temperata», non è connotata come equidistante dai due estremi, ma più vicina alla mollities romagnola che alla garrulitas ovvero asperitas lombarda: come sembra confermato anche da un certo maggior peso di «lenitatem atque mollitiem» rispetto ad «aligualem garrulitatem»; e come sembra giusto, visto che la prima permette, la seconda impedisce il sorgere di poeti. L'equilibrio, non proprio neutrale, del bolognese fra l’influsso romagnolo e quello lombardo sembra una perfetta metafora dell’equilibrio politico e civile della Bologna degli anni 1304-5. XV 6. SI PREPONENTES.... DISSENTIENTES DISCORDAMUS AB EIS:
continua l’oggettivazione, già notata al $ 2, di questo momento intermedio dell’argomentazione. Dante “esternalizza” il giudizio di eccellenza del bolognese (quando probabilmente non è altro che la sua originale argomentazione a fondarlo), “concorda” con chi lo sostiene, e riserva a sé il giudizio ulteriore, che lo limita: il bolognese è eccellente fra i volgari municipali, ma l’ultima parola spetta come sempre ai doctores illustres, i soli capaci, divertendo dal proprio volgare municipale, sia pure il migliore, di attingere il livello del volgare illustre. QUOD AULICUM ET ILLUSTRE VOCAMUS: il volgare ricercato era stato chiamato finora solo #//ustre (I XI 1, XII 1, XIV 8); qui (già al $ 4) si specifica anche come aulicum: è solo a Bologna che il volgare, “fabbricato” dal drappello di poeti guidato dal massimo Guido, acquista questo nome, riconnettendosi idealmente a quello siciliano 193
De vulgari eloquentia
si fuisset, maximus Guido Guinizelli, Guido Ghisilerius, Fabrutius et Honestus et alii poetantes Bononie nunguam
a proprio divertissent: qui doctores fuerunt illustres et vulgarium discretione repleti. Maximus Guido: Madonna, ’1 fino amore ch’io vi porto;
che «in tantorum coronatorum aula prodibat» (XII 4). SI FUISSET .«+ VULGARIUM DISCRETIONE REPLETI: per divertissent vedi le note al XII 9, XIII 5, XIV 3. La discretio, la capacità di discernimento
nell’uso del volgare, è posta come scopo educativo del trattato fin dalle sue primissime parole: «volentes discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambulant per plateas»; e ricorre poi frequentemente nel libro II (IV 5, 6, 10; VI 3, 4; VII 2, 7; XI 9; XIV
2) come capacità di giudizio rispetto a scelte linguistiche, stilistiche, metriche. I «poetantes Bononie» sono gli unici accreditati di possedere, e in massimo grado (repleti), questa virtù; il che li pone appena un gradino sotto gli stilnovisti toscani che «vulgaris excellentiam cognovisse sentimus» (I XIII 4). Quanto a «vulgarium discretione», che discretio regga il genitivo è provato da «huius discretionem» (II IV 6) e «discretionem vocabulorum» (II VII 2). Vu/gariumz potrebbe significare ‘dei volgari’ o ‘delle cose volgari’ (la seconda è l’interpretazione di Trissino 1529: «intelligenzia ne le cose volgari»). Accolgo la prima interpretazione, sulla scia di Marigo e Mengaldo (ma ovviamente vul/garium è neutro, non maschile), perché un uso dell’ag-
gettivo vw/garis al neutro plurale nel senso generico di ‘cose volgari’ non esiste nel trattato, mentre è frequente l’uso del sostantivo vw/gare al plurale, anche al genitivo: I XI 2 «ytalorum vulgarium omnium», I XVII 1 «universus municipalium grex vulgarium», II Il 5 «optimum aliorum vulgarium». MAXIMUS GUIDO GUINIZELLI: Guinizelli è un riferimento fondamentale per Dante sull’intero arco della sua storia di poeta: dalla Vita Nova, in cui la canzone A/ cor gentil viene assunta a fondamento della svolta poetica della lode (con riprese esplicite, al paragrafo 10, nella canzone che inaugura il nuovo stile, Dorne ch’avete intelletto d'amore, e al paragrafo 11 il riconoscimento dell’autorità di Guinizelli per la cruciale identità di amore e nobiltà d’animo); all'Inferno, dove la stessa canzone guinizelliana fornisce il presupposto della dichiarazione di Francesca «Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende» (V 100); fino al Purgatorio dove Guinizelli, distaccato dai
precedenti cortesi, siciliani e municipali ai quali pure è collegato, viene isolato come «padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’ amore usar dolci e leggiadre» (XXVI 97-9), cioè in pratica 194
De vulgari eloquentia I XV 6
grandissimo Guido Guinizelli, Guido Ghisilieri, Fabruz-
zo e Onesto e altri che hanno poetato a Bologna non si sarebbero mai allontanati dal proprio: e questi maestri furono illustri e pieni di discernimento in fatto di volgari. Il grandissimo Guido: Madonna, ’l fino amore ch'io vi porto;
come antesignano del gruppo stilnovistico. Nel presente capitolo del De vulgari, però, è pertinente il suo ruolo di caposcuola dei «poetantes Bononie», con le specifiche biografiche dell’essere più anziano degli altri tre (nato negli anni Trenta, secondo A. Antonelli in DBI, s.v. Lambertazzi, Fabruzzo, o addirittura prima del 1218 secondo la retrodatazione sostenuta da Rossi! 2002a), formato in diritto nello
studio e giudice, ghibellino e in quanto tale esiliato nel 1274, morto esule a Monselice già nel 1276. MADONNA... VIPORTO: il ms. B ha una lezione molto corrotta («fino lamor ano / ui pereito») mentre G e T saltano: segno «delle cattive condizioni di questa parte dell’autografo» secondo Marigo; ma veramente, poiché G e T hanno «Madonna lo fermo core», sembra piuttosto trattarsi di lacuna per omeoteleuto creata dal loro antigrafo, indipendentemente dalle condizioni
dell’autografo o dell’archetipo. Comunque, mantengo la forma messa a testo da Mengaldo 1968 (Marzgo ha «Madonna, lo fino amor ch’a
vui porto»), avvertendo però che è praticamente convenzionale. I tre canzonieri antichi (cfr. le note a I XII 2 e 8) hanno: V «Madonna, il fino amore ch’io vi portto»; L «Madonna, il fine amor ched eo vo porto»; P «Madonna, lo fino amore k’eo vi porto». In ogni caso, sem-
bra abbastanza sicuro che Dante intendesse indicare questa canzone, e certo che l’irzcipit prescelto contenesse firo amzor(e) (fra le rime dubbie di Guinizelli esiste anche Dorza, lo fino amore): cioè il «termine tecnico occitanico per l’amore perfetto» (Contini 1960, II, p. 453 nota 1); la «locuzione tecnica e cristallizzata, di lunga e vasta tradizione, indicante l’amore spiritualmente perfetto, ma ancora inteso
come espressione di costume cortese e cavalleresco» (Marti 1969, p. 45 nota 1). Nota giustamente Marzgo che in questa canzone «l’ispirazione è ancora della vecchia maniera: è in gran parte un tessuto di
sottigliezze intorno all’“amor fino”, che dà “gioia ed allegranza” ... siamo ben lontani ancora dalla spirituale concezione dell’amore che si avrà nella canzone A/ cor gentil ... tutta una stanza sviluppa la trita e convenzionale similitudine provenzale della calamita»; inoltre il tessuto è provenzaleggiante e sicilianeggiante, con echi e bisticci guittoniani, ecc. Ma ritengo che la scelta di Dante sia precisamente vo195
De vulgari eloquentia
Guido Ghisilerius: Donna, lo fermo core;
Fabrutius: Lo meo lontano gire; Honestus: luta: in questo capitolo in cui definisce la scuola bolognese, con la quale è per lui vitale interagire, Dante non ha nessun interesse a porre un Guinizelli padre o antesignano dello Stilnovo (A/ cor genti! è citata due volte nel trattato, ma mai per la sua carica poetico-ideologica: in I IX 3 semplicemente perché contiene la parola 27207; in Il V 4 perché comincia con un endecasillabo); ha interesse piuttosto a porre un Guinizelli caposcuola cittadino in continuità e contiguità con i siciliani e iprovenzali. Ritengo voluta la scelta dell’incipit con fino amore, sintagma quanto mai topico che inanella le citazioni del Re di Navarra, De fin amor si vient sen et bonté (I IX 3); di Rinaldo
d'Aquino, Per fino amore vo sì letamente (I XII 8); del massimo Guido appunto; e poi di nuovo le stesse del Re di Navarra e di Rinaldo d’Aquino (II V 4). GUIDO GHISILERIUS: non ci è pervenuto nulla e non si sa nulla di questo poeta, neanche se fosse vivo o morto quando Dante scriveva il capitolo. Non sarà irrilevante, riguardo alla selezione dei quattro nomi rappresentativi della scuola bolognese, che i Ghisilieri fossero guelfi, e che la madre di Guido Guinizelli fosse una Ghisilieri, Guglielmina di Ugolino, che nel 1272 lasciò la casa maritale per tornare nel palazzo paterno (Zaccagnini 1933, pp. 8-9), evidente riflesso familiare delle lacerazioni politiche municipali. Al ghibellino Guinizelli, dunque, Dante affianca un guelfo che era al
tempo stesso un suo congiunto (il che resta vero, in senso lato, anche se la parentela è invece quella ricostruita da Antonelli? 2004). DONNA, LO FERMO CORE: componimento perduto. FABRUTIUS: Fabruzzo de’ Lambertazzi, nipote di Fabbro (Pg XIV 100 «Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?»), che alla metà del secolo era il capo della più forte famiglia ghibellina della città, tanto da dare il nome alla fazione: la fazione lambertazza, contrapposta alla fazione geremea guelfa. Secondo l’identificazione tradizionale, Fabruzzo, nato verso il 1240, esercitò la professione di cambiatore fra il 1265 e il
1273, finché nel 1274, «capitanando la sua fazione» (Zaccagnini 1933, pp. 34-7), fu costretto a un temporaneo esilio, proprio come Guinizelli; e di nuovo nel 1279, a Forlì, Faenza e Perugia, finché nel 1298 poté rientrare in Bologna nel quadro della generale pacificazione. Risulta morto in un documento del 1305. Non è quindi escluso che fosse vivo nel momento in cui Dante scriveva questo capitolo. Di lui ci 196
De vulgari eloquentia I XV 6
Guido Ghisilieri: Donna, lo fermo core;
Fabruzzo: Lo meo lontano gire;
Onesto: resta solo il sonetto Orzo ro prixe anchor sì sazamente (ed. Zaccagnini 1933, pp. 141-2), certamente non aulico. Ma A. Antonelli in DBI, s.v. Lambertazzi, Fabruzzo, identifica il rimatore con un Fabruzzo di
Guiduccio Lambertazzi già morto nel gennaio 1273. LO MEO LONTANO GIRE: componimento perduto. HONESTUS: Onesto degli Onesti, «nato fra il 1233 e il ’42, è ancor vivo il 24 settembre 1301, già morto il 17 aprile 1303» (Contini 1960, II, p. 655), ed è anche lui cambiatore. È, allo stato della documentazione pervenutaci, il poeta bolognese di gran lunga più importante dopo e accanto a Guinizelli (Zaccagnini 1933, pp. 23-31 e 104-28). Dal punto di vista di Dante che scrive il De vu/gari, è decisivo il suo prolungato, intenso rapporto con Cino: i dieci sonetti di materia amorosa che i due si scambiano fanno di Cino il primo corrispondente di Onesto e di Onesto il primo corrispondente di Cino alla pari con Dante. Questo rapporto, che si sviluppa nell’ultimo decennio del Duecento, mentre Cino studia e soggiorna a Bologna, testimonia di un Onesto, anziano e affermato rimatore, refrattario e ironico verso le novità dello Stilnovo (“Mente” ed “umile”, soprattutto 6 «lo vostro andar filosofando»), e chiama in causa anche Dante (Stete voi, messer Cin 14 «né ciò mai vi mostrò Guido [Cavalcanti] né Dante»); e testimonia di un Cino, stu-
dente universitario più giovane di almeno trent'anni, che risponde con un no? collettivo criticando le metafore topiche dei siciliani (Arzor che vien 12-3 «e senza essempro di fera o di nave, / parliam sovente») e soprattutto invitando a una lettura dei classici (Se za: leggesti versi de l’Ovidi). Questo invito appare diretto antecedente di quello del De vulgari, solidalmente con la «scioltezza e fluidità della sintassi» su cui insiste De Robertis 1951, pp. 278-9, e sembra proprio sfociare in «Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam [la supprema constructio) regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum», ecc. (II VI 7: e
vedi la nota). In questo rapporto del vecchio maestro con Cino, che coinvolgeva nominativamente anche lui Dante, e che era ben noto alla società letteraria bolognese, Dante, che si presenta ostentatamen-
te come l’amico di Cino, vede un varco per il proprio inserimento in quella società.
É documentato, inoltre, che Onesto deve aver dimo-
rato a Forlì (Zaccagnini 1933, p. 25); e a lui sono legati entrambi gli 197
De vulgari eloquentia Più non attendo il tuo soccorso, amore.
Que quidem verba prorsus a mediastinis Bononie sunt diversa. [7] Cumque de residuis in extremis Ytalie civitatibus neminem dubitare pendamus — et si quis dubitat, illum
nulla nostra solutione dignamur —, parum restat in nostra discussione dicendum. Quare, cribellum cupientes deponere, ut residentiam cito visamus, dicimus Tridentum atque Taurinum nec non Alexandriam civitates metis Ytalie in tantum sedere propinquas quod puras nequeunt habere loquelas; ita quod, si etiam quod turpissimum habent vulgare haberent pulcerrimum, propter aliorum commixoscuri poeti faentini di XIV 3. Con Ugolino Buzzola scambiò i sonetti, amorosi ma realistico-espressivi, Poî non mi punge più d’Amor l’ortica (Onesto) — Mtrai lo specchio ch'a verar notrica (Ugolino). Ma con Tommaso da Faenza, e con lo stesso Cino, Onesto intrattenne una tenzone a tre (vedi la nota a I XIV 3), che dovette essere presentissima a Dante: una tenzone politica, in quanto tale una rarità (Giunta 1998, pp. 269-70 e nota 25), datata 1301-2, e che verte nientemeno
sull’azione di Bonifacio VIII e Carlo di Valois per piegare le città toscane, abbattere i guelfi bianchi e installare al potere i Neri, così ren-
dendosi responsabili di aver fatto diventare ghibellini i guelfi. Una tenzone in cui Bonifacio perversamente scambia il re di Francia per l’imperatore e viene accusato né più né meno che di simonia. Dante può esserne stato influenzato per l’immagine del cavallo come simbolo del potere politico (sonetto di Tommaso Folle cavalcador d’un bon cavallo) in Cv IV IX 10 e Pg VI 88-9; e per l'impostazione del XIX dell'Inferno, a partire da «O Simon mago, o miseri seguaci»: Onesto conclude infatti la tenzone coi versi «e quella chiave che ’1 peccato amorza, / sie tosto restituita, und’io m’apago, / de Simon mago a Petro, a cui fa forza» (Troppo falli, ser Cino 12-4). La tenzone svela che Tommaso è guelfo bianco, che Onesto (che già si dimostrava guelfo per l’episodio della rissa con i Carbonesi del 1296: Cavazza 1934, p. 102) è pure guelfo bianco, entrambi antipapali; e che Cino invece (Ch'in onne pena) difende il papa e Carlo di Valois, da guelfo nero che è (cfr. Zaccagnini 1923): vedi la risposta di Onesto, «Troppo falli, ser Cino, si eo non fallo, / ché scusi quel che degno d’essere merso / seràne, perché ’1 populo ha converso / de guelfo in ghibellino...». L'intreccio di motivi non solo poetici che legavano 198
De vulgari eloquentia I XV 6-7 Più non attendo il tuo soccorso, amore.
Parole ben diverse da quelle che si sentono nel centro di Bologna. [7] E poiché sulle città rimanenti, situate nelle lande estreme dell’Italia, pensiamo che nessuno abbia dubbi e se qual-
cuno ne ha, non lo degniamo di nessuna spiegazione —, poco resta da dire per finire il nostro esame. Per cui, volendo deporre il setaccio, per dare uno sguardo veloce a quanto vi è rimasto diciamo che le città di Trento e Torino nonché Alessandria sono situate tanto vicine ai confini d'Italia che non possono avere parlate pure: tanto che, se anche avessero un volgare bellissimo, invece di quello osceno che hanno, doDante a Cino e a Onesto — e non a Cino stilnovista contro Onesto,
bensì al secondo non meno che al primo — era dunque molto vivo. L'intensa attenzione prestata da Dante ai sonetti di Onesto a Cino è
confermata dai plurimi e significativi echi testuali che da essi si propagano a molti canti dell’Ixferzo, messi in luce da Brugnolo 1993. Riepilogando, i due poeti bolognesi fondamentali, Guinizelli e Onesto, sono il primo ghibellino, il secondo guelfo bianco; i due di complemento, Guido Ghisilieri e Fabruzzo de’ Lambertazzi, sono il pri-
mo guelfo, il secondo ghibellino. I due faentini di cui è diventato evidente il collegamento col bolognese Onesto, cioè Tommaso da Faenza e Ugolino Buzzola, sono il primo guelfo bianco, il secondo un guelfo che aiuta Maghinardo Pagani di Susinana a fare di Faenza una signoria ghibellina. PIÙ NON ATTENDO IL TUO SOCCORSO, AMORE: componimento perduto.
A MEDIASTINIS BONONIE: possono essere identificati con i «Bononienses Strate Maioris», contrap-
posti ai «Bononienses Burgi Sancti Felicis» (cfr. la nota a I IX 4). Per l'aggettivo rzediastinus (anche in I XI 6) cfr. Uguccione, M 66 13 «r2ediastinus -a -um, idest in medio civitatis existens et tunc componitur a medius et astin, quod est civitas; unde Oratius in Epistulis (I 14,
14) “tu mediastinus tacita prece rura petebas”». XV 7. CUMQUE DE RESIDUIS ... INVENIRI NON POTEST: «impossi-
bile dire se il giudizio sulla mescolanza con elementi rispettivamente francesi e tedeschi derivi da qualche conoscenza o sia semplicemente induttivo» (Merga/do). La conoscenza che Dante aveva del Trentino e quella che aveva del Piemonte non erano peraltro pari. Niente fa supporre che egli abbia visitato la parte occidentale della pianura padana: «le allusioni ad Alessandria, al Monferrato e al Canavese [non-
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De vulgari eloquentia
tionem esse vere latium negaremus. Quare, si latium il-
lustre venamur, quod venamur in illis inveniri non potest.
XVI. Postquam venati saltus et pascua sumus Ytalie, nec pantheram quam sequimur adinvenimus, ut ipsam repe-
ché a Torino] sono interamente politiche» (Bassermann 1902 [1898], p. 388; e cfr. A. Cecilia in ED, s.v. Alessandria, pp. 115-6): cioè riguardano il ruolo di Alessandria nella lotta contro Federico Barbarossa e contro il Marchese di Monferrato (Pg VII 135-6 e cfr. qui la nota a I XII 5). Alessandria non è poi tanto vicina ai confini fisici dell’Italia, e non è toccata da parlate franco-provenzali, ma il volgare piemontese stesso, se Dante ne avesse avuto nozione, avrebbe potuto apparirgli non-italiano. Niente peraltro lascia credere che egli possa essere entrato in contatto con testi del tipo dei Serzzoni subalpini. Poiché Torino e Alessandria, comunque, sono al di qua dei confini dell’Italia, e poiché Dante, nell’elenco delle regioni italiane di I X 5, che deve intender-
si esaustivo, non nomina nessuna regione a ovest della Lombardia, si deve intendere che questa include il Piemonte (diversamente da quanto affermato da P.V. Mengaldo in ED, s.v. Torino, p. 655). Ben diversa la presumibile conoscenza del Trentino, già fin dal primo soggiorno veronese anteriore alla composizione del De vu/gari, al quale peraltro dovrebbero risalire, se non libresche, le nozioni geografiche di cui a If XII 4-9 e XX 61-9 (da quest’ultima si desume che Dante conosceva l’esistenza del vescovato di Trento): cfr. ED, s.vv. Adige, trentino, Trento.
XVI 1. POSTQUAM VENATI ... SUMUS YTALIE: riprende la metafora della caccia con cui aveva concluso il capitolo precedente: metafora valida per l’indagine dialettica in generale (verari veritatere in Mn II va 1 e III M 16), che nel De vu/gari era stata spesa già per l’idioma adamitico (vedi la nota a I VI 1), e nel libro II lo sarà per gli argomenti (Il Il 6) e la sintassi (II VI 3) degni del volgare illustre, ma soprattutto connota la caccia empirica al volgare illustre (I XI 1, XIV 1, XV 7), che qui viene dichiarata conclusa. NEC PANTHERAM ... ADINVENIMUS: la parola panthera compare solo qui: cioè solo nel momento in cui la battuta di caccia per l’Italia è finita, senza successo, Dante ci dice che la preda che inseguivamo era una pantera. La ragione è nell’attributo «redolentem ubique et necubi apparentem», che solo a questo punto della caccia, cioè al suo termine, Dante è giunto a focalizzare. Infatti questa caratteristica, finalmente scoperta, del volgare illustre lo fa equiparare alla pantera, grazie alla caratteristica saliente attribuita dai bestiari a questo animale, e cioè il soave profumo del suo alito. 200
De vulgari eloquentia I XV 7-XVI 1
vremmo comunque negare, per la commistione con volgari stranieri, che sia veramente italiano. Perciò, se andiamo
in cerca del volgare illustre italiano, ciò che cerchiamo non si può trovare in quelle città.
XVI. Dopo aver battuto boschi e pascoli d’Italia, e non aver trovato la pantera a cui diamo la caccia, per poterCosì Brunetto Latini, TresorI CLXXXXIII 1 «Panthere ... est amés de toz animaus fors que sou dragon. Et sa nature est que tout mainte-
nant qu’ele a sa viande prise, se rentre en son espelonce, et se dort .iti. jours; lors se lieve et oevre sa bouche, et flaire s’alaine si dous et si souef ke totes bestes ki sentent l’odour s’en vont devant lui, fors sole-
ment le dragon, ki s’afiche es pertuis desous terre, pour le puour k'il en a, k'îl set bien que a morir le covient». Era certamente presente a Dante l’alito della pantera come termine di paragone elativo della donna nella lirica amorosa, per esempio in Guido delle Colonne, Giososa-
mente canto 16-20 «e la bocca aulitosa / più rende aulente aulore / che non fa d’una fera / ch’à nome di pantera, / che ’n India nasce ed usa» e Guinizelli, Lo fin pregi 46-7 «ché di più c’olor s’ole / su’ viso ch'è pantera». Il tratto dell’attrazione irresistibile è sviluppato soprattutto da Chiaro Davanzati, Lungiamente portai 7-10 «ché la valenza di voi, donna altera, / fueme pantera e presemi d’amore / come d’aulore / [che] d’essa [ven] si prende ogn’altra fera» e Chiunque altriii blasma 89-90, Arzore, io non mi doglio 13-5, Sì come la pantera per alore 1-2. È invece del tutto «improbabile che il simbolo dantesco sottintenda, come vuole lo Spitzer (in “Italica”, XXXII [1955], p. 92), l'etimologia
isidoriana [Etyz. XII Il 8], ripresa anche da Uguccione, che collega panther a pàn, nel senso che il volgare illustre “divora” tutti i volgari municipali come la pantera gli altri animali» (Merga/do), anche perché Isidoro dice del parther «quod omnium animalium sit amicus», e perché (vedi la nota a I XVIII 1) il volgare illustre non “divora” affatto i volgari inferiori. «Piuttosto vi sarà implicito il tema dell’attrazione [vedi infatti sopra le attestazioni liriche] che il volgare illustre esercita sugli altri volgari, esplicitato nella definizione di vulgare cardinale di I Xv 1» (Merzgaldo). È possibile (tanto più dato che al $ 5 Dio redolet) che agisca nel simbolo dantesco l’identificazione con Cristo, mentre il drago è il demonio (così per esempio nel Bestiario moralizzato di Gubbio, in Contini 1960, II, p. 317). Brugnolo 1995, p. 268, suggerisce che possa aver influito «il modello federiciano ... Corte mobile, plurilingue e itinerante è infatti la curia di Federico II, che 201
De vulgari éloquentia
rire possimus rationabilius investigemus de illa ut, solerti studio, redolentem ubique et necubi apparentem nostris penitus irretiamus tenticulis. [2] Resumentes igitur venabula nostra, dicimus quod
in omni genere rerum unum esse oportet quo generis il-
lius omnia comparentur et ponderentur, et a quo omnium
aliorum mensuram accipiamus: sicut in numero cuncta
mensurantur uno, et plura vel pauciora dicuntur secunnon ha un centro fisso ... e spesso si trova ... fuori del Regno».
RA-
TIONABILIUS INVESTIGEMUS DE ILLA: alla caccia empirica conclusasi senza successo Dante contrappone una nuova indagine, non empirica
ma “più fondata sulla ragione”. Con terminologia moderna non fuorviante potremmo dire una ricerca non induttiva ma ipotetico-deduttiva. Per il valore di rationabilis -iter -ius, distinto da rationalis, vedi la
nota a I Iv 3. In Mx IMI XII 1 Dante sviluppa un’argomentazione molto simile a questa (vedi la nota al $ 2), introdotta da «Raziore vero sic arguunt», riferito ai suoi avversari: cioè ‘con la ragione”, s’intende fi-
losofica, ovvero con argomentazione formale aristotelica. Si noti «de illa»: per poter trovare e catturare la pantera è necessario indagare sv di essa, circa la sua natura. XVI 2. INOMNI GENERE... MENSURAM ACCIPIAMUS: la via rationa-
bilis al volgare illustre consiste in una reductio ad unum — tipico procedimento scolastico-aristotelico — all’interno del gerere dei volgari. Il principio è lo stesso richiamato in Mw III XII 1 «Ratione vero sic arguunt. Summunt etenim sibi principium de decimo Prime phylosophie dicentes: omnia que sunt unius generis reducuntur ad unum, quod est mensura omnium que sub illo genere sunt». Il passo rimanda ad Aristotele, Metaphbysica 1052b «In unoquoque genere est dare aliquod primum et minimum quod fit metrum et mensura omnium illorum que sunt in illo genere». Da notare che l'argomento era stato addotto dai sostenitori della subordinazione dell’imperatore al papa: Mr HI XI 2 «Et cum summus Antistes [il papa] et Imperator sint homines, si conclusio illa est vera, oportet quod reducantur ad unum hominem. Et cum Papa non sit reducendus ad alium, relinquitur quod Imperator cum omnibus aliis sit reducendus ad ipsum, tanquam ad mensuram et regulam: propter quod sequitur etiam idem quod volunt». Dante neutralizza l'argomento sostenendo che «alia est mensura ad quam habent reduci prout sunt homines, et alia prout sunt et Papa et Imperator» ($ 7). Come semplici uomini, infatti, appartengono allo stesso genere, invece in quanto papa e imperatore hanno in co-
mune il carattere della superpositio, ma il primo «sub ambitu paterni202
De vulgari eloquentia I XVI 1-2
la individuare indaghiamo su di essa con procedimento più fondato sulla ragione, in modo da prenderla, con studio ingegnoso, stretta nella nostra rete, lei che sparge il suo profumo dovunque e non si mostra in nessun luogo. [2] Riprendendo dunque i nostri arnesi da caccia, diciamo che in ogni genere di cose deve essercene una ri-
spetto alla quale tutte quelle che appartengono allo stesso genere si confrontano e soppesano, e dalla quale si ricava la misura di tutte le altre: così come i numeri si misurano tutti con l’uno, e si dicono più grandi o più piccoli tatis», il secondo «sub ambitu dominationis» ($ 6): a causa di questa
differenza di ambiti non possono quindi essere ricondotti l’uno all’altro, perché non appartengono allo stesso genere, e devono invece essere ricondotti entrambi a un terzo che èsuperpositus sotto entrambi gli ambiti, che èDio. È fondamentale rendersi conto che il principio della reductio ad unum «in omni genere rerum» — che risolve “razionalmente?” la ricerca del volgare illustre — è in primo piano per Dante in questi anni per questa precisa ragione politica. La Morarchia è ov-
viamente un testo più tardo, ma esattamente il problema della reductio ad unum dei due poteri è al centro così del De ecclesiastica potestate di Egidio Romano come della bolla Una sanctam di Bonifacio VIII, del 1302. In questo snodo cruciale dell’argomentazione, quindi, così come abbiamo visto darsi nel primario concetto di /ocutzo (cfr. la nota al 112), si coglie la dipendenza del De vu/gari dalla problematica filosofico-politica che domina la mente di Dante in questa fase. Segnatamente, lo stesso passo della Metafisica di Aristotele, con il commento di san Tommaso, è la prima fonte così del presente capitolo del De vulgari come di Monarchia III XI. SICUTIN NUMERO... VEL EI PROPINQUANT: l’esempio dell’uno fra i numeri è il primo nel passo appena individuato di Aristotele, Metaphysica 1052b «maxime vero in eo quod est metrum esse primum uniuscuiusque generis et maxime proprie quantitatis; hinc enim ad alia uenit. Metrum etenim est quo quantitas cognoscitur; cognoscitur uero aut uno aut numero quantitas in quantum quantitas, numerus autem omnis uno. Quare omnis quantitas cognoscitur in quantum quantitas uno, et quo primo cognoscitur, hoc ipsum unum; quapropter unum numeri principium secundum quod
numerus». E cfr. il relativo commento di san Tommaso, Sententia libri Metaphysicae X, |. 2, n. 2 «Dicit ergo primo, quod cum ratio unius sit indivisibile esse; id autem quod est aliquo modo indivisibile in quolibet genere sit mensura; maxime dicetur in hoc quod est esse primam 203
De vulgari eloquentia
dum quod distant ab uno vel ei propinquant, et sicut in coloribus omnes albo mensurantur; nam visibiles magis et minus dicuntur secundum quod accedunt vel recedunt ab albo. Et quemadmodum de hiis dicimus que quantitatem et qualitatem ostendunt, de predicamentorum quolibet, etiam de substantia, posse dici putamus: scilicet ut unum-
quodque mensurabile sit, secundum quod in genere est, mensuram cuiuslibet generis. Et hoc maxime proprie dicitur in quantitate, et inde derivatur ad alia genera ratio mensurae. Mensura autem
nihil aliud est quam id quo quantitas rei cognoscitur». ET SICUTIN COLORIBUS ... VEL RECEDUNT AB ALBO: l’esempio del bianco fra i colori viene di seguito nello stesso passo di Aristotele, Metaphysica 1053b «et in coloribus est aliquid quod color unus, puta albus, deinde alii ex
hoc et nigro videntur geniti, nigrum vero privatio albi est, ut et lucis tenebra (hec enim est privatio lucis)». E cfr. il relativo commento di san Tommaso, Sententia libri Metaphysicae X, 1. 3, n. 8 «Quaerimus enim aliquid quod est unum, sicut album quod est primum inter colores. Unde si in quolibet genere est unum id quod est primum, oportet quod album sit unum in genere colorum, et quasi mensura aliorum colorum; quia unusquisque color tanto perfectior est, quanto magis accedit ad album. Et quod album sit primum in coloribus, ostendit,
quia colores medii generantur ex albo et nigro, et ita sunt posteriores». Inoltre san Tommaso, Sura contra Gentiles I, cap. 28, n. 8, dove è
espresso il concetto in generale, riferito al bianco fra i colori e all'uomo virtuoso fra gli uomini (vedi qui $ 3), nonché in assoluto a Dio (unico ente sovraordinato a papa e imperatore, vedi sopra e qui $ 5): «In unoquoque genere est aliquid perfectissimum in genere illo, ad quod omnia quae sunt illius generis mensurantur: quia ex eo unumquodque ostenditur magis vel minus perfectum esse, quod ad mensuram sui generis magis vel minus appropinquat; sicut album dicitur esse mensura in omnibus coloribus, et virtuosus inter omnes homines. Id autem
quod est mensura omnium entium non potest esse aliud quam Deus, qui est suum esse».
ET QUEMADMODUM
... POSSE DICI PUTAMUS:
la stessa mancanza di un complemento oggetto di dicir245, per così dire supplita da querzadmodum, che viene quasi ad assumere il significato di ‘la stessa cosa che’, si ritrova in II XI 6 «Et quemadmodum dicimus de fronte, dicimus et de versibus»; II XI 11 «Et quemadmo-
dum de victoria carminum et sillabarum diximus inter alia, nunc etiam inter pedes et versus dicimus»; Il XII 10 «Et quemadmodum de pedibus, dicimus et de versibus». I due esempi dell’uno e del bianco pertengono rispettivamente alla terza (qu4rtu72) e alla seconda (quale) 204
De vulgari eloquentia I XVI 2
a seconda che siano lontani o vicini all’uno; e così come i colori si misurano tutti col bianco; infatti si dicono più o
meno chiari a seconda che si avvicinino al bianco o se ne allontanino. E come diciamo questo delle caratteristiche che pertengono alla quantità e alla qualità, riteniamo che si possa dirlo di qualsiasi categoria, inclusa la sostanza: e cioè che ogni cosa sia misurabile, in quanto appartiene a delle “categorie” (praedicamenta) definite da Aristotele nel V della Metafisica, che sono dieci secondo il commento di san Tommaso (Sententia libri Metaphysicae V, 1. 9, n. 6 «Et propter hoc ea in quae dividitur ens primo, dicuntur esse praedicamenta, quia distinguuntur secundum diversum modum praedicandi»), e cioè: 944, la sostanza; quale, la qualità; quartu, la quantità; ad aliquid, la relazione; facere, l'agire; pati, il subire; ubi, il luogo; quando, il tempo; situs, lo stato; babitus,
l'avere. Di queste dieci categorie solo la prima individua, appunto, la sostanza, cioè il soggetto stesso; tutte le altre individuano modi di es-
sere del soggetto, cioè accidenti della sostanza. Dante, dopo aver illustrato il concetto di reductio ad unum in relazione a due categorie accidentali, il qguantur e il quale, afferma, o meglio giudica, che tale concetto si applichi anche a tutte le altre categorie, a cominciare dalla prima, la sostanza. Lo afferma, si noti, con un’espressione che rivela un giudizio personale («posse dici putamus»), e attraverso una costruzione sintattica (? più congiuntivo), normale in II Il 4 «manifestum est ut», II IV 3 «accidit ut», ma non tanto normale in dipendenza da
un verbo di dire, che sembra introdurre una sfumatura di soggettività. Ciò fa supporre che egli consideri il volgare illustre, al quale mira, una sostanza, e che questo non sia, come pure sembrerebbe, ovvio. È
vero infatti che esso è l’oggetto della venatio, simboleggiato dalla parthera, ciò che sarà in effetti confermato dal $ 5; ma ai $$ 3-4 la locutio
è categorizzata fra le actiones (dunque nella categoria del facere, non del quid), il che pure dà senso: si ricordi l'equivalenza di locutio, nomen actionis, e loqui (vedi le note a II 1 e I V 1). Questa apparente discrasia fra la concezione del volgare come substantia e come actio è chiarita al $ 3.
SCILICET UT UNUMQUODQUE
... IN IPSO GENERE:
un paio di luoghi di san Tommaso - rimandando al X della Metafisica — esprimono il concetto che in ogni genere di cose, quindi anche nelle sostanze, ce n’è una che è prima e semplicissima, ed è misura di tutte le altre (con una estensione del concetto di “misura” oltre la dimensione quantitativa): Expositio libri Posteriorum Analyticorum I, |.
36, n. 11 «sicut habetur in X Metaphys, i quolibet genere oportet esse unum primum, quod est simplicissimum in genere illo, et reensura om205
De vulgari eloquentia
illo quod simplicissimum est in ipso genere. [3] Quapropter in actionibus nostris, quantumcunque dividantur in species, hoc signum inveniri oportet quo et ipse mensu-
rentur. Nam, in quantum simpliciter ut homines agimus, virtutem habemus, ut generaliter illam intelligamus: nam
secundum ipsam bonum et malum hominem iudicamus. In quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus. In quantum ut homines latini agimus, quedam habemus simplicissima signa et morum et habituum et locutionis, quibus lanium quae sunt illius generis»; Super Sententiis I, d. 8, q. 4, a. 2, ad 3
«mensura proprie dicitur in quantitatibus: dicitur enim mensura illud per quod innotescit quantitas rei, et hoc est minimum in genere quantitatis vel simpliciter, ut in numeris, quae mensurantur unitate ... Exinde transumptum est nomen mensurae ad omnia genera, ut illud quod
est primum in quolibet genere et simplicissimum et perfectissimum dicatur 72ersura omnium quae sunt in genere illo ... Ita etiam: in genere
substantiae illud quod habet esse perfectissimum et simplicissimum, dicitur mensura omnium substantiarum, sicut Deus». XVI 3. QUAPROPTERIN ACTIONIBUS NOSTRIS ... QUO ET IPSE MEN-
SURENTUR: in questo $ 3 non si guarda ai volgari d’Italia come entità, sostanze, ma ai “modi di parlare” degli italiani, rientranti quindi fra le azioni, icomportamenti umani. Queste azioni umane si dividono in species nel senso che si specificano, appunto, dal livello universale degli uomini a quello più ristretto dei cittadini a quello ancora più ristretto degli italiani: ognuno di questi gruppi via via più specificati dà luogo a un genere, all’interno del quale deve esistere l’ur2777 simplicissimum a cui tutte le rispettive azioni si commisurino. Da notare l’uso di sigr72, per cui vedi sotto.
IN QUANTUM SIMPLICITER UT HOMINES ... HO-
MINEM IUDICAMUS: Aristotele, Eb. Nic. 1166a «Videtur enim quemadmodum dictum est mensura unicuique virtus et studiosus esse»; e san Tommaso, Sententia libri Ethicorum IX, 1.4, n.7 «In unoquoque enim
genere habetur pro mensura id quod est perfectum in genere illo, inquantum scilicet omnia alia iudicantur vel maiora vel minora, secun-
dum propinquitatem vel remotionem a perfectissimo. Unde, cum virtus sit propria perfectio hominis, et homo virtuosus sit perfectus in specie humana, consequens est, ut ex hoc accipiatur mensura in toto
humano genere». Cfr. inoltre il passo della Surzzza contra Gentiles citato in nota al $2.
IN QUANTUM UT HOMINESCIVES ... CIVIS BONUS
ET MALUS: sul rapporto vértus-lex cfr. san Tommaso, Sententia libri Po206
De vulgari eloquentia I XVI 2-3
un genere, con la cosa che è la più semplice in quel genere. [3] Perciò nelle nostre azioni, in quanto si dividono in specie, bisogna trovare questo segno rispetto al quale anch'esse si misurino. Così, in quanto agiamo semplicemente come uomini, abbiamo la virtù, intesa in senso ge-
nerale: infatti è secondo la virtù che giudichiamo l’uomo buono o cattivo. In quanto agiamo come uomini che sono cittadini, abbiamo la legge, secondo la quale il cittadino si definisce buono o cattivo. In quanto agiamo come uomini che sono italiani, abbiamo alcuni segni semplicissimi,
e per i costumi e per le abitudini e per il modo di parlare, liticorum II, 1. 13, n. 1 «Hoc enim est finis omnis legis. Unde si lex non sit proportionata ad virtutem, non erit lex». Sul rapporto horzo-civis cfr. Ma I XII 10 «Unde Phylosophus in suis Politicis [cioè Aristotele, Politica 1276b 30] ait quod in politia obliqua bonus homo est malus civis, in recta vero bonus homo et civis bonus convertuntur. Et huiusmodi politie recte libertatem intendunt, scilicet ut homines propter se sint». In generale, «per il tipo di ragionamento, in cui si scende dall’uomo in quanto s77pliciter tale all'uomo in quanto cittadino e poi italiano», Mergaldo rimanda giustamente a Mr III XII 4-5, dove viene focalizzata la differenza fra homo e pater o dominus: «aliud est esse hominem, et aliud est esse patrem et dominum. Homo enim est id quod est per formam substantialem, per quam sortitur spetiem et genus, et per quam reponitur sub predicamento substantie; pater vero est id quod est per formam accidentalem, que est relatio per quam sortitur spetiem quandam et genus, et reponitur sub genere “ad aliquid”, sive “relationis”». Da notare che il ragionamento è al servizio della distinzione fra homo, Papa e Imperator ($ 4): «aliud est esse hominem et aliud est esse Papam; et eodem modo aliud est esse hominem, aliud esse Imperatorem, sicut aliud est esse hominem, et aliud est esse patrem et dominum», ecc.
IN
QUANTUM UT HOMINES LATINI ... PONDERANTUR ET MENSURANTUR:
nell’ambito del ragionamento di cui sopra, la “discesa” dall’bomzo in generale all’homzo avis, e con ciò dalla virtus alla lex, èsupportata dall’Et:ca e dalla Politica di Aristotele e ancor più dai relativi commenti di san Tommaso. Il passaggio successivo, dall’hormo civis all’horzo latinus, è invece privo di qualurique auctoritas, tutto dantesco. Dante, per trovare un equivalente a questo livello della virtus e della lex, inventa i «simplicissima signa et morum et habituum et locutionis», riprendendo ia nozione di sig: già avanzata all’inizio del paragrafo, grazie alla quale 207
De vulgari eloquentia
tine actiones ponderantur et mensurantur: que quidem nobilissima sunt earum que Latinorum sunt actiones. anche la virtus e la lex sono qualificate come signa. Qui il ragionamento diventa apparentemente meno lineare: se si parla di 42/017, infatti, il loro metro dovrebbe essere ur’azione, la più semplice, come un numero, l'uno, è il metro dei numeri e un colore, il bianco, è il metro dei co-
lori. Invece Dante escogita questa particolare accezione di sigr77 (parola che non compare nello stesso contesto argomentativo né in Aristotele né in san Tommaso), che dovrà intendersi come una substantia — e quin-
di si capisce perché abbia voluto dire che il principio della reductio ad unum all’interno dello stesso genere si può affermare «de predicamentorum quolibet, etiam de substantia» —: una substantza, un'entità, che
serva come pietra di paragone delle azioni. La virtus e la lex infatti sono substantie; ed è facile capire che siano i valori di riferimento ai quali si
commisurano le azioni rispettivamente degli uomini e dei cittadini. Il «signum ... quo et ipse mensurentur» sembra da interpretare come ‘punto geometrico”, o addirittura come ‘bersaglio’ (così in I XI 3 «si recte signum ad quod tendit inspiciamus»), che serve a misurare quanto le azioni umane vi si avvicinino. Al livello della “italianità”, i «simplicissima signa et morum et habituum et locutionis» varranno sì come ‘insegne’, ‘simboli sociali’ (è questo il significato che si percepisce per primo), ma varranno anche come ‘segni’ su uno strumento di misura
(di spazio, mzensurantur, o di peso, ponderantur), e anche qui come
‘obiettivi tendenziali’ dei comportamenti, ‘punti ideali’ a cui tendono costumi, abitudini e linguaggio. I «simplicissima signa et morum et habituum» resteranno poi imprecisati, ma il «simplicissimum signum locutionis», il ‘punto di paragone’ o ‘obiettivo tendenziale’ delle azioni linguistiche degli italiani, è senza dubbio il volgare illustre. In questo modo l’apparente aporia, che caratterizza il paragrafo, fra actiones e substantie si scioglie rivelando tutto il suo significato: il volgare illustre è la substantia che funge da signum (‘punto di riferimento’, ‘metro di giudizio”, ‘bersaglio-obiettivo’) delle actiores linguistiche degli italiani. Non c’è nessuna confusione fra actiones e substantie. Al contrario, le actiones linguistiche degli italiani — tanto le negative quanto le positive, comunque tutte empiriche, passate in rassegna nei capp. X-XV — si commisurano a questo s/gr77, il volgare illustre, dato come substantia, come entità — empiricamente indefinito (almeno fino a questo punto della reductio ad unum, in attesa che scatti l’“agnizione” che lo fa riconoscere uguale alla lingua poetica, in XVII 3, 5-6) e piuttosto ‘meta’, ‘obiettivo tendenziale”: la più nobile semplicità distillata al termine, se non al limite, di un processo faticoso e non finito. Si inseriscono perfettamente in questo quadro le ricorrenti espressioni del tipo «qui nun208
De vulgari eloquentia I XVI 3
rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane: e questi sono i segni più nobili delle azioni che sono quam se ad curtale vulgare direxit» (I XIII 1), «vulgare ... quod actingit populus Tuscanorum» (XII 5), «nullo modo possunt ad vulgare aulicuri sine quadam acerbitate verire» (XV 4).
