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Italian Pages 246 [251] Year 1986
Rime di Guido Cavalcanti
Letteratura italiana Einaudi
Edizione di riferimento: Nuova Raccolta di Classici Italiani Annotati diretta da Gianfranco Contini Giulio Einaudi Editore, Torino 1986 Introduzione, nota e commento a cura di Domenico De Robertis
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Sommario I II III IV V VI VII VII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVIIa XXVIIb XXVIII
Fresca rosa novella Avete ‘n vo’ li fior’ Biltà di donna Chi è questa che vèn Li mie’ foll’ occhi Deh, spiriti miei L’anima mia Tu m’hai sì piena Io non pensava Vedete ch’i’ son Poi che di doglia Perché non fuoro a me Voi che per li occhi Se m ‘ha del tutto Se Mercé fosse amica A me stesso di me pietate vène S’io prego questa donna Noi siàn le triste penne i I’ prego voi O tu, che porti nelli occhi O donna mia Veder poteste Io vidi li occhi Un amoroso sguardo spiritale Posso degli occhi miei Veggio negli occhi de la donna mia Guido Orlandi a Guido Cavalcanti Donna me prega Pegli occhi fere
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Sommario XXIX XXXa XXXb XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVIIa XXXVIIb XXXVIIIa XXXVIIIb XXXIX XL XLI XLII XLIIIa XLIIIb XLIVa XLIVb XLV XLVIa XLVIb XLVII XLVIIIa XLVIIIb XLIXa
Una giovane donna di Tolosa Era in penser d’amor Niccola Muscia di Guido Cavalcanti Gli occhi di quella gentil foresetta Quando di morte Io temo che la mia disaventura La forte e nova mia disaventura Perch’i’ no spero A Dante? Dante Alighieri a Guido Cavalcanti Risposta di Guido Dante Alighieri a Guido Cavalcanti Risposta di Guido A Dante Alighieri A Dante Alighieri A Dante Alighieri A un amico Gianni Alfani a Guido Cavalcanti Guido Cavalcanti a Gianni Alfani Bernardo da Bologna a Guido Cavalcanti Risposta di Guido A un amico In un boschetto Lapo Farinata degli Uberti a Guido Cavalcanti A frate Guittone d’Arezzo Guido Cavalcanti a Guido Orlandi Guido Orlandi a Guido Cavalcanti Guido Cavalcanti a Guido Orlandi
130 132 139 141 145 152 155 160 165 168 170 173 176 178 182 185 188 191 194 196 199 202 204 209 211 215 217 220
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Sommario XLIXb La Lb Lc LI LII LIII LIV LV
Risposta di Guido Orlandi a Guido Cavalcanti Guido Orlandi a Guido Cavalcanti Risposta di Guido Cavalcanti a Guido Orlandi Guido Orlandi a Guido Cavalcanti A Manetto A Nerone Cavalcanti Dino Compagni a Guido Cavalcanti Cino da Pistoia a Guido Cavalcanti Nuccio Sanese a Guido Cavalcanti
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I Fresca rosa novella, piacente primavera, per prata e per rivera gaiamente cantando, 1. Per il vocativo iniziale, ossia e in particolare per il cominciare col nome di «rosa» (qui per sineddoche di «primavera» del v. 2), soccorre tutta una tradizione, dal Fresca rosa aulentissima di Cielo d’Alcamo all’anonima Rosa aulente Spendïente del Vaticano lat. 3793 e fino al conflato floreale di Dante da Maiano Rosa e giglio e flore aloroso; cui s’aggiungano almeno l’altra anonima Fresca cera ed amorosa dal medesimo Vaticano, e ancora allargando l’area semantica, l’Isplendiente stella d’albore di Giacomino Pugliese, che in 5a strofa ammette il vocativo «rosa novella», e in ultima «fiore di rosa» (così la cit. De la primavera ha ai vv. 20–21 «rosa di maggio Colorita e fresca» e più avanti «amore rosella», «rosa tenerella»). E «ab color fresqu’e novella» è la pastorella di L’autrier cavalcava di Gui d’Ussel, 6 (Audiau, VII), come «fresca e novella» è congedata la «canzonetta» La mia vit’è sì fort’e dura e fera di Guido delle Colonne, e la coppia aggettivale torna ad es. nel Detto d’Amore, 429. L’incipit riecheggia in Lapo Gianni, Questa rosa novella, dove il dimostrativo, che assuona con Fresca, ha l’aria di sottolineare la citazione (e al v. 2 «piacer»). 2. piacente: provenzalismo formale e semantico: bella. Torna in XXXV 41. 3. prata: plurale neutro latino. – rivera: altro provenzalismo (ribiera ‘pianura’, non fr. rivière ‘fiume’ come in III 7): ‘aperta campagna’ come in Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 33, Io voglio del ver, 5 «verde rivera» (Contini), ‘riva’ nell’accezione che ha, da Petrarca a Leopardi, di luogo dell’apparizione della donna e di meditazione. Cfr., soprattutto per l’accoppiamento (ritorna in III 7), l’incipit bonagiuntiano cit., «Quando veggio la rivera E le pratora fiorire», e quello di Giacomino «Quando veggio rinverdire Giardino e prato e rivera», per la rima con primavera l’anonima Quando la primavera (3 «guardo verso la rivera») e l’altra che comincia «De la primavera Ciascuna rivera S’adorna». 4. gaiamente: anticipa «in gio’» del v. 7.– cantando: identificazione del proprio canto con quello degli uccelli (10) e di «tutto lo mondo» (14), giusta l’identificazione della donna colla primavera: è un’unica celebrazione.
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vostro fin presio mando - a la verdura. Lo vostro presio fino in gio’ si rinovelli da grandi e da zitelli per ciascuno camino; e cantin[n]e gli auselli ciascuno in suo latino
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5. fin presio: calco anche formale (secondo il testo del Palatino, qui e ai vv. 6 e 17) del prov. «fin pretz», perfetto, puro (ossia assoluto) pregio, valore. Cfr. per tutti l’attacco guinizelliano «Lo fin pregio avanzato» (e il v. 55), e qui il v. 33. Entrambi i termini (e pregiato) sono esclusivi di questo componimento. – mando: proclamo. – verdura: verzura, sineddoche per ‘verde campagna’, come in Quando veggio la rivera, 16, ossia il volto primaverile della terra, come in Giacomino sopra cit. (a la potrebbe anche valere ‘in mezzo alla’: cfr. v. 9). 6. Ripresa del primo emistichio di 5 con solo variazione d’ordine. 7. in gio’ si rinovelli: «sia celebrato gioiosamente» (Contini), ben intendendo che il «rinnovellarsi» è quello del canto a primavera («tempo novello», fr. renouveau, e cfr. 15 «po’ che lo tempo vène» – in Jacopo Mostacci, Amore, ben veio, 11, l’uccello a primavera «suo cantare inova»), e che «in gio’» più che connotazione qualitativa è denotazione del canto come espressione del joi d’amore (l’intera frase è già in Guittone, Mille salute, 3, «Per bene amare in gioi’ mi rannovello», e cfr. Giacomino Pugliese cit. a XXIV 2). Si potrebbe integrare perciò ‘torni a risonare, a manifestarsi, e si diffonda, ovvero rinasca (Chiaro Davanzati, Allegrosi cantari, 19–21, «la fenice... sé... rinova»), riviva al vostro ritorno nella gioia di tutti’. Meglio ancora degli esempi cit. a XXIV 2, varrà la definizione di calendimaggio del Compagni, Cronica, I XXII, come «il rinnovamento della primavera» (e cfr. ancora Chiaro, Chiunque altrui blasma, 135–136, «ogni cosa rinovella Sì come primavera»). 8. zitelli: piccini (ossia giovani come vecchi; tutti – cfr. v. 14). 9. per ciascuno camino: per ogni dove (tutti dunque e ovunque); ma corrisponde a «a la verdura» del v. 5 e «su li verdi arbuscelli» del v. 13, a designare la portata del canto d’amore, come il v. 12 la sua continuità. 10. cantin[n]e: ne cantino, con ripresa dal v. 4 (e così al v. 14), e risonanza immediata di camino. Cfr. III 3. L’integrazione non è forse necessaria, non tanto per l’ammissibilità del verbo singolare
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da sera e da matino su li verdi arbuscelli. Tutto lo mondo canti, po’ che lo tempo vène, sì come si convene, vostr’altezza presiata: ché siete angelicata - crïatura.
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avanti a soggetto plurale, ma per semplice effetto di riduzione (canti·ne come sa·Miniato). – auselli: stesso fenomeno che per presio, presiata e 33 piasenza. 11. in suo latino: nel suo linguaggio. Espressione topica, in identico contesto, da Guglielmo IX, Ab la dolchor del temps novel, 2–3, «li aucel Chanton chascus en lor lati», a Bonagiunta, Quando apar, 3–4, «gli auscelletti infra gli albore Ciascun canta in suo latino». 12. da... da...: per l’uso di da temporale cfr. il notissimo «Temp’era dal principio del mattino» (Inf., I 37). Analoga locuzione, «la dimane e la sera», per una «voce dolce e clera» che, vista la rima in –elli (manca il verso corrispondente), sarà di «augelli», in Guido Orlandi, Come servo francato, 23. 13.Anche questa ‘situazione’ è di prammatica (e valga ancora Bonagiunta cit. e Quando fiore e foglia, 7). 14.Tutto lo mondo: è il fr. ‘tout le monde’: tutti (uomini e animali). Cfr. Quando veggio la rivera, 21, «che ne canti tutti quanti». 15 lo tempo vène: la (vostra) stagione (ossia voi). Ma non è escluso che la ballata sia un canto di calendimaggio per la regina della festa. Cfr. Quando la primavera, 37–40, «Lo tempo e la stagione Mi conforta di dire Novi canti d’amore Per madonna servire», e D. De Robertis, La forma dell’evento, in «Italyan Filolojisi», Ankara, XI (1981), n. 12, pp. 43–44. 16. Come si deve; conforme al vostro merito. Ovvero secondo l’usanza della stagione (non c’entra qui la dottrina della ‘convenientia’) 17. ‘Variante’ (con scambio di sostantivo e aggettivo) di vostro presio fino. «Vostr’altezza» (e magari «vostr’altera altezza») è frequente in Guittone (e per es. in Bonagiunta, ma anche in Cino) con altre simili perifrasi con l’aggettivo possessivo (come appunto «vostro pregio, valore» ecc.). 18. angelicata: con suffisso participiale del tipo dolciata per ‘dolce’, fermata per ‘ferma’, fidato per ‘fido’, variato per ‘vario’ (ancor oggi svariato), e cfr. qui XXVIIb 41 stabilita, XLVIa 4 rosata: angelica (cfr. 19, e per l’eventuale funzione participiale cfr. anche XXVI 20). La voce (anche in Iacopone, L’anema ch’è viziosa, 36, come segnala Contini) è responsabile involontaria del (re-
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Angelica sembranza in voi, donna, riposa: Dio, quanto aventurosa fue la mia disïanza! Vostra cera gioiosa, poi che passa e avanza natura e costumanza, ben è mirabil cosa.
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cente) instaurarsi del concetto pseudostilnovistico della «donna angelicata». Si veda la lett. V di Guittone alla Compiuta Donzella (ed. Meriano, ll. 8–9): «... maggiormente sembrate angelica criatura che terrena», Monte Andrea, Segnore Dio, 8: «Veggendo sì angelica creatura»; e Guinizelli, Al cor gentil, 58: «Tenne d’angel sembianza» (anche per il v. sg.). 19. sembranza: sembianza, con suggestione del prov. semblansa. La frase cit. di Guittone prosegue «in ditto e in fatto e in la sembiansa vostra tutta». Il verso è probabilmente riecheggiato nell’attacco di Lapo Gianni Angioletta in sembianza. 20. riposa: alberga, ha sede, sta (con tipica perifrasi locativa). Posare (come dimorare) in tale accezione è frequente in Guittone (e Chiaro, Nesuna gioia creo, 15, ha «dimora e posa»). Ma cfr. Dante, Se Lippo amico, 17, «priego il gentil cor che ’n te riposa». 21. Dio: con funzione interiettiva (cfr. IV 5).– aventurosa: benavventurosa, benavventurata, fortunata (anche in Petrarca nel son. che comincia appunto Aventuroso...). 22. disïanza: desio (con terminazione provenzaleggiante), nel senso di ‘amore’. 23. Ricalca (e non a caso, come mostra anche la prolessi) l’incipit di Arrigo Testa Vostr’orgogliosa cera (cera è diffuso gallicismo per ‘volto’, «sembianza»; gioiosa vale ‘amorosa’ – e cfr. 7 – più che ‘lieta’, ‘ridente’, nel senso su cui vedi XXIV 1, XXXII 15). 24. passa e avanza: coppia sinonimica (cfr. ad es. Bonagiunta, Voi ch’avete, 8), anche forse in proporzione alla seguente: oltrepassa, trascende. 25. natura e costumanza: coppia analoga all’altra «natura e arte»: natura e costume umani, ossia doti naturali e acquisite. Cfr. ancora Arrigo Testa cit., 11–13, «vedendo voi così dura Ver naturale usanza: Ben passa costumanza» (e per la dicotomia totalizzante dell’oggetto, Guido delle Colonne, Gioiosamente canto, 13: «Ben passa rose e fiore La vostra fresca [!] cera [!]»; per altra simile coppia, Iacopo Mostacci, Amor, ben veio, 2: «manera [e] costumanza»). 26. Vedi ancora la lett. V di Guittone, a séguito della citazione
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Fra lor le donne dea vi chiaman, come sète; tanto adorna parete, ch’eo non saccio contare; e chi poria pensare - oltra natura?
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Oltra natura umana vostra fina piasenza fece Dio, per essenza precedente: «ché quanto omo vede de voi sembra mirabil cosa» (e così la canz. Se de voi, donna gente, 20–21). 27. Fra lor: da riferire non a chiaman, ma a dea: quando comparite tra loro, a paragone di loro (e cfr. in certo modo IV 11). Per l’appellativo (ossia per il termine di confronto) cfr. Guittone, Lesso, pensando quanto, 17–19, «... lei, che ’n terra è dea De beltate e d’onore E de tutto valore». 28. come sète: quale effettivamente siete (non è solo un’iperbole dell’ammirazione). Cfr. ancora Guittone, lett. cit., 1. 13: «tanta presiosa e mirabile figura come voi siete» (dove tuttavia la frase ha funzione di ‘personalizzazione’ del complimento). Il nomen dunque è «consequentia rerum»; e potrebb’essere lo spunto per l’idea di Dante, al principio della Vita Nuova, che Beatrice fosse chiamata così anche da coloro che non sapevano che questo era il suo nome. 29. Fornisce lo schema (adorna vale senz’altro ‘bella’, parete vale ‘apparite’, ‘siete evidentemente’) all’incipit dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare. 30. saccio: sono capace (cfr. poria del v. sg.). – contare: riferire, esprimere. Per i vv. 29–30 cfr. IX 15–16, e una delle romanze pubblicate dal Bartsch, I 29, 25–27: «Ne porroit on mie aconter Ne reconter sanz mesconter Les biens qui sont en li». 31. pensare: assoluto: andare col pensiero (oltre ecc.); ovvero concepire (cosa) sovrannaturale, ciò che trascende la natura umana. 32. Oltra natura umana: equivale (e cfr. la nota precedente) all’aggettivo ‘sovrannaturale’ e funge da compl. predicativo dell’oggetto vostra... piasenza. Cfr. Guittone, Se de voi, donna gente, 18: «... figura Ch’è de sovra natura» (dove ai vv. 10–11 si legge: «... la natura entesa Fo di formare voi...»). 33. La vostra perfetta bellezza (per piasenza cfr. 10). Il sintagma corrisponde a quelli dei vv. 5, 6, 17, 23, 36. 34–35. per essenza Che ecc.: perché, affinché foste sovrana (ossia ‘essere superiore’, «la migliore», II 4, «dea» fra le altre
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he voi foste sovrana: per che vostra parvenza ver’ me non sia luntana; or non mi sia villana la dolce provedenza! E se vi pare oltraggio ch’ ad amarvi sia dato, non sia da voi blasmato:
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donne: cfr. Dante, Di donne io vidi, 12, «Credo che de lo ciel fosse soprana», e il Notaro, Madonna ha ’n sé vertute, 7, «de tutte l’autre ell’è sovran’e fiore») per essenza (con incastro del complemento fra per e che e riduzione ad una delle due preposizioni), essenzialmente; incarnazione perfetta della sovranità. A meno che non si tratti di una locuzione (finale) del tipo «per il fatto che», «al fine che»: per essere che, perché fosse che e simili. E cfr. un’analoga quartina di Chiaro, La gioia e l’alegranza, 49–52: «Ben credo Dio volesse, Quando la fe’ in primero, Che ’l suo visaggio altero Sovr’ogne altro paresse». 36. per che: per la qualcosa. – parvenza: equivale a sembranza del v. 19 (e cfr. v. 29). Qui, con vostra, perifrasi per ‘voi’ (cfr. del resto 33 con 35). 37. luntana: ‘distante’, ossia «sdegnosa» (Contini): cfr. ver’ ‘verso’. La forma è meridionalismo. Una canzone del fiorentino Camino Ghiberti che «ridonda di forme sicilianeggianti» (Contini), comincia «Luntan vi son...». 38. ‘Variante’ del v. preced., con accostamento dei predicati (e relativi complementi: ve’ me = mi) e divaricazione (vv. 36 e 39) dei soggetti (chiasmo). Or vale ‘dunque’ (è il consueto rafforzamento delle esortazioni); – villana: scortese, e in sostanza ‘sdegnosa’. Così Dante, V. N, XXIII 9 (ma giocando sull’opposizione villana–gentile): «Morte,... non m’essere villana, però che tu dèi essere gentile». 39 provedenza: avvedimento, attenzione, considerazione, cura, dunque («dolce») benevolenza. Cfr. Maestro Rinuccino, «Merzede!, aggiate, donna, provedenza Di me...»; Chiaro Davanzati, Madonna, lungiamente, 32–33, «però, madonna, aggiate provedenza De lo gravoso affanno ov’eo soggiorno»; Panuccio del Bagno, Di sì alta valensa, 13, «provedensa Di proveder ciascun leal servente». 40. oltraggio: oltranza (cfr. Par., XXXIII 57), varcare il limite, eccesso, ardimerito in accezione trasgressiva ma non necessariamente offensiva (Guinizelli, in Al cor gentil, parla di «fallo»). Altro provenzalismo (oltratge). 41. sia dato: mi sia dato, sia dedito. 42. blasmato: provenzalismo per ‘biasimato’.
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ché solo Amor mi sforza, contra cui non val forza - né misura.
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43. solo: dipende cioè solo da Amore. – sforza: costringe. Eco dell’incipit guinizelliano «Donna, l’amor mi sforza» (anche per la rima ricca, qui con forza, lì con inforza). 44. non val forza né misura: non serve, non è d’aiuto contrapporre forza a forza né prudenza, senno (tant’è che il secondo termine s’accoppia di frequente con «senno», fr. «sens ni mezure»: cfr. Chiaro, Talento aggio di dire, 42, A San Giovanni, a Monte, 12, In ogni cosa vuol senno e misura, 1, Da che savete, amico, 7, e in particolare Molti omini, 8, «amore... nonn–ha in sé né senno né misura»: con possibile risalita dunque dall’‘oltranza’ di madonna, v. 32, e dell’amante, v. 40, a quella di Amore; e cfr. Guittone, O tu de nome Amor, 27 «non mesura hai né ragione», e 64, «Che grave forzo e saver contra vale?»).
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II Avete ‘n vo’ li fior’ e la verdura e ciò che luce od è bello a vedere; 1. È qualcosa di più (Contini, decisamente: «eco geniale») del paragone con «la rosa e lo giglio di Io vogli? del ver, 2 di Guinizelli (e nonostante quella ricchezza di colori: cfr. ancora 5–6 «Verde river’ a lei rasembro e l’âre, Tutti color di fior’, giano e vermiglio»). è l’identificazione di I 2: ‘siete una primavera’ (e il suggerimento, anche alla luce dei vv. sgg., sarà piuttosto quello di Vedut’ho la lucente stella diana). Cfr. la canzonetta anonima Rosa aulente cit., 12–13, dove la donna–rosa dell’incipit è chiamata ad inizio della 2a strofa «Fior e foglia». La coppia diventa «fioretti e... erba» nella sestina dantesca Al poco giorno, 12 «le violette e ’l verde» nella canzone petrarchesca In quella parte, 32 (dipende piuttosto da Guinizelli il Davanzati, Chiunque altrui blasma, 81–84, «Pareglia àlbori e fiori E verdor de li prati E de l’agua chiarore E lume d’ogni spera...»). è superata l’interpretazione (Di Benedetto, Zaccagnini) di fiori e verdura come «bellezza» e «gioventù» (Branca). Si aggiunga che «flores et viridia» sono esemplificazione della bellezza del colore nel cap. 52 del secondo libro del trattato d’ottica De aspectibus di Alhazen (cito da A. Parronchi, La prospettiva dantesca, in Studi su la dolce prospettiva, Milano, Martello, 1964, p. 23). Per Avete ’n vo’ cfr Guinizelli, Gentil donzella, 10, «donna ch’aggia in sé beltate». 2. e ciò che ecc.: per la formulazione (sempre in dipendenza da Avete ’n vo’) e per l’immagirie (esplicitando «lassù»?) cfr. ancora Io vogli? del ver, 4: «e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio» (luce – da lucere’ – è latinismo particolarmente gradito a Dante – cfr. Par., luce la luce di Romeo» – e a Petrarca). Ma la specificazione – per cui cfr. Percivalle Doria Come lo giorno, 2, «quand’è dal maitino Claro e sereno e bell’è da vedere», e che il teorema di Vitellione citato da Contini 66 a sostegno della scelta (su suggerimento di Favati) di ed di á rispetto a od prima adottato («Lux, quae est primum visibile, facit pulchritudinem unde videntur pulchra sol et luna et stellae propter solam lucem») riconduce a identità – risale a ogni modo all’«omne quod visu pulchrum est» di Isaia, II 16, e «omne quod pulchrum erat visu» delle Lamentationes di Geremia, II 4 (Caridi). Del resto il termine di confronto naturale è caratteristico del Cantico dei Cantici, per cui vedi la nota a IV 1 (si veda in particolare II 1–2, «Ego flos campi et lilium convallium. Sicut lilium inter spinas, sic amica mea inter filias»; e valga anche per I 27–28).
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risplende più che sol vostra figura: chi vo’ non vede, ma’ non pò valere.
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In questo mondo non ha creatura sì piena di bieltà né di piacere; e chi d’amor si teme, lu’ assicura vostro bel vis’ a tanto ‘n sé volere.
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3. Diretta imitazione del solito Guinizelli, son. cit., 3, «più che la stella diana splende e pare», integrato da Tegno de folle ’mpresa, 23 («... infra l’altre par lucente sole»), 36 («come lo sol di giorno dà splendore»). Dietro, il «speciosior sole» di Sap., VII 29 (Caridi), e se si vuole l’«electa ut sol» di Cant. cant., VI 9 utilizzato in IV 1. – figura: volto. 4. Di qui i vari «vada con lei» di Dante (Donne ch’avete, 32, Amor che ne la mente, 40) e il verso «per che si fa gentil ciò ch’ella mira» del son. Ne li occhi porta del medesimo. Cfr. ancora Guinizelli, Madonna, il fino amor, 37, «Madonna, da voi tegno ed ho ’l valore» (e anche Io vogli? del ver, 11 «fal di nostra fé se non la crede»), e Chiaro, Gentil donna, 34, «s’io non vaglio, sì mi fa valere», Assai v’ho detto, 6, «e chi non vale, sì lo fa valere». – ma’: rafforza la negazione. – valere: aver valore, ossia, come per lo più si spiega, le qualità che dignificano l’amante, e in genere l’insieme delle virtù e dei pregi, amorosi e non (cfr. V 2, VI 10); altri (Di Benedetto, Branca): «essere gentile», ossia ‘nobile’, anticipando Dante cit. Ma qui prevale iI momento negativo, e tutta la frase varrà semplicemente: ‘non vale nulla’‘. 5–6. Calco di Guinizelli, Vedut’ho, 7–8: «non credo che nel mondo sia cristiana Sì piena di biltate e di valore» (Branca – ha vale ‘vi sia’, né vale ‘o’ in proposizione negativa, prov. ni; piacere è sinonimo – cfr. I 2, 33 – di bieltà.). Ma cfr. Job, I 8: «quod non sit ei similis in terra, homo simplex et rectus ac timens Deum et recedens a malo» (Caridi). 7. d’amor si teme: ha ritegno ad amare (cfr. Par., XXII 27: «non s’attenta Di domandar, sì del troppo si teme», e «ti ritemi» di Così nel mio parlar, 24, sempre di Dante). –lu’ assicura: lo incoraggia (sogg. vostro bel viso sg.). II pronome per la particella pronominale atona per più netta correlazione con chi («se qualcuno», Contini) e asseverazione. 8. a tanto ’n sé volere: ad accettare, accogliere in sé (volere è vecchia congettura del Di Benedetto sull’erroneo bellore, peraltro paleograficamente spiegabile) ciò, ossia l’amore (non darei a tanto significato enfatico: cfr. del resto Dante, Voi che portate, 14: «... ’l cor mi triema di vederne tanto»). Notevole (ma normale) l’interposizione di oggetto e complemento tra preposizione e verbo, per
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Le donne che vi fanno compagnia assa’ mi piaccion per lo vostro amore; ed i’ le prego per lor cortesia.
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che qual più può più vi faccia onore ed aggia cara vostra segnoria, perché di tutte siete la migliore.
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di più in applicazione dell’‘ordo artificialis’ in tutto il periodo dei vv. 7–8. 9–10. Il motivo (mi sono care tutte le donne che stanno con voi per amor vostro, ossia rendete amabile tutta la vostra compagnia) non è stilnovistico (anche se penetra nella lode dantesca, Vede perfettamente, 11: «ciascuna per lei riceve onore»), ma risale alla dottrina del De amore di Andrea Cappellano, I VI G, per cui l’onore dovuto all’amata s’estende a tutte le donne («Aliae... dominae nil mihi possunt ex debito postulare nisi ut vestrae contemplationis intuitu mea sibi debeam beneplacita largiri obsequia»; il volgarizzamento f iorentino: «... se non... ch’io le servisse per vostro amore»). 11. per lor cortesia: formula ‘di cortesia (che siano tanto cortesi da ecc.). Cfr. XXX 47. 12. qual più può più ecc.: facciano a gara ecc., ossia vi rendano il massimo d’onore (qual vale ‘colei che’). Onorate da lei, le facciano a loro volta onore (cfr. Cino da Pistoia, Vedete, donne, 9–10: «Quanto si puote, a prova l’onorate, Donne gentil’, che tutte voi onora», e 6, «tutte voi adorna similmente»). Per Dante sarà un modo di dar vita alla propria lode (Ne li occhi porta, 8: «aiutatemi, donne, farle onore»). – onore: non solo omaggio, ma accoglienza e corona. Le due formule, per lor cortesia e fare onore, riunite in XXXV 5–6. 13. cara: preziosa (prov. car), in pregio. – segnoria: sovranità (cfr. I 35), superiorità. 14. Tema ampiamente svolto in Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 22–24, 30, 32. E per la mossa cfr. il Notaro cit. al 34–35.
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III Biltà di donna e di saccente core e cavalieri armati che sien genti; cantar d’augilli e ragionar d’amore; 1. di saccente core: ‘core di sapiente’. è il «cor sapientis» della Scrittura (Prov., XV 14, XVI 23, Eccl., VIII 5, X 2, Eccli., III 31), per cui non occorre tradurre core (Contini, Marti: «mente»), rappresentando qui semplicemente il correlativo interiore della bellezza: secondo la teoria della ‘conversione’ delle rettoriche del tempo, traducibile in ‘saggezza di core’, dunque ‘cuor saggio’ (cfr. 10, ed Eccli., III 32 «cor sapiens» e, poniamo, Dante, Savere e cortesia, 3, «fortezza e umiltate e largo core»), con applicazione di una tipica perifrasi attualizzante (core come incarnazione di una ‘virtù’ o, per sineddoche, del suo possessore: cfr. XI 1 e, per es., il guittoniano «cor di zudeo» detto della donna) per ‘saggezza’ (e cade ovviamente la possibilità della lezione minoritaria preferita da Margueron, p. 656). In rispondenza chiastica (così l’incipit dantesco «Sonar bracchetti e cacciatori aizzare», meglio, per l’analogo rapporto sostantivo–attributo, l’altro «Color d’amore e di pietà sembianti») con Biltà di donna, con cui costituisce termine di paragone privilegiato, anticipazione del secondo, dei vv. 9–10. Ma si veda il Liber Sapientiae, VII 8–10: «Et praeposui illam regnis et sedibus, et divitias nihil esse duxi in comparatione illius. Nec comparavi illi lapidem pretiosum: quoniam omne aurum in comparatione illius arena est exigua, et tanquam lutum aestimabitur argentum in conspectu illius. Super salutem et speciem dilexi eam, et proposui pro luce habere illam: quoniam inexstinguibile est lumen illius». 2 Il Tassoni citerà, per il v. 3 del son. petrarchesco Né per sereno ciel, «né per campagne cavalieri armati», i versi (di Bertran de Born) Be·m platz [!] lo dous temps de pascor, «Can vei en campanha arengatz Cavaliers ab cavals armatz...». – che sien genti: ‘gentili’ (cfr. prov. gent), nobili. Per la perifrasi cfr. il sonetto cit. del Notaro, 4, «nè la ritropia ch’è sì vertudiosa». Si tratta d’un esempio di ‘gentilezza’; ma cfr. Cant. cant., VI 9, «terribilis ut castrorum acies ordinata». 3. Riprende in parallelismo il modulo dicotomico di 1, come 4 quello predicativo di 2 (l’alternanza prosegue nella 2ª quartina, dove anche 5 è assimilabile a 1, 3, 7, e si noti il parallelismo fonico tra apar l’albore e ragionar d’amore, e 8 a 2, 4, 6): cantar d’augelli e ragionar d’amore, oltre che dalla rima interna dei due infiniti e dall’opposizione delle due vocali in rima AB (e [au]gelli consuona,
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adorni legni ’n mar forte correnti;
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aria serena quand’ apar l’albore e bianca neve scender senza venti; rivera d’acqua e prato d’ogni fiore; oro, argento, azzuro ’n ornamenti:
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oltre che assuona, con genti), sono connessi a norma di I 4 e 10 (e cfr. XLVIª 13–14), dove il canto degli uccelli a primavera è linguaggio d’amore (analoga connessione, e analogo uso dell’infinito, che è la formula di Sonar bracchetti di Dante, in Petrarca, son. cit., 6 e 8: «né dir d’amore in stili alti ed ornati Né... Dolce cantare oneste donne e belle»; ma in Cavalcanti i due termini sembrano individuare la doppia interpretazione dell’incontro con la pastorella rispettivamente di XLVIª e XXXª). «Ragionar d’amore» risuona in Dante, Guido, i’ vorrei (qui XXXVIIIª), 12, Gentil pensero, 3, e altrove con variazioni, e approderà a Leopardi di A Silvia. Per una segreta risonanza interna a Guido, cfr. XLI 7. 4. adorni: probabilmente ‘belli’, piuttosto che ‘armati’ in senso nautico, attrezzati. – legni: navi (sineddoche). Cfr. XXXVIIIb 4, e Petrarca cit., 2, «né per tranquillo mar legni spalmati» (la determinazione «in mar» corrisponde all’altra «en campanha» sottintesa in Guido non in Petrarca per i cavalieri). – forte: ‘molto’. – correnti: veloci, qualità tradizionalmente apprezzata di una nave; con probabile funzione predicativa come «che sien genti». 5. aria: qui sineddoche per ‘cielo’ (e Petrarca, «Né per sereno ciel...»). – albore: alba (provenzalismo) come in Guinizelli, Vedut’ho, 2, «ch’apare antiche ’l giorno rend’ albore», e come nell’anonima Quando la primavera Apar l’aulente fiore, 4, «la matina agli albore». Cfr. ancora Cant. cant., VI 9, «quasi aurora consurgens». 6. Verso di eccezionale (e opposta) suggestione su Dante Inf., XIV 30, «come di neve in alpe senza vento», e su Petrarca, Tr. Mortis, I 166–67, «... più che neve bianca Che senza venti in un bel colle fiocchi», il paragone risale ancora alla Scrittura, Isaia, LV 10, «Et quomodo descendit imber et nix de coelo». 7. rivera: qui fiume (fr. rivière – cfr. I 3 e nota), come in Guinizelli, Madonna mia, 4 («tornerà l’acqua in su d’ogni riviera»): d’acqua, che corrisponde a d’ogni fiore detto di prato (‘fiorito’), significherà abbondante d’acque, e forse precisa il significato rispetto a «verde rivera» di Guinizelli, Io voglio del ver, 5, cui segue 6 «Tutti color di fior’...» (Petrarca ancora, son. cit., 7, «tra chiare fontane e verdi prati»). 8. Ultimi, metalli e pietre preziose: due su tre (argento fa cop-
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ciò passa la beltate e la valenza de la mia donna e ‘l su’ gentil coraggio, sì che rasembra vile a chi ciò guarda;
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e tanto più d’ogn’ altr’ ha canoscenza, quanto lo ciel de la terra è maggio. pia con oro) in Guinizelli son. cit, 7, «oro ed azzurro e ricche gioi per dare», dove per dare ‘per donare’ (che è frase convenzionale, risultando anche in un antico libro di dare e d’avere, cod. della Nazionale fiorentina II.II.310, c. 29v, probabilmente per distinguere le pietre da gioiello da quelle da ricamo) corrisponde (si oppone?) a ’n ornamenti. Cfr. (anche in relazione al verbo del v. 9) Iacopo Mostacci, Amor, ben velo, 24: «e passa perle, smeraldo e giaquinto». Azzuro è ‘lapislazuli’ (voce d’origine arabo–persiana, per sineddoche passata poi a significare il colore corrispondente). 9. ciò: oggetto di passa (‘supera’, cfr. I 24), riassume i vv. 1–8, facendo da appoggio all’amplissima prolessi, accentuata dalla posposizione del soggetto (il resto dei vv. 9–10), che, s’è detto, riporta al v. iniziale, e sigilla, come maggior valore, il confronto. – valenza: lo stesso che «valore» (con desinenza provenzaleggiante: ritorna in XLIXa 9), integra sul piano spirituale (o con riguardo ai ‘valori’ ultimamente elencati?) beltate rispetto all’altro termine, cor «gentile» o «saccente». Lo stesso accoppiamento, del resto consueto, in Guinizelli, Vedut’ho, 8, «... piena di biltate e di valore». E «bellezze» e «vertute» erano unite nel confronto del sonetto del Notaro, vv. 7 e 9. 10. gentil coraggio: cuor gentile, nobile, ossia (cfr. 1) nobiltà (coraggio è provenzalismo). 11. rasembra: appare (il soggetto è ancora ciò, che si ricava dalla relativa sg.). – vile: nel senso che ancora ha in commercio di ‘senza’ o ‘di poco valore’. 12. altr’: altra (donna). – canoscenza: integra a sua volta il significato di «cor gentile» a norma di «saccente core» del v. 1: dunque ‘saggezza’. 13. Il paragone più alto alla fine, in posizione enfatica, con rovesciamento della correlazione dei vv. 1–11, e paragone di paragone, affidandosi al modello scritturale del salmo CII 11, «secundum altitudinem coeli a terra» (misura della misericordia di Dio) e di Isaia, LV (già cit.) 9, «sicut exaltantur coeli a terra» (così le vie del Signore rispetto a quelle degli uomini), presente probabilmente (ma con meno forza) anche a Guittone, Degno è che che dice, 25–26 («... e sa è meglio Cielo che terra, quanto e’ ’l sa migliore»), e, per es., a Restoro dArezzo, La composizione del mondo, II.6.4.2, 9 («quanto lo cielo è più nobele de li elementi»). Da leggere con
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A simil di natura ben non tarda.
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dialefe terra e. – maggio è la forma nominativale per ‘maggiore’ (come meglio per ‘migliore’ ecc.). 14. Epifonema al modo per es. di Guinizelli, Fra l’altre pene, 14, «A bon servente guiderdon non père» (Contini); fuori ormai d’ogni paragone. L’attestazione della locuzione «a simil di» due volte in Cino, Signor e’ non passò, 10 («... nella mente pinge A simil di piacer sì bella foggia», dove «piacer» vale ‘bellezza’), Poi ch’i’ fu’, Dante, 13 («... convien ch’a simil di beltate In molte donne sparte mi diletti»), induce a riferire di natura a simil anziché a ben: per ‘simil natura’ (creatura), a dipendendo naturalmente da tarda (si lascia attendere, ossia manca: un costrutto analogo, ma inverso, in Chiaro, Da tutt’i miei pensier’, 12, «e a sollazzo lo suo cuor non tarda»; e cfr. del resto XLIX a 10): non c’è bene (dote o virtù) che manchi a una creatura come questa. E cfr. forse ancora il Liber Sapientiae, VII 11 (di séguito al passo cit. v. 1): «Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa» (a simil di interpreta «pariter cum illa»?). Favati e Contini 66 (ma senza intervenire sul testo) sono poi tornati alla lezione del ’57 ben om tarda (da intendere ‘ben si tarda’, ossia non se ne può davvero fare a meno) peraltro minoritaria (tutti gli altri testimoni chiaramente ben non il Magliab. VII.1060 comunque beno).
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IV Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, che fa tremar di chiaritate l’àre 1. Chi è questa che vèn: suggestione, anzi eco, come avvertì Camini, del Cantico dei cantici, dove l’interrogativo costituisce ‘Leitmotiv’ (III 6 «Quae est ista quae ascendit per desertum...», VI 9 «Quae est ista quae progreditur ...», VIII 5 «Quae est ista quae ascendit de deserto...»), affermazione di meraviglia cui seguono regolarmente i paragoni naturali (in particolare VI 9 «... quasi aurora consurgens, pulchra ut luna, electa ut sol, terribilis ut castrorum acies ordinata», già cit. per II 3, III 2, 5); e per il Verbo, di Isaia, LXIII 1, «Quis est iste qui venit de Edom...» («iste formosus in stola sua»), con riflesso sulla ‘venuta’ di Beatrice del son. dantesco Io mi senti’ svegliar (e cfr. 3). – ch(e)... la: relativo più dimostrativo, per il semplice relativo (frequentissimo anacoluto). – ogn ‘om: ognuno (come al v. 4 null’omo – cfr. Guinizelli, son. cit., 14 – vale ‘nessuno’). Sia beninteso che gli astanti sono una funzione della veduta («mira») e dell’ammirazione, al massimo dell’incanto (5), senza significazione d’effetti virtuosi. I termini della rappresentazione sono puramente contemplativi e noetici. 2. che fa ecc. (possibile variante redazionale: e fa): integra la 1ª relativa del v. 1 in analogia coi paragoni del Cantico, rispetto alla2ª, vera subordinata di 2° grado (come quella dei vv. 3–4, ma anticipata a significare la generale evidenza e ammirazione. – chiaritate: latinismo anche formale (torna in IX 23): luce. Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 37, avendo affermato (35–36) che «la notte... Come lo sol di giorno dà splendore», ne concludeva «così l’aere sclarisce»; e già Alberto da Massa, Donna, meo core in parte, 43–45; «lo vostro viso... tutta la gente Di claritate luma», ossia illumina. Ma questa vibrazione e quasi eccitazione dell’«aere», caratteristica, secondo la fisica del tempo, della percezione acustica («auris non audit nisi quae communicant cum aere tremente», Alb. Magno, Metaphys., XI, tr. 2, 3; e cfr. Inf., IV 27, «sospiri Che l’aura etterna facevan tremare», e 150, «l’aura che trema»), è una ‘scoperta’ di Cavalcanti (e lascerà il suo specialissimo segno in Dante, Inf., I 48, «sì che parea che l’aere ne tremesse»), ma nel senso dell’appropriazione (e se vogliamo riduzione) poetica del fenomeno ottico della ‘scintillazione’ ben noto agli antichi ‘perspectivi’, per cui «videtur res tanquam in diversis locis, et sic quasi in tremore a vacillatione de loco ad locum» (Rugg. Bacone, Perspectiva, II III 7), in particolare per effetto dell’intensità della luce; donde ancora Dante, Par., II 110–11, «... luce sì vivace Che ti tremolerà nel suo aspetto», e forse lo stesso «tremolar della marina»
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e mena seco Amor, s’ che parlare null’omo pote, ma ciascun sospira?
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O Deo, che sembra quando li occhi gira, dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare: di Purg., I 117 (cfr. Parronchi, La perspettiva dantesca cit., pp. 84–87). 3. mena seco Amor: variante (in funzione di rappresentazione, e coerente con l’immagine iniziale) del concetto della presenza d’Amore con (in: seco può valere ‘in sé’) madonna (su cui cfr. XXIV e relativi riferimenti), ossia dell’identificazione con Amore e della sua capacità d’innamorare. Il luogo dantesco prossimo è quello (con eccesso di mess’in scena) di Dì donne io vidi, 4, dove la donna viene «veggendosi l’Amor dal destro lato», e sùbito dopo quello di Io mi senti’ svegliar, dove Amore le fa da battistrada (in Per una ghirlandetta madonna verrà «coronata da Amore»). Ancora Cino, Tutto mi salva (con rime –are e –ute nelle quartine, e di nuovo pare, are, salute, vertute in comune), 4 (con integrazione genetica), «con lei va Amor, che con lei nato pare» (e Lapo Gianni, Dolc’è ’l pensier, 8, la fa perciò «d’Amor sorella»). 3–4. L’ammutolimento è quello di Tanto gentile di Dante, 3 («ch’ogne lingua deven tremando muta»), della cui estasi è conclusione (e unica effabilità) appunto il «sospiro». Null’omo è il fr. ‘nul om’. 5. che sembra: esclamazione d’incomparabilità (e d’ineffabilità: cfr. 6) corrispondente all’interrogativo iniziale, piuttosto che interrogativa indiretta dipendente da dical’. L’interiezione O Deo (cfr. appunto I 21) comporta il primo tipo di frase. Cfr. peraltro Dante, Ne li occhi porta, 12–13, «Quel ch’ella par quando un poco sorride Non si pò dicer né tenere a mente». – quando li occhi gira: non è il desiderato «pietoso giro De’ be’ vostr’occhi, là ’ve Amor si posa» di Cino, Lo gran disio 31–32 (per cui cfr. semmai XXV 20) ma è forse il primo cenno d’attenzione al moto degli occhi (qui sotto la suggestione ancora di Cant. cant., VI 4, «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fecerunt»?), che avrà la sua più viva espressione in Petrarca, e si vedano in particolare i vv. 9–11, «Per divina bellezza indarno mira Chi gli occhi de costei già mai non vide, Come soavemente ella gli gira», del son. In qual parte del ciel, tra l’altro richiamantesi per le terzine proprio a quelle di Ne li occhi porta sopra cit. 6. dical’ Amor: che sta «seco» (che volge quegli occhi, col Petrarca del sonetto–plazer Né così bello il sol, 9, «I’ vidi Amor che’ begli occhi volgea», che appunto riecheggia un attacco cavalcantiano?). Dante, Ne li occhi porta, 8: «Aiutatemi, donne, farle
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contanto d’umiltà donna mi pare, ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira. Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, e la beltate per sua dea la mostra.
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onore»; e infatti in Donne ch’avete, 43: «Dice di lei Amor...». Già Rustico, Tutte le donne, 5–8, lunghettamente: «... vorria ch’Amor tanto in parlare Mi desse graza ch’io con veritate Savesse a tutta gente adimostrare Com’è somma de l’altre donne nate». – ch’i’ nol savria contare: cfr. I 30 (e qui 9), e Chiaro, Or vo’ cantar, 13–14: «ch’io già per me contare io nol savria La sua bieltade quant’è poderosa». 7. d’umiltà donna: semplice genitivo qualificativo («biblico», Contini): donna umile, ossia benigna (cfr. XXVI 15, e XVI 10, XXV 20; e Guittone, O bon Gesù, 39–41: «... tu messere Di vertù, di savere e di valore, Di soavità, di pregio e di piacere»; e Dante, Inf., II 76, «O donna di virtù...», che svela l’origine del costrutto nel calco appunto dell’ebraico «mulier virtutis», Ruth, III 11). Ma cfr. 10. Frequentissima in Cavalcanti la prolessi del compl. di specificazione e analoghi (cfr. XI 1, 2, XV 5, XXVI 4, 15, XXVIII 6, XXXª 22, XXXII 3, 34, XXXVIIIb 11, XXXIX 14, XL 8). 8. ch’ogn’altra: corrisponde a ch’ogn’om dell’altro capo della fronte. – ver’ di lei: al suo confronto (possibile variante redazionale: veramente). – ira: disdegno (il contrario dell’«umiltà» ossia ‘benignità’. Contini, Lett. d. Or, «(motivo di) afflizione»). Cfr. Dante, Ne li occhi porta, 7, «fugge dinanzi a lei superbia ed ira», e Iacopone, O Vergen più che femena, 68–69: «La sua umilitate prender umanetate, Pare superbietate onn’altra ch’è pensata». 9. Ripresa all’indefinito di 6 (e cfr. Rinaldo d’Aquino, Venuto m’è in talento, 46–47: «e lo mio alegramento Non si poria contare»). Cfr. ancora Chiaro lì cit., e del medesimo La gioia e l’alegranza, 17–18, «I’ non poria accertire In tutt’a sua valenza», con plagenza in rima al v. sg. (per questa voce e forma, con approssimazione al prov. plazer, cfr. I 33, come per poria I 31). 10. s’inchin(a): rende omaggio, come a sua signora (ossia riconosce la sua eccellenza: cfr. 11). Chiaro, Chiunque altrui biasma, 95: «a lei inchina quant’è di piacere». – ogni gentil vertute: cfr. XXXª 8 (gentile al solito, ‘nobile’; e, a norma di Dante, Le dolci rime, 101–2, «gentilezza» è condizione di «virtù»: cfr. Conv., IV XIX 3). 11. per sua dea: nel senso di I 27, d’eccellenza, perfezione ideale (senza cioè alcuna identificazione con Venere), come altrove «regina» (e cfr. Cino, Quando potrò io dir, 11, «quella ch’è dea d’ogni
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Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose ‘n noi tanta salute, che propiamente n’aviàn conoscenza.
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gran biltate», e già Guittone cit. a I 27): quello che Dante esprimerà col verso «per essemplo di lei bieltà si prova» (Donne ch’avete, 50).– la mostra: la riconosce pubblicamente (forse con didattico atteggiamento figurativo, tipico dell’antica pittura). 12. Non fu: e al v. 13 non si pose: ‘ab aeterno’, ossia per sua costituzione; non fu creata tale ecc, – già: rafforza la negazione. – la mente: sede della «conoscenza». 13. si pose: fu posta. – salute: perfezione (effettivamente consistente nella ‘salvezza’ spirituale) come in IX 31. 14. Probabile variante redazionale: che pria ne poss’ aver om c. (con integrazione di un ennesimo indefinito, e pria per dire che la «salute» è condizione preliminare della «conoscenza»). – propiamente (con dissimilazione): propriamente («parola guinizelliana (v. 9 di Al cor gentil)», Contini, Lett. d. Or.), ossia adeguatamente; adeguata conoscenza. Per l’intera terzina cfr. XXV 8–10. – aviàn: abbiamo (analogico su avere), con desinenza fiorentina –ano per –amo.
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V Li mie’ foll’ occhi, che prima guardaro vostra figura piena di valore, fuor quei che di voi, donna, m’acusaro nel fero loco ove ten corte Amore,
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e mantinente avanti lui mostraro ch’ io era fatto vostro servidore: 1. foll(i): più che «imprudenti» (Contini), trasportati dal (e quindi rivelatori del) desiderio. L’amore, in quanto fondamentalmente concupiscenza (vedi sotto) è delirio e follia. – prima: «di loro iniziativa» (Contini): quindi pienamente responsabili. Ma non è escluso che si riferisca all’inizio stesso dell’amore, secondo la nota formula di Andrea Cappellano (De amore, I 1): «Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus...»; meno probabile che si sottolinei il fatto di diventare accusatori dopo aver commesso il reato. 2. è l’unico tratto estraneo alla tematica giudiziale dominante; e sembra difficile, nonostante la citazione or ora fatta, la nozione dell’appropriazione di un bene altrui, ossia di un reato ‘contro il patrimonio’. Valore (retto da pieno di anche in XXXI 8 e XLIXª 2) indica il complesso dei pregi (amorosi cioè innamoranti) di lei. 3. di voi... m’acusaro: mi denunciarono (ossia tradirono) come vostro innamorato nell’atto stesso di guardarvi (la mia colpa siete voi). 4. corte: corte di giustizia; luogo «fero» perché vi si applica una legge crudele. Per ten corte cfr. «ten ragion» di XXXVIIb 6, dove il «loco» è diverso. Di qui Cino, Amor che vien per le più dolci porte, 3–4: «riposa ne la mente, e là tien corte, Come vuol de la vita giudicando» (svolgendo nei vv. successivi un’analoga anche se meno drammatica situazione); e per l’intera relativa probabilmente anche Dino Compagni, Non visi monta per iscala d’oro, 2. 5. mantinente: immantinente, ossia facilmente, senza possibilità di dubbio. – mostraro: dimostrarono, prove alla mano. 6. fatto: diventato (è il lat. ‘factus’ part. pass. di ‘fieri’). Cfr. 13 (dove l’accusa, ossia la motivazione della condanna, è ripetuta). – servidore: fedele amante (cfr. XL 5), ciò che costituisce per sé la ragione della pena (e cfr. del resto XXXII 19–20). Tutt’altro l’effetto di XXXIX 9–14, in presenza d’un «sire Lo quale porta di merzede insegna».
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per che sospiri e dolor mi pigliaro, vedendo che temenza avea lo core.
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Menârmi tosto, sanza riposanza, in una parte là ‘v’ i’ trovai gente che ciascun si doleva d’Amor forte,
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7. mi pigliaro: è la tipica perifrasi, ancora in uso, della patologia affettiva (e cfr. ad es. «Tribulatio et angustia invenerunt me» di Ps., CXVIII 143, «tribulatio et dolores tenuerunt eam» di Jerem., XLIX 24, meglio «quia comprehendit te dolor?» di Mich., IV, 9), ma che qui si applica alla cattura del reo (e cfr. ad es. Iacopone, La Bontate se lamenta, 7–8: «L’Affetto si à pigliato E... En prescion l’à carcerato»); per cui «sospiri» e «dolor» sono ‘personae’ (gli sbirri) del procedimento (e potrebbero essere scritti anche con iniziale maiuscola). 8. vedendo: al vedere, per l’antica autonomia del gerundio dal soggetto da riferire a mi piuttosto che a sospiri e dolor, o anche con valore non causale (e vidi, sì che vidi), quella di «vedere» essendo funzione essenzialmente di drammatizzazione degli stati d’animo (e cfr. XIX 4–5): per dire che gli mancò il cuore, si perse d’animo, e se ne rese conto. – lo core: soggetto, a regola, con inversione dell’‘ordo naturalis’. Ma si potrebbe anche intendere come oggetto di avea (e temenza ‘timore’ soggetto), da interpretare come ‘tratteneva’, ‘impediva’, ovvero ‘occupava’ (col che il cuore potrebbe anche identificarsi col «fero loco» del v. 4). 9. Menârmi: verbo tipico della traduzione carceraria (cfr. «menar preso», per es. in Cino, Saper vorrei, 4, «innanzi a lei ’l menò legato e preso», «menar pregione»): soggetti, gli stessi del v. 7. L’enclisia della particella pronominale con verbo iniziale, a norma della legge Tobler–Mussafia (così dissermi al principio del v. 13). – sanza riposanza: senza mettere tempo in mezzo. La sentenza (implicita) è immediatamente eseguita (non credo si tratti di carcerazione preventiva: cfr. 14). La forma è provenzalismo (ma sanza ben fiorentino). Si noti la ridondanza. 10. in una parte: è il penitenziario d’amore. Un luogo di pena (ma per donne che non hanno ricambiato i loro amanti) annesso alla corte d’Amore è nel Cappellano, I 6 E, nella parlata del nobile alla nobile. – là ’v(e): là ove, ossia dove (là è pleonastico; la formula è«siciliana» [Contini]). 11. che ciascun: anacoluto: ciascun dei quali. – si doleva d’Amor: sono i compagni di pena, i condannati come lui. –forte: molto (come in III 4).
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Quando mi vider, tutti con pietanza dissermi: «Fatto se’, di tal, servente, che mai non déi sperare altro che morte» .
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12–13. Quando mi vider.. Dissermi: cfr. Dante, Cavalcando l’altrier, 9–18: «Quando mi vide, mi chiamò per nome, E disse...». Tipica della convivenza carceraria, la compassione (e togliere ogni illusione) al nuovo venuto. – pietanza: pietà (provenzalismo). 13. di tal: di una tal donna. Dipende da servente. – servente: altro provenzalismo nella specifica accezione (‘devoto’, amante’). Alterna con servitore anche in XL 5 e 12 (Contini). 14. mai: rafforza altro. – dà: ‘devi’: esprime necessità. – sperare: aspettare. La condanna è, alla lunga, a morte. Ma la morte potrebbe anche essere la liberatrice dalle pene: come dire che la pena durerà quanto la vita. Per la prospettiva, cfr. IX 7–8.
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VI Deh, spiriti miei, quando mi vedete con tanta pena, come non mandate fuor della mente parole adornate di pianto, dolorose e sbigottite?
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1. spiriti: manifestazioni, ossia strumenti e veicoli (si tratta, come avverte Contini di «corpi sottili», vapori, prodotti dal cuore) dei processi vitali a tutti i livelli (e con loro specificità: ma Cavalcanti distinguerà solo lo spirito visivo, XXII 12, XXVIII 14, per il resto prevalendosi del termine soprattutto immaginativamente: cfr. XIX 8 «spirito che ride», XXIV 11 «spirito di gioia», XLII 4 «rosso spirito»), conforme alla concezione (e alla terminologia) della filosofia naturale (ossia della fisiologia) del tempo (di derivazione aristotelica: Dante nel II della Vita Nuova prenderà a fondamento i Parva naturalia di Alberto Magno), che vede il corpo umano come una complessa macchina pneumatica (e di cui qualche traccia resta nel linguaggio d’oggi: cfr. ‘riprendere gli spiriti, ‘non avere tutti gli spiriti’ ecc.); ma andrà tenuto conto (e cfr. XXVIII) dell’uso frequente di «spiritus» come determinante nel linguaggio biblico, ossia della Vulgata. In Cavakanti (e in Dante) sono gli animatori della scena interiore (in Cavalcanti per un esito fatale di fuga e di morte) e personificazioni degli affetti e delle passioni. Ma spirito assume anche significato e forza di manifestazione energica autonoma, ossia di protagonista di un più ampio spazio vitale, come qui al v. 9 (con ulteriore rispondenza da fronte a sirima. – quando: dal momento che, poiché (come in latino). 2. con: in; afflitto da. La «pena» sarà specificata, con ripresa dello stesso verbo, ai vv. 5–6. – come: com’è che; perché. 3. mente: designa per lo più (cfr. VII 11,VIII 1, X 18, XII 3, XIII 2, XV 6, XVII 12, XIX 18, XX 5, XXVIII 2, XXXI 2, XXXIII 4, XXXV 40, XXXVIIb 6) il ‘sé’ interiore, quello che Dante definirà (Conv., II VI 2), ma dicendo del cuore, «lo secreto dentro», e che in Cavalcanti è solitamente il teatro dello ‘happening’ suddetto. 3–4. adornate di: per dire semplicemente ‘di’, e con perfetta equivalenza del complemento ai due attributi seguenti (da intendersi come ‘di dolore’ ecc., come «adornate di pianto» può tradursi ‘lagrimevoli’ e addirittura ‘piangenti’: «doloros(amente)» e «sbigottite» si ritrovano accosto in XVIII 1, 3 e «sbigottita» è la voce «ch’esce piangendo de lo cor dolente» della ball. XXXV). Guido sembra attenersi al precetto di Brunetto, Rett., 32, 5: «par-
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Deh, voi vedete che ‘l core ha ferite di sguardo e di piacer e d’umiltate: deh, i’ vi priego che voi ‘l consoliate che son da lui le sue vertù partite.
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lando in dolore (cfr. 13!) sia la testa inchinata, il viso triste e gli occhi pieni di lagrime e tutte sue parole e viste dolorose...». Ma col conforto della retorica, si ha qui, a partire dai complementi «con tanta pena» e «fuor della mente», anzi da «vedete», il primo e cospicuo esempio di linguaggio analitico drammatico per cui la pena è visibile anche là dove non arrivano gli occhi, la sua manifestazione è un’uscita di parole fuor della mente, e queste sono atteggiate a pianto, dolore e sbigottimento. E cfr. sùbito dopo «’l core ha ferite di... e di... e di...». 5. Deh: ripresa (non limitata alla particella), con tipico ‘passo indietro’ cavalcantiano (cfr. più oltre X 13, XIII 9), a esplicitazione della «tanta pena» del v. 2 e giustificazione dell’effusione dei vv. 3–4, Fino alla riproduzione de trìcolon; e la causa di tutto ciò (con ulteriore retrocessione, più che logica, immaginativa), vv. 9 sgg., s’affida anch’essa al trìcolon (Contini). 6. di... di... di...: causate da, effetto di... L’integrazione di sguardo, causa ordinaria di ferita d’amore (ma la perifrasi sembra ricondurre al «vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum» di Cant. cant, IV 9 [Caridi]), con piacere (bellezza – e cfr. il «cairel [’quadrello’] de plazensa» di Peire Vidal, Tant an ben, 22–23) e umiltate ossia «benevolenza» (Contini), ‘benignità’, significa fin d’ora (ma cfr. già il primo Guido, «Lo vostro bel saluto e gentil sguardo Che fate quando v’encontro, m’ancide», e la sirima di Vedut’ho) che assalto e morte d’amore sono lo sbocco drammatico della stessa fonte della gioia. Cfr. del resto Cino, «Amore è uno spirito ch’ancide, Che nasce di piacere e vèn per sguardo» (dove però sguardo è quello dell’amante); e Petrarca, CCXLI 7, parlerà di una «saetta di pietate». 7. Verso riecheggiato in Dante, Oi dolci rime, 5, «Io vi scongiuro che non l’ascoltiate», e qui al v. 12. 8. che: del fatto che. – le sue vertù: le sue facoltà, i suoi «spiriti» (cfr. VII 13, IX 14, X 17, XIII 6 ecc., e XVI 12); e così al v. 11 (ossia il cuore non ha più vita). La distinzione degli «spiriti miei» da «le sue vertù» non è che una proiezione del sentimento fondamentale d’autocompassione. Si noti l’interposizione di soggetto e complemento fra ausiliare e verbo, come al v. 11 fra verbo reggente e infinito: ‘ordo artificialis’, ma con effetto totalizzante (e cfr. «tutte» del v. 11: il cuore è svuotato, nulla si sottrae alla desolazione).