QUE QUIDEM ... SUNT
ACTIONES: questa frase, dalla prizceps del Corbinelli fino alle edizioni di Rajna, Marigo, Mengaldo e successive, è sempre stata annessa alla frase seguente, e quindi non chiude il $ 3 ma apre il $ 4. «Que quidem», s'intende sigra, è sempre stato interpretato come pronome relativo senza antecedente, o “relativo doppio”, che funge da soggetto sia del predicato della relativa «nobilissima sunt» sia, con il dimostrativo di ripresa hec, del predicato della principale «nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt». Così la traduzione di Marigo: «Ed appunto questi, i segni più nobili di quelle che son le azioni degli italiani, non appartengono ad alcuna città d’Italia ed a tutte sono comuni»; e quella di Merga/do: «Ma le operazioni più nobili fra quante ne compiono gli italiani non sono specifiche di nessuna città d’Italia, bensì comuni a tutte». Non c’è dubbio, invece, che la frase chiude il periodo, e paragrafo, precedente, e non è l’inizio del periodo seguente. Il sintagma que quidem, molto frequente in Dante, è sempre usato — idealmente dopo due punti, in interpunzione moderna — come chiusa esplicativa di quanto precede. Que quidem è sempre pronome relativo con antecedente, al quale si riconnette riepilogando anaforicamente entità dette prima; non è mai relativo senza antecedente proiettato cataforicamente su quanto segue. Così in sette occorrenze su sette nel De vu/gari, cioè, oltre alla nostra: I IX 2 e 11, I XII 6, I XV 6, II 15, IVII2. Così in sette occorrenze su sette nella Morarchia: I XV 4-5 e 7, III HI 14, III Iv 1, III IX 1, II XII 1, III XV 16-7. Così nell’unico esempio nel-
le Epistole: VII 19. Così in tre occorrenze su tre nella Questio: 54, 612,71. Interpretata correttamente la sintassi, l'affermazione «que quidem nobilissima sunt» emerge come il focus argomentativo del periodo e dell’intero $ 3. Alla fine del $ 2 Dante aveva focalizzato che il sign che funge da “metro” entro un genere di cose è il sirplicissimum di quel genere. Qui, alla fine del $ 3, afferma che questi s7gr4, che sono i simplicissima, sono anche i nobilissima. Lungi dall’essere un’intormazione presupposta, come è nell’interpretazione sintattica tradizionale,
è un’informazione nuova e cruciale. Facendo seguito alle affermazioni iniziali che «robilior est vulgaris» (s'intende locutio, II 4), e che la lo-
cutio vulgaris è «ipsum subiectum wobile de quo loquimur» (I II 3), Dante afferma qui per la prima volta che il volgare illustre, essendo il simplicissimum, è anche il nobilissimuna; il che fonda tutta l’argomentazione che seguirà sui correlati oggetti robilissirza che ad esso e solo 209
De vulgari eloquentia
[4] Hec nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt: inter que nunc potest illud discerni vulgare quod superius venabamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla. [5] Potest tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima substantiarum, que Deus est, in homine magis redolet quam in bruto, in
animali quam in planta, in hac quam in minera, in hac quam in elemento, in igne quam in terra; et simplicissi-
ma quantitas, quod est unum, in impari numero redolet magis quam in pari; et simplicissimus color, qui albus est, magis in citrino quam in viride redolet. ad esso competono: la canzone (IT IM 5-8), i tria reagralia (Il Il 7 e VI 1), i vocabula pexa yrsutaque urbana (II VI 3-4). XVI 4. HEC NULLIUS CIVITATIS ... NEC CUBAT IN ULLA: i sîgra sir
plicissima, e in quanto tali nobilissima, della “italianità”, e fra questi il volgare illustre, sono comuni a tutte le città e non sono propri di nessuna. Per questo il volgare illustre, come la panthera, redolet in tutte e non dimora in nessuna. Il profumo della pantera è diventato metafora della sua ubiquità e inafferrabilità. XVI 5. POTEST TAMEN ... IN IGNE QUAM IN TERRA: è la stessa
prospettiva emanatista espressa nel III del Convivio con esplicito rimando al Liber de causis, che è in realtà un trattatello neoplatonico arabo-ebraico del secolo XII, molto noto (era usato nelle Facoltà delle Arti per l'insegnamento della metafisica), ma che viaggiava spesso sotto il nome di Aristotele. Non si sa se Dante lo conoscesse direttamente o attraverso qualche intermediario (san Tommaso lo cita decine di volte). «Ciascuna forma sustanziale procede dalla sua prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non riceve diversitade per quella, che è simplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende. Onde nel medesimo libro si scrive, trattando della infusione della bontà divina: “E fannosi diverse le bontadi e i doni per lo concorrimento della cosa che riceve”» (Cv III Il 4: cfr. Liber de causis XX 157 «Prima enim Bonitas influit bonitates supra res omnes influxione una; verumtamen unaquaeque rerum recipit ex illa influxione secundum modum suae virtutis et sui esse»). E, commentando il verso «In lei discende la vertù divina» (Arzor che nella mente 37): VII 2 «Ove è da
sapere che la divina bontade in tutte le cose discende, e altrimenti essere non potrebbero; ma avegna che questa bontade si mova da simplicissimo principio, diversamente si riceve, secondo più e meno, 210
De vulgari eloquentia I XVI 4-5
degli italiani. [4] Questi non sono propri di nessuna città d’Italia, e sono invece comuni a tutte: e fra essi si può ora discernere quel volgare a cui sopra davamo la caccia, che spande il suo profumo in ogni città e non dimora in nessuna. [5] Può tuttavia far sentire il suo profumo più in una che in un’altra, come la più semplice delle sostanze, che è
Dio, fa sentire il suo profumo nell’uomo più che nell’animale, nell’animale più che nella pianta, in questa più che nel minerale, nel minerale più che nell’elemento, nel fuoco più che nella terra; e la quantità più semplice, che è l’uno, fa sentire il suo profumo nel numero dispari più che nel pari; e il colore più semplice, che è il bianco, fa sentire il
suo profumo nel giallo più che nel verde. dalle cose riceventi. Onde scritto è nel libro delle Cagioni: La prima bontade manda le sue bontadi sopra le cose con uno discorrimento. Veramente ciascuna cosa riceve da quello discorrimento secondo lo modo della sua vertù e dello suo essere»; VII 5 «Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti dalle sustanze separate, cioè dalli Angeli, che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità della loro forma; e altrimenti dall’anima umana, che, avegna che
da una parte sia da materia libera, da un’altra è impedita ... e altrimenti dalli animali, la cui anima tutta in materia è compresa, ma,
tanto dico, alquanto è nobilitata; e altrimenti dalle piante, e altrimenti dalle minere, e altrimenti dalla terra che dalli altri, però che è
materialissima, e però remotissima e improporzionalissima alla prima simplicissima e nobilissima vertute che sola è intellettuale, cioè Dio» (e progressione ascendente dalle rzirere alle piante agli animali bruti agli uomini in II 3). E ovviamente Pd I 1-3 «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove». Nelle fonti filosofiche e teologiche, però, la metafora del profumo non ricorre: redolet proviene dalla pantera, è Dante che traspone la metafora a Dio, in senso emanatista, con ciò ovviamente ipervalorizzando il volgare illustre. ET SIMPLICISSIMA QUANTITAS
... QUAM
IN VIRIDE REDOLET:
vengono
ripresi
gli esempi dei numeri e dei colori avanzati al $ 2. Per la superiorità dei numeri dispari cfr, Aristotele, Metaphysica 986a e san Tommaso, Sententia libri Metaphysicae I, |. 8, n. 2 «Principia vero numerorum dicebant esse par et impar, quae sunt primae numerorum differentiae. Paremque numerum dicebant esse principium infinitatis, imparem vero principium finitatis, sicut exponitur in tertio physi211
De vulgari eloquentia
[6] Itaque, adepti quod querebamus, dicimus illustre, cardinale, aulicum et curiale vulgare in Latio quod omnis latie civitatis est et nullius esse videtur, et quo municipalia vulgaria omnia Latinorum mensurantur et ponderantur et comparantur. XVII. Quare autem hoc quod repertum est, illustre, cardinale, aulicum et curiale adicientes vocemus, nunc
disponendum est: per quod clarius ipsum quod ipsum est faciamus patere. [2] Primum igitur quid intendimus cum illustre adicicorum: quia infinitum in rebus praecipue videtur sequi divisionem continui. Par autem est numerus aptus divisioni». Cfr. anche Virgilio, Eg/. VIII 75 «numero Deus impare gaudet». Per citrinus cfr. Super Meteora continuatio (di autore ignoto, attribuita a san Tommaso) III, cap. 6, n. 12 «Ad id autem quod in oppositum inducebatur de sensu, dicendum quod iste color, propter eius claritatem et non multam differentiam a puniceo, vix discernitur a visu in tanta distantia, nisi subtiliter intuenti: sed tamen sensus non iudicat oppositum. Et hoc apparet ex eo, quia in medio duarum iridum apparet quaedam citrinitas clara valde; sed color citrinus est propinquior claro et albo quam puniceus, sicut dictum est prius, et inter duos puniceos positus adhuc magis claret». XVI 6, ITAQUE, ADEPTI ... NULLIUS ESSE VIDETUR: «adepti quod
querebamus» suona singolare a noi moderni, a cui appare evidente che il volgare illustre così “raggiunto” per via puramente deduttiva non ha, in quanto tale, contenuto empirico (ma vedi la nota a I XIX 1), è un “dover essere” 4 priori e astratto. In realtà quel volgare esiste: è la lingua dei doctores illustres, essenzialmente siciliani, bo-
lognesi e toscani, conguagliata dai copisti toscani degli antichi canzonieri (cfr. le note a I XII 2, 4, 6 e 8). L'ignoranza della vicenda storica che ha portato a quel conguaglio linguistico consente a Dante di concepire quella lingua come poligenetica e di divaricarla al massimo, come vuole la sua tesi partigiana, dal toscano naturale. A questo
punto, scatta in lui la concettualizzazione, mutuata dalla metafisica, in termini di reductio ad unum in unoquoque genere — la stessa struttura concettuale su cui fanno leva i suoi avversari per subordinare l’imperatore al papa —, che conferisce esistenza al volgare illustre non come linguaggio poetico ma come lingua tout court, della 212
De vulgari eloquentia I XVI 6-XVII 2
[6] Dunque, avendo raggiunto ciò che cercavamo, definiamo volgare illustre, cardinale, aulico e curiale in Ita-
lia quello che è di ogni città d’Italia e non sembra essere di nessuna, e con il quale tutti i volgari municipali degli italiani si misurano, si soppesano e si confrontano.
XVII. Ma ora bisogna spiegare perché questo volgare che abbiamo trovato lo definiamo con gli aggettivi illustre, cardinale, aulico e curiale: così da farlo apparire più chiaramente, in questo modo, per quello che è. [2] Anzitutto, dunque, mettiamo a nudo che cosa in-
quale il linguaggio lirico è solo l’anticipazione e la fucina — estremamente meritoria per il collettivo virtuale dei doctores illustres e in realtà per chi si accredita come il loro leader indiscusso. Dante anticipa qui la quaterna di epiteti — i//ustre, cardinale, aulicum e curiale — che spiegherà nei prossimi capitoli. Che essi siano proprio quattro, e che uno di essi sia cardinale, ha indotto Stepanova 1993,
1996 a ritenerli influenzati dalle quattro virtù cardinali; le quali in effetti, in quanto virtù umane che guidano i comportamenti secondo ragione, sembrano in sintonia con l’ispirazione del De vulgari. Per una analoga suggestione numerica circa i sette più sette volga-
ri municipali vedi la nota a I X 7.
MENSURANTUR ... COMPARAN-
TUR: «in “mensurantur et ponderantur et comparantur” [«ponderantur et mensurantur» era già al $ 3] è quasi l’eco dell’espressione scritturale in lode della Sapienza divina: “Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti” (Sap 11, 21)» (Mengaldo). XVII 1. QUARE AUTEM... FACIAMUS PATERE: «quod repertum est»
riprende, chiudendolo, l’«ut ... reperire possimus» di I XVI 1: cfr. la nota precedente. Adicientes (cfr. adicimus al $ 2 e adiectione a XVII 1) sarà nel senso specifico di rozen adiectivum, il termine grammaticale per designare l’aggettivo, che la grammatica latina non considerava una parte del discorso a sé ma una sottocategoria del nome, accanto al romen substantivum. Marigo per esempio cita dal Catbolicon: «Adiectiva nomina dicuntur quae adiiciuntur substantivis». Faciamus ha probabilmente valore finale (come interpreta Marigo) ovvero consecutivo; oppure è congiuntivo esortativo, come in II XII 1. XVII 2. PRIMUM IGITUR ... DENUDEMUS: alla spiegazione di ;/-
lustre è dedicato interamente questo cap. XVII, alla spiegazione degli altri tre aggettivi il cap. XVIII: già la prima posizione e la mag213
De vulgari eloquentia
mus, et quare illustre dicimus, denudemus. Per hoc quoque quod illustre dicimus, intelligimus quid illuminans et illuminatum prefulgens: et hoc modo viros appellamus illustres, vel quia potestate illuminati alios et iustitia et karitate illuminant, vel quia excellenter magistrati excellenter
giore estensione dicono la particolare importanza di i//ustre.
PER
HOC QUOQUE ... ET ILLUMINATUM PREFULGENS: per quogue come
semplice congiunzione testuale (non nel senso di ‘anche’), vedi la nota a I 1 4. Uguccione, L 107 9 «i/lustro -as, valde lustrare, illumi-
nare ... unde hic et hec #//ustris -e, preclarus, nobilis, qui valde illustratur», «Come le seguenti di cardinale, e anche di aulicum e curiale, interpretazione etimologica, che stilisticamente scatena il gusto del poliptoto (i/luminans-illuminatum-illuminati-illuminant, excellenter magistrati-excellenter magistrent, sublimatum-sublimat)» (Mengaldo). La particolare sostenutezza retorica, e precisamente la consonanza stilistica con le artes dictaminis, è probabilmente segnale di uno specifico pubblico a cui il discorso intenzionalmente si rivolge. Va mantenuta l’idea di Marigo che sviluppando il concetto di #//ustre «si conferisce al volgare più eccellente il massimo attributo della bellezza, cioè quello splendore che traluce nelle cose sensibili, in quanto ricevono luce dalla eterna Verità e Bellezza, sovrasensibile. Questo concetto, di origine neoplatonica, è sviluppato in sant’ Agostino». E, più ancora che di «estetica medievale della luce» (Men-
galdo), sarà il caso di parlare proprio di metafisica della luce (cfr. Ariani 1993): è la stessa prospettiva emanatista che abbiamo rilevato in I XVI 5, che sarà poi programmaticamente esplicitata, sul suo proprio terreno teologico, in forma di luce in Pd I 1-3 «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove». Il volgare illustre, in quanto wr immateriale, balenante ovunque e inafferrabile, metro, regolatore e meta di ogni parlare, partecipa metaforicamente di questo valore divino. Nello stesso tempo, e per contro, «illuminans et illuminatum prefulgens» evoca le due modalità dell’illuminare per luce propria o per luce riflessa, e tutto il seguito del capitolo mostra piuttosto che il volgare illustre rifulge perché è illuminato da altro o da altri. A volte il volgare illustre appare come 47 assoluto da cui emanano benefici effetti, a volte invece come l’altissimo prodotto dell’ingegno dei «domestici sui»; e il gusto dettatorio dei poliptoti aiuta a tenere insieme queste due intuizioni profondamente diverse, metafisica la prima, fabbrile la seconda. ET HOC MODO ... EXCELLENTER MA214
De vulgari eloquentia I XVII 2
tendiamo con l’aggettivo illustre, e perché lo definiamo illustre. Con l’aggettivo illustre intendiamo qualcosa che illumina e che, illuminato, risplende: e in questo modo
chiamiamo illustri certi uomini, o perché, illuminati dal
potere, illuminano gli altri di giustizia e di carità, o perché, altamente ammaestrati, ammaestrano altamente, come
GISTRENT: l’epiteto di #//ustris nel De vulgari è tributato da una parte agli «illustres heroes, Fredericus Cesar et benegenitus eius Manfredus» (I xI1 4), dall’altra ai doctores illustres del volgare: i bolognesi (I XV 6), in generale gli italiani (I XIX 1); quindi gli «illustres viros» che «invenimus vulgariter poetasse» intorno ai tria m2agnalia, in volgare di sî e d’oc (II Il 8); e di nuovo gli «illustriz capita poetantium» (II IT 9); nonché, si noti, i «dictatores illustres», in prosa, che attin-
gono il «gradum constructionis excellentissimum» (II VI 4). Il calibrato uso dantesco, dunque, copre esattamente il doppio caso dei viri illustres per potestas e per magistratus (nel senso di ‘magistero’), abbinando figure imperiali e maestri di poesia volgare (come in Pd I 29 «per triunfare o cesare o poeta»), e assimilando ai secondi anche i maestri dell’ars dictandi. In entrambi i casi questi viri sono i/lustres perché, illuminati, illuminant: cioè non sono fonte prima, assoluta, dell’illuminazione, ma figure cariche di valori e in quanto tali
capaci di diffonderli e renderli operanti nel consorzio umano. Come nota Margo, «giustizia e carità sono le fondamentali virtù del principe e possono essere nel più alto grado solo nel Monarca universale», con rimando a Mx I XI 13 «Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcunque pauca, obnu-
bilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere :ustzt74; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest» e 14 «karitas maxime sustitiam vigorabit et potior potius». Sono del resto improntate a giustizia e carità le azioni di Federico II e Manfredi evocate in I XII 4, anche se questi due termini non vi compaiono. Secondo Marigo, «che Dan-
te intenda caritas non nel significato di virtù teologale, ma in quello semplicemente umano di virtù morale, mostra anche l’esempio di Numa. La caritas è ... amore guidato da ragione e non da senso». Osservazione giusta, ma non ci sono due carità distinte in Dante, né
in latino né in volgare: la carità è una, e si applica eminentemente alla dimensione politica (in contrapposizione alla avaritia, come nel passo appena citato della Morarchia); cfr. per esempio la «patrie ca215
De vulgari eloquentia
magistrent, ut Seneca et Numa Pompilius. Et vulgare de quo loquimur et sublimatum est magistratu et potestate, et suos honore sublimat et gloria. [3] Magistratu quidem sublimatum videtur, cum de tot rudibus Latinorum vocabulis, de tot perplexis constructionibus, de tot defectivis prolationibus, de tot rusticanis accentibus, tam egregium, tam extricatum, tam perfectum
et tam urbanum videamus electum ut Cynus Pistoriensis et amicus eius ostendunt in cantionibus suis.
ritas» di Ep I 9. UT SENECA ET NUMA POMPILIUS: Seneca impersona il magistratus, Numa Pompilio la potestas, in ordine chiastico rispetto ai due valori prima enunciati, il che conferma la testura retorica del brano. «“Seneca morale” (IfIV 141), il filosofo stoico pagano, nel cui pensiero il Medioevo riconosce il frutto migliore della morale razionale, precorritrice della cristiana ... poteva dunque essere presentato come esempio tipico di uomo che, fornito d’eccelsa dottrina, eccellentemente poteva ammaestrare» (Marigo). Dante lo cita molte volte: in Ep III 8 («que ab inclitissimo phylosophorum Seneca nobis velut a patre filiis ministrantur»); in Cv I VII 16, II XIN 22, III XIV 17, IV XI 8 e 11; in MX II V 3. «Numa, il secondo re di
Roma, amante della pace e primo legislatore civile e religioso, poté apparire a Dante il monarca ideale, che illuminava i sudditi di giustizia e carità, per attestazione liviana (I XVIII 1) “inclita iustitia religioque ea tempestate Numae Pompilii erat” ... Nella religio di Numa Dante poteva vedere inclusa la caritas, virtù umana» (Marigo). Inoltre «è da tener presente quanto ne dicono Virgilio, Aew. VI 808 sgg. [dove Numa viene qualificato come il re «primam qui legibus urbem / fundabit»] ... e Ovidio, Mer. XV 479 sgg.» (Mengaldo). Soprattutto il passo di Ovidio è calzante perché descrive l’azione ispirata, civilizzatrice e orientata alla pace di Numa, che «talibus atque
aliis instructo pectore dictis / ... ducibusque Camenis / sacrificos docuit ritus gentemque feroci / assuetam bello pacis traduxit ad artes» (vv. 479-84: si notino le azioni pertinenti al meagistrari e al magistrare). E sarà significativo che il prodigio occorso sotto Numa nella celebrazione di un rito e narrato da Livio sia per Dante premonizione dell'Impero: Mr II Iv 5 «Quod autem pro romano Imperio perficiendo miracula Deus portenderit, illustrium autorum testimoniis
comprobatur». Forse anche per questo, nella situazione presente di
Impero vacante, Dante ha scelto, come esempio di potestas, non un imperatore, ma un re dell’ancor piccola Roma divinamente segnato 216
De vulgari eloquentia I XVII 2-3
Seneca e Numa Pompilio. E il volgare di cui parliamo è innalzato dal magistero e dal potere, e innalza i suoi con l’onore e la gloria. [3] Esso si mostra innalzato dal magistero, dal momento che, da tanti vocaboli rozzi usati dagli italiani, da tante costruzioni intricate, da tante pronunce manchevoli, da tanti accenti rustici, lo vediamo emergere così selezionato, così lineare, così rifinito e così urbano come Cino da Pistoia e il suo amico lo esibiscono nelle loro canzoni. dalla prefigurazione dell’Impero. ET VULGARE ... ET GLORIA: r4gistratus nel senso di ‘magistero’, in quanto derivato dal verbo r24gistro di cui anche nel testo è espansione, può ricavarsi da Uguccione, M 10 24-7 (ma dopo il più comune senso di ‘magistratura dello stato’, che forse ha interferito in Dante, facendo preferire il peregrino magistratus al più comune ragisterium, pur presente nel
contesto nel senso di «honos vel officium magistri») «et rzagzstro -as -avi, idest docere ... Item magistri dicunt maiores in civitate, scili-
cet senatores, consules, principes, iudices; unde hic magistratus -tus, eorum dignitas, et sepe magistratus invenitur collective pro ipsis qui magistratum habent; et magistratus -tus est verbale huius verbi ma-
gistro -as». «Tutta la terminologia del passo risente di quella raccomandata dai dettatori per i personaggi d’alto rango (cfr. ad esempio Adalberto Samaritano, Praecepta dictaminum ... “nam aliter salutamus honore fulgentes, aliter nulla dignitate sublimatos”)» (Merga/do). In sublimatum-sublimat si nota, al di sotto del gioco retorico, la doppia natura passiva e attiva del volgare illustre, che riceve e dà. All’ipostatizzato volgare illustre Dante attribuisce valori che in realtà vuole che siano riconosciuti ai suoi cultori. XVII 3. MAGISTRATU QUIDEM ... IN CANTIONIBUS SUIS: il volgare illustre possiede un “magistero” che lo innalza, come si vede dal
contrasto fra il suo valore e il disvalore dei volgari municipali, espresso dalle coppie oppositive rudibus-egregium, perplexis-extricatura, defectivis-perfectum, rusticanis-urbanum, che configurano un «insistito parallelismo per antitesi, o contentio» (Mengaldo). È qui espresso il rapporto fra il volgare illustre, “trovato” per via ipotetico-deduttiva nel cap. XVI, e i volgari locali induttivamente passati in rassegna nei capp. XI-XV. Rapporto retoricamente costruito e logicamente precario, perché in realtà il primo non risulta da un raffinamento dei secondi operato dai poeti volgari, ma da un loro abbandono, significato dal ripetuto verbo divertere. È altrettanto ambiguo il rapporto 217
De vulgari eloquentia
[4] Quod autem exaltatum sit potestate, videtur. Et quid maioris potestatis est quam quod humana corda versare potest, ita ut nolentem volentem et volentem nolentem faciat, velut ipsum et fecit et facit?
[5] Quod autem honore sublimet, in promptu est. Nonne domestici sui reges, marchiones, comites et magnates fra il volgare illustre e i doctores illustres. Il testo dice che è il volgare a esercitare un “magistero”, ma tale magistero è concretamente dei poeti, e questo è in effetti il messaggio che Dante vuole dare, e
che balena anche nella lettera, nell’epiteto inedito di doctores, nonché nel participio passato, cioè passivo, e/ectum: chi se non i poeti ha electum il volgare «tam egregium, tam extricatum», ecc.? Che Cino e il suo amico si limitino a ostendere i pregi del volgare è un modo di esprimersi retorico che non cela l’intenzionale significato sottostante. XVII 4. QUOD AUTEM... VIDETUR: a «Magistratu ... sublimatum» corrisponde (con chiasmo e varzatio) l’omologo «exaltatum ... potestate». Ma, mentre il magistratus è in realtà dei doctores capaci di “attingere” (cioè di elaborare) la lingua volgare, la potestas è in eftetti intrinseca a essa, o meglio alla vu/garis eloquentia (si noti l’opposizione fra il passivo electum e gli attivi faciat-fecit-facit). La potestas qui evocata, infatti, è quella dell’arte oratoria, quale definita da Cicerone, De oratore I VIII 30 «neque vero mihi quidquam ... praestabilius videtur, quam posse dicendo tenere hominum coetus, mentes allicere, voluntates impellere quo velis, unde autem velis deducere» (Marigo); e da Marziano Capella, De nuptiis V 426-7 «veluti potens rerum omnium regina et impellere quo vellet et unde vellet deducere, et in lacrimas flectere et in rabiem concitare, et in alios etiam vultus
sensusque convertere tam urbes quam exercitus proeliantes, quaecumque poterat agmina populorum» (Merga/do). Ma questi passi, e direttamente il primo, spiegano piuttosto la seconda parte del dettato dantesco: «ita ut nolentem volentem et volentem nolentem faciat, velut ipsum et fecit et facit». La prima parte, «humana corda versare potest», richiama direttamente il potere di Orfeo di smuovere i sassi: Cv IT 1 4 «sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere», interpretato allegoricamente: «che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cuorî, e faccia muovere alla sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi
come pietre». E Orfeo non è un oratore ma il prototipo mitico del poeta. Dante ha voluto combinare il potere profondo del canto poeti218
De vulgari eloquentia I XVII 4-5
[4] Che poi sia sollevato dal potere, è manifesto. E che cosa è di maggior potere di ciò che è capace di muovere i
cuori degli uomini, così da far volere chi non vuole e far disvolere chi vuole, come esso ha fatto e fa? [5] E che innalzi con l’onore, è evidente. Forse che chi
è al suo servizio non supera in fama qualsiasi re, marche-
co con il potere argomentativo-persuasivo dell’oratoria, e con ciò alludere alla capacità del proprio trattato «de vulgaris eloquentie doctrina» di parlare tanto ai poeti quanto ai dettatori. Non credo che il perfetto fecit si riferisca alla «realizzazione già avvenuta del volgare illustre nei doctores più antichi come Guido delle Colonne» (Mengaldo), perché il potere argomentativo-persuasivo non è tanto della lirica amorosa quanto della poesia e prosa dottrinaria, di cui solo l’amico di Cino è maestro. Forse rimanda al passato recente della stessa produzione dantesca o forse, con un corto circuito possibilissimo, alla poesia occitana della virtus-rectitudo (II Il 7-8). Si noti anche qui il gusto dettatorio: «la comzzentatio derivativa (rolentem volenterm — volentem nolentem) e il poliptoto (faciat-fecit-facit)» (Mengaldo). XVII 5. NONNE DOMESTICI SUI ... FAMA VINCUNT?: «è la gerarchia feudale, in ordine decrescente» (Marigo); la stessa che ordinava l’in-
vettiva di I XII 5 (due reges, due rzarchiones, altri magnates). È certamente da mantenere l’interpretazione di Marigo e Mengaldo (propria del resto già di Trissino 1529 e Cittadini post 1600), contro la proposta di Vinay (1959, pp. 266-7, e cfr. Pagani 1982, pp. 111-2) di considerare «reges, marchiones, comites et magnates» apposizione di «domestici sui» e quindi soggetto di vi2curt, lasciando nella posizione di complemento oggetto il solo quoslibet. Lettura sintattica già implicita (anche se questo è passato inavvertito) in Rajna 1896, che mette una virgola dopo magnates notando: «Il mettere in questo luogo una virgola, come faccio io, o non ce la mettere, come s'è fatto fin qui, importa
una diversità profonda d’interpretazione». Ma dal punto di vista linguistico la frase, con tutto il peso semantico caricato sul soggetto e con il complemento oggetto “vuoto”, sarebbe squilibratissima; e quilibet aggettivo è normalissimo (I XVI 4, II VII 1, IX 5, X14, XIII 10). Quanto al contenuto, «non si vede, anche per il necessario parallelismo con
il paragrafo seguente, che senso abbia pensare a un’esemplificazione che taglia fuori proprio i rappresentanti per eccellenza del volgare illustre, i poeti» (Merga/do; più ampiamente in Mengaldo 1978 [1968], p. 83 nota 84). Inoltre i re, marchesi, ecc. dediti al volgare illustre semplicemente non esistono, né nella teoria di Dante né nella realtà. Infine, domestici sui compare, unica altra occorrenza, in I X 2 «qui dul219
De vulgari eloquentia
quoslibet fama vincunt? [6] Minime hoc probatione indiget. Quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus. [7] Quare ipsum illustre merito profiteri debemus. XVII. Neque sine ratione ipsum vulgare illustre decusamus adiectione secunda, videlicet ut id cardinale vocetur. Nam sicut totum hostium cardinem sequitur ut, quo cardo vertitur, versetur et ipsum, seu introrsum seu ex-
trorsum flectatur, sic et universus municipalium grex vulgarium vertitur et revertitur, movetur et pausat secundum
quod istud, quod quidem vere paterfamilias esse videcius subtiliusque poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta Cynus Pistoriensis et amicus eius». Vinay ha ragione a sostenere che Dante mira al vu/gare latium, con forte connotazione politica, ma enfatizzando l’incompatibilità di questo concetto con quello di lingua poetica si preclude di capire il suo progetto. L’avanguardia del vu/gare latium è il drappello dei poeti, che chiedono di essere riconosciuti come tali. I re, marchesi, ecc. sono quelli che li devono riconoscere come tali: sono i destinatari primi del Convivio (I IX 5), e
sono i destinatari “secondi”, dietro ai litterati che ne sono i destinatari primi, dell’offensiva persuasiva del De vu/gari (vedi la nota a I XIX 1 el’Introduzione, pp. XXX-XXXIV). XVII 6. QUANTUM VERO ... EXILIUM POSTERGAMUS: dopo aver
ipostatizzato nel volgare illustre l’onore e la gloria della poesia propria e degli altri doctores illustres, caricando tali onore e gloria di un capitale significato politico, ben al di là della loro pertinenza letteraria, Dante fa ridiscendere onore e gloria così potenziati su di sé. Come
nel paragrafo precedente, questa è una autogratificazione compensatoria della condizione biografica, da confrontare con le parimenti altere dichiarazioni di I VI 3 e di Tre donne 76 («l’essilio che m'è dato onor mi tegno»); «orgogliose impennate» (Menga/do), ma qui anche argomento pertinente alla strategia persuasiva, volta a esaltare il proprio valore a nome dei doctores illustres. XVIII 1. NEQUE SINE RATIONE.... CARDINALE VOCETUR: per il raro
verbo decuso, da decus (anche alla fine del paragrafo, decusari), ulte-
riore spia di ricercatezza dettatoria, vedi Uguccione, D 27 6 «Item a decet hoc decus -coris, idest honor ... unde decuso -as, idest venustare,
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De vulgari eloquentia I XVII 5-XVIII 1
se, conte e magnate? [6] Questo non c’è bisogno di dimostrarlo. E quanto copra di gloria chi è al suo servizio, lo sappiamo noi stessi, che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l’esilio. [7] Perciò a buon diritto dobbiamo proclamarlo illustre. XVIII. E non senza ragione fregiamo questo stesso volga-
re illustre del secondo aggettivo, in modo cioè che sia detto cardinale. Infatti, come tutta la porta segue il cardine, così che, dove si gira il cardine, si gira anch'essa, sia verso l’inter-
no che verso l’esterno, così anche l’intero gregge dei volgari municipali si gira e si rigira, si muove e si ferma, seguendo questo, che dimostra dunque di essere veramente il loro adornare». Per adiectione vedi la nota a I XVI 1. «Vocetur» è di B; G e T hanno «vocemus».
NAM SICUT ... EXTRORSUM FLECTATUR: «è
da pensare al significato latino di cardo, che è quel cuneo, infisso sotto uno degli spigoli della porta (ostiu77 è la grave e solida porta esterna della casa), sul quale essa si appoggia col suo peso e si volge, tanto verso l'interno che verso l’esterno ...: questo è il cardo fondamentale, men-
tre quello dello spigolo superiore ha solo la funzione di mantenere alla porta la posizione verticale; e però, come Dante, anche Virgilio ne nomina nei vari passi (Ae. I 480, 493; IX 724, ecc.) uno solo. Così fa an-
che Isidoro, il quale con Uguccione, che lo ha per fonte, ha suggerito, coll’applicazione a senso metaforico, la similitudine dantesca» (Marigo). Cioè Isidoro, Etyrz. XV VII 7 «Cardo est locus in quo ostium vertitur et semper movetur, dictus APO TES CARDIAS, quod quasi cor hominem totum, ita ille cuneus ianuam regat ac moveat»; e Uguccione, C 46 1-3 «CARDIAN grece, latine dicitur cor ... et hic cardo -nis, idest ima pars hostii, scilicet cuneus, qui in foramine vertitur, unde et cardo dicitur ipsum foramen, et dicitur cardo a cardian, ideo quia sicut cor hominem, ita ille cuneus ianuas regit et movet, unde hic et hec cardinalis
et hoc -le ... in eodem sensu, scilicet quod ad cardines pertinet». SIC ET UNIVERSUS ... PATERFAMILIAS ESSE VIDETUR: se in é/lustre è in primo piano l’idea emanatista del volgare ur472 che diffonde la propria luce più e meno nel corpo dei volgari d’Italia, in cardinale è in primo piano l’azione regolativa che tale volgare esercita sull’insieme dei volgari inferiori. In entrambi i casi si ha un rapporto dall’uno (la fonte di luce, il cardine) al molteplice, in cui l’uno informa, regola, avvalo-
ra il molteplice, ma non lo cancella, non lo nega: conformemente allo 221
De vulgari eloquentia
tur. Nonne cotidie extirpat sentosos frutices de ytalia silva? Nonne cotidie vel plantas inserit vel plantaria plantat? Quid aliud agricole sui satagunt nisi ut amoveant et admoveant, ut dictum est? Quare prorsus tanto decusa-
ri vocabulo promeretur. [2] Quia vero aulicum nominamus illud causa est quod, schema impostato nel cap. XVI, capace di recuperare in una prospettiva di miglioramento nel tempo la multiforme e deforme realtà linguistica empirica staticamente censurata nei capp. X-XV. Cfr. Imbach - Rosier-Catach 2005, che assume «de l’un au multiple, du multiple
à l’un» come «clef d’interprétation pour le De vulgari eloquentia». È essenziale che si tratti di un sistema tutto dinamico: il perno è il perno di tutti imovimenti, espressi da una varietà di verbi di moto (entro i quali, nota Mergaldo, si rilevano i soliti giochi verbali: vertitur-versetur, introrsum-extrorsum, vertitur-revertitur). Tutto questo sistema dinamico interno alla vulgaris locutio ha una mobilità ben maggiore della locutio artificialis ovvero gramatica, «que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam iralterabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis» (I IX 11). In questo sistema è implicitamente centrale il concetto di uso, «però che lo volgare séguita uso, e lo latino arte» (Cv I V 14). Il vu/gare cardinale, con il proprio movimento dell’uso, guiderà, regolerà il movimento dei volgari inferiori, che
ugualmente esiste nella dimensione dell'uso. Non c’è nessuna codificazione grammaticale. Entro la similitudine del cardine e della porta si inseriscono due metafore, quella del grex vu/garivze e quella del paterfamilias. Quanto alla prima, vi è latente l'opposizione svalutativa fra pecore e uomini (Pd V 80 «uomini siate, e non pecore matte»): Cv I XI 9 «Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’anderebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare»; a esemplificare come «Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza
discrezione» (Cv I XI 8; cfr. qui I I 1 «volentes discretionerr aliqualiter lucidare illorum qui targuarz ceci ambulant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes»). Quanto alla seconda, «Paterfamilias è parola presa nel suo senso giuridico: “Paterfamilias appellatur qui in domo dominium habet...” (Paulus, Digest 50, 16, 195)» (Ma-
rigo); parola che Dante riuserà anche in chiave politica: Mx I V 5 «Si consideremus unam domum, cuius finis est domesticos ad bene vivere preparare, unum oportet esse qui regulet et regat, quem dicunt patremfamilias»; «ma si tenga presente l’affine immagine di Matteo 222
De vulgari eloquentia I XVIII 1-2
capofamiglia. Non estirpa forse quotidianamente dalla selva italica rovi spinosi? Non innesta forse quotidianamente piante e non pianta germogli? A cos’altro si dedicano isuoi agricoltori se non a togliere e a mettere, come si è detto? Per cui merita pienamente di fregiarsi di un epiteto così grande. [2] La causa poi per cui lo nominiamo aulico è che, se noi di Vendòme, Ars versif. IV 26 “Usus ... dictiones sunt quasi pedissecae et tributaria&, et ei tanquam patrifamilias obsequuntur”» (Mengaldo), molto pertinente perché attiene all’uso linguistico. NONNE
COTIDIE EXTIRPAT ... VEL PLANTARIA PLANTAT?: ulteriori metafore del bonificare la si/v4 (come in I XI 1, e cfr. XV 1) e coltivare i campi,
trasformando il naturale selvatico in naturale coltivato. In entrambi i casi è il volgare il soggetto delle azioni agricole, ma è significativo che l’identica azione, espressa con le stesse parole, ha per soggetto qui il volgare, in I XI 1 («perplexos frutices atque sentes prius eiciamus de
silva») l’autore del trattato.
QUID ALIUD AGRICOLE ... UT DICTUM
EST»: «si riassume e chiarisce il periodo precedente (2 dicture est), con
amoveant richiamando extirpat sentosos frutices e con admoveant tanto plantas inserit quanto plantaria plantat» (Marigo). Con ciò il volgare illustre si conferma soggetto figurato (si potrebbe dire metonimico) di azioni che sono in realtà compiute dai dorzestici sui, i poeti. «L'immagine è dettatoria: cfr. il prologo della Surzzza dictaminis di Guido Faba: “Advenite nunc omnes ad viridarium magistri Guidonis ... pratum ridet amenum et arbores cuncti generis sunt inserte”» (Marigo). A questa citazione vicina all'ambito di composizione del trattato Merga/do ne affianca altre affini che arricchiscono il «complesso di immagini a sfondo biblico-liturgico ma di tramite essenzialmente dettatorio»; e nota anche «le anzorzinationes (plantas ... plantaria plantat, amoveantadmoveant) e la figura etimologica (plantaria plantat)».
XVHI 2. QUIA VERO AULICUM ... PALATINUM FORET: 42/2 ha lo stesso significato di palatium e di regia, che si legge poco più sotto; come in Uguccione, A 3 «AULA -le, idest domus regia. Inde ... aulicus -a -um ... idest palatinus, quasi aule custos, qui assidue est in aula cum principe». L'epiteto aulicum significa dunque che il volgare illustre avrebbe come sede appropriata il palazzo reale d’Italia, se tale palazzo esistesse. Mantengo la traduzione vulgata aulico, anche se non è autoesplicativa (ma non lo ènemmeno la pur attraente traduzione regale adottata da Mengaldo, perché non rimanda automaticamente al palazzo reale). L'identica coppia sinonimica aulicus-palatinus (anche con regia) si ritrova, come nota Mergaldo, in Ep II 5 «et qui Romane aule palatinus erat in Tuscia, nunc regse sempiterne aulicus preelectus 223
De vulgari eloquentia
si aulam nos Ytali haberemus, palatinum foret. Nam si
aula totius regni comunis est domus et omnium regni partium gubernatrix augusta, quicquid tale est ut omnibus sit comune nec proprium ulli, conveniens est ut in ea con-
versetur et habitet, nec aliquod aliud habitaculum tanto dignum est habitante: hoc nempe videtur esse id de quo loquimur vulgare. [3] Et hinc est quod in regiis omnibus conversantes semper illustri vulgari locuntur; hinc etiam est quod nostrum illustre velut acola peregrinatur et in humilibus hospitatur asilis, cum aula vacemus. in superna Terusalem cum beatorum principibus gloriatur». E si tratta dell’epistola in morte di Alessandro dei conti Guidi di Romena, già capitano dei fuorusciti bianchi e ghibellini (cfr. Indizio 2002 e Tavoni 2010a, $ 6), presumibilmente coeva (1304) e che presenta uno stretto parallelismo, sotto il segno dell’eroismo imperiale, con I XII 4 e 5, per cui vedi le note relative. Alessandro era Conte Palatino, titolo assegnato al suo antenato Guido dall'imperatore Ottone I. Per aula ovvero regia romana s'intende dunque il palazzo reale dell’imperatore nella sua ve-
ste di re d’Italia.
NAMSI AULA TOTIUS REGNI ... DE QUO LOQUIMUR
VULGARE: compare qui chiaramente il concetto di regnzrz d’Italia: «le monarchie di Trinacria e di Apulia [che comunque Dante doveva aborrire come entità statali, al pari dei rispettivi sovrani: I XII 3-5] restavano assorbite dall’ideale ed integrale regnurz d’Italia, che in linea di diritto spettava al Rex Rorzanorum» (Marigo). Cioè all'imperatore, come conferma l'aggettivo augusta: «dovunque risiedesse, l’imperatore era Rex Romanorum; ma risiedendo, come richiedeva la sua missione storica [nella visione di Dante], in Italia, avrebbe esercitato direttamente i suoi diritti di Rex Italiae, allo stesso modo che, risiedendo in Germa-
nia, esercitava quelli di Rex A/arzaniae» (Marigo). Del tutto condivisibile il giudizio di Marigo (p. LXXXII): Dante «pensa certo alla reggia e alla curia di Federico II, auspicando per l’Italia il ritorno ad una condizione politica in cui l'Imperatore, Re dei romani, facendo, non più la Germania, ma l’Italia centro della sua politica di monarca universale, possa accogliere ancora [cfr. I XII] nella sua aula e curia excellentissima, a consiglieri aulici, come dorvestici et familiares, non solo i più degni rappresentanti della nobiltà, ma anche della scienza e dell’arte italiana, colle legittime autorità di quell’ideale ed integrale Regnurr Italiae, che, pur diviso nelle varie autonomie statali, era pur sempre giuridicamente unificato dalla podestà imperiale del Rex Romanorum, come lo
era il Regnum Alemanniae dalla podestà di colui che dagli Elettori te224
De vulgari eloquentia I XVIII 2-3
italiani avessimo un’aula regale, esso apparterrebbe a quel palazzo. Infatti, se l’aula è la casa comune di tutto il regno e l’augusta reggitrice di tutte le parti del regno, ogni cosa che è tale da essere comune a tutte e non propria di alcuna occorre che soggiorni in essa e che la abiti, e nessun'altra dimora è degna di un così grande abitante: e tale evidentemente è quel volgare di cui parliamo. [3] Di qui viene che, in tutte le regge, quanti le frequentano parlano sempre in un volgare illustre. Di qui viene anche che il nostro volgare illustre peregrina come uno straniero e viene ospitato in
umili asili, perché siamo privi di un’aula regale. deschi era eletto all'Impero» (escludendo «che Dante pensasse alla risurrezione del Regno d’Italia longobardo-carolingio, esteso dalle Alpi al Tronto e al Garigliano», p. LKXXIII nota 1, nel senso che il Regnwuz Italiae doveva in linea di principio includere tw2ta l’Italia). «Quicquid tale est ut omnibus sit comune nec proprium ulli» riprende il concetto di I XVI 4, nel quale rientrano i «simplicissima signa et morum et habituum et locutionis», dunque anzitutto il volgare illustre. «Conversari [qui e al $ 3], contro le note distorsioni rinascimentali [nel senso della “conversazione” cortigiana, per cui Trissino 1529, seguito da Cittadi-
ni post 1600, traduce «in essa conversi et habiti»], èsemplicemente sinonimico di babitare, come anche nel volgare dantesco» (Mergaldo), cioè conversazione ‘frequentazione’- conversare ‘frequentare’ in CvI IV 9-10, VI 10-1, XII 8. E cfr. Marigo, p. LKXXI e nota 1. XVIII 3. ET HINC ... ILLUSTRI VULGARI LOCUNTUR:
«la genera-
lizzazione in omnibus regiis riguarda reggie straniere, nazionali come l’auspicata reggia d’Italia, non le reggie italiane angioina ed aragonese, e tanto meno le nostre piccole corti principesche e signorili» (Marigo, p. LKXXI). Accettando questa interpretazione, traduco quindi
‘in un volgare illustre’ (contrapposto al seguente «r0stru77 illustre»). Locuntur non va inteso nel senso di ‘esprimersi con eloquenza’, come
fa Marigo, che ne limita i soggetti a «coloro che ne sono degni per ingegno o scienza: i poeti, oratori e prosatori d’alto stile»; ma significa semplicemente ‘parlano’ (Vinay 1959, pp. 269-70), «e il riferimento è a una situazione politica non italiana, in cui esista una reggia nazionale,
e conseguentemente l’uso del volgare illustre in chi la frequenta (Dante avrà in mente, come per la curza, la Germania e forse anche la Francia)» (Mengaldo); mentre in Italia, dove l'aula è virtuale, il volgare illu-
stre è di fatto e al presente appannaggio dei soli poeti. HINC ETIAM .«+ CUM AULA VACEMUS: «evidente allusione alla propria situazione 225
De vulgari eloquentia
[4] Est etiam merito curiale dicendum, quia curialitas
nil aliud est quam librata regula eorum que peragenda sunt: et quia statera huiusmodi librationis tantum in expersonale, e forse anche a quella di Cino», secondo Mergaldo, che aggiunge: «umili asili saranno pure tutte le corti italiane non regali»; e Marigo: «riaffiora anche qui la dolorosa esperienza personale fatta dal poeta nelle corti durante i primi anni dell’esilio». Però Dante non allude necessariamente a corti, anzi l’espressione «in humilibus ... asilis» non sarebbe stata troppo cortese verso l’ospite. Certamente non ricorre nelle Epistole: piuttosto quella di Moroello è «suspirata ... curia» (IV 2). Se Dante si trovava a Bologna e Cino si trovava a Prato o a Firenze, avranno avuto abitazioni private. XVII 4. EST ETIAM MERITO ... QUE PERAGENDA SUNT: il quarto
epiteto, curiale, fa coppia col terzo, aulicum. Mentre i primi due, illustre e cardinale, definiscono il rapporto del volgare superiore coi volgari inferiori, aulicum e curiale definiscono la natura politica del volgare superiore. Entrambi puntano al centro del virtuale Regno d’Italia, che si identifica con la sede italiana dell’imperatore. Ma quali sono i significati specifici dei due termini? Marigo, data aula «casa comune di tutto il Regno», «ideale reggia d’Italia», propone per curza, a scapito delle accezioni di «consesso feudale di baroni e prelati, convocati dalle varie parti del Regno a scopo consultivo», e di «corte, la famiglia di ufficiali e consiglieri a seguito del principe», quella — che gli sembra più specifica e distinta da 24/2 — di «tribunale giudiziario». Specificazione improbabile, come è infondata quella di au/icur per indicare «la regale bellezza del volgare nella lirica di alto stile, legata nelle sue origini a reggia e corte», e curiale per indicare «la solenne stilizzata regolarità della prosa ufficiale e l’ornata eloquenza di parata» (p. LXXIX). Aula è piuttosto l’edificio (palatiurz, regia), che può essere abitato (abito), frequentato (conversor), che è sede (habitaculum) delle più alte funzioni del Regno: quindi un edificio, circonfuso quanto si voglia di valori, di simboli, di aura, ma letteralmente un edificio. Invece curia (qui e al $
5) è un insieme organico di persone unite da un sistema di funzioni: vuoi il «consesso feudale di baroni e prelati», ecc. e/o la «corte, la fa-
miglia di ufficiali e consiglieri a seguito del principe» e/o il «tribunale
giudiziario» (nel senso di organo, non di sede fisica) di cui parla Marig0, vuoi la cancelleria, il pur premoderno apparato amministrativo del Regno (Uguccione, C 46 23 «Item a cura hec curia, quia ibi frequens est cura et sollicitudo de rebus administrandis, et inde ... hic et hec c-
rialis et hoc -le ... et hec curzalitas -tis»). Non c’è motivo di specificare
e limitare, quando si tratterà invece della curia nella sua articolata totalità, la cui distinzione da 44/4 è garantita in termini di luogo fisico, vs 226
De vulgari eloquentia I XVII 4
[4] E anche da definirsi a buon diritto curiale, perché la curialità non è altro che una norma equilibrata delle azioni da compiere: e poiché la bilancia di un tale equiliinsieme di persone-funzioni, del centro politico del Regno. Lo conferma la nozione di curialitas (a partire dalla quale, non da curia, Dante spiega curzalis), che è una «librata regula eorum que peragenda sunt», cioè un valore immateriale, la norma generale del fare al più alto livello di universalità-razionalità dell’organismo-Regno. In quanto insieme organico di persone, la curia è composta da rerzbra, che esistono anche in Italia dove la curia è «corporaliter ... dispersa». Il che non potrebbe dirsi dell’a/2, per cui infatti «curiam habemus», mentre «aula va-
camus». Di conseguenza, gli aggettivi aulicus e curialis, applicati al volgare, dovrebbero sottilmente distinguersi nel senso di ‘degno dell'aula’ (cioè semplicemente ‘sommo’) vs ‘conforme alla curialitas’ (guardando alle qualità specifiche). Nella maggior parte dei casi, di fatto, sembrano usati indifferentemente, per designare lo stesso oggetto; ma una
certa specializzazione sembra di cogliere per au/icus in II IV 1 «Quando quidem aporiavimus extricantes qui sint 2/00 digni vulgari et que», sinonimo del contestuale «a/tissinzo vulgari»; per curzalis, applicato a dicta, esaminati specificamente, in I XII 1 «quorum dicta, sé rirzari vacaverit, non curialia sed municipalia tantum invenientur»; e a vocabu-
la, in I XII 8 «prefulgentes eorum quidam polite locuti sunt, vocabula curtaliora in suis cantionibus compilantes», dove guardando nello specifico si manifesta persino un’idea di gradualità. Curzale è il primo epiteto del volgare superiore che compare nel trattato, in quesi due ultimi contesti, non a caso legati il primo (I XII 8) alla Curia federiciana, il secondo (I XII 1) al suo opposto, i municipi toscani. I/lustre è il secondo, che, dopo essere stato dichiarato oggetto della caccia in I XI 1, compare, per negazione, dove si parla dei toscani (I XII 1). Aulicum è il terzo, per negazione, dove si parla di ferraresi, modenesi e reggiani (I XV 4), e si porta con sé #/lustre, dove si parla dei bolognesi (I XV 6 «aulicum et illustre»). Cardinale è l’ultimo, che compare solo nella completa quaterna enunciata per la prima volta in I XVI 6. «L'attributo curiale pare suggerito da Giovanni Garlandia, che nella Poetria ... lo dà al dictamen, cioè alla prosa dello stile più alto, in quanto la curia della Chiesa e la curia dell’Impero formavano due supremi consessi legislativi e giudicanti» (Marigo). ET QUIA STATERA ... CURIALE DICATUR: «nella statera della curia ... non è da vedere la sola giustizia del tribunale supremo, ma quella più totale giustizia che è equilibrio e superamento di ogni discordante particolarismo» (Vinay 1956, p. 154). Il termine curtale, riferibile ad azioni («in actibus nostris»), viene definito
come «quicquid ... bene libratum est», cioè sulla base di pregi inter227
De vulgari eloquentia
cellentissimis curiis esse solet, hinc est quod quicquid in actibus nostris bene libratum est, curiale dicatur. Unde cum istud in excellentissima Ytalorum curia sit libratum, dici curiale meretur.
[5] Sed dicere quod in excellentissima Ytalorum curia sit libratum, videtur nugatio, cum curia careamus. Ad quod facile respondetur. Nam licet curia, secundum
quod unita accipitur, ut curia regis Alamannie, in Ytalia non sit, membra tamen eius non desunt; et sicut membra
illius uno Principe uniuntur, sic membra huius gratioso ni (quindi specifici, come detto sopra, non sulla base dell'essere o no,
globalmente, degno dell’au/2), sintetizzabili nel pregio onnicomprensivo dell’equilibrio. UNDE CUM ISTUD ... CURIALE MERETUR: non sfugga l’audacia persino sfrontata con cui Dante definisce «excellentissima Ytalorum curia» («cum curia careamus», come dice subito sotto) di fatto nient'altro che l’élite dei poeti volgari illustri, e andando al sodo, fra i viventi, in pratica se stesso e Cino. Se questa viene definita excellentissima, vuol dire che ce ne sono altre in Italia, cioè le varie curie locali. Come quella di Moroello Malaspina, per esempio, che Dante evocherà col nome appunto di curia in Ep IV 2. La curza virtuale dei poeti, l’unica nazionale, è eccellente fra tutte.
XVIII 5. SED DICERE.... NON DESUNT: continua a manifestarsi l’audacia di cui sopra: «facile respondetur», addirittura. Il riferimento alla «curia regis Alamannie» conferma, come sopra argomentato, che la «Ytalorum curia» che Dante ha in mente è quella dell’imperatore in quanto Rex Rorzanorura, prima che Rex Alamannie (cfr. la nota a I VII 6). Cfr. Ep V (ai Signori d’Italia per la discesa di Enrico VII) 19 «assurgite reg: vestro, incole Latiales», 23 «videte quoniam regerz nobis celi ac terre Dominus ordinavit»; Ep VI («scelestissimis Florentinis intrinsecis») 13 «iusti regis adventus»; nell’epistola VII «domino Henrico divina providentia Rorzanorum Regi et semper Augusto» l'epiteto di rex si profonde, esteso anche al figlio Giovanni «regius primogenitus tuus et rex» (18). La curia, a differenza dell'aula, è composta di membra, il che rende possibile l’esistenza della curia italiana «licet corporaliter sit dispersa».
ETSICUT MEMBRA... UNITA SUNT: l’espressione gratiosum
lumen rationis è stata tirata nelle più varie direzioni. Da Marigo, sulla scia di Solmi (1922) e di Ercole (1927-28), in direzione giuridico-poli-
tica: «dal gratiosum lumen rationis proviene la coscienza che hanno gli italiani d’essere gli eredi diretti dei diritti imperiali di Roma». Interpretazione che trova un qualche appiglio nell'espressione giuridica me228
De vulgari eloquentia I XVIII 4-5
brio si trova solo nelle curie eccelse, ne deriva che ogni cosa che nei nostri atti è ben equilibrata venga detta curiale. Quindi, poiché questo trova il suo equilibrio nella più eccellente curia degli italiani, merita di esser detto curiale. [5] Ma dire che trova il suo equilibrio nell’eccelsa curia degli italiani sembra una burla, dato che siamo privi di una curia. Al che si risponde facilmente. Infatti, anche se la curia, nel senso di una curia unita, com'è la curia del re di Germania, in Italia non c’è, le sue membra però non
mancano. E come le membra di quella si uniscono nella persona unica di un Principe, così le membra di questa dievale ratio scripta nel senso di diritto romano, espressione in qualche modo echeggiata da Dante nell’uso di ragione, ma in senso giuridico generale, in vari passi del Convivio: IV XII 9 «l’una e l’altra Ragione, Canonica dico e Civile»; nonché, con riferimento al corpus giustinianeo e alla Glossa, IX 3, IV XIX 4, XXIV 17 (Degesto); II XXIV 2 (Istituzioni); IV XIX 4 (Glossa accursiana), come ben esplicita Passerin d’Entrèves
(1955, pp. 98-101). Questa interpretazione giuridico-politica convive peraltro in Marigo, non si sa come, con una linguistico-letteraria, per cui l’“attuazione” del volgare illustre avviene «per virtù d’arte, cioè per un lumen rationis, in parte intuitivo e in parte razionale, dei più nobili scrittori» (p. LXX). L'intervento di Passerin d’Entrèves ha il merito di riconoscere che «lumen rationis è espressione tomistica, e forse una del-
le più caratteristiche», e che «l’idea che Dante sembra avere in mente quando fa riferimento al lurzen rattonis è sostanzialmente affine a quella di san Tommaso» (p. 106), con riscontri pertinenti, anche se l’autore si schermisce che «non vuol esser questa una insinuazione [!] che Dante l’abbia presa in blocco dall’ Aquinate» (avvertenza ben sintomatica del clima conseguente alla zelante tomistizzazione operata dal padre Busnelli nell'edizione 1937-44 del Convivio). Passerin d’Entrèves ritiene quindi che Dante non abbia in mente «un riferimento preciso a un corpo positivo di leggi come quelle romane», ma piuttosto un «concetto astratto di norma», «una regola di condotta e ... un vincolo col-
lettivo che gli italiani possono trovare assumendo a loro guida il grtiosum lumen rationis»; e peraltro «la graziosa luce della ragione può e deve unire gli italiani rivelando loro quale è il maggiore e più forte vincolo d’una nazione: l’unità della lingua» (pp. 105-6). Per Vinay (1959, p. 271) «il lurzen rationis... non sarà ... “la” ragione, ma quel particolare momento della ragione che, quando il principe c’è, è incarnato da lui» (qualunque cosa ciò significhi). Per capire, scrostando le superfe229
De vulgari eloquentia
lumine rationis unita sunt. Quare falsum esset dicere curia carere Ytalos, quanquam Principe careamus, quoniam
curiam habemus, licet corporaliter sit dispersa. tazioni, occorre ripartire da san Tommaso, probabilissimo retroterra immediato dell’originale espressione dantesca. La quale in san Tommaso non si trova, mentre vi si trovano, entrambe molto frequenti, le espres-
sioni lumzen rationis e lumen gratiae. Il lumzen rationis, naturale, costituisce la lex interior capace di guidare rettamente le azioni umane. Così in un passo che presenta due concordanze letterali piuttosto stringenti col nostro capitolo: Super Sententiis II, d. 42, q. 1,a.4, ad 3 «lex enim interior est ipsum lurzer rationis, quo agenda discernimus [cfr. «curialitas nil aliud est quam librata regula eorum que peragenda sunt]: et
quidquid in humanis actibus [cfr. «quicquid in actibus nostris»] huic lumini est consonum, totum est rectum; quod autem contra hoc lumen est, homini est innaturale et malum; et pro tanto malum dicitur, quia
prohibetur interiori lege». Così in un altro passo, in cui il lumen rationis orienta ilcomportamento in questo caso non etico ma politico dell’uomo, guidandolo a conseguire il suo fine di animale sociale, per il quale specificamente è stata data all’uomo e solo all’uomo la ratio: De regno I, cap. 1, co. «Est autem unicuique hominum naturaliter insitum rationis lumen, quo in suis actibus dirigatur ad finem... Naturale autem est ho-
mini ut sit animal sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat. Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum, defensionem, ut dentes, cornua, ungues, vel saltem velocitatem ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a natura praeparato, sed loco omnium data est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non sufficit». Questo brano, già segnalato da Passerin d’Entrèves (1955) e giustamente valorizzato da Rosier-Catach 2011, pp. 145-7, si trova in massima evidenza all’inizio del De regno, opera il cui titolo stesso è pertinentissimo al presente capitolo. Il brano connette illurzen rationis alla politicità dell’uomo, in esatto parallelo al nesso fra quest’ultima e la locutio da cui prende l’avvio tutta l’argomentazione del De vulgari (cfr. la nota a I II 2). Entro lo stesso brano, si noti: «Et si quidem homini conveniret singulariter vivere, sicut multis animalium, nullo alio diri-
gente indigeret ad finem, sed ipse sibi unusquisque esset rex sub Deo summo rege, in quantum per luzzen rationis divinitus datum sibi, in suis actibus se ipsum dirigeret». Il /uzzzer rationis stesso, naturale, è dunque
dato da Dio. E, se in alcuni passi lurzer rationis e lumen gratiae sono contrapposti (Su72724 Theologiae Ila-Iae, q. 171, a. 5, arg. 3 «maiorest certitudo quae est per divinum lumen quam quae est per lumen rationis 230
De vulgari eloquentia I XVII 5
sono unite dal divino lume della ragione. Per cui sarebbe falso dire che gli italiani mancano di una curia, perché una curia l'abbiamo, anche se fisicamente è dispersa. naturalis»; Ila-IHae, q. 173, a. 4, arg. 2 «lumen prophetiae est excellentius quam lurzen rationis naturalis»; Super Sententiis III, d. 14, q. 1, a. 3, qc. 1, co. «hoc enim vel est /umzen naturale, sicut in his quae
cognoscuntur per rattonem naturale: vel lumen gratiae, sicut in his quae cognoscuntur per fiderz et revelationeno»; Summa Theologiae Ia-Iae, q. 109, a. 1, co. «intellectus humanus habet aliquam formam, scilicet ipsum
intelligibile lumen, quod est de se sufficiens ad quaedam intelligibilia cognoscenda, ad ea scilicet in quorum notitiam per sensibilia possumus devenire. Altiora vero intelligibilia intellectus humanus cognoscere non potest nisi fortiori lumine perficiatur, sicut lurzire fidei vel prophetiae; quod dicitur /urzer gratiae, inquantum est naturae superadditum»), più spesso san Tommaso rimarca l’origine divina del /urzen rationis: Summa contra Gentiles III, cap. 162, n. 8 «Hoc ... auxilium ... est ifusio gratiae ... Adiuvat etiam Deus hominem contra peccatum per naturale lumen rationis, et alia naturalia bona quae homini confert»; Sura Theologiae Ia-Ilae, q. 19, a. 4, co. «Signatum est super nos /urzen vultus tut, domine, quasi diceret, lurzen rattonis quod in nobis est, intan-
tum potest nobis ostendere bona, et nostram voluntatem regulare, inquantum est /urzen vultus tui, idest a vultu tuo derivatum»; Summa Theologiae Ia-Iae, q. 91, a. 2, co. «signatum est super nos lurzen vultus
tui, domine, quasi lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et malum, quod pertinet ad naturale legem, nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis. Unde patet quod lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura»; De veritate, q. 11, a. 1, co. «rattonis lumen ... est nobis a Deo inditurm, quasi quaedam similitudo increatae veritatis in nobis resultans»; Super Psalmo 30, n. 13 «Lumen rationis nihil aliud est quam quaedam participatio divini luminis». La matrice filosofico-teologica dell’espressione gratiosur lumen rationis è quindi chiarissima. A chiusura del primo libro, coniando (a quanto pare) tale espressione, Dante ha voluto suggellare la sua teoria linguistica — vulgaris locutio cuore della politicità dell’essere umano, vulgare illustre cuore della virtuale «excellentissima Ytalorum curia» — con un sintagma forte che sintetizzasse la razionalità autonoma, se non radicale (certo radicalmente antitemporale), e insieme l’inattaccabile ortodossia teologica, della teoria stessa. QUARE FALSUM... SIT DISPERSA: l'affermazione quasi provocatoria che la curia, invisibile, esiste si fonda quindi esclusivamente sul fatto che esistono individui (pochissimi) portatori di razionalità, del divino dono della razionalità, coin-
cidente con la legge interiore che guida rettamente il comportamento 231
De vulgari eloquentia
XIX. Hoc autem vulgare quod illustre, cardinale, auli-
cum et curiale ostensum est, dicimus esse illud quod vulgare latium appellatur. Nam sicut quoddam vulgare est invenire quod proprium est Cremone, sic quoddam est invenire quod proprium est Lombardie; et sicut est invenire aliquod quod sit proprium Lombardie, est invenire aliquod quod sit totius sinistre Ytalie proprium; et sicut omnia hec est invenire, sic et illud quod totius Ytalie
est. Et sicut illud cremonense ac illud lombardum et tertium semilatium dicitur, sic istud, quod totius Ytalie est, etico e quello politico, attraverso i quali l’uomo realizza il proprio fine terreno. Questa razionalità etico-politica si specifica in curzalitas, e il possesso del vu/gare curiale è uno dei semplicissima nonché nobilissima signa «earum que Latinorum sunt actiones» (I XVI 3). XIX 1. HOC AUTEM VULGARE.... LATIUM APPELLATUR: dopo aver
“trovato” razionalmente, per via deduttiva, il volgare 77
che sia
unità di misura di tutti gli altri (cap. XVI), e dopo averne definito, at-
traverso i quattro epiteti qui ripetuti, le caratteristiche essenziali (capp. XVII-XVIII), ora Dante dedica questo ultimo capitolo del libro I a “dimostrare” che il volgare così definito è il volgare di tutta l’Italia, che
merita quindi di essere chiamato tout court vulgare latium. Si noti questa seconda accezione del binomio, ben diversa da quella messa avanti in I X 3 «tractatum nostrum ad vz/gare latium retrahentes, et receptas in se variationes dicere nec non illas invicem comparare conemur» e XI 1 «Quam multis varietatibus lato dissonante v/gari», dove vulgare latium significava la totalità dei volgari municipali d’Italia, all’interno della quale ricercare la «decentiorem atque i//ustrem Ytalie ... loquelam», cioè appunto quello che sarà poi individuato col nome di vulgare illustre, a cui Dante ora vuol assegnare il nome di vu/gare latium.
NAM SICUTQUODDAM... LATIUM VULGARE VOCATUR:
si tratta indubbiamente «di un procedimento astratto di ascesa dal particolare al generale, paragonabile a quelli di Mr I MI 2; V 5 sgg.» (Mengaldo). Questi due passi della Monarchia illuminano sull’impianto del De vulgari. Il primo (I Il 2) paragona il distinto fine di parti del corpo quali il pollice, la mano, il braccio e dell’intero corpo a quello di consessi umani vieppiù ampi: «sic alius est finis ad quem singularem hominem, alius ad quem ordinat domesticam communitatem,
alius ad quem viciniam, et alius ad quem civitatem, et alius ad quem regnum, et denique optimus ad quem universaliter genum humanum Deus ecternus arte sua, que natura est, in esse producit». Da notare
232
De vulgari eloquentia I XIX 1
XIX. Ora, questo volgare che è stato dimostrato illustre, cardinale, aulico e curiale, affermiamo che è quello che si
chiama volgare italiano. Infatti, come si può trovare un certo volgare che è proprio di Cremona, così se ne può trovare uno che è proprio della Lombardia; e come se ne può trovare uno che sia proprio della Lombardia, così se ne può trovare uno che sia proprio di tutta la parte sinistra dell’Italia; e come si possono trovare tutti questi, così si può trovare anche quello che è di tutta l’Italia. E come il primo si chiama cremonese, il secondo lombardo e il terzo semi-italiano, così questo, che è di tutta l’Italia, st chiama il seguito (3): «Propter quod sciendum primo quod Deus et natura nil otiosum facit, sed quicquid prodit in esse est ad aliquam operationem»: stesso concetto che in VE I Il 1-2, e motivo per cui questi ul-
timi capitoli del libro I, al di là dell’immediata, totale negatività dei giudizi sui volgari municipali che si era dispiegata ai capp. XI-XV, recuperano una ragion d’essere e un valore dei volgari locali. Il secondo passo (I v 5-10) ricalca ampliandola la rassegna dalla una domus (col suo paterfamilias) al vicus unus, alla una civitas, all’unum regnum, alla Monarchia sive Imperium. Tuttavia, non mi sembra necessariamen-
te da scartare #7 toto, come valuta Mergaldo, il giudizio di Marigo che «il ragionamento non è tutto un’astrazione». L'esempio del cremonese e del lombardo sarà stato probabilmente sostenuto da una qualche conoscenza, favorita dal primo soggiorno presso Bartolomeo della Scala, di una produzione che poteva effettivamente essere localizzata a Cremona (Gerardo Patecchio, Uguccione da Lodi) e della «copiosa produzione didascalica dugentesca, fiorita nella Lombardia e nella zona veronese finitima» (Marigo; cioè Bonvesin de la Riva, Pietro da Bescapè, Giacomino da Verona). Beninteso, lo schema è a priori, come
è eteronoma la partizione fra macro-area dialettale “lombarda” e romagnola (I XIV 2-4). Ma le parlate ed eventualmente i testi direttamente esperiti saranno stati percepiti almeno come compatibili con il modello 4 priori di un progressivo innalzamento dal particolare al generale, o come diremmo noi conguaglio sovramunicipale ed embrionale avvicinamento a una kozré. E non sarà mancata a Dante esperienza di dialetti e testi veneti, bolognesi e romagnoli che potessero
presentarglisi, in i aggiunta ai lombardi, come base empirica per il volgare «totius sinistre Ytalie proprium». È questo, il vulgare semilatium, che ci appare al più alto grado astratto, aprioristico e anti-empirico. Ma, se pensiamo che il vero crinale appenninico, nell'esperienza e per233
De vulgari eloquentia
latium vulgare vocatur. Hoc enim usi sunt doctores illustres qui lingua vulgari poetati sunt in Ytalia, ut Siculi, Apuli, Tusci, Romandioli, Lombardi et utriusque Marchie viri. cezione di Dante, è quello tosco-emiliano-romagnolo (cfr. le note a I IX 4, X 4, XI 6, XIV 1), il vu/gare serzilatium di destra e quello di sini-
stra (dato che sulla presunta distinzione fra apuli di destra e di sinistra non poteva sapere e infatti non dice nulla: cfr. I X 5-6 e XII 7) corrispondono di fatto ai volgari centro-meridionali e a quelli settentrionali, distinzione tutt’altro che priva, anzi sovraccarica, di realtà empirica. HOCENIM...IN YTALIA: all’inizio di questo paragrafo il vulgare illustre, cardinale, ecc., che si era fino a quel punto identificato in pra-
tica con la lingua della poesia alta, era stato promosso a vulgare latium: da lingua dei poeti a lingua degli italiani. Ora, a riprova (ew) che quest’ultimo titolo era giustificato, Dante rimanda di nuovo all’unica documentazione disponibile per questo volgare, comunque lo si voglia chiamare, e cioè a quella dei «doctores illustres qui lingua vulgari poetati sunt in Ytalia», sottolineando appunto come essi siano dispersi un po’ in tutta Italia. Riguardo a queste due accezioni di vu/gare illustre ovvero latium, cioè lingua dei poeti/lingua degli italiani, evidentemente diverse, che coesistono nel trattato trapassando l’una nell’altra con passaggi impliciti, zone d’ombra e latenti contraddizioni, si è sviluppata una discussione fra Marigo, che nel suo commento tendeva a neutralizzare le possibili contraddizioni con giri di parole; Vinay, che in una serie di interventi (1956, 1959, 1962) le drammatizza-
va persino con cavilli eccessivi; e Merga/do, il quale tiene fermo che gli unici ad attestare l’italiano illustre sono i poeti (vedi invece come interpreta Vinay 1959 I XVII 5), ma riconosce che esiste in effetti una contraddizione perché, «mentre alla fine del primo libro si stabilisce l'equazione volgare illustre = vu/gare latium, tutto quello che ci resta del secondo stabilisce invece che il volgare illustre è la lingua dello stile sommo e solo di esso» (1968, p. LXIX). Da cui il suo giudizio, in accordo con Vinay, sulla «problematicità, ed episodicità, di questa identificazione di volgare illustre e volgare senz'altro italiano». Su tutta la questione cfr. il bilancio di Pagani 1982, capp. «Lingua dei poeti, lingua degli italiani» (pp. 87-154) e «Una soluzione complessa fra tradizione e rinnovamento» (quella di Mengaldo, pp. 155-92). In realtà l’identificazione di volgare illustre e volgare italiano è tutt'altro che episodica, anzi è strategica; e non è affatto contraddittoria nella logica del De vu/gari, anzi è la sua ragion d’essere: essendo lo scopo ultimo del trattato quello di dimostrare l’eccezionale valore politico dell’opera dei poeti, i quali (senza esserne nemmeno loro consapevoli) hanno trovato scrivendo quel vulgare latium unico che deve razional234
De vulgari eloquentia I XIX 1
volgare italiano. Questo infatti hanno usato i maestri illustri che hanno poetato in lingua volgare in Italia, come i siciliani, gli apuli, i toscani, i romagnoli, i lombardi e gli uomini dell’una e dell’altra Marca. mente esistere, per la doppia reductio ad unum esplicata nei capp. XVI e XIX, e al quale essi semplicemente danno corpo, mentre senza di loro empiricamente non esisterebbe. DOCTORES: questo titolo, già attribuito a livello romanzo, in IIX 2, a quelli che inI X 2 vengono chiamati vulgares eloquentes, e che qui viene ribadito, è notevolissimo. Gli sporadici precedenti sono eterogenei e non rapportabili all'universo concettuale di Dante: il senese Ruggeri Apugliese, L’arzor di questo mondo 66 «Io fui Ruggieri Apugliese dottore» (ed. De Bartholomaeis 1926; «inconfondibile formula canterina» di un «giullare professionista», Contini 1960, I, pp. 883-4); Laudario Cortonese 8, A/tissimza luce 16 «Gargo doctore di voi, donna, canta» (probabilmente identificabile con un notaio, ser Garzo dell’Incisa in Valdarno); Guittone, Franchez-
za, segnoria 7 «Né saggio chi poeta né dottore» (ma non si riferisce a poeti volgari); Monte Andrea, Eo saccio ben 16 «di mia sentenza ciascun “dottor” passo»; il lucchese Gonella degli Anterminelli, Una rason
(indirizzato al notaio Bonodico da Lucca) 8 «che tutto sa chi è dottor di rima» («designazione professionale dei rimatori», annota Contini 1960, I, p. 278). Ma nell’incomparabile contesto argomentativo del De vulgari il titolo assume ben altro peso, rifinisce il concetto di r24gistrare, magistratus ‘magistero’ (I XVII 2-3), ed è fortemente simbolico della tendenziale e tendenziosa legittimazione della poesia volgare nella sfera del sapere universitario. UT SICULI, APULI ... UTRIUSQUE MARCHIE VIRI: questo elenco riepilogativo contiene due contraddizioni rispetto ai poeti volgari effettivamente citati nel trattato quale è giunto a noi. Infatti, siciliani e apuli sono i fondamentali poeti della scuola federiciana (cap. XII); i toscani sono gli altrettanto fondamentali fiorentini più Cino di XIII 4, culminanti nella ricorrente coppia di punta «Cynus et amicus eius»; i romagnoli sono gli altrettanto fondamentali bolognesi (dato che Bologna appartiene alla Rorzandiola, ctr. la nota a I X 5) di XV 6, più i due poeti faentini di XIV 3, appendice politicamente connotativa dei bolognesi. Ma i poeti lombardi, finora, non si sa chi siano: non Sordello, naturalmente (XV 2); di ferraresi,
modenesi, reggiani (e s'intenderà anche parmensi) Dante ci tiene a dire positivamente che «nullum ... poetasse» (XV 4); e i piemontesi (che per lui dovevano rientrare fra i Lombardi) sono fuori questione (XV 7). L'unico che sarà nominato, più avanti, è il fantomatico «Gottus Mantuanus, qui suas multas et bonas cantiones nobis oretenus in-
timavit» (II xl 5). E gli «utriusque Marchie viri» presentano due 235
De vulgari eloquentia
[2] Et quia intentio nostra, ut polliciti sumus in princi-
pio huius operis, est doctrinam de vulgari eloquentia tradere, ab ipso tanquam ab excellentissimo incipientes, quos putamus ipso dignos uti, et propter quid, et quomodo, nec non ubi, et quando, et ad quos ipsum dirigendum sit, in inmediatis libris tractabimus. [3] Quibus illuminatis, in-
aporie. La prima è formale, perché le Marchie nominate nel trattato non sono due ma tre: I X 5 «Ianuensis Marchia ... Marchia Anconitana ... Marchia Trivisiana» (la «Anconitana Marchia» di nuovo in XI 3). A questo proposito, è probabile che Dante qui avesse in mente, come dà per scontato Margo, la Marca Trevigiana e quella Anconetana, contigue a Lombardia e Romagna. L'aporia sostanziale è che l’unico poeta appartenente a una Marchia nominato è il padovano Aldobrandino dei Mezzabati (XIV 7) della Marchia Trivisiana. XIX 2. ET QUIA INTENTIO NOSTRA ... DE VULGARI ELOQUENTIA
TRADERE: riprende alla lettera l’icipit «Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam inveniamus tractasse». AB IPSO ... INCIPIENTES: se riguardiamo nel suo insieme il primo libro che qui si conclude, notiamo che, dopo l’icipit appena citato e qui ripreso, intitolato alla «vulgaris eloguentie doctrina», il primo capitolo si concludeva (I I 5) con la promessa di trattare non la vulgaris
eloquentia ma la vulgaris locutio. E a ciò è in effetti dedicata la maggior parte del primo libro. Ma nella trattazione (capp. XI-XV) del vulgare latium - s'intende nel senso (a) di totalità dei volgari municipali d’Italia, e quindi ancora nell’ambito della vulgaris locutio — emergono qua e là le testimonianze del vu/gare illustre, aulicum, ecc.,
il quale evidentemente si colloca sul piano della vu/garis eloguentia. Questi capitoli dunque si muovono alternatamente su due piani, il piano basso dei vu/garia municipalia parlati «a terrigenis mediocribus» e il piano alto del vu/gare illustre “attinto” dai poeti, che viene poi fregiato del titolo di ve/gare latium nel senso (b) di volgare sommo che è solo dell’Italia intera e non è specifico di nessuna città o regione. Il primo piano attiene alla vu/garis locutio, il secondo attiene alla vulgaris eloguentia, come evidenziano perfettamente le denominazioni di eloquentes doctores (I IX 2), vulgares eloquentes (I X 2), eloquentes (I XII 9), date ai poeti. Il vulgare illustre, cardinale, aulicum, curiale = vulgare latium (b) appartiene totalmente alla dimensione della vulgaris eloquentia — sia che lo intendiamo come “lingua dei poeti” (che è la sua unica realtà documentata), sia che lo intendiamo come “lingua degli italiani” (che è la sua proiezione politica 236
De vulgari eloquentia I XIX 2-3
[2] E poiché la nostra intenzione, come abbiamo promesso all’inizio di questa opera, è di fornire una trattazione dell’eloquenza volgare, cominceremo da esso, come
da quello che fra tutti è eccellente. Nei primi libri, perciò, tratteremo di quali autori riteniamo siano degni di usarlo, e per quale scopo e come, nonché dove e quando, e a chi esso vada rivolto. [3] Una volta chiarito questo, ci cunon ancora documentata). È quindi ovvio che la trattazione analitica, tecnica, della vw/garis eloquentia partirà nel libro II «ab ipso tanquam ab excellentissimo».
QUOS PUTAMUS IPSO DIGNOSUTI: «la
dimostrazione sarà fatta in II I, per giungere a questa conclusione (II Il 1): “non omnes versificantes, sed tantum excellentissimos illustre uti vulgare debere”» (Marigo). PROPTER QUID: «la dimostrazione si farà in II II, concludendosi che si deve usare il volgare illustre per cantare tre supremi argomenti: salus, venus et virtus» (Marigo).