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I’ veggo a luï spirito apparire alto e gentile e di tanto valore, che fa le sue vertù tutte fuggire.
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Deh, i’ vi priego che deggiate dire a l’alma trista, che parl’ in dolore, com’ ella fu e fie sempre d’Amore.
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9. I’ veggo: il verbo dell’invito alla partecipazione fatto proprio: per un’ulteriore proiezione del sentimento anzidetto. – a lui: in lui; se non fosse che il verbo richiede il complemento tipico delle apparizioni (e in ispecie delle apparizioni del divino: cfr. la Scrittura passim) facie ad faciem. La dieresi in presenza di s– complicata (Contini): come se si leggesse lu’ ispirito. – spirito: traduzione in termini assoluti, ossia di pura immaginazione (cfr. XXI 12, XXII 3, e già XVIII 8), giusta l’avocazione a sé della facoltà di vedere (e come confermano i tre attributi del v. sg.), dell’evento interpretato in termini ‘pratici’ ai vv. 5–6. Può intendersi come ‘spirito d’amore’, anche incarnato nella donna; ma la nessuna determinazione conferisce alla sublimazione anzidetta. Si noti che spirito allittera con apparire (ossia la sua essenza è l’apparizione). 10. alto e gentile ritornano accoppiati in XXXa 8; di tanto valore, con variazione analoga a quella osservata ai vv. 3–4, conferisce al tutto forza di protasi della consecutiva (come dicesse ‘così alto e gentile’; ma si noti il climax di tipo amplificatorio). Gentile vale al solito ‘nobile’, valore (e cfr. V 2) dice virtù, potenza, forza, eccellenza; tutti e tre i termini sono ‘varianti’ della suddetta sublimità. 12. Ripresa del v. 7; deggiate dire è fraseologico per ‘diciate’ (come ad es. in Guinizelli, Donna, l’amor mi sforza, 2, «ch’io vi deggia contare», e con volere in IX 29, XXVIIb 9), ma esprime (anche coll’allitterazione in d) massima istanza. 13. l’alma trista: che ha sede (ed è rimasta?) nel cuore (per l’attributo cfr. XV 13, e LIV 13). Lo spiegamento dello spazio interno (cfr. 3) nelle sue articolazioni è la manifestazione della partecipazione richiesta. – parl’ in dolore: esprime dolore (e cfr. XIII 8) o, più aderentemente al modello brunettiano cit., esprime il suo stato di dolore (cfr. ivi: «E così in letizia de’ ’l parlatore tenere la testa levata, il viso allegro...»). Ben altro che tautologico rispetto ai vv. 3–4, e confermandone l’effetto drammatico, parlare appare come l’espressione vitale (teatrale) di quel dolore. Le parole pro-
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vocate, comunque, tornano alla loro fonte: estremo termine di questa autoprovocazione. 14. com(e): che. – ella (ossia l’anima) fu ecc.: dichiarazione, al di là del generale smarrimento, di fedeltà ad Amore (per «fu e fie», ossia ‘sempre’ espresso col passato e il futuro, cfr. Guittone, Dolcezza alcuna, 4: «quella ch’amo, ameraggio ed amai» [Ciccuto]), ossia al principio stesso del proprio dolore. L’autocompassione è affermazione di coerenza e d’unità (anche, s’è visto, formalmente espressa).
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VII L’anima mia vilment’ è sbigotita de la battaglia ch’e[l]l’ave dal core: che s’ella sente pur un poco Amore. più presso a lui che non sòle, ella more,
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Sta come quella che non ha valore, 1–4. Dilata (e stempera) tra i due estremi il «Tristis anima mea usque ad mortem» di Cristo (Matt., XXVI 28, Marc., XIV 34); è viceversa compendiato in IX 56. 1. vilment(e): fino all’avvilimento (e alla fuga, v. 7; aI v. 5 dirà che «non ha valore». – sbigotita: è lo sgomento. in particolare (cfr. lX 34–35, XXI 11), della disfatta. 2. de: a causa di. – battaglia: da intendere nell’accezione (ossia nel suo effetto) di assalto e sgominamento. La sede dell’anima è il cuore, che è il luogo della disfatta, ed essa è costretta ad abbandonarlo (6). Sicché quello che soprattutto si stabilisce tra anima e cuore è un rapporto drammatico. – ch’ell’àve: subìta, fattale patire (con perifrasi attualizzante che esplicita il detto rapporto). – dal: non ad opera ma a causa del, per lo stato del (per esservi dentro); o anche: dalle parti del (Tanturli), e cfr. v .4 (e Il Fiore, LI 2). 3. s(e): basta che. –pur: solo, appena. 4. più presso a lui: ossia al cuore: come nemico incombente. La battaglia è la presenza stessa d’Amore, è lo stato amoroso (e cfr. Dante, V. N., XVI 4: «questa battaglia d’Amore») giunto al limite della tollerabilità. E cfr. XXII 1–8, dove la vicinanza (5) del «pauroso spirito d’amore» è causa (o pericolo) di morte (3 parole–rima B in comune: core, amore, more). In Dante, son. Ciò che m’incontra, 3–4, s’identificherà con la vicinanza di madonna (anche qui le solite 3 parole–rima): cfr. del resto XXII 1 e 5 e IX 6 (e relativa nota). – sole: con normale valore d’imperfetto. 5. come quella che: formula di «comparazione apparente» (Contini) ripresa, più che in VIII 9, dove il paragone per quanto immaginato è effettivo, in IX 21 (per un analogo attacco si veda anche Chiaro, Da tutti miei pensier’, 9: «Fo come quei che...», e Dante, Amor, da che convien, 38–39: «... fo come colui Che...»). Dà rilievo allo ‘stato’ di assenza di «valore»; e la serie di passati prossimi, ossia perfetti, in identica rima (1 «è sbigotita», 6 «è... partita», 7 «è fuggita», fino all’equivalente 8 «non ha vita»), ne conferma l’irreversibilità. – non ha valore: non ha forza vitale, come nella medesima frase di Dante, Donna pietosa, 26, e come
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ch’è per temenza da lo cor partita; e chi vedesse com’ell’ è fuggita diria per certo: «Questi non ha vita» .
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Per li occhi venne la battaglia in pira, che ruppe ogni valore immantenente, sì che del colpo fu strutta la mente.
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Qualunqu’ è quei che più allegrezza sente, conferma la stessa frase (in rima A) del v. 8. 6. ch(e): relativo con valore dichiarativo. – per temenza: come il «core» in V 8.– partita: cfr. VI 8 (con analoga interposizione di complementi); e l’‘interpretazione’, qui, del v. 7 (partite e fuggire ‘rimano’ anche in VI 8, 11). 7. chi vedesse: torna il motivo della ‘vista’ delle proprie pene, in funzione d’enfatizzazione della propria desolazione. – com(e): che. 8. diria per certo: direbbe certamente, non potrebbe non dire. – Questi non ha vita: l’anima avendo abbandonato il cuore. Analoga conclusione (e formulazione) degli spettatori in X 10–12; domani in Petrarca, Di pensier in pensier, 13: «... diria: Questo arde, e di suo stato è incerto», con evidente ripresa di qui dei termini estremi del verso. 9. Per li occhi: gli occhi (dell’amante) sono la via d’amore al cuore (come conferma XIII 1); per cui questo verso è l’esatto corrispettivo (e complementare) del v. 2 (complemento, verbo e «battaglia»). Giustamente Contini richiama l’attacco («Per li occhi passa...») della sirima di Lo vostro bel saluto di Guinizelli, riprodotto anche in IX 23, XXVIII 1. – in pria: come prima di V 1,indica l’inizio della disfatta. Per cui battaglia è qui piuttosto nell’accezione di assalto. 10. ruppe: in accezione militare (cfr. ‘rompere una schiera’, ‘il fronte fu rotto’, e lo stesso sost. rotta’): sbaragliò (o semplicemente ‘fiaccò’). Cfr. IX 14. – valore: cfr. 5. Qui con la sfumatura di ‘resistenza (vitale)’. Con ogni anche in XI 4, e in diversa accezione in XXXVIIb 1. – immantenente: cfr. V 5. 11. del: dal, per effetto del – strutta: distrutta, annientata; uccisa. – la mente: cfr. VI 3. Corrisponde, con l’intero verso, a L’anima del v. 1. 12. Qualunqu’è quei che: perifrasi (per ‘chiunque’; e cfr. gli attuali ‘qualsiasi’, ‘qualsivoglia’) analoga a quella del v. 5 (e soccorre ancora Chiaro, Novella gioia, 33): qui per dire: il più allegro uomo del mondo (e cfr. LI 9–11).
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se vedesse li spiriti fuggir via, di grande sua pietate piangeria.
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13. se vedesse: cfr. 7. Analoga ipotesi in Dante, Con l’altre donne, 5–6. Ciò che m’incontra, 9–11. – li spirti: gli spiriti vitali (cfr. VI 8, 11, IX 14 ecc.), non identificabili con l’«anima» di 6–7 (è attestata la var. lo spirto), bensì suo equivalente drammatico (la disfatta è generale). 14. sua: riferito alla «mente» (e quindi agli «spiriti», all’«anima» ecc.)? In tal caso pietate varrebbe ‘dolore’. Ma cfr. XI 8, e Dante, L’amaro lagrimar, 4 («facea lagrimar l’altre persone De la pietate...»).
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VIII Tu m’hai sì piena di dolor la mente, che l’anima si briga di partire, e li sospir’ che manda ‘l cor dolente mostrano agli occhi che non può soffrire.
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Amor, che lo tuo grande valor sente, dice: «E’ mi duol che ti convien morire per questa fiera donna, che nïente 1. Tu: l’apostrofe (passionata) con tu anziché con voi alla donna torna in XII, XVII, XX, XXI, nel penultimo caso con particolare forza d’appello. Gli risponde I(o) all’inizio di sirima (ma l’altra ‘persona’ della scena è Amore, all’inizio della 2ª quartina). – piena: con valore di participio forte: riempita, colma(ta). Per mente cfr., nonché VII 11, VI 3. è lo spazio entro il quale si consuma il dramma dell’anima (2) e del cuore (3). 2. si briga: si studia, s’affretta e s’adopra (de partire in Iacopone, Un arbore, 41, de fuçire nei Proverbia super natura feminarum, 584).– partire: lo stesso verbo in punta di verso in VI 8, VII 6, a esprimere l’abbandono delle facoltà vitali. 3. manda: mette, emette. – cor dolente (per cui cfr. XV I2): anagramma parziale di dolor...mente del v. 1. 4. agli occhi: alla vista (altrui). Ma cfr. XV 9, dove i sospiri «giriano agli occhi», e IX 4, dove torna «mostrando...agli occhi». Se i sospiri si fanno visibili (ma la tradizione escorialense ha dicono), potrebbero anche trasparire (in lacrime? cfr. XXXI 11) negli occhi (cfr. XXI 9, e XXXII 14). – non può: soggetto il cuore (e cfr. IX 34–35). – soffrire: usato assolutamente come in IX 34: sopportare (il dolore), reggere (all’angoscia). 5. Amor che ecc.: cfr. l’analogo IX 33. Anche da un nucleo siffatto (e cfr. 6 dice) potrebbe essere esploso (con l’innesco di «Amor che ne la mente la sentia» di Era venuta, V. N., XXXIV) l’attacco dantesco «Amor che ne la mente mi ragiona De la mia donna disïosamente». 6. ti convien morire: devi, tu debba morire. Cfr. ancora IX 42 (che sembra riferirsi, oltre che ai precedenti vv. 7–8, memori a loro volta di questi, proprio a quest’affermazione di Amore; e che nel cit. Capitolare Veronese segue a questo sonetto), XIX 10: sempre in discorso diretto. 7. per: a causa di. –fiera: è spiegato dalla relativa seguente (ma la tradizione escorialense ha bella). – nïente: con valore avverbiale: per niente.
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par che piatate di te voglia udire » .
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I’ vo come colui ch’è fuor di vita, che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto di rame o di pietra o di legno,
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che si conduca sol per maestria e porti ne lo core una ferita che sia, com’ egli è morto, aperto segno.
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8. par: è evidente. – pietate... udire: è il corrispettivo passivo di chiamare (ossia chiedere) pietà (cfr. XIX 14): ‘sentir pietà’. 9. vo: corrisponde a sta di VII 5, ma esprime tradizionalmente ‘abito’ o comportamento (cfr. Cino, Non credo che ’n madonna sia venuto, cui segue «alcun pensero di pietate...», 5: «però vo come quei ch’è ismarruto, Che domanda mercede e non sa a cui», e Guinizelli, Sì sono angostïoso, 12: «soletto come tortula voi’ gire»), e insomma quel tanto di vita (artificiosa) che lo fa parer vivo. – come colui: come uno: con lo stesso valore indefinito di omo al v. sg. (ma Favati e Marti leggono como sia, la tradizione escorialense ha ched el sia). Si notino anche le ripetute formule perifrastiche come colui che, ch’omo sia, e 14 che sia: contribuiscono tutte ad esprimere il paradosso di una vita apparente e l’impossibilità di un adeguato paragone. – è fuor di vita: ‘conversio’ di «non ha vita» di VII 8. 10. a chi lo sguarda: a guardarlo. 11. ‘Interpretazione’ della «statua d’ottono» di Guinizelli, Lo vostro bel saluto, 12 («Remagno como...»), «ove vita né spirto non ricorre Se non che la figura d’omo rende». 12. Si conduca: cfr. il fr. ‘se conduire’: si muova, o meglio: sia mosso. – maestria: artificio (del maestro che l’ha fabbricato), congegno, meccanismo. 13. porti: coordinato a si conduca, per una sorta di zeugma per cui l’automa e non colui che ne rende l’immagine porta i segni della morte. La condizione dell’automa cancella cioè ogni traccia di vita effettiva; la ferita è un «segno». In realtà dall’immagine guinizelliana si sta passando a quella della statua del martire (e cfr. XII 13–14). 14. com(e): che (come in VII 7): con prolessi rispetto a segno da cui dipende. Ovvero, coerentemente con la nuova immagine: ‘di come’, ‘del modo come’, intendendo morto come ‘ucciso’ (la ferita è il segno del martirio [Tanturli], l’amante è morto di ferita al cuore). –aperto: evidente (Contini).
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IX Io non pensava che lo cor giammai avesse di sospir’ tormento tanto, che dell’anima mia nascesse pianto mostrando per lo viso agli occhi morte. Non sentìo pace né riposo alquanto poscia ch’Amore e madonna trovai,
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1–2. L’attacco (e cfr. sentìo del v. 5) arieggia, naturalmente in forma drammatica, il ritornello della romanza della bella Iolanda pubblicata dal Bartsch (I 7, 5–6): «Dex, tant est douz li nons d’amors: Ja n’en cuidai sentir dolors» (circa la pertinenza di un simile richiamo si veda più oltre il commento a XXXª e XLVIª). 1. non pensava: non avrei pensato; ma l’imperfetto designa il tempo in cui s’è compiuta la sua morte. Il verso, in particolare per la negazione e la cadenza, riecheggia nell’incipit di XXXV (ma qui giammai si riferisce al verbo reggente, lì all’infinito tornar). 2. di sospir’ tormento: è la «battaglia di sospiri» di Guinizelli, Vedut’ho, 10, l’«angoscia di sospiri» di Dante, Voi che ’ntendendo, 26, la «battaglia di dolor’» di XVI 8. L’‘ordo artificialis’ esalta l’ampia consonanza tormento–tanto, e istituisce un parallelismo (di sospir’ – dell’anima) col v. 3. Ritengo insomma che tanto abbia valore indefinito assoluto, e che la proposizione seguente non sia consecutiva, ma di pari grado di quella dei vv. 1–2. 3. dell’: dall’. Cfr. XIX 18. 4. mostrando: gerundio con valore di participio presente, riferito a pianto, con cui vivamente assuona. – per lo viso: attraverso i miei occhi (lat. ‘visus’). Ma cfr. XXXII 14.– agli occhi: alla vista altrui. Complemento di mostrare anche in VIII 4. La serie di complementi distacca in fin di verso morte dal verbo reggente (e in parte consonante con essa). 5. sentìo: sentii. –alquanto: «(neppure) un poco» (Contini). Cfr. XIII 8. 6. poscia ch(e): da quando. – Amore e madonna: Amore con madonna. Sceneggia, ossia drammatizza in forma d’incontro (trovai vale ‘vidi’; e cfr. v. 11), al modo che poi Dante in Io mi senti’ svegliar, il potere di lei di suscitare (ossia di dar vita a; per dirla ancora con Guido, XXXª 42, di «fare apparire»: e cfr. 13–14) Amore (cfr. Dante, V. N., XXIV 1–2, e qui 33–35, XXII 1–2), con conseguente facoltà di Amore di parlare come fosse persona (V. N., XXV 1, 8).
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lo qual mi disse: - Tu non camperai, ché troppo è lo valor di costei forte - . La mia virtù si partìo sconsolata poi che lassò lo core a la battaglia ove madonna è stata: la qual degli occhi suoi venne a ferire in tal guisa, ch’Amore ruppe tutti miei spiriti a fuggire. Di questa donna non si può contare:
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7–8. Per simili annunci cfr. V 13–14 e soprattutto VIII 6–8, anzi 5–8, dov’è in didascalie quello che qui è pronuncia di Amore. 7. camperai: scamperai, sopravviverai. 8. troppo: va con forte, che vale piuttosto ‘grande’ (e cfr. VIII 5). Eco di questo verso nel verso finale del cit. son. Io sento pianger («ditratta del piacer di costei forte»). 9. virtù: forza vitale, vita, con ‘reductio ad unum’ delle «virtù» di VI 8 e 11 (ma cfr. 14). I vv. 9 sgg. sono la verifica della ‘promessa’ di Amore. – si partìo sconsolata; un’eco certa, in grazia della comune connotazione (nonché del richiamo alla rima precedente), nell’attacco della 3ª str. della canz. dantesca E’ m’incresce di me, 29–31: «Innamorata se ne va piangendo Fora di questa vita La sconsolata...» (e cfr. 28: «e partir la convene innamorata»). 10. poi che: non esprime tanta successione temporale, ma effetto (al modo del cum narrativo latino, o del nostro gerundio): ‘avendo lasciato, abbandonato’ (e cfr. X 17, e 15–16), per non saper reggere al a terribile prova. 11. a la battaglia: solo a combattere la battaglia. Cfr. VII 1–2. – è stata: è intervenuta, ha preso parte (come è detto ai vv. sgg.); con esito scontato. Un’eco di questo verso nell’attacco ciniano «A la battaglia ove madonna abbatte Di mia vertù quanta ne trova intorno...». 12. de: con, come si dice ancora ‘di spada’, ‘di lancia’. – venne a: fraseologico (ma sottolinea l’intervento, e personalizza il verbo neutro; e cfr. v. 16). 13. Amore: cfr. quanto osservato al v. 6. Qui il rapporto drammatico è di successive entrate in iscena (per dire che gli occhi, innamorandolo, lo misero fuori combattimento). 14. ruppe: cfr. VII 10: ruppe... a fuggire vale ‘mise in rotta e in fuga’. E cfr. VII 13. Normale, tanto più dopo tutti (ma si può anche leggere tutt’i), l’ellissi dell’articolo avanti il possessivo. 15. contare: dire (ossia descriverla: cfr. 29–30) adeguatamente: cfr. I 30 (e 29 per l’analogo nesso col v. 16) e, costruito attivamente, IV 6, 9.
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ché di tante bellezze adorna vène, che mente di qua giù no la sostene sì che la veggia lo ‘ntelletto nostro. Tant’ è gentil che, quand’ eo penso bene, l’anima sento per lo cor tremare, sì come quella che non pò durare davanti al gran valor ch’è i · llei dimostro.
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16. di tante bellezze adorna: tanto bella. La perifrasi (per dire ‘colma di...’; e d’altronde «bellezze» e «adornezze» vanno di conserva, per es. in Giacomino Pugliese, Donna, per vostro amore, 43–44, Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 25–27 [Caridi]) sopravvive in Dante, 3ª canz. del Convivio, 127 («e sua persona adorna di bieltate»). – vène: ‘è’. Ma mantiene vivo il senso dell’evento (e cfr. 12 e 35) che è nell’attacco di IV. Dante dirà «pare» (‘appare’). 17. mente di qua giù: mente d’uomo, in quanto soggetto di «conoscenza» (18): come in IV 12–14; e cfr. XXVI 8–9. – no la sostene: non regge al suo cospetto (cfr. 21–22), alla prova di comprenderla (cfr. 18), non ne è capace. 18. la veggia lo ’ntelletto nostro: con distinzione analitica della facoltà intellettiva dalla sede dell’intellezione e distribuzione della negazione su più vasta area (nostro, che corrisponde a «qua giù» del v. precedente, è già in IV 12; per intelletto cfr. XXV 10, XXVI 6, dov’è in relazione con 8 mente. 19. gentil: nobile, eletta. Con tanto (e affini) ripetutamente qui (XXV 6, 12, XXXI 21), e di qui nella lode dantesca (Tanto gentile, 1, Vede perfettamente, 12, Ne li occhi porta, 14, Amor che ne la mente, 20), e già in Guinizelli, Io vogli? del ver, 9. – quand’eo penso bene: quando considero (ossia cerco di considerare) a pieno la sua «gentilezza» (eo per ‘io’ è meridionalismo). La frase è uno stereotipo (cfr. ad es. Guittone, O tu, de nome Amor, 83, e Dante, La dispietata mente, 21). 20. per: «entro» (Contini), in (il cuore, cfr. VII 2, essendo la sua sede). – tremare: tipica reazione dell’anima (e affini, in un verso affine, XXXI 5), qui di fronte al «valore» soverchiante di lei (e cfr. XXXI 22–23), esteriorizzata e ‘umanizzata’ (in relazione a «Tanto gentile») nel sonetto che così comincia di Dante («onne lingua deven tremando muta»), che parla spesso di «tremuoto» del cuore. 21. sì come quella che: in quanto, poiché (cfr. VII 5). – durare: reggere, resistere (cfr. 17). 22. ’l gran valor: cfr. VIII 5 (e qui 8, dove valore occupa l’identica posizione [Caridi]). Dice la potenza di questa bellezza, e motiva durare. – ch’è i·llei dimostro: altra perifrasi attualizzante e ‘di-
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Per gli occhi fere la sua claritate, s’ che quale mi vede dice: «Non guardi tu questa pietate ch’è posta invece di persona morta per dimandar merzede?» E non si n’è madonna ancor accorta!
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mostrativa’, per ‘ch’è in lei’ (dimostro è part. pass. forte per ‘dimostrato’ – cfr. VIII 1 – ossia manifesto, spiegato), a sua volta per il semplice possessivo. Corrisponde sia al veggia ecc. di 18, sia al vène di 16. 23. Per gli occhi fere: è l’attacco di XXVIII 1 (e limitatamente al complemento, della sirima di VII). Gli occhi sono quelli di lui, via alle saette (fere) d’Amore. – claritate: Dante, Petrarca avrebbero detto luce, lume. Cfr. IV 2. 24. quale: chi (chiunque). 25. Non guardi tu: non credo si tratti d’improvviso coinvolgimento della donna (per la quale è qui ammesso il «tu»: cfr. VIII 1 ecc), il che attenuerebbe, logicizzando il rapporto, il suo non accorgersi di lui, quanto del «Nonne vides» dei latini (e di Geremia VII 17; e cfr. qui XXI 1), con formalizzazione dell’evidenza, rivolto a «indefinita persona» (e cfr. il sonetto cit. qui sotto al v. 28). è un’ennesima variante dell’appello (appunto da Geremia) di cui a XIII 1–3 ecc. Cfr. del resto XXXª 19–20. – pietate: figura di pietà (Marti), pietà fatta figura, a cui (cfr. «questa») si riduce (che si sostituisce a: cfr. v. sg.) la propria identità («persona») annichilata dalla morte. La morte in cui egli è trasformato (e cfr. XXXII 14, XXXIII 8, XXXIV 31) diventa un’immagine (e una richiesta: cfr. 27) di pietà. Nella stanza di congedo sono gli «spiriti» paurosi che «sono in figura D’un (irriconoscibile) che si more sbigottitamente»; in XXII 7–8 è «l’anima trista» che compie la funzione. 26. persona morta: «nova persona» formata «di morte», potremmo interpretare con XXXII 17. L’espressione è tuttavia corrente: cfr. Storie pistoresi, 2 (d’un cavaliere colpito): «li percosse... sì gran colpo, che tutto il fece isbigottire, e stette per grande spazio chinato nel collo del cavallo, per modo che non si sentia se non come persona morta». 27. merzede (forma normalmente alternante con mercede): grazia, pietà. 28. E: avversativo. Di contro alla generale commozione. Cfr. VIII 8, e il sonetto (disputato tra Dante e Cino, e evidentemente sotto ampia suggestione cavalcantiana) «Non v’accorgete voi d’un che si smore E va piangendo [cfr. X 1], sì si disconforta? I’ prego voi [cfr. XIX 1], se non vi sete accorta, Che lo miriate per lo vostro onore. E’ si va sbigottito, in un colore Che ’l fa parere una
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Quando ‘l pensier mi vèn ch’i’ voglia dire a gentil core de la sua vertute, i’ trovo me di sì poca salute, ch’i’ non ardisco di star nel pensero. Amor, c’ha le bellezze sue vedute, mi sbigottisce sì, che sofferire non può lo cor sentendola venire, ché sospirando dice: «Io ti dispero,
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persona morta...». 29. Perifrasi, con distinzione di «pensiero» o intenzione e atto di «volontà» o proposito. Dante ne farà norma dei suoi ‘propositi’ poetici (cfr. ad es. V. N., III 9, «Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti»; oppure XV 3, «Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire certe parole»; e così XX 2, XXII 7, XXIV 6, XXVI 4, 9, XXVIIb 1–2, XXXI 1 ecc). Per la clausola cfr. XXVIIb 1 (attestato anche «perch’eo voglia dire»). 30. a gentil core: si può commentare «non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine» con Dante, V. N., XIX 1, che interpreterà poeticamente (ivi, 2) «gentili» come «che hanno intelletto d’amore». – vertute: equivale a «valore» di 22. Il singolare indica, come lì, l’inintelligibilità e indiscernibilità dei pregi di lei. 31. salute: perfezione (come in IV 13). 32. ardisco: probabilmente nell’accezione (tipica di osare) di ‘posso’. – star: nemmeno «persistere» (Contini), soffermarmi. – nel pensero: nella sola idea. Richiama specularmente pensier di 29. 33. Amor: nuova proiezione drammatica (cfr. 7–8, e qui sùbito appresso cor, come 17 mente, 20 anima) dello stupore (cfr. 16) di fronte alle bellezze di lei (per dire: io che l’ho vista – e cfr. 41 – e me ne sono innamorato, ne resto sbigottito ecc.), per una considerazione analoga a quella di VIII 5–8 (e cfr. in particolare il v. 5; ma un’eco precisa rimbalza in XLIVb 6). Con gli occhi di Amore è possibile insomma una percezione della bellezza, ma con conseguenze che son sùbito dette, e con la consapevolezza dell’impotenza dell’amore stesso. – ha... vedute: il tempo passato (e cfr. 41 e 44) dice che si tratta d’un’esperienza che ha segnato tutto il suo essere. 34. sofferire: esprime lo stesso concetto di 17 sostene, 21 durare (soggetto qui «lo cor» del v. 35). E cfr. VIII 4, XXXV 22. 35. venire: avvicinarsi. Anche questo verbo fa parte della dimensione drammatica in cui si sviluppa la vicenda. 36. dice: soggetto Amore. Con «sospirando» anche in XXXV 31.– io ti dispero: non vedo speranza per te; non hai speranza (te
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però che trasse del su’ dolce riso una saetta aguta, c’ha passato ‘l tuo core e ‘l mio diviso, Tu sai, quando venisti, ch’io ti dissi, poi che l’avéi veduta, per forza convenia che tu morissi» .
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Canzon, tu sai che de’ libri d’Amore io t’asemplai quando madonna vidi: lo dico io); e cfr. V 14, e (con mi) XXXIII 2. Dante, Così nel mio parlar, 40, ha «sfida», che Contini traduce «fa disperare». 37. però che: poiché. – trasse: più che nel senso di ‘derivò’ (cfr. XXXII 1 e XXI 9–10) o ‘estrasse’ (cfr. Dante, Così nel mio parlar 7, «non esce di faretra»), e magari ‘foggiò’, in quello di ‘scagliò’ (cfr. XXXª 24, Lb 8), o anche (verbo neutro) ‘si mosse’, ‘partì’ (Caridi). – riso: sorgente (e promessa) di «morte» anche in XIX 8–10. Se fosse «corruscazione» (Dante, Conv., III VIII 11) degli occhi, la «saetta» del v. sg. sarebbe normale. 38. aguta. acuta (con normale lenizione intervocalica: cfr. ‘ago’), appuntita. 39. e ’l mio diviso: e (ha) diviso, aperto, piagato (cfr. XXIII 4 e, per es., Alberto da Massa, Donna, meo core, 1–2, «meo core in parte Vostr’amore ha diviso» – ma tutti i vv. 38–39 ricalcano i 4–6 di Uno piasente isguardo di Pier delle Vigne: «ed è stato [lo sguardo] un dardo Pungent’e sì forte acuto Che mi passao lo core e m’ha ’ntamato» [Caridi]) anche il mio. La proiezione anzidetta si traduce in intera partecipazione d’Amore (e cfr. XXXI 24), con significativa distribuzione di un’abusata coppia sinonimica (cfr. ad es. Guinizelli, Lo vostro bel saluto, 6 «taglia e divide», 11 «spezza e fende») tra l’abituale ferito e l’abituale feritore. 40. quando venisti: quando venisti alla prova (alla «battaglia»: cfr. 6). – io ti dissi: regge (con ellissi della congiunz. che dopo l’inciso) convenia del v. 42. Allusione, più che ai vv. 7–8, a VIII 6–8 (Contini). 42. per forza: rafforza il senso di convenia, per cui cfr. VIII 6 (e XIX 10). 43. tu sai: fa eco alle ultime parole di Amore (40). 43–44. de’ libri d’Amore Io t’asemplai: la metafora è quella del ‘copiare’ («asemplare»: cfr. V. N., I 1) da un originale o «assempro»; col che continua il processo di oggettivazione del proprio sentimento. La canzone dunque è (e può essere: cfr. 45) fedele interprete di questo, ossia del dettato d’Amore, qui ampiamente
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ora ti piaccia ch’io di te me fidi e vadi ‘n guis’ a lei, ch’ella t’ascolti; e prego umilemente a lei tu guidi li spiriti fuggiti del mio core, che per soverchio de lo su’ valore eran distrutti, se non fosser vòlti, e vanno soli, senza compagnia,
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rappresentato, con un qualche anticipo (ma circoscritto al caso specifico) della famosa definizione di poetica del XXIV del Purgatorio, ma con suggestione forse di ciò che è scritto «nel libro della legge di Dio» (II Esdr., VIII 18) e nel «libro della profezia» dell’Apocalisse (Amore ha difatti profetato la sua morte); per cui non è il caso di pensare al libro di Gualtierio o ad Ovidio. Viceversa il «libro d’Amore» di Lapo Gianni, Dolc’è il pensier, 25, è il registro dei suoi devoti, qui con preciso richiamo biblico (in particolare a Ps., LXVIII 29, «Deleantur de libro viventium et cum iustis non scribantur»). 45. ti piaccia: permetti, accetta, lascia. 46. vadi: (che) tu vada (con terminazione caratteristica della lingua amica). Dipende ancora da ti piaccia ed è coordinato con ti fidi: in conseguenza di tale fiducia. – in guis(a): introduce la consecutiva ch’ella ecc., ed è leggermente fraseologico (e cfr. XXIX 6, XXXI 16, XXXIII 6), dato che la «guisa» d’essere ascoltata è probabilmente il fatto d’essere (43–44) una canzone d’amore, nonché d’essere la vivente rappresentazione del suo stato (47 sgg.). 47. umilemente: determinazione quasi d’obbligo di pregare (cfr. Dante, Donna pietosa, 24, Così nel mio parlar, 38). Ma potrebbe anche riferirsi all’atteggiamento dei «guidati» (Tanturli; e cfr. Dante, Parole mie, 13: «gittatelevi a’ piedi umilemente»). Non obbligatoria la particella ti (ti prego) in presenza del seguente tu. 48. Cfr. 14. «Li spiriti» qui come «l’anima» in XXXV 24–26, 29–30: con svolgimento della fuga di quelli in pellegrinaggio a madonna (Caridi). 49. Cfr. 8. Soverchio vale «eccesso» (Contini). 50. eran: sarebbero stati. – distrutti: uccisi, morti, annientati (cfr. Dante, V. N., XIV 5: «Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitate [cfr. 6!] a la gentilissima...» [Caridi]). – vòlti: «volti in fuga» (Marti), fuggiti. 51. soli, senza compagnia: puntualmente riecheggiato in Inf., XXIII 1 (e la «paura», che domina questo inizio di canto, è al v. 12).
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e son pien’ di paura. Però li mena per fidata via e poi le di’, quando le se’ presente: «Questi sono in figura d’un che si more sbigottitamente» .
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53. Però: in conseguenza della, data la loro «paura». – li mena: l’imperativo, qui come al v. sg., con particella anteposta. – per fidata via: per una via sicura (Dante, Donne ch’avete, in un verso analogo, 68: «... ti merranno là per via tostana»). 54. Cfr. XXXV 31–32. Se’ vale ‘sarai’ (cfr. XXXI 25); (le...) presente, ‘in (sua) presenza’. 55. Questi: cfr. ancora XXXV 33. 55–56. sono in figura Di: raffigurano (cfr. XXXª 22). Ossia sono l’unica immagine percepibile di (cfr. 25–26); o più semplicemente: vedete (in loro) un’immagine di. 56. d’un che si more: cfr. ancora l’attacco (più i vv. 5–6) del son. Non v’accorgete voi d’un che si smore cit. al v. 28. – sbigottitamente: ripresa di sbigottisce del v. 34, con clausola esasillaba non insolita in Cavalcanti (cfr. XVIII 3, XXXI 27).
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X Vedete ch’i’ son un che vo piangendo e dimostrando - il giudicio d’Amore, e già non trovo sì pietoso core che, me guardando, - una volta sospiri.
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Novella doglia m’è nel cor venuta, 1. Vedete ecc. (dove vo seguito da gerundio è fraseologico con valore continuativo): dietro e di là dalla particolare fortuna dantesca di questa frase (Inf., VIII 36 «Vedi che son un che piango», e lasciamo stare «I’ mi son un che quando...» di Purg., XXIV 52), c’è l’eco di un attacco che appunto Dante giovane ha fatto suo: l’«O vos qui transitis per viam [un riflesso in «vo piangendo»?], attendite et videte si est dolor sicut dolor meus» di Lam. I 12, non occasionale in Cavalcanti, stante XIII 1–3 (e XIX 1–3), e comunque non senza una forte incidenza nella proposizione del tema, se i vv. 3–4 richiamano Lam., I 2, «Plorans ploravit in nocte et lachrimae eius in maxillis eius: non est qui consoletur eam [cfr. XV 8] ex omnibus charis suis; omnes amici eius spreverunt eam [cfr. XV 14] et facti sunt ei inimici» (l’ultima battuta richiamabile per il finale). 2. dimostrando: dando evidente dimostrazione (spettacolo) di. Per la ripresa (ad eco) del gerundio del v. 1, per giunta retto da «vo», cfr. Il Fiore, XCIII 1–2: «Io sì vo per lo mondo predicando E dimostrando di far vita onesta». – il giudicio d’Amore: ossia gli effetti della condanna subìta nel giudizio d’Amore, la pena, i segni della pena: su cui, ossia sul come è stata irrogata, ci illumina V. 3. e: e nonostante. – già: rafforza la negazione. – sì pietoso: per quanto pietoso. – core: metonimia per ‘persona’ (cfr. XV 8!), con riferimento alla collocazione della pietà. E per tutto il verso cfr. XXXIV 15. 4. me guardando: garantisce l’attenzione (cfr. 9–12), non la compassione. Nel «fero loco» ove si patisce la pena d’amore la pietà non ha luogo (è, con Dante futuro, «ben morta»), tant’è palese che sta scontando una pena meritata (cfr. ancora XV 14). – una: anche solo una. 5. Novella: inaudita. Cfr., in analoga collocazione, XXV 4.– nel cor venuta: con consueta prolessi del complemento. Da questo momento, ossia dalla prima enunciazione, il cuore è la sede del dramma che si sta consumando; venuta, elemento di una perifrasi assai diffusa, indica sin da qui l’aggressione dolorosa subita dal
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la qual mi fa doler e pianger forte; e spesse volte avèn che mi saluta tanto di presso l’angosciosa Morte, che fa ‘n quel punto le persone accorte, che dicono infra lor: «Quest’ ha dolore, e già, secondo che ne par de fòre, dovrebbe dentro aver novi martiri» .
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Questa pesanza ch’è nel cor discesa cuore. 6. doler: ‘dolermi’ (ma precede mi). «Dolore» in coppia con «pianto» anche in XXXV 16. –forte: molto (cfr. III 4). 7. avèn che: connota «spesse volte», sottolineando il carattere d’evento ripetuto. L’emistichio che così comincia è perfettamente parallelo al secondo del v. 5. – mi saluta: rappresenta l’avvicinarsi della Morte come incontro faccia a faccia; come dicesse: mi trovo di fronte la Morte che si rivolge a me, si presenta a me, mi chiama (e quasi mi designa per nome). Per un’analoga immagine drammatica cfr. XXXII 24. 8. di presso: da vicino. Altro elemento tipico dell’esperienza viva e diretta: cfr. VII 3–4, XXII 5. 9. ’n quel punto: cfr. 7–8. La presenza della Morte dà a divedere lo stato interno (1012). Questo «accorgersi» è drammaticamente sfruttato da Dante nella Vita Nuova, XIV 7: «... molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima». 10. infra lor: l’una con l’altra, come in Dante. Donna pietosa, 24, tradotto in prosa (V.N., XXIII 14) «(cominciaro a...) dire tra loro». Nella tradizione in rima vale piuttosto (al singolare) ‘fra sé e sé’ (cfr. Schiatta Pallavillani, D’un convenente, 6, «Dico infra me», Cecco Angiolieri, Per sì gran somma, 12, «E dico fra me stesso»). – Quest’ha dolore: costui (Quest(i) soffre: ‘realizzazione’ dell’asserzione del v. 5. E cfr. 12 (e VII 8). 11. e già: come al v. 3: qui con valore asseverativo. – ne: di ciò che avviene «dentro». – par: appare, si vede. – de fòre: correlativo di 12 dentro. 12. dovrebbe: il condizionale in relazione a 11 «secondo che» (‘a giudicare da’). –novi martìri: ‘realizzazione’ più penetrante della qualità della «doglia» del v. 5, con perfetto richiamo da estremo a estremo di strofa, nonché specificazione del generico «Quest’ha dolore» del v. 10. 13. La ‘conversio’ della frase del v. 5 (pesanza, provenzalismo
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ha certi spirite’ già consumati, i quali eran venuti per difesa del cor dolente che gli avea chiamati. Questi lasciaro gli occhi abbandonati quando passò nella mente un romore il qual dicea: «Dentro, Biltà, ch’e’ more;
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lessicale e morfologico, = «doglia») in specificazione relativa è conseguente all’avvenuto riconoscimento (e cfr. nota al v. sg.), presuppone la conclusione della 1ª strofa, la quale è di fatto prolettica rispetto alla 2ª (Questa rinvia a 5 e 10). – discesa: penetrata profondamente. 14. certi: quali, dirà ai vv. 15–16. – spirite’: con diminutivo tipico di Guido (cfr. XXVIII 4, 7, 8, 11, 12, XXXª 15, XXXIII 14). – già: ormai. – consumati: distrutti, annientati. Quello che traspare dal volto è il momento estremo, quando la Morte è addosso, e gli spiriti sono «consumati». I vv. sgg. spiegano come questo è avvenuto (cfr. nota al v. preced.). Si tratta di una disfatta sul campo di cui si ripercorrono le fasi. 15. venuti ecc.: nel cuore, in sua difesa. A differenza della tipica dispersione degli spiriti, questi hanno obbedito, con loro sacrificio, alla richiesta di soccorso. La terminologia è quella della città assediata. 16. cor dolente: ossia penetrato di dolore (13 – e cfr. VIII 3). L’intero verso riecheggiato da Dante, Oltre la spera, 11, «al cor dolente che lo fa parlare». – che gli avea chiamati: emistichio corrispondente al secondo di 13. 17. La conseguenza dell’accorrere alla difesa del cuore è lasciare sguarnita la porta d’accesso esterna, dove si poteva fare la prima difesa (ancora Petrarca, Per fare una leggiadra sua vendetta, 5–6: «Era la mia virtute al cor ristretta Per far ivi e negli occhi sue difese», e Era il giomo, 9–10: «Trovommi Amor del tutto disarmato Et aperta la via per gli occhi al core»). Nella Vita Nuova, XIV 5, Dante più sottilmente immaginerà quest’abbandono come cacciata da parte d’Amore, che si sostituisce agli «spiriti del viso» per guardare madonna. 18. quando: da intendere probabilmente come ‘cum inversum’ (cfr. XXX 1–2): quand’ecco; in subordine: in conseguenza del fatto che. – passò nella: penetrò, giunse nella; o attraversò la. – mente: cfr. VI 3 – romore: da intendere in accezione guerresca di tumulto, grida sediziose o d’assalto. Non sono gli assediati, ma gli assalitori della piazza (Tanturli). 19. il qual dicea: la stessa formula di XII 12. – Dentro: secondo la lettura di FavatiContini, avverbio con funzione esortativa: ‘entra dentro!’ (la lezione corrente fino a Di Benedetto ’39 era Dentro
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ma guarda che Pietà non vi si miri!».
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biltà che more, intesa come dichiarazione che nel cuore la beltà svaniva, per effetto del dolore; interpretazione valida anche per la lezione congetturale Di Benedetto ’25 Dentro, ché biltà more, ma con rimaneggiamento anche del v. sg.). La formula perentoria ed ellittica, eccezionale, è plausibile se pronunciata come invito non a soccorrere il morente, ma, da parte degli aggressori vittoriosi alla Beltà ‘nemica’, a prender possesso della piazza ormai sguarnita, dunque in accezione guerresca e militaresca. In forma non intimativa, ma come evento, la stessa situazione è esposta in XVII 12–14. – Biltà: vocativo, è «la nimica Figura che rimane Vittoriosa e fera» di Dante, Amor, da che convien, 31–32: la Bellezza come fonte di morte, aggressiva e temibile (Tanturli). – ch’e’ more: infatti egli sta morendo, non fa più difesa. 20. Pietà: lezione del solo Martelliana, contro l’errore comune degli altri codici Bieltà, ripetizione di 19. La lezione corretta fu instaurata dal Rivalta. – non vi si miri: non vi si faccia vedere (dentro), non vi compaia, e insomma non vi «discenda» (13). La vittoria è assicurata purché dagli occhi sguarniti non passi (non sia cioè visibile) Pietà, che «sola» può difendere «nostra parte» (Dante, Donne ch’avete, 22). Col che si mette in guardia la Beltà dal pericolo di uno sguardo pietoso (cfr. 3–4). Il verso riecheggia in XVIII 14, ma senza interferenza di significato (e cfr. anche XXXII 13 «guardi ciascuno e miri»).
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XI Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti e senta di piacere ardente foco e di virtù mi traggi’ a sì vil loco, 1. Poi che ecc.: inizio con causale con illustri precedenti, da Pos de chantar m’es pres talenz di Guglielmo IX (Caridi) a Poi no mi val merzé né ben servire del Notaro a Poi male tutto è nulla inver peccato di Guittone cit. da Tanturli anche come motivazione del proposito di «dire» (e per cui cfr. XLVII), e si aggiunga per analogo contesto Poi contra voglia dir pena convene di Panuccio del Bagno (la lezione proposta dalla Ageno Poi c’ontra voglia, dir ecc. non fa del resto che rilevare il rapporto causale–necessità di dire; e cfr. del medesimo Poi che mia voglia varca, con apodosi introdotta da convene), e con altrettanto illustri riscontri, pure rilevati da Tanturli, in Dante (Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato e Amor, da che convien pur ch’io mi doglia», sempre in funzione di dichiarazione di proposito, e successive analoghe risonanze (Dino Frescobaldi, Poscia che dir convienmi ciò ch’io sento, Cino stesso, Poi che saziar non posso gli occhi miei, e fin Petrarca, Poi che per mio destino). Ma si confronti anche l’attacco di XXXII. – di doglia cor: cor di doglia, ossia cor doglioso, ossia dolore (cordoglio), con tipica localizzazione perifrastica (sul modello di IV 7, e cfr. per occhi XVI 10, XXV 20; ma anche Eccli., XXXVII 17 «cor boni consilii statue tecum») dell’‘affectus’ (con suprema applicazione in XXXII 27), inclusa in un’ulteriore perifrasi affettiva (per cui cfr. VIII 13, o meglio XXXVI 2). E si confronti Dante, Se Lippo amico, 17, «priego ’l cor gentil che ’n te riposa», nonché XIX 17 che praticamente ritraduce il presente verso (anche per il valore di conven). 2. senta: equivalente a porti del v. 1, a cui corrisponde chiasticamente. – di piacere: più che specificativo (‘d’amore’) di foco, o addirittura causale (cfr. XXVI 4), ha valore di paradossale derivazione (‘in cambio di’, ‘per tutto piacere’: sul modello di XXXII 1–3, e cfr. qui il v. sg.). E si noti ancora, come al v. precedente e al seguente, la prolessi del complemento con di. 3. virtù: «sinonimo di valore 4» (Contini), o piuttosto condizione di «valore»: in accezione insolita in Guido, indicante il proprio ‘best’ (l’accezione prossima è quella di XXXII 9), ma per designare a confronto «vil loco» (‘avvilimento’, per cui cfr. XLI 2, 9 – virtù equivale in qualche modo a ‘gentilezza’ – e per loco XXXIV 18). – traggi(a): dunque congiuntivo, coordinato a porti e senta e dipendente da conven (mi traggia vale mi abbassi, scenda).
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dirò com’ho perduto ogni valore. E dico che’ miei spiriti son morti, e ‘l cor che tanto ha guerra e vita pocco; e se non fosse che ‘l morir m’è gioco, fare’ne di pietà pianger Amore.
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4. dirò: tipica introduzione della ‘propositio’. Cfr. soprattutto Donne ch’avete, 2, «i’ vo’ con voi de la mia donna dire», anche per la ripresa ad inizio del 2° piede («Io dico che...»), – com’ ho perduto ogni valore: ossia come tutto questo è avvenuto; ma giusta l’interpretazione sopra accennata, varrà piuttosto: dirò che non ho più facoltà di dire, che non posso più dire. Valore spesso con ogni (VII 10, XXXII 30, XXXVIIb 1). 5. E dico: un ramo della tradizione Io dico, certo per suggestione di Donne ch’avete, 5. Qui a enfatizzare questo «dire» che è la fine d’ogni dicibilità. Ma per un diverso «dire», e in sostituzione dell’ineffabile, cfr. Il Fiore, XXI 1–4: «Del molto olor ch’al cor m’entrò basciando Quel prezïoso fior, che tanto aulia, Contar né dir per me non si poria; Ma dirò come ’l mar s’andò turbando» (e 9 «E sì vi conterò...»). – spiriti: facoltà vitali (cfr. VI 1 ecc.): specifica (e drammatizza) la perdita d’«ogni valore». 6. e ’l cor che ecc.: e che il cor ecc. Cfr. XXV 24.– tanto: avverbio indefinito (per il corrispondente aggettivo); se non ha il suo correlativo in e (tanta guerra, affanno, quanto poca vita). 7–8. Cfr., per la formulazione, e l’analoga conseguenza, XXIII 5–7. Così, ancora, Donne ch’avete, 7–8, «che s’io allora non perdessi ardire Farei parlando innamorar la gente», dov’è un’analoga (ma diversamente ‘exploitée’) condizione d’indicibilità. 7. m’è gioco: m’è gioia (cfr. XXVIIb 55, XXX 4, 22, XXXVIIb 2, XXXVIIIb 11), m’è grato (cfr. Dante, Ciò che m’incontra, 4, «Fuggi, se ’l perir t’è noia»,e Cino, La dolce vista, 42, «gioioso è lo morire», 49, «dàmi di morte gioia»). Non solo l’attesa della morte attenua la facoltà di commozione, ma la morte, vivamente attesa, impedirà addirittura che si conosca il suo stato. 8. Per la partecipazione di Amore cfr. XII 9–10, XXIII 7, XXV 3. Ripete l’iperbole (in relazione a una positiva capacità espressiva) di Rustico «ca di pietà ne piangerebbe Amore», in un sonetto (v. 8) che comincia «Tant’è lo core meo pien di dolore E tant’è forte la doglia ch’io sento» e prosegue «ca se de la mia pena mi lamento La lingua il dice sì che par dolzore» (che par quasi adombrare la riserva, qui, del v. 7); e cfr. anche Monte Andrea, Sed io potesse adimostrarlo fore («e co la lingua dirlo apertamente»!), 5, «eo saccio che pietà n’avrebe Amore». Gli sarà rinfacciata da Guido Orlandi, qui Lc 9–10, in un’ennesima disputa sulla natura d’Amore.
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Ma, per lo folle tempo che m’ha giunto, mi cangio di mia ferma oppinïone in altrui condizione, s’ ch’io non mostro quant’io sento affanno: là ‘nd’eo ricevo inganno, chè dentro da lo cor mi pass’ Amanza, che se ne prota tutta mia possanza.
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9. Ma: la stessa funzione avversativa (rispetto all’intenzione prima enunciata e alle riserve che seguono) dell’attacco della sirima della 1ª strofa di Donne ch’avete («E io non vo’ parlar sì altamente...»). Annulla l’ipotesi del v. 8; e potrebbe tradursi ‘il fatto è che...’. – lo folle tempo: la follia, ossia la «possessione», l’«invasamento» (Tanturli) amoroso (tanto che, 10–11, non è più lui). Per la perifrasi cfr., oltre che Inf., V 64–65 cit. da Contini, ancora Dante, Amor, tu vedi ben, 55, «che se mi giunge lo tuo forte tempo», che è la stagione dell’amore (tempo qui, piuttosto che «vita», con Ciccuto, è appunto in relazione a giunto, al mutamento). – giunto: còlto, preso (cfr. lnf., XXII 126, «Tu se’ giunto!»). 10. mia ferma oppinïone: con Tanturti, «salda coscienza» (‘quid sentiam’) di me, del mio stato. Tanturli cita (anche per il v. sg.) la canz. Poi tanta caunoscenza, 18–2 2: «In Amor dat’ho tutto mio pensare E ’n sua subiezïone, Ch’io sono inamorato Ed alterato di mia opinïone, Ch’io vo al morire e paremi ben fare». E per l’attributo «ferma» cfr. Neri Visdomini, Oi forte inamoranza, 51, «la mia ferma intendanza» (ossia amore). 11. in altrui condizione: in altro da me (non sono cioè più io). Altrui modifica strettamente condizione, ossia equivale ad ‘altra’ (cfr. Dante, Con l’altre donne, 12, «mi cangio in figura d’altrui»). Si tratta insomma di piena alienazione (restando inteso che altrui può bene essere Amore, nel quale l’amante tutto si trasmuta. 12. non mostro: da intendere dunque ‘non riesco a descrivere’ (cfr. la canz. di Guittone cit., 11, 21, 61, 63). Mostro risponde cioè a 4 dirò, 5 dico. – quant’io sento affanno: quanto affanno io sento: con prolessi inversa a quella di XXV 24. 13. là ’nd(e): laonde, per cui. – inganno: per il proposito di dire vanificato, e per la propria alienazione ma ‘danno’ in Inf., XX 96, Par., IX 2–3 sempre retto da «ricevere» [Contini]: per contro riceve inganno : danno nel Favolello, 39–40, e così nella canz. S’eo son distretto inamoratamente, 12:22, del medesimo Brunetto). 14. ché: col solito ‘passo indietro’, dà la ragione prima di tutto ciò (ormai non c’è più nulla da dire): è Amore che lo priva d’ogni facoltà. – dentro da: normale la costruzione con da. – passa: penetra (cfr. X 18, XIII 1). – Amanza: Amore (provenzalismo). 15. se ne porta : porta via con sé (cfr. XXXVI 14), ossia annul-
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la. Ma si noti la ripresa in fine del componimento del verbo dell’inizio (così «raccomandare» all’inizio, v. 2, e alla fine, v. 14, della cit. stanza dantesca Lo meo servente core) – tutta mia possanza: «ogni valore» del v. 4; compresa la facoltà di dire e di far poesia.
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XII Perché non fuoro a me gli occhi dispenti o tolti, sì che de la lor venduta non fosse nella mente mia ventua a dir: «Ascolta se nel cor mi senti» ?
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1–4. Perché non perdetti la vista (ovvero: fossi stato accecato) piuttosto che averla veduta? 1. gli occhi: come già V, e come XIII, XXV, XXVIII, comincia dal principio d’ogni suo male, come dagli occhi di lei cominciano XX, XXIII, XXVI, XXXI. – dispenti: spenti, con prefisso dis– per s– frequente in Cavalcanti (cfr. discalza XLVIª 6, disconforta XX 12, discovrire XIX 23, disdegno XV 14, XVI 10, disfatto passim, dispietato XIV 4, disvegliai XL 3, e aggiungi distretta XXXI 2; senza contare le alternanze sdegniate/disdegniate, struggere/distruggere). 2. tolti: distingue, nell’enfasi dell’imprecazione (ma cfr. ancora Job cit.), l’accecare dal cavare gli occhi: pratiche in uso, se non pene camminate dalle leggi del tempo (cfr. V). – de: per effetto di. – veduta: vista, ossia ‘vedere’ (lor vale ‘di loro’ inteso come genitivo soggettivo) . 3. nella mente mia: cfr. VI 3, VII 11, VIII 1, X 18 ecc., in particolare XIII 2, XVII 12. – venuta: soggetto, implicito nel femminile, la donna; ma presentata come un’insorgenza (e cfr. 6) misteriosa e inattesa (per venire cfr. note a IX 16 e 35; gli risponde 9 venne; sicché venuta prende quasi forza di sostantivo, in analogia a veduta – ma il guasto potrebbe anche essere al v. precedente) e la lor veduta essere soggetto di fosse... venuta). Il congiuntivo fosse in rapporto alla reggente interrogativa negativa. 4. a dir: appunto a ‘rammentare’ («nella mente mia») e affermare la sua presenza. Il tutto, incluse le ‘parole’ seguenti, per designare la vista sconvolgente di lei. – Ascolta se ecc.: l’esortativa seguita da interrogativa indiretta (‘fa’ attenzione se...’; e cfr. la nota al v. 12) vale l’interrogativa diretta ‘Mi senti...?’, a sua volta equivalente all’intimazione ‘Sentimi...’, o addirittura all’affermazione (‘Adsum’) della propria presenza e potenza (sentire è verbo dell’avvertimento del proprio stato: cfr. IX 20, 35, XVI 4, XVIII 7, XXIV 9, XXXI 5, 11, XXXIII 3, e in particolare XIX 19). Meno probabile che Ascolta sia un invito all’ascolto e se nel cor mi senti un inciso (‘se è vero che mi senti’ ecc.).
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Ch’una paura di novi tormenti m’aparve allor, s’ crudel e aguta, che l’anima chiamò: «Donna, or ci aiuta, che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti! Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore a pianger sovra lor pietosamente, tanto che s’ode una profonda voce
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5. Ch(e): dichiararivo: ‘nam’, infatti (ma una parte della tradizione ha Una). – una paura di ecc.: ossia la sola prospettiva o aspettativa (nel v. sg. accuratamente definita) di «novi tormenti», inauditi, inenarrabili (per cui cfr. X 12 e già 5) è evento sufficiente (cfr. 6 «m’apparve», come in XXI 12 «la Morte» e in XVIII 8 «cose dubbiose», equivalenti appunto a «paura») a sgomentare l’anima. E si è tentati d’identificare questa ‘apparizione’ con la «venuta» del v. 3 (e al v. 7: «Donna»!). è il petrarchesco «spavento» alla vista (o al pensiero) di lei, drammaticamente corrispondente al ‘sentimento’ espresso ai vv. 2–4 (e cfr. 6 «allor», cioè alla vista di lei). 6. aguta: acuta (cfr. IX 38); in coppia con «crudele» (nello stesso ordine, e per «feruta») già in Neri Visdomini, Oi forte inamoranza, 33 (Caridi). Da leggersi in dialefe con e. ‘Rima’ con paura. 7. chiamò: esclamò, gridò. – or: orsù, dunque. – ci: «gli occhi ed i’» (8), gli uni veicolo, l’altra termine doloroso della «veduta». 8. che... non: con valore finale (lat. ‘ne’). – gli occhi ed i’: si rilevi la simmetrica riproposta, in fin di fronte, dei termini raffigurativi (me... occhi) dell’inizio (Calenda). –rimagnàn: rimaniamo. – dolenti: ossia in preda ai (paventati) tormenti. Ma dolenti può significare in istato da ‘dolersi’ (in realtà, cfr. 12–14, perduti, morti): cfr. l’espressione ‘io ti farò dolente’ nel senso di ‘te ne farò pentire’, ‘te la farò pagare’ (per «rimaner dolenti» cfr. Purg., VI 2). 9. Tu gli ha’ lasciati: richiama rimagnàn del v. 8, che esorcizza questa situazione; per cui sì non vale tanto ‘in tal modo’ («dolenti»), ma si riferisce al «lasciare», allo smarrimento che consegue alla «veduta». Per «gli occhi abbandonati» cfr. X 17.– venne: attestato anche vene; ma 11 s’ode (all’attimo lancinante succede uno ‘stato’ di dolore). 10. sovra lor in atteggiamento di compianto, di ‘pietà’: gli occhi son morti (ma «pietosamente» è connotazione tipica di «piangere»: cfr. V. N., VIII 1, XII 4, XXII 3, XXIII 6); e vedi note ai vv. 13–14. Per il pianto di Amore cfr. XI 8 e relativi richiami. 11. tanto che: fino a che (ma di nessi consecutivi è ricco il so-
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la quale dice: - Chi gran pena sente guardi costui, e vedrà ‘l su’ core che Morte ‘l porta ‘n man tagliato in croce- » .