NEC NONUBI... AD QUOS: «queste tre parti che riguardano
le circostanze esteriori per la composizione nel volgare illustre sono riunite insieme e con rec non distinte dalle tre prime ...: avrebbero potuto fornire materia breve per concludere opportunamente il secondo libro» (Marigo). IN INMEDIATIS LIBRIS TRACTABIMUS: «con inmediati si accenna al secondo e al terzo libro, non al quarto che era [cioè avrebbe dovuto essere] dedicato ai volgari, agli stili ed alle forme metriche inferiori ... Il terzo libro aveva forse per argomento,
come suppose il Rajna, la prosa d’arte; in questo caso poteva valere per lo sviluppo della trattazione la stessa divisione schematica delle parti, assunta per la trattazione della poesia alta» (Marigo). Ipotesi probabile, dato che il volgare mediocre e quello umile (vedi la nota al $ 3) sarebbero stati trattati nel quarto libro, e tutta la scaletta dei temi attinenti al volgare sommo in poesia sarebbe stata esaurita nel secondo: sembra quindi molto logico che il terzo fosse programmato per il volgare sommo in prosa. XIX 3. QUIBUS ILLUMINATIS ... PROPRIUM EST: questo program-
ma è coerente con il modello di interazione positiva fra il volgare superiore e i volgari inferiori prospettato nei capp. XVII-XVIII, so-
prattutto negli epiteti di ///ustre e ancor più di cardinale, con la dinamica regolativa a cui l’immagine del cardine allude. Su questo insistono giustamente Imbach — Rosier-Catach 2005 e Rosier-Catach 2011 (cfr. la nota a I XVII 1), sottolineando che l’idea di «reduc-
tio ad unum ir unoquoque genere» sta agli antipodi dell’idea, o meglio della nostalgia, di un ritorzo all’unità linguistica che redima la 237
De vulgari eloquentia
feriora vulgaria illuminare curabimus, gradatim descendentes ad illud quod unius solius familie proprium est.
confusione babelica, di un ritrovarzento dell’unità come bene che
cancelli la molteplicità come male. Nonostante il fortissimo disvalore caricato sui volgari municipali (capp. XI-XV), che sembrano configurare una babele delle lingue tanto da porsi in risentita risonanza emotiva con l’epocale discrimine della torre (cap. VII), non è questa la prospettiva di Dante. Le interpretazioni che vanno in tale direzione, da quella di Dragonetti 1961 (a sua volta ispirato da Pézard 1950: cfr. l’analisi di Pagani 1982, pp. 65-85) a quella di Corti 1981a, pp. 60-77, che ne dipende, culminando nel «paradiso terrestre della poesia», non colgono il senso del progetto del De vu/gari: progetto politico, non regressivo ma teso alla costruzione razionale
della città terrestre. Rosier-Catach 2011 focalizza l’«autonomia dei generi», all’interno dei quali si dà la competente reductio ad unum: il che comporta che per ognuno dei livelli crescenti di politicità dell’uomo, dalla famiglia al villaggio alla città al regno (cfr. la nota al $ 1), si dà un legittimo e appropriato livello di vu/garis eloquentia. Fin dal livello minimo: Dante aveva infatti esordito dichiarando la vulgaris eloquentia «penitus omnibus necessariam ... cum ad eam non tantum viri sed etiam mulieres et parvuli nitantur, in quantum natura permictit», concetto ripreso qui in «ad illud quod unius solius familie proprium est». Questo in teoria, nel progetto. Come poi, all’atto della realizzazione, Dante avrebbe potuto trattare i volgari corrispondenti a comunità sub-italiane e/o a stili inferiori; se, vero-
238
De vulgari eloquentia I XIX 3
reremo di illuminare i volgari inferiori, scendendo gradatamente fino a quello che è proprio di una sola famiglia.
similmente, trattando il volgare mediocre e umile, avrebbe descrit-
to «il primo con caratteristiche regionali o interregionali, il secondo con caratteristiche regionali o municipali: ambedue però orientati verso quella unificazione per la quale era maestro e signore il volgare proprio totius Ytalie» (Marigo); e come avrebbe potuto trattare in positivo la dimensione municipale verso cui, nella pars destruens, aveva mostrato solo disprezzo, tutto questo non possiamo saperlo. Nel corso del secondo libro si danno quattro riferimenti a trattazioni che seguiranno, di cui tre (IV 1 e 6 e VIII 8) rimandano al quarto libro, mentre XIII 1 non rimanda a un libro precisato. Da questi riferimenti si deduce che il volgare mediocre e quello umile, in poesia, sarebbero stati trattati entrambi nel quarto libro, e così lo stile comico, essendo il tragico trattato nel secondo. Da ciò si trae general-
mente la conclusione che l’opera avrebbe dovuto essere di quattro libri, ma (come notava già D’Ovidio 1932b [1878], pp. 251-4) non è detto. Infatti, se è vero che il secondo libro era dedicato al volgare sommo in poesia e il terzo, secondo la plausibilissima ipotesi del Rajna, avrebbe dovuto esserlo al volgare sommo in prosa, allora può darsi che il quarto libro dovesse esaurire i volgari inferiori sia in poesia che in prosa, ma è altrettanto se non più possibile che, in analogia con il secondo e il terzo, a un quarto libro per la poesia, al quale rinviano i primi tre riferimenti dal secondo, fosse programmato che se ne affiancasse un quinto per la prosa. 239
Liber secundus
I. Sollicitantes iterum celeritatem ingenii nostri et ad calamum frugi operis redeuntes, ante omnia confitemur latium vulgare illustre tam prosayce quam metrice decere I 1. SOLLICITANTES.... INGENII NOSTRI: tutti e tre i manoscritti han-
no «celebritatem», e il solo T ha «Policitantes», da cui la traduzione
del Trissino (1529) «Promettendo un’altra volta la diligenzia del nostro ingegno» (Cittadini post 1600: «Promettendo ... la celebrità»). Ancora l'edizione Corbinelli (1577), benché il ms. G abbia la lezione giusta «Sollicitantes», stampa «Policitantes», evidentemente perché in rapporto a «celebritatem» nessuna delle due era soddisfacente. Bisogna aspettare l’edizione Fraticelli (1840) per l'emendamento «celeritatem», che rende anche evidente la giustezza di «Sollicitantes», e che Rajna
1896 accoglie con la spiegazione: «Quanto al celebritas, ch'io non saprei intendere se non in un senso troppo, e troppo goffamente immo-
desto, dovrà bene l’origine alla divulgazione della fama dantesca». «Celebritatem» è difeso con ragioni inconsistenti da Rossi? 1999, p. 89. Invece, in generale, la celeritas ingenti è dote dell’oratore in Cicerone,
De oratore II IVI 230 e Brutus 53; e specificamente «celeritatem ingenii nostri» richiama l’inizio del primo libro: «aquam nostri ingenii» di I11e «celeriter actendentes» — «vel, quod brevius dici potest» di 112. La rapidità della concezione e della scrittura è dunque una caratteristica peculiare del trattato che Dante vuol tematizzare, non sappiamo se per qualche precisa ragione contestuale; constatiamo che emerge solo all’inizio dei due libri, legata alla definizione veloce di un concetto pre-
liminare: la prima volta al definire sinteticamente (probare) il subiectum del trattato, la locutio; la seconda volta al chiarire subito che il volgare illustre pertiene tanto alla poesia quanto alla prosa. ET AD CALAMUM ... REDEUNTES: da queste parole, secondo D’Ovidio 1932b (1878), p. 248, «si vede chiaro, che tra l’uno e l’altro libro vi fu una sospen-
sione»; giudizio rifiutato da Marigo e generalmente non raccolto dai successivi interpreti. ANTE OMNIA ... DECERE PROFERRI: «Dante sembra voler correggere l’impressione lasciata dalla lettura del primo
libro, che il suo volgare illustre sia la lingua della sola poesia» (Gray240
Libro secondo
I. Stimolando di nuovo la prontezza del nostro ingegno, e rimettendo penna all’opera fruttuosa, dichiariamo anzitutto che è giusto usare il volgare illustre italiano sia in son 1972 [1963], p. 35). È senza dubbio questa la ragion d’essere della dichiarazione, messa in massima evidenza prima di ogni altra. Sullo sfondo, il sistema degli stili nel Medioevo, per cui, «in teoria, l’ars dic-
taminis comprendeva tanto la prosa quanto la poesia: questa è l’affermazione normalmente premessa alle artes dictandi pur se poi, in pratica, i testi si limitano a trattare solo dello stile epistolare in prosa ... l’ars dictaminis era suddivisa in tre dictamzina distinti, cioè il metrico, il ritmico e il prosastico ... nell’ars dictamzinis così classificata, il binomio
poesia-prosa viene dunque sostituito da un trinomio ... I confini tra poesia e prosa diventano sempre più sfumati» (Curtius 1992 [1948], pp. 168-9). «La riduzione teorica di prosa e poesia sotto denominatori almeno in parte comuni, che permettano la costruzione di una retorica valida per l’una e per l’altra e l'emissione di precetti ambivalenti, è in sostanza un fatto compiuto già nelle ar/es italiane precedenti il De vulgari eloquentia (anche se l’accento batte con assoluta prevalenza sui diritti della prosa), in Brunetto come nei retori bolognesi» (Mengaldo 1968, p. XL). Dante vuol porre il trattato come regolatore dell’intero campo della vu/garis eloquentia, di tutta la locutio vulgarium gentium, coerentemente con il suo titolo e con quanto aveva promesso fin dall’inizio; e con ciò accreditarsi come maestro non solo di poesia ma anche
di prosa; e parlare sia al pubblico dei rimatori sia a quello dei cultori di artes dictandi. Ne è spia anche la denominazione dictamen magnum per la canzone, II XII 7. Le artes dictandi, poi, avevano avuto e avevano in Italia due centri di eccellenza che sono due pilastri del De vu/gari: in passato la Magna Curia, che «fu all'avanguardia per ciò che riguarda la fioritura dell’epistolografia e delle artes dictandi. Qui, nell’attività di Pier delle Vigne e della sua cerchia ... e nell’eredità della scuola retorica di Capua, è forse il vero retroterra latino della scuola siciliana» (Brugnolo 1995, p. 272). E, nel passato come nel presente, Bologna, dove le artes dictandi avevano un radicamento più forte che 241
De vulgari eloquentia
proferri. Sed quia ipsum prosaycantes ab avientibus magis accipiunt et quia quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplar, et non e converso — que quendam videntur prebere primatum —, primo secundum quod in qualunque altro centro italiano (cfr. M. Pazzaglia in ED, s.v. ars dictaminis, pp. 394-6 e Pazzaglia 1967, pp. 77-87 e in particolare p. 82 nota 13). Più precisamente, il rz4gister bolognese Bene da Firenze, nel suo Candelabrum (1220-27), apprezza sia il prosaicum che il metricum dictamen (attribuendo al secondo qualità in sintonia con Dante: III 18 «totam gramaticam valde rectificat et prosaico dictamini multum venustatis contulit et honoris»), ma svaluta nettamente il rithrzicurz, cioè
la poesia volgare: III 19 «At rithmicum nostri temporis a molitie vulgaritatis processit, unde numquam in bonis et perfectis operibus invenitur» (cfr. Mengaldo 1968, pp. XLVII-L; Brugnolo — Verlato 2006, pp. 268-71). È probabilmente questo, preparato da questa tradizione, il pubblico al quale Dante vuol parlare, mostrandogli di conoscerne e condividerne i presupposti, ma con lo scopo di rovesciarne i pregiudizi e imporre la dignità magistrale della «doctrina de vulgari eloquentia». Non deve sfuggire che Dante usa retrice riferito alla versificazione volgare; e ripete r2etricur alla fine del paragrafo, e r2etra sempre riferito al volgare in II VII 7, X1 4 e 6. Antonio da Tempo, invece, manterrà la tripartizione ereditata: Sur22a II 37-9 «Nam dictaminum literalium secundum rhetoricos tria sunt genera, scilicet prosaicum, metricum, et rithimicum». È determinante il fatto che, nel De vu/gari, rithimus (30
occorrenze) sia dirottato a significare la rima, ma comunque il risultato è che la versificazione volgare viene così equiparata terminologicamente a quella latina. Un passo oltre alla distinzione ancora vigente in
Vn 16. 4 «ché dire per rimza in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione», e coerente con l’equiparazione della poesia volgare a quella latina sancita in sede di definizione della poesis, per cui vedi la nota a II IV 2. SEDQUIA IPSUM... PREBERE PRIMATUM: le due voci di Uguccione sottostanti ai due soggetti qui in gioco, iprosaycantes e gli avientes, sono importanti perché Dante vi trovava sviluppati i concetti che gli permettono di sostenere che la poesia, grazie ai suoi vincoli metrici, è capace di regolare il volgare altrimenti dissoluto della prosa; come afferma del resto in Cv I XII 6 «Ciascuna cosa studia naturalmente alla sua conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse, studierebbe a quella; e quella sarebbe aconciare sé a più stabilitate, e più stabilitate non potrebbe avere che [in] legar sé con numero e con rime». Uguccione, P 164 1-6 «PROSON grece, latine dicitur longum, productum vel prolixum vel rectum; unde ... et hec
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De vulgari eloquentia II I 1
prosa che in versi. Ma, poiché i prosatori lo prendono per lo più dai rimatori, e poiché il volgare che è stato messo in versi sembra restare come modello ai prosatori, e non viceversa — fatti che sembrano conferire un certo primato ai rimatori —, districhiamolo per prima cosa in quanprosa -e, oratio producta et a lege metri soluta, quasi a prolixitate verborum, quia non coartatur numero pedum vel sillabarum, sed in longum pro voluntate producitur; vel prosa quasi profusa, vel quasi prorua, quia proruat spatiose et excurrat nullo termino sibi prefixo ... et prosaicus -a ‘um, unde prosaico -as, prosaice scribere vel dictare»; U 25 1-2 «VIEO -es -evi vietum, idest vincire, ligare ... et hic et hec vates -tis,
sacerdos: quandoque sic dicitur poeta, quandoque propheta divinus, et dicebantur vates poete, quia metra ligarent pedibus et sillabis et verba modis connecterent». Passo a cui si collega Cv IV VI 3-4 «Questo vocabulo, cioè “autore” ... può discendere da due principii: l’uno si è uno verbo molto lasciato dall'uso in gramatica, che significa tanto quanto “legare parole” cioè “auieo” ... E in quanto “autore” viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che coll’arte musaica le loro parole hanno legate». Cfr. anche Brunetto Latini, Tresor III X 1 «La grant partison de toultes] parle[ures] est en .ii. manieres, une qui est en prose et une autre qui est en rime; mes li enseingnement de rethorique sont comun d’andous, sauve ce que la v[olie de prose est large et pleniere, si com est ore la comune parleure des genz, mes le sentier de rime est plus estrois et plus fors, si come celui qui est fermés et clos de murs et de palis, ce est a dire de poins et de nombre et de mesure certaine, de quoi l’en ne puet ne ne doit trespasser». Che di fatto la prosa del Duecento fosse influenzata, sul piano lessicale, sintattico e stilistico, dalla poesia, lo vediamo per esempio nelle lettere di Guittone, a proposito delle quali Segre 1974 (1952), p. 134, ha osservato che interi brani di poesia inseriti al loro interno «non fanno alcuno spicco nel loro tessuto ritmico e sintattico». Sull’osmosi fra artes dictaminis e artes ritbmice cfr. Pazzaglia 1967, pp. 92-100, che osserva (p. 97): «Quando Dante dirà che “(vulgare illustre) prosaycantes ab avientibus magis accipiunt” ... non farà che seguire la grande tradizione dettatoria». La constatazione che la poesia precede la prosa è topica nella trattatistica: cfr. Isidoro di Siviglia, Vincenzo di Beauvais (Menichetti 1993,
p. 29). CARMINEMUS: anche il verbo carzzinare ‘cardare’, cioè districare e pulire la lana, viene da Uguccione, C 44 6 «CARPO ... unde car mineus »: «ritmicamente il periodo ripete la figura dell'esempio precedente, con eguale partizione in tre membri (non più però isosillabici) terminanti rispettivamente in planus (marchiònis Estènsis), in velox (magnificèntia preparàta) o ancora in planus (facit èsse dilèctum); l’ordo artificialis, come si addice a un modulo non più “rigido”, compare con maggior discrezione, nel chiasmo (Laudabilis discretio — magnificentia preparata) e nell'ordine delle parole dell’ultimo membro; s’aggiunga il verbo al singolare per un doppio soggetto, generalmente non gradito ai grammatici del tempo. Di nuovo e più elevato c’è l’uso dell'ironia antifrastica, indubitabile dato che il protagonista è l’odiato Azzo VIII (vedi I XII 5 ...), bollato implicitamente d’avarizia nella precedente menzione ... qui è accusato anche di scarso discernimento ... Notevole, come indicato da Giuseppe Billanovich [1948, p. 15] ..., il probabilissimo ricordo di un passo del Liber de dictis philosophorum antiquorum [ed. Franceschini! 1931-32, p. 548] ...: “Hylarem ostendere vultum, salutare homines in dando recipiendoque, liberalem esse, et parti adversancium non haerere hominem faciunt esse dilectum”, col che meglio risulta il veleno dell’antifrasi satirica. In pre-
parata sarà da vedere un composto elativo, indotto dal cursus ... L'attribuzione del modulo a un grado di elaborazione retorica solo superficiale si spiega soprattutto di fronte all'esempio successivo, ben più ricco di invenzione stilistica» (Merga/do). Il contenuto della frase è di direttissima pertinenza bolognese. Azzo VIII, “il marchese” per antonomasia, era infatti il punto di riferimento indiscusso della fazione guelfa nera di Bologna, la parte geremea, che da lui prendeva appunto il nome di Pars Marchexana (vedi ilServentese dei Lambertazzi e dei 317
De vulgari eloquentia
lectum»; est et sapidus et venustus etiam et excelsus, qui est dictatorum illustrium, ut «Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia, nequicquam Trinacriam Totila seGeremei, ed. Contini 1960, I). Era l’alleato di Firenze nera e il capo
dell’intero territorio guelfo che chiudeva Bologna a nord e a ovest (Ferrara Modena Reggio, non per caso accomunate in I XV 4 dalla speciale accusa di non aver mai avuto e di non poter avere nessun poeta), e Dante lo rappresenterà come parricida (IfXII 111-2), mandante dell’assassinio di Iacopo del Cassero (Pg V 77), marito per forza di denaro della giovanissima Beatrice figlia di Carlo II d’Angiò (Pg XX 80-1). Soprattutto, nel momento in cui Dante scriveva questa pagina, era l’incombente aggressore contro il quale Bologna resisteva alleandosi con i ghibellini romagnoli in teoria suoi nemici. Anzi, proprio la minaccia estense aveva determinato, per reazione, il formarsi e consolidarsi del
regime guelfo bianco che permetteva a Dante, con ogni probabilità, di risiedere a Bologna in questi anni: «una lunga serie di congiure, che tentarono ripetutamente, nei successivi sei anni [a partire dal 1300], di consegnare la città a Azzo VIII d'Este», determinò per reazione «sentenze di condanna al bando e al confino» di esponenti “geremei”; nel
1303, «un nuovo complotto mise in luce l’alleanza fra questi [i “marchesani” bolognesi], i Neri fiorentini, l’Estense e Carlo di Valois»; il
che «promosse la formazione di una balia speciale, guidata dal giurista Bonincontro degli Spedali, che assieme al banchiere Romeo Pepoli provvide a punire duramente i ribelli attraverso le condanne a cui abbiamo fatto riferimento» (Milani 2003, pp. 382 e 384). DICTATORUM ILLUSTRIUM: dictatores è senz'altro da assumere «nel senso tecnico di ‘maestri della prosa d’arte’, come in Vr XXV 7 [= 16. 7] ...— ancora più specifica l’accezione di Mw III IV 11; Pg XXIV 5%; tenendo presente al tempo stesso che «il dictarzen magnum detto della canzone illustre a II XII 7 e la parificazione di esempi prosastici e poetici in questo capitolo» intendono unire le due categorie nel comune pubblico del trattato (Merga/do). «EIECTA MAXIMA PARTE ... TOTILA SECUNDUS ADIVIT»: «ciò che vi spicca non è già il cursus, pure presente nel tardus che chiude il primo membro del periodo e nel planus che suggella il secondo, ma altri effetti retorici, e in primo luogo la centrale transumptio per la quale Fiorenza è trasfigurata in una donna gentile dal cui seno sono strappati ifiori che l’adornavano» (Forti 1967, p. 135); «il modulo si differenzia dai precedenti soprattutto per l’uso della tecnica metaforico-simbolica continuata della transumptio, culmine dell’ornatus difficilis ... Proprio la transumptio rappresenta il minimo comun denominatore più portante tra la prosa eccelsa e la canzone illustre, che difficilmente potrebbe condividerne tuttele artificiosità ritmico318
De vulgari eloquentia II VI 4
rendono caro»; e c’è quello saporito e aggraziato ed eccelso, che è dei dettatori illustri, come «Strappata la maggior parte dei fiori dal seno tuo, Firenze, invano in Trinasintattiche; e per la coscienza di Dante della transunzione come coef-
ficiente principe dello stile poetico vedi ... la coeva Ep III 4, dove si afferma di aver parlato, nella lirica allegata, “transumptive more poetico”» (Mengaldo). Il “secondo Totila” è Carlo di Valois, il figlio del re
di Francia inviato a Firenze da Bonifacio VIII come “paciere” fra Bianchi e Neri, il quale nel novembre 1301 sovvertì il governo dei Bianchi e determinò surrettiziamente la presa del potere da parte dei Neri. L'assimilazione a Totila, re dei goti, si basa sulla notizia, data da Giovan-
ni Villani nella sua Cronica, cap. I, che questi, non potendo espugnare Firenze con la forza, convinse i fiorentini «con false lusinghe e vane promessioni» ad aprirgli le porte e poi distrusse la città (distruzione attribuita invece a volte ad Attila, come in IfXIII 149 «sovra ’1 cener che d’Attila rimase»), proprio come aveva fatto Carlo di Valois, entrato subdolamente in veste di falso paciere. Carlo partì poi subito, lasciando Firenze in mano ai Neri, come capitano generale per riconquistare agli Angioini la Sicilia caduta sotto il dominio aragonese dopo la rivolta dei Vespri (1282), ma fallì nell'impresa e dovette firmare, il 31 agosto 1302, l’ingloriosa pace di Caltabellotta, che lasciava l’isola al regno di Federico III d'Aragona, con il nome appunto di Trinacria,
che non è neutrale, bensì è toponimo politico carico di disvalore per Dante: vedi la nota a I XII 3. L'esempio dantesco unisce dunque queste due azioni successive di Carlo (1301-2), evidenziandone sprezzantemente la capacità di vincere a tradimento, l’incapacità di vincere militarmente. E essenziale cogliere il significato politico di questo strale contro il secondo Totila: Carlo di Valois non era solo il responsabile dell’ingiusto esilio di Dante, esplicitamente richiamato dall’esempio retorico; era, al tempo stesso, il potente soggetto che complottava con i geremei bolognesi per consegnare la città all’Estense (vedi sopra). In questo terzo esempio, dunque, Dante instaura una perfetta solidarietà politica ed emotiva fra se stesso e la città a cui, io credo, si sta rivolgendo. Nei tre ultimi esempi c’è un crescendo di complessità insieme stilistica e tematica, su materia politico-biografica, che sembra distribuirsi precisamente sui tre stili di II IV 5-6. Il primo esempio è infatti un generico lamento per la pena dell’esilio («non sine — si direbbe — quodam elegie umbraculo»;, cfr. II XII 6); il secondo, che potrebbe dirsi comico-satirico, punta a Bologna, e sembra mirato a far scattare nel
pubblico bolognese l’indignata identificazione contro il nemico comune; il terzo, tragico, unisce il tema dell’esilio, ma non più espresso
in prima persona, a quello dell’attacco politico, nominativo ma dotta319
De vulgari eloquentia
cundus adivit». [5] Hunc gradum constructionis excellentissimum nominamus, et hic est quem querimus cum
suprema venemur, ut dictum est. [6] Hoc solum illustres cantiones inveniuntur contexte, ut Gerardus: Si per mos Sobretos non fos;
Folquetus de Marsilia: Tan m’abellis l’amoros pensamen;
mente nobilitato, in una testura dantescamente condensata. La singo-
lare scelta di produrre, per illustrare la constructio volgare, esempi latini accredita la competenza dell'autore come dictator. VI 5. UT DICTUM EST: al $ 3 («sola supprema venamur»), che a sua volta rimandava a II Il 6 «Nunc autem que sint ipsa venemur», ecc.
VI 6. HOCSOLUM... INVENIUNTUR CONTEXTE: «in effetti gli esem-
pi successivamente citati sono accomunati, oltre che dalla generale
presenza di modi transuntivi, da un periodare robustamente strutturato e complesso, con ricchezza di subordinate (spesso anche a inizio di componimento), tendenza ad abbracciare l’intero periodo con un arco sintattico unitario, allitterazioni prolungate», ecc. (Mergaldo). In che ordine Dante ha inteso mettere le ben undici canzoni (cinque provenzali, una francese, cinque italiane) citate di seguito? I manoscritti presentano un ordine certamente alterato, «forse a causa di ag-
giunte nell’autografo non comprese bene dal copista dell’archetipo» (Mengaldo). L'ordine di B è: Giraut, Re di Navarra, Folchetto, Arnaut, Aimeric de Belenoi, Guinizelli, Cavalcanti, Giudice di Messi-
na, Cino, il suo amico, Aimeric de Peguilhan. L'ordine di GT è uguale fino a Cavalcanti, poi: Cino, il suo amico, Aimeric de Peguilhan dislocato dopo le parole «Nec mireris ... ad memoriam», e il Giudice di Messina omesso. Nonostante questa alterazione dell’ordine, è
condivisibile (anche per analogia con l’elenco di II v 4) che «Dante faccia i conti con la cronologia, invertendo ora l’ordine fra Giraldo e
Arnaldo (venute meno le ragioni della graduatoria precedente fondata sui concetti salus — venus — virtus), e inserendo fra loro Folchetto di Marsiglia, che aveva effettivamente lasciato l’amoroso canto quando Arnaldo era ancora attivo», così mostrando «cura evidente della cronologia e ... senso della storia ... l'impronta di un sia pur embrionale, ma certo personale e originale, tentativo di sistemazione sto-
riografica, parallelo a quello che Dante esperisce per la lirica italiana 320
De vulgari eloquentia II VI 4-6
cria il secondo Totila si spinse». [5] Questo grado della costruzione lo chiamiamo eccellente, ed è quello che ricerchiamo, come si è detto, quando andiamo in caccia di
ciò che è supremo. [6] Solo di questo si trovano intessute le canzoni illustri, come quelle di Giraut: Si per mos Sobretos non fos;
Folchetto di Marsiglia: Tan m’abellis l’amoros pensamen;
dai siciliani allo Stilnovo» (Folena 2002 [1961], p. 235).
GERARDUS
... NON FOS: nell’ed. Sharman 1989 nella forma Si per mon Sobre-Totz non fos, ‘Se non fosse per il mio Sopra-tutti’. Il signore soprannominato “Sopra-tutti,” come informa la 220, èRamon Bernartz de Rovigna, che esorta Giraut a cantare, nonostante egli sia depresso, in piena primavera, per la decadenza di joy, chansons, prets presso i grandi signori. «Largo respiro del periodo che si snoda, abbracciando anche, in pause sapienti, un’intera stanza: così avviene nella prima che ritrae, con immaginosa antitesi, la gioiosa primavera ed il dolore del poeta» (Marigo).
FOLQUETUS DE MARSILIA ... AMOROS PENSAMEN: ‘Tan-
to mi piace l’amoroso pensiero’; nella forma Tart m'abellis l’amoros
pessamens nell’ed. Squillacioti 1999 (valorizza la lezione tràdita dal De vulgari Chiamenti 1997, p. 82). Dante «vi avrà ammirato il largo periodare, che si sviluppa in ogni stanza, dove signoreggia da solo il “superbissimum carmen”, l’endecasillabo» (Marigo). Sull’elaborata
costruzione e l'impianto filosofico della canzone: «sie ist h6chst artifiziell und gedanklich kompliziert, da sie sich die logischen Beweisverfahren der scolastischen Philosophie (Syllogimus; “Pro et contra”; Paradoxe; Kasuistik) zunutze macht» (Hausmann 1984, p. 46). «Dan-
te è il testimone più illustre della memorabilità di Folchetto e in particolare di Tant m'abellis, canzone che lo accompagna lungo tutta la sua attività poetica», dal sonetto Genzi/ persero (Vn 27) al commento a Voi che ’ntendendo in Cv II VI-VII (dove si danno «occorrenze della famiglia lessicale, poco comune in Dante, derivata da abbellire»), tanto che la canzone di Folchetto sembra aver agito sul «motivo ispiratore dell’intero ciclo della “donna gentile”» (Squillacioti 1993, pp. 588-9). E la battuta di Virgilio «tanto m’aggrada il tuo comandamento» (IfII 79) ricalca l'incipit folchettiano (Perugi 1978a, p. 122); il cui sintagma iniziale apre ben quattro componimenti trobadorici, 321
De vulgari eloquentia
Arnaldus Danielis: Sols sui che sai lo sobraffan che-m sorz;
Namericus de Belnui: Nuls hom non pot complir addreciamen;
Namericus de Peculiano: Si con l’arbres che per sobrecarcar; Rex Navarre: Ire d’amor que en mon cor repaire;
Iudex de Messana: Ancor che l’aigua per lo foco lassi;
fra cui uno di Sordello, ed è rifatto in toscano da Dante da Maiano (Sì m'abellio) e Chiaro Davanzati (Sì m'abelisce: Squillacioti 1993, p. 601), prima di aprire («Tan m’abellis vostre cortes deman») la serzzocinatio provenzale dell’ Arnaut dantesco in Pg XXVI 140-7. Il lussurioso penitente Arnaut reciterà la sua palinodia per la «pasada folor» (Perugi 1998, pp. 66-7) prendendo a prestito le parole del beato segnato da Venere, Folchetto, il quale a sua volta «gets the better of the exchange, for in the heaven of Venus he speaks with a language more reminiscent of Arnaut's than any of the Provengal verses chanted in the refining fire» (Bergin 1965, p. 22). Peraltro, il discorso di Arnaut in chiusa di Pg XXVI «è leggibile come la riuscita emulazione di una stanza di canzone provenzale, rapportabile ad un istituto preciso della canzone dantesca, il congedo ... si tratta della sphragîs autonominantesi con cui il trovatore sigilla ben quindici canzoni su un totale a noi giunto di diciotto testi: la collocazione costante in sede di congedo non potrà non considerarsi pertinente con l’ipotesi di un congedo anche metricamente tale, sulla bocca dell’ultima anima di purga-
torio» (Allegretti 1998, p. 3). ARNALDUS DANIELIS ... CHE-M SORZ:
Sols soi qui sat lo sobrafan quem sors nell’ed. Perugi 1978b, ‘Solo io so il grande affanno che mi nasce’. Canzone di soli endecasillabi, che
presenta un solo ampio periodo per stanza. NAMERICUS DE BELNUI ... COMPLIR ADDRECIAMEN: ‘Nessuno può adempiere perfettamente’; nella forma Nu/ls bom non pot complir adreizamen nell’ed. Poli 1997. Citata anche in II XII 3 per la stanza di soli endecasillabi. Quan322
De vulgari eloquentia Il VI 6
Arnaut Daniel: Sols sui che sai lo sobraffan che-m sorz;
Aimeric de Belenoi: Nuls hom non pot complir addreciamen;
Aimeric de Peguilhan: Si con l’arbres che per sobrecarcar;
il Re di Navarra: Ire d’amor que en mon cor repaire;
il Giudice di Messina: Ancor che l’aigua per lo foco lassi;
to al gradus constructionis, le cinque stanze sviluppano solo periodo complesso. La forma Namzericus presenta della particella onorifica (E). Aimeric de Belenoi, «se aver mai operato in Italia, ci ha lasciato però una poesia cademica in difesa di alcune gentildonne italiane» (Folena p. VIII).
ciascuna un concrezione non sembra galante e ac2002 [1961],
NAMERICUS DE PECULIANO ... PER SOBRECARCAR: ‘Come
l’albero che per sovraccarico’; nella forma Sicur l’albres que per sobrecargar nell’ed. Shepard —- Chambers 1950. Canzone di soli endecasillabi. Aimeric de Peguilhan «ha svolto gran parte della sua attività in Italia, alle corti di Monferrato e d’Este e altrove», per cui con la
citazione dei due Aimerici «sembra profilarsi, dopo il culmine segnato dalla triade dei maggiori, l'avvicinamento progressivo della poesia provenzale all’Italia, nella diaspora duecentesca, fino alla contiguità storica coi siciliani» (Folena 2002 [1961], p. VIII). REX NAVARRE... COR REPAIRE: Dante attribuisce erroneamente al Re di Navarra, Thibaut de Champagne, questa canzone di Gace Brulé: nell’ed. Rosenberg — Danon 1985 Ire d’amors qui en mon cuer repaire, ‘Cruccio d’amore che prende sede nel mio cuore?. I due trovieri sono entrambi della Champagne, ma la tradizione manoscritta non attesta tale scambio. Secondo Contini (1970, p. 410), dell’incipit di Gace «è certo un'eco nell’inizio guinizzelliano A/ cor gentil rempaira sempre Amore».
IUDEX DE MESSANA ... PER LO FOCO LASSI: già citata senza
nome d’autore in I XII 2 (vedi la nota relativa), primo fra gli esempi di canzoni “gravi” dei doctores siciliani, nonostante la stanza di soli 323
De vulgari eloquentia
Guido Guinizelli: Tegno de folle empresa a lo ver dire;
Guido Cavalcantis: Poi che di doglia cor conven ch'io porti;
Cynus de Pistorio: Avegna che io aggia più per tempo; sei endecasillabi contro tredici settenari (Guido delle Colonne è peraltro il più incline all’endecasillabo fra tutti i siciliani). GUIDO GUINIZELLI ... A LO VER DIRE: nella forma Tegno:! di folle ’mpres’, a lo ver dire nell’ed. Rossi! 2002b. «Ancora in larga misura tributaria delle tecniche siciliane e del magistero guittoniano (nonché della tradizione lirica oitanica)» (Rossi), sviluppa «il tema cavalleresco della dissennatezza di chi temerariamente si espone ... ai colpi di chi è più forte di lui», Amore; la «tecnica dell’alto dittare, insieme col lessico eletto, ora provenzaleggiante, ora latineggiante, persuase certo Dante a porre questa canzone come alto esempio del “gradus constructionis excellentissimus”» (Marti 1969, p. 43). Riprese dantesche da questa canzone sono, per i vv. 1-2, If II 34-5; per i vv. 3-4, Pd XXX 85-6.
GUIDO CAVALCANTIS ... CH'IO PORTI: in quanto stanza isola-
ta di canzone, equivalente della cobla esparsa provenzale, genere minore «per la poesia d’occasione, per gli scambi poetici, e anche per la poesia amorosa di minore impegno stilistico rispetto a quella praticata nella canzone» (Beltrami 2002 [1991], $ 192), Poi che di doglia sembrerebbe inadatta a esemplificare il «gradus constructionis excellentissimus». Ma Tanturli 1984, dopo aver evidenziato «la stretta affinità fra Poi che di doglia e la prima stanza, ossia il proemio di Dorne ch'avete [esempio dantesco di tragica coniugatio, Il VII 8, XII 3], proprio in certe movenze sintattiche e retoriche [decisamente ampie e solenni],
in ciò, quindi, che Dante vi trovava di eccellente» (p. 7), ha dimostrato che «per il significato letterale, per il lessico specifico, per la struttura sintattica ... Poi che di doglia è stanza proemiale di canzone» (p. 11), il che giustifica pienamente la sua citazione a questo punto del De vulgari. Tanturli ha inoltre dimostrato che non si tratta di canzone mutila, ma monostrofica, che «si ferma al proemio, applicando alla lettera ciò che lì era dichiarato, l'impossibilità di svolgere la materia proposta» (p. 21), cioè l’innamoramento «come invasamento o possessione» (e l'aggettivo fo/le al v. 8, «ma per lo folle tempo che m'ha giunto», si collega all’irzcipit della canzone guinizelliana precedente); 324
De vulgari eloquentia II VI 6
Guido Guinizelli: Tegno de folle empresa a lo ver dire;
Guido Cavalcanti: Poi che di doglia cor conven ch'io porti;
Cino da Pistoia: Avegna che io aggia più per tempo; il che comporta, nel radicale cambiamento tra fronte e sirma, «la ri-
nuncia a una poesia di argomento doloroso» (p. 9: cfr. v. 9 «fare’ne di pietà pianger Amore») e l'adozione di un atteggiamento opposto: v. 12 «sì ch'io non mostro quanto sento affanno». Ciò che, si può aggiungere, segna proprio l'abbandono di quel registro “elegiaco” che sembra essere un obiettivo polemico del De vu/gari (cfr. le note a II IV 5-6 e XII 6). Dante imita l’artificio della canzone interrotta in Sì lungiamente m°ha tenuto Amore (Vn 18), «come espressione di alta e diretta drammaticità»: la canzone resta interrotta per la morte di Beatrice. Sì lungiamente mostra peraltro (oltre all’evidente ripresa dell’incipit di Guido delle Colonne Arzor che lungiamente m'hai menato, cfr. I XII 2, II V 4) strette consonanze metriche e sintattiche con
l’altra stanza isolata (o meglio canzone monostrofica) del Cavalcanti Se m'ha del tutto obliato. Camboni 2002 ha poi dimostrato che le “stanze isolate di canzone” italiane si riducono a nove soltanto, tutte
stilnovistiche fiorentino-pistoiesi, fra cui La vostra disdegnosa gentilezza di Cino, e sono tutte in realtà canzoni monostrofiche (quindi in nessun modo un genere minore) scritte sul modello precisamente di Poi che di doglia nei primi anni Novanta: il che aumenta, sia per Dante che per Cino, la risonanza di questa citazione.
CYNUS DE PISTO-
RIO ... PIÙ PER TEMPO: nella forma Avegna ched el m'aggia più per tempo in Marti 1969 e nell’ed. De Robertis 2002 delle Rie di Dante. Secondo la comunicazione di De Robertis riportata da Mengaldo, «dei dodici testimoni finora reperiti nessuno ha la testimonianza trasmessa da Dante ... Mi domando se non si possa trattare di una variante di tipo redazionale». È la canzone consolatoria in morte di Beatrice, che ripete la struttura strofica e le rime di Donna pietosa, la
canzone di Vx 14 (che sarà qui citata in II XI 8) in cui Dante narra la «vana imaginazione», avuta in un sogno allucinato, della morte della donna amata, e inoltre ha stretti contatti con la canzone Gli occhi dolenti (Vn 20). «La prevalenza corale degli endecasillabi e lo stile “tragico” indussero Dante a porre questa fra le “illustres cantiones” esem325
De vulgari eloquentia
amicus eius: Amor che ne la mente mi ragiona.
[7] Nec mireris, lector, de tot reductis autoribus ad
memoriam: non enim hanc quam suppremam vocamus constructionem nisi per huiusmodi exempla possumus indicare. Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios plari» (Marti 1969, p. 720); e ancor più, presumibilmente, la devozione testuale dell’amico, per cui «Cino ripropone a Dante, con una nuova motivazione e come rimettendoli in ordine, gli “exempla” della propria fedeltà alla sua parola» (De Robertis 2005, p. 428). AMICUS EIUS... MIRAGIONA: è la canzone commentata nel terzo libro del Convivio, dedicata, come Voi che 'ntendendo commentata nel secondo,
alla «donna gentile» da identificare con la Filosofia, secondo la lettura allegorica imposta dalla prosa del Convivio. Sia che tale allegoria venga interpretata come originaria, sia che venga interpretata come
sovrapposta alle due canzoni, originariamente scritte per una donna reale, la «donna gentile» della Vita Nova, comunque Arzor che nella
mente è l’unica canzone allegorica citata nel De vu/gari (cfr. la discussione sul significato di ficto in nota a II IV 2). Il musico Casella, incontrato sulla spiaggia del purgatorio, e richiesto da Dante di consolare col canto la sua fatica infernale, intonerà proprio questa canzone, il cui incipit diventa il v. 112 di Pg II, «sì dolcemente, / che la dolcez-
za ancor dentro mi suona» (vv. 113-4). Episodio pertinente alla discussione intorno al “divorzio” fra poesia e musica (vedi, riassuntiva dell’intera questione, la nota a II X 2), dato che proprio le canzoni filosofiche appaiono le meno musicabili, le più probabilmente “divorziate” dalla musica; e forse il significato dell’episodio consiste proprio nel connotare la canzone come amorosa e non filosofica (dolce, non sottile), smentendo la sovrastruttura allegorica imposta dal Convivio, in sintonia col ritorno a Beatrice che è uno dei significati fondanti del poema. Ma qui nel De vu/gari la canzone doveva avere per Dante lo stesso valore che ha nel Convivio, ed è suggestivo ipotizzare che l’accostamento delle ultime quattro canzoni dell’elenco possa alludere, con un collegamento di senso “privato” inscritto nel testo, all’irpasse in cui si chiude l’amore folle (aggettivo che accomuna i primi due
testi), che Cavalcanti addirittura mette in scena con l’artificio della canzone monostrofica “interrotta”, e alla via d’uscita non più beatri326
De vulgari eloquentia II VI 6-7
il suo amico: Amor che ne la mente mi ragiona.
[7] E non meravigliarti, o lettore, che si richiamino alla memoria tanti autori: questa costruzione che chiamiamo suprema, infatti, non possiamo mostrarla se non attraver-
so esempi di questo genere. E forse la cosa più utile per acquisirne l’abito sarebbe aver studiato i poeti regolati, vale a dire Virgilio, l’Ovidio delle Metazzorfosi, Stazio e Lucano, ciana (la canzone di Cino ricorda che Beatrice è morta) ma filosofica additata da Dante come la via aperta al futuro per la poesia italiana. VI 7. NEC MIRERIS ... POSSUMUS INDICARE: «Dante scusa la copia degli esempi come il solo mezzo capace di definire la sua intenzione, ma è, come spesso avviene, un’abbondanza che non fa centro» (Conti-
ni 1970 [1968], p. 439). Dante può solo “additare” esempi senza esplicitarne la razzo (significativo il verbo deittico per eccellenza, indicare):
in parte perché, come i dettatori, non aveva né interesse né competenza per l’analisi delle strutture sintattiche (vedi la nota al $ 1); in parte perché la sua ricerca di poeta era in questa fase aperta, come dimostra l’ampia varietà delle esperienze stilistiche proprie, oltre che altrui, convogliate negli esempi. ET FORTASSIS ... STATIUM ATQUE LUCANUM: sono i poeti latini di Dante, «i poeti latini più citati nel Convivio» (Mengaldo), e i poeti della «bella scola» del Limbo (If TV 88-90): «quelli è Omero poeta sovrano; / l’altro è Orazio satiro che vene; / Ovidio è ’l
terzo, e l’ultimo Lucano», oltre ovviamente a Virgilio che nomina gli altri. Tolto Omero, perché greco, tolto «Orazio satiro», che là è inserito
per rappresentare lo stile comico (Tavoni 1998, pp. 10-2 e 23-7), qui non pertinente; e aggiunto Stazio, che nella Commedia è dislocato nel purgatorio perché convertito. Il fortassis è parso problematico perché sembra configurare in questo caso una «presenza ... facoltativa» (Grayson 1972 [1963], p. 38) dei modelli latini, «che di fatto rende meno perentorio il principio della necessaria imitazione dei classici» (Mengaldo 1968, pp. XLIX-L nota 2). Ma credo che la spiegazione consista nel distinguere fra poeti e prosatori. Gli autori latini che in Il IV 3 vengono additati, in effetti perentoriamente, all’imitazione sono i poeti: «Idcirco accidit ut, quantum illos [i «magni poete, hoc est regulares, quia magni sermone et arte regulari poetati sunt»] proximius imitemur, tan-
tum rectius poetemur». Che addirittura dei prosatori latini possano fungere da modelli peripoeti volgari, è una cosa in più che Dante dice qui per la prima volta, per di più in controtendenza rispetto al principio che 327
De vulgari eloquentia
qui nisi sunt altissimas prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et multos alios quos amica «ipsum [il volgare illustre] prosaycantes ab avientibus magis accipiunt et ... quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplar, et non e converso» (II I 1), e quindi la dice in forma dubitativa. Nella solita condensazione dell’espressione dantesca, fortassis viene a coprire sintatticamente tanto i poeti quanto i prosatori, ma una spia della diversa esperienza di Dante rispetto ai due gruppi è nei diversi tempi verbali: «vidisse» dice un’esperienza già compiuta, cioè la lettura dei poeti, che Dante in effetti ha letto, da anni, e il cui ruolo di modelli è indubbio; mentre «quos amica sollicitudo ros visitare invitat» dice un’esperienza, cioè la lettura dei prosatori (e que prosatori, tre dei quali rarissimi: vedi sotto), che è molto più insolita, in corso, e almeno in parte ancora da compiere, la cui utilità per educare sintatticamente il poeta volgare Dante avanza quindi dubitativamente, e insieme con molto interesse, come dice la combinazione dei segnali di eventualità con il superlativo: «fortassis utilissimzum foret». Ilfortassis, psicologicamente, è tutto proiettato sulla seconda parte del periodo, introdotta dal rec r0r, che dovremo sentire in senso forte: ‘nonché’, con il valore di ‘e persi-
no’.
QUINISISUNT ALTISSIMAS PROSAS: cambio la lezione «usi sunt»,
invalsa da sempre: Trissino 1529 e Cittadini post 1600 «che hanno usato altissime prose», Corbinelli 1577 «qui usi sunt altissimas prosas», e così fino a Rajna 1896, Bertalot 1917, Marzgo, Panvini 1968, Mengaldo 1968, ecc. Ma i manoscritti hanno B «nisi», a tutte lettere, Ge T «n(isi)»,
con la normale abbreviazione (# soprascritta alla 7), che ricorre molte altre volte senza dar luogo a nessuna incomprensione. Perché invece qui Trissino e Corbinelli hanno ritenuto di dover emendare la lezione del rispettivo manoscritto (materialmente, attraverso la correzione mar-
ginale «usi», in T per mano del Trissino, in G per mano del Corbinelli: cfr. Rajna 1896, pp. XX-XXXI e XL-XLI1)? E perché tutti gli editori successivi, anche dopo la scoperta di B, li hanno seguiti, pur di fronte
all'evidenza della tradizione unanime? Perché in quella parola, per secoli, tutti hano visto solo la congiunzione r/sî, che non dà senso, dal
momento che in quella posizione può stare soltanto il participio passato, maschile plurale, di un verbo deponente. Di qui l'emendamento, mai più rimesso in discussione, «usi», che produce una frase scadentissima, per due ragioni. La prima è che utor con l’accusativo, pur attestato in latino medievale, non è nell’uso di Dante: 10 occorrenze nella Monarchia e 2 nelle Epistole sono tutte con l’ablativo; e delle 21 del De vulgari 14 reggono l’ablativo (I V 2; VI 1, 3,4; VIT8; XIX 2; II 1V7;v2 [due volte], 7; VII 3; X 2; XII 4; XIII 2); 2 potrebbero anche essere con
l’accusativo ma non c’è ragione di non considerarle normalmente con 328
De vulgari eloquentia II VI 7
nonché altri che hanno partorito prose altissime, come Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, e molti altri che una l’ablativo (I XIX 1; IT XII 3); e solo 5 reggono l’accusativo (e sono tutte
stranamente concentrate nei capp. I e II del libro II: I 2 [due volte], 3,
8; Il 1). La seconda ragione è che “ci si serve” di una lingua (I VI 1, 3, 4; VII8; XIX 1, 2; IT12, 3, 8; II1; VIT3), di uno stile (IIIV 7), diun tipo di verso o di un numero pari o dispari di versi (II V 2, 7; XII 3,4), di un
tipo di stanza (II XI 2; XIII 2); ma non ci si può “servire” di altissime prose. Queste si potranno solo “produrre”, o qualcosa del genere, come le poesie di II Il 2: «sua poemata multimode protulerunt». È sfuggito che r57èil participio passato di ritor (proprio come in II XI 13 «Hoc etenim nos facere r/s7 sumus»), per cui soccorre il calzantissimo parallelo di I XII 4 «quicquid excellentes animi Latinorum eritebartur primitus in tantorum coronatorum aula prodibat». La goffa azione di “usare” altissime prose cede quindi alla elevata, appropriata e “tragica” metafora (virgiliana e ovidiana) del “partorire” altissime prose. Il dubbio se sia il caso di apportare il lieve emendamento «enisi», dato che in latino classico solo eritor, non ritor, è anche transitivo, è risolto dal vo-
cabolario di riferimento di Dante, le Derivationes magnae diUguccione, che ci confermano che la lezione dei manoscritti va bene così com'è: N 46 1 «NITOR -ris nisus, vel nixus, idest laborare, gradi, conari et parere: nam in partu maximus labor et conatus est».
UTTITUM LIVIUM...