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netto: cfr. 2, 7, 9). – profonda: che viene «de profundis», che biblicamente è l’«abyssus» (e cfr. il «De profundis clamavi...» di Ps., CXXIX 1 con «chiamò» del v. 7 – delle molte voci comunque che ‘s’odono’ nella Scrittura andrà privilegiata quella che «in viis audita est ploratus et ululatus» o l’altra «lamentationis audita... de Sion» in Jerem., III 21 e IX 19). Potrebb’essere dunque la stessa voce dell’anima, ma ormai (12–14) addetta al ‘memento’ della propria ‘passione’ (ed è comunque un modo indiretto di chiedere l’attenzione della donna). 12. la quale dice: stessa formula e nesso di X 18–19. – Chi gran pena sente: con invocazione dell’altrui esperienza di dolore (come in XIX 1), da confrontare (consolandosene) con la tanto maggiore del poeta. Ma il rapporto «Chi... guardi... e vederà...» è ancora quello delle Lamentationes di Geremia cit. per X 1 («O vos qui... attendite et videte...»); e cfr. XXXII 13. Ciò che configura questo spettacolo conclusivo nei termini figurativi di una ‘pietà’ (e con riflesso sull’intimazione corrispondente, su due verbi, del v. 4). 13. vederà ’l su’ core: cfr. XIII 14. Di qui discenderà il «Vide cor tuum» di Vita Nuova, III 5, introducente il sonetto A ciascun’alma dove, ricorda Contini, il cuore del poeta è in mano d’Amore (di Contini anche il rilievo dell’analogia della tradizione del presente sonetto con quella del XXXVIIb, responsivo al dantesco, col particolare d’essere gli unici presenti, evidentemente per l’affinità dell’immagine, nel Barberiniano lat. 4036). E se ’l su’ core è (con Marti) prolettico rispetto alla relativa (col diffuso anacoluto del che relativo doppiato dal dimostrativo ’l), per ‘vedrà che Morte porta il suo cuore’ ecc., proprio il riscontro dantesco esalta, a modo appunto di ‘memento’, il carattere quasi emblematico della visione (vederà risponde anch’esso a «veduta» del v. 2). Per analoghe manifestazioni della Morte cfr. X 8, XXI 12, XXXII 14 (introdotto da «guardi ciascuno e miri») e in particolare 24. 14. tagliato in croce: nonostante l’ammessa libertà figurativa (il taglio in croce è quello che si fa sul pane appena formato), è possibile che tagliato valga ‘trafitto’ (cfr. XIII 5 e nota, XXIX 13). Dopodiché l’immagine è quella del cuore ‘crucifixum’ (non si può escludere un’‘interpretazione’ o ‘sviluppo’ dell’etimologia di ‘cruciatus’, invocata esplicitamente da S. Agostino e ribadita dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, V 27, 34: «crux... cruciat»), portato e addirittura ‘ostensum’ dalla Morte, e l’idea della ‘pietà’ e del ‘calvario’, da più punti affiorante, risulta pienamente realizzata. Se poi (per suggerimento di Tanturli e Mario Martelli) si adotti come
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plausibile (e non errore congiuntivo, secondo Favati, pp. 53 , 169) morto di Chigiano L.VIII.305 (e affini) più Vaticano lat. 3214 e di Barberiniano lat. 4036 (testimonianze indipendenti secondo De Robertis, Escorialense, p. 137), il soggetto della relativa diventando costui (sempre con anacoluto di che più dimostrativo), si avrebbe l’ostensione del proprio martirio (il cuore tagliato, ossia avulso dal petto) da parte del martire stesso (come Santa Lucia con gli occhi, dunque con richiamo e confronto con 1–2: perché non gli occhi invece del cuore?). E si confronti il finale di VIII, con morto al v. 14, e dove il martire è raffigurato da una statua, e quello di XIII, con morto ancora all’ultimo verso, e dove si tratta sempre della veduta del cuore trafitto (ed è l’anima a vedere; e addirittura la fronte si chiude con dolore come qui con dolenti, amore torna al v. 9, gli occhi sono il principio di tutto, e la voce, v. 8, è l’unica facoltà che resta: si tratta infatti di una diversa, se vogliamo più convenzionale sceneggiatura della stessa situazione).
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XIII Voi che per li occhi mi passaste ‘l core e destaste la mente che dormia, 1–3.Voi che..., guardate: applica al testimone essenziale della propria passione, ossia a colei che ne è responsabile, chiamandola drammaticamente a parte di essa, il modulo allocutorio designativo, per Guido come per Dante, e per ripetute attestazioni (cfr. qui X 1–4, XII 13–14, XIX 1–3), della desolazione, esemplata su quella, per Geremia, di Gerusalemme (cfr. nota a X 1 – «l’angosciosa vita mia» traduce in termini cavalcantiani il «dolor meus» del profeta, e lo stesso «transitis» è ravvisabile in «passaste»; e cfr. già Contini, Cavalcanti in Dante, p. 444). è per questo che il codice Vaticano lat. 3214 mutava l’ambigua attribuzione del suo esemplare tra Guido Cavalcanti e Guido Orlandi in quella a Dante Alighieri? 1. per li occhi: attraverso gli occhi miei (come ha del resto la tradizione escorialense rispetto a per li occhi mi...), normali «uscio e varco» dell’aggressione amorosa al cuore secondo l’antica raffigurazione del Notaro «Amor è uno desio che ven da core Per abondanza di gran piacimento; E li occhi in prima generan l’amore E lo core li dà nutricamento»), che a tale ‘passaggio’ aveva dedicato un intero sonetto (Or come pote sì gran donna entrare Per gli occhi miei...?), forse presente, v. 11, con XXIV 10, al responsabile della variante passaste al core; raffigurazione sintetizzata da Cino in Amore è uno spirito, 1–2, cit. a VI 6 (e cfr. I’ trovo ’l cor feruto, 3–4: «... insiememente ella ed Amore Per li occhi mi passò...»), e riproducentesi appunto nel son. Lo vostro bel saluto di Guinizelli, 9 («Per li occhi passa come fa lo trono, Che fer’ per la finestra de la torre»); e cfr. qui VII 9, IX 23, XXVIII 1, XXXª 41. Di qui comunque, con conferma della lezione, Il Fiore, I 9–10, «per gli occhi il core Mi passò...». – passaste: trapassaste, trafiggeste (cfr. IX 39). 2. destaste: in rima non formale con passaste e in più che assonanza con guardate seguente, costituendo così una sorta di ‘soccorritore’ d’attenzione che si prolunga fino ai vv. 4–5 (sospirando : tagliando). La variante (d’autore? Favati, Contini) svegliaste della tradizione escorialense esalta il richiamo (se non ne è semplicemente provocata) al sonetto dantesco che comincia «Io mi senti’ svegliar dentro a lo core Un spirito amoroso che dormia», App. II (Cattaneo), con fronte costruita sulle stesse rime e riproduzione delle prime due parole–rima. Il destarsi della mente dal sonno indicherebbe dunque il passaggio di amore da potenza ad atto, se-
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guardate a l’angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore.
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E vèn tagliando di sì gran valore, che’ deboletti spiriti van via: riman figura sol en segnoria condo un’interpretazione in Guido non isolata (cfr. XXVIII 1–2, XL [a Dante] 1–3). La ‘variante’ del v. 13 assimila piuttosto l’atto a un attacco di sorpresa (e «la mente», per cui cfr. VI 3, a «l’anima». Amore si desta nella mente in Dante, oltre che nel sonetto cit., in Perché ti vedi, 2, e in Per quella via, 2. 3. l’angosciosa vita mia: ossia la mia angoscia; ma vita (in relazione ad angoscia in XVI 6), soggettivizzando la passione, fa consistere questa nella propria desolazione, ossia morte (angosciosa è attributo di «Morte» in X 8). 4. che: relativo, doppiato dal pleonastico la (Marti). – sospirando: riferito a vita (Contini), giusta la nota autonomia del gerundio dal soggetto: ‘in sospiri’. L’‘ordo artificialis’, col contributo dell’anacoluto suddetto, ha funzione d’evidenziazione degli elementi del dramma. 5. vèn: gli stessi codici del v. 2: va. Ma l’eventuale funzione continuativa (cfr. X 1), estensibile anche a vèn, cede probabilmente al senso dell’avanzata d’Amore (a cui si contrappone l’«andar via» degli spiriti; e cfr. IX 11–14, con integrazione nell’azione di Amore e madonna); e tagliando e di sì gran valore rappresentano appunto Amore come guerriero che si apre la strada valorosamente facendo a pezzi i nemici. è la trasfigurazione drammatica, rispetto anche al v. 4, del convenzionale colpo di saetta (peraltro «tagliente» in XXIX 13) di cui al v. 11; e verbo e complemento potrebbero tradursi: apre con forza una ferita nel cuore (dalla quale fuggono gli spiriti); e cfr. anche Guinizelli, son. cit., 5–6: «... per mezzo lo cor me lanciò un dardo Ched oltre ’n parte lo taglia e divide» (e 11 «spezza e fende» detto della saetta ossia folgore). Ma potrebbe anche essere (mi osserva Tanturli) versione del lat. ‘caedo’, reso per lo più ‘tagliare’ negli antichi volgarizzamenti. Per di sì gran valore cfr. ancora Guinizelli cit. al v. 12. 6. deboletti: ossia incapaci di reggere a quell’assalto, privi di forza di resistenza: con ‘diminutivo’ affettivo che si riproduce in XXXV 37. 7. riman: in rima non formale con van. E cfr. ancora Guinizelli, son. cit., 12: «Remagno como statüa d’ottono». – figura: l’aspetto esterno. – en segnoria: in potere (ossia prigioniera) d’Amore, come comunemente s’intende, tenendo fede all’immagine della battaglia. Ma potrebbe intendersi che dopo la fuga degli spiriti
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e voce alquanta, che parla dolore. Questa vertù d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’ occhi gentil’ presta si mosse: un dardo mi gittò dentro dal financo.
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Si giunse ritto ‘l colpo al primo tratto, che l’anima tremando si riscosse non rimanesse (e sia pure in preda ad Amore: il cod. Escorialense ha campa) che l’apparenza di un essere vivente (e un puro ‘flatus vocis’). Cfr. XVIII 9–11, e Guinizelli, son. cit., 12–14: «como statüa d’ottono, Ove vita né spirto non ricorre, Se non che la figura d’omo rende», nonché Dante, Con l’altre donne, 7–11 e il corrispondente paragrafo della Vita Nuova, XIV 5, e Spesse fiate, 7, «campami un spirto vivo solamente». 8. alquanta: poca (cfr. IX 5), ossia «deboletta» come in XXXV 37.– parla: impiegato transitivamente, con «variazione rispetto a VI 13 (e XIX 1)» (Contini, che produce esempi di Dante e Cino – in Cino con oggetto regolarmente «dolore», in un caso, O voi che siete ver’ me sì giudei, 12–13, entro un conflato di ricordi da questo sonetto: «... i sospiri miei parlan dolore, Perché l’alma giammai non si riscosse, Che tramortì allor per gran tremore – e richiama a Chiaro e a Monte, che tuttavia ricorrono per lo più a una sorta d’accusativo dell’oggetto interno del tipo «motto», «il contrarioso», «verità», «menzogna» ecc.). Lo «spirto vivo» di Spesse fiate sopra cit. «riman perché di voi ragiona» (Caridi). 9. Questa vertù d’amor che...: riepilogo o ricapitolazione come in X 13 (con conseguente moltiplicazione, ovvero diversa angolazione, della rappresentazione); e difatti vertù d’amor corrisponde a valore del v. 5, disfatto a distrugge del v. 4. 10. vostr’occhi: fanno ‘pendant’ a «li occhi [miei]» del v. 1, con passaggio analogo a quello di XXV 1 e 11 (o XXXª 36 e 41). – presta: compl. predicativo del soggetto: rapida, fulminea. – si mosse: conferma vèn del v. 5. 11. La solita tradizione (Escorialense e affini) ha lanciato (ossia ‘trafitto’ come da lancia: cfr. ‘saettato’) m’ha d’un dardo entr’a lo fianco (lezione preferita da Margueron come difficilior). Per dentro dal cfr. XI 14. 12. Sì.. ritto: così diritto, infallibile (ossia centrato). Per la formulazione cfr. Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 11–12: «Di sì forte valor lo colpo venne Che...». – tratto: tiro d’arco. 13. tremando: caratteristica reazione dell’anima: cfr. IX 20 (Contini), dove il luogo del tremito è il cuore, e XXXV 28. – si ri-
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veggendo morto ‘l cor nel lato manco.
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scosse: corrisponde specularmente a destaste del v. 2, come cor(e) del v. ult. a core del primo. 14. veggendo morto: ossia alla morte di, percepita sensibilmente (ma veggendo richiama guardate del v. 3; e cfr. XII 13–14), e che significa che l’anima non ha più il suo ‘dove’. – manco: sinistro: il lato tradizionale e fisiologico (a stare ai trattati ‘naturali’) del cuore, e quindi del bersaglio d’Amore. «Da la sinistra parte» comincia il tremore di Dante nel cit. cap. XIV 4 della Vita Nuova.
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XIV Se m ‘ha del tutto oblïato Merzede, già però Fede - il cor non abandona, anzi ragiona - di servire a grato al dispietato - core. e, qual sì sente simil me, ciò crede; ma chi tal vede - (certo non persona),
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1. Se: se è vero che (l’attacco non è molto distante da quello di XI; cfr. comunque quello petrarchesco «Poi che ’l camin m’è chiuso di mercede»). – m’ha del tutto oblïato: sono in tutto abbandonato (cfr. 2) da, ossia non c’è per me (grazia, cioè corresponsione: cfr. IX 27). Per analoga metafora cfr. XV 1. e XXXI 30–31. 2. già: asseverativo. – però... non: non però, «non per questo» (Contini). – Fede: soggetto, per coerenza con 1, e in rima con Merzede (il cambiamento di soggetto, cor, al v. 3 è legittimo; ma potrebbe intendersi soggetto cor anche qui: il cuore insomma tien fede al proprio amore, «fidem servat», 2 Tim., II 7). 3. ragiona: dice, fa proposito (professione); ovvero, riferito a Fede, persuade; e cfr. XXXII 4, 21. In opposizione a (e in rima con) non abandona. – servire a grato: amare senza contraccambio, gratuitamente (espressione stereotipa: cfr. tra gli altri Re Giovanni, Donna, audite como, 49–52, «Fino amor m’ha comandato Ch’io m’allegri tuttavia, Faccia sì ch’io serva a grato A la dolze donna mia», e il Detto d’Amore, 276, e per l’associazione a lealtà Pacino di ser Filippo Angiulieri, Anor c’ha segnoria e libertate, 10, «dice ch’è leale e serv’a grato»). E cfr. la canzone pseudo–guinizelliana Con gran disio pensando lungamente, 41–42: «... ’l bon servire a grato Non è rimeritato». 4. dispietato: in rima con (e in opposizione a) servire a grato. – core: immortale identificazione del soggetto del sentimento col sentimento stesso. Risponde a cor del v. 2. 5. qual: chi, chiunque. – sì... simil me: così (cfr. ciò) come io sento (simil vale ‘sicut’, ha valore avverbiale). – ciò: quello che dico, che si possa amare non riamati: cosa accettabile per fede da chi abbia una simile esperienza (e cfr. XXVII b 4), ma (6–8) inesprimibile, inspiegabile. 6. Ma: in contrapposizione al v. 5. – tal: tal cosa, ciò (cfr. III 9): «anticipo del ch(e) successivo» (Contini). – vede: può vedere (ossia: si può far vedere, a chi non «sì sente»?). – non persona: non alcuno, nessuno (cfr. XV 8 ecc.). Risponde all’interrogativa re-
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ch’Amor mi dona - un spirito ‘n su’ stato che, figurato, - more? Ché quando lo piacer mi stringe tanto che lo sospir si mova, par che nel cor mi piova
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torica del primo emistichio. A nessuno insomma può rappresentarsi con parole che Amore ecc. Ma l’interrogazione potrebbe fermarsi lì, e i vv. 7–8 avere valore dichiarativo. 7. dona: dà. Cfr. Dante, Spesse fïate, 2, «le oscure qualità ch’Amor mi dona». – (i)n su’ stato: conformato, improntato a lui, ossia amoroso (cfr. XXVIII 3, e VI 9; e Dante, Io mi senti’ svegliar, 2, più volte cit.). Amore cioè mi anima di sé (ma la sua presenza in me è indescrivibile). Per in su’ stato cfr. Lc 10 (‘come fossi tu’), e Pier delle Vigne, Amor da cui move tuttora e vène, 12, «(Amore) miso m’ha ’n suo stato» (ossia in istato amoroso). 8. figurato: (non appena) raffigurato, rappresentato (non appena si tenti di figurarlo) in parole (anche se il confronto col sonetto di Dante Cavalcando l’altr’ier, 13–14, «allora presi di lui sì gran parte, Ch’elli disparve...», farebbe pensare a un’immedesimazione che si traduce in assimilazione); ma cfr. Par., XXIII 61, «figurando il Paradiso...» (Tanturli), appunto per una dichiarazione d’ineffabilità. – more: non è più, cessa d’essere sensibile; sfugge alla percezione. 9. Ché: dichiarativo: infatti. Unica manifestazione ed espressione possibile, il sospiro e, a differenza di Dante di V. N., XVII (ma cfr. Sì lungiamente, 10–12), la parola diretta (non importa se parlata dentro), come dichiarazione d’intera remissione. E si noti come la sirima, chiusa in un unico periodo, si sostenga e raccolga in unità sulla linea piacer–sospir–amor–(donna). – piacer: amore; piacere d’amore. – stringe: detto indifferentemente del piacere (cfr. XXXI 2) come della morte (cfr. XXXV 18), corrisponde abbastanza bene sia a ‘mettere alle strette’ sia a ‘prendere’ (cfr. Raimbaut de Vaqueiras cit. da Cattaneo a XXXI 2: «tant fort me destrein e ÿm venz Vostr’amors...»), e significa essenzialmente il possesso d’Amore (cfr. l’incipit del Notaro «Meravigliosamente Un amor mi distringe», e quello di Guittone «Sì mi distringe forte L’amoroso disio», nonché, per la conseguenza, Cino , «Sì mi stringe l’amore... Che sospirar non lasso»). 10. si mova: si levi, si parta (cfr. XXXIII 10) dal mio petto (cfr. del resto XXVIIb 50). 11. par che: cfr. XVII 12. L’immagine è soggettiva, raffigurazione interiore di un non raffigurabile. E par ne è il centro, tra due subordinate di 1° grado reggenti ciascuna una consecutiva. –
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un dolce amor sì bono ch’eo dico: «Donna, tutto vostro sono» .
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piova: scenda (e si spanda) misteriosamente (cfr. ancora XVII 12, e XXXI 13). 12. un dolce amor: un dolce sentimento d’amore, una dolcezza d’amore (cfr. Dante, Vede perfettamente, 14, «... che non sospiri in dolcezza d’amore», ma meglio la prosa, V. N., XXVI 3, , «quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto che ridicere non lo sapeano», e Sì lungiamente, 7–8, «allor sente la frale anima mia Tanta dolcezza...», e cfr. 9 «poi prende Amore in me tanta vertute...»; nonché le riprese delle ball. XXV e XXVI). Ma i vv. 11–12 corrispondono sostanzialmente a XI 14. Ciò che conferma la comune interpretazione dei due componimenti. – bono: valoroso; perfetto. E cfr. Dante, V. N. , XIII 2–4: «buona è la signoria d’Amore...» ecc. 13. ch’eo dico: stesso movimento (ma cfr. anche XXVI 12, 19) del dantesco Tanto gentile, 14, «Che va dicendo...» (e par che, e si mova in rima, sono al v. 12, soave e amore al v. 13); ma fuori d’ogni personificazione e (appunto) visibilizzazione, risolto in pura emozione e commozione e partecipazione (e cfr. nota al v. 9) di un «piacere» che si fa «dolcezza» che si fa «sospiro» che si fa parola (o piuttosto atto, vita) di totale dedizione (ossia dimissione della propria «possanza»: cfr. ancora XI 15, e 11). E cfr. ancora Sì lungiamente, 10–12: «che fa li miei spiriti gir parlando, Ed escon for chiamando La donna mia...» (Tanturli).
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XV Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, e ‘l movimento suo fosse dal core di questa bella donna, e ‘l su’ valore mostrasse la vertute a’ mie’ martiri,
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d’angosciosi dilett’ i miei sospiri, che nascon della mente ov’è Amore e vanno sol ragionando dolore Se Mercé...: stesso rapporto in XIV 1. La formula ipotetica iniziale è comune con XVII, XXXVIIIb, XXXIX. Per l’ampia protasi cfr. ad es. Monte, Sed io potesse adimostrarlo fòre, 1–6. Per Mercé cfr. IX 27, e per la personificazione XIV 1. – fosse amica: fosse propizia, venisse incontro. Se cioè il mio amore (cfr., Dante, Inf., V 120, che ivi mutua le tre parole–rima suddette) trovasse grazia presso di lei. L’attacco di XVII è una ‘conversione’ di questa formula. Un’eco probabilmente in uno dei primi sonetti di Petrarca con analogo inizio (Se la mia vita...), 12: «e se ’l tempo è contrario ai be’ desiri» (e stesse tre parole–rima). 2. ’l movimento suo fosse dal: movesse, venisse dal; fosse moto o manifestazione del. 3–4. ’l su’ valore (anch’esso riferito a Mercé) Mostrasse la vertute a’: in parole povere: avesse efficacia sui; ma dove valore rispetto a vertute (e cfr. 9) rappresenta la facoltà rispetto al suo effetto, o meglio ciò che Mercé è e può rispetto alla sua azione, e mostrasse la manifestazione di tale efficacia. Come dire: spiegasse il suo potere sui. 5. d’angosciosi dileti(i): di angosciosi che sono (cfr. 7) divenuti diletto, ossia dilettosi. Per il costrutto con di significante condizione pregressa cfr. XI 10 (e forse 2), e soprattutto (anche per la prolessi) XXXII 3, XLII 14. Anticipa i vv. 10–11. 6. Che nascono dalla mente (cfr. VI 3 ecc.) e sono d’amore. Ma la specificazione relativa moltiplica lo spazio e deconvenzionalizza (ossia dà senso drammatico a) nascon de (e cfr. 2). Cfr. del resto Dante, Donna pietosa, 31, «piansemi Amor nel core, ove dimora» (e nella prosa, V. N., XXIII 8: «lo cuore, ove era tanto amore»). 7. E non sono che (espressione) di dolore. Vanno è fraseologico (ma cfr. la nota al v. 9). Per ragionare transitivo cfr. XIII 8, e ancora Cino, O voi che siete ver’ me sì giudei, 12, ivi cit.
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e non trovan persona che li miri, giriano agli occhi con tanta vertute, che ‘l forte e ‘l duro lagrimar che fanno ritornerebbe in allegrezza e ‘n gioia.
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Ma sì è al cor dolente tanta noia e all’anima trista è tanto danno, 8. E non trovano considerazione, ossia compassione, come meglio esplicitato in X 3–4 (sulla stessa rima! E valga un analogo riscontro biblico, Ps., LXVIII 21, «Et sustinui qui simul contristaretur, et non fuit; a qui consolaretur, et non inveni») e cfr. XXXIII 12–13, dove torna il verbo mirare. Alle tre perifrasi dei vv. 1–4 ne corrispondono altrettante ai vv. 6–8. Per persona ‘nessuno’ cfr. XIV 6. 9. giriano agli occhi: andrebbero ossia avrebbero effetto (vertute), rasserenante, sugli occhi piangenti (e cfr. 4). La coerenza metaforica, non richiesta già per miri (i sospiri sono ‘persone’ che ‘parlano’) è semmai quella del ‘movimento’: «nascon» –«vanno» – «non trovan» – «giriano». 10. forte: in coppia sinonimica con duro (a meno che non significhi semplicemente ‘molto’), così com’è in coppia in XXXª 34 (e così duro in XXXª 29) e XXXIV 1, dove conserva tutto il suo valore primario. Il sonetto pseudo–angioleresco (ma d’evidente ispirazione cavalcantiana) Lassa la vita mia, 11, ha «pena... e dura e forte» (Caridi). Si noti la ripetizione dell’articolo determinativo (cfr. per es. Cino, Bella e gentile, 3–4, «’l dolce core E ’l pietoso»). – ch’e’ fanno: specificazione affettiva (e attivante). 11. ritornerebbe: si convertirebbe. Cfr. Rustico, Tant’è lo core meo, 14 (per analoga situazione): «lo dolor del cor ritorni in canto». – allegrezza e... gioia: Guinizelli, Madonna, il fino amor, 2: «mi dona sì gran gioia ed allegranza»; e già Giacomino Pugliese, Morte, perché m’hai fatta sì gran guerra, 9: «m’hai tolto la gioia e l’alegranza» (Caridi). 12–13. è al... E all’... è: è il costrutto lat., esse alicui per ‘avere’ (il cuore ha tanta noia ecc.), qui in duplicazione chiastica corrispondente al binomio del v. 11. E dolente (normale attributo di «core», VIII 3, X 16, XXII 6, XXXV 38, come del resto di «anima», XVII 9, XIX 5, XX 4, o «spirito», XIX 21, o «vita», XXXIII 13) e così trista detto di «anima» (attributo già biblico, Ps., I 6, 12, XLII 5; e cfr. VI 13, XXII 8 – le due ‘attribuzioni’ tornano in Dante) rispondono a allegrezza come noia e danno (dolore e afflizione) a gioia del v. 11, di cui sono i contrari. Per il tandem
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che per disdegno uom non dà lor salute.
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anima e core cfr. VII 1–2, IX 1–3, 20, XIII 13–14, XVII 9–10, XIX 4–5, XXIX 5–6, XXXIII 9–10; con gli stessi attributi in XXII 6 e 8; triste e dolente sono riaccostati in XVIII 1–2. 14. disdegno: mancanza di pietà (disdegno e spietatezza in donna sono sinonimi), nel senso che tanta sofferenza sembra indizio d’indegnità e non par meritevole di compassione. – uom non: nessuno (cfr. persona del v. 8). – dà... salute: rivolge un saluto: qui nel senso di parola di conforto o di solidarietà (Ferrero). L’infelice, da Giobbe in poi, è derelitto.
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XVI A me stesso di me pietate vène per la dolente angoscia ch’i’ mi veggio: di molta debolezza quand’io seggio, l’anima sento ricoprir di pene,
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Tutto mi struggo, perch’io sento bene 2. angoscia: stringimento di cuore (lat. angustia), ma, come nel prov. angoissa, per designare, analogamente ad affanno, la sofferenza amorosa, sinonimo del «dolore» che qui la connota (la Poetria nova di Goffredo de Vinsauf, ed. Faral, v. 1628, tra le ‘conversioni’ sul tema doleo suggerisce, per il vocativo, «dolor anxie», cioè l’esatto reciproco del sintagma cavalcantiano) e di «morte» (nella Scrittura sinonimo di e associato a «tribulatio»). «Dolore» e «angoscia» sono riaccostati (e sinonimi) in XXXV 14–16 (e per es. in Dante, Li occhi dolenti, 57, «Pianger di doglia e sospirar d’angoscia», e già in Donna pietosa, 15–16, «Era la voce mia sì dolorosa E rotta sì da l’angoscia del pianto». – ch’i’ mi veggio: che io vedo in me (ma la costruzione è piuttosto quella del lat. ‘est mihi’), come sembrano confermare la serie VI 1–2, 5–6, 9 (e cfr. la nota a quest’ultimo verso), e la tipica suggestione visionaria di Guido (con la solita specificazione attualizzante e sottolineatura della consapevolezza del proprio stato). 3. di molta debolezza: con valore causale (cfr. VII 2), dipende da seggio (oggi si direbbe ‘dalla’ ecc.). Si noti il chiasmo dei vv. 2–3 (per..., di...) rispetto ai vv. 1–4 (la prolessi del v. 3, ‘quando seggio dalla debolezza’, si riproduce in 2, che può interpretarsi ‘per il fatto di vedere’ ecc.). Per debolezza, estremo esito dell’angoscia, cfr. XXII 14 (dov’è appunto «angosciosa»). – seggio: siedo, «poso» (Contini), giaccio. 4. sento: con funzione semantica analoga a quella di veggio del v. 2. Il primo emistichio identico (e con identica costruzione infinitiva) a quello di IX 20, anch’esso preceduto da «quand’eo», e con analoga assonanza, lì penso–sento, qui seggio–sento (Tanturli). – ricoprir: ricoprirsi (con ellissi della particella riflessiva in dipendenza da verbo ‘sentiendi’), ovvero esser ricoperta, sommersa, sopraffatta (con la solita tendenza a obbiettivare e drammatizzare i ‘sentimenti’). 5. mi struggo: sono distrutto (XXXI 18: «mi sento disfatto»), vado morendo. – sento: con ripresa di sento del v. 4 e legame delle quartine a modo di ‘coblas capfinidas’.
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che d’ogni angoscia la mia vita è peggio; la nova donna cu’ merzede cheggio questa battaglia di dolor’ mantene: però che, quand’ i’ guardo verso lei, rizzami gli occhi dello su’ disdgno sì feramente, che distrugge ‘l core.
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Allor si parte ogni vertù da’ miei e ‘l cor si ferma per veduto segno 6. La mia vita è il colmo dell’angoscia (con ripresa di angoscia del v. 2), non c’è vita più angosciosa della mia. Peggio è la forma nominativale di ‘peggiore’ (cfr. maggio di III 13). 7. nova: ma non nuovi gli effetti di lei (Contini). Il Ciccuto intende («forse») ‘giovane (con rinvio a XXXª 2). Ma è possibile che nova abbia solo valore di superlativo, per ‘mirabile’, ‘senza pari’ (e del resto quello che qui si descrive è l’effetto della «prima» vista: cfr. V 1, VII 9; anche se piuttosto che di una fase acuta paia trattarsi di stato cronico: cfr. 8). – cu’ merzede cheggio: si può tradurre senz’altro: alla cui mercé sono (cu’ può valere ‘a cui’ come ‘di cui’, ‘la cui’. 8. battaglia di dolor’: ‘variante’ (questa, ‘questa che ho detto’, costituisce un evidente riferimento) di «angoscia» dei vv. 2 e 6 in termini agonistici e drammatici (cfr. VII 2, 9, e la «battaglia di sospiri» di Guinizelli, Vedut’ho, 10). – mantene: tiene viva; ne è causa permanente. 9. però che: dichiarativo (‘nam’), con tipica ricapitolazione o regressione (e cfr. distrugge del v. 11 che riprende mi struggo del v. 5). 10. rizzami: mi drizza (stesso rapporto di ritto, XIII 12, con dritto; la particella enclitica ad inizio di verso e dopo secondaria), mi rivolge, punta su di me (cfr. 13–14). – dello su’ disdegno: complemento con valore attributivo: di disdegno per ‘sdegnosi’ (e su’ con valore individuante: ‘i suoi occhi sdegnosi’; e cfr. «gli occhi di pietà» di XXV 20), ma con funzione di rappresentazione e animazione (come dicesse: ‘pieni di disdegno’, ‘in cui è disdegno’), cioè d’individuazione di motivi e presenze (e cfr. XLII 12–13), insomma di complemento predicativo dell’oggetto occhi. 11. feramente: fieramente; come ‘fera’ e nemica. 12. Cfr. VI 8, 11. Donde la «debolezza». Per la formula iniziale (e conclusiva) Allor si parte cfr. Il Fiore, CXL 12 (e qui XVII 12, XXI 12). – da’ miei: sottintendi ‘occhi’. 13. si ferma: contrapposto a si parte (12). Cessate tutte le fa-
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dove si lancia crudeltà d’amore.
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coltà, il cuore s’arresta: arresto qui immaginato come d’un bersaglio («segno») che d’instabile s’immobilizzi e s’esponga così (per vale ‘come’) alla mira («veduto») ed ai colpi (14). Cino costruirà su quest’immagine un suo sonetto («Lo core meo... Fu tanto folle che, veggendo Amore, Dinanzi a la saetta sua s’assise; E ratto, del piacer che lo divise, Sì che per segno lì stava di fore, La temperò sì forte quel signore, Che dritto quivi traendo l’uccise»: sottolineati i riscontri testuali, fin con seggio del v. 3). Ma il suggerimento è ancora delle Lamentationes di Geremia, III 12 (come conferma XXXVIII 8–9): «Tetendit arcum suum, et posuit me quasi signum sagittae» (Caridi), presente anche a Iacopone, Che farai, Pier da Morrone, 6: «Como segno a saitta tutto lo monno a te affitta». 14. si lancia: si scaglia, ma nel senso di ‘è scagliata come lancia’, ‘saettata’ (cfr. nota a XIII 11); o s’infigge. Il verbo, in forma attiva, è caro al Notaro, Poi non mi val merzé, 44 («tanto mio cor lanza»), Dolce coninzamento, 16 («lo cor m’hai lanciata»); e Stefano Protonotaro. Pir meu cori alligrari, 46 («feristi di la lanza Chi mi fer’ e mi lanza»); e cfr. ancora Iacopone, L’Amor lo cor, 5 («Saietta ’l cor, lanza dolceza»), 12 («saietta suo lanzone»), Omo, de te me lamento, 36 («de lancia me fo lanciato»). – crudeltà d’amore (o d’Amore?): la crudele saetta d’amore. Ma arma e intenzione sono tutt’uno, la saetta si riduce alla sua essenza, e l’immagine tradizionale, a cui già assolve il verbo, è trascesa dal suo significato, prettamente cavalcantiano (ma cfr. la «dolceza» di Iacopone sopra cit.), di manifestazione ostile. La metafora–perifrasi non è insomma dissimile da quella del v. 10 (dove rizzami è il verbo corrispondente a si lancia).
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XVII S’io prego questa donna che Pietate non sia nemica del su’ cor gentile, tu di’ ch’i’ sono sconoscente e vile e disperato e pien di vanitate.
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Onde ti vien sì nova crudeltate? Già risomigli, a chi ti vede, um’le, saggia e adorna e accorta e sottile 1. questa donna: sintagma che ritorna ad es. in IX 15, XXVI 13, peraltro previa esplicita designazione (starà qui il bandolo del problema). 2. non sia nemica del: sia amica del (cfr. XV 1, e XIV 1), ossia non in contraddizione col. Variazioni sul tema in XXIV 14, XXXI 30–31. Dante in Madonna, quel signor, 4, applicherà la formula reciproca: «... voi sarete amica di pietate». – cor gentile: gentilezza (condizione d’amore, ossia ‘amore in potenza’, come spiegherà Dante): dove cor ha funzione di sostantivazione dell’attributo (cfr. XI 1), e il sintagma di oggettivazione delle ragioni di pietà (ciò che può spiegare l’estensione della 3ª persona al soggetto della richiesta). Cfr. del resto Dante, Se Lippo amico. 17: «e priego il gentil cor che ’n te riposa» (ossia faccio appello alla tua gentilezza); Cino addirittura: «Io prego, donna mia, Lo cor gentile ch’è nel vostro core». 3. sconoscente: è il prov. desconoissen: «scortese» (Contini), «villano» (Contini, Rime di Dante, son. Non mi poriano, 14); ; oltraggioso. – vile: prive di ‘valore’ (cfr. XXV 9, 15), spregevole (cfr. XXXª 9). 4. disperato: «scellerato» (Contini), come chi si mette ad imprese disperate. – vanitate: ricerca di beni vani (se vi fosse opposizione tra due donne, potrebbe valere ‘incostanza’ – e cfr. Dante, V. N., XXXVII 2, e L’amaro lagrimar, 9). 5. nova: «inaudita» (Contini). – crudeltate: durezza di cuore, resistenza a (inimicizia con) la pietà. 6. Già: «eppure» (Contini). – risomigli: sembri. – umile: benigna, umana (cfr. IV 7, VI 6). La nuova sede «risponde, per contrappunto», a quella dei vv. 3–4 (Contini), senza, ovviamente, precise corrispondenze. Ma «umile» dovrebbe equivalere a ‘non nemica di pietà’. 7. saggia e adorna: per l’accoppiamento di pregi fisici (bellez-
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e fatta a modo di soavitate! L’anima mia dolente e paurosa piange ne [l]i sospir’ che nel cor trova, sì che bagnati di pianti escon fòre.
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Allora par che ne la mente piova za) e morali («saggezza», cui s’aggiungono «accortezza» e «sottigliezza») cfr. III 1, 9–10, dove torna il sintagma «gentil coraggio»; «adornezze, savere...» (e «bel parlare») sono anche, ad es., nella donna di Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 25–26 (Caridi). – accorta: avveduta. – sottile: penetrante, perspicace (cfr. XXII 12). 8. fatta a modo di: conformata a. La soavità in persona (soavitate risponde e si contrappone a crudeltate). Lapo Gianni, Ballata, poi che ti compuose Amore, 20: «vestut’a manto di soavitate» (Caridi). 9. Il verso riecheggia in «Parole mie disfatt’e paurose» di XXXIV 25; ma «paura» s’associa a «dolore» già nella strofa precedente, 18–19, e in XXXV 8. 10. ne [l]i sospir’: più che ‘sui’ sospiri (Contini, Marti, anticipando l’esito di 11), in mezzo ai sospiri che affollano il cuore (sede, s’è visto, dell’anima: per questo ‘groppo’ cfr. in particolare VIII 1–3, IX 1–3, dove torna il «pianto», e 20 per la localizzazione), e che sono l’espressione del dolore di quella (cfr. XXXIII 9–10) e la sua stessa voce (XXVI 18–19). Il tipico senso scenico cavalcantiano fa sì che tale manifestazione si risolva in una sorta d’incontro (per trova cfr. IX 6) e di comunicazione del proprio pianto (si noti l’effetto ‘a perdita d’occhio’ della serie di complementi di luogo). 11. Di qui l’immagine dantesca di Amore bagnato di pianto perché albergante nel viso di madonna in lagrime (Voi che portate, 6). 12. Allora: ad inizio di 2ª terzina come in XVI, XXI, XXXIII, e a segnale del prodursi di un nuovo evento (e quindi come nesso narrativo) come in XXI 12, XXII 7, XXIII 4; e cfr. Dante, Così nel mio parlar, 44 («allor mi surgon ne la mente strida»), e già Donna pietosa, 35, 63 (e la prosa relativa, V. N., XXIII, 6, 8). – par che: si vede (ma è lui che vede, cfr. XXXI 13: ‘mi par di vedere’). – ne la mente: dentro, nello spazio mentale interiore, in cui si consuma quella che non è più una per quanto drammatica manifestazione della donna, ma una sua «figura» o immaginazione (onde il ritorno alla 3ª persona): il pensiero che essa aspetti la sua morte (ovvero, e cfr. XV, una fantasia che essa si dolga della sua morte).
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una figura di donna pensosa che vegna per veder morir lo core.
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– piova: scenda, misteriosamente, di non so dove (cfr. XIV 11, dov’è ancora retto da «par che»). 13. pensosa: afflitta, dolente (proiezione del proprio pensiero? Cfr. XIX 21). 14. Si noti ancora la tecnica ‘analitica’ cavalcantiana, per cui la morte del cuore è spettacolo, e la visione di questo trova (13) una ‘persona’ che l’interpreta.
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XVIII Noi siàn le triste penne isbigotite, le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente, ch’avemo scritte dolorsamente quelle parole che vo’ avete udite.
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Or vi diciàn perché noi siàn partite e siàn venute a voi qui di presente: la man che ci movea dice che sente 1. isbigotite: come la «voce» del congedo della ball. XXXV cit., 37, anche lì con associazione ad altro attributo. Per la coppia triste più dolente (2) cfr. XV 12–13. 2. le cesoiuzze e ’l coltellin: le prime (eccellente ricostruzione, a partire dall’Ercole, su cesouiçe, cose uiçe della tradizione) si uniscono al secondo, designato ‘ab antiquo’, come arnesi per temperare le penne (onde lo zeugma «avemo scritte» del v. 3). La rassegna completa è pure classica; i ‘diminutivi’ fanno parte del lessico (qui ‘familiare’) cavalcantiano. 3. dolorosamente: ‘realizza’ triste e in particolare dolente (con cui è in rima). In clausola di verso anche nell’altra sua occorrenza (XXXI 27). 4. quelle parole: dovrebbero designare uno specifico componimento (è rilevante, con Tanturli, l’opposizione «avete udite» / «Or vi diciàn»), di cui il presente sarebbe accompagnatore (come avverrà col son. Parole mie di Dante; e cfr. qui XXXIV 23), e Contini suggerisce la seguente ball. XIX (che comincia con la «preghiera» di «non disdegnare» d’«udire» la sua «pena»); anche se il tema sembra piuttosto quello degli «ultima verba» (e cfr. ancora la favola d’Eco), de «le dolenti sue parole estreme», anzi di tutte le parole dette e ormai non più pronunciabili. Tuttavia il voi potrebbe anche riferirsi a madonna, destinataria così del lascito del poeta morente; ma la richiesta finale di pietà si addice anche a «indiffinita persona» e alla ricerca, già praticata, di generale compassione. 5–6. Cfr. Il Fiore, XIV 9–10: «Or avén detto tutto nostr’ affare E la cagion perché no’ siàn venute» (Caridi). 6. di presente: adesso (sollecitamente)? o, unito a a voi: in presenza vostra (per cui cfr. IX 54, XX 8, XXVI 5, XXXI 25, XXXV 32)? Marti allegai esempi da Chiaro dell’una e dell’altra accezione. 7. la man: la mano che scriveva può ben essa stessa parlare.
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cose dubbiose nel core apparite;
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le quali hanno destrutto sì costui ed hannol posto sì presso a la morte, ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
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Or vi preghiàn quanto possiàn più forte che non sdegniate di tenerci noi, tanto ch’un poco di pietà vi miri.
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Col tremito? Ma la scena è percorsa da una straordinaria ‘vitalità’ (tre verbi nel solo v. 7 dove dice implica comunicazione, ‘sentimento’ fatto voce – e cfr. XIX 11–14 – ed è ciò che rende possibile la trasmissione dei vv. 5–6). Guido non si pone, come Dante, il problema se le cose inanimate possano o no parlare. 8. dubbiose: paurose (cose ha valore indefinito, ossia di sostantivazione dell’attributo; sicché cose dubbiose potrebbe tradursi, con XII 5, ‘paura’). Il ricordo in «cose dubitose» di Dante, Donna pietosa, 43, è garantito dall’analogo contesto (e vedi il mio commento). – apparite: verbo, in particolare, delle manifestazioni paurose (VI 9, XII 5–8, XXI 12), ossia della materializzazione fantastica di sentimenti o passioni. 9. le quali: il relativo stabilisce la continuità tra paura e realtà. 10. sì presso a la: cioè in punto di. Ma la metafora (o la situazione) rinvia piuttosto all’altra di X 7–8 (e cfr. XIX 4). 11. Cfr. (anche per i vv. 9–10) Ovidio, Met., III 395–401: «... haeret amor crescitque dolore repulsae Et tenuant vigiles corpus miserabile curae... et in aëra sucus Corporis omnis abit. Vox tantum et ossa supersunt; Vox manet; ossa ferunt lapidis traxisse figuram... sonus est qui vivit in illa». Del resto la distinzione delle ‘persone’ della ball. XXXV comporta che il messaggio resti affidato alla ballata e alla «voce... deboletta». 12. Or vi preghiàn: con esatta eco di 5 Or vi diciàn (e cfr. anche la corrispondenza siàn–[pos]siàn: Calenda): gli strumenti non hanno autonomia espressiva, recitano una parte. – quanto possiàn più forte: quanto più (forte al solito ‘molto’) possiamo, con ogni istanza. Cfr. Inf., XV 34, «Quanto posso, ven preco». 13. noi: da leggere probabilmente voi (normale lo scambio u–n nella pratica manoscritta; e metà della tradizione ha Non per Noi al v. 1) in opposizione a costui (ed eventualmente aprendo a XIX i–i); e cfr. 6 (per analoga cadenza, XXXV 34). 14. tanto ch(e): finché (cfr. XII 1–3), in attesa che, sperando
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che. – un poco di pietà: Pietà un poco. – vi miri: vi sia amica (cfr. XV 1), ossia non le siate ‘invisi’; sia con voi. Ma al solito il rapporto è intuitivo e di riconoscimento, come s’è visto al v. 10 per la morte. Si tratta insomma di una formula del tipo ‘vi prenda’, ‘vi tocchi’, integrata dall’idea di un rapporto «facie ad faciem». Si aggiunga che il verbo «mirare» è frequentemente in rapporto con «pietà»: cfr. X 20, XXXIII 12.
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XIX I’ prego voi che di dolor parlate che, per vertute di nova pietate, non disdegniate - la mia pena udire.
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Davante agli occhi miei vegg’io lo core e l’anima dolente che s’ancide, che mor d’un colpo che li diede Amore ed in quel punto che madonna vide.
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1–3. Sugli stessi elementi portanti è costruita la terzina finale di XVIII. 1. di dolor parlate: corrisponde al «ragionar d’amore» dell’altro attacco dantesco «Voi che savete ragionar d’amore». Il passaggio dall’una all’altra ‘esperienza’ s’avrà con Dante tra il congedo di E’ m’incresce di me («... voi giovani donne Ch’avete... la mente d’amor vinta e pensosa» e l’attacco della 1ª canzone della Vita Nuova, «Donne ch’avete intelletto d’amore». 2. per vertute: per effetto. – nova: straordinaria; mai da me ottenuta (visto il frequente «disdegno» di cui a XV 14). Ma nova pietate potrebbe anche valere ‘pena inaudita’. 3. la mia pena: in prolessi rispetto a verbo come di dolor al v. 1. 4. Davante agli occhi miei: drammatizza il sentimento della propria morte (cfr. nota a XVIII 10). Ritorna (con «Dinanzi...» in attacco della sirima del sonetto (disputato tra Dante e Cino) Io sento pianger l’anima nel core, impostato sulle stesse ‘personae’ di questo inizio di strofa. – vegg’io: è naturalmente (legittima) enfatizzazione degli ultimi editori. 5. l’anima dolente: l’identità con «core» è significata da questo attributo solitamente (ma cfr. XVII 9, XX 4) ad esso addetto (cfr. nota a XV 12–13). Così Dante, Venite a intender li sospiri miei, 13. – s’ancide: è uccisa. L’«arditezza teologica» (Contini) della morte dell’anima, prima che al ‘materialsmo’ cavalcantiano, va attribuita (giusta Contini stesso) alla tradizionale simbiosi col cuore, ossia ad uno zeugma fisiologico oltre che sintattico (cfr. VII 1–4, IX 1–4, 20–22, XV 12–13, XVII 9–10, ma anche XX 10–11). 6. che ecc.: relativa esplicativa della precedente. 7. ed: appunto (se, come sospetta Contini, non ci sia corruzione di testo: l’ipotesi continiana – peraltro già antico ritocco sul Palatino 180 – entr’in q. p., col conforto di Dante, Era venuta, 2° co-
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Lo su’ gentile spirito che ride, questi è colui che mi si fa sentire, lo qual mi dice: «E’ ti convien morire» .
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Se voi sentiste come ‘l cor si dole, dentro dal vostro cor voi tremereste: minc., 3, potrebbe fondarsi su mancato scioglimento ovvero perdita di compendi di n e di r, con riduzione di entr a et, come ha il Vaticano lat. 3214, o su trasformazione dei medesimi in ‘asta’ di una d unciale). – vide: può riferirsi ad anima (e core) come ad Amore come ‘autore’ dell’innamoramento, solitamente affacciato agli occhi dell’amante e vedente per lui (e cfr. Dante, V.N., XIV 5). E vedi nota al v. sg.; ma cfr. 19. Per il richiamo a vegg’io del v. 4, la vista di madonna s’identifica con la propria morte. 8. Il suo riso (per la perifrasi, ossia per l’analisi della funzione, cfr. XXII 12; per «gentile» cfr. XXXI 7, e XIII 10 riferito agli occhi di lei; per il riso di madonna, ma rasserenante, cfr. XXIII 5). Ma resta la possibilità di cui già al v. 7, che il soggetto sia Amore, tanto più che questi apparirà ridente nel sonetto di Dante Io mi senti’ svegliar, 6 (con relativa discussione nel cap. XXV della Vita Nuova), e che qui lo «spirito che ride» anche parla due versi dopo (né ciò osterebbe alla prima interpretazione: cfr. IX 37–39). 9. questi è colui che: sottolinea e stacca la prolessi del v. 8, enfatizzando la causa della propria morte, con riscontro in Dante, Volgete li occhi, ossia in un analogo invito a ‘vedere’, 3–4: «... questi è colui Che per le gentil donne altrui martira»; e segue «La sua vertute, ch’ancide sanz’ira» (e cfr. XXI 5. Al solito Cavalcanti risale dagli effetti (4–7) alle cause (8–10). – sentire: forse solo nel senso di ‘udire’ (cfr. 11 e la nota al v. 15), ma parole (10) che suonano morte imminente; ovvero nel riso (di lei?) mi si rende sensibile, ossia avverto, il colpo d’Amore (cfr. 6–7, e 19). 10. E’ ti convien: dovrai (cfr. VIII 6, IX 42, e Dante, Donna pietosa, 34). Il discorso diretto, frequentissimo in fin di strofa di ballata (cfr. X 10–12, 19–20, XXV 17, XXVI 12, 19–20, a parte più ampie ‘sermocinationes’ in XXXª, XXXI e nella canz. IX), ha analoga funzione drammatica del verbo «vedere» di cui al principio della strofa. 11. sentiste: ripresa di sentire del v. 9, ma senza intenzione di ‘coblas capfinidas’. Per l’ipotetica, cfr. VII 13 (e 7). Il voi riprende quello iniziale. – si dole: si lamenta (cfr. di Cino l’attacco di «Se voi udiste la voce dolente De’ miei sospiri...»). 12. dentro dal vostro cor: con partecipazione ‘corale’, sottolineata dalla ripetizione di cor (altri richiami fonici tra 11 dole, 13 dolci attr. di parole con cui ricostituisce do-le, 15 solamente, fino a
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ch’elli mi dice sì dolci parole, che sospirando pietà chiamereste. E solamente voi lo ‘ntendereste: ch’altro cor non poria pensar nè dire quant’è ‘l dolor che mi conven soffrire.
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Lagrime ascendon de la mente mia, sì tosto come questa donna sente, 17 dolor che chiude la strofa su sé stessa). 14. chiamereste: invochereste (ossia esprimereste con parole la vostra pietà, o più semplicemente: vi verrebbe pietà). Il rapporto dolcezza-sospiri è lo stesso che in Dante, Tanto gentile, 10-14, e Vede perfettamente, 14. 15. solamente voi: in quanto intendenti di dolore (e cfr. i vv. sgg. e XXVIIb 53). Si noti che i vv. 13-15 riprendono ordinatamente il tema dei tre versi iniziali: parole richiama parlate, pietà riprende pietate, ’ntendereste ritraduce udire. 16. altro cor: perifrasi affettiva per ‘altri’: con terza occorrenza di cor nella strofa. – non poria pensar né dire: tradizionale formula dell’assoluta ineffabilità. Senza ricorrere ai grandi ‘proemi’ danteschi (Donne ch’avete, Amor che ne la mente mi ragiona ecc.), che sviluppano il modulo, si veda il Notaro, Madonna, dir vo voglio, 20 («cor no lo penseria, né diria lingua»), o Guittone, Se de voi, donna gente, 13-14 («... non pò cor pensare Né lingua devisare...»). 17. mi convien soffrire: clausola identica a quella della strofa precedente (per soffrire ‘sopportare’ cfr. XXXI 10). 18. Lagrime ascendon ecc.: alle prime due strofe, dove la rappresentazione è mediata dai verbi ‘sentiendi’, la terza contrappone la rappresentazione diretta, affidata all’imponenza degli interni eventi (per mente cfr. VI 3). Lo stupendo emergere dal profondo (secondo un percorso analogo ma inverso, a quello di X 13) corrisponde tuttavia a precisi dettati retorici: cfr. Goffredo de Vinsauf, Poetria nova, ed. Faral, vv. 1637-43, dove, a proposito di termini come lacrimae, gemitus, suspiria, si illustra come «sensum verborum nomina dicunt»: «Ex animo veniunt suspiria... In faciem manant lacrimae... Sed festivius istud: Ab imo pectoris erumpunt suspiria... Lacrimas derivat fons oculorum» (ma la fonte del linguaggio è prevalentemente biblica: cfr. in particolare Gen., XLIV 30, «commota fuerant viscera eius... et erumpebant lacrymae»). 19. Cfr. 7 (sì tosto come vale ‘non appena’, ‘subito che’). Il soggetto di sente è qui inequivocabilmente «la mente» del v. precedente.
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che van faccendo per li occhi una via per la qual passa spirito dolente, che [d] entra per li miei sì debilmente ch’oltra non puote color discovrire che ‘l ‘maginar vi si possa finire.
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20. van faccendo: in accezione continuativa: (si) fanno, (si) aprono; o piuttosto compiono (un percorso) (Restoro d’Arezzo, La composizione del mondo, II.5.6, 2: «vedemo ch’elli [il sole] fa una via, ché se move la matina da oriente, e gira entorno entorno»). 21. possa: in senso contrario, dall’esterno all’interno. – spirito dolente: un sentimento di dolore, che è tutto quanto «sente» della donna; ed è per giunta sensazione debole (22), perché il passaggio è ingombrato dalle lagrime, anzi sono proprio queste che fanno sì che il «gentile spirito che ride» (8) si trasformi in, ossia sia sentito come dolore (cfr. del resto XXII 11-12). L’esito è analogo a quello di XVII 9-13. 22. per li miei: l’integrazione congetturale per li [occhi] miei, poi (1966) rifiutata, di Contini, che introduceva una ripresa tipica di Guido (cfr. 11, 12, 16 per cor) e un altrettanto caratteristico richiamo a un luogo precedente (4), e che rispettava la collocazione di gran lunga più frequente nell’endecasillabo di occhi (cfr. V 1, VIII 4, IX 12, XIII 1, XV 9, XVI 10, XIX 4, XXIII 1, XXIV l0, XXV 1, XXVI 1, XIX 4, XXXª 13, 24, 41, XXXI 6), aveva anche il merito d’attenuare, anziché esaltare, la ripetizione: per li miei, unica lezione plausibile (benché ipometra) attestata, di contro agli intollerabili per li rei, per l’aria, implicherebbe l’opposizione ad ‘altri’ occhi, dove in per li occhi miei il possessivo è ridotto ad ovvia designazione. Si rinuncia ugualmente all’integrazione, limitandoci a quella che[d] entra (già Favati ch[ed] e.; o dialefe che entra come in XXIII 13?), nel caso che miei sottintenda spiriti (visivi?): il sentimento (vista) doloroso di madonna si mescola debolmente agli altri consimili miei spiriti, limitandosi a produrre una sensazione indefinita. 23. oltra: da connettere a che consecutivo del v. sg.: tanto che, al punto che. – color: oggetto di discovrire (rivelare, manifestare, rendere percepibile), designa il tratto caratteristico della percezione visiva (cfr. XXV 9): non dà di sé un’immagine sensibile (e si noti l’analogia di questo verso con 16). 24. ’l ’maginar: l’operazione dell’immaginativa, ossia della facoltà che registra e memorizza (cfr. XXVIIb 15-16) le percezioni sensibili (cfr. Dante, Conv., II IX 4). – vi si possa finire: possa essere portato (la forma riflessiva per la passiva: cfr. 5) a compimento
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(Dante parla del «suggellarsi» dell’immagine), arrivi a ‘definirsi’. Le immagini insomma stentano a precisarsi dentro, e la vista della donna si risolve in una confusa sensazione di dolore.
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XX O tu, che porti nelli occhi sovente Amor tenendo tre saette in mano, questo mio spirto che vien di lontano ti raccomanda l’anima dolente,
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la quale ha già feruta nella mente di due saette l’arcier soriano; 1. O tu: apostrofe iniziale seguita da relativa, probabilmente su suggestione ancora dell’«O vos» di Geremia, particolarmente applicata da Cino (e qui cfr. XIII 1). 1-2.porti nelli occhi... Amor: a sua volta con suggestione sull’incipit «Ne li occhi porta la mia donna Amore» di Dante (e vedi già la stanza giovanile Madonna, quel signor che voi portate Ne li occhi); ma qui come carattere non permanente (ossia essenziale) di madonna: sovente si riferirà alle volte in cui l’ha guardata negli occhi e vi ha scorto Amore (insomma: ‘O tu nei cui occhi ho visto spesso Amore’). 2. tenendo: con valore di participio presente (come nel sonetto dantesco A ciascun’alma, 9: «Allegro mi sembrava Amor tenendo Meo core in mano», evidentemente sulla falsariga di questo verso). 3. questo mio spirto: sia il «raccomandato» l’inviato (come superstite) a madonna (e cfr. XXXV 28, e 33-36, dove l’inviata è «quest’anima», con evidente funzione designativa del dimostrativo), dunque complemento oggetto (e l’anima dolente soggetto: con spiegamento dell’‘ordo artificialis’), sia invece l’anima (e cfr. a sua volta il sonetto dantesco O dolci rime, 12-13: «la venuta nostra è per raccomandarvi un che si more»), si tratterà (meglio nel primo caso; e lo confermerebbe il possessivo) di una riinterpretazione dell’«In manus tuas commendo spiritum meum» di Cristo (Luc., XXIII 46), puntualmente ripreso da Dante nell’attacco «Ne le man vostre, gentil donna mia, Raccomando lo spirito che more...». – di lontano: per dire semplicemente che ha lasciato l’anima, ormai perduta. 4. l’anima dolente: cfr. XIX 5, XVII 9 (e XV 12-13). 5. la quale: oggetto (e arciere soriano soggetto). – nella mente: ossia ‘dentro’. 6. di: con (strumentale). – soriano: di Sorìa, Siria (e in particolare Damasco), patria di arcieri (e di archi: Dino Frescobaldi,
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a la terza apre l’arco, ma sì piano che non m’aggiunge essendoti presente:
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perché saria dell’alma la salute, che quasi giace infra le membra, morta di due saette che fan tre ferute:
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Amor, se tu se’vago, 6, ha «arco di Sorìa») famosi: per dire infallibile (e cfr. XXI 7). Onesto, in un sonetto a Bernardo da Bologna, chiamerà Amore «quel dell’arco del Diamasco». 7. a la: per scagliare la. – apre: tende (col che la corda si discosta dall’arco: un esempio nella Cronaca fiorentina del sec. XIII, cod. Laurenziano Gaddiano 77, anno 676, parte inedita). Metonimia, per indicare, rispetto alle prime due frecce già scagliate, il lancio della terza. – piano: debolmente (nel tendere l’arco e quindi nello scagliare la freccia). 8. aggiunge: giunge, coglie, colpisce. – essendoti presente: in tua presenza. Paradossalmente, la lontananza (3) è la condizione della «salute» dell’anima; ma il messaggio inviato a madonna è per dire che questa salute è un desiderio irraggiungibile («lontananza» cioè e «presenza» sono due enti mentali: il poeta è vicino e lontano insieme). 9. salute: letteralmente ‘salvezza’. Nell’ipotesi (ma vedi più sotto) che la terza saetta sia quella disinnamorante (la plumbea d’Ovidio), fuori della presenza della donna potrebbe liberarlo dall’amore. 10. che: riferito all’«alma». – quasi: riferito a morta: ‘come morta’ (ossia ‘uccisa’). – infra: fra (come le membra, spettacolo anch’essa di morte). 11. di: con valore strumentale come al v. 6. – che fan tre ferute: l’evidente «asimmetria» (la peraltro esigua tradizione è concorde, e d’altronde tre si esplicita nei vv. sgg., mentre due sono le saette giunte a segno) come si spiega? Per Contini il ferito «conta solo le saette che hanno già colpito, ma con le ferite inferte quella attesa e salvatrice»; e a questa interpretazione accede in sostanza Marti («... crede di vedere, o di sentire già la terza saetta (e ferita)» ecc.), che tuttavia riconduce il triplice esito al processo da visione della bellezza a interiorizzazione del fantasma a sua sublimazione com’è rappresentato in XXVI 7-12 (dove si conclude con l’apparizione della «salute», e dove al v. 5 si avverte peraltro che ciò avviene «quand’i’ le son presente», mentre qui la presenza di madonna, con turbativa degli spiriti, impedisce il passaggio al terzo grado). Si potrebbe allora intendere più semplicemente che già le prime due saette provochino una ferita in più (e che mette in ombra la
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la prima dà piacere e disconforta, e la seconda disia la vertute della gran gioia che la terza porta.
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seconda), quella della mancata terza saetta e conseguente «gioia», che evidentemente non può consistere nell’azzeramento dell’amore, ma in un suo trascendimento. La dissimmetria cioè è ‘in re’ (e ciò spiega il finale ‘didattico’). Cfr. del resto Il Fiore, 19-14: «La prima [saetta] ha non’ Bieltà: per li occhi il core Mi passò; la seconda, Angelicanza: Quella mi mise sopra gran fredore; La terza Cortesia fu, san’ dottanza; La quarta, Compagnia, che fe’ dolore; La quinta apella l’uon Buona Speranza». 12. e: e nello stesso tempo. – disconforta: sgomenta. è il già ricordato spavento di fronte alla bellezza; ma siamo così già alla sua interiorizzazione, cioè alla seconda ferita. 13. disia: con valore causativo: provoca il desiderio (ossia il sentimento della mancanza) di; o semplicemente: è il desiderio di. – vertute: potere, effetto. 14. porta: suole portare. Da fan del v. 11 Guido sta parlando in termini generali. Ripresa in fine del verbo iniziale.
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XXI O donna mia, non vedestù colui che ‘n su lo core mi tenea la mano quando ti respondea fiochetto e piano per la temeza de li colpi sui?
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E’ fu Amore, che, trovando noi, meco ristette, che venia lontano, 1. vedestù: vedesti tu, con aplologia (e agglutinazione) tipica del parlato, ma adoperata, nonché in prosa (Giamboni, Novellino), anche in rima (cfr. Dante, Se’ tu colui, 7, Donna pietosa, 26, sempre per vedestù). L’interrogazione non vedestù riconduce la rappresentazione ancora al motivo dell’ostensione del proprio dolore e della richiesta di compassione (e cfr. IX 25 sgg.). – colui: Amore come esplicita 5. 2. «In segno di possesso» (Marti). Ma potrebbe trattarsi (Caridi) anche della ‘mia’ mano (ossia, secondo la consueta delega delle funzioni, Amore lo costringe a tenersi la mano sul cuore, con gesto assai più antico di quello del Primo amore leopardiano, v. 57). Oltre la parola-rima, anche tenea trova rispondenza in XX 2. 3. quando: ‘cum inversum’ improprio (e cfr. XXXª 1): la fioca risposta era dovuta alla stretta al cuore. – ti rispondea: 1ª persona, per concorde opinione degli interpreti (e ampia attestazione di quand’io nella tradizione); ma potrebbe anche riferirsi a core. – piano: compl. pred. del soggetto come fiochetto (con tipico ‘diminutivo’ cavalcantiano): debolmente (cfr. XX 7), o piuttosto ‘sommessamente’ in senso etimologico (cfr. XXXV 3)? Sempre in coppia (Marti) in Cavalcanti (cfr., appunto XXXV 3, e Lb 10) e in altri. 4. temenza: cfr. V 8. – suoi: rima guittoniana (e cfr. XXXª 36 e 28). 5. E’ fu Amore: cfr. XXXVI 12. – trovando noi: incontrandoci (cfr. IX 6, e XXII 1); vedendoci insieme; ossia approfittando della presenza di lei. 6. meco ristette: si fermò con me (e cfr. XXII 5); per dire; m’innamorò (ma applicando la tecnica teatrale, e narrativa, delle apparizioni in iscena, degli arrivi e delle soste, cara anche a Dante per es. del son. Io mi senti’ svegliar, qui App. II). – venia lontano: anche qui concordia degli interpreti sulla 1ª persona: ‘venivo di lontano’, con rinvio all’analogo XX 3. Ma ristette che precede
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in guisa d’arcier presto sorïano acconcio sol per uccider altrui. E’ trasse poi de li occhi tuo’ sospiri, i qua’ me saettò nel cor sì forte, ch’i’ mi partì sbigotito fuggendo.
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Allor m’aparve di sicur la Morte, acompagnata di quelli martiri sembra richiedere il soggetto «Amore» (che, vv. 7-8, viene tutto armato per uccidere), ossia il venir da lontano giustifica la fermata. Cfr. ancora XXXVI 3, e XL 4, 6, 9, e lo stesso sonetto sg., 3, 5. In Dante Amore viene «di lontana parte» (anche se in abiti dimessi) in Cavalcando l’altr’ier, 10, «da lungi» appunto in Io mi senti’ svegliar, 3 (per fermarsi, v. 7, col poeta). 7 in guisa d(i): in aspetto di (Dante di Cavalcando l’altr’ier cit., 4, «in abito... di»); o semplicemente: come (per l’identificazione cfr. XX 6). – presto: pronto, agile (cfr. XIII 10). 8. acconcio: più che ‘atto’, varrà ‘armato’, ‘dressed’, ‘equipaggiato’. Amore, killer di professione, non porta con sé che le armi. – altrui: con valore oggetto indefinito (come al v. 14). Si può tradurre semplicemente: ‘per uccidere’. 9. de li occhi tuo’: tradizionale postazione d’Amore (cfr. XX 1-2). – sospiri: lo sguardo di lei fa sospirare, e questi sospiri sono per lui saette. L’ardimento del poeta (se ne animerà Dante in Donna pietosa, 48, per l’immagine «di tristizia saettavan foco») consiste nel bruciare le idee intermedie, e nello stesso tempo nell’interpretare le tradizionali «saette» come sensazioni ‘perçantes’ suscitate direttamente dagli occhi di lei; per cui trasse varrà ‘scagliò’ (come in IX 37, XXXª 24, Lb 8). E cfr. VI 5-6. 10. sì forte: risponde a «sì piano» di XX 7. 11. sbigotito fuggendo: dà colore di fuga sbigottita a «partì’» (il cumulo d’emozioni si riprodurrà in Dante, ma nella prosa della Vita Nuova, XII 2: «m’addormentai come uno pargoletto battuto lagrimando»). 12. Allor: cfr. XVII 12 (e XVI 12). – m’aparve: anche Chiaro, Ahi lasso, in quante guise, 13-14: «veiola in figura Ver’ me venire». La fuga non è salvezza, anzi è la morte stessa. – di sicur: all’improvviso (‘de sine cura’, senza che me ne accorgessi o guardassi). Cfr. Cino, Per una merla, 1-2 («d’intorno al volto Sovravolando di sicur mi venne»). 13. Come per i «sospiri», la facoltà cavalcantiana è quella di dar ‘persona’ e suggestione d’apparizione ai sentimenti e alle con-
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che soglion consumare altru’ piangendo.
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notazioni di essi. Di vale ‘da’. 14. altru(i): cfr. 8. – piangendo: in pianto (cfr. XIII 4). Con analoga ressa di verbi che al v.11.
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XXII Veder poteste, quando v’inscontrai, quel pauroso spirito d’amore lo qual sòl apparir quand’om si more, e ‘n altra guisa non si vede mai.
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Elli mi fu sì presso, ch’i’ pensai ch’ell’ uccidesse lo dolente core: allor si mise nel morto colore 1. poteste: il passaggio dal «tu» al «voi» non implica cambiamento di destinatario (ma dal son. XXIII la donna è sempre nominata in 3ª persona). – inscontrai: scontrai, incontrai (cfr. IX 6, e XXI 5 e nota). 2. quel: anticipa la relativa del v. 3. – pauroso spirito d’amore: è l’amore che si manifesta in forrna di paura (cfr. XXIII 2), come una ‘facoltà’ interiore (e cfr. Dante, «Io mi senti’ svegliar dentro a lo core Un spirito amoroso che dormia»). 3. apparir: vedersi (cfr. 1 e 4). – quand’om si more: quando uno muore (la forma pseudoriflessiva come in IX 56), quando si muore. Ma anche qui il rapporto temporale potrebbe rovesciarsi: è quando si vede il pauroso spirito d’amore che uno muore (e cfr. del resto 7-8), ossia perde le sue facoltà (e cfr. 13-14). In una situazione sconcertante com’è l’amore, non vigono precisi rapporti di causa ed effetto. 4. e ’n altra guisa ecc.: altrimenti ecc. Formula di carattere dimostrativo (conferma negativamente quanto asserito al v. 3), come appare dalla sua ricorrenza in Restoro d’Arezzo (a proposito della necessità che ogni fenomeno abbia il suo opposto), fino all’ultimo capitolo del suo trattato (II.8.24, 3): «e altra guisa non se conosciarea e sarea menore operazione eÿllo mondo». E cfr. XXI 8 (Caridi). – mai: rafforza la negazione (ma si contrappone a quando del v. preced.). 5-6.Cfr. VII 3-4 (e XXI 5-6). Per dolente core cfr. XV 12 (anche per la correlazione con «l’anima trista»del v. 8). 7. si mise: comparve (si affacciò); si vide trasparire (secondo la consueta drammaturgia, l’anima abbandona il cuore morto). – morto colore: colore (per ‘volto’) smorto, di morte (in Dante, Ciò che m’incontra, 5-6, sarà «lo color del core Che tramortendo ovunque pò s’appoia»); pallore mortale (cfr. vv. 6 e 3). Cfr. XXXVI 3,
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l’anima trista per voler trar guai; ma po’ sostenne, quando vide uscire degli occhi vostri un lume di merzede, che porse dentr’ al cor nova dolcezza;
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e quel sottile spirito che vede soccorse gli altri, che credean morire, e IX 25-26. 8. per voler trar guai: per piangere (con voler fraseologico); ma per potrebbe anche avere valore causale: ‘perché voleva piangere’, per il bisogno di piangere (e quindi medesimamente ‘per piangere’): l’anima traspare in lacrime nel volto (smorto). Sono ‘conversione’ degli stessi elementi i vv. 3-4 di IX. A stare a IX 27, «trar guai» (propriamente ‘emettere lamenti’; e cfr. XXXI 28) potrebbe significare una richiesta di mercé (e cfr. 9-10). 9. sostenne: soprassedette; si astenne dal piangere. 10. degli occhi vostri: in corrispondenza con «de li occhi tuo’» di XXI 9. – un lume di merzede: una luce, un raggio o lampo, un’espressione (che m’illumina) d’indulgenza e di compassione. In XXVI 2 sarà «un lume pien di spiriti d’amore» (e la corrispondenza è ribadita dal v. sg.). 11. Cfr. appunto XXVI 3, «che porta uno piacer novo nel core» (porse equivale a «porta»: ‘immise’, ‘infuse’; nova vale ‘mai provata’: Dante avrebbe detto «mirabile», altrimenti «che ’ntender no la pò chi no la prova», e il v. preced. suona «che dà per li occhi una dolcezza al core»). 12. Per dire la vista (nel caso specifico la vista del «lume di merzede»: col che il verbo vedere ricorre per la quarta volta nel sonetto): detto nei termini della definizione stessa della vista in quanto operazione dello «spirito animale» (o «anima sensitiva») e derivazione («sensus proprius») del «sensus communis» secondo Aristotele e il suo divulgatore Alberto Magno (nel De spiritu et respiratione, I II 4), quella in cui detto spirito è «purior et lucidior», o, com’è detto altrove (I X t) «subtilis et clarus», «sottile» come appunto in Guido, penetrante (e cfr. XXV 14). La dottrina aristotelica è didatticamente applicata nella Vita Nuova, II 5. Per la formulazione cfr. XIX 8 (e cfr. XXVIII 14, e XXIV 1). Spirito risponde a spirito del v. 2. 13. soccorse: l’effetto del lume di merzede è insomma di rianimare gli spiriti morenti. Per un effetto analogo cfr. Dante, Spesse fiate, 7-8 («Campami un spirto vivo solamente, E que’ riman per-
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gravati d’angosciosa debolezza.
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ché di voi ragiona», e Vita Nuova, XIV 5-6, 8, dove gli «spiriti del viso» sono gli unici superstiti della «distruzione» degli «altri». – gli altri: non solo gli altri spiriti sensitivi (la cui «morte» equivale alla ‘perdita dei sensi’), ma tutte le facoltà vitali (cfr. ancora Vita Nuova, XIV 5). 14. gravati: oppressi, afflitti, sopraffatti. – angosciosa debolezza: con il solito cumulo passionale. Cfr. XVI 3 (dove «angoscia» è al v. preced.) e XIII 6 (dove «angosciosa» è al v. 3).
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XXIII Io vidi li occhi dove Amor si mise quando mi fece di sé pauroso, che mi guardâr com’io fosse noioso: allora dico che ‘l cor si divise;
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1. Io vidi: dopo i vari «Vedete», «Guardate», «Non vedestù» «Veder poteste», questo fermissimo «Io vidi», che tornerà a risonare, al presente, in XXV 11 e XXVI 1, colloca per così dire tutto il sonetto sotto il segno della ‘rivelazione’, ed ha infatti, vedremo, la massima autorizzazione desiderabile; ma è significativo, nell’àmbito del sistema immaginativo (e vitale) cavalcantiano, che per il momento abbia come oggetto «li occhi...». L’affermazione (e potremmo dire la testimonianza), che ha peraltro il suo precedente prossimo in Vedut’ho la lucente stella diana del primo Guido, è ripresa da Dante (a parte che è il motivo di fondo di Per una ghirlandetta: cfr. vv. 2, 4, 6, 9) per due (complementari) epifanie di madonna, Io mi senti’ svegliar, 9 («io vidi monna Vanna e monna Bice...») e Di donne io vidi appunto, nonché per la proclamazione di beatitudine di Donne ch’avete, 2 8 («Io vidi la speranza de’ beati»). L’ultimo esempio che qui interessi (fra i molti della Commedia) è quello che introduce mediante una similitudine l’apparizione di Beatrice nel Paradiso terrestre (Purg., XXX 22 sgg.). «Vedere» iniziale tornerà comunque per il riconoscimento di Dante poeta (e per l’attestazione di un pieno «intelletto d’amore») di XXXVIIb 1 sgg. – si mise: lo stesso verbo di XXII 7, forse nel medesimo senso di ‘apparve’ (è la tradizionale collocazione d’Amore negli occhi di lei; ma tutto il sonetto ha carattere d’evento e starei per dire d’avvento). 2. quando: anche qui una sorta di ‘cum inversum’ (che dà risalto alla funzione propriamente secondaria): provai paura, quando Amore si mise ecc. (e cfr. difatti XXII 1-2, e XXI 1-7). – mi fece di sé pauroso: mi mise paura, m’impaurì, come in XXII 2. 3. noioso: causa di noia, fastidio; spiacevole, mal gradito (cfr. Chiaro, Donna, ciascun fa canto, 11: «so che noia vi pare [«lo cantare»]»). Ma ha detto com’io fosse (ossia gli sembrò che gli occhi ecc.). La vista di madonna (e di Amore nei suoi occhi) è causa di spavento; lo sguardo di lei crea la sensazione d’indegnità nel guardato (e cfr. 10). 4. dico che: con funzione asseverativa (naturalmente della propria disfatta); a sostegno di allora più volte in Dante, Vita Nuova, XIV 4, XIX 2 («Allora dico che la mia lingua parlò quasi come
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e se non fosse che la donna rise, i’ parlerei di tal guisa doglioso, ch’Amor medesmo ne farei cruccioso, che fe’ lo immaginar che mi conquise.
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Dal ciel si mosse un spirito, in quel punto per sé stessa mossa»), XXIV 2 («Allora dico che mi giunse una immaginazione d’Amore»). – si divise: cfr. IX 39. 5. Riecheggia in Dante, Par., V 97, «E se la stella si cambiò e rise» (che conferma l’interpretazione ‘istantanea’ del fatto). «Che la donna rise» corrisponde a «che ’l cor si divise» del v. 4, così come «di tal guisa doglioso» del v. sg. a «com’io fosse noioso» del v. 3, e così specularmente le clausole di tutti i versi delle due quartine. La specularità si riproduce nello schema delle rime (e non solo in questo) delle terzine. Per l’attacco, e l’apodosi al condizionale (e «Amor... farei»!) cfr. XI 7-8. 6. Esprimerei tale dolore (di tal guisa anticipa la consecutiva del v. 7), ‘parlerei dolore’ (o ‘in dolore’), come altra volta ha detto (rispettivam. XIII 8 e VI 13). Doglioso equivale al più frequente «dolente» (come doglia a «dolore»). 7. Cfr. XI 8; e Iacopo Mostacci, A pena pare, 65; «ch’a Fino [o leggi «fino» avv.?] Amor ne fari’ adisplacere». Medesmo vale appunto ‘perfino’ (cfr. Contini, P. D., II 472, a Guinizelli, Io vogli? del ver, 8). – cruccioso: afflitto, o, con Contini, «turbato» (verso di lei?). 8. fe’: con immediata ripresa di farei del v. preced., ma più propriamente con richiamo a fece del v. 2. Ciò che conferma il rovesciamento sintattico ivi segnalato. – lo immaginar: l’immagine (di Amore negli occhi di lei, cfr. 1; ma impressa nell’‘immaginativa’: cfr. XIX 24). – mi conquise: può tradursi col «mi [«ci»] vinse» di Inf., V 132. Corrisponde a «mi fece di sé pauroso» del v. 2 (fece è passato alla formulazione corrispondente al v. 1). 9-11. Stupenda appropriazione della visione della discesa dello Spirito nel battesimo di Cristo secondo Ioan., I 32 (da cui anche il «vidi» dell’incipit): «Quia vidi spiritum descendentem quasi columbam de coelo, et mansit super eum» (dove il «quasi columbam» spiega posar del v. 11); a significare il proprio ‘battesimo’ o investitura d’amore (la voce del Padre, ma secondo Matteo, III 17, e gli altri evangelisti, «Hic est filius meus dilectus» ecc., potrebbe corrispondere alla «verità» del v. 12, e «spiritus veritatis», «qui a Patre procedit» e «testimonium perhibebit de me [Christo]», è ancora in Ioan., XV 26 e XIV 17: Guido in realtà – lo
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che quella donna mi degnò guardare, e vennesi a posar nel mio pensero:
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elli mi conta sì d’Amor lo vero, che ogni sua virtù veder mi pare sì com’io fosse nello suo cor giunto.
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«spirito» si posa «nel suo pensero» – è d’Amore che sta rendendo testimonianza: «Et testimonium perhibuit Ioannes dicens: Quia vidi...» ecc.); e l’amministratrice del sacramento non sarà proprio Giovanna, con anticipazione dell’identificazione dantesca di V.N., XXIV? Il superamento rispetto alla conversione del «pauroso spirito d’amore» in «lume di merzede» del sonetto precedente è clamante. Gran parte del v. 9 riecheggia in XXVIII 3; ma la vera eco è nei vv. 41 sgg. della 2ª canzone del Convivio, «Quivi dov’ella parla, si dichina Uno spirto da ciel, che reca fede...». 9. in quel punto ecc.: altra conferma dell’‘istantaneità’ di rise del v. g. E cfr. XIX 7. 10. mi degnò guardare: degnò guardarmi, si degnò di guardarmi, mi degnò del suo sguardo. Risponde al v. 3. Ciò esclude da una parte che la donna l’abbia effettivamente avuto ‘a noia’, dall’altra che quello della donna sia un sorriso semplicemente «di simpatia, o di pietà» (Marti); meno che mai il «gabbarsi» di Beatrice per lo smarrimento di Dante in V. N. XIV. 12. E quello che Dante chiamerà (per ispirazione d’Amore: V.N., XIX 2) «intelletto d’amore». Un’eco del verso in XXXIII 7. 13. sua: riferito alla donna, come suo del v. sg. (e veder richiama a «vidi» del v. 1, veder mi pare al corrispondente sintagma di XXVI 7). L’idea conseguente a questa ‘intelligenza d’amore’ sarebbe dunque quella dantesca della «lode», qui non assurta ancora a ‘poetica’. Mala corrispondenza di «ogni sua virtù veder» con XXXVIIb 1-2 tenterebbe a riferire il possessivo ad Amore. «Nello suo cor giunto» del v. 14 significherebbe non la conoscenza intima del suo ‘valore’ (non comunque ‘esserle a cuore’), ma essere entrato a parte del segreto stesso dell’amore.
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XXIV Un amoroso sguardo spiritale m’ha renovato Amor, tanto piacente ch’assa’ più che non sòl ora m’assale 1. Un amoroso sguardo spiritale: la più corretta traduzione (e coerente cogli enunciati delle rime prossime) è, applicando.la dottrina delle ‘conversiones’, ‘uno spirito d’amore (visibile) nello sguardo (di lei)’: quello che al v. 9 sarà interpretato, in termini ‘affettivi’, come «dolce sguardo» (Monte Andrea, Senno e valore, 12, riunisce le due connotazioni in «dolze sguardo ed amoroso») e che al v. 11 produce «uno spirito di gioia». Cfr. XXII 2, XXIII 1 (e 9-10), e XXVI 1-2, dov’è rappresentato come «un lume pien di spiriti d’amore» (con quel che segue). Già il Di Benedetto interpretava spiritale «in forma di spirito» («con atto di spirito cocente» dirà Dante nella ballata per Violetta). Certamente presente alla memoria l’attacco della canzone di Pier delle Vigne (e lo confermano certi ritorni di parole a cominciare da piacente al v. 2) Uno piasente isguardo (che séguita «coralemente [cfr. 4] m’ha feruto, Und’eo d’amore sentomi infiammato; Ed è stato uno dardo Pungent’è forte acuto [cfr. IX 37-38] Che mi passao lo core e m’ha ’ntamato [cfr. 10, e ancora IX 39]». 2. m’ha renovato amor: si ritiene concordemente «amor» soggetto, ‘autore’ dunque ovvero ‘movitore’ di questa nuova occhiata. Il passo parallelo (con il solito ‘ripensamento’ o ‘passo indietro’) dei vv. 9-11, e lo stesso «più che non sòl» del v. 3, suggeriscono che sia oggetto, e renovato (per cui cfr. anche I 7) valga ‘risvegliato’ (cfr. del resto l’analogo concetto nel Notaro, Or come pote, 13, «Rinovellare mi voglio d’amore» e in Giacomino Pugliese, Venuto m’è in talento, 2 «di gioia mi rinovare»); e cfr. XIII 2, XL 1-2 (m(i) vale ’in me’). Ben altro che allusione ad una nuova circostanza (meno che mai ad un nuovo amore, di cui non c’è alcuna necessità), è una situazione non troppo distante da quella rappresentata in XXIII 9-12. Ma soprattutto si confronti (anche per piacente) il séguito dell’attacco cit. di XXVI (3): «che porta uno piacer novo nel core» ecc. – piacente: ‘pieno di piacere’ (cfr. II 6), riferibile ora così a sguardo come ad amor: nel senso di «che piace sì al core» di XXV 2. 3. assa’ più che non sòl: più che mai (sòl, al solito, tanto più contrapposto ad «ora», ha valore d’imperfetto: cfr. VII 4, in analogo contesto). Ma come renovato esprime più che altro un sentimento più vivo d’amore (e cfr. 4 coralemente), così assa’ più ecc.
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e stringem’ a pensar coralemente
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della mia donna, verso cu’ non vale merzede né pietà né star soffrente, ha valore essenzialmente di superlativo. Anche l’«assale subitanamente», detto d’Amore, del sonetto dantesco. Spesse fiate, 5, allude a un soprassalto dell’eros (e si tratta di una delle «cose» ancora «non manifestate» circa il proprio «stato» nei capitoli precedenti della Vita Nuova: quello che restava in vita in Dante in séguito a tale «assalto» non era «se non un pensero che parlava di questa donna»!). 4. stringem(i): mi costringe, irresistibilmente m’induce. – coralemente: nel profondo del cuore, con tutto il cuore; profondamente. L’avverbio, d’origine provenzale, ritorna in XLI 7. Con stringere già nel Notaio, Madonna, dir vo voglio, 22-23 («eo ne son distretto Tanto coralemente»), nella risposta dell’Abate di Tiboli a lui Qual om riprende altru’, 5 («s’Amor vi stringesse coralmente»), in Rinaldo d’Aquino, In amoroso pensare, 6-8 («vostr’amore... coralmente Mi distringe e mi tiene»), in Dante da Maiano, Rimembrivi oramai, 10 («Amor mi stringe sì coralemente») (Caridi). 5. della mia donna: isometrico di «coralemente» (evidentemente commisurato all’oggetto così come al sentimento motore «tanto piacente»). – verso cu’: nei confronti della quale: per cui «merzede» e «pietà» sgg., quasi sinonimi («merzé» significherà piuttosto «grazia» [Marti], ‘indulgenza’), esprimono «qualità astratte» (Contini, P. D., I 164, a proposito dell’incipit del Notaio, qui ricalcato, «Poi non mi val merzé né ben servire Inver’ mia donna» e del parallelismo «irrazionale» con «un’azione dell’amante», qui «star soffrente»; e cfr. Dante da Maiano, Amor mi fa, 10-12: «... ’nverso Amor non val... Mai che merzede ed esser sofferente»). Più coerente Paganino da Serezana, Contra lo meo volere, 46-47 «Dunqua vostro valore E mercede mi vaglia». Il passo fu imitato nella canzone attribuita a Cino Deo, po’ m’hai degnato, 20-24: «ché mercé non mi vale, Né pietà per amore, Né l’amorosa fede Né soffrezza di male Ched io porti a tutt’ore»; e Lapo Gianni, Angelica figura, 33 semplicemente, «Merzé non mi vale». I due primi termini ritornano rispettivamente in 12 e 14 (e «soffrente» si ritrova in «pena» del v. sg.). – vale: «ha efficacia» (Contini); m’è d’aiuto. 6. star soffrente: sopportare con pazienza; star soggetto. Per la perifrasi col participio presente (più diffusa col verbo essere – ma cfr. il prov. estar suffrentz) cfr. Guittone, Amor tanto altamente, 84-86: «so’ vago... distarle servente, Tacitore e soffrente».
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ché soventora mi dà pena tale, che ‘n poca parte il mi’ cor vita sente.
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Ma quando sento che sì dolce sguardo dentro degli occhi mi passò al core e posevi uno spirito di gioia,
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di farne a lei mercé, di ciò non tardo: cos’ pregata foss’ella d’Amore 7. ché: dichiarativo (‘nam’). – soventora: sovente, da intendersi composto come «spess’ora» (Cino ha due volte spess’ore in rima, Guinizelli, Ch’eo cor avesse, 5, subitore) sul modello di «ogn’ora», «tutt’ora». – mi dà: il soggetto sarà verosimilmente ancora quello del v. 4, cioè «amore». 8. ’n poca parte: gran parte del cuore essendo occupata da «’l contrario de la vita» (Dante, Chi guarderà, 13) o, con Guido, «guerra» (cfr. XI 6). E cfr. XXXII 7. Per dire che ‘sente poca vita’. La locuzione sopravvive nel tosc. ‘il discorso sta in poco posto’, per dire: è breve. 9. quando: il rapporto è più logico (‘dal momento che’, ‘poiché’) che temporale (e cfr. «Ma», e la ripresa del verbo «sentire» da fronte a sirima), analogo a quello di XXII 9. Il pensiero di madonna suscitato da Amore è sentimento di morte; ma quell’amoroso sguardo ha riempito il vuoto della vita con uno «spirito di gioia» (le considerazioni dei vv. 5-8 potrebbero tuttavia riferirsi ad uno stato per così dire normale, non eccezionale: nel qual caso quando avrà valore senz’altro temporale). – dolce sguardo: come in XXIX 9. 10. d’entro degli: attraverso i (miei): cfr. XIII 1. Lo sguardo, c’insegna Dante (Conv., II IX 4-5), è sguardo di sguardo, o per così dire ‘a nullo sguardato sguardar perdona’, ed è per tale filo che passa la corrente d’amore. – passò: cfr. IX 39. 11. uno spirito di gioia: tradurre, com’è lecito, con ‘gioia [d’amore]’ semplicemente è venir meno all’operazione dello «spirito d’amore» lungo tutto il sonetto (e dal v. 1). Cfr. XXIII 9-11, e XXVI 4, dove «allegrezza» è interpretata come «d’allegrezza vita». 12. farne a lei mercé: rendergliene grazie, ringraziarnela. – di ciò: ripresa della proposizione prolettica che precede (cfr. III 9). – non tardo: mi affretto. Ha valore enfatico: per dire ‘con trasporto’ e simili. 13. così: augurativo. Cfr. Guinizelli, Vedut’ho, 12, «Così conoscess’ella i miei disiri» (che termina con l’auspicio della «pietà»). –
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ch’un poco di pietà no i fosse noia!
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pregata... d’Amore: Amore (d’Amore è compl. d’agente) intercedesse per lui, operasse cioè (ma come suddito verso signore) in lei così come in lui (Amore, si noti, al penultimo come al secondo verso). 14. Cfr. XVII 1-2. E per «un poco di pietà» (con corrispondenza nell’ultimo verso della fronte), XVIII 14. – ch(e): dipende da 13 pregata. – i: pronome atono di 3ª persona al dativo, riduzione di ei (lat. EI), in poesia, dopo vocale, con guadagno d’una sillaba. – fosse noia: fosse causa di noia, fosse fastidio; fosse a sdegno (e cfr. XXIII 3 e 10).
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XXV Posso degli occhi miei novella dire, la qual è tale che piace sì al core che di dolcezza ne sospir’ Amore.
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Questo novo plager che ‘l meo cor sente 1. degli occhi miei: di ciò che hanno visto, o meglio del loro privilegio, della grazia toccatagli (meglio dunque che da dire, dipende da dire novella). – novella dire: Contini esattamente: «dire cosa» (ossia ‘cosa tale’, ‘cosa senza pari, indicibile’, ‘meraviglia’), anche se poi rinvia a «non sai novella» di Dante, Donna pietosa, 55 (Marti addirittura «notizia» rinviando a XXXV 7 «novelle di sospiri», ma traducendo dire con «rivelare»). Semmai: ‘dare un annunzio straordinario’; alla luce di quanto segue, si direbbe: ‘la buona novella’ (Caridi). Cfr. del resto XXVI 5 «Cosa m’aver...»; e si noti anche che Posso... dire sembra riprodurre la formula (la certezza) delle definizioni e dimostrazioni dottrinali (e cfr. Dante, Amor che ne la mente, 48, «Di costei si può dire...», 51, «E puossi dir...»). E dire è la prima rima di XXVIIb (e amore la terza). 2-3. la qual è tale che... sì... che...: l’analiticità in funzione d’elevazione a potenza, come creando vari gradi d’accesso. 2. al core: tipica determinazione della soggettività (sin da V 8; e cfr. in particolare IX 35, XXII 11, XXIV 8, XXXII 5, XXXVI 2, e lo stesso XXVI 3), come ai vv. 4, 7. 3. Esatto corrispondente, cambiato di segno, di XI 8 «fare’ne di pietà pianger Amore» (precede «gioco», come qui «piace»). «Novità» e «dolcezza» son già legati in XXII 11. Per il nesso amore-dolcezzasospiro cfr. Dante, Vede perfettamente, 14, «che non sospiri in dolcezza d’amore», poi spiegato nell’intera sirima di Tanto gentile («Mostrasi sì piacente[!] a chi la mira, Che dà per li occhi [!] una dolcezza al core, Che ’ntender no la può chi no la prova: E par che de la sua labbia si mova Un spirito soave pien d’amore, Che va dicendo all’anima: Sospira»). 4-5.I versi sono costruiti sull’identico modello di XXXª 23-24 (Caridi); e «di troppo valore» è recuperato in fin di strofa. 4. novo plager: riassume 1-2 (la forma plager con ulteriore accostamento, rispetto a IV 9, al prov. plazer); e ritorna in XXVI 3. Si oppone a X 5, di cui questo verso riprende vagamente lo schema. – che ’l meo cor sente: perifrasi attualizzante (integra Questo) includente la perifrasi ‘oggettiva’ meo cor per ‘io’ (cfr. XVI 2, XXXª 10).
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fu tratto sol d’una donna veduta, la qual è sì gentil e avenente e tanta adorna, che ‘l cor la saluta. Non è la sua biltate canosciuta da gente vile, ché lo suo colore chiama intelletto di troppo valore.
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5. fu tratto: deriva; è opera. – sol d’una donna veduta: solo dalla vista d’una donna (con normale ‘conversio’), dal solo vedere una donna (cfr. XXVIIb 21): con asserzione d’autosufficienza della contemplazione e di disinteresse ‘stilnovistico’ (spesseggiano i richiami allo «stile della lode» dantesco) che tuttavia nell’ultima strofa, di contro all’‘oggettività’ dei primi 17 versi, dove di soggettivo non c’è che il momento del «dire», aspira all’integrazione con una vista di pietà (l’ipotesi stilnovistica fa fatica ad affermarsi attraverso l’esperienza della passione, che le prime due strofe cercano di superare in un’estrema tensione). E l’accento è soprattutto sugli aspetti visibili della bellezza (cfr. i vv. 6-7, riassunti in 8 biltate). 6-7.la qual ecc.: riprende e sviluppa il modello di 2. – sì gentil e avenente E tanta adorna: l’unione di gentilezza (nobiltà, eccellenza morale) e bellezza (per adorna cfr. I 29, XVII 7, nonché IX 16; avenente, che torna in XXXIX 5 e nella canzone sotto citata di Guinizelli, v. 20, e ancor vivo, è squisito gallicismo) è proclamata in III 9-10 (anche lì con analogo trìcolon), e indirettamente in IV 10-11, ed ha comunque il suo diretto precedente in Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 25-27 («... ’n lei èno adornezze, Gentilezze, savere e bel parlare, E sovrane bellezze»), e «adorna e sì gentile» è in Io vogli? del ver, 9 (Caridi). Alla celebrazione sono essenziali gli avverbi sì... tanta (concordato questo con l’aggettivo secondo un uso arcaico superstite nel parlato – ma potrebbe trattarsi d’anticipazione grafica dell’iniziale dell’aggettivo), con chiaro riflesso nella pratica dantesca (e cfr. al v. 12 «tanto gentile»). 7. saluta: Contini ancora esattamente «benedice» (una specie di ‘salutatio angelica’? Al v. 1 s’è parlato d’annuncio e di ‘buona novella’). Torna in rima (ma con significato e rapporto rovesciati) in X 7; ma la rima veduta : saluta richiama ancora l’incipit dantesco «Vede perfettamente onne salute» (oltre che riecheggia, benché non peregrina, in Amor che ne la mente, 31 : 33, in un’aura, fra l’altro, di sospiri d’amore). 8-10. Fortissimo il richiamo (a cominciare dalla ferma negazione, e partendo questa volta dall’oggetto: ma cfr. IV 9) a IV 1214 (canosciuta riunisce canoscenza e la rima in -ute). Ancora una volta la sola (cfr. 5) beltà è conoscenza irraggiungibile (non ne è penetrabile l’essenza) per «gente vile» (e cfr. XXVIIb 6-7, XXVIII
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Io veggio che negli occhi suoi risplende una vertù d’amor tanto gentile, ch’ogni dolce piacer vi si comprende; 5), poiché «lo suo colore», ossia già la sua fisica percepibilità (cfr. XIX 23, e qui «veduta») esige, richiede (per chiamare per ‘chiedere’ cfr. «chiamar pietà») intelletto di valore (ossia potenza) non comune. Qui cioè, non per particolare turbamento psicologico come in XIX 18 sgg., ma per oggettiva inferiorità conoscitiva di chi non sia dotato di pari valore (e sembra, v. 15, che la di lei gentilezza produca, quasi per contrasto, «viltà»), la bellezza visibile resta inintelligibile: impossibilità che la canzone XXVIIb tornerà a riferire alla condizione stessa d’amore, l’intellezione avvenendo in una sfera estranea alla passione. Il motivo di questi vv. 8-10 è ripreso e svolto (cfr. Gorni, Altre note sulla ballata cit., p. 88) nella ballata dantesca I’ mi son pargoletta, 15-17, «le quai [bellezze, «al mondo nove» al v. 13] non posson esser canosciute Se non da canoscenza d’omo in cui Amor si metta per piacere altrui», con evidente ‘conflatio’ dei due passi cavalcantiani accostati, e dove il «valore» s’esplicita come d’amore (e cfr. qui v. 12). 11-17. Quello che è vero della bellezza esteriore, è vero della bellezza interiore che in essa «risplende». Tramite della prima, «gli occhi miei» (1), della seconda «gli occhi suoi», specchio dell’anima; ma domina l’attacco della strofa «Io veggio» (con riflesso in XXVI 1). 11. risplende: termine proprio: la luce degli occhi è riflesso della virtù interiore (cfr. XXVI 1-2, dove il v. 2 traduce «una vertù d’amor» in termini visibili). Ritorna appunto, ma con opposta attribuzione, in XXVIIb 26. Qui, trattandosi di splendore degli occhi di lei, identifica il «diletto» (esclusa dunque, ma non assolutamente, la «conoscenza», questo resta l’àmbito proprio dell’amore, a norma d’altronde della distinzione di XXVII 27). 12. vertù: anche qui in senso proprio, filosofico: potenza, virtualità; potere innamorante. – tanto gentile: formula dunque cavalcantiana prima che dantesca: cfr. IX 19, XXXl 21 (e qui v. 6). 13. vi si comprende: vi è racchiuso; racchiude. Vi si «vedono tutti li termini de la beatitudine», avrebbe detto Dante (cfr. Vita Nuova, III 1), e nel sonetto sopra cit., «onne salute»; o con lo stesso Guido, «onne valore E tutto gioco e quanto ben om sente» (XXXVIIb 1-2); e cfr. 11 «Io veggio». Dolce detto di piacere è in evidente riferimento ad «amore»; ma il rapporto gentile-piacere è come sottolineato da Dante in V.N., XXVI (il capitolo dei sonetti Tanto gentile e Vede perfettamente) 3: «ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave...», dove torna anche il verbo comprendere, che qui dunque potrebbe anche significare
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e move a loro un’anima sottile, respetto della quale ogn’altra è vile: e non si pò di lei giudicar fòre altro che dir: «Quest’ è novo splendor» .
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‘concepire’ (di contro all’inconcepibilità sopra affermata della bellezza di lei). Il richiamo interno è ancora ai vv. 2 -3. 14. un’anima sottile: soggetto: non «spirito» (Contini, Marti, Ciccuto), essendo questo ‘funzione’ dell’«anima», e non dovendosi ammettere in genere metonimia; ma, letteralmente, ‘anima’ (Tanturli). L’anima di lei «move a loro», compare, s’affaccia negli occhi, traluce in quello splendore; un(a) in funzione indeterminante (mai vista) come già per «una donna» del v. 5, e come in Donne ch’avete, 18 («... nel mondo si vede Maraviglia ne l’atto che procede D’un’anima che ’nfin qua su risplende»); sottile perché, come dice sùbito, inconoscibile (quindi in accezione intellettuale), altro dunque dal «sottile spirito che vede» di XXII 12, e così dallo «spirito sottile» di XXVIII 1 (penetrante, spirito-saetta). Il migliore interprete è ancora Dante, Quantunque volte, 20-26 (cfr. in particolare 25 «lo intelletto loro [degli angeli] alto sottile» e 20-22 «’l piacere de la sua bieltate... Divenne spirital bellezza grande»), dove al v. 24 compare anche in rima saluta (‘beatifica’), e addirittura «luce d’amor» espansione di quella «spirital bellezza». Se sottile lì è ‘penetrativo’ (cfr. il mio commento a V.N., XXXIII 8), qui vale irraggiungibile a umana penetrazione, ‘sublime’. 15. respetto della: al confronto della (con formula avverbiale assoluta, ossia senza preposizione, come per es. in Restoro altra guisa per in altra guisa; la e protonica serbata per latinismo). – ogn’altra: ogni altra anima: d’ogni altra donna (si tornerebbe dunque al concetto di III 11, IV 8), ovvero di chiunque, «vile» alludendo perciò (con anticipo di 16-17) all’impossibilità della conoscenza (cfr. IV 12-14). 16. non si pò ecc.: conclusione negativa come per la strofa precedente e per il son. IV, qui formulata in opposizione all’attacco. – giudicar: ‘iudicium’ come atto di conoscenza. 16-17. fòre Altro che: sovrapposizione (Contini: «accumulo») delle due locuzioni fòre che e altro che. 17. La conoscenza limitandosi a ciò che dell’anima è riflesso (tanto che il Di Benedetto integrò dapprima f[i]ore ‘punto’; ma siamo nell’ordine degli effetti del v. 2), ossia riducendosi a testimonianza ed esclamazione. Si ritorna, vinti, al v. 11 (anche per l’evidenza della parola in rima). è netta la corrispondenza 4 «novo plager» - 17 «novo splendore» (ma anche con 10 «troppo valore»). – dir ecc.: tipica drammatizzazione (cfr. ad es. VII 8); ma si tratta soprattutto di sfruttamento enfatico della ‘sermocinatio’ (e
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Va’, ballatetta, e la mia donna trova, e tanto li domanda di merzede, che gli occhi di pietà verso te mova per quei che ‘n lei ha tutta la sua fede; e s’ella questa grazia ti concede, mandi una voce d’allegrezza fòre, che mostri quella che t’ha fatto onore.
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cfr. XXVI 12, 19-20). 18-24. Resa psicologica (o allentamento di tensione) di fronte all’inarrivabile? Ogni conoscenza essendo interdetta, si ricorre a più modesti strumenti umani. 18. ballatetta: come, affettuosamente, altre volte (XXXª 45 e ripetutamente XXXV). – trova: preséntati a. Cfr. l’incipit dantesco «Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore». 19. tanto: lat. ‘tantum’: «solo questo» (Contini). – di merzede: può valere ‘di grazia’ o come semplice partitivo secondoché tanto sia avverbio o pronome. 20. gli occhi: richiesti ora di una funzione più accessibile. – di pietà: con valore causale, ‘per la pietà’, ‘pietosamente’; o anche semplicemente attributo di occhi: ‘pietosi’. Si noti l’immediato richiamo «merzede»-«pietà». 21. per: in favore di. – ’n lei ha ecc.: dichiarazione insolita in Cavalcanti (ma cfr. XIV 2, dove torna la rima merzede : fede) di ‘fedeltà’ d’amore (ma si tratta più propriamente di «fede in lei», con terminologia teologica; e cfr. grazia al v. sg.). 23. mandi: congiuntivo per l’imperativo ‘manda’ (cfr. XLIVª 14), ovvero errore d’archetipo (con riferimento a ella e forse attrazione di mostri del v. sg.), quando la voce non può essere che della ballata? – voce: grido, ma anch’esso con carattere d’annuncio (torna in XXVI 14). – fòre: da collegare a mandi. 24. quella che: che quella. Cfr. XI 6. – onore: benigna accoglienza. Cfr. XXXV 6 (e la ballata di Dante cit. a v. 18, vv. 14 e 44).
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XXVI Veggio negli occhi de la donna mia un lume pien di spiriti d’amore, che porta uno piacer novo nel core, sì che vi desta d’allegrezza vita.
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1. Veggio: per l’attacco cfr. (oltre XXV 11) XXIII 1. L’intera proposizione iniziale, fino alla relativa del v. 3, impronta l’attacco della seconda canzone ‘degli occhi’ di Petrarca (LXXII): «Gentil madonna, i’ veggio Nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume Che mi mostra la via ch’al ciel conduce» (Branca), con inclusione dello stesso finale, e dove al v. 11, per il tema dell’ineffabilità, è l’unico caso certo in Petrarca di «contare» nel senso di ‘dire’, ‘esprimere’ (come qui al v. 16). 2. ‘Variante’ di XXV 12: la «virtù d’amore», tralucente nello «sguardo luminoso» (Contini), si manifesta in animazione di spiriti (onde forse il v. 4 «spirti d’amore infiammati» escono dagli occhi della donna nella canzone dantesca Donne ch’avete, 52). Per lume cfr. XXII 10, ma soprattutto Dante, «De li occhi de la mia donna si move Un lume sì gentil» («che dove appare Si veggion cose ch’om non pò ritrare Per loro altezza e per lor esser nove»), in evidente dipendenza da questo attacco (per quanto è possibile stabilire in questi casi un prima e un poi), e con interferenza di XXV 12. Ancora è ‘conversio’ di questo verso (e del v. 11) il penultimo di Tanto gentile, «e par che de la sua labbia si mova Un spirito soave pien d’amore». 3. Cfr. (anche per il significato di novo), oltre XXV 2, 4 (e 13), anche XXII 11 (con esteso riecheggiamento: dolcezza risuona un verso più avanti in allegrezza; e Dante raccoglierà il tutto ancora in Tanto gentile, 10-11, «che dà per li occhi una dolcezza al core Che ’ntender no la può chi no la prova», e al v. 9 è «piacente»). 4. d’allegrezza vita: una vita, un’animazione e cfr. desta) d’allegrezza (ma si consideri l’importanza di questa parola vita, con connotazione insolitamente positiva, di contro alla generale prospettiva di morte e alla connotazione normalmente negativa o riduttiva, VII 8, VIII 9, XI 6, XXIV 8, XXVII b 40, XXXIV 4, XXXV 18, XXXVI 11, o «angosciosa» e simili, XIII 3, XVI 6, XXXII 33, XXXIII 13, XLI 9, o addirittura «di morte», XXXII 1); se d’allegrezza non ha valore causale o mediale (ossia: ‘sì che mi ravviva per l’allegrezza’), o vita non ha funzione attualizzante (una viva allegrezza, o meglio allegrezza in me). E cfr. XXV 23 (dove allegrezza ha l’identica posizione).
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Cosa m’aven, quand’ i’ le son presente, ch’i’ non la posso a lo ‘ntelletto dire: veder mi par de la sua labbia uscire una sì bella donna, che la mente
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5. Cosa: con valore indefinito e d’indicibilità, esaltato dalla posizione eminente: ‘tal cosa’, ‘un tal prodigio’. Riecheggia in Dante, Amor che ne la mente, 55: «Cose appariscon ne lo suo aspetto...» (dove cose vale ‘mirabilia’). – quand’i’ ecc.: alla sua presenza (cfr. IX 54, XXXI 25, XXXV 32). Anche qui quando ha molto tenue valore temporale, e corrisponde al Là dove del v. 13, che è il reciproco di questo. 6. ch(e)... la: il solito anacoluto (relativo più pron. dimostrativo: ‘m’avviene cosa che non posso’ ecc., esattamente come in Tanto gentile, 11). Per la formula negativa cfr. ancora XXV 16-17, e qui sùbito il v. 9. – a lo ’ntelletto dire: esprimere, ossia tradurre in termini intelligibili a me stesso (quel che noi diremmo: non so che cosa m’avviene). E infatti quello che gli avviene, ossia la manifestazione alla sua mente della bellezza, è rappresentato da una serie d’‘apparizioni’ o ‘messe a fuoco’, dove «mi par» (7), «par che» (11, 15) significano l’indeterminatezza del fenomeno e il tentativo di renderlo percepibile per approssimazione (così come del resto aveva fatto in altri termini ai vv. 1-2). Cfr. IX 18; intelletto è anche in XXV 10. 7. Anche questo verso è ripreso da Dante, Tanto gentile, 12, «par che de la sua labbia si mova» (dove l’espressione dell’evidenza par che serba ancora l’indeterminatezza del modello). – labbia: è il latino (soprattutto biblico) LABIA neutro plur. (come foglia da FOLIA), per sineddoche ‘volto’, fisonomia (essendo la bellezza anzitutto del volto). Qui significa l’aspetto visibile di lei, l’oggetto insomma della visione (la «veduta forma» di XXVIIb 21). 8. uscire Una sì bella donna: traduce in figura concreta (in evento scenico) il ‘processo’ d’estrazione, dal visibile, della visibilità, nella fattispecie l’atto di apprensione (non più sensibile, ma nell’‘immaginativa’: cfr. XIX 24) della bellezza (peraltro dichiarata incomprensibile), appunto separando (facendo «uscire»: Ficino dirà «riluce») dalla donna la sua bellezza (perché specifica, definita come «donna»; Dante, più drammaticamente, ma anche più astrattamente, in E’ m’incresce di me, 80-81: «qui giugnerà, in vece D’una ch’io vidi, la bella figura»): ciò che comunemente s’esprime con la frase ‘la bellezza di lei’, e giusto in XXV 8 (cosicché la rappresentazione diventa un’interpretazione dello stesso linguaggio e della tipica ‘conversione’ del rapporto attributivo in quello di possesso di una qualità: cfr. del resto Dante, Amore e ’l cor gentil, 9: «Bieltate appare in saggia donna poi...»), dove appunto è ammessa
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comprender no la può, che ‘mmantenente ne nasce un’altra di bellezza nova, da la qual par ch’una stella si mova l’incomprensibilità dell’immagine (vv. 8-10), al massimo definibile per tautologia (vv. 11 e 16-17). 8-9. la mente Comprender no la può: è quanto s’è già letto in IX 17-18: mente e comprender possono interpretarsi secondo la loro accezione corrente (per comprender cfr. XXXIV 10). La serie degli ‘enjambements’ (e vedi anche 9-10) testimoniano dell’inadeguatezza dei nostri parametri espressivi alla realtà in oggetto. Comprender no la può risuona in Tanto gentile, 11, cit. al v. 3. 9-10. che... ne: costrutto analogo a quello del v. 6: dalla quale (e cfr. 11: non c’è cioè rapporto consecutivo tra no la può e la proposizione introdotta da che (semmai ’mmantenente, cioè la rapidità del processo d’astrazione, potrebbe spiegare quella impossibilità). 10. nasce: ‘variante’ di uscire del v. 7; ma per dire che la «nuova» donna è un’entità autonoma, dotata di vita propria («ideale»: Contini): appunto l’idea della bellezza, sola beatificante. – nova: mai vista (e infatti non è bellezza terrena): cfr. XXV 17 (e, ma si veda la nota relativa, XXXII 17). 11. Guido va al di là del processo astrattivo ora illustrato, per dire le conseguenze della contemplazione ideale, ma restando nei termini iniziali, intuitivi della rappresentazione (cfr. si mova, è apparita), e semmai arricchendo il discorso di nuove figure. – una stella: come un segnale di luce (la bellezza ideale cioè sarebbe percepibile come luce intellettuale, ovvero come trasfigurazione del «lume pien di spiriti d’amore» dell’inizio: cfr. ancora Dante, Quantunque volte già cit. per XXV, vv. 22-24, dove la bellezza di Beatrice, divenuta «spirital bellezza grande», «spande Luce d’amor che li angeli saluta»); e l’annunzio del v. sg. e la fonte paolina lo raffigurerebbero come la stella della Natività (come interpreta Marti). Se invece, come propone Tanturli, si mova, anziché riflessivo (come sembrerebbero confermare 18 e tutta la corrispondenza tra 11-12 e 18-19, e XXIII 9, e l’eco in Tanto gentile, 12), s’intendesse come passivo, per ‘sia mossa’ (cfr. VIII 12), potrebbe trattarsi della stella d’amore (e cfr. XLIVª 8), di cui la donna, trasfigurata in pura intelligenza (ossia angelo), sarebbe il motore, e determinatrice del destino (della salvezza) in amore. – si mova: la serie verbale, a partire da «uscire», e con condensazione negli ultimi due versi della strofa («e dica», «è apparita») è ciò che dà più di tutto l’idea d’un processo vitale.
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e dica: «La salute tua è apparita» .
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Là dove questa bella donna appare s’ode una voce che le vèn davanti e par che d’umiltà il su’ nome canti sì dolcemente, che, s’i’ ‘l vo’ contare,
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12. Cfr. San Paolo, Tit., II 11: «Apparuit gratia Dei salvatoris nostri» (e si aggiunga, anche per l’introduzione con «dire», Ps., XXXIV 3: «Dic animae meae: Salus tua ego sum» [Caridi]). La traduzione di Dante, in V.N., II 5, «Apparuit iam beatitudo vestra», chiarisce, al di là delle implicazioni scritturali, il significato di «salute» appunto come ‘perfezione’, ‘beatitudine’. 13. Cfr. 5, anche per il mutamento di registro immaginativo (è impensabile, e cfr. 19 coste’, che «questa bella donna» si riferisca ad altro che all’oggetto primo della visione, si riferisca cioè alla sua ‘trasformazione’). Per Là dove cfr. Dante, Amor che ne la mente, 41: «Quivi dov’ella parla...»; appare riprende in principio di strofa è apparita che chiude la precedente, e inizia la nuova serie di verbi di moto (14 vèn, 18 movonsi, 20 salita). 14. s’ode: corrisponde a veder mi par del v. 7. – una voce: non di persona umana o astante (anche se questo luogo può aver suggerito a Dante la lode corale di Beatrice del cap. XXVI della Vita Nuova: «Diceano molti...» ecc.). Qui si tratta di voce indeterminata (e cfr. XII 11) che la precede («le vèn davanti») e quasi proclama il suo nome. Marti rinvia addirittura alla «vox clamantis in deserto», ossia a Giovanni il precursore (e non è da escludere una suggestione sull’interpretazione dantesca, V.N., XXIV, del son. Io mi senti’ svegliar); ma si pensi semmai (Caridi) all’«ecce vox de coelis dicens», «et vox de coelo facta est» che segue, nei Vangeli, alla discesa dello Spirito nel battesimo di Cristo (e cfr. Ioan., XII 28). 15. d’umiltà... canti: canti, celebri, lodi nel suo canto come «umile», benigno e simili (cfr. IV 7, anche per l’analogia del costrutto e il v sg.: chiami la donna col nome che è il contrario dell’«ira»). Ossia il suo nome significa umiltà, essa è proclamata l’umiltà in persona. E cfr. le illazioni di Dante sul nome di Beatrice. 16. sì dolcemente: sintagma ripreso da Dante in Gentil pensero, 3 (per il verbo «ragionare»), nella prima (v. 18) e seconda (v. 5) canzone del Convivio (a connotazione del verbo «parlare»), e nel II del Purgatorio (v. 113) per il canto di Casella. – contare: ridire (cfr. I 30, IV 6, 9, IX 15, sempre in relazione al concetto d’ineffabilità).
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sento che ‘l su’ valor mi fa tremare; e movonsi nell’anima sospiri che dicon: «Guarda; se tu coste’ miri, vedra’ la sua vertù nel ciel salita» .
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17. ’I su’ valor: riferito alla donna (e cfr. V 2, e qui il v. 20); ma potrebbe anche riferirsi al «nome» il cui «valore» è «umiltà». – mi fa tremare: stessa clausola in Dante, De li occhi de la mia donna cit., 6. E cfr. qui IX 19-20, anche in relazione, v. 22, al «gran valore» di lei. 18. Per un verso analogo (e per il nesso seguente, e per l’eco, ancora, in Tanto gentile, 12-14), cfr. XXXIII 10 (e per la posizione di verbo e sostantivo anche XXI 9); e XIX 18. Ma colpisce l’assonanzaconsonanza (e ‘adnominatio’) con XXV 14, secondo un modulo («e movonsi nell’anima sospiri», «e move a loro un’anima sottile») che Dante riprodurrà e distenderà nell’intera terzina suddetta: «e par che... si mova Un spirito soave... Che va dicendo all’anima: Sospira». La contemplazione comporta le stesse manifestazioni della passione (è il ‘contenuto’ dei sospiri che è diverso). Movonsi come al v. 11, a cui segue analogamente il verbo dire (e 20 salita richiama 12 apparita). 19-20. Tre verbi ‘videndi’ (i1 primo, Guarda, varrà come richiamo d’attenzione) nello spazio di dieci sillabe, a riassumere (e rendere consecuzione fatale) il «processo di sublimazione conoscitiva» (Contini) che costituisce il tema della ballata. 20. la sua vertù nel ciel salita: dunque (si noti la perfetta corrispondenza, parte a parte, con 12 «la salute tua è apparita») che il suo «valore» è cosa celeste (ma se miri s’intenda come ‘cerchi’, tutto il ‘sermo’ finale corrisponderebbe a quello dell’angelo dell’Ascensione, Act. Ap., I 11: «Viri galilaei, quid statis aspicientes in coelum? Hic Iesus, qui assumptus est a vobis in coelum, sic veniet...» [Caridi]). Il participio passato (a eco, s’è visto, di quello del v. 12, e con forte ‘adnominatio’ con salute ivi) perché si riferisce appunto al processo appena compiuto, anzi al suo compimento (un’eco in XXXII 14); ossia la ballata è la celebrazione di questo ‘processo’, che in essa s’è compiuto. Ce n’era abbastanza perché Dante la mettesse al centro, implicitamente, del ripensamento del suo «stil novo». Opinione di Guido Cavalcanti filosofo (dal Comento di Marsilio Ficino sopra il Convito di Platone, oraz. VII, cap. I 5-10). Guido Cavalcante filosofo tutte queste cose artificiosamente
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chiuse ne’ sua versi. Come pel razzo del sole lo specchio in uno certo modo percosso risplende, e la lana ad sé propinqua per quella reflexione di splendore infiamma, così vuol Guido che la parte dell’anima chiamata da·llui obscura fantasia e memoria come uno specchio sia percossa dalla imagine della bellezza, che tiene el luogo del sole, come da un certo razzo entrato per gli occhi, e sia percossa in modo che ella per la detta imagine un’altra imagine da sé si fabrichi quasi come splendore de la prima imagine, per lo quale splendore la potentia dello appetire non altrimenti s’accenda che la detta lana, e accesa ami. Aggiugne nel suo parlare che questo primo amore, acceso nell’appetito del senso, si crea dalla forma del corpo per gli occhi compresa, ma dice che quella forma non si imprime nella fantasia in quel modo che è nella materia del corpo, ma sanza materia, nondimeno in tal modo ch’ella sia imagine d’un certo huomo posto in certo luogo sotto certo tempo; e che da questa imagine subito riluce nella mente un’altra spetie, la quale non è più similitudine d’uno particulare corpo humano come era nella fantasia, ma è ragione comune e diffinitione equalmente di tutta la generatione humana. Adunque sì come dalla fantasia, poi che ha presa la imagine del corpo, nasce nello appetito del senso servo del corpo l’amore inclinato a’ sensi, così da questa spetie della mente e ragione comune, come remotissima dal corpo, nasce nella volontà un altro amore molto dalla compagnia del corpo alieno. El primo amore pose nella voluptà, el secondo nella contemplatione, e stima che il primo intorno alla particulare forma d’uno corpo si rivolga, e che il secondo si dirizzí circa la universale pulcritudine di tutta la generatione humana...