ET MULTOS ALIOS: «il nome dei quattro scrittori citati ... desterà la più grande meraviglia» (Marigo); «lista abbastanza sorprendente e misteriosa sia per le inclusioni che per le esclusioni (soprattutto Cicerone)» (Mengaldo). Dei quattro, l’unico largamente diffuso nell’età di Dante e a lui veramente familiare è Orosio: lo si ricava non solo dal Convivio, dalla Monarchia e dalla Comedia, per i quali Dante attingerà a piene mani dalle Historiae adversus paganos tanto l’informazione storica quanto la visione provvidenziale dell'Impero romano (vedi la voce Orosto, Paolo di A. Martina, in ED, pp. 204-8); ma anche dal De vulgari, dove Orosio rappresenta la principale fonte geografica per la descrizione dell'Europa e dell’Italia nei capp. VINI-X del primo libro: la sua opera è certamente uno dei primi fra i «poetarum et aliorum scriptorum volumina quibus mundus universaliter et membratim describitur» (I VI 3) che Dante dice di aver compulsato, e direi proprio appositamente per prepararsi a scrivere il De vu/gari. Per gli altri tre autori - Frontino decisamente peregrino, ma anche Livio e Plinio (e quale Plinio?) molto rari all’epoca di Dante — vedi sotto. QUOS AMICA SOLLICITUDO NOS VISITARE INVITAT: visitare nello stesso senso in II II 7. Marigo interpreta: «i libri degli scrittori antichi ... che, spinto dall’amore per la scienza, vado a visitare nelle biblioteche, come amici silenziosamente elo-
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De vulgari eloquentia
sollicitudo nos visitare invitat. [8] Subsistant igitur ignorantie sectatores Guictonem Aretinum et quosdam alios extollentes, nunquam in vocabulis atque constructione
plebescere desuetos. quenti». Cioè Dante sentirebbe una so/licitudo interiore che lo spinge a visitare questi libri, e la qualificherebbe come arzica perché amici sarebbero i libri. Analogamente Mergaldo: «che un affettuoso interesse ci spinge a visitare». È invece chiaramente giusta l’interpretazione di Renucci 1954, p. 72: «“les auteurs qu’une amicale insistance nous convie
à fréquenter.” “Amicale insistence” équivaut à dire “l’insistence d’un ami”. En somme, Dante se serait vu conseiller, et peut-étre offrir par un
ami, la lecture des prosateurs qu'il vient d’énumerer» (visitare nello stesso senso in II II 7). Un uso simile di 277/045 aggettivo (‘di un amico’) è nell’Egloga I di Giovanni del Virgilio, Pyeridum vox alma 48 «quod visare notis me dignareris amicis» (‘che ti saresti degnato di visitarmi con lettere amiche’), e una zur2ctura perfettamente uguale alla nostra, in vol-
gare, è nel sonetto di Dante (a Dante da Maiano) Savete giudicar7 «emagina l’amica openione», per cui cfr. la nota di C. Giunta in Opere [Meridiani], I, p. 90: «‘l’opinione dell’amico, il mio amichevole parere’, ma con un uso dell’astratto in luogo del concreto (ovvero, come in latino,
dell’aggettivo in luogo del genitivo possessivo: cfr. Leumann ... Szantyr 1965, pp. 60-1) ben appropriato allo stile sostenuto del dictarzer (come si dice /a sede regia invece di la sede del re)». Si tratta, ne sono convin-
to, di una precisa allusione personale: un amico ha suggerito a Dante alcune letture estremamente specifiche. Può trattarsi solo di un amico determinato; anzi, per saper dare un suggerimento così peculiare, dev’essere un amico con caratteristiche culturali peculiari. Arzzicus, nel De vul-
gari, è parola riservata a una sola persona: in sei casi su sei compare nel sintagma cristallizzato «amicus eius» (cfr. la nota a I X 2), a designare Dante in quanto amico di Cino da Pistoia. Si può formulare l’ipotesi che anche l’«amica sollicitudo», in linea col messaggio che tutto il testo comunica, alluda a Cino. Cino sarebbe un candidato adattissimo per il
rapporto unico che lo lega a Dante in questo momento, e appare abbastanza plausibile per fisionomia culturale, date le citazioni di autori classici di cui dissemina i suoi scritti giuridici (Monti 1924, cap. VIII La col
tura di Cino, pp. 170-2); fra iquali però dei nostri quattro autori compare solo il più ovvio, Orosio. Ma una circostanza molto più stringente orienta in altra direzione. Tutti e tre gli autori più imprevisti, Livio, Plinio e Frontino, ognuno dei quali a questa data è una rarità, puntano alla Biblioteca Capitolare di Verona (che peraltro possedeva anche Orosio «et multos alios»): in essa, infatti, si trovavano eccezionalmente riuniti le 330
De vulgari eloquentia II VI 7-8
sollecitudine amica ci invita a visitare. [8] Desistano dun-
que i seguaci dell’ignoranza, che esaltano Guittone Aretino e altri che non hanno mai smesso di essere plebei nei vocaboli e nella costruzione.
Epistulae di Plinio il Giovane, retoricamente anche più interessanti della Naturalis historia di Plinio il Vecchio; la I e la III deca di Livio,
e probabilmente anche la IV; gli Stratagemata di Frontino: cfr. Sabbadini 1967 (1905-14), I, pp. 2-19 e II, pp. 224, 231-3, 241-3; Avesani 1976, p. 120; Billanovich 1981, cap. VIII Livio e Catullo nella cattedrale di Verona. A Verona, presso Bartolomeo della Scala, Dante
aveva risieduto dalla tarda primavera del 1303 ai primi mesi del 1304 (sulla data di questo soggiorno, oltre a Petrocchi 1994 [1966] e in ED, Appendice, Biografia, pp. 32-3, vedi ora Indizio 2004). Vedo con piacere che alla stessa conclusione giunge Gargan 2009, pp. 176-7. La probabilità che l’«amica sollicitudo» sia di uno degli «scopritori veronesi» che fra gli ultimi anni del Duecento e i primi del Trecento illustrano Verona come uno dei primissimi centri preumanistici italiani, e di cui Dante sarà diventato familiare, mi sembra altissima: lo «scrivano Francesco», l’anonimo «florilegista», il mansionario della
Capitolare Giovanni de Matociis? Personaggi dissepolti sulla scia di Sabbadini, operanti alla Capitolare in quegli anni, che meritano certamente un supplemento d’indagine in rapporto a Dante. VI 8. SUBSISTANT IGITUR ... PLEBESCERE DESUETOS: ritorna la con-
danna senza appello di Guittone già espressa in I XII 1, là appuntata sul municipalismo linguistico («Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit»), qui sulla volgarità lessicale e sintattica. Condanna che resterà una costante, fino a Pg XXIV 55-7 («il nodo / che ’1 Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch'i’ odo!») e XXVI 124-6 («Così fer molti antichi di Guittone / di grido in grido pur lui dando pregio, / fin che l’ha vinto il ver con più persone»). La condanna di Dante, sintetizza Mengaldo (1968, pp. XCIXC), è diretta «al poeta che non solo aveva potentemente influenzato gli inizi dell’Alighieri, e preparato più di un aspetto dello “Stilnovo” nel suo complesso, ma senza il quale, in particolare, l’edificio della grande poesia dottrinale dantesca, che è alla base della poetica del De vulgari eloquentia, e del Convivio, difficilmente sarebbe stato costruito»; è il tentativo, proprio per questo più aggressivo, «di liquidare in sede critica una presenza di fatto così ingombrante: e che altro era per Dante quel precursore e tiranno culturale che, a suo modo, aveva esperito tutti i possibili corollari della tematica curiale di tradizione provenzale e siciliana, dall’itinerario amore cortese-pentimento religioso alla 331
De vulgari eloquentia
VII. Grandiosa modo vocabula sub prelato stilo digna consistere successiva nostre progressionis presentia luci-
dari expostulat. [2] Testamur proinde incipientes non minimum opus esse
rationis discretionem vocabulorum habere, quoniam perplures eorum maneries inveniri posse videmus. Nam vocabu-
lorum quedam puerilia, quedam muliebria, quedam virilia; et horum quedam silvestria, quedam urbana; et eorum que urbana vocamus, quedam pexa et lubrica, quedam yrsuta fissazione in forme “didattiche” delle convenzioni erotiche, alla deduzione di una prosa lirico-dettatoria dai modi della poesia, e soprattutto ai magnanimi tentativi di poesia impegnata sui rzagnalia morali e perfino sul terreno della contesa politica?». Occorre anche focalizzare che l'attacco di I XIII 1 è contro Guittone, questo è contro i suoi sostenitori. I quali andranno collocati, come fa Mengaldo (p. CI) sulla scia di
Santangelo, «nel contesto dell’ambiente letterario bolognese — ed emiliano-romagnolo e in genere settentrionale - che nonostante Guinizzelli era ancora zona di egemonia guittoniana e siculo-toscana, per lo più refrattaria alla penetrazione della nuova scuola, come insegnano specialmente la figura di Onesto e le difficoltà incontrate da Cino nei suoi rapporti con lui» (cfr. su questo intreccio le note a I XIV 3, XV 6); nonché sullo sfondo del «guittonismo casentinese», delle radicate persistenze di Guittone, che di quel mondo era stato il poeta, nelle corti dei conti Guidi di tutti irami «fra Tuscia e Romandiola», il mondo nel quale Dante si era trovato immerso nei primi anni dell’esilio (vedi in particolare «Un incontro con Guittone», in Carpi 2004, pp. 580-622). I due nunguar, nelle due formule di condanna qui e in I XIM 1, negano valore a ognuna delle molte esperienze letterarie lanciate da Guittone e battute dai suoi seguaci. VII 1. GRANDIOSA MODO VOCABULA ... DIGNA CONSISTERE: era
una costante della tradizione retorica antica e medievale la suddivisione del lessico in “strati” attinenti allo stile basso, medio, alto, e quindi la
selezione del lessico appropriato allo stile sublime: «da Quintiliano, che dimostra (VIII XVI 3) essere “alia [vocabula] aliis honestiora, sublimiora, iucundiora, vocaliora”, a Matteo di Vendòme che ampiamente tratta (Ars versif. II 1-46) della formazione di aggettivi, sostantivi e ver-
bi che conferiscono l’ornatus poetico» (Marigo). Analogo uso di sub in I IV 1 «sub quo ydiomate», I IX 4 «sub eadem civilitate» e 9 «sub in-
variabili ... sermone», II IX 6 «sub certo cantu et habitudine». PROGRESSIONIS PRESENTIA: «vocaboli astratti invece dei concreti, colla 332
De vulgari eloquentia II VII 1-2
VII. I vocaboli grandiosi degni di stare nel dominio dello stile eminente: su questo richiede ora che si faccia luce la presente tappa del nostro percorso. [2] Attestiamo dunque, per cominciare, che il saper selezionare i vocaboli non è il compito minore della dottrina, perché vediamo che se ne possono trovare svariate specie. Infatti alcuni vocaboli li sentiamo come puerili, altri come femminili, altri come virili; e di questi alcuni come selvatici, altri come urbani; e di questi che chiamiamo urbani, alcuni pettinati e scivolosi, altri folti e arruffati. consueta conversione del verbo nel sostantivo, secondo lo stile detta-
torio e poetico» (Marigo).
LUCIDARI: cfr. II 1.
VII 2. NON MINIMUM OPUS ESSE RATIONIS: rat70nis può significa-
re ‘ragione’, come intendono Marigo («non è lievissimo compito della ragione») e Mergaldo («non è un’impresa da poco per la ragione»), ma più probabilmente significa ‘dottrina’, analogamente al provenzale razo, come più avanti in questo stesso paragrafo e al $ 6, e come in I XI 2 «protestantes eosdem in nulla vulgaris eloquentie ratione fore tangendos», II XII 1 «et ideo rationem faciamus de illa»; e cfr. II IV 3
«Unde nos doctrine operi intendentes». QUEDAM PUERILIA, QUEDAM MULIEBRIA, QUEDAM VIRILIA: «non tantum viri sed etiam mulieres et parvuli» dichiarava fin dall’inizio (11 1) la stessa tripartizione della universalità dei soggetti a cui è necessaria l’eloquenza volgare; e fra essi il posto più alto spetta ovviamente ai virz. Il discorso è in sintonia con la definizione del Convivio come opera «temperata e virile», contro la giovanile Vita Nova «fervida e passionata» (CvII 16); «la contrapposizione fra vocaboli “virili” e “femminei” è anche aristotelica» (Mergal-
do).
QUEDAM SILVESTRIA, QUEDAM URBANA: «si/vestria non andrà
inteso come ‘boscherecci’ (Marigo), ma più latamente come ‘rustici’», al pari di «rusticanus a I XI 6; XVII 3; IT I 6, nel secondo caso proprio in
opposizione a urbanus, nonché [cfr.] Goffredo di Vinsauf, Poetria nova 83-4 “... ut corpus verborum / non sit agreste, / sed civile”»(Mengaldo). La urbanitas è caratteristica del volgare illustre nel suo insieme in I XVII 3, della «constructionis elatio» in II VI 4, della «excellentia vo-
cabulorum» nel presente capitolo. PEXA ET LUBRICA ... YRSUTA ET REBURRA: questi aggettivi «abbinati antiteticamente e parallelamente ... richiamano immaginosamente le caratteristiche dei tessuti di lana e di seta» (Marigo), a partire dalla metafora fondante del textus, che nel
De vulgari compare sotto forma del derivato contextus, carminum et rithimorum, in Il XI 1, XI 1, e per cui cfr. Gorni 1993, p. 145. «Così la
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De vulgari eloquentia
et reburra sentimus. Inter que quidem, pexa atque yrsuta sunt illa que vocamus grandiosa, lubrica vero et reburra vocamus illa que in superfluum sonant; quemadmodum in magnis operibus quedam magnanimitatis sunt opera, quedam fumi: ubi, licet in superficie quidam consideretur ascensus, compages del periodo risulta da una testura di vocaboli che, secondo la loro maggiore o minore finezza o rozzezza, daranno ... quasi una stoffa di lana finemente pettinata (pex4), robustamente (yrsuta) o ispidamente villosa (reburra), o un tessuto di seta, liscio e sdrucciolevole
(lubrica). Le immagini dovevano affacciarsi spontanee al Poeta, nato nella città dove fiorivano le industrie della lana e della seta» (Marigo);
«ma la traslazione in senso estetico-retorico di vocaboli appartenenti a quest'ambito nozionale era cosa tradizionale» (Mergaldo, con rimandi a Gondissalvi, Alano di Lilla, Matteo di Vendòme, Goffredo di Vinsauf, dove compare in particolare l’aggettivo pexus, perpexus). importante notare che Goffredo di Vinsauf identifica i «verba perpexa» con l’orzatus: «per “pexionem” designamus ornatum, sicut cum dicitur “Verba habes perpexa”, id est “ornata”» (Faral 1924, p. 286); Poetria nova 1943-4 «Ecce dedi pecten, quo si sint pexa relucent / carmina tam prosae quam metra». «If the literary theorists use pexa as a
word of praise to denote some kind of polish or elegance, they use hirsuta in a condemnatory sense for what should be avoided. Matthieu de Vendòme expressely lays down that the writer should take care “ne ex penuria ornatus hirsuta verborum aggregatio in metro videatur mendicare” ... on the principle that no one makes a festal garment from goat's wool». Così Bowra 1952, pp. 468-9, che conclude giustamente: «This was the traditional view, and Dante revolutionizes it by claiming that both “combed” and “shaggy” words are needed ina full style, since they contribute equally to an ultimate grandeur. In this he may well have had Arnaut in mind and have learned something from him». La differenza fra l’attributo positivo pex4s e il negativo /ubricus emerge bene dalle definizioni di Uguccione: P 49 1 «PECTO -is -xui ... idest pectinare, pectine ornare; et inde pexs -a -um et pexi77 adverbium, idest ornate»; L 1 4 «/ubricus -a -um, labilis; proprie lubricum est illud
quod quanto magis tenetur, tanto magis labitur, ut anguilla; et etiam illud dicitur lubricum, in quo quis labitur, ut via lutosa e aquosa, et glacies, unde illud “fiant vie iltorum tenebre et lubricum” [Ps 34, 6 (Vul-
gata)]». Così la differenza fra yrsutus e reburrus (anche se non è chiara, in quest’ultimo lemma, la coesistenza dei significati di ‘ispido’ e ‘calvo’): H 46 3 «byrsutus -a -um, asper pilis vel pilosus ut hyrcus»; R 16 «REBURUS -a -um, idest hispidus, recalvus, renudatus, discoopertus, 334
De vulgari eloquentia II VII 2
E fra questi, i pettinati e i folti sono quelli che chiamiamo grandiosi, mentre chiamiamo scivolosi e arruffati quelli che
suonano in eccesso. Così, nelle grandi opere, certe cose sono frutto di grandezza, altre di vanità: in queste ultime, benché in superficie si osservi una certa quale ascesa, dal scilicet cuius primi et anteriores capilli altius ceteris horrescunt et elevantur». Comunque, «per Dante yrsutus ha connotazione positiva di virile robustezza, come chiarisce la distinzione da reburrus, che connota l'eccesso di ispidezza» (Mengaldo). L'accoglimento della componente yrsu24, e insieme il suo contemperamento, connotano questa fase della storia poetica di Dante, caratterizzata dal riconoscimento e insieme dal superamento dell'esperienza petrosa, e con ciò dall’accettazione ma non dal primato del magistero arnaldiano: cfr. la nota a II Il
8. INTERQUE QUIDEM... QUE IN SUPERFLUUM SONANT: lo schema dei due opposti estremi viziosi e di un centro equilibrato e virtuoso ricalca ovviamente l’idea aristotelica del giusto mezzo (vedi sotto). Esattamente negli stessi termini di eccessiva asprezza/eccessiva mollezza (identificata con la muliebritas), Dante ne aveva dato una prima applicazione geolinguistica contrapponendo volgare lombardo-veneto («yrsutum et yspidum») e romagnolo («muliebre ... propter vocabulorum et prolationis mollitiem»), a esaltare la contemperata medietà
del bolognese (I XIV-XV). Ir superfluum significa ‘in eccesso’, ‘oltre la giusta misura’, come chiarito dal paragone successivo (e dunque anche ‘a vuoto’).
IN MAGNIS OPERIBUS ... QUEDAM FUMI: non credo che
le due occorrenze di opera abbiano lo stesso significato («tra le opere grandi alcune sono di magnanimità, altre di fumo», Marigo; «fra le im-
prese di grande portata alcune sono prodotto di magnanimità, altre di fumo», Mergaldo): sia perché dice i, non inter; sia perché il secondo opera sarebbe stato piuttosto omesso, assorbito nel pronome guedarz; sia perché, se un’opera è grande, non può essere furz:: è difficile credere che esistano due tipi di opere grandi, quelle grandi e quelle vane. Credo invece che la parola opera sia stata ripetuta con due significati diversi, con distinctio di sapore dettatorio; o meglio che nel secondo
caso non sia il plurale di 0pus, ma il sostantivo femminile opera, mentre quedam non significa ‘alcune opere’, ma ‘alcune cose’ entro le opere. È infatti normale che opere grandi includano cose grandi e cose che non lo sono. Il secondo opera è simile a Pg XVIII 48 «pur a BeatriLICET IN SUPERFICIE ... RUINA CONSTABIT: ce, ch'è opra di fede». san Tommaso, Sura Theologiae Ia-Hae, q. 129, a. 3, co. «magnanimitas, quae modum rationis ponit circa magnos honores, est virtus»,
in base al principio ripetutamente citato dello Stagirita (Eb. Nic. IV 335
De vulgari eloquentia
ex quo limitata virtutis linea prevaricatur, bone rationi non
ascensus sed per altera declivia ruina constabit.
[3] Intuearis ergo, lector, actente quantum ad exace-
randa egregia verba te cribrare oportet: nam si vulgare illustre consideres, quo tragici debent uti poete vulgares, ut superius dictum est, quos informare intendimus, sola vocabula nobilissima in cribro tuo residere curabis. [4] In quorum numero nec puerilia propter sui simplicitatem, ut rzamzza et babbo, mate et pate, nec muliebria propter sui mollitiem, ut dolciada et placevole, nec silvestria propter austeritatem, ut greggz4 et creta, nec VI 15; cfr. Cu IV XVII 7), “virtus moralis consistit in medio”; oltrepas-
sata la linea mediana nella quale sta la virtù (che anche Dante chiama nel Convivio [IV XVII 4 e 5] “moderatrice”, “regola e freno”), non si
sale più, si precipita, peccando di “dismisura” (cfr. Pg XXII 35), verso uno dei due vizi che Dante chiama (ivi, 7) “inimici collaterali”» (Martgo). «La connessione con fumus e ascensus sembra dipendere senz’altro dal commento tomistico al luogo citato dell’Etica» (Mengaldo), e
cioè Sententia libri Ethicorum II, |. 9, n. 1 «Superabundantia autem in prosequendo ea quae pertinent ad magnum honorem, est quadem dispositio, quae dicitur chaumotes, ex eo quod ardet in his quae pertinent ad appetitum honoris. Nam cauma incendium dicitur, sed, quia capnos in Graeco idem est quod fumus, potest etiam si sic scribatur chapnotes dici, quasi fumositas». Penso che anche qui «bone rationi» significhi ‘alla buona dottrina’, piuttosto che «a dritta ragione» (Marigo), «a chi sa ragionare» (Mengaldo). VII 3. INTUEARIS ERGO, LECTOR, ACTENTE: da I VII 3 a II XII 11
la trattazione è costellata di sei appelli al lettore (cfr. Sarteschi 2005, p. 141). «GT hanno “attende”, ed entrambe le lezioni sono perfettamente legittime» (Menga/do; cfr. Marigo 1925, p. 334; Rajna 1930, p. 71).
QUANTUM ADEXACERANDA.... RESIDERE CURABIS: la metafo-
ra del setaccio (cribrur, -are) era già stata applicata alla selezione fra i volgari italiani (I XI 6, XII 1). «La lezione di B [«tragici»] (cui porta anche l’erroneo “tragia” di GT) va mantenuta; col superfluo emendamento “tragice” si capisce molto meno il successivo “quos informare intendimus”» (Menga/do). All'emendamento «tragice» (invalso prima della scoperta di B) era tornato nella sua edizione Marigo («e di questo nello stile tragico devono servirsi ... i poeti volgari»), dopo aver lui stesso (Marigo 1925, p. 334) sostenuto «tragici», con argomenti che erano stati accettati da Rajna 1930, p. 71.
336
De vulgari eloquentia II VII 2-4
punto in cui si oltrepassa la linea di confine della virtù, apparirà chiaro alla buona dottrina che non si tratta di ascesa ma di frana giù per il versante opposto. [3] Guarda dunque attentamente, o lettore, quanto lavoro di setaccio ti occorre per tirar fuori dal mucchio le parole scelte: se consideri infatti il volgare illustre, del quale
devono servirsi, come si è detto tragici che intendiamo formare, taccio rimangano solo i vocaboli mero non potrai in alcun modo
più sopra, i poeti volgari avrai cura che nel tuo sepiù nobili. [4] Nel cui nucollocare né i puerili, per
la loro ingenuità, come rzarzzza e babbo, mate e pate, né i femminili, per la loro mollezza, come dolciada e placevole, né i selvatici, per la loro asprezza, come greggia e creta, né VII 4. PUERILIA ... MATE ET PATE: i toscani 772472724 (anche panitaliano) e babbo, assenti in Vita Nova, Rime, Convivio, compaiono ripetutamente nella Corzrzedia, in rima, e due volte proprio in contesti metapoetici: {XXXII 7-9 «ché non è impresa da pigliare a gabbo / discriver fondo a tutto l'universo, / né da lingua che chiami mamma o babbo»; Pg XXI 97-8 «de l’Eneida dico, la qualmamma / fummi, e fummi nu-
trice, poetando»; XXX 43-4 «col respitto / col quale il fantolin corre a la mamma»; Pd XIV 64 «forse non pur per lor, ma per le mamme» e XXIII 121-2 «E come fantolin che ’nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ’l latte prese». Nel TLIO mara è frequente in testi pratici, volgarizzamenti in prosa, poesia religiosa; 52540, molto più raro, compare in poesia realistica e prosa. «I tipi rzate e pate, centromeridionali, s'incontrano nella lingua letteraria antica in Umbria [statuti e
poesia religiosa], Marche e ad Arezzo (Restoro)» (Mergaldo). In particolare, sia 24772714 che mate ricorrono nella più nota lauda drammati-
ca del Duecento, Donna de Paradiso di Tacopone: vedi Santagata 2008,
pp. 49-52.
MULIEBRIA ... UT DOLCIADA ET PLACEVOLE: «si ripete
la connessione weuliebre-mollities già applicata al romagnolo (I XIV 2), i cui specimini lessicali (ivi, 3) corrispondono perfettamente a questi per melensaggine di tono e caratteristiche formali (-442, nesso muta + liquida; e vedi anche il veneziano plaghe a I XIV 6)» (Mengaldo). SILVESTRIA ... UT GREGGIA ET CRETA: la rusticità di greggza è evidente, sia sul piano lessicale che su quello fonetico. Ben attestato in una varietà di testi duecenteschi in prosa e in versi, in senso sia proprio che figurato, ma non nella lirica, assente in Vita Nova, Rime, Convivio, trova ac-
coglienza sei volte nella Corzzzedia, sempre in senso traslato, a indicare 337
De vulgari eloquentia
urbana lubrica et reburra, ut ferziza et corpo, ullo modo
poteris conlocare. Sola etenim pexa yrsutaque urbana tibi restare videbis, que nobilissima sunt et membra vulgaris schiere di dannati o penitenti o altri gruppi umani. Per quanto riguarda cetra, invece, si tratta di un emendamento introdotto da Rajna 1897
e adottato in tutte le edizioni seguenti. Ma, per trovare una giustificazione rustica a cetra, «dal rispetto nozionale e stilistico», si sono dovuti
richiamare «i modi della poesia bucolica, dunque umile» (Mergaldo): con ciò ricorrendo a una nozione della poetica mediolatina allotria rispetto alla qualità intrinseca del lessico volgare, alla quale invece tutta l’argomentazione di Dante si attiene strettamente. Cetra è una parola non attestata nel lessico letterario duecentesco giunto a noi, e non
vedo perché avrebbe dovuto suonare rustica all’orecchio di Dante. La cetra è uno strumento musicale (vedi la voce cetra di FE Monterosso,
in ED) non popolare: il cytharedus, come il «tibicen, vel organista», è precisamente uno dei musici che possono “sposare” «melodiam suam ... alicui cantioni» (II VI 5); e «lo malo citarista» che «biasima la cetera» (Cv I XI 11) è una delle incarnazioni del cattivo poeta volgare — s'intende lirico, di livello alto — che accampa la scusa che il volgare di sì sarebbe inferiore al provenzale: dunque la cetera è addirittura metafora del volgare (illustre). L'unica occorrenza di cetra nella Commedia
— Pd XX 22-3 «E come suono al collo de la cetra / prende sua forma» — non è affatto bassa, come non lo sono le quattro occorrenze di cetera nel Convivio, una delle quali evoca nientemeno che il mito fondante della poesia: II 14 «Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere», secon-
do il racconto di Ovidio maggiore (Mer. XI non hanno «cetra». T e G hanno «ut gregia 7c(etera)» (con lo stesso #it4/us increspato sillaba contenente r, ma in questa sequenza
1-2). I manoscritti, infatti, 7cetera», B ha «ut greggia che normalmente vale r o significa «etc., etcetera»).
Trissino 1529 e Cittadini post 1600 interpretano «come greggia e gli
altri»; Corbinelli 1577 mantiene «ut gregia & cetera», e così tutti dopo di lui fino all’editio maior di Rajna compresa (1896), mentre nell’editio
minor (1897) Rajna emenda (sulla sola scorta di TG) in «cetra». Tutte le edizioni successive alla comparsa di B, da Bertalot 1917 e 1920 a Ma-
rigo a Mengaldo 1968, mantengono «cetra». Propongo invece di emendare la lezione dei manoscritti in «creta». Se nell’originale era scritto «7 c(re)ta», era facilissimo per il copista dell’archetipo fraintendere in «etcetera». «Creta» non è un emendamento più oneroso di «cetra» e, a differenza di questa, è una parola non solo aspra fonicamente ma anche rustica lessicalmente. Attestata in testi duecenteschi sia in prosa che in versi, mai in testi lirici, designa la materia più comune e senza valore. 338
De vulgari eloquentia II VII 4
gli urbani scivolosi né quelli arruffati, come ferziza e cor
po. Vedrai dunque che ti restano solo quelli urbani pettinati e quelli folti, che sono i più nobili e sono le membra Come dicono gli abruzzesi: «Vascellu bellu et utele tractu de vile creta» (Proverbia pseudoiacoponici 64, ed. Bigazzi 1963). URBANA... UT FEMINA ET CORPO: ferz(ma)ina si oppone a donna, e il TLIO offre, per queste due parole comunissime (oltre 7.000 occorrenze di ferz(m)ina, -e; oltre 16.000 di dora, -e), massiccia documentazione del fatto che la lirica ron usa femmina. A rigore, è una generalizzazione eccessiva dire che «ferzina dà per Dante un senso di animalesca sensualità» (Marig0), dato che la parola è da lui usata anche, in volgare e in latino, senza particolare connotazione, in opposizione esplicita o implicita a vir in latino (VEI XIV 2), a maschio o viro in volgare (CvITx 5 e II IX 7;
IfIV 30); o riferita a donne pregevoli (Vr 17. 2; Co II V 2 e IV v 5; Pg XXIV 43); ma certo rispetto a dorra, parola-chiave della lirica cortese e dello Stilnovo, è eloquente la dichiarazione: «e non a ogni donna, ma
solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femine» (Va 10. 12). Le quali, a partire dalla «presumptuosissima Eva» (VEI IV 2; Pg XXIX 26), incarnano spesso la lussuria: If XVIII 66 «ruffian! qui non son femmine da conio» e 89 «poi che l’ardite femmine spietate»; Pg VIII 77 «quanto in femmina foco d’amor dura»; XIX 7 «mi venne in sogno una femmina balba»; XXIII 94-6 «ché la Barbagia di Sardigna assai / ne le femmine sue più è pudica / che la Barbagia dov’io la lasciai». «Si tenga anche presente che la tradizione lessicografica (Isidoro, Etyr. XII Il 24, Papia, Uguccione) connetteva ferzina col greco fos “quia vehementer concupiscit”, ecc., o con feditas (Uguccione) [F
53 45 «Itema
fos quod est ignis dicitur hec femina, quasi ignea, quia
vehementius ardeat et concupiscat; vel femina dicitur a feditate, quasi
fetida quia generet fetum»]. È perciò probabile che, come vuole il Marigo, lubricus cumuli qui i due sensi attestati dall’uso e dai lessicografi, quello concreto, motivato dalla forma sdrucciola del vocabolo, e quello
morale» (Mergaldo). «Qualcosa di simile varrà per corpo, che aggiunge alla spiccata sonorità consonantica la fisicità precisa del significato: ovviamente presente, oltre che nella prosa, nel Dante comico (anche in Pd XXXI 90 [e in totale addirittura 56 volte]), è surrogato nell’uso lirico da persona (oltre che nelle poesie stilnovistiche, con espansione nella prosa della Vita Nuova e naturale appendice in IfV 101, anche nella petrosa Così nel mio parlar); l’unico corpo delle liriche è nella terza canzone del Convivio, v. 123, ma è appunto una canzone “aspra e sottile”» (Mengaldo). L'amplissima documentazione del TLIO conferma la presenza di persona e l'estrema rarità di corpo nella lirica del Duecento. 339
De vulgari eloquentia
illustris. [5] Et pexa vocamus illa que, trisillaba vel vicinissima trisillabitati, sine aspiratione, sine accentu acuto
vel circumflexo, sine 2 vel x duplicibus, sine duarum liquidarum geminatione vel positione inmediate post mutam, dolata quasi, loquentem cum quadam suavitate relinquunt: ut arzore, donna, disto, virtute, donare, letitia, salute, securtate, defesa. VII 5. TRISILLABA VEL VICINISSIMA TRISILLABITATI: prima con-
dizione perché un vocabolo sia pexur è la lunghezza media, che non “ostacola” la scorrevolezza del verso. La parola idealmente “media” è infatti il trisillabo piano (tali sono sette parole su nove date come esempio alla fine del paragrafo). Non dimentichiamo che Dante sta parlando di poesia, per cui la metafora della “scorrevolezza” al pettine, o della relativa “resistenza” a esso, va percepita in rapporto alla “fluidità” o alla “corposità” fonica del verso. Per contro, sia imono-
sillabi (s'intende tonici) sia le parole lunghe sono yrsuta ($ 6). SINE ASPIRATIONE: «cioè senza b, e verosimilmente si allude all’iniziale (vedi honore al $ 6). Applicazione piuttosto meccanica al volgare di quanto grammatici e retori medievali, anche italiani, dicono per il latino sulla traccia di Prisciano, Irst. I 5, 16, 24, 47, continuando a proclama-
re l’» effettiva “aspirationis nota”, con relative esemplificazioni», cioè Boncompagno, Giovanni da Genova, Francesco da Barberino, Bartolomeo di San Concordio (Merga/do). SINE ACCENTU ACUTO VEL CIRCUMFLEXO: concordo con Marigo e Mengaldo nel ritenere che entrambi questi accenti individuino parole ossitone: dunque si dedurrà che l’ossitonia caratterizza gli yrsut2; come, a giudicare dal solo ferzina, la proparossitonia caratterizza i /ubrica; per cui tutti i pexa dovrebbero essere parossitoni, come infatti sono i nove esempi finali (se si considera monosillaba la desinenza di /etiti2). Concordo anche con Marigo che «la denominazione di acuto per l’accento dell'ultima sillaba della parola deriva dal Doctrizale (manuale scolastico diffusissimo anche in Italia) di Alessandro di Villadei, che abbandonando le regole classiche per seguire l’“usum modernum”, cioè quello della pronuncia ossitonica francese, così scrive: “... finis regitur sub acuto”. Anche le Leys d’Amors, raffrontando l’accento latino con quello “romans” (provenzale), chiamano “agutz” l'accento che posa sull'ultima sillaba della parola volgare». E concordo con Mengaldo che, per interpretare il circonflesso, occorra combinare il passo di Prisciano (Irst. IV 25) addotto da Marigo, secondo il quale «cum in omnibus quae penultimam habent circumflexam, si patiantur syncopam, servamus eundem accentum in ultima, ut ... audivit audît, cupivit cupît, fumdvit fumét», 340
De vulgari eloquentia II VII 4-5
del volgare illustre. [5] E chiamiamo pettinati quelli che, trisillabi o vicinissimi alla misura di tre sillabe, senza aspirazione, senza accento acuto 0 circonflesso, senza le lette-
re doppie z e x, senza raddoppiamento delle liquide e senza nessi di muta con liquida, quasi levigati, lasciano chi li pronuncia con una certa quale soavità: come arzore, donna, disio, virtute, donare, letitia, salute, securtate, defesa. con «quanto Dante ha detto della turpe sincope padovana a I XIV 5 e accennato per il francese bonté a II V 4». Da questi elementi, però, mi sembra che emerga un quadro più chiaro di quanto i due studiosi riconoscano: mi sembra probabile che Dante classifichi sotto l'accento acuto le parole ossitone che sono diventate tali per effetto di apocope; sotto l'accento circonflesso quelle che sono diventate tali per effetto di sincope. SINE Z VEL X DUPLICIBUS: «la x e la z sono dette duplici (in quanto analizzate rispettivamente come velare + s, dentale + 5) in tutta la tradizione grammaticale anche recente ... Per la “rigidezza” della z vedi I XIII 6, ed entrambe le consonanti non godono i favori dei retori» (Merga/do). L'esempio letitia, sotto, sembra dimostrare che Dante non sussumeva sotto la 2i derivati di -ITIA (mentre quello di speranza, al $ 6, sembra dimostrare il contrario per tutti i derivati
di -ANTIA, -ENTIA, il grande serbatoio di formazioni galloromanze di ambito lirico). SINE DUARUM... POST MUTAM: cioè le doppie //e rr, e i nessi di occlusiva (p, t, c, d, d, g) + (s’intenderà una sola) /, r. I nes-
si di «muta cum liquida» nella prosodia latina non chiudono, a differenza delle consonanti doppie e degli altri nessi consonantici, la sillaba, cioè non rendono la sillaba lunga per posizione. Dante sembra invece assimilare questi nessi consonantici agli altri al fine di qualificare yrsuta una parola.
DOLATA QUASI ... SUAVITATE RELINQUUNT:
la metafora dei vocaboli “pettinati” viene ribadita dall'immagine della “levigatezza” (pure attinente alla sfera della “scorrevolezza” fonica del verso) e dalla sensazione di “soavità” della pronuncia. UT AMORE, DONNA ... SECURTATE, DEFESA: «i vocabula pexa ... sono disposti in gruppi di tre, ognuno dei quali determina un campo semantico relativo a ciascuno dei tre meagralia [cfr. II 11 7). Alla venus appartengono amore, donna, disto; alla virtus, vertute, donare, letitia; alla salus, salute, securtate, defesa. Nell'insieme, sintetizzano la linea della poesia dantesca anteriore e contemporanea al De vu/gari eloquentia» (Pazza-
glia 1967, p. 111). La /etitia, però, non sembra tanto «espressione della raggiunta “leggiadria” e “cortesia” cavalleresca, cioè di un’armonica vita dei sensi e dello spirito» (p. 111 nota 11), quanto corollario del dono: «la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione;
341
De vulgari eloquentia
[6] Yrsuta quoque dicimus omnia, preter hec, que vel necessaria vel ornativa videntur vulgaris illustris. Et necessaria quidem appellamus que campsare non possumus, ut quedam monosillaba, ut sì, 70, 72€, ze, se, 4, e, 6, 0, u’, inte-
riectiones et alia multa. Ornativa vero dicimus omnia polisillaba que, mixta cum pexis, pulcram faciunt armoniam compaginis, quamvis asperitatem habeant aspirationis et accentus et duplicium et liquidarum et prolixitatis: ut terra, bonore, speranza, gravitate, alleviato, impossibilità, im-
possibilitate, benaventuratissimo, inanimatissimamente, onde, se ’l dono non è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso per-
fetta vertù, non è pronta. Questa letizia non può dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore per [lo] ricevere» (Cv I vIn 7). È anche «significativo che Dante esemplifichi con sostantivi, e peraltro con parole grammaticali, mentre Matteo
di Vinsauf e Giovanni di Garlandia danno elenchi di aggettivi esornativi» (Pazzaglia 1967, pp. 114-5): significativo del carattere essenziale e non decorativo della retorica di Dante. VII 6. YRSUTA QUOQUE: per quogue semplice congiunzione testuale (non ha il senso di ‘anche’), vedi la nota a I 1 4. ET NECESSARIA ... NON POSSUMUS: si tratta di parole inevitabili in qualunque discorso, quindi anche nel discorso poetico, perché grammaticali, di
altissima frequenza. Il menzionarle testimonia del realismo di Dante, che tiene conto di tutti gli elementi linguistici che costituiscono il testo. Cfr. per contro Matteo di Vendòme, citato da Mergaldo, che
stigmatizza le parole grammaticali «quae, quia totius metri derogant venustati, a metro penitus debent eliminari ... nisi necessitatis incu-
buerit articulus» (Ars versif II 46). UT QUEDAM MONOSILLARBA ... ET ALIA MULTA: seguo Mergaldo considerando «prudente non impegnarsi in segni diacritici ... per la serie se ... 0, tutta polivalente», ma concordo con Margo che «evidentemente si accenna non a monosillabi proclitici o enclitici ... ma con proprio accento tonico, e però da porsi tra gli yrsuza, sia per l'accento, sia perché lontani dalla trisi/labitas». Quindi si tratterà di sì e zo avverbi olofrastici; we, te, sé pronomi personali complemento (o meno probabilmente, data la serie, sè ‘tu sei’); è ed è terza persona singolare di essere e avere; ? ‘io’; ò ‘ho’; u' ‘dove’. ORNATIVA VERO ... ARMONIAM COMPAGINIS: i polisillabi, la seconda categoria di yrsuta, vengono immessi non per necessità ma per scelta, perché contribuiscono all’ornatus del discorso poetico. «Il principio che l’armonia risulta da una “concordia discors” di 342
De vulgari eloquentia II VII 6
[6] Definiamo poi folti tutti quelli che, senza essere pettinati, si rivelano o necessari o ornamentali per il volgare illustre. E chiamiamo necessari quelli che non possiamo evitare, per esempio certi monosillabi come sò, 70, w26, te, se, a, e, i, 0, w’, le interiezioni e molti altri. Chiamiamo invece
ornamentali tutti quei polisillabi che, frammisti ai pettinati, fanno una bella armonia dell'insieme, pur avendo asprezza di aspirazione e di accento e di consonanti doppie e liquide e di eccessiva lunghezza: come terra, bonore, speranza, gravitate, alleviato, impossibilità, impossibilitate, benaventuratissuoni è dell’arte musicale; Boezio così lo enuncia: “consonantia est
dissimilium inter se vocum in unum redacta concordia” (De musica I 3); ed è richiamato per la poesia da Giovanni di Garlandia» (Marigo). Ma non era ovvio tradurre questo principio musicale nella legittimazione retorica dei vocabula yrsuta accanto ai pexa (vedi la nota al $ 2). Nella storia poetica di Dante, è questo il momento della sintesi, nella matura poesia dottrinaria, delle opposte esperienze stilnovistica e petrosa. «La nozione dell’armonia come contemperamento d’opposti ... era già stata usata per il bolognese a I XV 5 e ritorne-
rà a proposito delle rime a II XII 13» (Merga/do). È questa la prima delle otto occorrenze di 477/074, -i20, e rende subito chiaro che l’armonia viene creata dal poeta entro il testo verbale, non nell’incon-
tro fra questo e la melodia. QUAMVIS ASPERITATEM ... ET PROLIXITATIS: il quamzvis conferma che la legittimazione dei vocaboli yrsuta non è ovvia come quella dei pexa. Le caratteristiche dei vocaboli yrsuta corrispondono puntualmente, per contrasto, a quelle attribuite ai vocaboli pexa: l'aspirazione come tratto “aspro”; l'accento nel senso di accento sull’ultima sillaba della parola; le consonanti doppie (x e 2); il raddoppiamento delle liquide (/ e ); la lunghezza della parola (eccedente la misura ideale delle tre sillabe): infatti gli esempi seguenti, dopo i primi tre, illustrano una lunghezza crescente, da quattro a undici sillabe. UTTERRA: bisillabo con raddoppiamento della liquida r. HONORE: trisillabo con aspirazione iniziale. SPERANZA: trisillabo con z. GRAVITATE: quadrisillabo con nesso «muta cum liquida». ALLEVIATO: di quattro o cinque sillabe con raddoppiamento della liquida /. IMPOSSIBILITÀ, IMPOSSIBILITATE: di sei sillabe la prima parola tronca, di sette la seconda integra. «Si tenga presente che nella lirica dantesca tipi in -d (-2) e in -aze (-4te) paiono coesistere più o meno pariteticamente» (Menga/do). E cfr. I XIV 5. BENA-
VENTURATISSIMO: di otto sillabe.
INANIMATISSIMAMENTE: di nove 343
De vulgari eloquentia
disaventuratissimamente, sovramagnificentissimamente,
quod endecasillabum est. Posset adhuc inveniri plurium sillabarum vocabulum sive verbum, sed quia capacita-
tem omnium nostrorum carminum superexcedit, rationi
presenti non videtur obnoxium, sicut est illud bororiftcabilitudinitate quod duodena perficitur sillaba in vulgari et in gramatica tredena perficitur in duobus obliquis. [7] Quomodo autem pexis yrsuta huiusmodi sint armonizanda per metra, inferius instruendum relinquimus. Et
que iam dicta sunt de fastigiositate vocabulorum ingenue discretioni sufficiant. VII. Preparatis fustibus torquibusque ad fascem, nunc sillabe.
DISAVENTURATISSIMAMENTE: di dieci sillabe.
SOVRAMA-
GNIFICENTISSIMAMENTE, QUOD ENDECASILLABUM EST: «è evidente
che Dante si è abbandonato a una sorta di ludismo esemplificatorio, sulle orme di retori e dettatori, in uno scialo di exerzpla ficta: nella li-
rica alta infatti è già un’eccezione un caso come la parola-verso meravigliosamente che apre una lirica del Notaio (ed è parola-verso anche in Amando lungiamente 5) o inamoratamente nell’incipit della canzone di Brunetto, né Dante lirico sembra accettare esemplari che eccedano le sei sillabe» (Menga/do). RATIONI PRESENTI: raz/0 è nel sen-
so di ‘dottrina’, cfr. la nota al $2. HONORIFICABILITUDINITATE.... IN DUOBUS OBLIQUIS: Uguccione, H 57 10 (citato in Toynbee 1899,
II, p. 43) «et hec honorificabilitudinitas -tis, et est longissima dictio que in illo versu continetur: “fulget honorificabilitudinitatibus iste”». «Si ricordino i sesquipedalia verba tragici visti non senza sospetto in un luogo citatissimo dell’Ars poetica di Orazio, v. 97» (Mengaldo).
La formulazione di Dante rivela come egli consideri questa parola /a stessa in volgare e in gramzatica: indizio che conferma lo speciale rapporto fra volgare di sì e gramzatica prospettato nella nota a I IX 11. VII 7. QUOMODO AUTEM... ARMONIZANDA PER METRA: prima oc-
correnza di arzzorizo, dopo quella di arzzonza al paragrafo precedente. Parole di segno stilistico opposto devono essere armonizzate nel verso: dunque entro il testo poetico, prima dell'eventuale abbinamento a questo di una melodia. Da confrontare con Cv I VII 14 «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia»; e con quest'altro passo, dove si vede che la musica, come
344
De vulgari eloquentia II VII 6-VII 1
simo, inanimatissimamente, disaventuratissimamente, sovra-
magnificentissimamente, che è un endecasillabo. Si potrebbe anche trovare un vocabolo ovvero una parola con ancora più sillabe, ma poiché oltrepassa la misura di qualunque nostro
verso, non sembra soggetto alla presente trattazione, come
è quell’bororificabilitudinitate che in volgare raggiunge le dodici sillabe e in grammatica, in due casi obliqui, le tredici.
[7] In che modo poi i vocaboli folti si debbano armonizzare con i pettinati all’interno dei versi, lo lasciamo da
insegnare più avanti. E quanto è già stato detto sulla magnificenza dei vocaboli basti alla loro genuina selezione.
VII. Preparate le verghe e le corde per il fascio, s’avla intende Dante, agisce già entro il testo poetico in se stesso (coerentemente con la definizione di poesis come «fictio rethorica musicaque poita», II IV 2, e con II VI 6): Cv II XII 23 «E queste due propietadi sono nella Musica: la quale è tutta relativa, sì come si vede nelle parole armonizzate e nelli canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la relazione è bella». Prima occorrenza anche di r2etrurz, che significa ‘verso’ con specifico riferimento (a differenza che nel termine generale carzzer) alla misura sillabica: «metra eptasillaba» in II X14e6,ecfr. II XII 9. Da reetrur gli aggettivi composti dimeter, trimeter, pentameter ‘di due, tre, cinque versi’: II X1 4 e 6, XIT 9 e 10, XIII 10. Cfr. Uguccione, M 93 21 «metrum dicitur quicquid mensura sil-
labarum perficitur ut in rithmis, et secundum quamlibet eius significationem competenter dicitur a metros, quia mensuris pedum vel sillabarum fit, idest mensurando sillabas longas et breves vel numerum sillabarum in constructione eius»; 23 «metrum componitur birzeter [var. dimzeter] -a -um, ubi sunt duo metra, trivzzeter -a -um, tetrameter -a «um, pentameter -a -um, exameter -a -um, a tetra, quod est IIII, et penta, quod est V, et exa, quod est sex».
DE FASTIGIOSITATE VOCA-
BULORUM: i vocaboli adatti alla canzone erano già stati definiti fastigiosa in II V 8. INGENUE DISCRETIONI SUFFICIANT: ingenue è «nel significato primo di ‘innata’, ‘naturale’» (Merga/do); s'intende cioè «a chi abbia naturale discernimento: per questi soli il Poeta scrive; e però stima inutile emulare le minuziose regole date dai trattatisti medievali per l’uso e la formazione dei vocaboli d’arte» (Marigo). VIII 1. PREPARATIS FUSTIBUS ... FASCIANDI TEMPUS INCUMBIT: ri-
prende alla lettera il finale del cap. V. Può darsi che la metafora del fa345
De vulgari eloquentia
fasciandi tempus incumbit. Sed quia cuiuslibet operis cognitio precedere debet operationem, velut signum ante ammissionem sagipte vel iaculi, primo et principaliter qui sit iste fascis quem fasciare intendimus videamus. [2] Fascis iste igitur, si bene comminiscimur omnia pre-
libata, cantio est. Quapropter quid sit cantio videamus, et quid intelligimus cum dicimus cantionem. [3] Est enim cantio, secundum verum nominis significatum, ipse canendi scio sia suggerita semplicemente dalla cosa, fascio di stecchi da ardere
o simile, ben presente nella cultura materiale del tempo; o che agisca la suggestione del simbolo romano, attestato non solo in Virgilio e altri poeti latini ma anche in testi volgari come i Fatti di Cesare (non illuminante in questo caso Uguccione, F 1 24, che interpreta fascis «idest onus» e anche «pluraliter hii fasces fascium, idest insignia honorum; et quandoque ipsi honores dicuntur fasces ... quia graves sint pondere dignitatis et auctoritatis»). Ma cosa sono per Dante ifustes e cosa i torques? Marigo spiega, nella nota a II V 8: «determinata la qualità dei versi e quella delle costruzioni»; mentre nella nota a II VMI 1 slitta su: «predisposti versi e vocaboli». Mergaldo tenta di unire le due spiegazioni: «Con fustes si alluderà ai versi (il Marigo ricorda il provenzale bordo, basto ‘verso’), con torques a costruzioni e vocaboli, o meglio a dictiones in quanto legate in constructiones (Uguccione chiosa il vocabolo con “ligamen tortum”)». Ma così a due elementi se ne vogliono far corrispondere tre, il che confonde cioè guasta il parallelismo. In realtà i versi, trattati nel cap. V, non c'entrano (il provenzale bordo, basto è nelle Leys d’Amo0rs, posteriori al De vulgari, ed è una coincidenza casuale). Esaurita la trattazione dei versi, in II V 8 Dante promette di investigare le costruzioni e i vocaboli, cosa che in effetti va subito a fare, rispettivamente nei capp. VI e VII; e quindi promette, dopo aver così
preparato verghe e corde, di insegnare a legare il fascio cioè la canzone, cosa che in effetti farà dal cap. VII in poi. In questa formulazione è chiaro che ifustes sono (con chiasmo) i vocaboli, i torgues le costruzioni. Interpretazione confermata dalla presente ripresa «Preparatis
fustibus torquibusque ad fascem», che chiude appunto i capp. VI e VII dedicati a vocaboli e costruzioni. Dante rappresenta la canzone come un fascio di parole legate dalle costruzioni. I versi non sono visti come elementi materiali costitutivi della canzone (ma, si può inferire, come
misure della strutturazione dei materiali). Coerentemente con Cv IV VI 3 «uno verbo molto lasciato dall’uso in gramatica, che significa tanto quanto “legare parole” cioè “auieo”. E chi ben guarda lui, nella sua 346
De vulgari eloquentia II VIN 1-3
vicina ora il tempo di legarlo. Ma, poiché in ogni opera la cognizione deve precedere l'esecuzione, come il bersaglio lo scoccare la freccia o il dardo, anzitutto e soprattutto vediamo che cosa sia questo fascio che intendiamo legare. [2] Questo fascio dunque, se ricordiamo bene tutte le cose dette in precedenza, è la canzone. Vediamo perciò che cosa sia la canzone, e che cosa intendiamo quando diciamo canzone. [3] In effetti la canzone, secondo il si-
gnificato proprio del nome, è l’atto stesso del cantare o prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, ché solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d’ogni parole, e composto d’esse per modo volubile, a figurare imagine di legame». Gorni 1993, pp. 144-5, sottolinea la «certezza etimologica, primigenia e consustanziale», «vera e propria mitologia poetica», che pone avieo alla base di autore (nel senso specifico di poeta: Cv IV VI 4 «E in quanto “autore” viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che coll’arte musaica le loro parole hanno legate»), e aggiunge: «Nel De vulgari la metafora comporta un lessico specializzato assai ricco: aviere (II I 1), coartare (II II 1), fasciare (Il vm 1), ligare (II 1 2; IT IV 6; II VIIT 9), vere (Il V 8)». SED QUIA ... INÌTENDIMUS VIDEAMUS: la visione del bersaglio deve precedere e guidare il lancio della freccia destinata a colpirlo. Arzrzissio è il momento in cui la freccia viene scoccata (Uguccione, M 120 28 «admittere, idest eslesere et quadam velocitate et agilitate equum vertere vel ducere, unde adrissus -a -um, idest velox»). Arte non è «incongruente o ridondante rispetto a precedere» (Mengaldo, sulla scia di Rajna), perché velut introduce una proposizione comparativa nominale, in cui ante equivale a precedit. Similitudine straordinariamente concentrata, che assimila il lungo lavoro di costruzione del testo poetico all’istantanea visione anticipata di quello che esso dovrà essere e a una altrettanto istantanea, e perfettamente “mirata”, esecuzione di tale visione. VIII 2. FASCIS ISTE ... CUM DICIMUS CANTIONEM:
preliminare è
la definizione di «quid sit cantio», parallelamente a quella di /ocutio vulgaris («ut sciatur quid sit super quod illa versatur») in 112, e poi di «quid sit stantia» in II IX 1. VIII 3. EST ENIM CANTIO ... VEL ACTUS LEGENDI: «secondo la
consueta analisi scolastica dei sostantivi verbali in -10; cfr. Pietro Elia, in Thurot 1869, p. 180: “nomina verbalia, ut lectio, visio et
similia, significant actionem et passionem” ... Il ragionamento 347
De vulgari eloquentia
actus vel passio, sicut lectio passio vel actus legendi. Sed divaricemus quod dictum est, utrum videlicet hec sit cantio prout est actus, vel prout est passio. [4] Et circa hoc considerandum est quod cantio dupliciter accipi potest: uno modo secundum quod fabricatur ab autore suo, et sic est actio, et secundum istum modum Virgilius primo Eneidorum dicit «Arma virumque cano»; alio modo secundum
quod fabricata profertur vel ab autore vel ab alio quicunque sit, sive cum soni modulatione proferatur, sive non: et sic est passio. Nam tunc agitur, modo vero agere videtur in alium, et sic tunc alicuius actio, modo quoque passio ali-
per cui si applica a cantio l'opposizione attività/passività propria di lectio e simili è alquanto capzioso, con forzatura in senso “filosofico” della nozione di passività: secondo lo schema lectio + genitivo d’agente opposto a lectio + genitivo della cosa che “subisce” l’azione del leggere [cioè quelli che si chiamano comunemente “genitivo soggettivo” e “genitivo oggettivo”], dovremmo avere la contrapposizione cantio Virgilit/cantio Eneidorum (pas-
sio alicuius rei, non passio alicuius). Sicché Dante è poi costretto ad emarginare un legittimo canzio Petri detto dell’esecutore [$ 4], dove il genitivo denota un’actio non meno che se sia riferito all’autore» (Mengaldo). VIII 4. ET CIRCA HOC... PASSIO ALICUIUS VIDETUR:
traduco
profertur-proferatur con ‘viene-venga eseguita’ (invece che «recitata», come Marigo e Mengaldo), perché è necessario adottare un termine medio che valga sia per la recitazione che per il canto. Il ragionamento grammaticale da cui parte Dante è: cantio Virgilii = genitivo soggettivo = senso attivo = Virgilius cantat / cantio Eneidorum = genitivo oggettivo = senso passivo = Eneida can-
tantur (per la forma neutra plurale Ereida -orum vedi la nota a II IV 10). Ma in questo schema è sempre attivo il ruolo del soggetto che canta (sia esso il poeta che compone la canzone, sia esso l’esecutore che la recita o canta), sempre passivo il ruolo della cosa cantata, la canzone (sia nel momento in cui viene composta sia nel momento in cui viene eseguita). Dante invece stravolge il ragionamento, per lasciare al solo poeta il ruolo attivo di compositore della canzone, e relegare l’esecutore della stessa in un illo-
gico ruolo passivo, mentre in realtà il ruolo passivo è comunque solo della canzone. La citazione del famosissimo incipit dell’Eneide 348
De vulgari eloquentia II VII 3-4
dell’essere cantato, così come la lezione è l’atto dell’esse-
re letto o del leggere. Ma distinguiamo quanto si è det-
to, se cioè questa sia una canzone in quanto atto del can-
tare o in quanto atto dell’essere cantato. [4]-E a questo proposito occorre considerare che canzone si può intendere in due sensi: in un senso in quanto viene composta dal suo autore, e così è un’azione attiva, e in questo sen-
so Virgilio nel primo dell’Ereide dice «Arma virumque cano»; in un altro senso in quanto, una volta composta, viene eseguita, o dall'autore o da chiunque altro, sia che venga eseguita con accompagnamento musicale sia sen-
za, e così è un’azione passiva. Infatti, nel primo caso viene agita, nel secondo si mostra piuttosto agire su un altro, e così là si rivela l’azione attiva di qualcuno, qui piuttosto serve appunto a legare, con la massima autorità, il verbo caro al
solo soggetto che ne è titolare, il poeta. Le parole di Dante echeggiano per esempio quelle del brano grammaticale citato da Mexgaldo (Thurot 1869, p. 195), o di altri simili, che nei norzina ac-
tionis derivati da verbi transitivi distinguono una ratio actionis e una ratio passionis: «omnis actio requirens terminum recipien-
tem [cioè un complemento oggetto] dupliciter potest considerari: uno modo, sub illa ratione sub qua transit in aliquod alterum [per cui l’azione del verbo transitivo “transita” appunto sul complemento oggetto: ad esempio lectio discipuli = discipulus legit (librum)}, et sic habet rationem actionis; alio modo sub illa ratione
sub qua recipitur in aliquo altero ab ipso agente [ad esempio /ectio libri = liber legitur (a discipulo)), et sic habet rationem passionis». Ma, echeggiando una formulazione di questo tipo, Dante la piega a dire una cosa che essa non intendeva affatto, e cioè che nel momento della composizione attivo è il poeta, passiva la canzone che viene composta; nel momento dell’esecuzione invece
diventa attiva la canzone, perché è essa che agisce sugli ascoltatori, e passivi sono questi ultimi. Tale contorsione conferma ancora una volta, incidentalmente, l’estraneità di Dante alla specula-
zione grammaticale. Da notare che si affaccia qui (in «secundum quod fabricata profertur vel ab autore vel ab alio quicunque sit, sive cum soni modulatione proferatur, sive non») il tema del rap-
porto fra testo poetico e musica, che non è affatto estraneo alla contorsione impressa da Dante al ragionamento su acti0 e pas349
De vulgari eloquentia
cuius videtur. Et quia prius agitur ipsa quam agat, magis, immo prorsus denominari videtur ab eo quod agitur, et est
actio alicuius, quam ab eo quod agit in alios. Signum autem huius est quod nunquam dicimus «Hec est cantio Petri» eo quod ipsam proferat, sed eo quod fabricaverit illam. [5] Preterea disserendum est utrum cantio dicatur fabricatio verborum armonizatorum vel ipsa modulatio. Ad quod dicimus quod nunquam modulatio dicitur cantio, sed sonus, vel thonus, vel nota, vel melos. Nullus enim ti-
bicen, vel organista, vel cytharedus melodiam suam cantionem vocat, nisi in quantum nupta est alicui cantioni;
sed armonizantes verba opera sua cantiones vocant, et sio, anzi credo che ne sia precisamente la causa.
ET QUIA PRIUS
AGITUR ... QUOD AGIT IN ALIOS: diventa esplicito il ruolo prima passivo della canzone, nel momento in cui «fabricatur ab autore suo», poi attivo, nel momento in cui «fabricata profertur» e quindi «agit in alios»: reinterpretazione dantesca totalmente arbitraria del concetto grammaticale sottostante a cantio come nomen actionis.
SIGNUM AUTEM HUIUS ... FABRICAVERIT ILLAM: ecco in-
fine la ragion d’essere dello stravolgimento logico di cui sopra: la volontà di riservare il ruolo attivo, nobile, di autore al poeta che
compone la canzone. Attività significata dal verbo fabrico, ripetuto tre volte nel paragrafo: il verbo tipico del poetare, anticipato nientemeno che per Adamo in I VI 7, che si ritrova in Cv I XI
12 (e cfr. Pg XXVI 117 «fu miglior fabbro del parlar materno»). Nel seguito del capitolo diventa chiaro che la figura da escludere ovvero sminuire non è quella di un indefinito prolator, ma quella del musico che eventualmente intoni la canzone, ridotto appunto al ruolo di mero esecutore. Del tutto condivisibile, quindi, il
giudizio di Roncaglia 1978, p. 381: «Indipendente e secondaria rispetto alla creazione (actio) è l’attualizzazione fruitiva (passio) ... e che l’esecuzione sia cantata è una possibilità, non un ob-
bligo, essendo ugualmente ammessa un’esecuzione soltanto declamata ... L'opera del poeta è dunque primaria ed autonoma»; giudizio che deve però essere integrato, vedi le note successive. VIII 5. PRETEREA DISSERENDUM.... VEL IPSA MODULATIO: la rispo-
sta a questa domanda è in realtà già implicita in quanto precede. La «fabricatio verborum armonizatorum» è la costruzione del testo verbale poetico (arm20n/4, -i20 attengono sempre a questo, mai alla messa in musica), la «modulatio» è la messa in musica della canzone. Cfr. Uguc350
De vulgari eloquentia II VIII 4-5
l’azione subita da qualcuno. E poiché prima viene agita e poi agisce, è chiaro che prende il nome prevalentemente, anzi del tutto, dal fatto di essere agita, cioè dall’azione di qualcuno, e non dal fatto di agire su altri. Prova ne è che non diciamo mai «Questa è la canzone di Pietro» nel senso che Pietro la recita, ma nel senso che l’ha composta.
[5] Inoltre bisogna discutere se si chiami canzone la composizione di parole armonizzate o la musica stessa. Al che diciamo che la musica non si chiama mai canzone, bensì suono, 0 tono, o nota, o melodia. In effetti nessun flautista
o organista o citarista chiama la sua melodia canzone, se non in quanto si sposa con una certa canzone; ma coloro che armonizzano le parole chiamano i loro componimenti cancione, M 125 3-4 «rodulor -aris, cantare dulciter, melodias facere ...
unde modulamen, cantatio dulcis et melica et modulans». SED SONUS ... VELMELOS: tutti sinonimi ineguivocabilmente musicali. «T(h)onws e nota (anche in Cv II XI 3 come ‘melodia’) avevano un preciso significato tecnico nella trattatistica musicale ... Tuttavia pure il Da Tempo, ad esempio, usa indiscriminatamente sous e tonus (e cantus) per ‘melodia’ ... Melos (cfr. Boezio, De institutione musica, passim) è anche, con
lo stesso senso, in Eg I 21» (Menga/do). TIBICEN, VEL ORGANISTA, VEL CYTHAREDUS: significativa la riduzione del compositore della musica a una triplice figura di esecutore strumentale. «È pensabile ... che la terna non sia casuale ma individui, rispettivamente, uno strumento a fiato, uno a tastiera ... e uno a corde (l’arpa e la rotta erano spesso denominate citbara), insomma le tre categorie di strumenti per l’accom-
pagnamento, largamente intercambiabili» (Merga/do). Dopo che si è certamente consumata la separazione fra il poeta e il musico (ammesso che le due figure fossero davvero sempre unite in quella del trovatore nella poesia occitana, il che è controverso), Dante è nettissimo nel
non riconoscere una figura di “autore” musicale parallela, per quanto minore, rispetto a quella del poeta, ma nell’identificare il musico come esecutore. Questo sembra concordare perfettamente con il dato di fatto che la musica di accompagnamento ai testi poetici, nella tradizione italiana, non era scritta (si è conservata molta più musica scritta nella tradizione occitana, ma in realtà anch'essa tarda, posteriore alla fase cen-
trale della produzione trovadorica); con lo status del musico, almeno prima dell’Ars nova; con la labilità del “testo” musicale (tale definibi-
le solo metaforicamente) rispetto alla stabilità del testo verbale, tale da 351
De vulgari eloquentia
etiam talia verba in cartulis absque prolatore iacentia cantiones vocamus. [6] Et ideo cantio nichil aliud esse videtur quam actio completa dicentis verba modulationi armonizata: quapropter tam cantiones quas nunc tractamus, quam ballatas et sonitus et omnia cuiuscunque modi verba sunt armonizata vulgariter et regulariter, cantiones esse dicemus. [7] Sed quia sola vulgaria ventilamus, reguimporre una forte dissimmetria tra le filologie dell’uno e dell’altro (cfr. Lannutti 1999, pp. 153-69); e con l’idea di esecuzione come chiave per comprendere il rapporto fra poesia e musica in questa fase, sulla quale insiste Lannutti 2008, pp. 20-8. Dante è in linea con «la classificazione gerarchica delle attività musicali operata da Boezio» (e «già presente nel De musica di sant'Agostino»), per cui «la prassi esecutiva, relegata all’ultimo posto, rimane estranea alla sciertia, implica un atteggiamento totalmente passivo ed è funzionale alla creazione poetica (artificiur), in
quanto permette la sua percezione: “ut sunt citharoedi quique organo ceterisque musicae instrumentis artificium probant, a musicae scientiae intellectu seiuncti sunt, quoniam famulantur”» (Lannutti 2000, p. 23). TALIA VERBA ... PROLATORE IACENTIA: «prima di far parte dei canzonieri [i bri di Il MI 7] le liriche si diffondevano in fogli volanti ... come del resto lasciano supporre le molte testimonianze di corrispondenza poetica e i “commiati” delle canzoni» (Marigo). Sul passaggio da questo stadio della trasmissione, altamente deperibile, alla forma-libro, vedi la nota a II II 7. La parola prolator ribadisce l’identificazione del musico con un esecutore.
VII 6. ET IDEO CANTIO ... MODULATIONI ARMONIZATA: per definire la canzone Dante usa la formula più tipica e a lui cara per enucleare l'essenza della cosa definita, cioè «nichil aliud est quam». Già usata per la locutio (1113), la grarzatica (1 IX 11), la poesis (IT IV 2); e cfr. anche Mw I vu 2, II XIV 3. Dunque la cartio “non è altro che” una actio (riattivandosi in ciò la sua natura di romen actionis, su cui Dante ha speculato al $ 4), completa, per dire autosufficiente rispetto alla musica, dicentis, cioè di colui che “dice” in senso forte, poetico (in Merga/do ampia motivazione a sostegno della variante «dicentis» di B contro «dictan-
tis» di GT), il dicitore (Vr 16. 3,7, 8; CuT XI 12, II VI 17, VI 2, X1 2,
III X 11), che compone verba (le parole sono ifustes del fascio-canzone: $ 1) reodulationi armonizata: e qui rispunta il rapporto con la musica. Perché l'operazione di “armonizzare” le parole (VII 7 «pexisyrsuta ... armonizanda per metra», VIII 5 la «fabricatio verborum armonizatorum», da parte degli «armonizantes verba»), in entrambi i casi è operazione interna alla costruzione del testo verbale poetico, e qui si precisa 352
De vulgari eloquentia Il VIII 5-7
zoni, e anche le parole scritte su carta senza che nessuno le
esegua le chiamiamo canzoni. [6] E dunque la canzone non appare essere altro che l’azione compiuta di chi compone parole armonizzate per la musica: per cui, sia le canzoni di cui ci occupiamo qui, sia le ballate e i sonetti, e tutte le parole di questo tipo armonizzate in qualunque forma metrica, in volgare e in grammatica, diremo che sono canzoni. [7]
Ma, poiché esponiamo solo le cose in volgare, tralasciando che è operazione possiamo dire “funzionale” o “destinata” alla musica: concetto che sarà ancor meglio esplicitato in X 2, dove si dirà che la
stanza di canzone è «ad quandam odam recipiendam armonizata». Rimandando alla nota a quel passo, anticipo che a mio giudizio “armonizzare” parole per la musica, per Dante, significa né più né meno che costruire il testo rispettando la metrica appropriata per quel tipo di componimento. È vero che il «rivestimento musicale», per quanto «nella prassi ... possa anche non essere attuato», «è teleologicamente presente al produttore del testo», ma «le necessità intrinseche del rivestimen-
to musicale» (Mergaldo) che condizionano il poeta si riducono di fatto alle caratteristiche metriche che definiscono quel particolare 120dur2, la canzone, 0 la ballata, o quello che sia. Il componimento conforme alle
proprie regole metriche è di per sé pronto a ricevere (eventualmente) la melodia. Non c’è alcun altro vincolo imposto dalla “finalità” musicale alla costruzione del testo poetico. QUAPROPTER TAM CANTIONES
... CANTIONES ESSE DICEMUS: la definizione di canzio data nella frase precedente, dunque, vale per la canztio in senso generico (II II 4 «cum quicquid versificamur sit cantio»); quindi sia per le canzoni propriamente dette «quas nunc tractamus», sia per ballate, sonetti e qualunque altra forma metrica («cuiuscumque 7204 è nel senso specifico definito nel cap. II III: «quo r20do ea coartare debemus»; sono dodici le occorrenze tecniche di r20dus nel capitolo). Regulariter, di per sé, potrebbe essere inteso come una specificazione restrittiva di vu/garzter, tale da escludere i componimenti volgari «per alios inlegitimos et inregulares modos» (II N 2). Ma l’attacco del paragrafo seguente garantisce invece che significa ‘in grammatica”, ovvero in latino (lingua nella quale regulamur [1 13], lingua regulata [I IX 11]). Regulariter dunque non specifica vulgariter ma vi si oppone: evoca quindi i «magni poete, hoc est regulares, quia magni sermone et arte regulari poetati sunt» (II IV 3). VIII 7. SED QUIA ... REGULATA LINQUENTES: esplicitare questa restrizione, dato che l’intero trattato verte ovviamente solo sul volga-
re e sulla poesia in volgare, sembra superfluo. Penso che l’affermazione abbia il senso di ribadire l’equiparazione della poesia volgare 353
De vulgari eloquentia
lata linquentes, dicimus vulgarium poematum unum esse suppremum, quod per superexcellentiam cantionem vocamus: quod autem suppremum quid sit cantio, in tertio huius libri capitulo est probatum. Et quoniam quod diffinitum est pluribus generale videtur, resumentes diffinitum iam generale vocabulum per quasdam differentias solum quod petimus distinguamus. [8] Dicimus ergo quod cantio, in quantum per superexcellentiam dicitur, ut et nos querimus, est equalium stantiarum sine responsorio ad unam sententiam tragica coniugatio, ut nos osten-
dimus cum dicimus Donne che avete intelletto d'amore.
a quella latina sostenuta in sede di definizione della poesis (II IV 2): coerentemente, la definizione generale di cartio si applica anche alla poesia latina (infatti ha ricordato al $ 4 che Virgilio dice «Arma virumque cano»). Dunque si può ugualmente “cantare” «vulgariter et
regulariter»; anche i metri volgari equivalgono a quelli latini (come già in Vr 16. 4 «ché dire per rîrza in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione»). DICIMUS VULGARIUM POEMATUM.... EST PROBATUM: cfr. II II 3-10.
ETQUONIAM
..- QUOD PETIMUS DISTINGUAMUS: «tipica formulazione scolastica: all’interno della definizione di genere comune a più fenomeni va cercata la somma di differenze specifiche che costituisce appunto la specie» (Mergaldo). Per esempio san Tommaso, Super Sententiis II, d. 34, q. 1, a. 2, arg. 1 «cum tamen omne genus in species per differentias dividatur». In questo caso Dante vuole individuare, entro la
definizione generica di cartio data al $ 6, la definizione specifica di cantio «per superexcellentiam», ovvero in quanto «poema suppre-
mum», che era già stata focalizzata nel cap. III, ma non ancora definita nelle sue differenze specifiche. VII 8. DICIMUS ERGO ... TRAGICA CONIUGATIO:
ecco la som-
ma delle differenze specifiche che definiscono la canzone in senso stretto: a) consiste in una congiunzione (conzugatio: evito di tradur-
re ‘concatenazione’ perché concatenatio ha altro senso tecnico in II XII 7 e 11) di stanze (che cosa sia una stanza sarà l'oggetto del capitolo seguente); e questo la distingue dal sonetto, monostrofico; b) le stanze devono essere tutte uguali («corizgatio ... non esprime solo unione, ma secondo l’etimo, cumz-iurgo, l'unione sotto la stes-
sa legge, che è quella assunta dalla prima stanza», Marigo); c) non 354
De vulgari eloquentia II VIII 7-8
quelle in grammatica, diciamo che fra icomponimenti poetici in volgare uno è quello supremo, che chiamiamo canzone per eccellenza: e che la canzone sia qualcosa di supremo è stato dimostrato nel terzo capitolo di questo libro. E poiché quello che abbiamo definito è comune a più oggetti, riprendendo il vocabolo generale già definito, per mezzo di alcune differenze distingueremo solo l’oggetto che cerchiamo. [8] Diciamo dunque che la canzone, così denominata per eccellenza, quale anche noi la ricerchiamo, è una congiunzione in stile tragico di stanze uguali, senza ripresa, di significato unitario, come abbiamo mostrato dicendo: Donne che avete intelletto d'amore.
c'è la ripresa (responsorium), posta all’inizio e dopo ogni stanza; e questo la distingue dalla ballata (Uguccione, S 290 5 «responsorium verbum vel versus qui sepe iteratur»; «il resporsoriur di Dante è il responsum del da Barberino, la represa o repilogatio o repetitio del da Tempo: le Leys d’Arzors dicono respos. La parola è un termine dell’ufficiatura cattolica e ciò spiegherebbe come si trovi in territori romanzi diversi», Mari 1901, p. 73); d) deve esprimere un pensiero unitario (ad unam sententiam); e) deve essere in stile tragico (tragica coniugatio), quale definito in II IV, perché se invece lo stile è comico non è una cartio ma una cantilena (più sotto). Queste caratteristiche saranno illustrate di fatto analizzando le caratteristiche costitutive della stanza nei capp. IX-XIV. DONNE.... D'AMORE: perché Dante sceglie questa unica canzone (senza altri esempi provenzali o francesi, senza altri esempi di altri poeti italiani, senza altri esempi propri) in questo punto saliente del trattato, cioè dove si dà la definizione stessa di canzone in senso proprio? Forse la considerava particolarmente rispondente ai requisiti del pensiero unitario e dello stile tragico (gli altri sono requisiti metrici posseduti per definizione da qualunque canzone). Quanto al “tasso” di stile tragico, la citerà di nuovo in II XII 3 come canzone di soli endecasillabi, il che
comporta appunto una particolare “eccellenza tragica”. Un motivo interessante è che «delle nove parole raccomandate in VE II VII 5, come quelle che lasciano una certa dolcezza in chi le pronuncia (amore, donna, disio, vertute, donare, letitia, salute, securtate, defesa), ne ricorrono qui sei (27z0re otto volte, donna sette volte, disiata 29, vertute 38, dona 39, salute 39); e si è tentati di credere, vista la
coincidenza delle prime cinque, che Dante proprio a questa canzo355
De vulgari eloquentia
Quod autem dicimus “tragica coniugatio” est quia, cum
comice fiat hec coniugatio, cantilenam vocamus per diminutionem: de qua in quarto huius tractare intendimus. [9] Et sic patet quid cantio sit, et prout accipitur gene-
raliter et prout per superexcellentiam vocamus eam. Satis etiam patere videtur quid intelligimus cum cantionem vocamus, et per consequens quid sit ille fascis quem ligare molimur. ne pensasse quando drizzava quella lista» (I. Baldelli in ED, s.v. canzone, p. 798). Donne ch’avete è la canzone che nella Vita Nova (10)
inaugura lo stile della «loda», una svolta cruciale nella storia poetica di Dante, e in Pg XXIV egli la porrà addirittura come discrimine storiografico nella lirica italiana, facendosi accreditare da Bonagiunta da Lucca, uno dei rimatori municipali di IXM 1, come «colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / Donne ch’avete intelletto d'amore», con ciò fondando il «dolce stil novo» che ha sciolto il
«nodo» a cui è rimasta invece legata la vecchia guardia, «(i)l Notaro e Guittone e me» (vv. 49-57). Ma quella potente semplificazione storiografica sarà in chiave di ripresa e celebrazione finale della poetica di Beatrice: non attive, né tale poetica né la relativa semplificazione storiografica, in questi anni del De vu/gari. Donne ch’avete viene prescelta qui probabilmente come eccelsa prova stilistica di du/cedo (non si può dire che Dante lasci molti spazi al suo amico Cino), e infatti concentrato di vocabula pexa. Una canzone, la migliore, di Dante stilnovista, dopo che nel trattato egli si è già presentato con tre altre canzoni, di tutt'altro e vario segno: con la “giraldiana” Doglia mi reca, come poeta della rectitudo (II Il 8); con la “post-beatriciana” Amor che movi (II V 4); e con l’allegorica Arzor che nella mente, per
la filosofica «donna gentile» e per il Convivio (II VI 6); e la prossima a essere citata (Il X 2) sarà la petrosa e “arnaldiana” A/ poco giorno. Infine, non escluderei che un motivo per “ribadire” l’eccellen-
za di Donne chavete fosse l’attacco di cui era stata oggetto (secondo la cronologia che con buoni motivi è stata proposta) da parte di Cavalcanti con Dorza me prega: cfr. la nota a Il XII 3, dove le due canzoni sono appaiate nell’ordine Donna me prega-Donne ch’avete.
QUOD AUTEM DICIMUS ... CANTILENAM VOCAMUS PER DIMI-
NUTIONEM: «cantilena è evidentemente calco del volgare canzonetta (e vedi provenzale charsoneta), ampiamente attestato nel Duecento
presso i poeti ... a indicare, per lo più, la canzone con prevalenza o esclusività di versi minori dell’endecasillabo (e generalmente sette 356
De vulgari eloquentia II VIII 8-9
E se diciamo “congiunzione in stile tragico” è perché, quando questa congiunzione si fa in stile comico, la chiamiamo canzonetta, con un diminutivo: di questa intendiamo trat-
tare nel quarto della presente opera. [9] E così è chiaro che cosa sia la canzone, e intesa in
senso generale e nel senso di canzone per eccellenza. Sembra anche abbastanza evidente che cosa intendiamo quando diciamo canzone, e di conseguenza che cosa sia quel fascio che ci sforziamo di legare. o ottonari) e tonalità eventualmente più mediocre e cantabile. Già Salimbene, Cronica ... distingue, quasi certamente nello stesso sen-
so, cantiones e cantilene nella produzione volgare di Federico Manfredi» (Mengaldo). Stessa distinzione Salimbene riconosce la produzione di Manfredo Maletta, conte camerario e musico corte di Manfredi: «Et est optimus in cantionibus inveniendis et
II e nelalla can-
tilenis excogitandis, et in sonandis instrumentis non creditur habere parem in mundo» (686, 21-3). Su questa «formula a due termini: cantilenae e cantiones», Roncaglia 1978, p. 389, osserva: «Non si trat-
ta d’una ridondanza esornativa, ma d’una funzionale e per noi preziosa precisazione. Il primo termine, infatti, ha senso specificamente musicale; il secondo — d’accordo con l’uso terminologico esplicita-
to da Dante — solo letterario». Uno spunto sviluppato da Carapezza 1999, il quale conclude: «Alcuni luoghi della trattatistica medievale lasciano chiaramente intendere che il genere della canzilena fosse specializzato in senso propriamente musicale, o che comunque mirasse alla esecuzione orale, alla performance pubblica» (p. 330); e, in
particolare, «all’interno del genere della canzone di scuola siciliana è possibile individuare ... un gruppo di componimenti dalle caratteristiche metrico-formali, stilistiche e tematiche omogenee, solitamente definiti dai critici “canzonette”» (queste caratteristiche sono «la monometria, l’uso del verso breve, lo schema relativamente sem-
plice»), che costituirebbero un vero e proprio «sottogenere», per il quale «si riscontrano numerosi indizi che inducono a sospettare un tipo di fruizione musicale»: per esempio il fatto che unicamente nelle «canzonette» isometriche di questo tipo, nella scuola siciliana e particolarmente presso il Notaio, si trovano le espressioni cantare, dire in cantando riferite all’io poetico (pp. 331-43). VIII 9. ET SIC PATET ... VOCAMUS EAM: «quid cantio sit ... prout accipitur generaliter» è stato definito al $ 6, «prout per superexcellentiam vocamus eam» al $ 8. 357
De vulgari eloquentia
IX. Quia, ut dictum est, cantio est coniugatio stantiarum,
ignorato quid sit stantia necesse est cantionem ignorare.