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XXVII (a) GUIDO ORLANDI A GUIDO CAVALCANTI
Onde si move, e donde nasce Amore? Qual’è ‘l su’ propio, e là ‘ve dimora? È e’ sustanzia o accidente, o memora? È cagion d’occhi, o è voler di core?
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1. si move e... nasce: coppia sinonimica modellata su analoghe formulazioni interrogative, da Monte Andrea (a Lapo del Rosso), So bene, amico, 12-13, «... onde si move e vene D’amor lo suo principio...», all’altro questionario (e parallelo al nostro: cfr. Contini, Postilla dantesca, p. 102, e rime -ore, -ura, -ui in comune), Dimmi, o fonte, donde nasce amore (Pollidori). E cfr. XXVIIb 10 «chi lo fa creare». La domanda sarà tradotta in termini di personalissima commozione e partecipazione nell’attacco ciniano «Onde vieni, Amor, così soave...?». 2. qual è ’l su’ propio: che cos’è propriamente. Cavalcanti dirà: la sua «essenza» (XXVIIb 12). – là ’ve: dove (cfr. V 10). – dimora: per il verbo cfr. XXVIIb 18, per il quesito (e la formulazione) ivi, 10 «là dove posa», e il sonetto adespoto Non truovo chi mi dica, 2, «ove dimori». 3. sustanzia o accidente: alternativa d’ogni definizione, non essendoci «in rerum natura... che due generi di cose: sostanze e accidenti», come sapeva Don Ferrante. Reintroduco la particela disgiuntiva del Chigiano, di contro alla generale banalizzazione in trìcolon sustanzia, accidente o memora. – o memora: non è una terza alternativa a sostanza o accidente, ma un’altra domanda, in relazione alla seconda alternativa precedente, semmai alternante con le due possibilità del v. 4. Il riferimento è alla «sola cogitatio» del De amore di Andrea Cappellano (cfr. nota a XXVIIb 15), ivi peraltro conseguente alla visione «formae alterius sexus». 4. d’occhi... di core: genitivi soggettivi: è creato dagli occhi, dalla vista suddetta, o è desiderio («concupiscentia») del cuore (cfr. XXVIIb, rispettivamente 21 e 20)? Nel Notaro (rispondendo a Iacopo Mostacci e Pier delle Vigne), Amor è uno desio che ven da core, 3-4, si tratta di una serie coordinata: «... li occhi in prima generan l’amore E lo core li dà nutricamento» (e 8 «da la vista de li occhi ha nascimento»); ma l’alternativa ritorna in Dimmi, o fonte, 4, «se vien dalli occhi o dal piacer del core» (variante vulgata o di valor, da correggere o di voler. Contini, Postilla dantesca, p. 102), voler del core nella risposta probabilmente dantesca Molti, volendo dir che fosse amore, 13.
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Da’cche procede in suo stato furore come foco si sente che divora? Di che si nutre, domand’io ancora. Come e quando e di cui si fa signore?
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Che cosa è, dico? Ha e’ figura? Ha per sé forma, o simiglianwa altrui? 5. procede: cfr. XXVIIb 66. Il verbo è anche nel Cappellano sopra cit. – in suo stato: nello stato amoroso, ossia una volta che ha «preso suo stato» (XXVIIb 16). Cfr. XIV 7, e Pier delle Vigne ivi cit. –furore: Cfr. XXVIIb 52, anche in relazione al v. sg. 6. Se anche questo verso non è una nuova interrogazione (e cfr. 8), andrà compreso nell’interrogazione precedente: ‘così come si sente un fuoco divorante’, ‘sentito come un fuoco divorante’ (e cfr. XI 2, e ancora XXVIIb 52). 7. Di che si nutre: cfr. il Notaro sopra cit., v. 4, e Dante, Conv., II II 3: «... non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutricamento di pensieri». 8. di cui: di chi. Alla terza di queste domande potrebb’essere risposta XXVIIb 49. 9. dico: riprendendo e precisando la prima domanda del v. 2, fondamentale d’ogni analoga questione, «quid sit amor» (e cfr. nota a XXVII b 10-14). – Ha e’ figura?: identica domanda in Dimmi, o fonte, 9: «Ancor vorrei saper s’egli ha figura», è l’ultima di Cavalcanti (XXVIIb 14). Visibile e raffigurabile è per Guittone, che ne descrive a parte a parte la «figura» nel Trattato d’amore; non lo è in particolare per Iacopo Mostacci («amore no parse ni pare», Sollicitando un poco, 8) e Pier delle Vigne («... amore no si pò vedere E non si tratta corporalemente», Però ch’amore, 1-2) della citata tenzone (ma per il secondo, come per Cavalcanti, XXVIIb 19, si fa bensì «sentire»). 10. Così Dimmi, o fonte, 10: «... o per sé [ha] forma o simiglianza altrui». – per sé: ossia come «sustanzia». La risposta è implicita in XXVIIb 66 (che risponde anche alla domanda precedente). – altrui: si contrappone a per sé. La domanda è insomma, se non ha forma per sé, se prenda immagine da altro, sia immagine della donna (l’«amorositate La quale par che nasca di piacere» di cui il Mostacci, vv. 9-10, e vedi il commento di Contini ad loc., P. D., I, p. 89), ossia individuazione di uno specifico oggetto amoroso (e cfr. la nota introduttiva a XXIV).
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È vita questo amore, od è morte?
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Chi ‘l serve, dé saver di sua natura. Io domando voi, Guio, di lui: odo che molto usate in la sua corte.
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11. La questione sembra bene a misura di Cavalcanti, che risponde non solo in XXVIIb 35 sgg., ma in XXXI 1 sgg. Dialefe amore, od. 12. ’l serve: è suo ‘servente’, suo fedele. – di sua natura: ‘de eius natura’. Cfr. Monte cit., 14-15: «E tal quistion a diffinirla bene Non poria far altr’om che ’namorato»; e Lapo del Rosso, 13-14: «Però ch’e’ ’n amor sono conventato, Cotal sentenza a me ben si convene». Così Dimmi, o fonte, 12-13: «Chi l’ha servito e fidasi di lui, Doverebbe saper la suo natura», (Pollidori). 13. ïo domando ecc.: ecco perché io domando ecc. – voi: può essere così dativo come complemento oggetto (con domandare costruito transitivamente sul modello di ‘rogare aliquem de aliqua re’). Cfr. Dimmi, o fonte, 14: «io domando a voi come de’ suoi». 14. usate in: frequentate. – la sua corte: ma cfr. XXXVIIIb 1 (e per l’intera frase, 5).
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XXVII (b) Donna me prega, - per ch’eo voglio dire 1. Donna me prega: l’invito, e l’assunzione che ne deriva di una data materia, con conferimento d’importanza alla medesima, è tipico della tradizione trattatistica, e trascende dunque la convenzionale questione d’amore in rima. L’esempio più calzante è quello dell’inizio del De amore del Cappellano: «Cogit me multum assidua tuae dilectionis instantia, Gualteri venerande amice, ut meo tibi debeam famine propalare mearumque manuum scriptis docere qualiter inter amantes» ecc., del cui ‘accessus’ (vedi oltre) questa 1ª strofa può dirsi imitazione (così il Trattato d’amore di Guittone comincia con «Caro amico»); e allo stesso modello si atterrà Dante nel XXI della Vita Nuova per introdurre il son. Amore e ’l cor gentil, corrispondendo alla «volontade» che aveva mosso un amico, udita la canz. Donne ch’avete, «a pregare me che io li dovesse dire che è amore», nonché, per quanto riguarda l’invito di donna, oltreché appunto nell’interrogatorio del cap. XVIII e nel proposito di parlare solo «a donne in seconda persona» inviando a preghiera di «due gentili donne» (V.N., XLI 1) un manipoletto di sue «parole rimate» (la traccia formale del nostro incipit resterà invece in quello di Doglia mi reca ne lo core ardire). E s’aggiunga in terzo l’«amico» Lippo (abbastanza di scena da XXXVIIIª in avanti) con la canzone che comincia «La gioven donna cui appello Amore... Vole e comanda a·mme su’ servidore Ch’i canti... Per dimostrar lo pregio e la bontate...» (il son. XIV della «corona di casistica amorosa» a lui attribuita è una definizione d’amore ‘a richiesta’: «I’ sono alcuna volta domandato: Risponder mi convene che è Amore»). Che la «donna» possa intendersi, con la Corti (p. 17), per la «filosofia naturale», ossia come una prima incarnazione della «donna gentile» del Convivio, non sembra accettabile, oltre che alla luce della tradizione suddetta, in assenza d’ogni istanza allegorica, qui nonché in tutto Cavalcanti, e di fronte al rigoroso tecnicismo dello svolgimento (valgono qui le stesse ragioni che per la terza canzone del Convivio), per dichiarare infine che amore non è sostanza; e l’esigenza, sùbito avanzata (vv. 5 sgg.), di una specifica competenza include quella di un’intera traducibilità, dello «scrivere volgare», che la particolare richiesta rappresenta (cfr. V.N., XXV 6, XXX 3). O diciamo che il pregio di una donna è di porre domande più grandi di lei e insomma di non sapere quello che si faccia. – perch’eo voglio dire: per la qual cosa, sicché ecc. Con conseguente impegno della propria «volontà» secondo
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d’un accidente - che sovente - è fero ed è sì altero - ch’è chiamato amore:
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un procedimento che Dante applicherà nell’enunciazione, nella Vita Nuova, dei suoi «propositi» poetici come già visto (e cfr. qui 9) a proposito di IX 29, che ripete la stessa cadenza, nonché in Le dolci rime, 78 («dicar voglio omai, sì com’io sento, Che cosa è gentilezza...»), ma con probabile eco anche di incipit come «Madonna, dir vo voglio» del Notaro o «Voglia de dir giusta ragion m’ha porta» (o «m’aporta») di Guittone, che in altra canzone cedeva alla volontà di lodi della donna («La gioia mia... En sua lauda vol ch’eo trovi...»). 2. un accidente (u): la recisa affermazione di Dante, Vita Nuova, XXV 1, che «Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia», un tratto accidentale o eventuale, non sostanziale, sembra trarre autorità da questa definizione (e dunque presupporre la canzone – ma potrebbe anche essere Guido a cominciare con una citazione dantesca: e cfr. v. 15); amore dovendosi dunque intendere come ‘passione’ nel senso primo («sicut sunt ira, tristitia, timor», dirà Dino del Garbo, p. 362), come del resto lo definisce il Cappellano, I 1. Col che è esclusa preliminarmente, con una definizione prima della definizione del tema, e con netta delimitazione del campo d’indagine (ma l’alternativa era posta dall’Orlandi), ogni considerazione non ‘scientifica’ di amore come persona, come dio, su cui vertevano per lo più le dispute citt., e in particolare opposizione al Trattato di Guittone e al suo indulgere all’iconografia tradizionale. A questa definizione corrisponde la dichiarazione metodologica dei vv. 8-9. – sovente: spesso, per lo più (cfr. XX 1), «fera» (cfr. V 4, VIII 7, XXXII 33, XXXIV 13) essendo la natura di questa ‘passione’ (e cfr. Ovidio, Ars amat., I 9: «Ille quidem ferus est et qui mihi saepe repugnet», cit. da Calcaterra, Nuove indagini, p. 86; e poco sotto: «saevus»). 3. altero (u): «sinonimo di fero» (Contini), a cui fa eco, in forza del nesso consecutivo sì... ch(e): contro la traduzione «altum id est magnum», «nobile» dei primi interpreti (Dino del Garbo e lo pseudoColonna), e secondo un’accezione insolita; laddove Cavalcanti probabilmente rifiutava (coerentemente con l’enunciato di partenza), anziché accogliere, l’etimologia volgare (difatti disprezzata da Dino) che legge «mor[te]» nel vocabolo «amore» (come ad es. nel Trattato guittoniano, son. 3, 1 sgg.: «Amor dogliosa morte si pò dire... Ch’egli è nome lo qual si pò partire En a e mor... E mor si pone ‘morte’ a difinire» – «l’a ven da ‘languire’»), intendendo piuttosto: ed (eppure? con Favati) è di tal potere che gli si è dato il solenne nome d’amore, lo si è elevato a divinità (leggi Amore? E cfr. Chiaro Davanzati, L’alta discrezione, 13: «s’egli è o no così como si chiama»; e semmai l’incipit di Guittone
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sì chi lo nega - possa ‘l ver sentire! Ed a presente - conoscente - chero, perch’io no sper - ch’om di basso core
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«O tu, de nome Amor, guerra de fatto»). Già Brunetto, Tesoretto, 2339-40: «... cui la gente ha temore, Sì ’l chiaman Dio d’Amore». Fa pensare al principio della Vita Nuova, dove Beatrice è chiamata Beatrice anche da quelli che non sanno il suo nome. Più modestamente Lippo, son. XIV cit., 9-14 ricalcando il Cappellano: «Amore è uno solicito pensero Continüato sovra alcun piacere Che·ll’occhio ha rimirato volentero; Sicché, imaginando quel vedere, Nasc’indi Amor, ched è segnore altero Nel cor...». 4. sì: augurativo (ossia: com’è vero che è così). – lo nega: nega (u) ciò, quanto detto ai vv. 2-3, ossia la necessaria premessa alla trattazione seguente (ma con implicita ironica allusione alla suprema «negazione» della divinità; come dicesse: è la passione che non si può negare). – ’l ver sentire: per dirla con Dante, «spermentar lo suo valore» (Perché ti vedi, 10, detto a una donna «orgogliosa... e... dura»), ossia provare la sua effettiva «ferezza» («sentire» in relazione a ‘passione’, e cfr. v. 31). Cfr. XIV 5, e qui v. 53. 5. a presente: normalmente con valore temporale (e cfr. di presente di XVIII 6), è abbastanza naturale la ‘traduzione’ in ‘qui’, ‘a questo punto’ (altra pregiudiziale, prima di procedere). Cfr. Dante, Le dolci rime, 78, «e dicer voglio omai...», Poscia ch’Amor, 67, «per che da questo punto... Tratterò il ver...» (e già Brunetto, La rettorica, 16: «Ora àe detto lo sponitore che è rettorica... Omai vuole dicere chi è l’autore...»). Dino del Garbo, p. 361: «in praesenti materia». – conoscente (u): «un (ascoltatore) competente» (Contini); non in amore, bensì in grado di seguire un «natural dimostramento» (Dino, p. 361: «intelligens, idest subtilis intellectus»; e cfr. IV 12 e 14), ossia all’altezza del linguaggio qui impiegato (cfr. 7). Cfr. del resto 73-74, e il congedo della canzone dantesca Voi che ’ntendendo più oltre cit. – chero: chiedo (lat. QUAERO), voglio; la trattazione esige cioè un adeguato ascoltatore (così Guittone, Ben saccio, 12-13, cit. da Favati, Canzone, p. 439 nota 16: «... eo rechiamo e chero lo savere Di ciascun om ch’è prode e canoscente»; ma per supplire alla propria incapacità poetica). 6. io no spero: non «mi aspetto» (Contini; e cfr. V 14); non è pensabile. L’intero primo emistichio riprodotto in XXXV 1. – di basso core: con solita perifrasi (e cfr. III 1), ‘vile’ (basso è ‘unico’), e quindi incapace (cfr. XXV 8-10) di «conoscenza» (molto opportuno il paragrafo della Corti, pp. 44-53, sulla ‘magnanimità’, in particolare per il ‘volgarizzamento’ di Guillaume d’Auvergne di «excelsitudo animi» in «cordis altitudo»). Anche Dante riserva la canzone inauguratrice del «nuovo stile» «non ad ogni donna, ma
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a tal ragione porti canoscenza: ché senza - natural dimostramemto non ho talento - di voler provare là dove posa, e chi lo fa creare,
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solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine» (V. N., XIX 1); e al sonetto-congedo Parole mie, di chiaro avvio cavalcantiano, e scritto per le rime per la «donna gentile», indicava il degno destinatario col verso (12) «Quando trovate donna di valore», che è il ‘negativo’ di questo. E cfr. XXV 10, e qui v. 49. 7. tal ragione: il ragionamento (il «dire» d’amore) che mi propongo, e in cui (73) consiste la canzone: come nel congedo di Voi che ’ntendendo «io credo che saranno radi Color che tua ragione intendan bene», ossia «il ragionar ch’è nel mio core» e che riproduci, tradotto nella chiosa (Conv., II XI 7) semplicemente «te» (e cfr. ancora Inf., XI 68). – porti canoscenza: altra perifrasi (del tipo ‘por mente’, ‘porger gli occhi’) per ‘conosca’, ‘comprenda’. 8. natural dimostramento: dimostrazione in termini di «filosofia naturale» o ‘fisica’ (propriamente ‘medicina’), nella fattispecie della «scientia de anima» che ne fa parte (Corti): coerentemente dunque col trattamento poetico (tipico di Cavalcanti) di questa materia (anche Tomaso da Faenza sapeva che «per natural cagione amore nasce», Amoroso voler, 15), salvo una rigorosa problematizzazione dei relativi processi. Sostantivo e attributo sono ‘unici’. 9. non ho talento: ritorna al v. 75 (u): non ho intenzione, non intendo. Terza variante di «voglio» nella strofa. – voler provare: uso fraseologico di volere (in dipendenza da un ‘verbum voluntatis’) come in IX 29 (e cfr. VI 12), con effetto del tipo ‘non mi sogno nemmeno di voler provare’. Provare è il ‘probare’, ‘dimostrare con prove’ (una ‘quaestio posita’), della terminologia scientifica. 10-14. Oltre che la serie delle ‘quaestiones’ dell’Orlandi (XXVIIª 1-11), si confronti l’inizio del libro I del De amore: «Est igitur primo videre quid sit amor, et unde dicatur amor, et quid sit effectus amoris, et inter quos possit esse amor, qualiter acquiratur amor, retineatur, augmentetur, minuatur, finiatur...», e la ineccepibile ‘sposizione’ di Dino del Garbo, p. 361. 10. là dove: dove (cfr. XXVIIª 2), «in qua parte» (Dino del Garbo, p. 361, e cfr. v. 15). – posa: ha sede, ossia s’insedia (XXXII 16 «si posa», per analoga ‘collocazione’; Guido Orlandi cit. «dimora», e cfr. 18; e Guinizelli, Al cor gentil, 1, «rempaira», Dante, Amore e ’l cor gentil, 7, «si riposa», e al v. 6 «sua magione»). – fa creare: fa nascere (creare retto da fa ha valore passivo), genera
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e qual sia sua vertute e sua potenza, l’essenza - poi e ciascun suo movimento, e ‘l piacimento - che ‘l fa dire amare, (Dino, ivi: «quid est creans, idest generans ipsum», e poco sotto: «de ipso principio vel causa generante amorem»). 11. Il verso ne ricalca uno d’anonimo (son. Umilemente faccio a voi preghero, 10) a Monte Andrea, in relazione ad analogo quesito, e con puntuale eco al mezzo del v. sg.: «Mostratemi qua’ ’l prim’ a fue nascére E qual à più vertute in sua potenza: Dispenza – ...» (qual è anche nella tradizione della canzone), e Mastro Francesco, Molti l’amore, 3: «e perché sua vertute a [leggi e?] potestate Più che terena segnoria si stende». Ma la coppia è abbastanza usuale, per es. in Restoro d’Arezzo, La composiz. del mondo, II.2.4, 6, II.5.1, 3 e 6, II.8.23 12, nell’ultimo caso parlando d’amore. – qual sia sua vertute, con probabile zeugma col secondo membro della frase, per ‘a qual virtù si riferisca’ più che ‘che virtù è’, ossia come vada classificato (con pratica anticipazione della risposta dei vv. 29-30); e cfr. sin d’ora Dante, Poscia ch’Amor, 76: «sarà vertù o con vertù s’annoda». Dino, non escludo suggestionato da Dante, e anticipando anch’egli: «utrum sit virtus vel procedens ex virtute» (ma a suo luogo, semplicemente: «de virtute amoris»). – sua potenza (u): che cosa può, che cosa può provocare (Dino, ivi: «quid potest inducere amor in corpus; et hoc non est aliud nisi ostendere effectus eius»). 12. Sottintendendo ‘qual sia’. – l’essenza: in rima straricca col corrispondente emistichio del v. 8: «l’essere» suo (v. 43, e cfr. XXXVIIª 8), Dino «quid sit amor», e così l’Orlandi, v. 9. – suo movimento: ossia da lui provocato; ciò che egli muove (cfr. vv. 46, 50). Così Dino, ivi: «motus amoris, idest alterationes diversas quas amor facit». Si confronti per l’intero verso (e tenendo presente il diverso significato di «movimento») la canzone adespota (anche attribuita al Guinizelli) Con gran disio pensando lungamente, 2-3: «amor che cosa sia E d’onde e come prende movimento». 13. ’l piacimento: il piacere (Dino: «complacentia»); l’attrazione. Cfr. ancora Con gran disio, 12-13, «E’ par che da verace piacimento Lo fino amor discenda...»; e il Notaro: «Amor è uno disio che ven dal core Per abondanza di gran piacimento». – che ’l fa dire amare: che fa sì che s’interpreti «amare» come ‘hamare’, ‘prendere all’amo’: con citazione del Cappellano, I 3: «Dicitur autem ‘amor’ ab ‘amo’ verbo, quod significat capere vel capi» («Nam qui amat, captus est cupidinis vinculis aliumque desiderat suo capere hamo»). L’etimologia non è tanto volgare (e la frase non è da mettere alla stregua della relativa del v. 3), se le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, per cui (VIII n 7) «omnis... dilectio car-
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e s’omo per veder lo pò mostrare.
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In quella parte - dove sta memora nalis non dilectio sed magis amor dici solet» (con distinzione già classica, in primis in Cicerone, De amicitia, VIII 27-28), fanno derivare «amicus ab hamo, id est a catena caritatis». Che il concetto sia estraneo alla prospettiva di Guido risulta dal corrispondente svolgimento dei vv. 57-62. E cfr. del resto il sonetto cit. di Iacopo Mostacci, 9-11: «... una amorositate La quale par che nasca di piacere; E zo vol dire om che sia amore». 14. s’omo: se uno, col solito valore indefinito (‘se lo si può’ ecc.). – per veder... mostrare: rappresentare visibilmente (63 «per lo viso»), come cosa visibile; se amore cioè sia visibile. E cfr. XXVIIª 9. E la disputatissima questione di cui alla nota al v. 2, praticamente già liquidata sin di lì (cfr. le note a XXXVIIb 13 e XXXIX 1 ). S’osservi l’‘adnominatio’ a distanza 8 dimostramento 14 mostrare entro cui è compresa (tra impegno di dimostrazione formale e ipotesi di rappresentabilità) la ‘propositio’ della materia. 15-20. Risponde al primo punto, «là dove posa» (10). 15. In quella parte dove: equivale a «là dove» del v. 10 (e cfr. V 10, XXXVIIb 5, XXXIX 2, 9, e XLIVb 5, che si riferisce probabilmente alla stessa «parte»). Solo che qui «parte» indica una precisa ‘pars animae’, a sua volta designata (doppia perifrasi dunque, alta retorica) da una sua ‘parte’: l’anima sensitiva, in cui ha sede la «memoria» (u – memora per riduzione, come matera da materia e in genere i suffissi in -ariu, -eriu, -oriu) o ‘virtus memorativa’, assieme alla ‘imaginativa’ o ‘fantasia’, alla ‘aestimativa’ e alla ‘cogitativa’ costituente le «virtutes sensitive interiores», come spiega più oltre Dino del Garbo (p. 364), e l’ultima nell’«ordo in apprehensione humana», ossia del processo d’apprensione nell’uomo, quella recisamente che ha il potere di «retinere» e «conservare» (p. 362) la «veduta forma», immagine («species») della donna che i «sensus exteriores» (nel caso specifico la vista) hanno còlto e gli «interiores» fanno propria, apprezzano e considerano al di là della percezione fisica (e cfr. del resto XXVI 7-10). L’insediarsi dell’amore nell’anima sensitiva è designato dal risultato dell’operazione, per il quale la vista ‘accidentale’ dell’oggetto amato diventa una ‘presenza’ permanente. E ciò vale anche per la giusta obiezione di Dino (p. 362), che lo stare «in parte memoriali» è detto «quantum ad speciem rei ex cuius apprehensione causatur amor», la «passio» avendo sede «in appetitu sensitivo sicut in subiecto in quo habent esse passiones anime omnes». Ossia l’amore è qui considerato, giusta l’assunto specifico, sotto il profilo e in ragione della sua presenza nella mente, conforme del resto alla definizione
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prende suo stato, - sì formato, - come diaffan da lume, - d’una scuritate la qual da Marte - vène, e fa demora;
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datane dal Cappellano (I 1): «Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus» («ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus»), dove «innata» è ulteriormente spiegato col fatto di procedere «ex sola cogitatione quam concipit animus»: qualcosa che ‘accade’ dunque all’anima sensitiva (e a cui la poesia corrisponde pienamente). Ed è suggestivo che questo verso traspaia nell’attacco della Vita Nuova (un altro debito verso Guido, anzi un omaggio ‘in limine’ e la cifra della dedica a lui del libro? o viceversa una risposta di Guido a Dante?): «In quella parte del libro de la mia memoria». 16. prende suo stato: coordinato, oltre l’inciso, con 18 «fa demora»: prende residenza (cfr. Lapo Gianni, «Ballata, poi che ti compuose Amore Ne la mia mente, ove fa residenza»), s’insedia (Dino, p. 361: «habet esse» ossia ‘si realizza’) e abita stabilmente; si stabilisce definitivamente (corrisponde insomma a «posa» del v. 10). E cfr. XXXII 16 (e 17). Per la formula cfr. ancora Con gran disio, 3 (cit. al v. 12), e Dante, Inf., XI 108 («prender sua vita...»). 16-17. sì formato... d’una scuritate: costruisci: formato da (ossia prendendo forma, passando da potenza ad atto per effetto di) un’oscurità (definita al v. 18) così come il diafano (u come (o)scuritate), il mezzo trasparente, giusta il De anima di Aristotele, passa da potenza ad atto (ossia la trasparenza si realizza) per effetto della luce, dunque secondo un processo analogo ed opposto (l’opposizione si riproduce al v. 68, dove «mezzo oscuro» equivale a ‘non diafano’): sicché se il diafano (aria, acqua cristallo, cielo) «habet esse» e si percepisce come tale grazie alla luce, come trasparenza di luce, amore è non-trasparenza, opacità, cecità (il Nardi rinvia al «nil bene cernit amor, videt omnia lumine caeco» citato dal Cappellano, I 8), indotta da un’«oscurità», ossia non-luce, significante l’oscurità del desiderio (e si tenga presente che «oscurità» può significare afflizione, dunque passione). L’analogia dell’ordine sensibile e specificamente visivo (peraltro non originale se – cfr. Favati, Canzone, p. 426 e 438 nota 10, 442 nota 40 – già nei commentatori medievali di Aristotele e nello stesso San Tommaso il termine di paragone del rapporto tra intelletto in potenza e intelligibile in atto è quello del rapporto tra diafano e luce) ha relazione con la sede (l’anima sensitiva), ossia con la natura della percezione del fenomeno; con adibizione della metafora della conoscenza («lume») ad assoluta non-conoscibilità. Lume, come 20 costume, in rima siciliana con come e nome. 18. da Marte vène: è effetto dell’influenza (maligna) di Marte (u
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elli è creato - (ed ha sensato - nome), -l’analogia è con la provenienza della luce dal sole: ma l’opposizione è probabilmente a Venere, «lo bel pianeta che d’amar conforta»). La Corti (p. 21) ha indicato, sulla base della cultura del tempo, i possibili riferimenti alla passione amorosa di questo pianeta, «stella forte» (Par., XVII 77), rossa e «affocata» (Par., XIV 86-87) e, secondo Restoro d’Arezzo, La composizione del mondo, II.2.5, 20, e Dante, Conv., II XIII 21-22, rea e calamitosa (ma va anche tenuto conto delle indicazioni del Nardi, L’averroismo..., pp. 59-60). Si potrebbe aggiungere con Favati la definizione d’amore come «guerra» della canzone di Guittone che comincia appunto «O tu de nome Amor, guerra de fatto» (e Marte è, sempre per Restoro, «signore de le battallie»). Ma non è forse irrilevante la sottile implicazione di d’amar nel complemento da Marte (d’amar te?); e la voce amor(e) è del resto anagrammaticamente inclusa nelle parole mEMORA, fORMAto, dEMORA di quest’inizio di stanza. – fa demora: la solita perifrasi (il sostantivo è ‘unico’) per il verbo corrispondente (cfr. 16, 22-23 e XLIXª 4). La forma non fiorentina (e cfr. 25 descende, 26 resplende) arricchisce (con le conseguenze dette) la rima con memora. 19. è creato: in quanto non «sustanzia» ossia, sempre con Dante del XXV della Vita Nuova, «cosa per sé», ma appunto «accidente in sustanzia» che riceve l’essere da altro, ‘per accidens’. – (ed ha, sensato, nome): giusto il rilievo della Corti (p. 22), che sensato (u) non è attributo riferito a nome (come già interpretò Dino del Garbo), ma sostantivo (lat. sensatum = gr. a„sqhtÒu, e cfr. il titolo aristotelico De sensu et sensato), corrispondente agli specifici vista, udito, odorato ecc., e designante ciò che è attualmente sentito, ossia percepito dai sensi (cfr. Par., IV 41, dov’è posto a fondamento dell’intellezione); ma proprio perciò non costruibile col verbo avere (col che si finirebbe per restituirgli una tal quale sostanzialità), ma col verbo essere, come creato, e dunque da intendere come inciso, ossia complem. predicativo (assoluto) del soggetto, con ulteriore rilievo al «segnale» della rimalmezzo: ‘in quanto sentito’, ‘una volta sentito’; l’essere sentito permettendo la sua individuazione e identificazione come «amore» (così come si designano «ira, tristitia, timor et similia accidentia», Dino, p. 362). E cfr. Guittone, Ahi Deo, che dolorosa, 17: «Nome àve Amore». A sua volta, tutta la frase è un inciso, l’essere nominato essendo conseguente all’essere sentito, e questo all’essere creato e i due sostantivi costume e volontate del v. sg. altrettanti predicati nominali dipendenti da è (ma il senso non cambierebbe gran che facendo dipendere i due sostantivi da ha come nome, ossia conseguire il tutto dal fatto d’essere «sensato»).
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d’alma costume - e di cor volontate. Vèn da veduta forma che s’intende, che prende - nel possibile intelletto, come in subietto, - loco e dimoranza.
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20. d’alma costume e di cor volontate: con perfetta corrispondenza (ed applicazione di una precisa terminologia) in «animae sensitivae habitus» e «cordis appetitus» (ma cfr. anche «voler di core» di XXVIIª 4) del commento anonimo al De anima cit. dalla Corti (p. 22): da intendere rispettivamente come disposizione (‘se habere’) ossia sensibilità naturale (e si direbbe ‘sensibilizzazione’) a tale passione (il Nardi, p. 60, più semplicemente, parla di amore, ira ecc. come passioni «que adnectuntur moribus animae»), e come concupiscenza qui denominata dal «cuore» (ma il termine «volontate», u, lascia margine, secondo Dino del Garbo, p. 364, all’«electio», ossia al libero arbitrio). L’opposizione anima/core ritorna nel sonetto dantesco Gentil pensero, 5, con la relativa interpretazione (V.N., XXXVIII 5) come «ragione» e «appetito» e possibile richiamo, per la giustificazione di ciò, sotto la «indiffinita persona» di «coloro a cui mi piace che ciò sia aperto», proprio a Cavalcanti. 21-28. Risponde al secondo quesito del v. 10, «chi lo fa creare». 21. da veduta forma: «da una specie visibile» (Contini, e già Nardi), anzi «veduta» (cfr. «sensato»), ossia dalla vista della bellezza (lat. forma, e qui u – Dino del Garbo, p. 364: «ex apprehensione alicuius forme visibilis»), che in XXV 5 si specifica in «d’una donna veduta» (cfr. XXVIII 1, e ancora Dante, Amore e ’l cor gentil, 9: «Bieltate appare in saggia donna...»). Con accentuazione, osserva Dino p. 365, del tramite privilegiato dell’innamoramento, la vista appunto (e conferma della definizione di Andrea Cappellano sopra cit.). Per il costrutto cfr., nonché XXV 4-5, Dante, Le dolci rime, 79, «che cosa è gentilezza, e da che vène». – che s’intende: ‘quae intelligitur’, è intesa (per il riflessivo per il passivo cfr. XXVI 11 ecc.), e cioè, in quanto ‘intentio’ o, con Favati, «rappresentazione», il principio stesso del processo intellettivo (per Dino, p. 364, passando attraverso l’«apprehensio» delle «virtutes sensitive interiores», immaginativa, estimativa ecc.). 22-23. che ecc.: spiega che s’intende. Ossia nel séguito del processo conoscitivo. – prende... loco e dimoranza: ‘variante’ (per il secondo termine, u, con desinenza provenzale) di «prende suo stato... e fa demora» dei vv. 16-17 (in analoga posizione da fronte a sirima e come lì integrato da come...); e cfr. Guinizelli, Al cor gentil, 28-29: «Amor in gentil cor prende rivera Per suo consimel loco...». – nel possibile intelletto: termine aristotelico (u, come del
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In quella parte mai non ha pesanza perché da qualitate non descende:
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resto possibile) designante la sede ultima e propria dell’intellezione, come (per dirla con Dante, Conv., IV XXI 5, ossia con Aristotele e il suo commentatore Averroè) ‘potenzialità’ di «tutte le forme universali» ossia delle ‘specie intelligibili’ (dove appunto la «veduta forma» diventa «la bellezza»): donde la tesi averroistica della sua ‘separazione’ e inindividualità ossia unicità per tutta la specie umana. è possibile che l’espressione «come in subietto» (u), calco del lat. ‘sicut (o tanquam) in subiecto’ (cfr. Dino del Garbo, p. 362, cit. in nota al v. 15), e indicante il vero ‘soggetto’ della conoscenza, implichi, come sostiene la Corti (pp. 23-24), la negazione dell’anima intellettiva individuale; può ad ogni modo indicare semplicemente il carattere universale e astratto di questa forma di conoscenza (della conoscenza), con conseguente sottrazione alla portata dell’amore (cfr. v. 24), confinato nell’àmbito sensitivo e individuale e sua riduzione a pura ossessione mentale. 24. In quella parte: difficile considerare il complemento un richiamo più che formale all’attacco di 15, e che lo si debba specificare con «dove sta memora» a distanza di 10 versi (l’iterazione formale, qui frequente, e cfr. l’analogo caso, notato al v. 14, di dimostramento e mostrare non esclude cioè la variazione del riferimento); né si vede perché esso implicherebbe (Corti, p. 24) la definizione del «possibile intelletto» come «parte», quando corrisponde (come ‘ivi’) a «nel» del v. 22 (e cfr. v. 23). D’altro canto il soggetto non può non essere il soggetto logico (e funzionale) di tutta la definizione, ossia «amore», ‘de quo agitur’ ossia ‘quaeritur’, e da cui si riprende al v. 29 (e cfr. del resto Dino del Garbo, pp. 365-66, e più oltre 366). Ciò che non toglie che nei versi sgg. (dipendenti) il soggetto muti come ai vv. 18, 21-23, 30-31, 33, 39-41 ecc. L’amore dunque ha questo di caratteristico: che instauratosi per effetto della vista (e della memoria) dell’oggetto, gliene sfugge tuttavia la conoscenza, anzi è interruzione (Tanturli) del processo conoscitivo, nulla potendo (e il senso non cambierebbe di troppo se si leggesse con alcuni codici posanza, con richiamo al primo quesito «là dove posa», o pesanza) nell’intelletto possibile (resta cioè passione e ossessione dell’anima sensitiva). E alla fine il significato non si discosta sostanzialmente da quello proposto dalla Corti, dato che la «veduta forma che s’intende», in quanto «prende... loco e dimoranza» nell’intelletto possibile, ha carattere d’idea astratta. 25. da qualitate non descende: soggetto, l’intelletto possibile: non dipende da «qualità» (u), ossia dalla varia combinazione delle ‘proprietà’ elementari (caldo, freddo ecc.) da cui derivano le ‘com-
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resplende - in sé perpetüal effetto; non ha diletto - ma consideranza; s’ che non pote largir simiglianza.
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plessioni’ individuali (Corti, e già Nardi, e già Dino del Garbo, p. 366 – l’argomento, osserva il Nardi, L’averroismo..., pp. 61-63, sembra rispondere a tesi contrarie ben diffuse; e sarà qui semmai affermazione dell’unicità dell’intelletto possibile; addirittura, e cfr. Nardi, ivi, p. 66 nota 1, il riferimento all’intelletto possibile potrebbe aver carattere di discriminazione nei confronti dell’‘intelletto passibile’ o ‘virtus cogitativa’, di cui sono propri la «distinctio», l’amore o l’odio in quanto, a differenza dell’altro, «transmutabile propter mixtionem cum materia»). Il che equivale a dire che l’amore discende appunto da «qualità», è connesso al «piacere» (cfr. v. 27, e la solita canz. Con gran disio, vv. 12-13 cit. per il v. 13), è «qualità» (cfr. v. 50). Si tratta insomma, qui e nei versi seguenti, di una serie di definizioni ‘negative’ di amore (e cfr. del resto vv. 29-1) come non sostanza intellettuale, non conoscenza, anche se, s’è visto, l’amore nasce all’inizio stesso della conoscenza, ossia dalla percezione sensibile («ex visione»). 26. resplende ecc.: soggetto sempre l’intelletto possibile (e in opposizione, come giustamente rileva la Corti, p. 25, a «oscuritate» del v. 17). Sottintendi ‘infatti’. In sé vale «in lui» (Nardi, Contini), secondo «l’uso medievale latino e romanzo» («risplende», si riflette, si attua «in lui» il momento dell’«intellezione eterna», iid.); ma anche accogliendo l’interpretazione della Corti (p 25), «quantum ex se est», corrispondente al nostro ‘in sé’, si avrebbe che l’intelletto possibile ha il carattere (confermato da dovizia d’esempi in Corti, p. 25 nota 18 e che non è dell’amore, cfr. XXXVIIIb) della ‘perpetuità’ (perpetual effetto compl. predicat. del sogg. di resplende – perpetual, u come effetto, per ‘perpetuo’ come eternale per eterno ecc.). 27. ha: ha in sé; è. A differenza dell’amore, che è «diletto» (u), non «consideranza» (u), ‘contemplazione’ o ‘speculazione’, la contemplazione dell’intelletto possibile è separata (astratta) da ogni dilettazione sensibile. 28. largir simiglianza (‘unici’ entrambi): fornire una ‘similitudo’ ossia, semplicemente, un termine di paragone. Non si può cioè, nonostante la comune origine, trarre dal processo conoscitivo alcuna analogia con l’amore: rispondendo dunque a Dante che di essa si prevale («e così esser l’un sanza l’altro osa Com’alma razional sanza ragione»), e che identifica anzi l’amore con la contemplazione (Tanturli). Del resto proprio nella lauda di Iacopone Sopr’ogne lengua Amore citata da Contini a tale proposito, alla visione «per simiglianza» e alla stessa conoscenza «per intelletto»
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Non è vertute, - ma da quella vène ch’è perfezione - (ché si pone - tale), non razionale, - ma che sente, dico; for di salute - giudicar mantene,
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viene opposto alla fine il «veder senza figura La somma veretate Con la nichillitate Del nostro pover core». 29-34. Risponde al terzo quesito, «qual sia sua vertute» (11). 29. Non è vertute: non è una facoltà (‘virtus’, con esatta ripresa del termine del quesito – Dino, p. 367: «potentia naturalis») umana, come sono, sempre con Dino, «intellectus, voluntas, fantasia, extimativa, memoria et virtus sensitiva comunis et particularis et appetitus sensitivus». Fortissima l’eco di questo attacco in quello della 5ª strofa della canzone dantesca della leggiadria Poscia ch’Amor (77): «Non è pura vertù la disviata» (da confrontare sùbito, per quanto segue, col dilemma, v. 76, «sarà vertù o con vertù s’annoda»; e per l’analoga procedura, si veda l’attacco della 6ª strofa di Le dolci rime, 101-2: «E gentilezza dovunqu’è vertute, Ma non vertute ov’ella...»). 29-31. ma da quella vène ecc.: ma deriva (cfr. 21), procede (cfr. 66) da quella (virtù) che si pone (‘ponitur’), si definisce (letteralm., ossia rispettando l’inciso: che, per usare il termine aristotelico di ™ntel˜ceia o «perfezione», è) la «perfezione» (u), o ‘atto’, ‘forma’, non «razionale» (u), ma ‘sensitiva’ dell’essere umano, la perfezione del corpo; nella quale ultima distinzione il Nardi, L’averroismo..., pp. 67-68, vede la posizione averroistica che fa perfezione dell’uomo l’anima sensitiva non l’intelletto, ch’è sostanza separata ed eterna, mentre Cavalcanti, riferendosi propriamente alla perfezione del corpo, appunto l’anima sensitiva, vuole solo distinguere l’àmbito dell’amore. Amore è insomma una passione o appetito dei sensi, o meglio sensitivo (si nutre infatti anche di «cogitatio» e di memoria), ed entro questi limiti l’uomo vi si realizza; non «appetito razionale» secondo la distinzione dantesca di Conv., IV xxii 10, che sembra proprio rispondere a questa di Guido, e dove al «diletto» dell’uso «pratico» del nostro animo si contrappone, come più alto, quello dell’uso «speculativo» ossia del contemplare (cfr. qui 27). 31. dico: voglio dire. Ha funzione di precisazione (cfr. Le dolci rime, 83). 32. for: con lo stesso significato privativo che ai vv. 67 e 69 e, per es., in VIII 9. – salute: qui nel senso proprio di ‘sanità’ (si dice ancora ‘sano giudizio’, come ha del resto Dino, p. 368; e Dante, Le dolci rime, 74, nonché Inf., IX 61, parla di «intelletti sani»). L’amore dunque impedisce, finché dura («mantene»), un sano esercizio del giudizio, ossia della ragione (giudicare è inf. sostanti-
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ch la ‘ntenzione - per ragione - vale: discerne male - in cui è vizio amico. Di sua potenza segue spesso morte,
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vato). Il motivo è ben affermato in Monte Andrea, Ahi doloroso lasso, 33, Ahi misero tapino, 26. 33. la ’ntenzione (u): il desiderio (‘intendanza’ vale, nel linguaggio della poesia amorosa, sia ‘amore’, sia, per metonimia, l’oggetto amato): cfr. Conv., III xv 8-9, dove a «desiderío naturale» corrisponde e equivale «intenzione naturale»; o anche l’‘intentio formae’, ossia la rappresentazione sensibile (cfr. 21) dell’oggetto amato (l’«intentio individui» di Averroè nel suo commento al De anima, II t. c., 65), l’immagine che l’amante se ne fa. Ma il verso è evidentemente «ispirato» dalla clausola di Giovenale, Sat., VI 223, «sit pro ratione voluntas» (Contini, Lett. d.’Or.), del resto probabilmente presente anche a Guittone del son. Franchezza, segnoria..., 9, «ma franco è quei la cui voglia è ragione». – per ragione vale: sta per, si sostituisce alla ragione (u in quest’accezione). L’opposizione, analoga a quella del v. 31, è qui evidenziata dalla rima. 34. discerne male: non ha, è privo di discernimento (dove male ha valore negativo). – in cui: colui (sogg. di discerne) nel quale. Uso analogo del relativo in Purg., VI 8 («a cui porge la man, più non fa pressa»), XX 15 («quando verrà per cui questa disceda?»), Par., IX 24 («come a cui di ben far giova»). – è vizio amico: il vizio, l’eccesso della passione (cfr. 39, 43-44, e XXXII 18) è l’‘alter idem’ (definizione ciceroniana dell’‘amico’); per dire che uno vi si identifica tutto, vi è interamente soggetto (per la metafora cfr. XV 1, XVII 2). 35-42. Risponde al quarto quesito, «qual sia... sua potenza» (11). 35. Di sua potenza ecc.: anche qui con ripresa del termine del quesito. Conseguenza dell’amore è morte (detto con perifrasi analoga a quelle dei vv. 21, 29-30, e a parziale riforma di XXVIIª 11: non è morte ma causa di morte; e cfr. Dante, Amor che movi, 9-10, «Da te conven che ciascun ben si mova...» ecc., per una concezione diametralmente opposta, per cui senza amore «è distrutto Quanto avemo in potenzia di ben fare»), ossia lo ‘stato’ dominante di tutta la rappresentazione cavalcantiana, e occorrenza ad alta frequenza del suo lessico: morte metaforica sì, come tutti avvertono, una vita di morte (e cfr. ancora XXVIIª 11), ma comportante distruzione e perdita delle facoltà vitali (cfr. 36-37), nonché (Nardi, Marti, Corti – e cfr. 39-41) della razionalità (morte morale: con collegamento dunque alla prima parte della strofa).
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se forte - la vertù fosse impedita, la quale aita - la contraria via: non perché oppost’ a naturale sia; ma quanto che da buon perfetto tort’è per sorte, - non pò dire om ch’aggia vita,
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36. se forte: lat. ‘si forte’ (dunque u), «se mai» (Contini), ogni volta che. Risponde a spesso del v. precedente; anche se il suo significato corrente, ‘molto’, alluderebbe all’eccesso passionale (l’«impedimento» comunque significa questo eccesso; e cfr. 43-44). 36-37. la vertù... La quale aita la contraria via: la virtù che ‘iuvat’, rende possibile il, è ‘amica’ del, «que conservat» (Dino del Garbo, p. 369) il contrario della morte: fuor di perifrasi la virtù vitale (sul cui impedimento cfr., nonché queste rime passim, Dante, Vita Nuova, II 4: «lo spirito de la vita... cominciò a tremare sì fortemente... e tremando disse queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi»; e «impeditus», qui ‘unico’, è detto poco sotto, II 6, come ben s’accorse il Nardi, dello «spirito naturale»; e cfr. Restoro d’Arezzo, La composizione del mondo, II.4.1, 4: «la virtude loro sarea impedita»). La stessa perifrasi in Dante, Chi guarderà, 13, «’l contrario de la vita» (e 9 «finita» sost., 10 «disfatto»); e si noti come vita sia qui mimetizzata nelle rime in -ita e via (ma cfr. 40). 38. Non che l’amore sia per sé contro natura (con continuazione del procedimento oppositivo e in fin de’ conti negativo tipico di questa stanza, vv. 29-30, 31, 34, 36-37, e cfr. 32, 39, 40, 41). Naturale è aggettivo sostantivato (‘unico’, s’è già visto al v. 8, come lo è oppost(o)). 39. quanto che: in quanto; nella misura in cui. – da buon perfetto tort’è (con rara rima franta): soggetto «om» del v. sg.: è (per l’eccesso di concupiscenza e per l’«intendere» tutto al suo compimento) torto, distolto, deviato dal «bonum perfectum» (termine aristotelico): secondo Dino del Garbo (p. 370) e altri, dalla perfezione della sua natura fisica («a bona sua dispositione naturali» e «ab operibus nutrimenti» – e cfr. ancora Dante, V.N., II 6 cit.) o sensibile (che è il campo d’azione proprio dell’amore: cfr. 30-31); secondo altri (Nardi, pp. 71-73, e la Corti, pp. 28-29), dalla sua perfezione di essere razionale (in termini semplicemente aristotelici), in cui consiste la felicità. La «vita» consiste dunque nella realizzazione della propria ‘perfezione’. Buon (calco del lat. ‘bonum’: cioè ‘bene’), perfetto, torto part, altrettanti ‘unici’. 40. per sorte (u): corrisponde (e risponde) a se forte del v. 36, e va unito alla proposizione introdotta da quanto che: ‘in quanto si dà il caso che’ ecc. (ma Nardi lo unisce alla proposizione seguente
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ché stabilita - non ha segnoria. A simil pò valer quand’om l’oblia.
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L’essere è quando - lo voler è tanto nel senso di ‘esposto com’è ai colpi di fortuna’). – non pò dire om ch(e) ecc.: non si può dire che uno ecc., con soggettivizzazione drammatica e ‘confessione’ del proprio ‘non essere’ (cfr. Guinizelli, Al cor gentil, 33: «dis’omo alter: Gentil per sclatta torno»). 41. stabilita non ha segnoria: non ha stabile (stabilita è ‘unico’) dominio di sé (soggetto «om» del v. preced.). L’affermazione è tuttavia mutuata dalla tenzone Chiaro-Pacino, in cui il secondo asserisce (son. 2 11) che «Dio d’amore nonn-à segnoria». 42. A simil pò valer: a simiglianza, similmente, ugualmente (per la formula cfr. nota a III 14) ciò vale; lo stesso dicasi (cfr. ‘vale a dire’), lo stesso effetto si ha. Per l’analogia cfr. il verso conclusivo del dantesco Amore e ’l cor gentil: «E simil face in donna omo valente», con evidente richiamo formale. – quand’om l’oblia: quando lo si dimentica (om richiama om del v. 40), intendendo per lo non l’amore, come comunemente (l’astinenza da esso, fatto naturale, vitale, equivarrebbe a morte; ovvero, per il medico Dino del Garbo, p. 370, a ciò – ma Marti «ad uomo siffatto» – non essendoci altro rimedio che l’oblio), bensì sempre il «buon perfetto» del v. 9 (Tanturli): il seguire l’amore equivale, per quella perdita della padronanza di sé, a totale dimenticanza del proprio fine. Si noti che oblia richiama diametralmente memora del 1° verso della stanza precedente (e così stabilita non ha segnoria del penultimo verso si oppone formalmente a prende suo stato del 2° verso della medesima). 43-49. Risponde al quinto quesito, «qual sia... L’essenza» d’amore (12), con formale rispondenza e interpretazione in «L’essere» del v. 43; benché Dino del Garbo limiti questa ‘divisione’ ai vv. 43-45, con «Move» del v. 46 cominciando per lui la risposta al sesto quesito circa il «suo movimento»; ma a parte i vv. 48-49, gli stessi contrassegni dei vv. 46-47 debbono intendersi piuttosto come ‘fenomeni’ (‘apparenze’) e ‘trasformazioni’ dell’amore. 43-44. L’essere (u) d’amore ossia l’amore, è quando il desiderio eccede la misura (cfr. l’«immoderata cogitatio» del Cappellano). Col che l’«essere» d’amore paradossalmente ‘consiste’ (è il termine più volte adoperato da Dino del Garbo, p. 371) nel suo ‘eccesso’ (come ripetutamente s’esprime lo stesso Dino, ivi: «in appetito in quo est desiderium ut coniungatur rei amate tantum... ultra mensuram termini naturalis» (cfr. il Cappellano); e sùbito sotto: «et cum isto appetitu, in quo est hec passio, est etiam sollicitudo cogitationis continuative circa rem amatam»).
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ch’oltra misura - di natura - torna, poi non s’adorna - di riposo mai. Move, cangiando - color, riso in pianto, e la figura - co paura - storna;
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44. misura: il giusto limite (la natura, giusta l’eco della rima, identificandosi con la misura). Guittone, O tu, de nome Amor, 27: «non misura ha ei né ragione» (cui segue la coppia di rime soggiorna : torna). – torna: diventa, riesce (con implicazione di mutamento o deviazione appunto dalla misura, e primo elemento di una serie che interessa i vv. 46-47). Cfr. Guinizelli, Al cor gentil, 33: «Gentil per sclatta torno». 45. poi: dopodiché, una volta uscito dai limiti. Continua la serie temporale inaugurata da 43 quando, e gli risponde mai in fin di verso; ma potrebbe interpretarsi come semplice congiunzione, o nesso logico, allo stesso modo che quando corrisponde a quanto che del v. 39.E comunque anch’esso anticipato nel quesito del v. 12. – non s’adorna di riposo: non è accompagnato (quasi dicesse confortato) da riposo, non si dà, non trova quiete, verosimilmente per l’insofferenza dovuta all’insoddisfazione del desiderio, all’incapacità di «quietare humanum appetitum» (come s’esprime Iacopo da Pistoia, per cui la felicità «non est bonum anime sensitive», De felicitate, ll. 101-6, e «non consistit in ipso amare», ivi, ll. 169-74: proposizione quest’ultima che Dante rovescerà nel cap. XVIII della Vita Nuova), incapacità divenuta inquietudine dell’amore stesso. Di questa perifrasi un’eco forse in Dante, Le dolci rime, 121 («L’anima cui adorna [per dire ‘in cui è’] esta bontate»). 46. Move: con anticipazione di (o eco in) 50: muta, converte. – cangiando: facendo cambiare (per la forma, gallicismo, cfr. XI 10). Dal «palleat omnis amans» di Ovidio, Ars amat., 1727, almeno al «color d’amore» di Dante (che per Guido è color di morte) al «scolorocci il viso» di Francesca, contrassegno tipico della passione amorosa. Ma l’espressione «cangiando color» ricalca singolarmente quella della canzone di frate Ubertino a Chiaro In gran parole, 40, «come le piace ti muta colore», riferita a «la planeta maggior», ma figuratamente e in termini, come si vedrà, particolarmente adatti a un’inchiesta sulla natura d’amore. E quanto all’opposizione riso/pianto, cfr. ivi i vv. 34-36, 39: «ha... trestizïa con gaudio insieme ad ora, Languir con gioia, sollazzo e lamento... Dòle e dà pianto con allegramento». 47. con: «strumentale-causale» (Contini): per effetto di. – storna (u): stravolge, piuttosto che «fa distogliere... dall’oggetto amato» (Contini): tenuto conto che «figura», quando non significa il volto della donna, esprime le alterazioni della passione (cfr. XIII
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poco soggiorna; - ancor di lui vedrai che ‘n gente di valor lo più si trova. La nova- qualità move sospiri, e vol ch’om miri - ‘n non formato loco,
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7, e anche XXXVI 3, che conforta a considerare questi versi come ancora rispondenti al quinto quesito ossia ai ‘cambiamenti di stato’ d’amore; e Dante, Con l’altre donne, 12, «mi cangio in figura d’altrui»). 48. soggiorna (u): persiste, dura, in un determinato ‘stato’ (e già Aristotele avvertiva che dell’amore è «velox transmutatio», intendendo d’oggetto in oggetto). Frate Ubertino nella canz. cit., 38: «e in uno stato ferma non dimora». – ancor: inoltre. – vedrai: la 2ª persona con valore indefinito (il futuro indica possibilità): si vede. 49. Ulteriore conferma, per dirla con Contini, della «sottostruttura» cortese della trattazione, perfettamente recepita del resto da Dino del Garbo (p. 373), al quale si riferisce il rilievo. «Gente di valor» sono i ‘cori gentili’ (lo più vale ‘per lo più’); e la definizione è l’esatto contrario di «gente vile» di XXV 9. Accanto a quella della poca costanza (ma la gente vile, ferma al livello animale, sarebbe refrattaria ai mutamenti, ed è, osserva Dino, tutta presa dalle cure pratiche), c’è la constatazione dell’eccezionalità dell’amore, privilegio (ma è tale?) di chi più sente e ‘immagina’ (contro l’idea abbastanza diffusa che di costoro sia caratteristica la speculazione intellettuale). 50-56. Risponde almeno di qui al sesto quesito (12) circa le ‘alterazioni’ o effetti prodotti dall’amore. 50. nova: come ha mostrato ai vv. 43 sgg., non di tutti, e mutevole, e provocatrice d’alterazioni: quasi che uno fosse soggetto a mutamenti delle sue proprietà naturali (per le quali cfr. nota a 25). Nardi intende: al suo improvviso insorgere; Favati, Canzone, p. 448 nota 75: imprevedibile. Ma cfr. anche la nota a XXXII 17. «La nova qualità» varrebbe dunque la ‘novità’ (XXV 1 «novella»), ossia l’alterazione in cui consiste l’amore (vv. 43-48). – move sospiri: ‘conversione’ all’attivo di XIV 10, XXVI 18 (move riprende 12 «movimento»). 51. vol ch’om miri ’n: costringe a mirare in, ossia ad avere per oggetto (om al solito indefinito). – non formato loco: con allusione al non prender piena forma o «perfezione» (bensì nell’intelletto possibile, inattingibile alla «intenzione»), e quindi alla non intera percepibilità dell’interno fantasma, su cui vedi XIX 23-24 (la variante non fermato alluderebbe ancora all’instabilità di cui sopra). Per la perifrasi ‘locale’ cfr. XI 3, XXXIV 18, nonché la tradizionale designazione con ‘dove’ dell’oggetto amato. Dunque un modo d’essere alterato per qualcosa che non costituisce appagamento (o,
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destandos’ ira la qual manda foco (Imaginar nol pote om che nol prova), né mova - già però ch’a lui si tiri, e non si giri - per trovarvi gioco: né cert’ha mente gran saver né poco.
52
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leggendo non fermato: per non poter fermarsi con la mente su nulla). 52. destandos(i): per cui si desta (con la solita indipendenza del gerundio). – ira: secondo il Nardi, L’averroismo..., p. 76, la «virtù irascibile» (irritata dal mancato appagamento), manifestantesi come accensione («foco») ad attingere l’irraggiungibile. Cfr. l’«adirarsi» dell’anima (che ha «formato» nella sua immaginazione «la sua pena», ossia l’immagine di lei «com’ella è bella e ria») contro sé stessa «c’ha fatto il foco ond’ella trista incende», nella canzone dantesca Amor, da che convien, 24-25, e 19-21 (Favati, Canzone, p. 448 nota 78). 53. Richiama, applicato al divampare della «virtù irascibile», e dunque in ulteriore significativa opposizione (Tanturli), «che ’ntender no la può chi no la prova» di Dante, Tanto gentile, 11, detto della «dolcezza» suscitata dall’epifania della beatrice (evento reale, non vagheggiamento immaginativo – «imaginar» fa riferimento appunto a «quella parte dove sta memora», e costituisce per sé opposizione al dantesco «intender»: cfr. M. Colombo, Note sul linguaggio amoroso dei mistici medievali e Dante, «Letture classensi», 13 [1984], p. 104 nota 42); per dire, certo, che solo l’esperienza (e cfr. v. 4) può dare idea di tali effetti. 54. né mova: coordinato (come «e non si giri» del v. sg.) a «miri» del v. 51, e dunque dipendente da «voi»: e vuole che uno non si muova (terza occorrenza del verbo nella strofa), ossia induce una paralisi fisica (cfr. VIII 9-11) e mentale (insistenza nella ‘cogitatio’) – già: rafforza la negazione. – però ch(e): ‘perché’ con valore concessivo; benché, per quanto. – a lui si tiri: sia tirato, attratto al «loco» suddetto. Non c’è esempio di tirare (qui u) nel senso di «trarre» di XXXª 24, ossia «to shoot», come vorrebbe lo Shaw (per cui vi sarebbe il riscontro con XVI 13-14). 55. e non si giri: né che se ne rivolga via, se ne distolga. Cfr. ancora frate Ubertino, canz. cit., 41-42: «e tìrati e alenta, E svolge e atalenta» (dove però svolge sarà piuttosto ‘svoglia’). – per trovarvi: finale (o causale): è lo scopo (o la ragione) di quel ‘non volere’ (-vi riferito ancora al «loco» del v. 51, a «lui» del v. 54), dunque costruito indipendentemente (perché uno vi trovi) come un gerundio. – gioco: gioia, piacere. 56. né certamente (rinunziando all’equivoca congettura cert’ha mente): gioia, sì, non certo, non si pretende per trovarvi gran saver
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De simil tragge - complessione sguardo che fa parere - lo piacere - certo: non pò coverto - star, quand’è s’ giunto. Non già selvagge - le bieltà son dardo, ché tal volere - per temere - è sperto:
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ecc. – gran saver né poco: una qualche (né molta né poca) saggezza (oggetto di trovarvi). 57-62. Risposta al settimo quesito (13). 57. Doppio iperbato, per sublime artificio, se non per significare reciprocità. Costruisci: da una complessione (u) simile (il termine, specifico del linguaggio medico, e per cui vedi la nota al v. 25, riporta l’attrazione amorosa a una corrispondenza fisica), da un essere simile per complessione l’amore trae, fa nascere, suscita uno sguardo (a rigore tragge potrebb’essere assoluto, ‘parte’, ‘scocca’, e sguardo soggetto): qui inteso, senza distinzione, vista dell’oggetto amabile e sguardo ricevutone, dalla somiglianza delle nature derivando un’attrazione reciproca (la «similitudo» era già una delle condizioni dell’amicizia per Cicerone): ciò che Guido riassume in un solo verso in XXXII 15 (per trarre cfr. anche XXV 4-5; per l’intero costrutto, e analogo significato IX 37-38). 58. parere: apparire (certo compl. predicativo del soggetto piacere). Ma Dino del Garbo, che però lega certo a quanto segue, osserva, pp. 375-76, che se la «similitudo» e la «convenientia» è ciò che «facit rem... placibilem», si tratta di un’impressione soggettiva e non necessariamente «secundum rei veritatem». 59. coverto (u): celato. Vecchia sentenza che l’amore non si nasconde, è costretto a manifestarsi. – giunto: giunto a segno (cfr. XIII 12). 60. Le bellezze (il plurale denota generalità), come causa del piacere, sono dardo, feriscono, come altrove (IX 37-38) il «dolce riso» o (XXI 9-10) i sospiri: tutte, non già in quanto (ossia solo quelle) «selvagge» (u), ‘fere’, ostili (l’interpretazione, finora, ch’io sappia, mai proposta, deriva dalla funzione predicativa di selvagge). 61. tal volere: la «volontate» del v. 20, la «intenzione» del v. 33; l’amore insomma. – sperto: credo si debba tornare (anche in forza della nuova del v. 60) alla vecchia interpretazione ‘sperimentato’ (lat ‘expertus’, u), ossia messo alla prova, e intendere per temere come compl. di mezzo (o addirittura d’agente). La ‘bontà’ dell’amore, «res solliciti plena timoris» secondo Ovidio, Her., I 12, è messa alla prova dal timore, ossia dal coraggio o meno con cui si sopportano le sue ferite. Donde il v. 62. Secondo l’interpretazione corrente le beltà ritrose non feriscono perché il timore ‘sperde’ il desiderio (sicché saette e non timore sarebbero l’effetto
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consiegue merto - spirito ch’è punto. E non si pò conoscer per lo viso: compriso - bianco in tale obietto cade; e, chi ben aude, - forma non si vede: dungu’ elli meno, che da lei procede. For di colore, d’essere diviso,
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dell’amore corrisposto). 62. consiegue merto: ottiene il riconoscimento del suo valore, come un prode combattente. Verbo e sostantivo ‘unici’. – spirito: sineddoche per ‘persona’, come in XXVIII 5 (il merito di tale intrepidezza è evidentemente tutto morale). – punto (u): ferito, colpito. 63-70. Risposta all’ultimo quesito (14). 63. L’amore non si può nascondere (cfr. 59), perché se ne vedono le conseguenze; ma non è per sé visibile (conoscer vale ‘percepire’, come intende Dino, p. 377, in accezione ancor viva: per es. ‘non si conosce la ferita’; viso è ‘visus’, ‘vista’ come in IX 4 e per ha valore di ‘per mezzo di’). 64. compriso (sicilianismo formale: cfr. XXXI1 7, XL 12): una volta «comprehensus» (Corti, p. 34), concepito dall’anima sensitiva, dove appunto l’amore «prende suo stato». – bianco (u): aggettivo sostantivato, la bianchezza, ossia il visibile per eccellenza, in quanto «colore pieno di luce corporale più che nullo altro» (Dante, Conv., IV XXII 17, cit. dalla Corti, p. 35; e cfr. «poi che ’l sol li ’mbianca» di Inf., II 128). Soggetto di cade, ‘vien meno’: visto che amore è «formato» da una «scuritate», è cecità e tenebra (e cfr. 67-68): col che si riprende il termine di paragone della conoscibilità di 16-17. – in tale obietto: evidentemente in contrapposizione a (Corti, p. 35; e ‘unico’ come) «in subietto» (23), ossia l’intelletto possibile (che è il soggetto della conoscenza), indica il sensibile (il visibile): in questo caso amore. 65. e: e d’altra parte. – chi ben aude: chi (se uno) bene intende (aude, latinismo per ‘ode’, in relazione e opposizione a vede, è probabilmente indotto dall’evangelico «qui habet aures audiendi, audiat», Matt., XI 15 ecc. Guittone, canz. O tu, de nome Amor, 24, ha comunque «ma chi ben sente, el contrar vede aperto»). – forma non si vede: una forma, la ‘forma’ (non, beninteso, – donde «chi ben aude» – la «veduta forma», ma la «veduta forma che s’intende») non è visibile. 66. dungu’elli meno: tanto meno dunque lui. – che da lei procede: che «vien da veduta forma» ecc. (procede ‘unico’). 67-68. Riassume le ragioni dell’invisibilità. 67. For di colore: privo di colore, per quanto ha detto al v. 64. –
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assiso - ’n mezzo scuro, luce rade, For d’ogne fraude - dico, degno in fede, che solo di costui nasce mercede.
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Tu puoi sicuramente gir, canzone, là ‘ve ti piace, ch’io t’ho sì adornata ch’assai laudata - sarà tua ragione da le persone - c’hanno intendimento: di star con l’altre tu non hai talento.
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d’essere diviso: variante (in chiasmo) di «for di» ecc.: in quanto accidente non sostanza (2). 68. assiso ’n (u): con sede in. – mezzo scuro: è il contrario del «diafano» («medium illuminatum») di cui al v. 17. – rade (u): voce del verbo radere: cancella; esclude (regge luce). Per l’uso metaforico (congruente con for di, diviso d(i)) cfr. Dante, Inf., VIII 118-19) («le ciglia... rase D’ogni baldanza»). 69. For d’ogne fraude: attestazione analoga a quella di 65: senza inganno, ‘sans mentir’. Come dicesse: sembra incredibile, ma è così. – dico: con forza asseverativa (cfr. 31, e meglio Donne ch’avete, 31). – degno in fede: apposizione del soggetto di dico. Corrisponde al lat. ‘fide dignus’. 70. di costui: com’è descritto in questa strofa, cosa ‘piena di timore’ e oscura. Con tutto ciò, amore è unica (cfr. I 43) fonte di mercé (e cfr. XXVIII 8, 9-11, XXXVIIIb 6, XXXIX 14). Se non è ironico: è da uno stato come questo (a questo prezzo?) che nasce mercé: figuriamoci quanta (per cui il verso avrebbe una funzione analoga a quella del v. 56). 71. sicuramente (u): senza timore (di critiche), a testa alta. 72. là ’ve ti piace: cfr. XXXIV 26. – adornata: allude all’ornato retorico e metrico, parte anch’esso della sapienza della dimostrazione. Dante nella prima canzone del Convivio inviterà ad apprezzare almeno la veste della difficile «sentenza», fatta di «costruzione», «ordine» e «numero» (Conv., II XI 9). 73. assai: molto. – tua ragione: ciò che tu ragioni, il tuo ragionare (la tua «sentenza»): cfr. 7. 74. c’hanno intendimento: e alle quali si è già riferito con «conoscente» (5) e «chi ben aude» (65). Distinzione presente anche in XXXV 9-10, e fatta propria da Dante, Donne ch’avete intelletto d’amore sin dall’incipit (e cfr. 67 «solo con donne o con omo cortese»). 75. l’altre: che non «hanno intendimento». – non hai talento: richiama 9 (e 1): non sei disposta.
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XXVIII Pegli occhi fere un spirito sottile, che fa ‘n la mente spirito destare, dal qual si move spirito d’amare, ch’ogn’altro spiritel fa[ce] gentile.
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1. Pegli occhi fere: come (e con identica collocazione) in IX 23: attraverso gli occhi, come lì, dell’amante. Ma l’incipit arieggia quello dell’anonimo (nel Vat. lat. 3793, n. 337) Dal cor si move un spirito in vedere (Caridi). – un spirito sottile: versione ‘attiva’, si direbbe (cfr. fece: ‘sguardo’ dunque, non ‘visus’) di XXII 12 (la versione ‘passiva’ è all’altro estremo, v. 14): uno sguardo penetrante come saetta, per cui cfr. ancora IX 37-38, e XXXI 4-7 Ma per la congruenza (nella fattispecie della ‘subtilitas’) dell’effetto con la causa (e in analogia con XXI 9-10), si tratterà più verosimilmente della ‘vista’ (ossia ‘visione’) dell’amata, con corrispondenza perciò con XIII 1 (e 2), e più logica spiegazione del v. 2; insomma, della “veduta forma” di XXVIIb 21. Spirito sottile in clausola di verso (e di sonetto) in Paolo Lanfranchi, L’altr’ier, dormendo. La posposizione del soggetto e in genere l’‘ordo artificialis’ è caratteristico delle proposizioni dei primi tre versi, nonché dei vv. 5-6, 9-10, 11. 2. Cfr. XIII 2 (qui destare, in dipendenza da fa, per ‘destarsi’). Lo “spirito” n. 2, ossia il momento intermedio tra la percezione visiva e l’insorgere dello “spirito d’amore” (3), rappresenta certamente il fissarsi, anzi il formarsi del fantasma nell’“immaginativa” (cfr. XXVI 7-8). In sostanza i vv. 1-3 riinterpretano analiticamente quello che in XXVI 1-3 è espresso in termini per dir così ‘emozionali’. Per un analogo procedimento analitico cfr. di Dante, piuttosto che Io mi senti’ svegliar più volte cit., Amore e ’l cor gentil, 913 (“Bieltate appare... Che piace agli occhi sì che dentro al core Nasce un disio de la cosa piacente; E tanto dura talora in costui, Che fa svegliar lo spirito d’Amore”). 3. si move: deriva, è generato (si move, qui e al v. 9, può valere sia per il riflessivo sia per il passivo: cfr. nota a XXVI 11), ma con connotazione di ‘movimento’, ossia d’evento nello spazio, comune ai vv. 1-3 (fere, destare, si move), e che si riproduce in 6 (appare), 9-12 (si move ancora, siegue, piove). – d’amare: l’infinito per il sostantivo (al modo che lo ‘spirito della vista’ è lo “spirito che vede” ossia ‘di vedere’: cfr. del resto XXVIIb 13), giusta il carattere ‘attivo’ di questi enti. Cfr. XXII 2. 4. ogn’altro spiritel: tutte le facoltà (vitali, sensitive ecc.) dell’essere; tutto l’essere. È l’iperbole concettuale sviluppata da Dante in relazione al “miracolo” Beatrice (V.N., XXI) che amore
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Sentir non pò di lu’ spirito vile, di contanta vertù spirito appare: quest’ è lo spiritel che fa tremare, lo spiritel che fa la donna umìle.
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E poi da questo spirito si muove “non solamente si sveglia là ove dorme”, in cor gentile, “ma là ove non è in potenzia”, ossia dove non è gentilezza, “ella, mirabilemente operando, lo fa venire” e più semplicemente, nel sonetto corrispondente, v. 2, “si fa gentil ciò ch’ella mira”. Il concetto del resto risale al Cappellano, I 4 (“infimos natu etiam morum novit nobilitate ditare”), come indicò il Casella (SD, XVIII, 1934, pp. 112). 5. Cfr. XXV 8-9 (ma riferito a madonna, e in termini di ‘conoscenza’: mentre qui si tratta semplicemente di “sentire” amore, come in XXVIIb 4, o “imaginare” come al v. 53, lu’ essendo lo “spirito d’amare” del v. 3 – il partitivo di lu’ per dire ‘nulla di lui’, nemmeno un po’). Spirito (sogg.) è cioè vicario, per ‘anima’, ‘essere’, ‘persona’ (difficilmente si riferirà alle funzioni vitali più basse: cfr. 4 e il cap. II della Vita Nuova). L’apparente contraddizione con 4 è dunque sanata dall’iperbole che, tutto ingentilendo Amore, non v’è più “spirito vile”. 6. Protasi della proposizione consecutiva rappresentata dal v. 5. Vertù indica qui altezza, perfezione ‘spirituale’, insomma “gentilezza” (cfr. XXV 12), e cfr. comunque l’“omnem habens virtutem” del Liber Sapientiae cit.; appare vale ‘è evidentemente’, e quasi ‘si sente’. 7. Cfr. XXII 2. Il sintagma fa tremare anche in IV 2, XXVI 17. Qui e al v. sg il diminutivo, che ha probabilmente motivazione esclusivamente prosodica, potrebbe aver funzione d’attenuazione della ripetizione, trattandosi sempre dello “spirito d’amare” (ma cfr. 9). 8. E per contro; e insieme. – umìle: benigna (cfr. XVII 6). E cfr. XXVIb 70. 9. Con evidente ripresa del processo interrotto (e di si move del v. 3) per descrivere gli effetti d’amore (e questo riprende questo del v. 7). Ma l’ultimo (8) anticipa in forma definitoria e diciamo paradigmatica ciò che nei vv. sgg. è rappresentato in sequenza sintagmatica (e cfr. un analogo rapporto tra v. 4 e v. 5). Questo designerebbe dunque il suo rendere “la donna umile”, lo spirito d’amore in quanto agente sulla donna (onde E poi). Per cui il v. 8 diverrebbe lo spartiacque, come del sonetto, così dell’intera rappresentazione.
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un altro dolce spirito soave, che siegue un spiritello di mercede:
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lo quale spiritel spiriti piove, ché di ciascuno spirit’ ha la chiave, per forza d’uno spirito che ’l vede.
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10. altro: ossia, come vuole la struttura del sonetto, distinto. – dolce spirito soave: Dante tradurrà (in Tanto gentile, 10) in “una dolcezza” (e cfr. del resto XXV 3, 13), come conferma la riinterpretazione figurativa del v. 13 “un spirito soave pien d’amore” (e il riprodursi di allitterazioni come mova... soave, addirittura entro uno schema E par... si mova sovrapponibile a E poi... si move del v. precedente): se beninteso non è Guido, alla maniera di Onesto, a fare il verso a lui. È la “dolcezza” prodotta dal “lume di merzede” di XXII 9-11 (che cominciano “Ma poi...”), qui producente lo “spiritello” del v. sg. 11. che: dunque oggetto, a norma della già indicata generale collocazione del soggetto dopo il verbo. – un spiritello di mercede: se non da attribuire alla donna (e perciò da intendere come ‘un sentimento’ ecc., come in Inf., XIII, 36, o ‘un atto’, la “mercé” di lei fatta spirito e vita; e cfr. XXXª 15, per cui verrebbe di tradurlo ‘uno spiritello nato di mercede’), manifestazione visibile (cfr. 14: in XXII 10 “lume”), come “mercede”, della “dolcezza” conseguente all’azione di Amore sulla donna. 12. spiriti: da intendere verosimilmente come ‘sospiri’, quasi ‘spiriti di sospiri’ (ossia per sineddoche), alla luce di XXXIII 1011. Il fenomeno corrisponde in sostanza a una fuga, o per lo meno effusione, di spiriti (e cfr. 13); ovvero (Tanturli) a un riaffluire di spiriti nel cuore (e cfr. XXIX 12). – piove: transitivo: profonde, effonde, spande (lat. ‘fundit’, e lo stesso ‘pluit’), ossia è fonte di (con la solita connotazione figurativa). 13. ciascuno spirit(o): corrisponde a “ogn’altro spiritel” del v. 4. – la chiave: il potere, la disponibilità (e cfr. XXXª 7-8), qui nel senso proprio di poterne aprire la porta (e dar loro la via). Donde Dino Frescobaldi, Poscia ch’io veggio, 12 e ad imitazione, in tutta la sirima, di Guido: “Questo [spirito] d’ogni mi’ spirito ha la chiave”. 14. per forza d(i): in virtù di, grazie a. – uno spirito che ’l vede: la particella pronominale essendo concordemente attestata (un solo codice, il tardo Palat. 288, ha la ‘singularis’ che vede), essa va riferita allo “spiritello” dei vv. 11-12, e la frase va intesa come specificazione (ossia applicazione a un determinato oggetto) dello “spirito che vede” di XXII 12: ‘una capacità di percepirlo’. La
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vista della propria “mercede” conclude così il processo che dalla vista dell’oggetto del desiderio ha preso le mosse (il v. 14 comincia con per come il v. 1): ciò che dà morte (v. 7), dà vita (v. 8), e la consequenzialità può portare a far sì che gli estremi si tocchino.
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XXIX Una giovane donna di Tolosa, bell’e gentil, d’onesta leggiadria, è tant’e dritta e simigliante cosa, ne’ suoi dolci occhi, della donna mia,
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che fatt’ ha dentro al cor disiderosa l’anima, in guisa che da lui si svia e vanne a lei; ma tant’e paurosa, 1. L’attacco riecheggia forse nell’incipit di Cino Una gentil piacevol giovanella, peraltro indebitato con Guido di XXXIV 5. 2. bell’e gentil: cfr. XXV 6, XXXIV 5, XLIVb 7. La coppia nell’attacco dell’altro sonetto di Cino Bella e gentile, amica di pietate. – d’onesta leggiadria: ‘variatio (il complemento di qualità per l’attributo). Onesta vale “onorevole” (Contini) o ‘decente’ (da ‘decus’), come del resto in XLVIIIª 3. Integra positivamente il sostantivo, la “leggiadria” non essendo, c’insegna Dante (canz. Poscia ch’Amor, 77 sgg ), “pura virtù” e disconvenendosi per sé a “gente onesta Di vita spiritale”, mentre è “lodata”, ad es., nel “cavaliere”, in quanto qualità fondamentalmente ‘cortese’ (o mondana) composta di “sollazzo”, “amore” e “operazione perfetta”, e potendo arrivare all’estremo negativo della “fatuità” (Contini – il prov. ‘leujairia’ viene da ‘leu’ ossia ‘leggero’). 3. e dritta e simigliante: endiadi: drittamente ossia perfettamente somigliante (costruito con di come ‘similis’ col genitivo). L’incontro di Gavaudan, L’autre dia, per un mati (Audiau, IV), 56, è appunto con “una toza que?m ressemblet Sylh cuy ieu vezer solia” (per cui la somiglianza è un richiamo alla cultura a cui il viaggio di Guido rappresenta l’accesso). – cosa: ha (come causa in provenzale) valore vicario (ossia di mera sostantivazione dell’aggettivo) per ‘donna’ (persona, essere: in Dante, Donne ch’avete, 43, ‘creatura’). 4. ne’ suoi dolci occhi: compl. di limitazione: in ciò che specificamente fa innamorare (al v. 9 “dolce sguardo”), in quella che è sede specifica d’Amore (cfr. v. 10). 5. dentro al cor: sede dell’anima. – disiderosa: compl. predicativo dell’oggetto (“l’anima”) di fatt’ ha. 6. da lui: dal cuore. – si svia: esce, s’allontana. Cfr. v. 12. 7. vanne: se ne va; va. – paurosa: “timida” (Contini).
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che non le dice di qual donna sia.
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Quella la mira nel su’ dolce sguardo, ne lo qual face rallegrare Amore perché v’è dentro la sua donna dritta;
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po’ torna, piena di sospir’, nel core, ferita a morte d’un tagliente dardo che questa donna nel partir li gitta.
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8. le: a lei, alla donna. – di qual donna sia: a qual donna appartenga, d’appartenere cioè alla “donna sua”. Si noti come la signora del suo cuore e della sua anima occupi le posizioni ‘centrali’ dei vv. 4, 8 e 11; la nuova donna sia collocata agli estremi dei vv. 1 e 14. Col che donna ha la più alta frequenza di un qualsiasi componimento di Guido. 9. Quella: l’anima. – nel su’ dolce sguardo: ‘variante’ di 4 “ne’ suoi dolci occhi” (per “dolce sguardo” cfr. XXIV 9), qui compl. di luogo. Dante ha spiegato (Conv., II IX 5) che guardare uno negli occhi equivale ad essere guardato negli occhi da lui (“e molte volte, nel dirizzare di questa linea”, ossia la linea dello sguardo, “discocca l’arco di colui [= Amore] al quale ogni arme è leggiere”; e cfr. v. sg.). 10. ne lo qual: con sfumatura causale. Ma tanto vale dire che Amore si ridesta per lui in quegli occhi, ossia a guardarli. – face rallegrare Amore: si rallegra (face indica che ciò è effetto del proprio “mirare”), ossia si fa più vivo, ‘alacer’, Amore che è in lei (ossia in me): intendendosi che il soggetto è “l’anima”. 11. dentro: negli occhi di lei (coerentemente coi due complementi di luogo dei vv.9 e 10. – dritta: precisa, identica: tanto è “dritta e simigliante cosa” ecc. Guardare negli occhi della giovane donna è vedervi madonna. 12. piena di sospir’: per effetto della ferita che ne riceve (vv. 1314). 13. tagliente: cfr. le note a XII 14, XIII 5. 14. nel partir: nel partirsi che fa l’anima da lei e tornare nel cuore.
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XXX (a) Era in penser d’amor quand’ l’ trovai due foresette nove. L’una cantava: «E’ piove gioco d’amore in noi» .
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1. in penser d’amor: lo stato d’animo è tipico del protagonista delle pastorelle, spesso dicharantesi, come Guido potrebbe, “pencis si com suis sovent”; valgano in particolare per l’identica specificazione, gli attacchi o immediate determinazioni (Bartsch, sezz. III e, per le ‘romanze’, I) “Pensis com fins amourous...” (III 33, 1), “Pancis amerouzement...” (I 21, 1), “... trespensis d’amors estoie” (III 49, 3), “pancis d’amors ou j’ai mis mon panceir” (I 44, 2). Così Johan Esteve (Audiau, XVI 4-6): “M’anava... Del joi pessan Que?m ven d’amor” (con perifrasi di gusto cavalcantiano). – trovai: incontrai (cfr. IX 6 e, per la “pastorella”, XLVIª 1). 2. foresette: diminutivo di ‘forese’, equivalente (cfr. XLV 3) di ‘contadino’ o ‘villano’: qui si tratta della versione ‘rustica’ della pastorella (Contini). Che siano due (come del resto nella pastorella Quant voi la prime florete, Rivière, L 5-8, dove le “dous pastoretes Ki s’antremetent d’ameir, De lour loials amouretes Comanserent a parleir”, o nell’altra A une fontaine, Bartsch, II 66, dove hanno anche nome “Jehanne et Alaine”, e confessano il cavaliere; e cfr. ivi, I 67, III 29) porta sùbito l’incontro verso il colloquio anziché verso l’avventura, e rende possibile una suggestiva divisione delle parti (a cominciare da “L’una cantava” del v. 3). – nove: “giovani, fresche” (Contini), come sono in genere queste interlocutrici. 3. cantava: in consonanza con le rime cui s’interpone. Spesso, nel cammino, la presenza di una pastorella è rivelata dal suo canto. – piove (con e’ introduttivo d’impersonale): scende: dal cielo? (cfr. ancora Dante, Io son venuto, 67-68, “quando piove Amore in terra da tutti li cieli”, e I’ mi son pargoletta, 11-12, “Ciascuna stella ne li occhi mi piove Del lume suo e de la sua vertute”) in abbondanza? La metafora, specificamente cavalcantiana (cfr. XIV 11), e che arriverà fino a Petrarca (R.V.F., CLIV 7-8), rientra nella più ampia tendenza a moltiplicare lo spazio scenico. Ma qui va ricordato Arnaut Daniel, En cest sonet, 13, “l’amors q’inz el cor mi plou”. 4. gioco: gioia (e così al v. 22); e gioco d’amore significa semplicemente ‘amore’ (e cfr. I 7). Una canzonetta anonima francese (Bartsch, I 41, 9) ha: “et chantait...: Doucement me tient amors” (Caridi); la prima battuta, dell’“ainee” delle due, della pastorella
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Era la vista lor tanto soave e tanto queta, cortese e um’le, ch’i’ dissi lor: « Vo’, portate la chiave di ciascuna vertù alta e gentile. Deh, foresette, no m’abbiate a vile
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(ivi) II 24, è “N’i est deduis ke d’amer”, ‘non v’è altro diletto che amare’; e nella 1ª strofa d’un altra romanza della stessa raccolta (I 48 7 sgg.) si ritrova lo stesso svolgimento di questi primi 4 versi: “... deus dames de grande biauté Trouvai main a main... L’une estoit si jolivete Qui chantoit ensi: j’ai aucuer joli amors” (e la strofa sg. attacca: “L’autre...”). 5. Era: con ripresa del verbo iniziale. – vista: aspetto, volto. 6. queta... e umìle: riposata, pacifica, mansueta... e benigna (ossia non avversa e non altera, con rovesciamento autorizzato da Dante, che in Amor che ne la mente mi ragiona, 69, riadopera negativamente i due aggettivi). Quanto a cortese, è significativo detto di due foresi, socialmente (e a rigor di termini) escluse dalla ‘corte’ (nello stesso Petrarca, R.V.F., CCXV 1, la coppia “umile e queta” è in opposizione a “nobile”), anche se frequentabili ‘extra moenia’ da gentiluomini. Lasciando stare ogni ipotesi di virtù allignanti in terreno non favorevole (in Marcabru, L’autrier, jost una sebissa, 30-32, si suppone un padre cavaliere per una, perciò, “corteza vilana”), la mess’in scena è evidentemente letteraria, le due foresette sono un’altra proiezione del sentimento (e cfr. 7-8, in particolare gli attributi “alta e gentile”). 7. portate: “avete” (Contini, che rinvia a XXVIII 13), con un minimo d’enfatizzazione drammatica (‘avete in mano’): cfr. Rustico di Filippo, Colui che puose nome al Macinella (sonetto dunque ‘comico’), 11, “e di ciò porta seco ben la chiave”. ‘Portare, avere la chiave di’ vale avere il possesso (o il segreto), disporre, esser signore di, dunque il colmo di, ecc. 8. ciascuna: per il valore superlativante di questi indefiniti (qui integrato dagli attributi “alta e gentile”, come in IV 10) Cfr. XXXVIIb 1-2; e per il nesso con “chiave” cfr. Dante, O voi che per la via, 6 (“... io son d’ogni tormento ostale e chiave”), Ballata, i’ voi, 35 (“... colui ch’è d’ogni pietà chiave”), – alta e gentile: il primo aggettivo estende il significato specifico del secondo. Per un’ulteriore integrazione (in climax) cfr. VI 10. 9. no m’abbiate a vile: non abbiatemi a sdegno (cfr. XV 14), ossia abbiate compassione di me. Vile, come quasi regolarmente, s’oppone in rima a gentile. In nome dunque della vostra “gentilezza”; e cfr. Dante, Onde venite voi (per il lutto di Beatrice), 5, “Deh, gentil donne, non siate sdegnose”.
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per lo colpo ch’io porto; questo cor mi fue morto poi che ‘n Tolosa fui. »
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Elle con gli occhi lor si volser tanto che vider come ‘l cor era ferito e come un spiritel nato di pianto era per mezzo de lo colpo uscito. Poi che mi vider cos’ sbigottito, disse l’una, che rise: « Guarda come conquise forza d’amor costui! »
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10. colpo: ferita (cfr. 14), per metonimia (e così ai vv. 16 e 23). – porto: come al v. 7: porto impresso (con la solita perifrasi attualizzante) e visibile (cfr. 16, 23 e 39-40, e VIII 13-14: tutto il colloquio verte su questa evidenza; e cfr. 11, 14, 19, 23, 26). 11. questo: che voi vedete. Tornano, per questa ‘passione tolosana’, i termini dell’ostensione di XII 12-14. – morto: ucciso; ferito a morte (cfr. XXIX 13). 12 poi che: dopo che; quando. 13. Ossia volsero gli occhi tanto (da vedere ecc.), verso il mio cuore che avevo loro additato. Ma il gesto è di tutte loro. E cfr. Dante, V. N., XVIII 3: “De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me...”. 14. come: che. E così al v. sg. 15. nato di pianto: per dire ‘di pianto’, ma col solito senso dell’evento e dello spettacolo del cuore ferito e divenuto scena di un dramma. Cfr. IX 3, e il son. XXVIII. 16. per mezzo de: attraverso. 17-18. Cfr. V 12-13. 18. che rise: e rise; ridendo. Non è ironico o irridente, né indulgente. È la proclamazione della vittoria (del trionfo) d’amore, oltre che normale accompagnamento della parola nelle pastorelle (ad es. Rivière, XII 22); ma potrebbe anche esser segno d’individuazione di una delle due (cfr. 38, e per contro 21 ma da integrare con 22). 19-20. L’“attendite et videte” (cfr. X 2-4, XIII 3-4) è divenuto attenzione e scoperta. 19. conquise: vinse, come in XXIII 8, XXXII 10 (e cfr. XXXIX 6). 20. forza d’amor: soggetto (l’ellissi dell’articolo ha funzione enfatica). Torna al v. 40, ed è sintagma ben affermato nella tradizio-
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L’altra, pietosa, piena di mercede, fatta di gioco in figura d’amore, disse: « ‘L tuo colpo, che nel cor si vede, fu tratto d’occhi di troppo valore, che dentro vi lasciaro uno splendore ch’i’ nol posso mirare. Dimmi se ricordare di quegli occhi ti puoi » .
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Alla dura questione e paurosa la qual mi fece questa foresetta, ne romanza (lo ritroviamo da noi in Onesto, Non so s’è per mercé, 11, e con rinforzo in Dante da Maiano, Convemmi dimostrar, 14: “ch’eo son forzato da forza d’amore” [Caridi], nonché in Ciuccio, D’uno fermo pensero, 4, e in Dante stesso, La dispietata mente, 6). 21. piena di mercede: ‘variatio’ di pietosa: compassionevole, umana. 22. Per la gioia (d’amore: cfr. 4) di cui era pervasa divenuta quasi immagine d’Amore (per “in figura di” cfr. IX 55-56). Tutta amorosa (Cino, Sta nel piacer, 12, ha appunto “tutt’amorosa di sollazzo e gioco”); ma par di assistere ad una trasfigurazione. 23. ’L tuo colpo: è lezione minoritaria (del solo Martelliano), ma restaurata da Contini (fu introdotta dall’Ercole) di contro all’affermatissimo suo (evidentemente inteso come banalizzazione) in forza di 10 (e 14), e visto che gli affini del Martelliano (Capitolare Veronese 445 e Riccardiano 1050) banalizzano a loro volta in Quel colpo. 24. tratto: inflitto (cfr. IX 37). – d’: da (compl. d’agente). – di troppo valore: di superlativa potenza (e che non posso concepire a pieno). Cfr. IX 8 e 49 (e per la clausola XXV 10). Ma la valutazione discende da Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 11, “Di sì forte valor lo colpo venne...” (e cfr. 13-14: “... passò dentr’al cor, che... sentési plagato duramente”). 25. uno splendore: è lo splendore di quegli occhi impresso nel cuore. Cfr. infatti 27-28 (e XXV 11-17, XXVI 1-3). 26. ch(e): relativo integrato dal dimostrativo (Contini: cfr. XIII 4). 29. dura... e paurosa: di difficile risposta (questione è ‘domanda’, e potrebb’essere francesismo) perché incuteva paura: per il fatto che costringeva a ricordare un evento terribile. Non insolito l’accavallamento dei due attributi al sostantivo (cfr. XXXVI 7).
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i’ dissi: « E’ mi ricorda che ‘n Tolosa donna m’apparve, accordellata istretta, Amor la qual chiamava la Mandetta; giunse sì presta e forte, che fin dentro, a la morte,
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31. E’ mi ricorda: costruito impersonalmente (come ‘mi torna a mente’). Riprende le parole della donna, vv. 27-28. 32. donna m’apparve: coi connotati dell’abbigliamento, stampato nella memoria di Dante, Purg., XXX 32: “sovra candido vel cinta d’uliva Donna m’apparve, sotto verde manto Vestita di color di fiamma viva”. – accordellata istretta: stretta in vita (nel busto) da cordelle, o anche semplicemente: con la vita stretta da una cintura (parte rilevante dell’abbigliamento, stando a Par., XV 101, 11213). La notazione appartiene a una certa ‘cultura’, se in una delle romanze edite dal Bartsch, I 28, la donna, di cui si descrive minutamente com’è vestita, oltre ad avere (v. 12) “ceinturete” (ed essere “d’or... boutonade”), è “estroitement chauçade” (‘calzata’), la pastorella di Giraut de Bornelh, L’autrier, lo primier jorn d’Aost è “estrecha 1 gonelha que vest” in Per amor soi gai attribuito a Guiraut d’Espanha (Audiau, XVII) il cavaliere promette alla fanciulla un “bliaut... menudet cordat Ab filetz d’argent”; e in Lanval di Marie de France, 58, compaiono dame “vestues... richement Et lacies estroitement”. 33. Amor la qual ecc.: la quale Amore ecc. Che si chiamava Mandetta, nome datole da Amore. O fu Guido, per ispirazione d’Amore, a darle quel nome? (Mandetta è diminutivo, con aferesi, del comunissimo Amande: così Contini, che richiama anche l’altrettanto diffuso cognome Mandet; e non è escluso, per i tempi, che vi si leggesse la radice aman-, e che fosse sentito adnominare con amanza). Il suggerimento è comunque tesaurizzato da Dante nella Vita Nuova, dov’è Amore a “nominare per nome” la seconda donna-schermo (IX 5) e a chiamare “Amore” Beatrice (per la somiglianza che ha con lui) nel son. Io mi senti’ svegliar, 14 (dopo nominata Primavera, nome a sua volta dettato da Amore: cfr. V.N., XXIV 4, e 3: “queste parole che lo cuore mi disse con la lingua d’Amore”), e si noti: “E sì come la mente mi ridice, Amor mi disse...”; senza contare che Beatrice (V.N., II 1) è chiamata così da molti inconsapevolmente. 34. giunse: apparve; ma con in più il senso dell’avvento, dell’assalto, della sorpresa (cfr. IX 16, e 12 “venne a ferire”). – presta: d’un tratto, improvvisa. – forte: con la rapidità, la violenza. Cfr. Lapo Gianni, Angelica figura, 12, “la presta percossa così forte” (: “Morte”). 35. fin dentro: nel profondo (e cfr. 25 e 41). – a la morte: a
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mi colpîr gli occhi suoi » . Molto cortesemente mi rispuose quella che di me prima avëa riso. Disse: « La donna che nel cor ti pose co la forza d’amor tutto ‘l su’ viso, dentro per li occhi ti mirò sì fiso, ch’Amor fece apparire. Se t’è greve ‘l soffrire, raccomàndati a lui » .
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Vanne a Tolosa, ballatetta mia, ed entra quetamente a la Dorata,
morte (con preposizione articolata tipica della sintassi arcaica). 37. Molto cortesemente: a conferma di quanto osservato al v. 18. L’espressione è tradizionale (Bartsch, I 52, 12, ad inizio di frase: “moult cortoisement”, e così, “Molto vilmente mi buttò di fora”, l’attacco del son. VII del Fiore). – mi rispuose: mi rivolse a sua volta la parola. 39. pose: impresse stabilmente. 40. co la forza d’amor: in clausola in La dispietata mente, 6 cit. al v. 20. – tutto ’l su’ viso: tutto il suo sguardo, tutta la “forza” del suo sguardo (cfr. 36 e 41). 41. per li occhi: cfr. XIII 1. E cfr. nota a XXIX 9. – fiso: fisamente, fissamente e intensamente. Compl. predicativo del soggetto (non importa se al maschile) o avverbio. 42. fece apparire: suscitò (cfr. XIII 2, e XXIX 10: anche qui con moltiplicazione delle ‘persone’). Amor risponde a morte della strofa precedente (35), ed è dunque rivelazione dell’interlocutrice. 43. greve: grave, intollerabile, impossibile. – soffrire: reggere alla sua presenza (cfr. IX 34); ovvero sopportare con pazienza (cfr. XXIV 6). 45. Vanne: va (e cfr. XXIX 7). E alla Mandetta, così chiamata da Amore, suscitatrice d’Amore, Amore essa stessa (in analogia con 22), che il poeta si raccomanda, accogliendo il suggerimento di una delle foresette. L’‘envoi’ è l’applicazione coerente del consiglio finale. 46. quetamente: sommessamente; in punta di piedi. – a la Dorata: nella chiesa della Daurade (ancora esistente, ma irriconoscibile), dove evidentemente Guido vide la Mandetta.
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ed ivi chiama che per cortesia d’alcuna bella donna sie menata dinanzi a quella di cui t’ho pregata; e s’ella ti riceve, dille con voce leve: « Per merzé vegno a voi » .
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47. chiama: chiedi. 47-48. per cortesia D(i): per i cortesi uffici di (cfr. II 11). 49. di cui t’ho pregata: il passato rispetto al momento in cui si presenterà alla Mandetta: che ti prego di visitare per me. 50. ti riceve: ti accoglie, ti concede udienza. 51. con voce leve: con voce sommessa. Corrisponde a “quetamente” del v. 46. 52. Per: in cerca di; “per ottenere” (Contini). Per merzé cfr. 21, IX 27, XVI 7, XXV 19; il verso equivale a “raccomandomi a voi”, ossia corrisponde al v. 44.
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XXX (b) NICCOLA MUSCIA D I GUIDO CAVALCANTI
Ècci venuto Guido [‘n] Compostello, o ha.rrecato a vender canovacci? Ch’e’ va com’oca, e càscali ‘l mantello: ben par che.ssia fattor de’ Rusticacci.
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È in bando di Firenze, od è rubello o dóttasi che ‘l popol nol ne cacci? 1. Ècci venuto: è vero che c’è venuto, c’è arrivato davvero...? si sottintende (cfr. 2) in pellegrinaggio. L’interrogazione non è necessariamente rivolta a chi a Compostela sia stato, venuto valendo ‘pervenuto’, e ha funzione d’inchiesta dubitativa, senza si debba supporre che la seconda parte del sonetto (vv. 9 sgg.) sia la risposta. – Compostello: italianizzazione di ‘Compostela’. 2. a vender canovacci: “canovacci da vendere” (Bruni Rettarini), con calco forse della costruzione gerundiva latina (‘ad c. vendendos’); dove “canovacci” sono tele grossolane di canapa, merceologicamente (ossia nei libri di gabella antichi) valutate alla pari del ‘borraccio’ (cascami da imbottiture), qui non tanto denotazione di un genere vile quanto connotazione di “vender”. 3. ch(e): dichiarativo. L’andare (a passo incerto? in branco?) e il vestire sciatto (ma si ricordi che a Dante, Vita Nuova, IX 3, Amore “peregrino” appare “leggeramente vestito e di vili drappi”, come s’usava in viaggio) non sono di un cavaliere sia pure in pellegrinaggio, ma di un “fattore” di mercante. 4. fattor: uomo di bottega o d’azienda (il senso sopravvive oggi in ‘fattorino’). – Rusticacci: non registrato nei documenti dell’epoca, è probabilmente deformazione comica, calcando sul significato, del nome dei Rusticucci (“viri populares” secondo Benvenuto da Imola, consorti dei Cavalcanti secondo l’Ottimo). 5. in bando di: sbandito da. – rubello: fuoruscito. 6. dóttasi: si teme, c’è pericolo; ovvero teme (cfr. II 7). Le varie ipotesi concernono la vera ragione della partenza (improvvisa? cfr. 8) di Guido sotto specie di pellegrinaggio (o piuttosto, come si maligna, d’affari di commercio). L’accenno al “popol” presupporrebbe la promulgazione degli Ordinamenti di Giustizia contro i ‘grandi’ del 1293. – -l ne: lo ne, ne (da Firenze) lo: la particella oggetto avanti all’obliqua, secondo l’uso antico.
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Ben par ch’e’ sappia ‘torni del camello, ché.ss’è partito sanza dicer: Vacci!
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Sa. Iacopo sdegnò quando l’udìo, ed egli stesso si fece malato, ma dice pur ch’e’ non v’era botìo.
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E quando fu a. Nnìmisi arrenato, vendè ‘ cavalli, e no.lli diè per Dio, e trassesi li sproni ed è albergato.
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7. torni: sostantivo (prov. e ant. fr. ‘torn’, fr. ‘tour’), nel senso di giuochi, tiri, comportamenti Come spiegò l’Ercole (su suggerimento del Rajna), p. 8 1, si allude al costume del cammello, secondo Solino e Plinio citati dallo Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais, di non accettare più di un certo carico né un percorso più lungo del consueto. Così Guido ha interrotto il viaggio a metà. 8. s’è partito: più che alla partenza, si riferirebbe alla separazione dai compagni di viaggio. – Vacci: va’ al tuo cammino, buon viaggio (cfr. il fr. ‘vas-y’); ovvero, nell’ipotesi della partenza improvvisa, è il segnale della partenza (dicer è la forma latineggiante spesso usata per ragioni metriche). 9. sdegnò: si sdegnò (per la forma non riflessiva cfr. XVIII 13). – l(o): ciò. II pretesto del pellegrinaggio; ovvero l’interruzione del viaggio. 10. egli stesso: Guido, di sua iniziativa. – si fece: si dichiarò, si diede. 11. pur ch(e): che tuttavia, comunque. – botìo: con betacismo come in ‘boto’, ‘botare’, ‘boce’ (cfr. XLV 10): ‘votivus’, votato, obbligato per voto (v(i): a ciò). 12. Nìmisi: Nîmes, in Provenza sulla strada della Spagna. – arrenato: arrestato (cfr. ant. fr. ‘aresner’, tirare le redini – Bruni Bettarini). Arenato nel senso di approdato alla spiaggia non sembra attestato prima del sec. XV. 13. per Dio: per amore di Dio, gratis. Ci fece cioè il suo affare. 14. trassesi: si tolse. – è albergato: prese alloggio all’albergo. Il passato prossimo (o predicato nominale) con valore perfettivo, di cosa fatta.
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XXXI Gli occhi di quella gentil foresetta hanno distretta - sì la mente mia, ch’altro non chiama che le’, né disia.
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Ella mi fere sì, quando la sguardo, ch’i’ sento lo sospir tremar nel core: esce degli occhi suoi, che m’èe [con’ d]ardo, 1. Gli occhi: anche l’inizio ‘ab oculis’, come in XX, XXIII, XXVI (e cfr. la ballata precedente), è indice della perfetta assimilazione al modello femminile dominante. 2. distratta: qui ‘presa’ (cfr. la nota a XIV 9). Per la mente mia per dire ‘me’ cfr. VI 3. 3. chiama: invoca, o più semplicemente: chiede (cfr. XXXª 47, e qui il v. 19). 5. Variante di IX 20 (anche i rispettivi versi precedenti sono formati sullo stesso modello); e per il verbo ‘sentiendi’ cfr. XXXIII 3-4, e per la localizzazione del tremore anche XIX 12. La motivazione di quest’ultimo è esattamente quella delle regole di Andrea Cappellano, II XVI: “In repentina coamantis visione cor contremescit amantis”. Di qui e dal corrispondente v. 11 (e con interferenza di IX 20) l’incipit del sonetto (disputato tra Dante e Cino) Io sento pianger l’anima nel core. 6. degli occhi suoi: per lo scontro di sguardi cfr . nota a XXIX 9; per la proiezione (e penetrazione) dello “spirito” cfr. almeno Dante, Donne ch’avete, 51-54: “De li occhi suoi, come ch’ella li mova, Escono spirti d’amore inflammati Che feron li occhi a qual che allor la guati, E passan sì, che ’l cor ciascun retrova”. – che m’è [con’ d]ardo: integrazione (e emendamento) di Contini 66 della generale corruzione che(m)me ardo (già rimaneggiata in antico in là ond’io ardo: le combinazioni rimiche in -ardo non vanno in Guido oltre sguardo : tardo e sguardo : dardo, e così guardi : dardi), dove Favati si limitava a che me [...] ardo, e di contro alla più recente proposta di Minetti (ediz. di Monte Andrea, p. 49) che me’ [ne ’mb]ardo sulla base di una diversa combinazione (“Com’ più lo sguardo, Via più ne me ’mbardo; Ma ’ncendo ed ardo”) appunto in Monte, Oi dolze Amore, 41-43 . Di Benedetto leggeva (interpretando me del Chigiano L.VIII.305 come men anziché come mme) che me ne ardo. Altra possibile economica congettura: che[d] i’ ne ardo (dove i’ ne è un diverso scioglimento di me).
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un gentiletto spirito d’amore, lo qual è piento di tanto valore, quando mi giunge, l’anima va via, come colei che soffrir nol poria. I’ sento pianger for li miei sospiri, quando la mente di leii mi ragiona; e veggio piover per l’aere martiri che struggon di dolor la mia persona, sì che ciascuna vertù m’abandona,
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7. gentiletto spirito: probabile conversione di ‘gentil spiritello’. Gentile perché d’amore e perché uscito dagli occhi di “gentil foresetta” (con cui gentiletto rima). 8. è pieno di tanto valore: è di tal potenza. Per la formula con pieno cfr. V 2, per tanto VI 10. Variante in XLIXª 2. 9. quando mi giunge: quando mi raggiunge, mi coglie; ovvero giunge in me, dentro. – l’anima va via: consecutiva con ellissi della congiunzione (per effetto probabilmente della prolessi della temporale). Per la fuga dell’anima cfr. VII 6-7 (in relazione a “valore”), VIII 2 (in relazione a “piena”). 10. come colei che: in quanto. Cfr. IX 21, anche per la nozione d’intollerabilità (per soffrire ‘sopportare’, ‘reggere’ anche IX 3435, e XXXª 43). 11. I’ sento: si riconnette, ormai in proposizione principale, a i’ sento del v. 5, e così mi sento del v. 18. – for: usciti dal cuore con l’anima (cfr. VIII 2-4). Sente dunque da entro la mente i sospiri smarriti e derelitti. 12. Con suggestione (rilevata dal Marti) sull’incipit dantesco “Amor che ne la mente mi ragiona De la mia donna...”, ma anche (e più pertinentemente) su Spesse fiate, 7-8 (“Campami un spirto vivo solamente, E qua’ riman perché di voi ragiona”). Per dire: quando penso di lei (ma contribuendo all’apertura di spazio drammatico del v. 11). 13. veggio: in corrispondenza anaforica con 11 sento (e i due versi si rispondono parte a parte: Caridi). Lo spazio acustico del pianto dei sospiri e del ragionar della mente s’integra con quello visionario dei martìri scendenti “per l’aere” in pioggia, in Guido la manifestazione più affascinante d’un evento inarrestabile (e cfr. XIV 11, XVII 12). 14. Riecheggia in XXXV 21. 15. ciascuna: nessuna eccettuata; tutte. – vertù: cfr. VI 8, 11 ecc. II verso riecheggia anch’esso in Dante, Spesse fiate, 6, “sì che
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in guisa ch’i’ non so là ‘v’i’ mi sia: sol par che Morte m’aggia ‘n sua bal’a. S’ mi sento disfatto, che Mercede già non ardisco nel penser chiamare, ch’i’ trovo Amor che dice: « Ella si vede tanto gentil, che non pò ‘maginare ch’om d’esto mondo l’ardisca mirare che non convegna lui tremare in pria;
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la vita quasi m’abandona”, nonché in XXXV 18 (e le tre rime in ona comuni ai tre testi). 16. in guisa ch(e): in modo che, sicché. – i’ non so là ’vi’ mi sia: la dispersione delle facoltà (e l’estremo di ‘localizzazione’ drammatica) comporta questa perdita del proprio ‘dove’ (là ’v(e) ossia 1à ove’ sta per ‘dove’). Cfr. del resto Rustico di Filippo, Io non auso rizar (alla presenza di madonna), 4: “... gli occhi abasso e non so là ove sia”. In Iacopone la frase esprime di frequente lo smarrimento mistico (cfr. in particolare, anche per l’attacco della ballata, Amor de caritate, 125-27: “L’Amor m’ha preso, non so do’ me sia, Che faccio o dico non posso sentire; Como stordito [var. smarrito] sì vo per la via”, e cfr. v. 289). 17. sol par ecc.: l’unica cosa evidente, l’unica cosa che so (ma par serba il senso d’indeterminatezza che si diceva, e che del resto è già di sento, di veggio e di non so) è che son preda della Morte (’n sua balìa vale ‘in suo potere’). 18. disfatto: morto (cfr. XIII 9). 18-19. mercede... chiamare: cfr. IX 27 (e per chiamare il v. 3). 19. già: rafforza la negazione (cfr. XIV 2). – nel penser: neanche nel pensiero (che è la scena dove tutto si compie); o anche: non ardisco pensare di invocare ecc. 20. ch(e): dichiarativo. – trovo: drammatizza l’obiezione di Amore (per ‘ché Amore mi dice’). Per analogo intervento di Amore cfr. IX 36. 20-21. si vede Tanto gentil..: illustrano questa coscienza e superbia del proprio valore i passi di Guinizelli, Tegno de folle ’mpresa, 19-20, “ma vassen disdegnosa, Ché si vede alta, bella e avenente”, e di Dante, “Perché ti vedi giovinetta e bella Tanto che svegli ne la mente Amore, Pres’hai orgoglio e durezza nel core”. Per tanto gentil cfr. IX 19 (con analoghe conseguenze di tremore, del resto già anticipate nella prima strofa). – ’maginare: concepire. 22. om d’esto mondo: nessuno al mondo. – l’ardisca mirare: con attribuzione della particella al verbo reggente. Riecheggia 19. 23. che non: senza che. – corevegna: nel senso di ‘sia fatale’, co-
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ed i’, s’i’ la sguardasse, ne morria »
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Ballata, quando tu sarai presente a gentil donna, sai che tu dirai de l’angoscia[to] dolorosamente? Di’: « Quelli che mi manda a voi trâ guai, però che dice che non spera mai trovar Pietà di tanta cortesia, ch’a la sua donna faccia compagnia » .
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struito con l’infinito secondo un uso comune al provenzale e al francese (Contini). – in pria: prima d’arrivare a vederla, al solo concepire siffatto ardimento: per dire ‘istantaneamente’. Per tale esito cfr. XXVI 17. 24. ed: anche, e anche. Per la partecipazione di Amore cfr. ancora IX 39. 25-26. presente A: in presenza di. Per il costrutto, e per la frase, cfr. IX 54. 26. a gentil donna: a donna che abbia “intendimento” (d’amore): “di star con l’altre tu non hai talento” (XXVIIb 74-75). – sai che ecc.: sai che cosa ecc. Formula affabile (per fare l’ascoltatore attento, dicevano le antiche retoriche). 27. Per integrazione congetturale, con cumulo di participio + avverbio (corrispondente a sostantivo + attributo “dolente angoscia” di XVI 2; e cfr. anche XXXV 14-16) e polisillabo in clausola come in XVIII 3 e (“sbigottitamente”) IX 56. Altra soluzione è (con mente passato in rima da 2 e 12, e nuova oggettivazione dell’angoscia) “de l’angoscio[s’ e] dolorosa mente” (Contini 66 e poi Marti). Meno plausibile, stante i nessi sopra indicati, la soluzione di Favati, già di Di Benedetto, che riferisce l’avverbio al successivo “Di’”. 28. trâ guai: piange, si lamenta (cfr. XXII 8). Anche questa (e così quelli) è congettura su (quella...) trovai della tradizione (il verbo certo errore d’anticipo di trovar del v. 30). 29. però che: dichiarativo. – dice che: formula di partecipazione dell’emozione (cfr. XVIII 7, XIX 13). 30-31. Trovar Pietà che s’accompagni a madonna, trovar Pietà con madonna, ottenere che Pietà sia con madonna. L’impossibile speranza corrisponde, anche per la formulazione, all’impossibilità di veder lei senza tremare dei vv. 21-23 della strofa precedente.
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XXXII Quando di morte mi conven trar vita e di pesanza gioia, come di tanta noia lo spirito d’amor d’amar m’invita?
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1. Quando: dal momento che, visto che, poiché. Per un analogo avvio, cfr. XI 1 sgg. – di morte mi conven trar vita: la mia vita è fatta necessariamente (mi conven col solito valore di ‘è forza che’, ‘sono costretto’, ‘debbo’: cfr. VIII 6 ecc.) di morte, ha radice nella (e quindi ‘significa’) morte, la morte costituisce tutta la mia vita; più semplicemente: devo vivere di morte. Il concetto non è originale (anche se originalmente articolato): cfr. ad es. Giacomo da Lentini, Madonna, dir vo voglio, 5-8 (“... lo meo core... ’n tante pene è miso Che vive quando more Per bene amare, e teneselo a vita”; e segue l’interrogativo: “Donque mor’ u viv’eo?”), Guittone, Sì mi distringe forte, 4 (“la vita m’è morte”), e ancora, anche per la serie, e l’interrogazione che segue, Vergogna ho, lasso, 37-40 (“O morti fatti noi de nostra vita, O istolti de vil nostro savere, Poveri de riccor, bassi d’altezza, Com’è tanto de noi vertà fallita?”), e Chiaro nella canzone che comincia “Amor m’ha dato in ta?loco a servire Che di contrado viver mi convene” e dove si legge “contarmi lo tormento in bene”, “è amanza aver gioia la ferita”, e “di doglienza fo novel cantare”. E cfr. qui XI 7. 2. E se la mia gioia è fatta di dolore, sedevo gioire di dolore (per pesanza, che ritorna al v. 25, cfr. X 13; analoghi provenzalismi in 11 e 28). Anche quest’opposizione è abusata: da Arnaut Daniel, Chanson do·ill mot, 45 (“car per joi ai qe·m duoilla”) a Guittone, Tutto ’l dolor ch’eo mai portai fu gioia [!], 57 (“Ahi bella gioia, noia e dolor meo”) a Guido stesso (XI 2). 3. come: com’è che, com’è possibile che. – di tanta noia: più che “facendomi passare da, uscendo da” (Contini: si supporrebbe semmai ‘stando in’), andrà inteso, in analogia coi vv. 1-2: traendolo (l’amore) da, attingendo a, sulla base di tanto dolore (quanto s’è visto che sostanzia la mia vita), per non consistere insomma che in dolore; e cfr. XV 5, XLII 14, e qui 34. Noia è l’opposto di “piacere” e di “gioia” e sinonimo di “dolore” (cfr. l’ultima citazione di Guittone). 4. lo spirito d’amor: che sta nel cuore (cfr. v. 5). – d’amar: ad amare (per il costrutto Contini cita “convitano d’amare” di Bonagiunta, De dentro da la nieve, 13, e “d’amar conforta” di Dante, Purg., I 18). Il “bisticcio” sostantivo-verbo (anzi d’amor-d’amar,
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Come m’invita lo meo cor d’amare, lasso, ch’è pien di doglia e di sospir’ sì d’ogni parte priso, che quasi sol merzé non pò chiamare, con iterazione della preposizione di, che nella sola ripresa ricorre 5 volte) interpreta, al limite del paradosso d’identità, le opposizioni dei vv. precedenti (l’uso della preposizione di in quanto segnale d’opposizione e di rovesciamento, del positivo ch’esce dal negativo e viceversa, è qui caratterizzato dall’inversione sintattica, ossia dall’anteposizione del caso obliquo al caso retto; e cfr. 17, 34). – m’invita: m’induce, quasi: mi seduce (e cfr. 21). Il concetto dell’interrogativa è dunque: se la mia vita è morte e la gioia è per me fatta di dolore, com’è che sento quest’inclinazione ad amare? perché l’amore, se sarà necessariamente il contrario del piacere? Il dolore, essenziale all’amore, rende incredibile che ci s’innamori. Per l’uso dell’interrogazione, in particolare introdotta da come e da dunque (cfr. 21), si veda Guittone, e specialmente la canzone che comincia appunto Tutto ’l dolor ch’eo mai portai fu gioia, 9-13 (“Adonqua eo, lasso,... Sofferrà Deo ch’eo pur viva ad oltraggio...?”), 27 (“Donqua chi ’l meo dolor pò pareggiare?”), 35 (“Come, lasso, viv’eo de vita fòre?”), 50 (“Donqua, di confortar com’ho podere?”), e ancora, partendo da analoghe opposizioni, l’altra Vergogna ho, lasso, 37-42 (“O morti fatti noi de nostra vita, O istolti de vil nostro savere, O poveri de riccor, bassi d’altezza, Com’è vertù da noi tanto fallita...?”); e specificamente Tomaso di Sasso, D’amoroso paese, 56-57 (“Bene ameraggio; ma saver vorria Che fera signoria mi face amare”). 5. lo meo cor: localizzazione dello “spirito d’amor” (col quale rima). Cfr. Dante, che nella Vita Nuova, XXIII 8 traduce “diceva Amor” (e “piansemi Amor nel cor, ove dimora”) della canz. Donna pietosa, 63 (e 31) con “mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse”; e meglio ancora (perché detto proprio di Cavalcanti), ivi, XXIV 6: “credendo io che ancor lo suo cuore mirasse la bieltade” della sua donna. 6. lasso: ahimè. Esclamazione topica (con accompagnatura di che) unica in Cavalcanti (Ciccuto). – è pien di doglia: tanto da non poter far posto all’amore (cfr. v. 8). 7. d’ogni parte: letteralm. ‘da ogni parte’, vale insomma ‘totalmente’, ‘tutto’ (cfr. XXIV 8). Per cui non occorrerà intendere priso (sicilianismo formale: cfr. XXVIIª 64) come ‘circondato’, ma semplicemente ‘occupato’, ‘oppresso’ , ‘afflitto’, ‘vinto’: come altrove, per es. XXXI 2 distretta, e qui sotto conquiso (10). 8. sol... non: “neppure” (Contini). Per il concetto (“chiamare mercé” è in sostanza una manifestazione d’amore) cfr. XXXI 18-
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e di vertù lo spoglia l’afanno che m’ha già quasi conquiso? Canto piacere, beninanza e riso me’n son dogli’ e sospiri: guardi ciascuno e miri che Morte m’è nel viso già salita!