Nam ex diffinientium cognitione diffiniti resultat cogni-
tio; et ideo consequenter de stantia est agendum, ut sci-
licet investigemus quid ipsa sit et quid per eam intelligere volumus. [2] Et circa hoc sciendum est quod hoc vocabulum per solius artis respectum inventum est, videlicet ut in quo tota cantionis ars esset contenta, illud diceretur stantia, hoc est IX 1. QUID SIT STANTIA: stanzia ‘strofa’ (di cui non risultano dal TLIO esempi anteriori a Dante) è attestato nella Vita Nova cinque volte (10. 32, 19. 1, 22. 2 e 4, due volte): Dante lo usa senza definirlo, dandolo come termine noto. Nel Convivio invece usa sistematicamente verso nel senso di ‘stanza’ (cfr. Sanesi 1896, Biadene 1896),
che non impiega mai altrove con questo valore: infatti versus nel De vulgari significa o genericamente ‘componimento in versi’ (II I 2 e 9) o ‘volta’ della stanza (II X 4 sgg.); e verso nella Vita Nova signifi-
ca ‘verso latino’, nella Comedia ‘verso’ in generale. Per questi differenti significati di versus-verso cfr. la nota a II X 4. Quindi l’uso di verso e di stantia, nello stesso significato di ‘stanza di canzone’, corre parallelo e ugualmente sistematico rispettivamente nel Convivio (25 volte) e nel De vu/gari (30 volte). In latino, starti4 «ritorna subito nei trattatisti del primo Trecento, Francesco da Barberino, Do-
cumenti III, p.411 [Tractatus Amoris] e Antonio da Tempo, Surzzza XXXV 29 (le strofe della ballata “vulgariter appellantur stantiae”)» (Mengaldo). EX DIFFINIENTIUM ... RESULTAT COGNITIO: la coppia di termini correlativi diffinientia-diffinitum (il secondo era già comparso in II VIII 7) ricomparirà in X 1, anche lì con il primo termine al plurale perché gli elementi che definiscono un ente sono più d’uno, come risulta dal confronto con i passi di san Tommaso qui di seguito: un’altra tessera dell’esibito apparato filosofico della trattazione. Cfr. Uguccione, F 53 25 «diffinio -nis idest diversis modis finire, determinare, ostendere quid sit vel quale vel quantum, unde diffinitio -nis dicitur terminus demonstrans quod est esse rei» (sostanzialmente equivalente «defirzio -nis idest valde finire, idem est quod diffinire»). In san Tommaso, sullo sfondo di migliaia di occorrenze di definire (meno frequente diffinire), si danno contesti correlativi come Summa Theologiae I, q. 85, a. 3, ad 3 «definientia, absolute considerata, sunt prius nota quam defirzitu2, alioquin non notificaretur definitum per ea»; e più precisamente, dato che con358
De vulgari eloquentia II IX 1-2
IX. Poiché, come si è detto, la canzone è una congiunzione di stanze, se si ignora che cosa sia la stanza necessa-
riamente si ignora anche la canzone. Infatti la conoscenza del definito risulta dalla conoscenza dei definienti; e perciò di conseguenza occorre trattare della stanza, per investigare cioè che cosa essa sia e che cosa intendiamo per stanza. [2] E a questo proposito bisogna sapere che questo vocabolo è stato inventato avendo riguardo solo alla tecnica, in modo tale cioè che la parte nella quale era contenuta tutta intera la tecnica della canzone, quella si chiamasse tiene lo stesso esempio horzo = animal rationale ripreso qui a X 1, Ir libros Physicorum I, 1.1, n.10 «Definitum enim se habet ad definientia quodammodo ut totum integrale, inquantum actu sunt defirientia in definito; sed tamen qui apprehendit nomen, ut puta horzizerz aut circulum, non statim distinguit principia definientia ... sed prius est notum nobis defiritum, quam quod talia sint deferientia ipsius: sicut prius sunt nota nobis animal et rationale quam horzo; sed prius est nobis notus 20720 confuse, quam quod arimzal et rationale sint definientia ipsius». Nel caso particolare, la canzone è il diffinitum, le stanze che la compongono sono i diffinientia (e qui lo schema scolastico scricchiola: i diffinientia sembrano più d’uno solo perché la stanza è iterata nella canzone, non perché ci siano diversi elementi che definiscono la canzone). UT SCILICET INVESTIGEMUS ... INTELLIGERE VOLUMUS: per arrivare a conoscere la canzone, diffinitum, bisogna prima conoscere che cosa sia la stanza, diffiniens, cioè
bisogna dare anzitutto di essa una diffiritio (vedi sopra), la quale mira appunto a dire che cosa essa sia: «quid sit», «quod est esse rei». Difficile cogliere una distinzione di significato fra «quid ipsa sit» e «quid per eam intelligere volumus». IX 2. ETCIRCA HOC... RECEPTACULUM TOTIUS ARTTS: «spiegazione
furbesca», secondo D’Ovidio 1932a (1878), p. 152 nota 1, il quale assume invece che, sulla scia del francese stance, «le stanze sono come
le varie stazioni, le varie tappe, della Canzone». E Mari 1901, p. 78: «Col medesimo processo [cioè di designare con uno stesso termine «tanto la sospensione del carzus e il riprenderlo poi cangiato, quanto la parte del cantus che succedeva al cangiamento»] si erano già chiamate stantiae, pausae 0 pausationes, distinctiones così i punti che segnavano una pausa come gli spazi compresi tra un punto e l’altro». Marigo aggiunge: «se “stanza” fu in origine quella della ballata, avrà indicato lo “stare” fermo del corso danzante, durante il canto del so359
De vulgari eloquentia
mansio capax sive receptaculum totius artis. Nam quemadmodum cantio est gremium totius sententie, sic stantia to-
tam artem ingremiat; nec licet aliquid artis sequentibus arrogare, sed solam artem antecedentis induere. [3] Per
quod patet quod ipsa de qua loquimur erit congremiatio sive compages omnium eorum que cantio sumit ab arte:
quibus divaricatis, quam querimus descriptio innotescet. [4] Tota igitur ars cantionis circa tria videtur consistere: primo circa cantus divisionem, secundo circa partium habitudinem, tertio circa numerum carminum et sillabarum. lista». E Mergaldo: «pseudoetimologia, col consueto sottinteso che la connessione etimologica riveli l’essenza del significato». Nessuna etimologia nella voce stanza, di I. Baldelli, dell’ED. Ma l’interpretazione di Dante, che è peraltro il primo ad attestare il termine in vol-
gare, non è palesemente pretestuosa, rispetto all'ambito d’uso comune, non metrico, della parola, nel quale il significato di ‘sosta’ precede
certamente quello di ‘camera’, ma il significato di ‘dimora’ è strettamente contiguo al primo. La lessicografia latina registra solo statio (Uguccione, S 301 5), non *stantia, di cui m2anst0 (M 27 1) poteva in effetti apparire un equivalente (st0-rm247e0). NAM QUEMADMODUM ... ARTEM INGREMIAT: l’idea di stanzia come mansio, receptaculum, viene resa più intima dalla metafora del grerzi4r, con i derivati ingremio e congremiatio (cfr. Uguccione, G 91). IX 3. PERQUOD PATET ... SUMIT AB ARTE: nella stanza sono stret-
tamente congiunti l’uno con l’altro tutti gli elementi tecnici che definiscono la formula metrico-strofica della canzone. «Compages -is, idest coniunctio» (Uguccione, P 12 13), come coniugatio al $ 1: gli elementi tecnici così strettamente congiunti (corzpages) nella stanza, dirà in X 1, sono i diffinientia della stanza stessa, la quale a sua volta è il diffiniens della canzone. QUIBUS DIVARICATIS ... DESCRIPTIO INNOTESCET: distinguendo tali elementi diffinientia, emergerà la descriptio (pressoché un sinonimo di diffinitio) della stanza. IX 4. TOTA IGITUR ARS CANTIONIS: B ha «igitur scilicet», GT «igitum». Quindi ovviamente tutte le edizioni anteriori alla scoperta di B hanno «igitur», mentre Bertalot nelle sue edizioni 1917 e 1920 mette a testo la lezione di B, «Tota igitur scilicet ars cantionis», seguito da Marigo; il quale, però, sente giustamente il bisogno di aggiustare la punteggiatura («Tota igitur, scilicet ars cantionis, ...»: «Tutta adunque l’arte, s’intende, della canzone»); mentre Mergaldo torna alla sequenza indivisa di Bertalot, omettendo però di tradurre scilicet: «Dunque
360
De vulgari eloquentia Il IX 2-4
stanza, vale a dire la dimora capace di accogliere tutta la tecnica, ovvero il suo ricettacolo. Infatti, come la canzo-
ne è il grembo che accoglie tutto intero il pensiero, così la stanza racchiude in sé tutta intera la tecnica; e alle stanze
successive non è permesso arrogarsi alcun artificio proprio, ma solo rivestirsi della stessa tecnica usata nella stanza precedente. [3] Per cui è evidente che questa di cui parliamo sarà l’intima unione ovvero compagine di tutti gli elementi che la canzone prende dalla tecnica: distinguendoli, emergerà chiara la descrizione che cerchiamo. [4] Dunque tutta la tecnica della canzone si rivela consistere in tre elementi: primo la partizione della melodia, secondo la disposizione delle parti, terzo il numero dei versi tutta la tecnica della canzone». Ora, la sequenza «igitur scilicet», se non si ricorre a un accorgimento demarcativo come quello di Mar:go, non riesco a vedere in che modo possa essere giustificata. Non ne trovo un solo esempio nei corpora a me noti di latino classico e medievale; e riesce intraducibile. Sia ig444r che scilicet (ma non i due insieme) occorrono in Dante nelle giunture aggettivo + sgitur/scilicet + sostantivo: VEII1 «talem scilicet eloquentiam»; II XIII 13 «nimia sci-
licet eiusdem rithimi repercussio»; M# III Il 2 «Hec igitur irrefragabilis veritas»; XV 7 «Duos igitur fines»; 9 «Has igitur conclusiones»; 19 «Illa igitur reverentia». Non vedo perché, fra le due lezioni stem-
maticamente equivalenti, si debba scegliere quella giustificabile solo, in modo contorto, come fa Margo, al posto di quella perfettamente piana. Tanto più che la lezione di B si spiega benissimo con varianti alternative nell’originale conservatesi nell’archetipo, mentre l’antigrafo di GT ha interpretato correttamente il senso di quella compresenza, con o senza l’aiuto di un segno di espunzione che, se c’era, è invece sfuggito a B. Sia :gitur che scilicet sono connettivi appropriati all’argomentazione: Dante riprende e specifica il concetto appena detto, cioè “divarica” gli elementi diffinientia “compattati” nella stanza, e con ciò esplicita la descrizione-definizione della stanza stessa. Fra i due, igitur è da preferire perché è la lezione attestata da GT. CIRCA
TRIA ... CARMINUM ET SILLABARUM: i tre elementi che definiscono la stanza saranno trattati rispettivamente nel cap. X (la partizione della melodia); nei capp. XI-XIII (la disposizione delle parti); nel cap. XIV (il numero dei versi e delle sillabe). In XI 1 il secondo elemento sarà articolato in disposizione delle parti della stanza (piedi-fronte/volte361
De vulgari eloquentia
[5] De rithimo vero mentionem non facimus, quia de propria cantionis arte non est. Licet enim in qualibet stantia rithimos innovare et eosdem reiterare ad libitum: quod, si de propria cantionis arte rithimus esset, minime liceret. Si quid autem rithimi servare interest huius quod est ars, illud comprehenditur ibi cum dicimus “partium habitudinem”. sirma), se non indivisa (cap. XI); disposizione dei tipi di verso — endecasillabo, settenario, ecc. (cap. XII); disposizione delle rime (cap. XIII). IX 5. DE RITHIMO: il termine ris assume due diversi significati nelle due tipologie di Artes mediolatine: ‘verso’ nelle Artes Rithrzicae (ciò che le Artes Exametri chiamano versus); ‘rima’ nelle Artes Exametri (ciò che le Artes Ritbmicae chiamano consonantia): Mari 1901,
pp. 37-9, 47-8, 68-9. Rithimus nel De vulgari significa sempre ‘rima’ (27 occorrenze).
MENTIONEM NON FACIMUS ... NON EST: fermo
restando che è legittimo chiedersi perché Dante non tratti mai della rima in se stessa (Gonfroy 1982, p. 195: «Dante refuse d’abord de prendre en compte la nature de la rime, sans que l’on puisse véritablement saisir ses raisons»), a questo punto dell’argomentazione vale il fatto che le rime non sono pertinenti alla tecnica della canzone perché l’unico vincolo è che lo schema rimico resti costante in tutte le stanze, ma tale schema rimico in sé è lasciato alla libertà del poeta, e
inoltre le rime che lo sostanziano si possono liberamente mutare da una stanza all’altra. Dunque le rime non meritano il rango di elementi diffinientia della stanza, ma al massimo ne costituiscono un sottoelemento, sussunto sotto la «habitudo partium». Dante ne tratterà nel cap. XIII.
LICET ENIM ... REITERARE AD LIBITUM: «cioè mutare le
rime — fermo beninteso lo schema — ad ogni stanza, secondo la consuetudine già divenuta prevalente in Italia (e significativamente nominata per prima) [ossia quella delle coblas singulars]; o mantenerle fisse in tutte le stanze (coblas urzissonans), com'era assai più frequen-
te nella lirica trobadorica, con le possibili soluzioni intermedie: rime ripetute per due (coblas doblas), tre e anche quattro stanze successive ... € poi variate, ripetute a stanze alternate ecc.» (Merga/do). Nel suo confronto fra il De vu/gari e le Leys d’Amors, e con ciò fra la tradizione italiana e quella occitana, Gonfroy 1982 osserva: «D’emblée, une constatation s impose: les problèmes structurels de la cantio se réduisent pour Dante à ceux de la strophe (stanzia): duméme coup sont passées sous silence toutes les techniques d’enchaînement des strophes, pourtant utilisées dès la seconde génération de troubadours; à l’opposé le Leys définissent avec précision les coblas retrogradatas, capcaudadas et capfinidas, pour ne retenir que les principales ... la conception 362
De vulgari eloquentia II IX 5
e delle sillabe. [5] Della rima invece non facciamo menzione, perché non appartiene specificamente alla tecnica della canzone. In qualunque stanza, infatti, èpermesso rinnovare le rime oppure ripeterle, a piacimento: il che, se la rima appartenesse specificamente alla tecnica della canzone, non sarebbe permesso. Ma se conservare qualcosa della
rima è rilevante per quello che è la tecnica, questo rientra in quella che abbiamo chiamato “disposizione delle parti”. du VE répond à la pratique des stilnovistes qui privilégient les cob/as singulars au détriment de tout procédé visant à unifier ostensiblement le poème» (p. 191). «Esempi, integrali, di cob/as unissonans» si trovano nei siciliani e nei siculo-toscani, «in Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, Stefano Protonotaro, Iacopo Mostacci, Guittone, Panuc-
cio, Orbicciani, Monte»; mentre poi, «praticamente scomparse le coblas unissonans ... la tradizione italiana del Trecento preferisce non collegare fra loro le stanze della canzone, privilegiando dunque le coblas singulars» (Pelosi 1990, pp. 123-5). QUOD... MINIME LICERET: «dato che tutta l’ars della canzone è contenuta nel microcosmo della stanza, se le rime in sé prese appartenessero specificamente a questa
ars non sarebbe possibile mutarle di stanza in stanza, come non è possibile variare lo schema strofico» (Mergaldo). Dopo liceret, i manoscritti e tutte le edizioni hanno «quod dictum est», preceduto da un segno d’interpunzione così nei manoscritti come nell’ed. Rajna 1896 (due punti) e successive (una lineetta in Mengaldo 1968); stacco che Rajna motiva «sembrandomi affatto impossibile che si sia voluto designare con quod dictum est ciò che è espresso nella prima parte di questo medesimo periodo», in funzione di soggetto di liceret. Pienamente condivisibile, ma a me sembra altrettanto impossibile che Dante abbia aggiunto, al pensiero perfettamente formulato, questa zeppa, che Marigo traduce «secondo ciò che s’è detto» (ma “secondo” non c'è), Mengaldo «come s'è detto» (ma il testo tràdito non ha «ut dictum est», frequentissimo nel De vu/gari, bensì «quod dictum est»); e, come notava giustamente Rajna, «si viene a far commettere a Dante una inesattezza, in quanto non è proprio stato detto ciò che come
tale si indica, bensì è stato solo posto il principio ($ 2) da cui si deduce». Credo che «quod dictum est» sia il risultato di un incidente testuale che al momento non comprendiamo; ma il non saper spiegare cosa sia successo non rende, a mio parere, difendibile la lezione tràdita.
SIQUID AUTEM RITHIMI ... “PARTIUM HABITUDINEM?”: l’espres-
sione «huius quod est ars» è simile a II XI 1 «eius quod artis est». Il rimando è al cap. XIII, e più precisamente ai $$ 9-11, dove si danno 363
De vulgari eloquentia
[6] Quare sic colligere possumus ex predictis diffinientes et dicere stantiam esse sub certo cantu et habitudine limitata carminum et sillabarum compagem. x. Scientes quia rationale animal homo est et quia sensibilis anima et corpus est animal, et ignorantes de hac anima quid ea sit, vel de ipso corpore, perfectam hominis cognitionem habere non possumus, quia cognitionis perfectio uniuscuiusque terminatur ad ultima elementa, sicut magister sapientum in principio Physicorum testaappunto tre casi in cui, per ragioni strutturali, che dunque pertengono all’ars della stanza, bisogna servare qualche rima. IX 6. QUARE SIC ... EX PREDICTIS DIFFINIENTES: diffinientes non può essere, come tutti interpretano, complemento oggetto di «colligere possumus» e significare ‘gli elementi della definizione”. Se fosse così, dovrebbe essere neutro plurale, come in II X 1 «nunc diffirnientia suum diffiniens sub compendio ventilemus» e anche qui al $ 1 «ex diffinientium cognitione diffiniti resultat cognitio». Diffinientes è invece riferito al ros autoriale ed è retto da «colligere possumus» nel senso di ‘concludere’, senza complemento oggetto, già del latino classico; secondo il
frequentissimo modulo I X 1 «cunctamur librantes», I XV 1 «conemur expedientes», I XV 6 «allubescentes concordamus ... dissentientes discordamus», I XVII 1 «adicientes vocemus», II IV 1 «aporiavimus ex-
tricantes», II VII 2 «Testamur ... incipientes», II XI 2 «Incipientes ...
dicimus».
DICERE STANTIAM ... SILLABARUM COMPAGEM: defini-
zione che sintetizza i tre elementi diffinzentia, appunto, focalizzati nel $ 4. Si dà così risposta ai quesiti posti al $ 1: «quid ipsa sit et quid per eam intelligere volumus». Da mantenere la lezione dei manoscritti «limitata» (riferita ad «habitudine»), che Rajna 1896 e 1930, p. 42, riteneva necessario emendare in «limitatam» (riferendola a «compagem»); emendamento prima rifiutato da Marigo 1925, p. 314, poi invece accolto nella sua edizione, e ampiamente contestato da Bigongiari 1964. «Sub certo cantu et habitudine limitata», oltre al pregio secondario del cursus rilevato da Marigo 1925, è soprattutto impeccabile come significato. I due elementi retti da sub, paralleli e anzi strettamente affini, che definiscono la struttura della stanza, sono la determinata melodia che essa, come si dirà in X 2, è disposta ad accogliere, e la determinata disposizione delle parti, che è precisamente ciò che rende compatibile il testo con la melodia. Gli aggettivi cerzus e lizitata sono fondamentalmente sinonimi: lirzitata si attaglia particolarmente bene a babity364
De vulgari eloquentia II IX 6-X 1
[6] Perciò dagli elementi fin qui detti possiamo concludere con una definizione, e dire che la stanza è una compagine di versi e di sillabe sotto una determinata melodia e una delimitata disposizione.
X. Se sappiamo che l’uomo è un animale razionale e che l’animale è anima sensitiva e corpo, ma ignoriamo che cosa sia quest’anima e che cosa sia questo corpo, non possiamo
avere una perfetta conoscenza dell’uomo, perché la perfezione di qualsiasi conoscenza si ha quando si possiedono gli elementi ultimi, come attesta il maestro dei sapienti nel do perché significa ‘determinata’ nel preciso senso di ‘delimitata’; con allusione alle partizioni “topografiche” di fronte e sirma, piedi e volte. Del tutto condivisibile il giudizio di Merga/do: «Non direi affatto che certus abbia il senso voluto dal Monterosso (1965, p. 91), cioè che
canzone e singole stanze dovrebbero possedere una melodia creata appositamente, ma semplicemente ‘ben precisa’, ‘ben determinata’ nelle sue leggi formali intrinseche». Che cosa ciò concretamente significhi, è discusso nella nota a II X 2. X 1. SCIENTESQUIA.... EST ANIMAL: qua per ‘che’, a introdurre due proposizioni oggettive, come in I II 4 (ugualmente retto da scire) «nisi ut sciat quilibet de quolibet 9442 est et quantus est». Uso risalente alla Vulgata (vedi Marigo, glossario, s.v.) e comune nel latino della Scolastica. Che l’uomo sia animale (genere prossimo) razionale (differenza specifica) è luogo comune in Aristotele e nella Scolastica, e occorre fra l’altro nel brano all’inizio della Fisica di Aristotele, contiguo a quello citato qui di seguito. E cfr. il relativo commento di san Tommaso addotto a riscontro di diffinitum-diffinientia in II IX 1. ET IGNORANTES ... AD ULTIMA ELEMENTA: si conosce veramente una cosa solo se
si conoscono gli elementi di cui essa ècomposta. Concetto molto simile a quello già enunciato, in termini di diffinitum-diffinientia, in Il IX 1. L'anima sensitiva è propria di tutti gli animali, l’anima vegetativa è comune anche alle piante, l’anima razionale è esclusiva dell’uomo (cfr. Cv II Il 10-6). Nel De vu/gari questi concetti erano già stati attivi (più
di quanto appaia) nella rievocazione della creazione e poi dell’arz724-
zione di Adamo: vedi la nota a I V 3. MAGISTER SAPIENTUM: Cv IV VII 15 «quello maestro delli filosofi, Aristotile»; [{IV 131-2 «vidi ’l maestro di color che sanno / seder tra filosofica famiglia». IN PRINCIPIO PHYSICORUM TESTATUR: Aristotele, Physica 184a «tunc enim cognoscere arbitramur unumquodque, cum causas primas et prima 365
De vulgari eloquentia
tur. Igitur, ad habendam cantionis cognitionem quam inhyamus, nunc diffinientia suum diffiniens sub compendio ventilemus, et primo de cantu, deinde de habitudine,
et postmodum de carminibus et sillabis percontemur. [2] Dicimus ergo quod omnis stantia ad quandam odam principia cognoscimus, et usque ad elerzenta»; col commento di san Tommaso, Ir libros Physicorum. I, 1. 1, n. 5 «quia tunc quilibet opinatur se cognoscere aliquid, cum scit omnes causas eius a primis usque
ad ultimas. Nec oportet ut aliter accipiamus hic causas et elementa et principia quam supra ... sed eodem modo». Come nota san Tommaso, causae, elementa e principia sono termini largamente intercambiabili; e così, possiamo aggiungere, gli aggettivi pri24s e ultimus: «principia prima», «causae primae», «prima elementa» sono binomi molto ricorrenti
nell’opera di san Tommaso, come l’idea che qui Dante applica.
IGI-
TUR, AD HABENDAM.... ET SILLABIS PERCONTEMUR: dunque sembra
che il paragone sia, al livello più alto, fra l’uomo e la canzone; al livello intermedio, fra la nozione di animale razionale e quella di stanza (e qui il parallelismo vacilla, perché l’uomo è animale razionale, mentre la canzone non è la stanza); al livello degli «ultima elementa», fra le nozioni di anima e di corpo e quelle di melodia, disposizione, versi e sillabe. Questi ultimi sono i «diffinientia suum [= cantionis] diffiniens», cioè gli elementi che definiscono la stanza, la quale a sua volta definisce la canzone. Dante non rinuncia a strutturare l’analisi della canzone, come ha fatto per tutti gli altri temi-chiave del trattato, in termini filosofici, o almeno ad ammantarla di linguaggio filosofico. X 2. OMNIS STANTIA ... ARMONIZATA EST: è questa, dopo la definizione di poes:s in II IV 2, e dopo la discussione in II VII 4-6 se cantio sia il testo o la musica, la terza affermazione rilevante sul rapporto fra testo e musica in poesia. Per interpretarla occorre dunque tenere insieme i seguenti dati di fatto: a) la definizione di poesis in Il IV 2 — «si poesim recte consideremus: que nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita» — indica inequivocabilmente nella musica una delle due componenti, al pari della retorica, che costituiscono la poesia; b) lo stesso ruolo costitutivo della musica si ritrova in Cv II XI 9 «ponete mente la sua bellezza [della canzone], che è grande sì per la construzione, la quale si pertiene alli gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici, sì per lo numero delle sue parti, che si pertiene alli musici»; c) la discussione in II VIII 4-6 se cantio sia il testo
o la musica dimostra l’intenzione, altrettanto inequivocabile, di iden-
tificare la canzone con il testo, e il suo autore con il poeta, relegando
la figura dell’eventuale compositore della musica (che certamente non 366
De vulgari eloquentia II X 1-2
principio della Fisica. Perciò, per avere quella conoscen-
za della canzone a cui aspiriamo, ora esporremo in sintesi
gli elementi che definiscono ciò che a sua volta la definisce, e indagheremo prima sulla melodia, poi sulla disposizione e infine sui versi e le sillabe. [2] Diciamo dunque che ogni stanza è armonizzata per
coincide con quella del poeta) in un ruolo posteriore e secondario di
mero esecutore della canzone, «tibicen, vel organista, vel cytharedus»
(con la svalutazione boeziana già illustrata rispetto alla musica come
scientia), essendo il canto, a fianco della recitazione, solo una delle due
possibili esecuzioni della canzone. Sembra quindi delinearsi un quadro contraddittorio, fra ruolo costitutivo attribuito alla musica in a) e b) e declassamento della musica a mera modalità esecutiva in c). Ma credo che la contraddizione sia apparente. Infatti per musica, in a), Dante «intende, secondo la nozione medievale, ... la scienza dei rapporti pro-
porzionali: una potenzialità riflessa nella struttura strofica, ossia l’attualità d’una semplice armonia verbale» (Roncaglia 1978, p. 381); e per musici, in b), figure teoriche, poste infatti sullo stesso piano dei grammatici e dei retori; assolutamente superiori a quelle dei musicisti strumentali di c). «Le raisonnement de Dante se situe au niveau spéculatif; et le fait qu’une chanson particulière ou que la chanson en tant que genre soit bic et nunc lue ou chantée ne saurait avoir la moindre
incidence sur les assises théoriques de la question» (Menichetti 2006, pp. 309-10). Su questo sfondo, l’affermazione che «omnis stantia ad quandam odam recipiendam armonizata est», anticipata a II IX 4 dalla «cantus divisio» (poi ripetuta al $ 6, «sub certo car/4») come primo elemento diffiniens di ciò che è la stanza (e «l’equivalenza di oda a cantus, dunque a ‘melodia’, è anche in Uguccione [cioè U 11 1]», Mergal do, p. 210), comporta che la canzone si caratterizza essenzialmente e necessariamente per il suo essere msicabile. Una canzone non è tale se non è intrinsecamente, nella propria costruzione ritmico-metricostrofica, passibile di essere musicata — e questo concorda con il ruolo costitutivo della musica definito in a) e in b). Ma non è affatto necessario che la canzone venga empiricamente musicata — e questo concor-
da con quanto affermato in c). Tale interpretazione è confermata anche dal verbo arzonzzare; il quale nel De vulgari, a partire dai verba
«armonizanda per metra» di IT VII 7, si applica sempre e soltanto all’interno del testo verbale, non all’incontro fra questo e la musica. Per cui è all’interno del testo verbale, nella “armonizzazione” delle parole «per metra», cioè nella costruzione ritmico-metrico-strofica, che la stanza si qualifica come musicabile, e quindi come stanza. Perciò l’afferma367
De vulgari eloquentia
recipiendam armonizata est. Sed in modis diversificari videntur, quia quedam sunt sub una oda continua usque ad ultimum progressive, hoc est sine iteratione modulationis cuiusquam et sine diesi — et diesim dicimus deductionem vergentem de una oda in aliam (hanc voltam vocazione di Bigongiari 1964, pp. 49-50 — secondo cui «the musical pattern imposes several conditions to the metrical scheme ... it is the musical partition that controls the metrical scheme and not the converse ... the subdivision of both parts of the stanza into strophes (pedes and versus) is a metrical response to a musical demand» —, è giusta a patto di mor intendere che la struttura metrica sia costruita su misura di una effettiva melodia preesistente. Se così fosse, la fortissima rivendicazione della priorità e autonomia della composizione poetica (c) sarebbe impossibile. Di fatto, è vero il contrario: ciò che Dante chiama musica è
incorporato nella struttura metrica. Il poeta ha acquisito le competenze del grammatico, del retore e del musico (b), e grazie a esse è in grado di comporre in autonomia la sua fictio, ovvero di “armonizzare” la stanza (e con ciò si deve intendere: rzetricamente) «ad quandam odam recipiendam». IN MODIS: nello stesso senso di ‘forme metriche’ (non «modulazioni», come traduce Marigo, ma corrispettivi metrici di tali “modulazioni”) che la parola rz0dus ha sempre (19 occorrenze) nei capp. I-VII del libro II. QUEDAM SUNT ... MODULATIONIS CUIUSQUAM: la stanza indivisa è tale perché è in funzione di una melodia unica, mentre la stanza divisa in una prima e una seconda parte, eventualmente divise al loro interno, è in funzione di frasi musicali iterate.
Ma proprio questo ron è generalmente vero nelle tradizioni galloromanze che, a differenza dell’italiana, conservano una consistente do-
cumentazione di poesia musicata: «la stroficità musicale è quasi sempre diversa da quella poetica, nei trovatori» (Sesini 1939, p. 468: per esempio la struttura metrica e la struttura musicale della canzone Ew chantan di Folchetto sono confrontate in Sesini 1938). Nei trovieri francesi «la division métrique de la strophe ne correspond pas nécessairement à celle de la structure mélodique, comme Dante e son commen-
tateur Marigo tendent à nous le faire croire»; in particolare «le dévelopement continu de la mélodie contraste entièrement avec les divisions du schème métrique» (Dragonetti 1960, pp. 384 e 386); con-
cetto ribadito da Monterosso 1965, pp. 85-6 e 94; Pazzaglia 1967, p. 185; Gonfroy 1982, p. 192, il quale conferma per l'ambito provenzale quanto notato da Dragonetti in quello francese: «près de la moitié du corpus mélodique relève du type sub oda continua, les schèmes strophiques ne sont jamais, sauf pour trois cas précis, dont la sextine d’Ar368
De vulgari eloquentia II X 2
ricevere una certa melodia. Ma nelle forme si diversificano,
perché alcune stanno sotto un’unica melodia che procede continua fino alla fine, cioè senza che la frase musicale ven-
ga ripetuta e senza diesis — definiamo diesis il passaggio che conduce da una melodia a un’altra, ciò che chiamiamo volnaut Daniel, en ris estrarmzps, ce que l’isomorphisme des deux structures aurait dù entraîner»; e cfr. Beltrami 2002 (1991), $ 183. Lannutti 2000 giudica questi di Dragonetti, Monterosso, Pazzaglia e Gonfroy «fraintendimenti ormai passati in giudicato ... un vero e proprio equivoco» (p. 18), nel senso che Dante non poteva ignorare fino a questo punto l'effettivo corredo musicale della poesia in lingua d’oc («sottovalutazione dell’esperienza musicale di Dante e della sua reale conoscenza del patrimonio musicale musicato», ibide), ma doveva considerare
tutta questa ricca gamma di variazioni possibili come attinente all’esecuzione, di cui la sua teoria si disinteressava totalmente: «Dante intende offrire le norme della creazione poetica, non quelle della sua esecuzione»; «la finalità della sua trattazione è la descrizione delle proporzioni di una struttura di tipo musicale che si vuole dimostrare ricca di varianti, di possibilità combinatorie» (p. 19); «il poeta è ... tenuto a scegliere un tipo di strofe musicale, cioè un genere formale, e a costruire su di esso la strofa verbale» (p. 16). In queste affermazioni, comunque, l’aggettivo musicale (che è appropriato, perché è Dante che pone esplicitamente la musica all’origine dell’atto compositivo del poeta) può e deve intendersi solo in senso astratto e non empirico, altrimenti confligge sia con la veste musicale non isomorfa rispetto alla strofa verbale che di fatto a essa veniva abbinata, sia con l’enfasi posta sull’esclusivo ruolo autoriale del poeta. Il condizionamento “teleologico” che egli vede esercitato dalla melodia sulla strutturazione metrica del testo poetico si riduce a un assunto 4 priori. I poeti, di fatto, gestiscono la varietà degli schemi strofici in totale autonomia, e Dante lo teorizza (Il VII 4-6), semplicemente assumendo che tali schemi siano, all’origine, il corrispettivo metrico di schemi melodici. ETSINE DIESI ... CUM VULGUS ALLOQUIMUR: «la voce diesis e la sua definizione Dante le ha pigliate di peso da Isidoro [Etyrz. III XX 6)» (D’Ovidio 1932a [1878], p. 153 nota 1); o meglio dal solito Uguccione, D 45 26, che ripete la definizione di Isidoro: «hec diesis -sis, spatium quoddam et deductio modulandi de uno in alterum sonum vergens». «Diests è un’altra denomi-
nazione che Dante trovava nella musica e nella grammatica. Il volgo diceva volta tanto la sospensione del cantus e il riprenderlo poi cangiato, quanto la parte del cantus che succedeva al cangiamento ... Anche diesis, che in Dante e nelle sue fonti è la divisione astratta tra par369
De vulgari eloquentia
mus, cum vulgus alloquimur). Et huiusmodi stantia usus
est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus:
AI poco giorno e al gran cerchio d'ombra.
[3] Quedam vero sunt diesim patientes, et diesis esse
non potest, secundum quod eam appellamus, nisi reiteratio unius ode fiat, vel ante diesim, vel post, vel undique. te e parte, poteva significare le stesse parti divise, come si comprende da quel passo di Remigio d’Auxerre [Musica, ed. Gerbert 1784, I, p. 82], “atque in hoc, id est in hac ratione, numeris toni similes invenitur,
sub quo tonus in quatuor ‘dieses’ dividitur” ecc. Similmente Giov. di Garlandia chiama differentia tanto il fatto che la cauda non è simile alle distinctiones, quanto la cauda stessa o le caudae, se sono multiple» (Mari 1901, pp. 78-9). Questo, dunque, spiega anche il fatto che «Dante usa volta per l'intervallo stesso, mentre già in Francesco da Barberino il termine ha il senso poi comune di gruppo di versi che forma una partizione della coda della stanza, dopo l’intervallo che segna il mutamento melodico» (Merga/do). Sul rapporto fra i termini versus e volta in Dante vedi Sanesi 1896, Biadene 1896. Meno probabile, però, ma non impossibile, che sintatticamente «hanc voltam vocamus» rimandi non a diesim ma ad aliam («de una oda in aliam»), cioè appunto alla “volta”, che poco sotto Dante chiama versus.
ET HUTUSMODI STANTIA
... ARNALDUS DANIELIS: dal punto di vista di Dante, il rilievo è esatto: delle diciotto canzoni di Arnaut, solo la 3 può essere considerata, se-
condo il criterio qui fissato, canzone con stanze «diesim patientes»: Can chai la fueilla, con schema 4a 6b 4a 6b 4b 6a 4b 6a, interpretabi-
le come stanza di piedi e volte. Delle altre, quando non siano monometriche (come la 10, di settenari; e la 15 e la 17, di decasillabi), anche
quelle che hanno una chiara divisione in due parti caratterizzate ciascuna da un metro (settenari-decasillabi la 16, ottonari-decasillabi la 5, la 6, la 13) non hanno «reiteratio unius ode ... vel ante diesim, vel post,
vel undique»; quindi, ai sensi del $ 3, non possono essere considerate stanze con diesis. Naturalmente si tratta di superimposizione dello schema italiano, dantesco, a cob/as provenzali, senza tener conto delle
melodie; ma così — cioè in termini strettamente metrici — dobbiamo ritenere che ragionasse Dante (e del resto è stato osservato che si davano spesso melodie continue abbinate a stanze divise, piuttosto che l’inverso: vedi sopra). In ogni caso, «l'affermazione fa pensare ad una conoscenza e ad uno studio largo dell’opera di Arnaldo» (Margo): su 370
De vulgari eloquentia II X 2-3
ta, quando parliamo agli illetterati. E una stanza di questo tipo ha usato in quasi tutte le sue canzoni Arnaut Daniel, e noi lo abbiamo seguito quando abbiamo cantato: AI poco giorno e al gran cerchio d’ombra. [3] Altre invece comportano la diesis, e non si può avere diesis, nel senso che diamo al termine, se non si dà la ripetizione di una stessa melodia, o prima della diesis, o dopo, nessun altro trovatore, infatti, e nemmeno su nessun altro poeta italiano, Dante fa un’osservazione che, come questa, abbraccia l’intera
opera. Da notare che le canzoni a stanza indivisa sono estranee alla tradizione italiana, come quelle con stanza di fronte e volte ($ 4). Che
Dante annoveri entrambi i tipi è segno che la sua sintesi vuol essere su scala romanza; dei due tipi dà due soli esempi italiani, entrambi suoi propri. Cfr. invece qui la nota al $ 3. ET NOS EUM SECUTI SUMUS.... GRAN CERCHIO D’ OMBRA: fra tutte le canzoni a stanza indivisa di Arnaut, solo la 18, Lo ferr voler, è una sestina, che Dante imita nella pro-
pria sestina petrosa A/ poco giorno. Per esemplificare la stanza indivisa, dunque, egli ne sceglie un tipo particolarissimo, la sestina, colla dissoluta unissonans che ripete in ogni stanza non solo le stesse rime, ma le stesse parole rima, variate di posizione di stanza in stanza secon-
do lo schema della retrogradatio cruciata, così raggiungendo un apice di difficoltà tecnica e un effetto unico di artificio ipnotico. Dante citerà una seconda volta A/ poco giorno in II XIII 2, ma neanche là citerà il suo modello Lo ferrz voler. In entrambi i casi riconosce di aver seguito Arnaut, ma qui solo per l’«oda continua», e in II XM 2 solo per la «stantia sine rithimo», adducendo a esempio la canzone 17, St:77 fos Amors (cfr. la nota relativa). Così modello di maestria unica resta solo,
in entrambi i casi, la dantesca A/ poco giorno. X 3. QUEDAM VERO... VEL UNDIQUE: se la stanza non è indivisa, ma divisa dalla diesis, è necessario che la stessa frase musicale ven-
ga ripetuta almeno una volta, o prima della diesis, o dopo, o sia prima che dopo. In altre parole, è impossibile che una stanza divisa sia, secondo la terminologia introdotta al paragrafo successivo, composta di fronte (indivisa) e sirma (indivisa): «tipo effettivamente assente nella lirica italiana, ma presente, sia pure di rado, nella provenzale (anche nel lodato Aimeric de Peguilhan, nn. 25, 35, 36, pp. 141,
180, 182 Shepard - Chambers [1950]» (Merga/do). In questo caso, quindi, Dante non include una tipologia estranea alla tradizione italiana, come invece fa nel caso della stanza indivisibile ($ 2) e della 371
De vulgari eloquentia
[4] Si ante diesim repetitio fiat, stantiam dicimus habere
pedes; et duos habere decet, licet quandoque tres fiant, rarissime tamen. Si repetitio fiat post diesim, tunc dicimus stantiam habere versus. Si ante non fiat repetitio, stantiam dicimus habere frontem. Si post non fiat, dicimus habere sirma, sive caudam.
[5] Vide ergo, lector, quanta licentia data sit cantiones stanza di fronte e volte ($ 4), in quei due casi adducendo a esempio
una unica canzone sua propria. X 4. SI ANTE DIESIM.... RARISSIME TAMEN: costantemente nel De
vulgari il termine pedes indica le partizioni della prima parte della stanza (fronte), prima della diesis. Manca invece piedi nello stesso senso nella Vita Nova e nel Convivio. Per la storia semantica del termine vedi la nota a II XI 12. Effettivamente la norma è che i piedi siano due, mentre il tipo con tre piedi conta pochissimi esempi arcaici. Fra questi c’è la più antica canzone italiana, Quando eu stava in le tu’ cathene (circa 1180-1210), pubblicata da Stussi 1999, che ha lo schema AB AB AB CCCD; e la canzone La ra vit'è sì fort’e di Guido delle Colonne. «Dante potrebbe avere in mente proprio questa canzone», nella quale «la tripartizione della fronte», ugualmente in tre distici di endecasillabi AB AB AB, è «indiscutibile» per
ragioni sintattiche, «piuttosto che la ciniana Mi/le volte richiamo, in cui la tripartizione della fronte è solo apparente; senza contare le meno rigorose divisioni interne delle cob/as occitane» (C. Calenda in PSS, II, p. 76). Ha la fronte tripartita anche la canzone del Ca-
stra (I X1 4). E cfr. Beltrami 2002 (1991), $ 188.
SI REPETITIO FIAT
... HABERE VERSUS: «versus, se generalmente denotò il verso lungo quantitativo [è il senso in cui Dante, in Vr 16. 4, contrappone
«dire per rima in volgare» a «dire per versi in latino», cfr. la nota a II IV 2], poté nel Medioevo significare anche un seguito di versetti a costituire ciò che noi diremmo la strofa [è il senso nel quale Dante usa verso nel Convivio, per indicare la stanza di canzone: cfr. la
nota a II IX 1]: nell’un caso il termine è nel vero significato classico, quello delle Artes Exarzetri; nell'altro esso s’accosta alla corrente musico-chiesastica e, se non lo vediamo accettato dalle Artes
Rithmicae, tuttavia esistette veramente e s’andò poi perpetuando in qualche letteratura neolatina, dove i derivati di versus poterono anche significare l’intero componimento» (Mari 1901, p. 48): tipicamente, l’occitano vers, «nome dato dai trovatori provenzali a tutti iloro componimenti poetici, fino circa alla metà del dodicesimo
secolo. Il termine è l’equivalente del mediolatino versus» (Beltra372
De vulgari eloquentia II X 4-5
o sia prima che dopo. [4] Se la ripetizione si dà prima della diesis, diciamo che la stanza ha i piedi — ed è buona regola che ne abbia due, benché a volte ve ne siano tre, ma
molto raramente. Se si dà dopo, diciamo che la stanza ha le volte. Se la ripetizione manca prima della diesis, diciamo che la stanza ha la fronte. Se manca dopo la diesis, diciamo che ha la sirma, ovvero la coda.
[5] Vedi dunque, lettore, quanta licenza sia stata conmi 2002 [1991], p. 417). Fra questi due significati estremi (‘singolo verso’ / ‘stanza, strofa’, o addirittura ‘componimento?’) non stupi-
sce che a versus, plurale, potesse essere assegnato anche quello intermedio che indicava una parte della stanza, segnatamente le vo/te- come già le chiama un contemporaneo di Dante, Francesco da
Barberino —, che hanno un etimo parallelo (vertere-voltare). Cfr. la
discussione fra Sanesi 1896 e Biadene 1896. SI ANTE NONFIAT... HABERE FRONTEM: «lo studio delle canzoni di Giraut de Borneill e di altri trovatori, che, come P. Rogier e A. Mareuil, presentano
esempi di stanza colla prima parte indivisibile, ha indotto il Poeta a introdurre il nome, altrimenti ignoto, di fronte e il tipo frontevolte, del tutto estraneo alla tradizione della lirica nostra» (Mari go, pp. CXLI-CXLII). Anche di questo tipo, come dell’altro estraneo alla tradizione italiana, quello della stanza indivisa ($ 2), Dante darà un esempio di sua propria mano, in II XI 5. SI POST NON FIAT... SIRMA, SIVE CAUDAM: «cauda era d’uso corrente nella terminolo-
gia ritmica medievale, con significati oscillanti fra ‘parte finale’ e ‘parte additizia’ di una sequenza ritmica [con rimandi a Mari 1901, pp. 59-66, 75-8] ... Syrrza ne è l'equivalente dotto (Uguccione attesta l’equivalenza syrzza = cauda)» (Mengaldo); ma non in senso metrico: S 172 4 «Item a siren hoc sirz4 -tis, idest cauda vestis femi-
narum». «Dante, l’unico dei nostri trattatisti che se ne valga, poté forse trovar la voce [sîr724] già divulgata tra gli scrittori di ritmica. Era denominazione viva nel canto ecclesiastico e nella grammatica,
sempre metaforicamente per l’ultima parte di qualche cosa» (Mari 1901, p. 78); «è la parola dotta entrata dal greco fin dall’antichità nei trattati latini sull’arte musicale» (Marigo). X 5. VIDE ERGO, LECTOR ... ESSE CONCESSUM:
«importante la
nozione di un uso autorevole che fonda le norme e insieme ne garantisce l’elasticità e la libertà»; «l’auctoritas fondamentale diviene la
stessa tradizione letteraria dei volgari, quale culmina poi nell’esperienza di Dante medesimo» (Mergaldo, ad locum e p. 11). Ritengo 373
De vulgari eloquentia
poetantibus, et considera cuius rei causa tam largum arbitrium usus sibi asciverit; et si recto calle ratio te duxerit, vi-
debis autoritatis dignitate sola quod dicimus esse concessum. [6] Satis hinc innotescere potest quomodo cantionis
ars circa cantus divisionem consistat; et ideo ad habitu-
dinem procedamus. XI. Videtur nobis hec quam habitudinem dicimus maxima pars eius quod artis est. Hec etenim circa cantus divisionem atque contextum carminum et rithimorum
relationem consistit: quapropter diligentissime videtur esse tractanda. [2] Incipientes igitur dicimus quod frons cum versibus, pedes cum cauda vel sirmate, nec non pedes cum versibus, in stantia se diversimode habere possunt. [3] Nam
quandoque frons versus excedit in sillabis et carminibus, vel excedere potest — et dicimus “potest” quoniam habiche Dante abbia voluto focalizzare questo significato, dandogli particolare risalto con l'appello al lettore, in modo anche più preciso:
non credo sia un caso, infatti, che vengano nominati qui i «cantiones poetantes», riattivando il verbo-chiave poetari nell’unica occorrenza (su sedici) transitiva, quindi focalizzando i poeti volgari come autori, in senso forte, delle canzoni. Sospetto che in questo modo Dante abbia voluto sottolineare l’importanza esclusiva («autoritatis dignitate sola») del poeta, negando implicitamente che essa sia da condividere con altre figure, che egli vuol tenere invece su un piano di inferiorità: e cioè da una parte, forse, i teorici delle artes dictandi, dall’altra parte imusici. Non dimentichiamo infatti che siamo entro lo specifico argomento «cantus divisio»; e che le espressioni «cantiones poetantes» e «autoritatis dignitate sola» sembrano ribadire intenzionalmente l’idea che la canzio ha il poeta come proprio unico autor (II VIII 4-5): persino la varietà degli schemi di «cantus divisio» si è imposta nell’uso per sola autorità dei poeti che li hanno consacrati in canzoni esemplari.
XI 1. EIUS QUOD ARTIS EST: simile a II IX 5 «huius quod est ars». HEC ETENIM ... VIDETUR ESSE TRACTANDA: la disposizione delle parti, preannunciata in II IX 4, viene qui articolata in disposizione
delle parti della stanza (piedi-fronte/volte-sirma), se non indivisa (og-
374
De vulgari eloquentia II X 5-XI 3
cessa ai poeti che compongono canzoni, e considera per
quale motivo l’uso si sia arrogato una libertà così ampia; e se la ragione ti guiderà per la retta via vedrai che la libertà di cui parliamo è stata concessa solo per il prestigio dei modelli riconosciuti. [6] Da ciò può risultare sufficientemente chiaro in che cosa consista la tecnica della canzone quanto alla partizione della melodia; e perciò passiamo alla disposizione. XI. Questa che chiamiamo disposizione a noi sembra la parte più importante di ciò che è della tecnica. Riguarda infatti la partizione della melodia e l’intreccio dei versi e il rapporto delle rime: per cui bisogna trattarne con grandissima diligenza. [2] Cominceremo dunque col dire che la fronte rispetto alle volte, i piedi rispetto alla coda o sirma, nonché i piedi rispetto alle volte, possono rapportarsi in diversi modi nella stanza. [3] Infatti talora la fronte eccede le volte per numero di sillabe e di versi, o meglio può eccederle - e diciamo “può” perché questa disposizione getto del presente capitolo); disposizione dei tipi di verso — endecasillabo, settenario, ecc. (cap. XII); disposizione delle rime (cap. XI). XI 2. FRONS CUM VERSIBUS ... PEDES CUM VERSIBUS: sono le tre
combinazioni possibili già enumerate in II X 4, confermandosi l’esclusione della quarta (fronte e sirma) già affermata in II X 3. INSTANTIA SE DIVERSIMODE HABERE POSSUNT: «spiegazione etimologica implicita del precedente habZitudo» (Mengaldo). Habitudo nel significato in cui lo usa Dante di ‘disposizione reciproca di elementi’, in senso geografico in I VI 3, in senso testuale in tutte le altre sedici occorrenze fra II IX 4 e XIII 14, è comune nei grammatici raccolti in Thurot 1869; e così se habere nel significato di ‘disporsi reciprocamente”, ‘rapportarsi’, qui e in II XIII 8 «De rithimorum quoque /4bitudine ... pulcerrime tamen se habent». XI 3. NAM QUANDOQUE.... ADHUC NON VIDIMUS: iltipo con fron-
te indivisa e volte (a cui sono dedicati i $$ 3-6) era stato incluso in II X 4 benché non attestato in italiano (a parte l’esempio dantesco, perduto, citato qui al $ 5). Questo primo sottotipo con fronte maggiore delle volte viene qui dato come possibilità teorica, priva di attestazione. 375
De vulgari eloquentia
tudinem hanc adhuc non vidimus. [4] Quandoque in carminibus excedere et in sillabis superari potest, ut si frons esset pentametra et quilibet versus esset dimeter, et me-
tra frontis eptasillaba et versus endecasillaba essent. [5] Quandoque versus frontem superant sillabis et carminibus, ut in illa quam dicimus: Traggemi de la mente Amor la stiva.