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Amor, che nasce di simil piacere, 19 (anche per chiamare ‘chiedere’; e cfr. qui 23). 9. vertù: forza, vitalità (cfr. XI 15, e 4, e VI 8). – lo spoglia: cfr. Arnaut, canz. cit., 26 (di cui questo verso sembra il calco): “que de joi lo despuoilla”. 10. quasi: quasi interamente (con ripetizione dal v. 8). – conquiso: sinonimo di priso (e cfr. XXIII 8, XXXª 19). 11-12. Equivalenza corrispondente a quelle dei vv. 1-2. Esattamente Contini: “Perciò il mio canto... sono...”. 11. Manifestazioni della “gioia” (e dell’“amore”), come “dogli’ e sospiri” (e cfr. 6-7, e per la coppia V 7) di “pesanza” e di “noia”. Beninanza, altro provenzalismo che arriva fino a Par., VII 143, XX 99, propriamente ‘bene’, ‘benessere’, vale qui ‘stato lieto’, ‘letizia’. Per la serie, e il rovesciamento, cfr. Guittone, Lasso, pensando quanto, 4-6: “sollazzo e canto E ben tutto ch’avia M’è or, per mia follia, corrotto e noia”. 12. dogli’ e sospiri: Re Enzo, Amor mi fa sovente, 3: “pene e sospiri”. 13. Invocazione d’evidenza e di testimonianza, sul modello più volte applicato (cfr. VI 1, 5, IX 25, X 1-4, XIII 1-3, XIX 1-3 ecc.). Per la formulazione in 3ª persona cfr. anche Guittone, Ahi lasso, che li boni e li malvagi, 87: “ma miri ben ciascuno se ver dico”. 14. salita: apparsa (in forma di pallore). Varianti dell’immagine in XXXIII 8, XXXIV 31. Precedenti in Guittone, Lo porporigno colore (7° sonetto del Trattato d’Amore), 14 (“morte nel viso avendo figurata”) e in Guinizelli, Ch’eo core avesse, 14 (“ch’i’ porto morte scritta ne la faccia”). La ritroviamo in un sonetto ‘tragico’ pseudoangiolieresco Lassa la vita mia, 7 (“... la Morte m’è già su nel volto”), che al v. 12 ha “così sarebb’a me vita ’l morire”. 15-17. La sequenza drammatica delle interrogazioni ed esclamazioni appare interrotta da considerazioni in forma definitoria (come confermano i riscontri), ma solo per contrapporgli il ma del v. 18, e per dar luogo a una nuova interrogazione. La questione della nascita d’amore è in relazione alla prima domanda: perché amore? 15. Alla tradizionale definizione – da Rinaldo d’Aquino, Venu-
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dentro lo cor si posa formando di disio nova persona; to m’è in talento, 8 (“amor che solo di piacer’è nato”), allo pseudo-Guinizelli di Con gran disio pensando lungamente Amor che cosa sia, 11-12 (“E’ par che da verace piacimento Lo fino amor discenda”), a Cino (sotto particolare suggestione cavalcantiana) di “Amore è uno spirito ch’ancide, Che nasce di piacere e vèn per sguardo” e magari della canzone a lui attribuita Cori gentili, 47 (“l’amore per piacente affar si move”) – di amore nato da “piacere” (che non può interpretarsi qui ‘bellezza’, stante il v. 11 e l’identificazione di XXVIIb 13: al limite, il “plager... tratto... d’una donna veduta” di XXV 5), si aggiunge la condizione della ‘similitudine’ (che rinvia chiaramente a XXVIIb 57-58) da intendere, più che come “reciprocità” (Contini dubitativamente, Marti) come riconoscimento dell’oggetto amato come ‘amoroso’ (non si dice ‘innamorato’: cfr. XXVI 2-3 e XXIV 1). Diciamo dunque: ‘da piacere di simiglianza’. 16. si posa: per il verbo, che torna in XXVIIb 10, e per il concetto, cfr. ad es. Guittone, Amor m’ha priso, 2: “ed a lo core di sé fa posanza”. Nella canzone di Tomaso da Faenza a Monte Amoroso voler, la 2ª strofa, che comincia (15) “Per natural ragione Amore nasce”, insiste nei vv. sgg. sullo stesso tema (“se trova loco disïoso e caro, Sogiorno a sua stagion prendere sape. Così Amore in cor polito... Ponesi fermo, e no?n vuole partire”). Di qui il “dentro la qual [magione del cuore] dormendo [ossia in potenza] si riposa” di Dante, Amore e ’l cor geutil, 7. 17. Se il verso è la traduzione della definizione della figura, così spesso “usata” da “li poeti” (Dante, Conv., III IX 2) della ‘prosopopea’ secondo il Documentum de modo et arte dictandi et versificandi di Goffredo de Vinsauf, II 2, 22 (“Prosopopeia est conformatio novae personae, quando scilicet res non loquens introducitur tanquam loquens”), la “res non loquens” (“inanimata” per dirla con Dante del XXV della Vita Nuova, che verte sulla stessa questione) che diventa “persona” viva (l’“accidente” che diventa “sostanza”) non può essere che il “disio”, con applicazione dunque di costrutto analogo a quello dei vv. 1-3 (non occorre più insistere sulla vieta disputa se Amore possa parlare, che coinvolge, sappiamo, anche Guido: cfr. la tenzone L con l’Orlandi, d’altronde probabile istigatore di XXVIIb); e si alluderà non all’idealizzazione interiore (nell’“immaginativa”) dell’oggetto amato (per cui colpisce il parallelismo con XXVI 10), ma alla “virtù” propria d’Amore di diventare “vita” interiore, ossia al culmine del processo amoroso qui oggetto d’esame (il v. 17 è quello centrale della ballata). Ciò che spiega anche come di qui si degradi fino al rifiuto dell’amore (19) e alla sua maledizione. Cfr. del resto anche One-
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ma fa la sua virtù in vizio cadere, sì ch’amar già non osa qual sente come servir guiderdona. Dunque d’amar perché meco ragiona? Credo sol perché vede
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sto, Non so s’è per merzé, 14-16: “... fora tanto gioiosa la mia vita, Che qual mi conoscesse, riguardando, Vedrebbe ’n me d’amor figura nova”. 18. Sennonché la sua “virtù” (la “vita” d’amore) è fonte di “vizio” (è “morte”). II problema è se il soggetto sia ancora Amore, causa della sua stessa degenerazione (e cfr. XXVIIb 29-34: “vizio” si qualifica semplicemente in opposizione a e come vanificazione di “virtù”), ovvero (con virgola dopo il v. sg.) qual del v. 20, cioè ‘colui che’ ne fa esperimento (cadere costruito con in come in XXVIIb 64, XLVII 5). Il contestato è ad ogni buon conto Amore. E cfr. anche XI 3. L’opposizione riecheggia quella “si riposa in vizo mia vertù” della canz. Oi lasso doloroso (v. 32) di Neri Visdomini, “menato” da la sua “disaventura” “ov’è tutto contraro”; che è il tema dell’intero componimento (“ogni ben per contraro Veggio muta colore, Grande m’è aversaro E grande odio l’amore... Molto dura mi pare Sì gicchito ’norare Torni in grave avenire E tutto ben voler ritorni ingrato”). 19. già: rafforza al solito la negazione. – osa può tradursi anche ‘può’ (il “vizio” dell’amore è la propria paralisi). Ma cfr. 21 e XXXI 18-19. 20. servir: il ‘servizio’ amoroso, la devozione all’amata. Oggetto di guiderdona. L’uno e l’altro termine sono tradizionali del linguaggio cortese (Marti cita Guiderdone aspetto avere del Notaro, dove servire è al v. 2). – guiderdona: ricompensa. Il soggetto è sempre Amore. 21. d’amar: dipende da ragiona. E richiama d’amare del v. 5. – ragiona: parla, propone, persuade (“invita”). Soggetto, come nei vv. precedenti, dovrebb’essere sempre Amore piuttosto che (cfr. 5) il cuore. 22. Credo sol perché: cfr. Chiaro, Chi ’mprima disse ‘amore’, 4546 (in risposta alla domanda “Amore a che cagione Acquista li serventi?”): “Credo per far dolenti De la sua opinione”. La ragione, espressa nei vv. 22-24, è che la morte è modo di sottrarsi alle pene d’amore (e sol potrebb’essere prolettico: non gli resta da invocare che la morte, cfr. 8), ossia Amore rinnova il suo “invito” vedendo l’amante cercare la liberazione della morte (Panuccio, Sì dilettosa gioia, 68-70: “... la morte... Mi fora vita..., perché finita Seria mia doglia e l’angosciosa vita”); ovvero che il fine di Amore è la morte, e invitando ad amare, vede realizzato il suo fine (“domando mer-
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ch’io domando mercede a Morte, ch’a ciascun dolor m’adita.
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I’ mi posso blasmar di gran pesanza più che nessun giammai: ché Morte d’entro ‘l cor me tragge un core che va parlando di crudele amanza, che ne’ mie’ forti guai m’affanna là ond’i’ prendo ogni valore.
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cede a Morte” equivale a dire: sono sotto la signoria della Morte, mi abbandono alla morte). E cfr. 27-28. 24. m’adita: fa di me “segno” (cfr. XXXVIIIb 8, e XVI 13), oggetto; mi espone (si ripropone l’associazione “morte”-”pesanza” dell’inizio; e “pesanza” torna al v. 25). Ciascuno, come “ogni”, “tutto”, ha valore superlativante (cfr. XXXª 8). 25. blasmar: nel senso di lamentare (analogamente a ‘lodarsi’ nel senso di ‘rallegrarsi’). Per la forma cfr. I 42. 26. nessun giammai: nessun altro. Nessuno cioè può vantare un dolore grande quanto il mio (cfr. ancora Geremia cit., “videte si est dolor sicut dolor meus”). 27. d’entro ’l cor mi tragge un core: lo sdoppiamento, che si attiene al modulo dei vv. 1-2 e insieme alla ‘figura’ del v. 17 (e cfr. il v. 4 per 1’‘adnominatio’), è più d’ordine rettorico che sostanziale (restando inteso che in poesia, e in applicazione del dettato sopra citato, si può far d’accidente sostanza), per cui core, che accompagnato da una specificazione ha funzione sostantivante (e cfr. in particolare XI 1), è una sorta di “nova persona” o proiezione del core da cui è tratto, e integrato dalla relativa seguente, può intendersi come una “parola” fatta figura (cfr. XXXIV 25, ma anche XXVI 14 sgg.: il processo si riproduce in termini angosciosi; e ad ogni modo il v. 28 ritraduce il v. 21, confermando l’identità amoremorte), oggettivazione (i vv. 27-28 sono dichiarativi dei vv. 25-26) del lamento (e cfr. 29) della crudeltà d’Amore (crudele amanza è appunto ritraduzione, ossia ‘riconversione’ del concetto di ‘crudeltà’ applicato ad Amore; per amanza cfr. XI 14). 29. che: riferito a “crudele amanza”. – guai: cfr. XXII 8, XXXI 28. Forti qui vale ‘alti’ come in Inf., III 22. 30. m’affanna: cfr. 10. – là ecc.: nel cuore da cui mi viene (dove risiede) ogni forza vitale (cfr. 9). Cfr. 27-28 e per la formula XL 8. L’ipotesi (Contini) che “prendo sia corruzione di perdo” (e cfr. XI 4) è plausibile; ma questa è la canzone delle opposizioni (e cfr. in particolare 11-12).
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Quel punto maladetto, sia ch’Amore nacque di tal manera che la mia vita fera li fue, di tal piacere, a lui gradita.
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31. Quel punto maladetto sia: la formula (e la forma assimilata per maledetto) torna in Cecco Angiolieri, Oimè d’Amor, 9 (“Oimè, quel punto maladetto sia... ch’eo vidi lei...”), e nell’altro sonetto d’incerta attribuzione “Maledetto e distrutto sia da Dio Lo primo punto ched io ’nnamorai”, sempre riferito all’inizio d’amore, e così in altri. Ma si veda anche Lament., XX 14: “Maledictus dies in qua natus sum” (Caridi). 32. nacque: cfr. 15: qui con attualizzazione rispetto al presente della teoria (di qual “manera” nacque è appunto descritto ai vv. 15-20). 33. che: potrebbe equivalere al ch(e) (‘quando’) del v. 31, se tal del v. 34 risponde a tal del v. 32. – la mia vita fera: attualizzazione di “crudele amanza”: la ferezza, la crudeltà (la morte) della mia vita. 34. li fue... a lui gradita: gli piacque; volle che fosse (con ripetizione pleonastica del pronome dopo l’inciso). – di tal piacere: estrema applicazione del di del rovesciamento (e cfr. ancora XV 5): volle cioè che un siffatto “piacere” quale è descritto ai vv. 1517 si capovolgesse in (‘cadesse in’) una vita di morte.
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XXXIII Io temo che la mia disaventura non faccia sì ch’i’ dica: « I’ mi dispero » , però ch’i’ sento nel cor un pensero che fa tremar la mente di paura,
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e par che dica: « Amor non t’assicura in guisa, che tu possi di leggero 1. la mia disaventura: “parola [ossia espressione]-chiave” (Contini) del terzetto XXXIII-XXXV (sempre in rima, in XXXIV pure in incipit, in consonanza ancora con la 2ª rima, e con penser(o) al v. 3 nonché 1ª rima della 2ª strofa; in XXXV al v. 11, in consonanza con la rima A, nonché con la rima X della ripresa), è la disdetta amorosa (e cfr. in XXXIV 20 l’esplicito richiamo alla “Fortuna”). Ma la cadenza, e la stessa struttura del verso, è dell’attacco guinizelliano “Lamentomi di mia disaventura” (dove “distinato”, ossia ‘destino’, qualificato come “contrarioso”, interpreta il sostantivo del 1° verso). 2. Non (temere costruito alla latina, come in XL 3-4) m’induca in disperazione. La perifrasi, introducendo la ‘sermocinatio’, fa della disperazione una drammatica consapevolezza (e cfr. 5). Per mi dispero cfr. IX 36 (con variazione della sola particella pronominale: non ho, non vedo speranza). Cosicché il primo distico è compreso fra timore e disperanza (“disperato” è anche in XXXIV 13). Nel sonetto di Guinizelli cit., di cui questo è dunque il rovesciamento (la disperazione essendo tuttavia sentita e sofferta soprattutto come timore), al tormento della propria “disaventura” si contrappone, vv. 5 sgg., la voce della speranza (“e dicami Isperanza:...”). 3. però ch(e): dichiarativo. – sento: cfr. IX 20, XXXI 5. – un pensero: con analoghi effetti in XXXIV 11 sgg. 4. Pauroso: con localizzazione drammatica della paura come in IX e XXXI ai luoghi citt. 5. e par che dica: con esplicitazione della consapevolezza sopra detta (e la minaccia è attribuita ad Amore). Non parla propriamente, ma è “come se” parlasse. Stesso nesso (salvo la relativa) in XXXIV 12. – t’assicura: ti garantisce (letteralm.: ti toglie la paura: onde il v. 4), e quindi ti dà speranza. La stessa frase in Monte Andrea, Nel core aggio un foco, 65-66: “Amor... Non m’assicura”. 6. in guisa, che: IX 46, XXXI 16. – di leggero: facilmente
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a la tua donna sì contar il vero, che Morte non ti ponga ‘n sua figura » . De la gran doglia che l’anima sente si parte da lo core uno sospiro che va dicendo: « Spiriti, fuggite » .
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Allor d’un uom che sia pietoso miro, (Dante, Ballata, i’ voi, 14: “leggeramente”). Cfr. XXXIX 13. 7. contar il vero: contare il vero di te (cfr. XXIII 12), manifestare il tuo stato, piuttosto che ‘dichiararti’, dichiarare il tuo amore (ma anche in tal caso l’esito sarebbe di uno ‘stress’ mortale). La sua condizione insomma è tale che il rappresentarla alla sua donna significa dichiarare la propria morte, inalberarne le insegne; dire il vero significa dirsi morto, ossia (cfr. v. 2) essere morto. 8. che... non: senza che (cfr. XXXI 23; e il costrutto dei vv. 5-8 è analogo – e analogamente in bocca ad Amore – a quello di XXXI 20-23). – Morte... ti ponga ’n sua figura: tu prenda figura (o colore) di morte (per “in figura di” cfr. IX 55-56, XXXª 22, e per la variante “in figura morta” XXXVI 3), ossia d’uno che muore; tu raffiguri la morte nel tuo volto (cfr. XXXII 14, XXXIV 31). Solo che (giusta questi ultimi riscontri) è la Morte a imporre il proprio “colore” (ancora Petrarca, R.V.F., XXXVI 12: “... mi lasciò de’ suoi color’ depinto”). 9. De: con valore causale. – doglia: riecheggia (in identica posizione) donna del v. 7 (nonché ponga del v. 8), così come sente ‘rima’ con mente del v. 4 e sento del v. 3 (il ‘contesto’ fisiologico è lo stesso dei vv. 3-4). – l’anima: ipostatizzazione del sentimento di dolore (e cfr. XXII 8). Poiché l’anima ha sede nel cuore, di lì parte il “sospiro” del v. 10. 10-11. ‘Movimento’ (o momento) che Dante riinterpreta (e illumina), senza quasi mutare i termini (e cfr. anche “anima” del v. 9), e appunto nel senso di analogo (e analogamente partecipato) atto vitale, nella chiusa del son. Tanto gentile: “e par che de la sua labbia si mova Un spirito soave pien d’amore Che va dicendo a l’anima: ‘Sospira’” (e vedi il mio commento ad loc., V. N., XXVI 7. La mediazione, lì operante, di XXVI 18-19, “e movonsi ne l’anima sospiri Che dicon...” rafforza l’analogia con la presenza dei “sospiri”). Beninteso “Spiriti, fuggite” non è altro che il tenore del sospiro (e in Dante infatti “Sospira” è ciò in cui lo “spirito” si risolve). Per “andare” (o “venir”) “dicendo” cfr. XL 6. 12. d’un uom che sia pietoso: un qualche pietoso. – miro: cerco (costruito con di come si dice ‘cercare di qualcuno’); e non trovo,
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che consolasse mia vita dolente dicendo: « Spiritei, non vi partite! »
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si può aggiungere con X 3-4, dove il segno della compassione è appunto il sospiro. 13. mia vita dolente: il mio dolore (in cui consiste la mia vita). 14. dicendo ecc.: invitando così gli spiriti a non fuggire, impedendo la loro fuga (per la variante partite/fuggite vedi in particolare VII 6-7). Ma il nuovo invito in discorso diretto fa da controcanto, fin dal gerundio introduttivo, a quello del v. 11. Permette il rovesciamento l’ipotesi d’un atto di compassione.
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XXXIV La forte e nova mia disaventura m’ha desfatto nel core ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore.
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Disfatta m’ha già tanto de la vita, che la gentil, piacevol donna mia dall’anima destrutta s’è partita, sì ch’i’ non veggio là dov’ella sia.
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1. forte e nova: dura, “crudele” (Contini) e inaudita. “Fort’è disaventura ch’io posseggio” è di Monte, S’eo doloroso, 13. Per gli accoppiamenti di forte vedi XV 10. 2. desfatto: distrutto, annientato, ucciso (cfr. XXXI 18). 2-3.nel core... pensar: cfr. XXXIII 3. Riecheggiano nel verso “ogni dolce pensier del cor m’è tolto” del frammento petrarchesco che comincia (con ricordo dell’attacco di XXXII) “Amore, in pianto ogni mio riso è volto, Ogni allegrezza in doglia...”. 3. dolce: sinonimo affettivo di “d’amore” (dolce perché “d’amore”; e cfr. di Dante l’incipit “Le dolci rime d’amor ch’io solia Cercar me’ miei pensieri”, e Io son venuto, 37: “... ’l mio [spirito] più d’amor porta; Ché li dolzi pensier non mi son tolti”). Per cui la distruzione è dell’amore stesso. – ch’i’ avea: la solita perifrasi, qui per dire: ‘in passato’. 4. Disfatta m’ha (concordato con l’oggetto logico “vita”): con ripresa dal v. 2, come in 16, XXV 4, XXXII 5 (e ulteriore ripresa in 25: si tratta del più alto concentrato del prefisso dis-, e cfr. vv. 1, 6, 13, in una poesia di Cavalcanti). 5. che: consecutivo: sicché la “partenza” della donna, ossia della sua immagine interiore, è conseguenza della propria “morte” psicologica, non viceversa. – gentil piacevol: coppia ripresa nell’incipit ciniano “Una gentil piacevol giovanella”: nobile (eletta) e bella (fonte d’amore): quanto detto in XXIX 2 della “giovane donna di Tolosa”. Nessun addebito dunque all’atteggiamento della donna. Chiaro, Come il castoro, 11, ha “... l’avenente dolze donna mia”. 6. destrutta: corrisponde a “disfatta” del v. 4 (e cfr. XIII 4 e 9). Circa la ‘morte’ dell’anima cfr. XIX 5: l’anima non ha più vita (e cfr. XIII 3-4), non è più anima (né sede d ’immagini). 7. Non la vedo più (ma con perifrasi designante la localizzazione dell’oggetto identica a quella di XXXI 16, anche lì conse-
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Non è rimaso in me tanta balìa, ch’io de lo su’ valore possa comprender nella mente fiore.
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Vèn, che m’uccide, un[o] sottil pensero, che par che dica ch’i’ mai no la veggia: quest’ho tormento disperato e fero, che strugg’ e dole e ‘ncende ed amareggia.
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guente ad abbandono). 8. rimaso: il participio passato è (ossia può essere) indeclinabile fino al pieno Quattrocento (cfr. per contro l’analogo v. 4). – balia: potere; facoltà (cfr. XXXI 17). 9. valore: espresso in 5 come “gentilezza” e “piacere”. 10. comprender ne la mente: concepire. La perdita d’ogni facoltà vitale (e per conseguenza intellettiva: cfr. del resto 6) comporta (coerentemente con XXVIIb, in particolare str. 2ª e la pertinenza dell’amore all’anima sensitiva, da cui ha inizio la conoscenza) l’incapacità di serbare l’immagine, il ricordo di lei, una sorta di generale cecità (donde la “disperazione” dei vv. 13-14). I vv. 8-10 ripropongono ‘a parte subiecti’ il tema dei vv. 5-7 (Caridi). – Fiore: neanche un poco; punto; nulla. Cino, Come in quelli occhi, 4, ha “un fiore” per ‘un poco’. 11. Vèn: in sostituzione dei pensieri d’amore. Inizio con verbo come nella 1ª strofa (e corrispondentemente, e in frase negativa, ad inizio di volta, vv. 8 e 15). – che m’uccide: prolettico, con funzione di compl, predicativo: funesto, mortale (ma nella desolazione e prostrazione generale, la stessa manifestazione della morte ha una sua vita crudele). Cfr. Jaufre Rudel, Non sap chantar, 13: “... me fer, que m’ausi”. – sottil: penetrante (“sottile” è infatti lo “spirito della vista”: XXII 12, XXVIII 1; ma questo è pensiero del “non vedere”), trafiggente (cfr. IX 38), e quindi letale (l’opposizione dolce/sottile equivale a quella amore / non amore nella III canzone del Convivio sopra cit. I vv. 11-12 ritraducono i vv. 8-10 in termini di autocoscienza. 12. che par che dica: cfr. XXXIII 5. Per l’intero verso cfr. il v. 7. – mai: mai più (e il congiuntivo veggia, in ‘consecutio’ del congiuntivo dica, ha valore di futuro). Dice un’impossibilità assoluta. 13. quest’ho: la precedente soluzione questo [è] (per cui cfr. XIX 9) potrebbe ridursi a quest’è (o ed e sono spesso confondibili). – fero: crudele. 14. ’ncende: arde. Per l’accumulo, il modello potrebb’essere Guittone, Ahi Deo, che dolorosa, 43-46: “dolor più ch’altro forte E tormento crudele ed angoscioso E spiacer sì noioso Che par mi
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Trovar non posso a cui pietate cheggia, mercé di quel signore che gira la fortune del dolore.
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Pieno d’angoscia, in loco di paura, lo spiritodel cor dolente giace per la Fortuna che di me non cura, c’ha volta Morte dove assai mi spiace,
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strugga l’alma, il corpo e ’l core”. Ma la stessa serie verbale appartiene per così dire all’àmbito guittoniano, ritrovandosi in gran parte nel sonetto del fiorentino Federigo dall’Ambra (in risposta al Trattato d’Amore di Guittone) S’Amor, da cui procede bene e male, 8: “altro non è l’amor che passïone Ch’arde, incende, dole ed amareggia” (se non è, beninteso, Federigo a far eco a Guido). 15. E tormento sconsolato, privo di conforto. Cfr. X 3-4, XV 8, 12-14. II verso corrisponde pel costrutto al v. 7, ma per l’enfasi verbale al v. 8. 16. mercé di: grazie a, ossia “per colpa di” (Contini). – quel signore: Amore (non “indiffinita persona”, ma definita dalla relativa seguente). 17. la fortuna: la vicenda. Evidente l’“allusione alla ruota della Fortuna” (Contini). Resta da sapere quale sia il soggetto di “gira”: se Amore, che fa sì che il dolore tocchi il sommo della ruota, o la Fortuna piuttosto (e cfr. 20-21: d’obbligo in tal caso la maiuscola), definita come ‘mala Fortuna’ (“del” ossia ‘di’ dolore), che è causa della ‘volubilità’ d’Amore, in quanto gli toglie la “signoria”. 18. Anche questo, come i due attacchi di strofa precedenti, è caratterizzato da prolessi. – in loco di paura: per dire ‘in luogo pauroso’ (“di paura” fa ‘pendant’ a “d’angoscia”) per dire ‘nella paura’. La perifrasi (per cui cfr. XI 3) in relazione a “giace” del v. sg.; sicché rinvierei piuttosto a V 9-11 (e già 4). Ma la sede dello “spirito” essendo il “core”, il “loco di paura” può essere il cuore stesso. 19. dolente: più probabilmente compl. predicativo del soggetto “lo spirito” (‘giace nel dolore’) che attributo (abbastanza consueto: cfr. la nota a XV 12) di “cor”. “lo spirito del cor” è la sua vita (per cui cfr. la nota a VI 1); ma anche questa ‘perifrasi’ contribuisce a questa scena d’abbandono. 20. per: da unire a che del v. sg.: “perché” (Contini); ma la prolessi dà a “che di me non cura” valore più che di semplice inciso, ed enfatizza la ‘colpa’ della Fortuna. 21. volta: rivolta, diretta, portata (regge dove); sempre con allusione al “volgere” della ruota. – dove: non indica tanto il cuore
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e da speranza, ch’è stata fallace, nel tempo ch’e’ si more m’ha fatto perder dilettevole ore.
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Parole mie disfatt’ e paurose, là dove piace a voi di gire andate;
(Marti: ma cfr. vv. 18, 23, 29), quanto introduce un’altra perifrasi ‘locale’, per dire ‘contro di me’, ‘a mio danno’. 22. da speranza: indicherebbe lo stato precedente (cfr. v. 3 – Ferrero cita Petrarca, CCCI 10-11, “da sì lieta vita Son fatto albergo d’infinita doglia”), rivelatosi passeggero, “fallace” (attributo ovidiano, Ars am., I 444, della speranza), e di cui perder del v. 24 indicherebbe la perdita, l’allontanamento (e cfr. XXXII 3): dallo stato di speranza in cui ero mi ha portato a perdere ogni diletto (“ore” in relazione all’attuale “tempo” di morte: cfr. 23, e XI 9). Salvo non si accolga, con Favati, la lezione contrapposta (possibile trivializzazione) e la speranza (la speranza, tradendomi, ha distrutto ogni gioia); ma la lezione adottata sembra garantita, anche contro la proposta di Contini 66 ed a sp., dalla ‘lettura’ di Iacopo Cavalcanti: “non vede [il cor] che da speranza fiore Aggia conforto o dilettevole ore”; e perder potrebbe anche valere ‘non avere’ (da ecc.). – ch’è stata: cfr. la nota a 3 ch’i’ avea. 23. nel tempo ecc.: temporale (e cfr. 24) analoga a quelle ‘locali’ precedenti: nel suo (e’ è “lo spirito del cor”) stato di morte, con la sua morte. Ovvero l’agonia del cuore ‘segna’ il tempo della caduta della speranza e della fine d’ogni diletto. Il verso sembra richiamare particolarmente il v. 2, e i vv. 23-24 i vv. 2-3. 24. dilettevole ore: stato (durato nel tempo) di diletto: appunto “ogni dolce penser ch’i’ avea d’amore”. 25. Parole mie: di qui, certo, “lo spunto all’inizio” e allo svolgimento, del sonetto dantesco Parole mie che per lo mondo siete (Contini). – disfatt’ e paurose: cfr. rispettivamente i vv. 2, 4, e 18. Le parole (che, osserverebbe Dante, V.N., XII 17, non sono altro che la ballata stessa) hanno preso i tratti stessi della sua desolazione, ne sono le fedeli interpreti (e cfr. il son. XVIII). Cfr. del resto Guinizelli, Madonna, il fino amore, 69-71: “ch’ogni parola ch’a ciò fòri porto Pare uno corpo morto Feruto a la sconfitta del meo core...”. 26. Risponde in qualche modo al v. 21: le parole, la ballata, pur rappresentando la sua desolazione, sono quanto rimane di vita autonoma (e cfr. 29-31 e ancora XVIII 11). Ma per la licenza concessa cfr. XXVIIb 71-72. Si noti la ‘variatio’ di contatto gire/andate.
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ma sempre sospirando e vergognose lo nome de la mia donna chiamate. Io pur rimango in tant’aversitate che, qual mira de fòre, vede la Morte sotto al meo colore.
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27. ma: limita la libertà anzidetta: senza cessare mai ecc. – sospirando: non necessariamente participio presente per coordinarsi al compl. predicativo del soggetto vergognose. E cfr. XXXV 31. 28. chiamate: invocate. Tutto il verso riecheggia (e andate è al v. 26) quello di Neri Visdomini, Oi forte innamoranza, 49, “al core de la mia donna n’andate”. 29. pur rimagno: si contrappone a “andate” del v. 26. Pur vale ‘sempre’, indica continuità. – aversitate: risponde a “disaventura” dell’incipit. 30. qual: chi, se uno (uno spettatore esterno; a guardare dal di fuori; ossia a vedere il mio aspetto). 31. Cfr. XXXII 14, XXXIII 8. – sotto al meo colore: trasparire (col pallore) sotto le mie fattezze, nel mio aspetto. Cfr. Dante, Donna pietosa, 21-22: “Elli era tale a veder mio colore, Che facea ragionar di morte altrui”.
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XXXV Perch’i’ no spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana, va’ tu, leggera e piana, dritte’a la donna mia, che per sua cortesia ti farà molto onore.
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Tu porterai novelle di sospiri 1. Perch’i’ no spero: cfr. XXVIIb 6 (Contini). La frase appartiene cioè al momento della giustificazione del ‘dire’ (ovvero del ‘non dire’: sarà la ballatetta a parlare per lui), e il testo così introdotto è come se facesse parte di un più lungo discorso. Di Calenda il rinvio non solo all’attacco di IX, ma al dantesco “Perch’io non trovo chi meco ragioni”. – giammai: mai più. 2. Toscana: risuona in rima in un’altra canzone (anzi “canzonetta”) di “lunga adimoranza”, ossia di lontananza (e nel congedo della medesima), Amor mi fa sovente, di Re Enzo, 55: “Salutami Toscana, Quella ched è sovrana, In cui regna tutta cortesia”. 3. tu: in vece mia. E con Tu iniziano le strofe 1ª, 2ª e 4ª (e “tu’” agg. possess. all’inizio della 3ª). – leggera e piana: complementi predicativi del soggetto. Il primo aggettivo si riferirà alla tenuta da viaggio (cfr. Dante, Cavalcando l’altr’ier, 4, “in abito leggier di peregrino” e la relativa bibliografia nella mia nota a V.N., IX 3), e varrà al massimo ‘spedita’ (e cfr. 4); il secondo (per cui cfr. XXI 3) alluderà alla dimessità dell’atteggiamento (se non a un cammino senza intoppi). E “figliuola d’Amor giovale e piana” (‘affabile’) è la dantesca Donne ch’avete, 60. 4. dritt(a) (o dritt(o)): senza deviazioni o indugi. Così Dante Così nel mio parlar, 79: “Canzon vattene dritto a quella donna...”. 5. per sua cortesia: formula di ‘cortesia’, come la seguente “fare onore”, riunite infatti in II 11-12 (e cfr. anche XXXª 47), Ossia ‘non mancherà di’. Ma sta a indicare che l’accoglienza non è merito che dell’accogliente. Cfr. ad es. Guittone Lasso, pensando quanto, 22-25: “per sua gran cortesia, Non già perché mertato L’avesse..”; e così Gentil mia donna, 6-9. 6. onore: buona accoglienza (cfr. XXV 24). 7. porterai: con probabile valore imperativo. – novelle: notizie. Cfr. XXV 1, LII 1. In fin di strofa gli risponde novel aggettivo. – di sospiri: fatte di sospiri (cfr. 31), o, con 8, “piene di” sospiri (o
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piene di dogli’ e di molta paura; ma guarda che persona non ti miri che sia nemica di gentil natura: ché certo per la mia disaventura tu saresti contesa, tanto dal lei ripresa che mi sarebbe angoscia; dopo la morte, poscia, pianto e novel dolore.
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semplicemente genitivo oggettivo): quello insomma che è rimasto di lui, con XVIII 11 (e “la morte” è evocata nella strofa sg.). 8. piene: riferito a “novelle”: “doglia” e “paura” (qui come altrove – cfr. XXXII 6-7, 12 – equiparate a “sospiri”) essendosi riversate tutte nelle parole (cfr. XXXIV 25). Per il nesso Contini rinvia all’incipit di Guinizelli “Sì sono angostïoso e pien di doglia E di molti sospiri e di rancura” (dove compare anche “sospiri”). 9. non ti miri: tu non cada, cioè, sotto gli occhi di; ossia evita (guarda equivalendo al lat. ‘cave’) d’incontrare. Persona non vale ‘nessuno’ (cfr. XIV 6, XV 8, nel secondo caso con miri e in un verso praticamente sovrapponibile a questo); miri, al solito (cfr. X 20, XXVI 19-20, XXXII 13), introdotto da guarda (Calenda), e nel primo caso ancora in un verso sullo stesso modello. 10. di gentil natura: di gentilezza (e cfr. XXXI 25-26), quindi d’amore; incapace cioè d’intendere amore (cfr. XXVIIb 74, e 75). E così Dante, Donne ch’avete, 65: “non restare ove sia gente villana”. 11. per la mia disaventura: più che ‘per mia sventura’, significherà la tipica condizione dell’infelice (cfr. XXXIV e XV 12-14) che non trova comprensione negli altri. 12. contesa: “osteggiata” (Contini): più che impedita nel cammino, incompresa e quindi (13) rimproverata. 13. lei: riferito a “persona” del v. 9. 14. angoscia: causa d’angoscia. E così diletto al v. 43. 15-16. Non accenna a pene in un’altra vita (e non per la supposta miscredenza dell’autore: tanto più che l’anima è destinata a raggiungere la sua donna), ma a un rinnovo di queste quando la morte dovrebb’essere la loro fine. Il poeta cioè prova qualche conforto al pensiero che le sue parole troveranno accoglienza presso colei a cui sono dirette e non saranno fraintese da altri. Per la coppia dissimmetrica cfr. Re Enzo, S’eo trovasse Pietanza, 26, “(si rifresca) Pena e dogliosa morte”, e qui 8; “novella doglia” è in X 5.
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Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ‘l cor si sbatte forte per quel che ciascun spirito ragiona. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core.
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Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate 17. la morte: con ripresa di la morte del v. 15, e in opposizione a “vita” del v. 18. 18. mi stringe: cfr. XIV 9, ma anche XVIII 10. – vita m’abbandona: cfr. XXXI 15. E per l’intera frase, Dante, Spesse fïate, 6, “sì che la vita quasi m’abbandona”. 19. senti: con ribadimento di senti del v. 17. – come: che (parallelo a che del v. 17). – si sbatte forte: s’agita molto. Così interpretò Cino, Sta nel piacer, 7: “né ’l cor po’ stare in loco, sì li abella. Isbatte forte, tal sente dolzore”; ma è suggestione di Guinizelli, Chi vedesse a Lucia, 7-8, “e non se sbatte cò de serpe mozzo Come fa lo meo core spessamente” (Contini), se non dello stesso Re Enzo, S’eo trovasse Pietanza cit., 50, “tanto ’l cor sbatte e lagna”. 20. per quel che: causale (e vedi sùbito dopo), riferito a si sbatte, piuttosto che ‘secondo quanto’ riferito a senti (ossia a sentire ciò che riferiscono i miei spiriti). – ragiona: dice, esprime, ossia sente: il parlare in Guido essendo manifestazione di passione (e cfr XXXIII 2, 5-8, 11); ovvero: dice l’uno contro l’altro, in un drammatico scontro? Ma cfr. v. 40. 21. Cfr. XXXI 14, quasi ad eco, e XVIII 9. – già: ormai. – la mia persona: perifrasi oggettivante (come in XXXI 14 cit.). 22. Cfr. IX 21, 34-35 (e XXXI 10). 23. servire: far cosa grata, usare un favore (e cfr. 27), o semplicemente: ubbididire. 24. Cfr. IX 47-48, anche per il nesso con 26 (Calenda). 25. preco: con forma senza lenizione (probabile latinismo, ma ugualmente provenzalismo), comunque per esigenze di rima; ma i codici hanno per lo più prego, e sarebbe ammessa l’assonanza (cfr. nota a XXXIX 10).
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quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate, a quella bella donna a cu’ ti mando. Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’ presente: « Questa vostra servente vien per istar con voi, partita da colui che fu servo d’Amore » . Tu, voce sbigottita e debletta ch’esci piangendo de lo cor dolente coll’anima e con questa ballatetta va’ ragionando della strutta mente.
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28. quest’anima: con ripresa di anima del v. 24, e così di mena... teco al v. sg. Per l’“anima che trema”cfr. IX 20 (e anche XXXIII 4). 29. pietate: dolore. 30. a cu’ ti mando: analoga determinazione in XXXI 28. 31. Con ripresa della deprecazione del v. 27, l’ultima alla ballata la 4ª strofa essendo diretta alla “voce”. Per sospirando cfr. 7; per “dire sospirando” cfr. IX 36 (e XXXIV 27). 31-32. Identico nesso e inciso (per cui cfr. anche XXVI 5) di IX 54, XXXI 25-26. 33. servente: fedele, in nome della fedeltà ad Amore del v. 36. 34. partita: ormai separata. Cfr. XVIII 5-6, e per tutte le parole (33-36) messe in bocca alla ballata, ancora XVIII 12-13. 37. Tu, voce ecc.: geniale ‘variatio’, con introduzione di una nuova ‘persona’ (e moltiplicazione di prospettiva), dopo aver affidata l’anima alla ballata: con identificazione della ballata con la propria voce (e cfr. ancora XVIII). Per la coppia d’aggettivi, entrambi tipicamente cavalcantiani (per il primo cfr. in particolare VI 4, XVIII 1; per il secondo XIII 6), cfr. il congedo della ballata precedente, XXXIV 25, e VI 4. E deboletta fa eco (nonché rima) con ballatetta. 38. Cfr. XXXIII 9-10, e VIII 3. Per cor dolente cfr. VIII 3 e in particolare XV 12. Il distico iniziale di questa strofa lascia il segno in Gianni Alfani, Se quella donna, 5-6: “Però, parole nate di sospiri Ch’escon del pianto che mi fende ’l core”. 40. va’ ragionando: sii espressione, parla (a madonna), unitamente all’anima e alla ballatetta (cfr. 41: anche se “ragionare con”
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Voi troverete una donna piacente, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora. Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’valore.
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equivale per lo più a ‘parlare a’; e cfr. Dante, Donne ch’avete, 1114, “tratterò... con voi, Ché non è cosa da parlarne altrui”, Li occhi dolenti, 7-11, “e perché... parlai... con voi, Non voi parlare altrui Se non a cor gentil...”). Per il costrutto gerundivo cfr. X 1. – della strutta mente: della mia desolazione (obiettivata nella “mente”, che costituisce un’altra ‘persona’ di questo finale). Variante di 21 (e cfr. VII 11). 41. Voi: tu, l’anima e la ballata. – una donna piacente: sinonimo di 30 “quella bella donna” (cfr. I 2). L’indeterminato (la donna è stata finora irraggiungibile) di contro alla determinazione precedente richiesta dalla specificazione relativa. 42. di sì dolce intelletto: Marti intende plausibilmente ‘così dolce a chi ne intenda appieno il valore’ (cfr. Dante, Tanto gentile, 10-11: “che dà per li occhi una dolcezza al core Che ’ntender no la può chi no la prova”). Ma l’associazione di bellezza e virtù intellettuale riprodurrebbe quella di III 1, 9-10 (e XVII 7). Si contrapporne comunque a 10. 45. Anim(a): con ulteriore cambiamento del termine del discorso (e cfr. “e tu” sg.): parlando finalmente solo a sé, al di là della ‘fictio’ su cui si regge la ballata, e per una suprema ‘fictio’, ma che significa la rofonda ‘unità’ del proprio ‘intendimento’. 46. Contini richiama Chiaro, La gioia e l’alegranza, 62 (“Che val chi no ragiona Sempre del suo valore?”), e ricorda che dal v. 43 viene anche il verbo “adorare”; che, estraneo al Dante lirico, e parcamente usato anche nella Commedia (l’altro esempio in Guido, XLVIIIª 2, riguarda un’immagine sacra), è comunque presente nel lessico dei provenzali, rifluirà di qui nei più tardi stilnovisti, Cino e Frescobaldi, nonché, naturalmente, in Petrarca.
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XXXVI A DANTE?
Certe mie rime a te mandar vogliendo del greve stato che lo meo cor porta, Amor aparve a me in figura morta e disse: « Non mandar, ch’i’ ti riprendo,
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1. Certe mie rime: in evidenza grazie all’‘ordo artificialis’ (come, poniamo, “Le dolci rime d’amor”dell’incipit della terza canzone del Convivio): regge “del greve stato”del v. 2. – vogliendo: volendo. L’inizio col gerundio è tipico, nonché del sonetto di Dante Cavalcando l’altr’ier, di diversi sonetti del Fiore (II, IX, X, XX, XXXV, CXXXIV), di cui è anche il riferimento del gerundio al complemento (II “Sentendomi ismagato malamente... Lo dio d’Amor sì venne...”; XX “Udendo quella nobile novella Che que’ genti messaggi m’aportaro, Sì fortemente il cuor mi confortaro...”). 2. greve: grave, gravoso (cfr. XXXª 43), ossia doloroso, angoscioso, infelice. Greve stato vale dunque infelicità (cfr. gravezza di XXXIX 8, gravitate di Cino, Bella e gentile, 5, che in altro sonetto, O lasso, ch’io credea trovar pietate, 3, la ritraduce in “pena”, riprendendo pari pari questo verso: “de la gran pena che lo meo cor porta”); al v. 10 pesanza. – porta: sopporta, soffre (cfr. 8 sostener), o semplicemente ha. Cfr. in particolare XLIVb 9, XLV 13. 3-4. aparve a me... E disse: tipico passaggio rappresentativo del Fiore (II 4-5 “lo dio d’Amor sì venne a me presente E dissemi...”, e precede l’inizio gerundivo sopra detto e un secondo verso sovrapponibile al secondo del presente sonetto, “Sentendomi ismagato malamente Del molto sangue ch’io avea perduto”; IX 46 “e sì vidi Ragion... Venir verso di me, e per la mano Mi prese e disse...”), che autorizza anche l’uso del pronome (e vedi più oltre) rispetto alla particella atona di m’aparve di Vaticano e Chigiano (e affini). – in figura morta: in aspetto smorto (ossia di morte – cfr. XXII 7, e meglio “la vista morta De gli occhi” di Dante, Ciò che m’incontra, 13-14; e per il costrutto IX 55-56). Anche per l’attenzione all’aspetto dell’apparito cfr. Il Fiore, IX 4 “e sì vidi Ragion col viso piano”, XVII 13 “si trasse verso lei col viso baldo, Dicendo...”, XX 7 “e sì trovai quella col viso chiaro”. Si noti infine la ridondanza (includente la pseudoetimologia di cui a XXVII b 3) AMOR aparve A ME in figurA MORta (Tanturli) di cui a me costituisce il termine medio. 4. Non mandar: ossia ‘non lo fare’. – riprendo: rimprovero,
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però che, se l’amico è quel ch’io ‘ntendo, e’ non avrà già sì la mente accorta, ch’udendo la ‘ngiuliosa cosa e torta ch’i’ ti fo sostener tuttora ardendo,
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ched e’ non prenda sì gran smarrimento “biasimo” (Ciccuto). Ma il nesso (per cui cfr. Il Fiore, CLXXXV 2: “S’avessi messo termine a un’ora A due, ch’avresti fatto gran follia”) induce a tradurre l’intera proposizione: ‘te lo sconsiglio’. 5. però che: poiché, infatti. – quel: colui. Tutta l’ipotetica è una forma indiretta e coperta d’identificazione del destinatario (particolarmente sensibilizzato alle pene d’amore; e si pensi alla funzione allusiva di “l’amico” come persona “della quale si sia già parlato, o che facilmente possa essere intesa”, come ben sapeva Manzoni delle Postille al Vocabolario della Crusca, ad vocem); e si sarebbe tentati di riferire amico al particolare (antonomastico) legame tra Dante e Guido, se non si trattasse di appellativo normale nel Fiore (oltre che di uno dei personaggi e interlocutori, sonn. XLVII-LXXIII): cfr. III 9 “Allor que’ prese il cor e disse: Amico...”, V 9 “E quelli allor mi disse: Amico meo...”, XLIII 1 “Amico, guarda...”, XLVII 12 “E disse: Amico, ...” LXI 3 “ch’avanti ch’ella dica: Amico, tieni...”. – ’ntendo: penso, credo (oppure sento dire da te?). 6. già: rafforza, al solito, la negazione. – accorta: in guardia, preparata, contro le brutte notizie. 7. la ’ngiuliosa cosa e torta: l’ingiustizia e il torto (dunque coppia sinonimica: cosa è voce vicaria, cfr. XVIII 8; ’ngiuliosa è da ingiulia, diffuso nel toscano dugentesco, con passaggio di -r- intervocal. a -l-, come in celabro per ‘cerebro’, mercoledì, palafreno, pellegrino: cfr. Rohlfs 328); per l’accavallamento (anastrofe) dei due attributi al sostantivo cfr. XXXª 29. 8. tuttor: sempre, continuamente (riferito a ardendo). – ardendo: altro gerundio riferito non al soggetto (al compl. oggetto). 9. ched: ripresa (con -d eufonico) del che consecutivo del v. 7 (probabile trivializzazione la lezione temo non prenda di Chigiano e Vaticano, con trasformazione della consecutiva in dichiarativa). Ancora Il Fiore autorizza ampiamente la continuità tra quartine e terzine (la cosa interessa i sonn. IX, X, XX già cit., e molti altri, e in particolare, con IX, X, i sonn. XXII, LX, LXXV, CXXXV per la continuazione del discorso diretto), come il costrutto con doppia consecutiva (cfr. LXVIII 5-8: “né piaccia a Dio ch’i’ sia condotto a tale Ch’i’ a le genti mostri benvolere E servali del corpo e
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ch’avante ch’udit’ aggia tua pesanza non si diparta da la vita il core.
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E tu conosci ben ch’i’ sono Amore; però ti lascio questa mia sembianza e pòrtone ciascun tu’ pensamento ».
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dell’avere, Ched i’ pensasse poi di far lor male”). – prenda: concepisca, provi, senta (cfr. Dante, Sonar bracchetti, 14, “prendo vergogna”). La frase ritorna in Dante, Donna pietosa, 35, “Io presi tanto smarrimento allora...”. 10. udit’aggia: abbia finito d’udire (Contini). – pesanza: affanno, dolore (cfr. X 13, XXXII 2, 25, XXXVIIIb 7). II Veronese ha mia possanza (con alternanza che si verifica anche per XXVIIb 24), lezione non inverosimile, poiché il “greve stato” è effetto della potenza d’Amore, e udire non è incongruo, trattandosi di comunicazione per “rima”. 11. Conversione del normale ‘non si diparta (o, come più frequentemente, ‘parta’) la vita dal core’ (per cui cfr. ad es. VII 6, IX 9, XXXV 18). Cfr. del resto “fuor di vita” di VIII 9. 12. conosci ben: sai bene, ossia: mi riconosci (dalla “figura morta”: cfr. 13, e XXI 5, e viceversa Dante, Io mi senti’ svegliar, 4, “allegro sì, che appena il conoscea”). I vv. 12-14 sono un altro tipico ‘passo indietro’ cavalcantiano, riportante alla situazione iniziale, ossia ai vv. 3-4. In realtà, il riconoscimento giustifica il pericolo che corre il destinatario. Per il passaggio cfr. Il Fiore XXV 12: “Ben sa’ ch’e’ non ti move di natura”; ma anche Baruch, II 31, Ezechiel, XII 15: “Et scient quia ego sum Dominus Deus eorum” (Caridi). 13. però: perciò; in segno di riconoscimento. – sembianza: sembiante, aspetto, volto (cfr. I 19), propriamente ‘somiglianza’: appunto la “figura morta” del v. 3, dimostrazione ormai autonoma della presenza e del dominio di Amore in lui. Così in Cavalcando l’altr’ier cit., 13: “Allora presi di lui sì gran parte...”. 14. pòrtone: (me) ne porto (con applicazione della legge Tobler-Mussafia), porto via con me (cfr. XI 15, e Petrarca, Quand’io veggio dal ciel, 13, “quella che n’ha portato i penser’ miei”), ossia faccio mio, informo di me. Per dire che all’amante non resta che l’aspetto di morte, mentre tutti i suoi pensieri sono d’amore (cfr. l’incipit dantesco “Tutti li miei penser’ sono d’amore”). – pensamento: pensiero (provenzalismo).
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XXXVII (a) DANTE ALIGHIERI A GUIDO CAVALCANTI
A ciascun ‘alma presa e gentil core nel cui cospetto vèn lo dir presente, in ciò che mi rescrivan suo parvente, salute in lor segnor, cioè Amore.
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Già eran quasi che atterzate l’ore del tempo che onne stella n’è lucente, 1. presa: presa d’amore, innamorata (e cfr. XL 12), in significativo (ma forse prematuro) accoppiamento con gentil (come alma con core), e chiasmo. L’intero verso, col complemento del v. 4, è interpretato nella prosa “[a] tutti li fedeli d’Amore”. 2. lo dir presente: “il presente sonetto” (XLI 12, e per dir ‘poesia’ cfr. XLI 10). Tutto il verso si ricompone di due (1 e 5) del primo sonetto della corona del cosiddetto “amico di Dante”, Lippo oggi con Gorni (cfr. il suo Lippo amico, pp. 95-97): “Se ’n questo dir presente si contene” + “i’ prego quei nel cui cospetto vène”, il secondo riecheggiante anche nel sonetto di Dante a Lippo Se Lippo amico, 11-12: con le implicazioni di cui ancora Gorni, Lippo contro Lapo, pp. 112-15. 3. in ciò che: lo stesso che acciò che, affinché. – rescrivan: rispondano per iscritto (calco dal lat. RESCRIBERE coerentemente coll’imitazione della ‘salutatio’ epistolare dei vv. 1-4). – suo parvente: il loro parere (anche suo, del resto corrente per il plurale, potrebb’essere latinismo), la loro interpretazione (nella prosa: “sentenzia”). Per la forma parvente cfr. I 36. 4. salute: sottintendi ‘dico’, con l’ellissi del verbo tipico della formula latina. E cfr. XLIIIª 1-2, XLIIIb 1. – in lor segnor: più che ‘in nome di’ ecc., da confrontare con l’attestazione cristiana “in Cristo nostro Signore” (e cfr. XLIIIb 2). – cioè Amore: anche in Lippo, Nonn-oso nominare 3, “quei c’ha ’n tutto poder, cioè Amore”. 5-7.Stesso costrutto di XXXª 1-2. 5. quasi che: quasi. – atterzate: giunte a terza? o, come poi intende la Vita Nuova giunte a un terzo della notte (“del tempo che onne stella n’è lucente”), ossia all’ora quarta? 6. onne: è OMNE lat. (e cfr. XXXVIIb 1). – n’è lucente: ci splende.
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quando m’apparve Amor subitamente, cui essenza membrar mi dà orrore.
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Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo.
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Poi la svegliava, e d’esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo.
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7. m’apparve: in sogno. – subitamente: improvvisamente (cfr. XL 2). 8. essenza: sostantivo di ‘essere’. Oggetto di membrar. – membrar: ricordare. Infinitiva soggetto di mi dà orrore. – orrore: spavento. 9. Allegro: in immediata opposizione ad orrore, gli risponde piangendo alla fine della sirima. È anche questo un ingrediente del ‘puzzle’. – tenendo: probabile participio presente (‘che teneva’), come 11 dormendo, 12 ardendo. 10. ne le braccia: in braccio. 11. involta: avvolta. 12. esto: questo (dal lat. ISTE), questo che ho detto (al v. 10). 13. paventosa: paurosa, nel senso di intimorita, esitante, riluttante. – umilmente: opposto a paventosa: più che servizievolmente, teneramente (in modo da vincerne la paura). – pascea: latinismo illustre, per ‘nutriva’ (come ha Guido nella risposta, XXXVIIb 11), o il volgare “le facea mangiare” della prosa: comunicandole l’ardore del cuore e quindi innamorandola a sua volta, ossia facendola simile a lui. 14. appresso: poi, indi (avverbio frequente nella prosa). – gir lo ne vedea: lo vedevo girne, andarsene. Normale, nella sintassi dugentesca, l’anteposizione della particella oggetto a quella obliqua.
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XXXVII (b) RISPOSTA DI GUIDO
Vedeste, al mio parere, onne valore e tutto gioco e quanto bene om sente, se foste in prova del segnor valente 1. Vedeste: con variazione semantica (da senso proprio a metaforico) rispetto a vedea di Dante. Guido dice che questi, in quanto innamorato, ha conosciuto il sommo grado di “valore” (cfr. VI 10 anche per il ‘trìcolon’), “gioco” (cfr. in particolare XXXª 4, 22) e “bene” (cfr. III 14): tre termini che riuniti insieme possono compendiarsi nel significato di ‘perfezione’ (e così si deve intendere “salute” dell’incipit dantesco cit.). Cfr. Andrea Cappellano, De amore, I 6 A: “Omnis ergo boni erit amor origo et causa”; e Pier delle Vigne, “Amor da cui move tuttora e vène Pregio e larghezza e tutta benenanza...”. Quanto all’uso del voi (rispetto al tu degli altri due risponditori) sarà da attribuire alla non conoscenza reciproca (e cfr. V.N., III 14; per cui il sonetto XXXVI, se diretto a Dante, andrebbe posposto a questo), se non a rigore di formalità (ma parte della tradizione provvide d’arbitrio a voltare al singolare). – al mio parere: inciso non ozioso, se risponde al v. 3 della proposta; ed è, come si vede, un “parere” che va ben al di là della stretta interpretazione del sogno. 1-2.omne... tutto... quanto: variazione parallela a quella dei sostantivi, e con funzione enfatica. Il primo degli aggettivi (per la forma cfr. XXXVIIª 6) è ripreso da Dante, oltre che in Vede perfettamente cit., in Ne li occhi porta, 9 (“ogne dolcezza, ogne pensero umìle...”), e almeno “tutto valore”, “tutto bene” sono formule tradizionali (entrambe per es. in Guittone, tra l’altro nella medesima canz. Lasso, pensando quanto, 19 e 29), ma ritornano con una certa larghezza (e concentrazione) nell’“Amico di Dante” proprio a designazione d’amore, per es. in X 1, 7, 9 (“D’amore vène ad om tutto piacere...; D’amore è l’omo ardito e sa valere... D’amor vèn tutto ben comunemente...”), e cfr. per la terza formula LV, 5-6 (“ché indi nasce tuttafiata e vène Quanto ch’om face che?ssia di valore”, dove om ha anch’esso, come qui, valore indefinito). Guido cioè s’esprimeva nei termini d’uno che Dante aveva ben familiare e che riunirà a lui e a sé nel son. sg. 3. se: se, come dite che v’apparve in sogno; se è vero che (è il margine che il “filosofo naturale” naturalmente si riserva). – foste in prova del: perifrasi situazionale (per ‘provaste per esperienza il’) del tipo ‘essere in forza di’, e non è escluso (visto “segnor”, “se-
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Guido Cavalcanti - Rime
che segnoreggia il mondo de l’onore,
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poi vive in parte dove noia more, e tien ragion nel cassar de la mente; sì va soave per sonno a la gente, che ‘l cor ne porta senza far dolore.