Fuit hec tetrametra frons, tribus endecasillabis et uno ep-
tasillabo contexta; non etenim potuit in pedes dividi, cum
equalitas carminum et sillabarum requiratur in pedibus inter se, et etiam in versibus inter se. [6] Et quemadmo-
dum dicimus de fronte, dicimus et de versibus: possent etenim versus frontem superare carminibus, et sillabis suXI 4. QUANDOQUE IN CARMINIBUS ... ENDECASILLABA ESSENT:
dunque 5 versi nella fronte, 4 nelle volte; 35 sillabe nella fronte, 44
nelle volte. «Un esatto riscontro a questo schema indica il Panvini in Aimeric de Peguilhan, Arc mais de joy (fronte di 5 settenari, 2 volte
a due versi di décasyllabes); per l’Italia non ne conosco» (Mergaldo). Infatti Dante formula un exerzplur fictum, coi verbi al congiuntivo. Per pentameter, dimeter cfr. la nota a Il VI 7.
XI 5. QUANDOQUE VERSUS ... ET CARMINIBUS: è questo l’unico
caso, entro il tipo fronte-volte, che viene dato come reale, non pu-
ramente teorico. «Così avviene, fra le canzoni provenzali citate nel trattato, nelle giraldiane Ar austretz (fronte di due decasillabi maschili, due volte di tre ottosillabi) e Si per mon Sobre-Totz (fronte di sei novenari, cinque volte di due settenari)» (Merga/do). UTIN ILLA QUAM DICIMUS: la lezione «dicimus» dei manoscritti è senz’altro da conservare, contro l'emendamento «diximus» dell’ed. Panvini 1968, sulla base di II VII 8 «ut nos ostendimus cum dicimus Donne che avete intelletto d'amore», II XI 3 «et etiam nos dicimus Donne ch’avete intelletto d'amore», II XNHI 2 «et nos dicimus
Al poco giorno»; i quali dicimus coesistono con dixîmus in contesti del tutto simili (in questo stesso capitolo, $$ 7 e 8, e in X 2, XII 8) perché «si distinguono e alternano un momento di considerazione della poesia come prodotto fissato e finito e uno di ricordo della composizione e scelta tecnica, necessariamente riferita al passato» (Mengaldo). TRAGGEMI.... LA STIVA: canzone perduta, ma ricor-
data nell’indice di rime di Dante trascritto da Angelo Colocci nel 376
De vulgari eloquentia II XI 3-6
in realtà non l’abbiamo ancora vista. [4] Talora può eccederle per numero di versi ed esserne superata per numero di sillabe, per esempio se la fronte fosse di cinque versi e ogni volta di due, e i versi della fronte fossero set-
tenari e quelli della volta endecasillabi. [5] Talora le volte superano la fronte sia per numero di sillabe che di versi, come in quella canzone in cui cantiamo: Traggemi de la mente Amor la stiva.
Qui la fronte era di quattro versi, e intrecciava tre endeca-
sillabi e un settenario: non poteva dunque essere divisa in piedi, perché all’interno dei piedi si richiede lo stesso numero di versi e di sillabe, e anche all’interno delle volte. [6] E quel che diciamo della fronte, lo diciamo anche delle volte: le volte, infatti, potrebbero superare la fronte per numero di versi ed essere superate per numero di sillabe, ms. Vaticano latino 4823 con l’annotazione deest. La stiva è il manico dell’aratro, per cui in prima approssimazione il senso è ‘Amore tira a sé il timone della mia mente’, mentre non sappiamo come fosse sviluppata la metafora mente-aratro: cfr. il commento di C. Giunta in Opere [Meridiani], I. «Si noti la consonanza con l’attacco del verso di Cielo d’Alcamo citato a I XII 6, nonostante che il
tra(g)gemi lì sapesse a Dante di strascicatura» (Mengaldo).
FUIT
HEC TETRAMETRA ... IN VERSIBUS INTER SE: non sappiamo in che
ordine fossero i quattro versi (sappiamo solo che il primo era un endecasillabo), ma con tre endecasillabi e un settenario è impos-
sibile quella simmetria nella formula sillabica senza la quale non può darsi la «iteratio modulationis cuiusquam», ovvero la «reiteratio unius ode» (II X 2-3), che è condizione della divisione in piedi. Delle volte di questa canzone non sappiamo nulla se non, sulla base delle parole di Dante, che i versi dovevano essere più di 4 e le sillabe più di 40. È questo l’unico caso in cui le caratteristiche tecniche di una canzone vengono descritte con dei perfetti (fuit, potuit); che, secondo Marigo, «richiamano il tempo della composizione e rievocano l’attenzione con cui il Poeta ha studiato i particolari della struttura metrica». XI 6. ET QUEMADMODUM DICIMUS ... TRIBUS EPTASILLABIS CON-
TEXTA: sempre all’interno del tipo fronte-volte, è il caso simmetrico a quello del $ 4. Anche questo teorico, visto che la fronte indi377
De vulgari eloquentia
perari, puta si versus duo essent et uterque trimeter, et eptasillaba metra, et frons esset pentametra, duobus en-
decasillabis et tribus eptasillabis contexta. [7] Quandoque vero pedes caudam superant carminibus et sillabis, ut in illa quam diximus: Amor, che movi tua virtù da cielo.
[8] Quandoque pedes a sirmate superantur in toto, ut in illa quam diximus: Donna pietosa e di novella etate.
[9] Et quemadmodum diximus frontem posse superare carminibus, sillabis superatam, et e converso, sic de sir-
mate dicimus. [10] Pedes quoque versus in numero superant et superantur ab hiis: possunt enim esse in stantia tres pedes et duo versus, et tres versus et duo pedes; nec hoc nume-
ro limitamur, quin liceat plures et pedes et versus simul visa non è attestata nella tradizione italiana, il che qui si manifesta nell’uso del modo congiuntivo (posserz, esset, esset). In questo caso
dunque le volte supererebbero la fronte per 6 versi a 5, e ne sarebbero superate per 43 sillabe a 42. Una stanza come questa vedrebbe un predominio assoluto dei settenari: 9 contro 2 soli endecasillabi, dunque sarebbe condannabile ai sensi di II XI 6. Sembra l’eplorazione di un esempio fittizio, per desiderio di completezza. Per tri meter, pentameter cfr. la nota a II VII 7. XI 7. QUANDOQUE VERO PEDES ... UT IN ILLA QUAM DIXIMUS:
entriamo con questo nei casi positivi, visto che nella tradizione
italiana prevalgono incontrastate le stanze con piedi. Il tipo con piedi maggiori della sirma per versi e per sillabe è meno frequente, sia in generale sia in Dante, presso il quale si trova anche in Donne ch'avete, Poscia ch’Amor e Così nel mio parlar, oltre che
nelle canzoni monostrofiche (vedi la nota a II VI 6) Sì lungiamente e Lo meo servente core. AMOR ... DA CIELO: schema AbBC AbBC; CDdEFeF: dunque 8 versi nei piedi, 7 nella sirma; 80 sillabe nei piedi, 69 nella sirma. Già citata per l'incipit endecasillabico in II V 4, è una canzone filosofica d’amore e sull’amore posteriore alla Vita Nova. 378
De vulgari eloquentia II XI 6-1()
per esempio se vi fossero due volte e fossero entrambe di tre versi, e questi fossero settenari, e la fronte fosse di cinque versi, con intrecciati due endecasillabi e tre settenari. [7] Talora poi i piedi superano la coda per numero di ver-
si e di sillabe, come nella canzone in cui abbiamo cantato: Amor, che movi tua virtù da cielo.
[8] Talora i piedi sono superati dalla sirma in tutto, come nella canzone in cui abbiamo cantato: Donna pietosa e di novella etate.
[9] E come abbiamo detto che la fronte può essere superiore per numero di versi essendo superata per numero di sillabe, e viceversa, così diciamo lo stesso anche della sirma.
[10] Anche i piedi superano le volte o ne sono superati per numero: nella stanza infatti possono esserci tre piedi e due volte, o tre volte e due piedi; e non siamo limitati a questo numero, anzi è concesso intrecciare insieme
XI 8. QUANDOQUE PEDES ... UT IN ILLA QUAM DIXIMUS: il tipo
con sirma maggiore dei piedi per versi e per sillabe è il più frequente, in Dante e in generale. DONNA ... ETATE: schema ABC ABG; CDdEeCDD: dunque 6 versi nei piedi, 8 nella sirma; 66 sillabe nei piedi, 80 nella sirma. È la canzone di Vr 14, del sogno allucinato della morte di Beatrice; modello della ciniana Avegna ched el m'aggia, in morte di Beatrice, citata in II VI 6. XI 9. ET QUEMADMODUM
DIXIMUS ... SIC DE SIRMATE DICIMUS:
come nota Mengaldo, è stato osservato che Dante in precedenza non
avrebbe esaminato la possibilità indicata da e converso, ma questa osservazione non è esatta. Nel $ 4, infatti, è stato enunciato il caso
della fronte maggiore delle volte per versi e minore per sillabe, nel $6 il caso inverso della fronte maggiore delle volte per sillabe e minore per versi.
4
XI 10. PEDES QUOQUE ... VERSUS SIMUL CONTEXERE: trattata la
possibilità fronte-volte ($$ 3-6) e quella piedi-sirma ($$ 7-9), ecco la terza possibilità piedi-volte ($$ 10-1). E qui interviene una variazione, perché in questo paragrafo Dante non ragiona in termini di
superiorità per numero di versi e di sillabe (come intendeva Mar:go, corretto da Bigongiari 1964, pp. 59-60, correzione accettata da 379
De vulgari eloquentia
contexere. [11] Et quemadmodum de victoria carminum et sillabarum diximus inter alia, nunc etiam inter pedes et versus dicimus: nam eodem modo vinci et vincere possunt. [12] Nec pretermictendum est quod nos e contrario regulatis poetis pedes accipimus, quia illi carmen ex pedibus, nos vero ex carminibus pedem constare dicimus,
ut satis evidenter apparet. [13] Nec etiam pretermictendum est quin iterum asseramus pedes ab invicem necessario carminum et sillabarum equalitatem et habitudinem
accipere, quia non aliter cantus repetitio fieri posset. Hoc
idem in versibus esse servandum astruimus. XII. Est etiam, ut superius dictum est, habitudo quedam Mengaldo), ma in termini di superiorità per numero dei piedi e delle volte in sé. Dante aveva ammesso la possibilità, per quanto rara, che una stanza avesse tre piedi (II X 4). Anche «per Francesco da Barberino esiste ... la possibilità che la stanza abbia più di due piedi o volte: “posses etiam facere plures pedes et voltas” [Docwzzenti II VI (glossa)] ... Stanze di canzone così fatte, però, non sono rintracciabili nella tradizione italiana, e la possibilità finisce quindi con l’essere solo teorica ... E stato ipotizzato che il passo del De v/gari in cui si considera l’ipotesi di stanze con più di due o tre piedi o volte tragga le mosse da usi della tradizione provenzale ..., certamente ben presente anche a Francesco da Barberino. Tuttavia, il fatto che en-
trambi gli autori prevedano un’eventualità che pare non essersi mai realizzata non può essere facilmente liquidato come una pura coincidenza, appunto perché essendo la possibilità puramente teorica né l’uno né l’altro potevano desumerla dall’uso» (Camboni 2008, pp. 26-7). In Il XII 4 Dante “dimentica” di aver ammesso la possibilità di tre piedi e due volte, due piedi e tre volte: vedi la nota relativa. XI 11. ET QUEMADMODUM.... VINCI ET VINCERE POSSUNT: «in-
ter alia» significa fra le altre combinazioni possibili, ovvero fronte-volte ($$ 3-6) e piedi-sirma ($$ 7-9). Anche nella terza combinazione, piedi-volte, può darsi che gli uni e le altre vincano e siano
vinti per numero di versi e di sillabe «eodem modo» (e questo sembra un po’ sbrigativo, visto che per le due combinazioni precedenti i “modi” possibili erano stati precisati analiticamente). Per vincere ‘superare di numero’ (sinonimo di excedere, superare, $$ 3-10) Mengaldo rimanda a Cv IV XXIX 10 «sì come a fare una [bianca] mas380
De vulgari eloquentia II XI 10-XII 1
sia piedi che volte in numero maggiore. [11] E quel che abbiamo detto della vittoria per numero di versi e sillabe nel rapporto fra le altre suddivisioni, ora lo diciamo anche per il rapporto fra piedi e volte: infatti allo stesso modo possono essere vinti o vincere. [12] E non si deve tralasciare di notare che noi diamo al termine “piedi” un significato opposto rispetto ai poeti regolati, perché essi dicono che il verso è composto di piedi, noi invece che il piede è composto di versi, come risulta con sufficiente evidenza. [13] Né si deve tralasciare di ribadire che ciascuno dei piedi accoglie dall’altro che gli è reciprocamente necessario lo stesso numero e la stessa
disposizione di versi e di sillabe, perché altrimenti non si potrebbe avere ripetizione della melodia. Questo stesso principio sosteniamo che va osservato anche nelle volte. XII. C'è anche, come si è detto sopra, una certa disposa convegnono vincere li bianchi grani, così a fare una nobile progenie convegnono in essa li nobili uomini [vincere] (dico “vincere” essere più che li altri)». XI 12. NEC PRETERMICTENDUM
EST ... UT SATIS EVIDENTER
APPARET: «implicitamente è esclusa la ritmica latina dall’ars regularis: il Poeta sembra non pregiare questa poesia che è intermediaria tra l’arte della tradizione antica e quella delle lingue nuove: ad essa non fa mai allusione» (Margo). In effetti, è attraverso la ritmica mediolatina che si è prodotto, con altri, lo slittamento semantico di cui Dante qui rileva il punto di partenza e quello d’arrivo, come è per cenni ricostruito da Mari 1901, pp. 74-7. «Dimentica di osservare che anche per versus l’accezione è diversa dal latino classico» (Mergaldo). XI 13. NEC ETIAM PRETERMICTENDUM
... ESSE SERVANDUM
ASTRUIMUS: è ribadito il principio della necessaria identità dei piedi nonché delle volte per numero, misura e disposizione dei versi, condizione necessaria affinché la frase melodica possa essere iterata;
ovvero affinché la «habitudo partium» corrisponda come deve alla «cantus divisio». Cfr. le note a II VIII 6, X 2. XII 1. EST ETIAM ... CONSIDERARE DEBEMUS: la «habitudo partium», cioè la disposizione reciproca delle parti in cui consiste l’ars 381
De vulgari eloquentia
quam carmina contexendo considerare debemus: et ideo rationem faciamus de illa, repetentes proinde que superius de carminibus diximus. [2] In usu nostro maxime tria carmina frequentandi prerogativam habere videntur, endecasillabum scilicet, epta-
sillabum et pentasillabum; que trisillabum ante alia sequi astruximus. [3] Horum prorsus, cum tragice poetari conamur, endecasillabum propter quandam excellentiam in contextu vincendi privilegium promeretur. Nam quedam stantia est que solis endecasillabis gaudet esse contexta, ut illa Guidonis de Florentia Donna me prega,
perch’io voglio dire;
della stanza, è triplice (II XI 1): nel cap. XI abbiamo visto la «habitudo» delle parti della stanza, fronte-sirma, piedi-volte, ecc.; qui vediamo la «habitudo carminum», cioè i rapporti e le proporzioni fra versi di varia misura (endecasillabi, settenari, ecc.). «L'ipotesi ... del Bigongiari che il “carmina contexendo” di II XII 1 alluda alla tessitura del singolo verso e non al loro ordinamento reciproco ... non persuade» (Pazzaglia 1967, p. 199; cfr. Bigongiari 1964, p. 58: «It means to weave something so as to form with it these very carmina, these lines. And that “something” of course is the syllabic sequence»). Infatti, come nota giustamente Mer:ga/do, sono dette contexte canzoni (II VI 6, XI 5, XII 3) e stanze (II XI 6 e 10, XII 5), mai
singoli versi: neanche qui, dove cortexere significa chiaramente intrecciare un verso con l’altro, altrimenti non avrebbe senso parlare di «habitudo», ‘disposizione’. Il significato rispetta il prefisso com-, come in cortextus (II XI 1, XII 3); analogamente, il significato del prefisso #1- viene rispettato in $ 4 «in qua tantum eptasillabum irtexitur unum», II XIII 7 «desinentias anterioris stantie inter postera
carmina referentes ifexrt». Cfr. Gorni 1993, p. 145. RATIONEM FACIAMUS DE ILLA: razi0 è nel senso di ‘dottrina’, come in I XI 2, II
VII 2 e 6. QUE SUPERIUS DE CARMINIBUS DIXIMUS: nel cap. II V.
XII 2, IN USU NOSTRO: «col valore di ‘italiano’, come spesso nel De vulgari eloquentia e altrove; ciò si deduce e dal passo parallelo di II V 2 e dal fatto che l’esemplificazione è poi tutta italiana (dell’unica eccezione è segnalato il carattere additizio:
“Hoc etiam Yspani usi sunt”)»
(Mengaldo). Per il concetto di «lingua nostra» in Dante vedi Tavoni
2010b, pp. 59-66.
MAXIME TRIA CARMINA ... SEQUI ASTRUXIMUS:
che Dante abbia ristretto l’argomentazione all’ambito italiano è chiaro 382
De vulgari eloquentia Il XII 1-3
sizione che dobbiamo considerare nell’intrecciare i versi: trattiamone dunque, anzitutto richiamando quello che abbiamo detto sopra sui versi. [2] Nel nostro uso soprattutto tre versi presentano la prerogativa di essere frequenti, cioè l’endecasillabo, il settenario e il quinario; dopo di questi, come abbiamo osservato, viene prima di ogni altro il trisillabo. [3] Fra questi, quando tentiamo di poetare tragicamente, l’endecasillabo,
per una sua certa eccellenza, merita il privilegio di prevalere nella tessitura d’insieme. Infatti c’è un tipo di stanza che si compiace di essere intessuta solo di endecasillabi, come quella di Guido di Firenze Donna me prega,
perch’io voglio dire;
da questa selezione dei tre versi imparisillabi che dominano la lirica italiana, più il trisillabo utile per la rimalmezzo, mentre viene lasciata fuori
tutta l’irriducibile varietà dei versi provenzali. Sulla particolare importanza della combinazione endecasillabo-settenario, vedi la nota al $ 5. XII 3. ENDECASILLABUM
... PRIVILEGIUM PROMERETUR:
per le
stesse ragioni dette nella nota al $ 1, non significa che «l’endecasillabo per la superiorità della sua testura merita il privilegio della vittoria» (Bigongiari 1964, p. 59 nota 1); bensì il contexere si colloca al livello della «habitudo carminum»: Dante intende che l’endecasillabo «deve superare, per numero, gli altri, ed essere posto all’inizio della stanza, altrimenti lo stile tragico viene compromesso» (Pazzaglia 1967, p. 199). DONNA ME PREGA... DIRE: delle quattro canzoni di Cavalcanti, è l’unica di soli endecasillabi. Si tratta di cinque stanze di 14 versi, con due piedi di tre versi e due volte di quattro versi, legati da un sistema così stretto di rime al mezzo (per il quale infatti la canzone è citata una seconda volta al $ 8) che, come è stato notato, addi-
rittura 52 sillabe su 154 sono obbligate. «Si osservi poi la ferrea catena delle rime, quasi tutte, nell’ordine di successione, baciate; e che
delle 26 parole in rima che ricorrono nei 14 versi di ogni strofa ben 20 sono riunite in gruppi di quattro ... e solo 6 in gruppi di due» (Favati 1957). Questo accumulo di difficoltà metrico-lessicali, in un testo già arduo per argomentazione filosofica, era una ulteriore ragione di nobiltà, oltre all’isometrismo endecasillabico, che spiega ad abundantiam, sul piano tecnico, la citazione dantesca. Ma è impossibile non considerare che Donna me prega è la grande canzone filosofica 383
De vulgari eloquentia
et etiam nos dicimus: Donne ch’avete intelletto d’amore.
di Cavalcanti, manifesto di una ideologia dell’amore aristotelica radicale o averroista, cioè materialistica, esplicita, sistematica e inequivo-
cabile. Accreditata come testo filosofico con tutti i crismi dal commento latino di Dino del Garbo (su cui vedi sotto), è antitetica, in modo non eludibile, all’ideologia dell'amore della Vita Nova in generale, e in particolare alla canzone Donne ch’avete, che in Va 10 inaugura la poetica della «loda», cioè la svolta attraverso la quale Dante si
emancipa dall’amore cortese e appunto dalla lezione del suo «primo amico», e che viene citata proprio qui di seguito: sul possibile significato di questo accostamento vedi sotto. DONNE... D'AMORE: prima canzone della Vita Nova e unica, fra le cinque del prosimetro, di soli endecasillabi; come di soli endecasillabi è la prima canzone del Convivio (libro II), Voi che ’ntendendo. Le sole altre canzoni di Dan-
te esclusivamente di endecasillabi sono la sestina A/ poco giorno e la cosiddetta “sestina doppia” Amor, tu vedi ben, entrambe citate nel De vulgari (II X 2 e XIII 2, II XIII 13), in relazione con Arnaut Daniel.
Quindi, per citare qui una propria canzone di soli endecasillabi, Dante non aveva molta scelta. Come, abbiamo visto, non ne aveva nessuna volendo addurre una canzone di soli endecasillabi di Cavalcanti. Pur tenendo conto di questo doppio vincolo fattuale, ritengo che l’abbinamento qui di Donna me prega e di Donne ch’avete non possa essere considerato privo di significato, ma sia intenzionale, e portatore di un senso latente ma eloquente. Sul rapporto fra Donna re prega e la Vita Nova, e particolarmente Donne ch’avete, si è sviluppata negli ultimi vent'anni una linea di studi che non credo possa restare fuori dall’interpretazione del De vu/gari. Il ribaltamento della posizione cronologica di Donna me prega, che trasforma la canzone cavalcantiana in una risposta alla Vita Nova, partito da una nota dell’ed. De Robertis delle Rirze di Cavalcanti (1986, pp. 94-8), ampiamente argomentato da Tanturli 1993, e ulteriormente corroborato da Malato 2004 (1997), Pasero 1998, Fenzi 1999 (sostengono invece la cronologia tradizionale Inglese 1995 e Sarteschi 2000), a me pare solidamen-
te motivato. Se è così, il significato anti-dantesco della canzone è molto forte, perché essa viene a segnare oggettivamente e definitivamente, al di là dei numerosi sonetti cavalcantiani di rimprovero a Dante, la
liquidazione per insanabile divergenza ideologica del sodalizio che per tutta la Vita Nova Dante ha voluto ambiguamente tenere in piedi, e anzi esibire, con il suo «primo amico»; e certo rende chiarissimo perché Guido, come pur reticentemente si esprimerà Dante, «ebbe 384
De vulgari eloquentia II XI 3
e anche noi diciamo: Donne ch’avete intelletto d’amore.
a disdegno» Beatrice (IfX 63), cioè rifiutò l’esito teologico che Dante nella Vita Nova aveva dato alla domanda sull’essenza dell’amore. Questi studi, poi, in particolare i riscontri intertestuali addotti da Pasero (1998, pp. 397-405), hanno messo a fuoco che Donna we prega punta proprio a Donne ch’avete. A questi riscontri credo si possa aggiungere il fatto stesso che qui accomuna le due canzoni, e cioè che entrambe sono di soli endecasillabi, caratteristica non comune, come abbiamo visto; nonché il fatto che entrambe sono di stanze di 14 ver-
si (beninteso, di struttura diversissima). Mi sembra possibile che Cavalcanti abbia tenuto presenti, nell’impostare la propria canzone, questi tratti della canzone emblematica dell’ideologia amorosa della Vita Nova contro la quale polemizzava. Dante, riaccostando le due canzoni per il raro isometrismo endecasillabico che condividono, le mette nell’ordine Guido-se stesso, come sempre nel De vu/gari (cfr. I XIM 4, II VI 6 e qui $ 8), ordine che in questo caso molto probabilmente è inverso alla cronologia e soprattutto alla logica della loro composizione. A questo proposito Inglese (1995, p. 210) obietta: «Non riesco a vedere alcun motivo plausibile che potrebbe avere indotto Dante a presentare in questo modo gli esempi ... se Donze ch’avete fosse più antica di Donna me prega ... Qual mai forma di falsa modestia avrebbe portato Dante a offrire al lettore una prospettiva fuorviante (non essendoci solo la sequenza, ma l’eti277)?». Ma ha ragione Malato a constatare che «nei sei luoghi del secondo libro del De vulgari in cui sono citati icipit 0 versi danteschi non isolatamente, ma in gruppo con quelli di altri autori, l’autocitazione è sempre collocata in fine di serie» (2004 [1997], p. 50). In aggiunta a ciò, un motivo “privato” può essere stato proprio quello di riprendersi, in un certo senso, l’ultima parola: e vedi le considerazioni in nota al $ 8, dove di nuovo Dante cita un proprio ircipit dopo questo stesso di Cavalcanti. Un tutt'altro motivo, questo pubblico e non privato, ma convergente, che poteva indurre Dante a sottolineare qui l'accostamento formale fra queste due canzoni (lasciando in ombra la loro opposizione ideologica), è nella sua ricerca, a mio giudizio molto probabile, di interlocutori e aperture nell'ambiente bolognese. Infatti il commentatore universitario di Donna me prega, il medico fiorentino Dino del Garbo (vedi A. De Ferrari in DBI, s.v. Del Garbo, Dino, pp. 578-81), dopo aver studiato a Bologna nei primi anni Novanta, dopo aver vissuto a Firenze fra il 1296 e il 1300 come iscritto (con Dante) alla corporazione dei medici e degli speziali, studiò di nuovo dal 1300 all’Uni385
De vulgari eloquentia
Hoc etiam Yspani usi sunt — et dico Yspanos qui poetati sunt in vulgari oc. Namericus de Belnui: Nuls hom non pot complir adrecciamen.
[4] Quedam est in qua tantum eptasillabum intexitur unum: et hoc esse non potest nisi ubi frons est vel cauda,
quoniam, ut dictum est, in pedibus atque versibus actenditur equalitas carminum et sillabarum. Propter quod etiam nec numerus impar carminum potest esse ubi frons versità di Bologna, dove conseguì la laurea nel 1304, e subito vi insegnò, fino al 1306, quando l’interdetto del cardinale Orsini lo costrinse a lasciare l’A/rza Mater per l’Università di Siena. I probabili punti di contatto biografici con Dante sono, come si vede, precisi e suggesti-
vi.
HOCETIAM YSPANI.... IN VULGARI OC: ritorna qui l’etnico Yspa-
ni già usato in I VII 5 per designare, là, i parlanti in lingua d’oc, qui i poeti nella stessa lingua. Fin dal Trissino (1529) la specificazione «et dico Yspanos qui poetati sunt in vulgari o©» è stata interpretata come restrittiva, identificante un sottogruppo: «e dico i spagnuoli, che hanno fatto poemi nel volgare oc». L'interpretazione del Trissino (notevole ma ininfluente la diversa interpretazione di Cittadini post 1600: «e dico spagnoli color[o] che hanno poetato nel volgar OC») arriva fino a Marigo («gli spagnoli, dico, che hanno poetato nel volgare d’oo»), che la chiama infatti «aggiunta restrittiva» e si spinge a dedurne: «Questo ci rende certi che Dante sapeva l’esistenza di altra o altre lingue della penisola iberica, la quale è chiamata tutta intera, nell’antichità e nel Medioevo, Hispania». E il primo Folena (2002 [1961], pp. 235-6 nota 14), giustamente seguito da Mergaldo, a rettificare: «non sarà affatto una precisazione limitativa o restrittiva quella introdotta dal dico, ma semplicemente un chiarimento terminologico, una chiosa:
“e chiamo ispani coloro che hanno poetato nel volgare d’oc”. Il costrutto con la relativa oggettiva preceduta dall’oggetto, predicativo, e senza il “pronome anaforico” #s, è del tutto normale nel latino classico come in quello medievale». Si può aggiungere che la formulazione di I vm 5 (vedi la nota relativa) precisamente esclude che il terzo idioma babelico, il “protoromanzo” che occupa «totum ... quod in Europa restat», comprenda oggi anche qualche altra lingua innominata, oltre alle tre nominate: se è trifario, non può essere quadrifa-
rio. Questo ci assicura del contrario di ciò che afferma Marigo, appena citato. Il pronome relativo senza antecedente qui prende il caso dal ruolo sintattico che ha nella relativa (soggetto), non da quello che 386
De vulgari eloquentia II XII 3-4
Questo tipo lo usano anche gli ispani — e chiamo ispani quelli che hanno poetato nel volgare d’oc. Aimeric de Belenoi: Nuls hom non pot complir adrecciamen.
[4] C'è poi un tipo di stanza in cui viene inserito un solo settenario: il che può darsi soltanto dove c’è la fronte o la coda, perché, come si è detto, nei piedi e nelle volte
è obbligatorio che tanto i versi quanto le sillabe siano in numero uguale. Per questo, dove non c’è fronte o coda, non può esserci neanche un numero dispari di versi; ma ha nella sovraordinata (complemento predicativo dell’oggetto), come, all’inverso, in II VI 5 «hic est guerz querimus». NAMERICUS DE
BELNUI: vedi la nota a II VI 6. NULSHOM... ADRECCIAMEN: già citata a II VI 6 come esempio di suprerza constructio. «La stanza tutta
endecasillabica è effettivamente assai frequente in lui, ma non più che in altri trovatori noti e citati da Dante (per esempio l’altro Aimeric)
e anche in canzoni allegate nel trattato (Nor puosc mudar di Bertrand de Born e Tan m’abellis di Folchetto); “non pot” è correzione, in base
alla precedente citazione, dell’inaccettabile “pote” dei manoscritti» (Mengaldo). Errore, quest’ultimo, che non è dimostrabile risalga a Dante, e su cui quindi non si possono fondare le deduzioni che ne trae Santangelo (1959 [1921], pp. 165-8) circa la disponibilità o meno di un canzoniere provenzale al momento in cui Dante compone le varie parti del trattato.
XII 4. QUEDAM EST ... INTEXITUR UNUM: «così, fra le canzoni di Dante, in La dispietata mente, Li occhi dolenti, Io son venuto, Amor
che ne la mente e nella stanza [= canzone monostrofica] Sì lungiamente: tecnicismo specificamente dantesco (con collocazione dell’unico settenario sempre e solo nella sirma), mai ripreso da Cino, e raramente dal Petrarca» (Mergaldo). ET HOC ESSE ... CARMINUM ET SILLABARUM: viene ribadito («ut dictum est» rimanda a II XI 5 e 13) il principio della necessaria identità dei piedi da un lato, delle volte dall’altro, quanto a numero, misura e disposizione dei versi; necessaria affinché i piedi da un lato, le volte dall’altro, possano “ricevere” l’iterazione della stessa frase melodica: cfr. II VII 6, x 2.
PROPTERQUOD.... UTI AD LIBITUM: «interessante “errore”,
a conferma che l’ammissione di piedi e volte in numero di tre (II XI 10) era per Dante del tutto astratta, almeno nella prospettiva italiana: infatti, come già osservato dal D’Ovidio, stanze di tre piedi e due volte o due piedi e tre volte, con piedi e volte rispettivamente
387
De vulgari eloquentia
vel cauda non est; sed ubi hee sunt, vel altera sola, pari et
impari numero in carminibus licet uti ad libitum. [5] Et sicut quedam stantia est uno solo eptasillabo conformata, sic duobus, tribus, quatuor, quinque videtur posse contexi, dummodo in tragico vincat endecasillabum et principiet. [6] Verumtamen quosdam ab eptasillabo tragice di tre versi, produrrebbero un totale dispari» (Merga/do). E c'è un
altro “errore”, finora non notato: le parole «ubi hee sunt, vel altera sola», infatti, ammettono non solo la possibilità che la stanza abbia la fronte o la sirma, ma anche che le abbia entrambe; possibili-
tà esclusa in II X 3, X1 2. XII 5. ET SICUT QUEDAM
STANTIA ... VIDETUR POSSE CONTE-
XI: è ribadita la predilezione per la stanza mista di soli endecasillabi e settenari già prospettata in II Vv5 «hoc quod dictum est celeberrimum carmen ... si eptasillabi aliqualem societatem assumat, dummodo principatum obtineat, clarius magisque sursum superbire videtur» (e già lì si preannunciava: «Sed hoc ulterius elucidandum remaneat»): la nota relativa delinea il progressivo affermarsi di questa combinazione a partire dalla scuola siciliana, con un ruolo decisivo giocato proprio da Guittone. Quanto al numero dei settenari, da uno a cinque, «la serie andrà forse considerata implicitamente fornita di un “eccetera” (anche senza integrare vel pluribus o simili come suggerisce ma non attua il Marigo)» (Mengaldo), dato che lo stesso Dante presenta una canzone con sei settenari per stanza (Madonna, quel signor), due con sette (Tre donne e Le dolci rime [Cv IV]) e due addirittura con nove (Doglia mi reca e Poscia ch'Amor). E, tra le canzoni di altri poeti citate nel De velgari, Per solatz reveillar (Il 11 8) e Ar ausiretz (II V 4), di Giraut de Borneil, ne hanno rispettivamente otto e sei; Digro sono eo di mor-
te (II I1 8), di Cino, ne ha otto; Ancor che-ll’aigua (II VI 6), di Guido delle Colonne, tredici (Panvini 1968). DUMMODO.... PRINCIPIET: anche questa norma era preannunciata in II V 5 «dummodo principatum obtineat». La formulazione «dummodo ... vincat ... et principiet» conferma, se ce ne fosse bisogno, che non basta l’incipit endecasillabico, ma è richiesta anche la prevalenza numerica degli endecasillabi. «Norma confermata dai fatti, a tacere dei provenza-
li (basti ricordare le giraldiane citate da Dante stesso), non prima dello Stilnovo, anzi di Dante medesimo ..., sia pure con precedenti come soprattutto Guido delle Colonne ...; la stanza con sette-
nari preponderanti o addirittura esclusivi è infatti frequentissima per non dire preponderante nel Notaio ...; ancora nel Guinizzel388
De vulgari eloquentia II XII 4-6
dove queste ci sono, o c’è anche solo una delle due, è concesso servirsi a piacere di versi in numero pari o dispari. [5] E, come c’è un tipo di stanza costruita con un
solo settenario, così se ne possono intrecciare con due, tre, quattro, cinque, purché nello stile tragico l’endecasillabo prevalga e segni l’inizio. [6] Veramente abbiamo trovato alcuni che hanno cominciato, in stile tragico, con li su sei canzoni ... una ha settenari in prevalenza, una ha un solo endecasillabo in chiusa, una è tutta eptasillabica» (Merga/do). Interessante, come già ricordato nella nota a II V 5, che Cino, nella sua produzione, r0r sia ottemperante a questa norma («maggiormente incline ... a conservare un certo grado di pariteticità d’uso al verso settenario», Pelosi 1990, p. 159), mentre Dante lo è: una
coperta macchia di inferiorità, analoga a quella che Dante fa notare qui al $ 6 per i tre bolognesi. La preferenza dantesca sarà determinante per gli sviluppi successivi: «La pratica poetica dell’Alighieri (più che le teorizzazioni del De vu/gart) esercita una decisiva funzione di setaccio sulla latente pariteticità duecentesca fra endecasillabo e settenario, per cui nel Trecento il verso maggiore si impone come tipo fondamentale mentre la misura minore diviene il verso “ancillare” per eccellenza, dotato della massima mobilità»
(Pelosi 1990, p. 130). XII 6. VERUMTAMEN
QUOSDAM
... PRINCIPIASSE INVENIMUS: è
l’unico caso nel trattato in cui si cita una canzone d’autore (anzi addirittura tre) per esemplificare una caratteristica sbagliata. Sono citate nel De vu/gari altre due canzoni italiane inizianti con un settenario, Madonna, dir vo voglio del Notaio (I XII 8) e Digno sono eo di morte di Cino (II Il 8); ma sono citate in positivo, nonostante
questo particolare: per i «vocabula curialiora» la prima, e addirittura come esempio italiano di canzone d’amore la seconda (anche se in quest’ultimo caso non è impossibile sospettare un secondo fine minimamente declassante). Inoltre si citano Per solatz reveillar (senario tronco) di Giraut de Borneil, che sempre in II Il 8 è esempio occitano della canzone morale; nonché Sî-77 sentis fizels amics (I IX 3, settenario a rima maschile) e Sî per mon Sobre-Totz (II VI 6, otto-
nario tronco) dello stesso Giraut. Dal difetto che questo paragrafo stigmatizza, comunque, Dante è esente: «nessuna canzone dantesca
comincia con un settenario, tranne la giovanile stanza isolata [= canzone monostrofica] Lo meo servente core»; «anzi, Dante comincia
anche la sirma sempre con un endecasillabo, con l’unica eccezione
di Poscia ch’amor» (I. Baldelli in ED, s.v. sestina, sestina doppia, pp. 389
De vulgari eloquentia
principiasse invenimus, videlicet «Guidonem Guinizelli», Guidonem de Ghisileriis et Fabrutium Bononienses: Di fermo sofferire et
Donna, lo fermo core et
Lo meo lontano gire
et quosdam alios. Sed si ad eorum sensum subtiliter intrare velimus, non sine quodam elegie umbraculo hec trage193 e 200). Non ne è invece esente Cino, che ha ben cinque incipit settenari, fra i quali il già citato Digro soro eo di morte. VIDELICET «GUIDONEM GUINIZELLP... BONONIENSES: è anche curioso che per
esemplificare questa caratteristica sbagliata Dante adduca tre canzoni tutte di bolognesi. È ben difficile considerarlo casuale. Tanto più che, tranne quella del Guinizelli, le altre due canzoni erano già state citate in I XV 6: là con lode per il volgare illustre che hanno attinto; qui segnalando un difetto metrico, che altrove Dante lascia correre
e che in questo passo invece, focalizzato, le ridimensiona. SED SI AD EORUM SENSUM ... PROCESSISSE VIDEBITUR: poiché in II IV 5-6 Dante giudica che nella tragedia «assumendum est vulgare illustre», nella commedia «quandoque mediocre quandoque humile vulgare», nella elegia «solum humile», e dunque tragedia ed elegia sono per così dire a due caselle di distanza l’una dall’altra, Rajna 1921a, p. 33,
ha creduto per questo di rilevare una contraddizione: «O come mai, trapassando il mezzano, si scenderebbe fino al grado ultimo?». Ma non penso che Dante ragionasse con geometrie astratte di questo ge-
nere. Penso che l’elegia gli interessasse, in questa fase (mentre non gli interesserà mai più in futuro), perché dava un nome, teoricamente autorizzato, a un difetto che doveva considerare importante della
poesia d’amore, la quale costituiva la maggior parte dell’intera tradizione lirica in cui consisteva il volgare illustre. E penso che, nello
stigmatizzare questo difetto, gli interessasse qui in particolare ridimensionare i bolognesi: prima notando apposta per loro una pecca metrica che hanno in comune e a cui in altri casi non dà peso; poi con questa “ombra” di elegia che, apparentemente formulata come giustificazione della pecca metrica stessa, costituisce in realtà una seconda pecca, di contenuto (serss), che si somma alla prima, forma-
le. Essendo queste canzoni (almeno le due del Ghisilieri e di Fabruzzo) perdute, non possiamo verificare esattamente in cosa consistesse 390
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un settenario, cioè Guido Guinizelli, Guido dei Ghisilieri
e Fabruzzo bolognesi: Di fermo sofferire Donna, lo fermo core
Lo meo lontano gire
e alcuni altri. Ma, a voler penetrare sottilmente nel senso di
questi componimenti, si vedrà che questa poesia tragica non l'“ombra” di elegia. Ma si trattava senz’altro di poesie d’amore, che dovevano essere all’insegna dei «dolores amantium» che la trattatistica retorica assegnava all’elegia (e anche Remigio de’ Girolami diceva: «Gli amadori sono pieni di dolori», in Carpi 2004, p. 240). Di fermo sofferire è probabilmente da identificare con la canzone dallo stesso incipit di cui conserva due stanze il Vaticano latino 3214, attribuendole a Simone Rinieri di Firenze (l’ed. Rossi! 2002b l’accoglie fra le canzoni dubbie del Guinizelli); in essa Marigo consta-
ta appunto che «non si ha l’alta celebrazione dell’amore, propria della tragedia, ma è espressa l’infelicità per l’amore non corrisposto quasi nello “stilus miserorum” proprio dell’elegia». Ora, si dà che appunto questa sia la caratteristica conclamata della poesia di Onesto: «Ahi lasso taupino!, altro che lasso / no posso dir...», «La partenza che fo dolorosa / e gravosa piò d’altra m’ancide...», ecc. E De Robertis 1951 insiste sulla sua monocorde elegia: «uno è il registro: quell’ostinato immorare sul proprio affanno, e perdercisi tutto, e non sentir altro che quelle parole di dolore» (p. 298). Poi, se Onesto può essere visto come iniziatore di una «poesia del dolore» che costituirebbe «la nota fondamentale della musa del Cavalcanti e di Cino» (Marti 1967, p. 43), la semi-reticente taccia di elegia potrebbe lambire i più alti e vicini a Dante. Infine, entro la cospicua corrispondenza con Cino, di grande interesse bolognese per Dante (cfr. l’Introduzione, pp. XLVINI-LI e la nota a II Il 8), nel sonetto Ber-
nardo, quel dell’arco Onesto aveva rivolto una più che probabile allusione critica a Dante nel v. 3 «di quei che sogna e fa spirti dolenti», nel quale Marti (p. 49) vede «in gioco una valutazione della Vita Nuova secondo un certo gusto contemporaneo» (e cfr. l’interpretazione della Vita Nova in chiave di elegia di Carrai 2006). Credo che questo complesso di elementi dia un qualche fondamento all’ipotesi che Dante abbia usato (e forse addirittura introdotto) la cate391
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dia processisse videbitur. [7] De pentasillabo quoque non sic concedimus. In dictamine magno sufficit enim unicum pentasillabum in tota stantia conseri, vel duo ad plus