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gnoreggia”) con analogo significato, ossia ‘foste messo alla prova dal’ (cfr. Dante, Con l’altre donne, 6, “... non poria Pietate Tener più contra me l’usata prova”?). 3-4.segnor... segnoreggia: altra ridondanza enfatica del tipo valore... valente. 4. onore: virtù (la virtù essendo condizione d’amore); per dire i virtuosi. Dante chiama Amore (V. N., XII 4) “Segnore de la nobiltade”. 5. poi: poiché. Ma non si riferisce alla definizione dei vv. 3-4, spiega gli effetti di cui ai vv. 1-2. – parte: luogo. Non si tratta però, a differenza del v. 6, di una vera e propria localizzazione di Amore, ma di una perifrasi del tipo ‘Amore sta (comincia) dove non è (cessa) la noia’ (l’opposizione vive/more interpreta l’altra “Amore”/”noia”), Amore consiste nel (si alimenta di) piacere (il contrario di”noia”): non potendosi, alla luce dell’esperienza cavalcantiana, indicare nell’uomo luogo dove non sia dolore. 6. tien ragion: come in V 4 “ten corte”: rende giustizia, esercita la propria giurisdizione, ossia la sua signoria. Cino, parafrasando questo passo (e così per i vv. sgg.), dirà, in Amor che vèn per le più dolci porte, 3-4, che “là [ossia “ne la mente”] tien corte Come voi de la vita giudicando”. – cassar: cassero (vivo ancora nella terminologia navale), torre (qui la forma normale, dall’arabo qasr, turco kasar, cfr. alcázar). Dante nel Convivio, II II 3, parlerà della “rocca de la... mente” di cui è signora Beatrice (e cfr. Per quella via, 5-6); ma Lapo Gianni, Angelica figura, 22, ha l’identica formulazione di Guido. Il modello è comunque l’“arx mentis” dell’ampia tradizione medievale illustrata da R. Crespo in “Quaderni di semantica”, I, 1 (genn.-giugno 1980), pp. 135-41. 7. va... a: s’avvicina a; visita. – soave: il compl. predicat. del soggetto per l’avverbio: pian piano (cfr. il fr. doucement), senza far rumore. Il motivo è quello, diffusissimo, dell’inavvertita possessione d’Amore: da Guido delle Colonne, Ancor che l’aigua, 70-74 (“li vostri occhi piagenti... diedermi nascoso Uno spirto amoroso”) a Cino, son. cit., 1-2 (“... vèn per le più dolci porte Sì chiuso [‘segreto’] che nol vede omo passando”). E cfr. Iacopone, O Amor, devino Amore, Amor..., 8: “Amore, donne intrasti, che sì occulto passasti?”. – per sonno: nel sonno (letteralm.: attraverso il sonno). 8. ne: con sé, via (cfr. XXXVI 14). E così al v. sg. – far: causa-
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Di voi lo core ne portò, veggendo che vostra donna la morte cadea: nodriala dello cor, di ciò temendo.
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Quando v’apparve che se ‘n gia dolendo, fu ‘l dolce sonno ch’allor si compiea, ché ‘l su’ contraro lo ven’a vincendo.
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re (cfr. ‘far male’). 9. Di voi: per l’aggettivo possessivo, ma per sottolineare il passaggio dalla norma (v. 8) all’applicazione personale. – veggendo: cfr. XIII 14. 10. cadea: metafora analoga a quella frequente di piovere (“inclinava” [Contini], ossia stava per morire: si tratta naturalmente della morte d’amore – ossia dell’innamoramento – tipica di Cavalcanti). Per il dileguo della -v- intervocalica, qui e ai vv. 11, 12, 13, 14, cfr. XXXVIIª 10, 13. 11. Prolessi della principale: poiché temeva che morisse, la nutriva ecc. La mistica immedesimazione attraverso l’unione dei due cuori (e conseguente partecipazione della donna delle pene d’amore), ben còlta da Terino (“insieme due coraggi comprendendo”), che vi vedeva il motivo dell’allegrezza d’Amore, è qui materialisticamente ridotta a rimedio e sostegno contro l’amore come passione (l’amore consuma). Nel sonetto di proposta il timore è della donna; e a rigore temendo potrebb’essere participio presente a lei riferito. – nodriala: normale il passaggio ad o della u protonica, come la sonorizzazione della -t- avanti r. 12. se ’n gia: cfr. XXXVIIª 14. – dolendo: dolente, ossia participio presente come ai vv. 9, 11, 12 di Dante; ovvero (ma cfr. XXXVIIª 14), in normale dipendenza da gire, gerundio di dolere v. n. nel senso di ‘piangere’. 13. ’l dolce sonno: con ripresa e ‘varíatio’ del v. 7 (anche il “girsene” della proposta viene a rispondere a quell’“andare” ), prolettico rispetto alla relativa: fu che il dolce sonno ecc. (cfr. XXXIV 20). La definizione (e cfr. V.N., III 3, “mi sopragiunse uno soave sonno...”) è un tópos che arriva almeno a Leopardi del Dial. di un fisico e di un metafisico; quello che qui è originale è l’interpretazione dei pianto di Amore come dispiacere per la fine del sonno, ossia del suo regno (Amore sarebbe cioè un fatto d’immaginazione, quale Dante l’ha vagheggiato e l’“amico” Lippo l’ha descritto in carte, e solo in sogno, ossia in poesia, si conosce la sua perfezione? E cfr. lo scambio di rime seguente). Sicché lo del v. 14 potrebbe riferirsi come a sonno così ad Amore. 14. ’l su’ contraro: la veglia (Cfr. XXVIIb 37). – venìa vincendo: cfr. XL 6.
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XXXVIII (a) DANTE ALIGHIERI A GUIDO CAVALCANTI
Guido, i’ vorrei che tu e Lippo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler nostro e mio;
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sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, 1. Evidente (e significativa) l’implicazione (con conseguenze anche sull’abbastanza caldeggiata attribuzione a Dante: cfr. ancora Gorni, Lippo contro Lapo, pp. 119-24, e M. Ciccuto, Il Dante giovane di “Amore e monna Lagia”, in SD, LIV [1982], pp. 122-35) con l’incipit del sonetto (dai codici assegnato a Guido) Amore e monna Lagia e Guido ed io, dove al posto dell’amante è l’amata qui registrata al v. 9. Accanto a diversi Lappo, Lippo è lezione (‘difficilior’) del cod. II IV. 114 della Biblioteca Nazionale di Firenze. 2. per incantamento: opera d’incanto, appunto del mago Merlino (“il buono incantatore” del v. 11: e si noti la puntuale ripresa prosodica), è la nave di Tristano, probabile esemplare di questa come d’altre, fino a quella che al principio dell’Orlando innamorato (I V) porta via di Spagna Rinaldo. L’evasione è dunque nel più puro romanzesco. 3. vasel: vascello (lat. tardo vascellum diminutivo di VASCULUM diminutivo di VAS, donde a sua volta il diminutivo vasello: cfr. Inf., XXVIII 79, Purg., II 41). E la “nef de joie et de deport” dei romanzi arturiani (Contini), la “barchetta... che donò Merlino” di Mare amoroso, 212-13 (id.). – ad ogni vento: con (non ‘secondo’, come avvertono Barbi e Maggini) ogni vento, lieve o di tempesta (la nave essendo incantata); come del resto bene intese Petrarca, LXIII (ballata, ma con rime -ore, -ente, -ento), 13, “presto di navigare a ciascun vento” (“ch’ogni cosa da voi m’è dolce onore”). 4. al: secondo il, conforme al (a nostro piacere). 5. fortuna: fortunale, tempesta (e “od altro tempo rio”, tempo cattivo, intemperie, completa l’inclusione d’ogni impedimento). 6. impedimento: risponde formalmente a incantamento del v. 2. 7. vivendo: solita concordanza del gerundio non col soggetto.
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di stare insieme crescesse ‘l disio.
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E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta
– in un talento: in un’unica, comune voglia, in unità di desiderio, in concordia; in ultima analisi, e conforme a Sallustio, in amicizia. È ciò che il protagonista del Mare amoroso sognava di sé e di madonna (220-21: “far lo vostro cuor d’una sentenza E d’un volere col mio intendimento”, con riflesso persino prosodico sul v. 6), qui esteso ai sodali, ma in nome della comune qualità d’innamorati. L’amore è semplicemente propiziatore d’amicizia. La voce talento è comune a tutta la Romania occidentale. 8. disio: soggetto. 9. monna Vanna: la donna di Guido fino alla ‘smentita’ della risposta. – monna Lagia: ovviamente (e in ordine) la donna dell’altro amico, che ritorna (e lo identifica) in XL 6, e a stare a Amore e monna Lagia cit., 10-11, anch’essa significativa di un’unione non stabile (e difatti il sonetto, v. 3, allude allo scioglimento della compagnia). L’accoppiamento con Vanna si riflette peraltro sull’altro di Io mi senti’ svegliar di Dante, 9, “E vidi monna Vanna e monna Bice...”. Monna (con Barbi e Maggini) indica donna maritata (com’era difatti Beatrice); ma è voce dello stile ‘comico’, a cui in sostanza va ascritto anche Io mi senti’ svegliar e probabilmente l’ammissione stessa delle donne alla comitiva e al sogno, a cui fin qui (e cfr. poi ‘inoltre’) non sembrano essenziali né esse né l’amore. Il preteso scadimento di tono delle terzine (da Carducci in poi) sarà dunque dovuto a una sopravvalutazione della fronte. 10. quella ch’è sul numer de le trenta: quella che occupa il numero trenta, verosimilmente nel serventese delle sessanta donne ricordato nella Vita Nuova, VI 2, quindi in posizione centrale (Beatrice vi occupava il nono posto: dunque la prima donnaschermo?), come interpretò il Barbi già in Un sonetto e una ballata d’amore - Dal canzoniere di Dante, “Nozze Barbi-Ciompi”, Firenze, Landi, 1897 (la preposizione articolata per la semplice, secondo l’uso di premettere l’articolo ai numerali documentato da Barbi e Maggini, con accordo di genere con le annoverate). Il recente commento di Iacomuzzi segna d’altra parte il passo di Arnaut Daniel, Quan chai la fuelha, 51-52, “las gensors trenta Vens de belhas faisos”, dove appunto trenta donne sono il termine di paragone minimo della bellissima (con ricupero dunque della vecchia interpretazione del Di Benedetto di è sul numer de le come ‘supera le’).
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con noi ponesse il buon incantatore:
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e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi.
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11. buono: “valente” (Contini), come in Purg ., XVIII 119, il “buon Barbarossa”. 12. ragionar: “infinito sostantivale (affine all’infinito storico) con valore ottativo condizionale” (Contini) e in relazione a “indiffinita persona”, come conferma il coordinamento a 13 fosse. Per “ragionar d’amore” cfr. nota a III 3. 13. fosse contenta: fosse nel medesimo “talento”, accondiscendesse. 14. noi: in conseguenza del loro esser contente. La confidenzialità dell’ultima battuta, con attenuazione linguistica e retorica dell’evidenza, corrisponde ai termini (stilisticamente definiti) di un ‘divertimento’ (o giuoco di società) a buon mercato, regolato sul livello minimo della testimonianza femminile.
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XXXVIII (b) RISPOSTA DI GUIDO
S’io fosse quelli che d’amor fu degno, del qual non trovo sol che rimembranza, e la donna tenesse altra sembianza, assai mi piaceria siffatto legno.
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E tu, che se’ de l’amoroso regno là onde di merzé nasce speranza, riguarda se ‘l mi’ spirito ha pesanza: ch’un prest’ arcier di lui ha fatto segno
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1. fosse: “fossi ancora” (Contini), come fui. Per l’avvio, cfr. XV 1. – d’Amor: leggo (con Di Benedetto e Marti) con la maiuscola: non d’essere amato (“fortunato in amore” [Branca]), nonostante 6, ma della dignità d’amante, d’essere suddito d’Amore (cfr. 5). ‘Variante’ forse di XXXV 36. 2. non trovo: ossia non m’è rimasto. – sol che: altro che. 3. sembianza: “atteggiamento” (Contini): cioè benigno. Anche per la distribuzione dell’ipotesi in più membri cfr. XV 1-3. 4. assai mi piaceria: è l’incipit (settenario) di una canzone di Stefano Protonotaro. – legno: sineddoche (cfr. III 4) per nave: il “vasel” di Dante. 5. Riprende piuttosto la metafora di XXXVIIb 3. Ma l’E tu iniziale e il riguarda se ecc. del v. 7 ci riportano ancora all’“O vos qui transitis per viam, attendite et videte si” ecc. di Geremia (cfr. X 1-4, XIII 1-3), con più stretto contatto con (ossia citazione di) Dante, “O voi che per la via d’amor passate” ecc. – amoroso: l’attributo per il complemento: appunto d’Amore (cfr. XXIV 1). 6. là onde: dove (onde per ‘dove’, e là pleonastico): di merzé dipende da nasce non da speranza, la speranza nasce da merzé, dalla compassione. Ma cfr. XXVIIb 70. 7. riguarda: guarda (gallicismo). – se: se non è vero che. – ’l mi’ spirito: vale ‘io’, ma la perifrasi (che ha esemplificazione anche nella Scrittura: cfr. “defecit spiritus meus” di Ps., LXXVI 4) è, al solito, in funzione della rappresentazione drammatica dei vv. sgg., fino ai vv. 13-14, senza, direi, specifica determinazione. – ha: sente, soffre. – pesanza: cfr. X 13. 8-9. Deriva ancora una volta, e più esplicitamente che XVI 13, da Lam., III 12, “Tetendit arcum suum, et posuit me quasi si-
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e tragge l’arco, che li tese Amore, sì lietamente, che la sua persona par che di gioco porti signoria.
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Or odi maraviglia ch’el disia: lo spirito fedito li perdona, vedendo che li strugge il suo valore.
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gnum sagittae”. Per il prest’arcier, che qui è la donna stessa, rivelatasi nemica e guerriera (chi ha fatto bersaglio di lui, è un arciere...), cfr. XXI 7. Non occorre dunque che si tratti (ma potrebbe anche trattarsi) di un altro amore. 9. tragge... tese: il primo verbo si riferisce allo scoccar la freccia (cfr. ‘trar d’arco’ e XXXª 24), il secondo al tendere (in XX 7 “aprire”) l’arco, operazione in cui Amore si è fatto servitore e complice di lei, come ‘autore’ della ferita (l’operazione contraria, del “distendere l’arco”, è adibita a metafora in Purg., XVI 48). 10. lietamente: ossia senza darsi pena per lui, lieta di ferirlo. Cfr. XXXVIIª 9? – la sua persona: perifrasi per ‘essa’, ma qui dando ‘persona’ a quella letizia. 11. gioco: gioia (cfr. XXXª 4). – porti signoria: regge di gioco: ‘sia signora’, ossia abbia il pieno possesso; sia insomma la gioia in persona. Per la metafora e la perifrasi cfr. IV 7 e XXXª 7-8; per il verbo anche XI 1 e XXXVI 2. 12. Giustamente Marti cita per la formula “Odi malizia Ch’elli ha pensata” di Inf., XXII 107-8: senti che strana cosa il mio spirito arriva a desiderare, ossia a che cosa mai, a quale incredibile dimissione è disposto (Di Benedetto 1939 supponeva una metatesi per che d’el sia, ‘che avviene di lui’, dello spirito, del resto verificantesi nella tradizione di VIII 10: il cod. Escorialense ha ched el sia per ch’omo sia, l’Ambrosiano chel disja). 13. fedito: ferito. – li: a lei. 14. vedendo: benché veda; o forse proprio perché vede (“odi maraviglia”). Questa terzina sembra appunto riproporre la situazione ‘disinteressata’ di XIV. Nonché la compagnia o la vista o il possesso dell’amata, lo spirito ama il proprio annientamento. – valore: cfr. VII 10, e XI 15.
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XXXIX A DANTE ALIGHIERI
Se vedi Amore, assai ti priego, Dante, in parte là ‘ve Lapo sia presente, che non ti gravi di por sì la mente che mi riscrivi s’elli ‘l chiama amante
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1. Con inizio ipotetico caratteristico (Gorni, Lippo contro Lapo, p. 116) di diversi sonetti della ‘corona’ di Lippo (I, II, XXXII, XXXIV, XXXVII, XLVI), nonché del sonetto di Dante al medesimo Se Lippo amico (sola altra attestazione in lui: Se vedi gli occhi miei), e frequentato da Cino, comunque con importanti attestazioni in Cavalcanti (XIV, XV, XVII e il precedente XXXVIIIb). L’ipotesi presente, se, in sostanza, Amore sia con l’amico, e insomma se Dante abbia occasione d’incontrarlo (che conferisce al sonetto un immediato andamento epistolare; e cfr. v. 4), s’iscrive nell’altra, annosa, e pur essa occasione di corrispondenza in rima, se Amore sia visibile (la risposta di Guido in merito è ampiamente spiegata in tutta questa serie). L’ipoteticità è come raffigurata nella struttura intrecciata e fortemente ipotattica dell’intero periodo, probabilmente adeguantesi ai gusti del menzionato (cfr. di Lippo il son. Gentil mia donna, 5-8: “ma dir ched i’ potesse forza avere Di dipartir, ch’i’ non fosse amadore Di voi cui amo tanto, al mi’ parere, Son certo non poria partirmen fiore”), e per di più culminante in interrogative indirette con se (4-5). – assai ti priego: cfr. XXXV 25; ma non inciso, come lì, reggendo che non ti gravi del v. 3. 2. in porte là ’ve: formulazione pleonastica come in V 10 (e cfr. qui 9), là equivalendo a in parte (‘in luogo’: con suggestione della ‘localizzabilità’ di Amore? cfr. Vita Nuova, XXV 2); e lo stesso sia presente sg. vale ‘sia’, ‘stia’, e il tutto, semplicemente, ‘con L.’ (“in compagnia di” con XL 4). – Lapo: ma con molta probabilità Lippo. 3. non ti gravi: non ti sia grave, di peso (cfr. XXXª 43), di disturbo; non ti dispiaccia. – por... la mente: porre attenzione (col generale andamento perifrastico, non occorre forse attribuire alla presenza dell’articolo determinativo un particolare significato, la locuzione introducendo alla consecutiva del v. 4), badare (cfr. LI 2). 4. riscrivi: stesso significato (‘tu scriva in risposta’) che in XXXVIIª 3: che ribadisce il carattere epistolare dell’inizio. – elli: Amore. – ’l chiama: si rivolge a lui come a, lo riconosce per (ossia
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e se la donna li sembla avenante, ch’e’ si le mostra vinto fortemente: ché molte fiate cos’ fatta gente suol per gravezza d’amor far sembiante.
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lo considera dei suoi). 5. li: a Lapo (Lippo). Riferito ad Amore, il dubbio cadrebbe sui meriti di madonna, mentre la questione è se l’amico sia veramente innamorato (e quindi attratto da lei) come mostra; se cioè il suo amore abbia i caratteri di una vera attrazione. – avenante (francesismo formale, per la rima: avenente rimerebbe con B): avvenente (cfr. XXV 6), bella e attraente come di fatto è. È citazione di Lippo stesso (Gorni), son. XXVI 5, “che tanto sembla me sia grazïosa” (beninteso ‘benigna’). 6. ch(e)... le: solito anacoluto del relativo (cfr. XIII 4): alla quale. Per l’ordine arcaico delle particelle (si le per le si) cfr. XXXVIIª 14. – avinto: la lettura, già di Barbi, e finalmente di Contini 66, con verbo caro al Dante della Commedia (e qui allitterante con avenante), meno corrisponde tuttavia alla “gravezza” del v. 8 (vinto equivarrebbe a 11 “renduta”: sottomesso; i codici dividono regolarmente mostra vinto). – fortemente: forte, molto (altro gallicismo). 7. ché: dichiarativo (spiega il perché del dubbio). – molte fiate: molte volte. – così fatta: come lui (ossia che seguono la sua teoria e le sue dimostrazioni poetiche). 8. gravezza: sofferenza (cfr. XXXVI 2): anche nel senso di capacità di sopportazione, o per lo meno di affanni sopportati (cfr. 12)? Per va inteso, anziché come causale, con valore mediale; vuol dire cioè non che la sofferenza (ossia l’infelicità) è causa di simulazione d’amore, ma che c’è chi col suo aspetto sofferente si fa passare per innamorato, crede cioè che l’amore consista in un determinato atteggiamento. Con allusione probabilmente alla teoria della “sofferenza” di Lippo (si vedano in particolare i sonn. III e IV della “corona”: “Perfetto onore... Non puote avere chi nonn-è sofrente” ecc., e i sonn. XXXIII e XXXIV sembrano rispondere – cfr. Gorni, Lippo contro Lapo, pp. 118-19 – ad analoghe obiezioni), e forse in difesa della propria dolorosa sincerità (non basta insomma far Cavalcanti per esserlo). – far sembiante: regge d’amor. Se non ‘far finta’, ‘simulare’ (amore), significherà almeno ‘sembrare’ (innamorato), avere apparenza di (proprio la stessa frase significa, in Gui d’Ussel, L’autre jorn, cost’una via, 53, testimoniare il, far dimostrazione del proprio amore: “e feira?lh semblan d’amor, Si no li fos per paor”). Sul tema si veda almeno la polemica di Monte Andrea, sonn. I’ prendo l’arme, 7-10, e, in tenzone con Lapo del Rosso, 1-8: “So bene, amico, molto tra’ti ’nanti In dir
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Tu sai che ne la corte là ‘v’e regna e’non vi può servir om che sia vile a donna che là entro sia renduta:
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se la sofrenza lo servente aiuta, che se’ in segnoria d’Amore, E di ciò fai gran vista e [gran] sembianti... E perché lo dimostri con tuoi canti, Non credo che risponda a ciò lo core; Ché molti son che s’apellano amanti, Che d’amorosa via ciascuno è fòre”. Così Pacino Angiulieri a Maestro Rinuccino, Amor, c’ha segnoria e libertate, 9-10: “Ma tale omo è, coverto in falso usaggio, Che dice ch’è leale e serv’a grato”. 9. Tu sai che: cfr. IX 40, 43 (ma anche XXXVI 12). – ne la corte là ’v’e’ regna: cfr. V 4. Ma qui “corte” è nel senso regale (e cfr., anche per la testimonianza di Dante, XXXVIIIb, 5), non legale. 10. La lezione adottata da Contini 66 ricupera e riadatta la congettura del codice Marciano it. IX.191 Huomo non pò che sia vile servire adottata da Favati (cfr. IV 4 secondo la lezione chigiana “omo non può, ma ciascun ne sospira”) a plausibile restauro dell’altrimenti generalmente attestata (e singolarmente vicina a Guinizelli, Io voglio. del ver, 10, “e no·lle pò apressare om che sia vile”) (e’) non vi può servir om che sia vile prima accolta (altra soluzione possibile: non vi pò om che sia vile servire: l’ipotesi di Gorni che la rima imperfetta vile : sile sia polemicamente intenzionale nei confronti di Lippo che talvolta la pratica, non è forse necessaria, la verifica non riguardando le attitudini tecniche ma i significati). – sia vile: sia privo di ‘valore’ (si avvilisca?). – servire: in relazione a “corte” (dunque essere degno suddito: in sostanza, vero amante; e cfr. 12), ma anche alla dottrina di Lippo, la cui corona di sonetti si presenta come un ‘trattato della “maniera di servire”’ (da son. I 11) e, s’è visto, della “soffrenza”. 11. là entro: nella corte suddetta. – sia renduta: non ‘si sia recata’ (cfr. il fr. ‘se rendre’), ossia “sia entrata” (Ciccuto), e quindi “dimori” (Marti), “si sia istallata” (Cattaneo), ma (cfr. Inf. XXVII 83, Purg. III 119, Par. X 56) sia arresa, “dedita” (Contini, e cfr. il participio prov. rendutz), devota (cfr. Purg., XX 54, e Il Fiore, CXXIX 2 anche per la costruzione col complemento di luogo, del resto d’uso abbastanza esteso, cfr. per es. una frase come “ailleurs ne pens”). 12. la sofrenza: “la pazienza” (Contini). Cfr. XXIV 6. Soggetto di aiuta (‘è di giovamento a’, ‘iuvat’, come altra volta, XXIV 5, ha detto “vale”; ossia fa di lui un vero “servente”). – lo servente: l’amante (e cfr. XL 12).
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può di leggier cognoscer nostro sire, lo quale porta di merzede insegna.
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13. di leggier: facilmente (cfr. XXXIII 6). – conoscer: ha per oggetto l’intera proposizione prolettica del v. 12 (e cfr. 4-5): discernere (e decidere). È dunque Amore (“nostro sire”), come ha detto sin da principio (e Dante potrà riferirlo), che verificherà la bontà della “via d’amore” (‘corona’, LV 2) di Lippo, e dunque la sua appartenenza ai “fedeli d’Amore” (la “sofrenza” indica dunque la scelta di tale linea, non soffrire in sé). Va tuttavia segnalata l’implicazione di questo verso col v. 63 di XXVIIb, che riporta alla ‘visibilità’ d’Amore (e cfr. qui il v. 1), tanto più con l’altra implicazione di 14 con XXVIIb 70. – sire: signore (francesismo). 14. onta di merzede insegna: ossia è il signore della merzede (in quanto ne inalbera l’insegna), il (migliore) retributore dei veri amanti. L’immagine, già del Notaro, Om come pose, 14, è stata giustamente accostata da Gorni alla corrispondente non opposta) di Lippo “del sofrir corona” (che è appunto la merzede “donata” da Amore ai “sofferenti”).
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XL A DANTE ALIGHIERI
Dante, un sospiro messagger del core subitamente m’assali’ dormendo, ed io mi disvegliai allor, temendo ched e’ non fosse in compagnia d’Amore.
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Po’ mi girai, e vidi ‘l servitore 1-4.La situazione riproduce (o si riproduce in) quella, assai meno drammaticamente vissuta, del sonetto del pistoiese (e coevo) Paolo Lanfranchi che comincia “L’altr’ier, dormendo, a me se venne Amore, E destommi e mi disse: Eo so’ messaggio De la tua donna...”, e si riflette anche più evidentemente nell’attacco dantesco “Io mi senti’ svegliar dentro a lo core Un spirito amoroso che dormìa; E poi vidi venir da lungi Amore...”, del resto richiamato per gli incipit di XIII e XXII, e dove lo “spirito amoroso” ha l’aria d’interpretare proprio secondo Guido il presente “sospiro” (uscente dal e manifestazione del cuore di Guido, cfr. 2 “m’assalì”, non emesso dal “servitore di monna Lagia”; e cfr. del resto XV 5-6, XXXIII 10), come sembrano confermare anche i vv. 3536 (“ne mandan messi al cor pien di desiri Che prendon aire e diventan sospiri”) di Amor che ne la mente mi ragiona. Il fatto è che il sonetto del Lanfranchi, che per l’“altr’ier” (più gerundio) iniziale e per la sparizione di Amore alla fine, dissolto in “spirito sottile”, è assai probabile che riguardi Cavalcando l’altr’ier ancora di Dante, sembra, e non solo per i modi della sceneggiatura, aver presente e comunque interferire con II Fiore, se “un fiore” appunto è il dono (non so quanto simbolico) d’Amore da parte della donna, “che parse per sembianti ’l suo visaggio”. E con Il Fiore mostrano evidenti rapporti proprio i due sonetti di Dante citati e questo di Guido. 2. subitamente: cfr. XXXVIIª 7. – dormendo: riferito al solito al complemento, come in XXXVI 8, XXXVIIª 11, e come nell’incipit del Lanfranchi. 3. ed io mi disvegliai: riproduce il (peraltro paraipotattico) “ed i’ mi riguardai dal dritto lato” di Fiore IX 3, del resto presente immediatamente dopo. 4. Cioè che non fosse un sospiro d’amore (è un segnale d’amore, ma d’amore non suo). Il non come coi verbi ‘timendi’ latini (cfr. XXXIII 1-2). 5. Po’ mi girai, e vidi: cfr. appunto Il Fiore, IX 3-5 già cit. per
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Guido Cavalcanti - Rime
di monna Lagia che ven’a dicendo: « Aiutami, Pietà! » sì che piangendo I’ presi di merzé tanto valore,
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ch’i’ giunsi Amore ch’affilava i dardi. Allor l’adomandai del su’ tormento, ed elli mi rispuose in questa guisa:
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« Di’ al servente che la donna è prisa, e tengola per far su’ piacimento; XXXVI, “ed i’ mi riguardai dal dritto lato E sì vidi Ragion... Venir verso di me...”, XII 3, “ed i’ guardai e sì ebbi avisato...”, e naturalmente Dante, Io mi senti’ svegliar, 8-10. L’effetto scenico dura fino a Petrarca, sonetto con inizio gerundivo!) Perseguendomi Amor, 5 “Volsimi, e vidi un’ombra che da lato Stampava il sole, e riconobbi...”. – servitore: lo stesso che “servente” (cfr. 12, e XXXIX 12): amante. 6. venìa dicendo: per ‘diceva’, per cui cfr. X 1 (ma “venìa” è quasi obbligato dal modello rappresentativo). 7. Aiutami, Pietà: esclamazione-invocazione del tipo ‘Madonna, aiutami’, equivalente al semplice ‘Pietà!’ (cfr. ‘chiamar pietà’ o ‘mercé’, e XXXI 18-19, XXXII 8). Ritorna in Cino, Oimè, ch’io sono, 12, e in Dino Frescobaldi, Voi che piangete, 42 (Gorni, Lippo contro Lapo, p. 114). 8. “Mi feci, per compassione, tanta forza” (Contini) da affrontare Amore, oppure, semplicemente ‘presi, concepii tanto valore di merzé’ (dove “valore” è il genere di cui “merzé” è la differenza specifica; e cfr. XV 3), dunque ‘sentii tanta compassione’ (del resto, XXXIX 14, e XXVIIb 70, Amore è signore di mercé). 9. giunsi: raggiunsi. 10. Allor: nesso narrativo frequente nel Fiore (I 7, III 9, VI 5 ecc.). – l’adomandai (costruito col caso retto): m’informai da lui, gli chiesi ragione; che equivale a intercedere per l’amico (a cui si riferisce su’). 12. Di’ al servente che: cfr. Il Fiore CXL 9: “Dit’al valletto ch’i’ ne parleròe”. – prisa: sicilianismo formale (ma la rima siciliana guisa : presa è ammessa): presa d’amore, innamorata (letteralm. mia prigioniera, donde 13; “tengola”). 13. su’ piacimento: il suo volere (s’intende del “servente”); ossia disposta ai suoi voleri, a sua disposizione. Proprio Paolo Lanfranchi, Un nobile e gentil imaginare (venutogli mentre “dormia”, quindi del tipo di quelli sopra citati), 7-8: “Ella dicea: Tu m’hai in
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e se no ‘l crede, di’ ch’a li occhi guardi » .
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tua bailìa [e cfr. Il Fiore, I 6], Fa’ di me, o amor, ciò che ti pare” (e cfr. XLIIIb 6-8). 14. a li occhi: negli occhi (o semplicem. ‘gli occhi’) di lei: che, come i “sembianti”, per dirla con Dante, Purg. XXVIII 45, “soglion esser testimon’ del core”.
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XLI A DANTE ALIGHIERI
I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte e trovoti pensar troppo vilmente: molto mi dòl della gentil tua mente e d’assai tue vertù che ti son tolte.
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Solevanti spiacer persone molte; 1. I’ vegno: trattandosi di Amore, non occorrerà intendere “col pensiero” (Di Benedetto, Branca, Marti). Agli incipit di Rustico (già citato dal suo primo editore, il Federici), “Ispesse volte voi vegno a vedere” e di Monte (citato dal Mengaldo in nota a Rustico), “Ispessamente movomi lo giorno E vado per veder la donna mia”, e al verso di Mazzeo di Ricco, Lo core inamorato, 6, “vegnendo a voi lo giorno mille fiate” (Caridi), tutti dal Vaticano lat. 3793, nonché al dantesco “Spesse fiate vegnonmi a la mente...”, va aggiunto il verso 2 ancora di Gentil pensero, ossia del pensiero d’amore che “sen vene a dimorar meco sovente”, e l’“amico” Lippo, Omo non fu, 5-6: “ch’e’ par ch’Amore vigiti sovente... il suo fin amadore”. Per la forma cfr. XXXª 52. – ’l giorno: dipende da ’nfinite volte: infinite volte al giorno. 2. tròvoti: con enclisi della particella oggetto, giusta la legge di Tobler-Mussafia (e cfr. v. 5), qui dopo e. – pensar troppo vilmente: in pensieri, occupazioni mentali (cfr. 3) troppo vili, o anche di eccessivo avvilimento, abbattimento, depressione (e cfr. il sonetto di Dante Voi che portate, 8, dove le donne vanno “sanz’atto vile” come s’addirebbe al lutto, perché sono state con “nostra donna gentile” ossia Beatrice). 3. molto: possibile variante redazionale allor (è la lezione adottata da Favati). – mi dòl della: costruzione impersonale (al modo dei verbi impersonali latini). Cfr. Il Fiore, CLXXVII 12, “Molto mi duol ch’uon crede...”. – gentil: in opposizione tradizionale a vilmente (e basti il confronto della rima gentile : vile in XVII 2 : 3, XXV 12 : 15, XXVIII 4 : 5, XXXª 8 : 9), è qualità messa in pericolo sia da bassezza morale sia da avvilimento psicologico. 4. tue... ti: tutta la quartina insiste sul “tu”, qui con complicazione d’ulteriore allitterazione (e cfr. 6 e 8). – vertù: facoltà, inclinazioni, disposizioni virtuose. – che ti son tolte: di cui, in conseguenza del tuo “pensar... vilmente”, sei privo. 5. persone molte: la moltitudine (ossia eri riservato, sceglievi la
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tuttor fuggivi l’annoiosa gente; di me parlavi sì coralemente, che tutte le tue rime avìe ricolte.
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Or non ardisco, per la vil tua vita, far mostramento che tu’ dir mi piaccia, tua compagnia, ovvero, proiettando su Dante le proprie motivazioni, amavi la solitudine: il che rende poco probabile che lo stato di Dante fosse dovuto al solo dolore per Beatrice, quando proprio per esso, Li occhi dolenti, 5 3, dice che “da le genti vergogna mi parte”). 6. tuttor: cfr. XXXVI 8. – l’annoiosa gente: sono, correntemente, nel linguaggio cortese (vedi ad es. Guittone, Già lungiamente, 2, o Chiaro, o Rustico, Sì tosto con’ da voi, 12, e il relativo commento di Mengaldo), i ‘lauzengier’ o ‘malparlanti’, gli ‘invidiosi’ (l’“enviouse geni” , variante anuieuse, segnalazione di Contini, di Gace Brulé, Li plusour, 8; e cfr. i “molti pieni d’invidia” di Vita Nuova, IV 1), i ‘maligni’ (e “noia” il contrario di “piacere”); e nello stesso Guittone la “gente noiosa e villana” dell’incipit di una sdegnosa canzone sullo stato d’Arezzo, dettata dall’esilio, è interpretata più avanti, vv. 38-39, come “chi è lausengeri E sfacciato parlieri”. Sarà dunque la gente contraria ai bei pensieri d’amore, ad amore; e potrebbe anche indicare il gusto del motteggiare ‘comico’ (non è detto non praticato già al tempo della ‘dimenticanza’ di Beatrice), o più basse frequentazioni, indegne d’un intellettuale, compresa l’iscrizione ad una delle arti al fine di partecipare alla vita politica (e cfr. LIII). Per lo stesso Dante, nella canz. Poscia ch’Amor, dove ai vv. 10-12 “vile e noiso” è il contrario del “nome di valore, Cioè di leggiadria” , la dimostrazione, soprattutto negativa, di che cos’è appunto ‘leggiadria’ e la contestazione dei “falsi cavalier’ malvagi e rei” sono legate a un proprio ‘disamoramento’. E il sonetto di Guido (ossia di Amore) potrebbe prendere spunto da un’affermazione come questa. 7. coralemente: ossia ‘di cuore’ (cfr. XXIV 4); con affettuosa dedizione. 8. tutte le tue rime: cfr. XXXVI 1. – avìe: avevo (con riduzione dell’atona finale di avìa, a sua volta sicilianismo per avea). – ricolte: accolte (alla quale accezione si riducono gli esempi danteschi di Poscia ch’Amor, 123 e Conv., IV XXX 5 citati dal Cassata – quelli di Purg., XVIII 86, Par., IV 88, XXIX 69 varranno piuttosto ‘accolte dentro’, ‘comprese’); fatte mie; gradite. 9. la vil tua vita: traduce in 2ª persona “la mia vile vita” di V.N., XXXV 3. 10. far mostramento: fare dimostrazione, far vedere (Contini
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né ‘n guisa vegno a te, che tu mi veggi.
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Se ‘l presente sonetto spesso leggi, lo spirito noioso che ti caccia si partirà da l’anima invilita.
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“dar segno”). Formula perifrastica provenzale filtrata attraverso i siciliani (Contini), e per lo più designante l’evidenza e la manifestazione d’amore. Ritorna in Cino, Degno son io; 13, “farne [d’amore] mostramento A voi...”. – dir: dovrebbe corrispondere a “rime” del v. 8 (e cfr. XLVIb 2 6), e quindi potrebbe alludere a un diverso poetare (Di Benedetto); ma significherà semplicemente (e lo confermerebbe l’assenza dell’articolo, peraltro normale davanti a possessivo) che la “vile vita” di Dante e la presenza dell’“annoiosa gente” non invogliano a dichiararsi estimatore della sua poesia, e insomma a mostrar di conoscerlo (cfr. Chiaro, Sì mi distringe, 56: “... pavento, s’i’ fo mostramento Per li malvagi che vanno sparlando”, e cfr. vv. 8, 10-11). – piaccia: richiama “spiacer” del v. 5. 11. ’n guisa... che tu mi veggi: visibilmente, palesemente. Amore cioè non si mostrerebbe più a Dante, come aveva fatto per es. in Io mi senti’ svegliar (se il presente sonetto fosse in persona di Guido, significherebbe venire solo per iscritto, col sonetto, non di persona). Per un analogo “venire” (“vegno a te” riprende il v. 1) cfr. XLIIIª 7-8, per l’intero verso, IX 46 (Caridi). 12-14. Avvertenza (o istruzione per l’uso) da formula da recitare per scacciare appunto gli spiriti (cfr. 13-14); e si raccomanda una cura intensiva. Per “’l presente sonetto” cfr. proprio Dante di XXXVIIª 2. E un reticolo di parole comuni con la fronte del sonetto del medesimo Se Lippo amico è stato indicato da Gorni, Lippo contro Lapo, p 113. 13. spirito noioso: ipostatizzazione (a fine d’esorcismo) della “noia” (ossia della “viltà”) che affligge (fino ad assimilarselo: cfr. v. 6) Dante, come uno spirito maligno appunto allogato nell’anima. – caccia: incalza (cfr. Inf., IV 146, “sì mi caccia il lungo tema”: l’“importantissimo” [Favati] Magliabechiano VII.1060, da cui anche 8 avie, ha incaccia, lezione ancora accolta dal Barbi) “perséguita” (Contini); o ti allontana da me? 14. si partirà da: s’allontanerà da, lascerà. Cfr. VI 8, XVI 12, XVIII 5 ecc. – invilita: somma di vile + vita del v. 9, coerentemente con la simmetria rimica con quel verso (e così 10 mi piaccia, 13 ti caccia, e l’opposizione 11 veggi, 12 leggi), allittera d’altra parte abbondantemente con (i)nfinite (volte) del v. 1: “da viltate offesa”, con Dante, Inf., II 45. Ma la ‘localizzazione’ (e cfr. 3 “gentil tua mente”) è qui in relazione con la presenza dello “spirito noioso”.
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XLII A UN AMICO
Certo non è de lo ‘ntelletto acolto quel che staman ti fece disonesto: or come già, [‘n] men [che non] dico, presto t’aparve rosso spirito nel volto?
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Sarebbe forse che t’avesse sciolto Amor da quella ch’è nel tondo sesto? 1. non è de lo ’ntelletto acolto: non è ammesso dall’intelletto (de, oltre che d’agente, potrebbe aver valore mediale), ossia è incomprensibile o inconcepibile; addirittura, nemmeno tu te ne rendi conto (un atto, dunque, irresponsabile?). 2. Quello per cui diventasti disonesto, che hai fatto con tuo disonore; per cui hai perso la faccia. 3. Il verso, giuntoci lacunoso (salvo più tardi concieri), è largamente e intelligentemente (ma sulla via aperta da Arnone ed Ercole) integrato da Favati (potendosi ritenere che la lezione attestata... mendico... sia ulteriore riduzione, per omissione di compendi, della pur lacunosa ’(n) me(n) n(on) dico): in un attimo, immediatamente, in men che non si dica: a rinforzo di presto; anche se il già (ma il Di Benedetto congetturava gìo) sembrerebbe richiedere una negazione. Altra possibilità sarebbe quella della caduta di una parola iterata: or come già [com’ a] mendico (cfr. Luc. XVI 3 “mendicare erubesco”): che rende il rimaneggiamento di manoscritti tardi or come ti mostrò mendico presto meno balordo che non paia. – or: ordunque. – come: com’è che (se non fosse cioè un atto disonorevole): cfr. v. 5. O più semplicemente con valore esclamativo (Tanturli). 4. rosso spirito: spirito di rossore, con tipica perifrasi cavalcantiana, per ‘rossore’. 5. Sarebbe: sarebbe avvenuto; si tratterebbe (cfr. v. 3). – sciolto: dal servizio; congedato; liquidato. 6. quella ecc.: è l’enigma insoluto del componimento. Se sesto, coll’Ercole, è sostantivo nel senso di ‘sestiere’, tondo potrebbe significare i Cerchi (che avevan case nel sesto di San Piero Scheraggio), e s’alluderebbe a una donna di questa famiglia (e l’episodio potrebbe avere riflessi civili: la cronaca fiorentina era ricca, da quello di Buondelmonte de’ Buondelmonti in qua, di fedi mancate a donne d’alto rango); se il sostantivo è tondo, varrà per ‘cerchio’,
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o che vil razzo t’avesse richesto a por te lieto ov’ i’ son tristo molto? Di te mi dole: di me guata quanto che me ‘n fiede la mia donna ‘n traverso tagliando ciò ch’Amor porta soave!
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Ancor dinanzi m’è rotta la chiave e s’è pensato (Contini) al cielo sesto di Giove, con allusione a una Giovanna (a Giovanna?). Per mera curiosità, il sesto cerchio dell’Inferno dantesco è quello degli eresiarchi, dov’è nominato Guido. 7. vil razzo: altra ricostruzione tarda (quattrocentesca) su virazzo della tradizione antica (ma l’assimilazione di lr è normale: cfr. i·re per il re – Di Benedetto 1939, seguito da Ferrero, propose virago!). Raggio (la forma razzo è viva in Toscana), ossia sguardo: più che di donna vile (come di sotto s’intende), vile in sé (cfr. Vita Nuova, XXXVIII 4), ossia di mera passione, d’amor sensuale. – richesto: richiesto (sollecitato) d’amore, fatto profferte d’amore, sedotto. È questo verbo che rende irricevibile l’interpretazione (dubitativa) di Margueron di vil razzo come “reo influsso astrale”. 8. por: fare. Ma si collega a ov(e): a farti provar letizia là dove, ossia per un oggetto, la donna (stante la nostra interpretazione di vile) per cui sono infelice. Lezione isolata d’una delle due copie del Chigiano L.VIII.305: a porto lieto. 9. Passaggio epistolare, del tipo: ‘si vales, bene est. Ego valeo’. – mi dole: cfr. XLI 3. – guata: guarda, di cui è sinonimo, da etimo equivalente (franco wahta ‘guardia’ di contro a wardon ‘stare in guardia’). L’invito è il solito, di X 1-2 ecc., e in particolare di XXXVIIIb 7. 9-10. quanto Che: quanto (com’è frequente, rileva Contini, nell’“amico di Dante”). 10. ’n: d’amore? o a causa di quello sguardo? – fiede: cfr. XXXVIIIb 13. – ’n traverso: trapassandomi da parte a parte. 11. ciò ecc.: il cuore, soggetto (Contini, Marti). Ma mi sembra improbabile una tale designazione, e portare nel senso di ‘contenere’, ‘racchiudere’ è detto in Cavalcanti di persona, accompagnato da compl. di luogo (ad es. XX 1, XLV 13: cfr. peraltro XXXVI 2). Intenderei (e cfr. 8) ‘ogni dolcezza che Amore porta, dà’ (soave compl. predicativo dell’oggetto ciò: cfr. Petrarca, CCLXXII 9-10 “s’alcun dolce mai Ebbe il cor tristo”), e tagliando come ‘tagliando via’, ossia distruggendo: Cfr. XXXIV 2-3. 12. Ancor: per di più (che si giustifica meglio colla nostra inter-
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del su’ disdegno che nel mi’ cor verso, s’ che n’ho l’ira, e d’allegrezza è pianto.
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pretazione del v. 11). – dinanzi m(i): davanti agli occhi, in faccia; a me (ma la vede coi propri occhi, rotta). 12-13. m’è rotta la chiave Del su’ disdegno: si confrontino immagini come quelle di XXVIII 13 e XXXª 7-8. Per Guido quella chiave (ossia la facoltà, che è della donna, di sdegnarlo, come, per contro, d’averne pietà; ovvero, che è di lui, di chiudere la porta al disdegno di lei; insomma, per sineddoche, la porta del suo disdegno) è rotta. Cfr. per analogo costrutto “gli occhi dello su’ disdegno” di XVI 10, che ha incoraggiato gli interpreti, da Di Benedetto a Favati a Marti, infine Contini 66, a preferire la congettura ritta ‘diretta’ anziché l’attestato rotta. 13. [che] nel mi’ cor verso: con integrazione di Contini: che (riferito a chiave, ma da Marti a disdegno) volgo (con crudo latinismo: Marti “agito”) nel mio cuore. Favati legge coi primi editori nel mi’ cor[e] verso, intendendo verso come preposizione (dunque ‘diretta verso il mio cuore’), laddove Ercole lo considerava participio passato forte di versare (riferito a disdegno). Potrebb’esserlo di vertere (‘rivolto’), visto che, come sembra a Tanturli, il verso sg. evoca il “versa est in luctum cithara mea, et organum meum in vocem flentium” di Job, XXX 31 (e cfr. 14 “Quasi rupto muro et aperta ianua írruerunt super me”). 14. n’ho: me ne consegue, me ne resta. – ira: nera tristezza, dolore (ma a IV 8 abbiamo tradotto ‘disdegno’). – d’allegrezza è pianto: cfr. XXXII 1-2 (naturalmente il rapporto è rovesciato), ovvero XV 5, e con allegrezza XXVI 4: in cambio dell’allegrezza (non vi) è (che) pianto; l’allegrezza è convertita in pianto. Ma alla luce del richiamo biblico, si potrebbe azzardare una lettura, dopo virgola e con prolessi del participio, verso Sì che n’ho l’ira, d’allegrezza, e pianto (appunto ‘sì che ne ho, me ne è convertita in ira e pianto ogni allegrezza’).
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XLIII (a) GIANNI ALFANI A GUIDO CAVALCANTI
Guido, quel Gianni ch’a te fu l’altr’ieri salute, quanto piace alle tue risa, da parte della giovane da Pisa che fier d’amor me’ che tu di trafieri.
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1. Guido: stesso attacco di XXXVIIIª. Solo che qui il vocativo traveste un più formale appello (vedi nota a 2). – quel: anticipa la relativa; ma suona come un insinuante ‘ti ricordi di me?’. – l’altr’ieri: tipica ‘iunctura’ narrativa, per es. delle pastorelle, e di vari incipit angiolereschi (e cfr. quello di Dante “Cavalcando l’altr’ier...”), qui in richiamo di precedenti buoni uffici e di una ormai instaurata complicità. 2. salute: ossia ‘salutem [dicit]’ (cfr. XXXVIª 4), secondo la formula compendiosa della ‘salutatio’ epistolare classica (“Cicero Attico suo salutem”), parte integrante e “porta” della lettera come insegna Brunetto, La rettorica, 76, 28, e per cui Contini cita l’epistola di Dante a Cino da Pistoia o quella di Guittone a messer Caccia Guerra; qui a significare benevolenza, anzi condiscendenza amorosa, quanta (“quanto piace” ecc.) Guido se ne può aspettare, ossia illimitata. – quanto ecc.: la quantificazione del saluto (“salutem quamplurimam” e simili) è della tradizione medievale e resiste tuttora: qui ‘ad libitum’ del ricevente, come in Dante, Se Lippo amico, 6, “e recoti salute quali eleggi” (e cfr. la relativa nota di Contini), ma con ammicco e augurio per il piacere che ne avrà Guido. Sono insomma saluti allegri (è stato giustamente rilevato, Contini e sgg., il valore che “risa” ha di segnale del contenuto giocoso del sonetto). 3. da Pisa: di Pisa. II riferimento anagrafico è tipico di contesto ‘comico’ (benché accolto proprio da Guido anche in sede lirica, cfr. l’incipit “Una giovane donna di Tolosa...”), ma (se non racchiude un’allusione cifrata) la perifrasi ha anch’essa valore d’intesa (quella che sai e che non occorre ti nomini). 4. che fier: la lezione da ultimo respinta (Contini, Marti) per ch’e’ fier a conforto dell’interpretazione tradizionale (che compl. oggetto, e’ uguale a “quel Gianni”) riacquista pieno significato come apprezzamento del ‘valore’ di lei, della sua valentìa in amore, e come sfida a Guido a farne prova. – me’: meglio, con diffusissima apocope. – di trafieri: di pugnale (si noti la figura etimologica fier-trafieri). Allusione alle attitudini battagliere di Guido, come testimoniato dal Compagni, Cronica, I XX. Il confronto giu-
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Ella mi domandò come tu ieri acconcio di servir chi l’hae uccisa, s’ella con lui a te venisse in guisa che nol sapesse altre ch’egli e Gualtieri; sicché [l]i suo’ parenti da far macco non potesser già ma’ lor più far danno che dir: «Mendate» da la lungi «scacco!».
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stifica la seguente richiesta di lei. 5. come: quanto; se. – ieri: eri, con normale dittongazione della E tonica. 6. acconcio: fornito, armato, attrezzato, dunque capace. Cfr. XXI 8, e qui 12-14. – servir nel senso specifico cortese, di servizio amoroso (chi è appunto Amore), nel senso anche di corrispondere alle aspettative di lei. 7. con lui: “in compagnia d’Amore” (XL 4), ossia con intenzioni amorose. 7-8. in guisa Che ecc.: cfr. XLI 11. In segreto. 8. altre: altri, con terminazione arcaica (da ALTER, come sempre da SEMPER) poi assimilata a quella di egli ecc. (cfr. Schiaffini, TF, pp. XXIV-XXVI). – egli: Amore. – Gualtieri: l’“amico” dedicatario del De amore di Andrea Cappellano (cfr. nota a XXVIIb 1); ossia Gianni Alfani stesso, che ha messo in opera tutta la dottrina di quel libro. 9. sicché: riferito ai vv. 7-8: così segretamente che. – parenti: altro vocabolo angioleresco (nell’incipit “Li buon’ parenti...”). – da far macco: “invece di” (Contini, e cfr. al solito XXXII 1–2 e XLII 14) far poltiglia (“macco” – cfr. F. Ageno, Riboboli trecenteschi, SFI, X [1952], p. 437 – sono fave o altri legumi secchi lessati e pestati, e l’espressione iperbolica, da ‘miles gloriosus’, è attestata accanto al senso primo nel Morgante); ossia: di tutto quello che potrebbero fare contro i due amanti, come tutta rivalsa. 10. già ma’: con valore semplicemente negativo (ovvero: né ora né poi). – lor: a lei e al suo accompagnatore: una volta che Guido ha saldato il conto. – più: maggiore (va con danno). 11. dir: si contrappone a far del v. 10. – Mendate... scacco: inteso come ‘por riparo’ (fuor di metafora: controbattere la dichiarazione di ‘scacco matto’) in base al Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, 105 (Contini, PD, 1851), con probabile allusione alla riparazione dell’offesa. Nell’impossibilità di metter più le mani su di lei, si dovrebbero insomma contentare di minacce, non potrebbero che chiedere (solo chiedere) una riparazione (ossia si troverebbero di fronte al fatto compiuto). Intendo da la lungi (‘dalla lonta-
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Io le rispuosi che tu sanza inganno portavi pien di ta’ saette un sacco, che gli trarresti di briga e d’afanno.
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na’, ‘da lontano’) come legato a dir anziché a Mendate, ossia fuori virgolette. 12. sanza inganno: senza fallo, immancabilmente (sanza è la forma fiorentina). Gianni garantisce per Guido. 13. pien: compl. predicat. dell’oggetto sacco, regge di ta ’ saette. – un sacco: altra espressione iperbolica (e stilisticamente degradata: si noti l’allitterazione “saette” – “sacco”) tutt’oggi in uso. Le saette (e si noti “ta’ saette”) alludono agli argomenti amorosi di Guido e quindi alla sua capacità di soddisfare la donna. 14. gli: li, ancora “loro”, cioè “ella” e “lui” del v. 7. Per dire che né lei né Amore avranno da dubitare di Guido. – briga: impaccio, o anche pericolo. – afanno: preoccupazione, o anche ansia amorosa.
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XLIII(b) GUIDO CAVALCANTI A GIANNI ALFANI
Gianni, quel Guido salute ne la tua bella e dolce salute. Significàstimi, in un sonetto rimatetto, il voler de la giovane donna che ti dice: « Fa’ di me quel che t’è riposo » . E però ecco me apparecchiato, sobarcolato,
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1. quel: è, come tutto il verso, ripresa ‘ad verbum’ di quel della proposta (“quel Guido” che tu dicesti), equivalente a dichiarazione di ricevimento del messaggio. 2. ne la ecc.: piuttosto che come in XXXVIIª 4, andrà inteso come ‘al giungere della’ ecc., e salute nel senso di messaggio, notizia (buona novella: cfr. vv. 6-8), tua ‘che tu mi rechi’. 3. Significàstimi: mi hai fatto sapere (la regola dell’enclisi esclude che il complemento del v. 2 si riferisca, come proponeva l’Ercole, a questo verbo). 4. rimatetto: con diminutivo tipicamente cavalcantiano (e creante rima proprio con sonetto). 5. il voler: il desiderio, l’intenzione, anzi la ‘buona volontà’ (cfr. 6-8). 8. riposo: agio (in Guittone, Ai dolze terra aretina, 10, in coppia sinonimica appunto con riposo), “appagamento” (Contini), diletto. La ‘dichiarazione’ della donna secondo la lezione di Guido (per cui cfr. Dante, Ne le man vostre, 8, “qualunque vuoi di me, quel vo’ che sia”, e Voi che ’ntendendo, 52, “ecco l’ancella tua: fa’ che ti piace” ) riprende parodisticamente la replica della Vergine all’annunzio dell’angelo (“fiat mihi secundum verbum tuum”, Luc., I 38), ossia equivale a rimettersi ai buoni uffici del proprio intermediario. – ecco me: èccomi, a sua disposizione. 9. apparecchiato: cfr. XLIIIª 6 “acconcio”. 10. sobarcolato: ‘subcinctus’, con le vesti succinte per poter trar d’arco (cfr. 11 Fiore, CXXXVI 10, e Contini, Filologia ed esegesi dantesca, in Varianti e altra linguistica, pp. 424-25), non escluso con allusione ad altro succingersi. Secondo l’interpretazione qui
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e d’Andrea coll’arco in mano, e·ccogli strali e·cco’ moschetti Guarda dove ti metti! ché la Chiesa di Dio sì vuole di giustizia fio.
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proposta, è perfetta la corrispondenza con l’“i’ mi sobbarco” di Purg., VI 135. 11. Andrea: Andrea Cappellano. Come Gianni Alfani s’è identificato con Gualtieri, Guido, adottando la stessa convenzione, attesta che le sue armi, come vuole il De amore, sono d’amore: a conferma di quanto richiesto e promesso (e nel gusto, qui e sopra, delle repliche da tenzone). 12. moschetti: frecce da balestra (Cino da Pistoia, Lo fino Amor cortese, 6: “sue moschette nel cor mi balestra”), ‘variante’ di “strali”. 13. Guarda: nel senso del lat. ‘cave’: bada, pensa bene. – dove: a che impresa. Per dire: che cosa stai facendo. 15. sì: paraipotattico. – vuole: esige. – di giustizia: secondo giustizia (o, con consueta anastrofe, dipendente da fio, ossia non ‘di denari’?). – fio: propriamente, rendita, mercede di un feudo (“censo e fio” ha Monte in un sonetto che comincia De la romana chiesa, 4); qui nel senso di ammenda, pena (si confronti l’ancor vivo ‘pagare il fio’), con allusione alle pene che la Chiesa comminava ai ruffiani. La fanciulla avrà quanto chiesto, ma Gianni pagherà le spese del mercato.
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XLIV (a) BERNARDO DA BOLOGNA A GUIDO CAVALCANTI
A quella amorosetta foresella passò sì ‘l core la vostra salute, che sfigurìo di sue belle parute: dond’ i’ l’adomanda’: « Perché, Pinella?
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Udistù mai di quel Guido novella? » « Sì feci, ta’ ch’appena l’ho credute 1. quella: quella che sai, che hai veduto. Anche dietro questo incipit sembra trasparire la formula del saluto, anzi ne è un riflesso. – amorosetta: con variazione di diminutivo rispetto al (e ampia allitterazione col) sostantivo, ‘variante’ a sua volta rispetto a quello di XXXª 2. Ritorna al positivo anche nella pastorella, XLVI 21; ma il diminutivo troverà grazia, come “parolette” di Dante, presso Petrarca, CLXII 6 (“amorosette e pallide vïole”). Il tutto conferisce alla donna un particolare carattere di disponibilità. 2. passò... ’l core: cfr. IX 39. – salute: saluto, come in XLIIIa-b (soggetto di passò). Sarà un saluto d’amore, come in XLIIIª 2-3 e XLVIª 9, magari inviato per Bernardo dopo l’incontro. 3. sfigurìo di: si sfigurò (il metaplasmo di coniugazione rileva la funzione mediale), restò stravolta, o semplicemente cambiò colore, impallidì o piuttosto arrossi (Dante, Voi che portate, 13, ha “veggiovi... sì sfigurate”; e cfr. qui LI 3), rispetto a; mutò (dove appunto di designa al solito il passaggio da uno ad altro stato: cfr. XXXII 1-2, XLII 14). – parute: parvenze, sembianze (per la solita formazione del sostantivo dal participio studiata dalla Corti, Contributi al lessico predantesco. Il tipo “il turbato”, “!a perduta”, AGI, XXXVIII 1 (1953), in particolare pp. 68, 78: cfr. ‘veduta’ e simili). Secondo la verosimile interpretazione della risposta, di una vista cioè della Pinella al bagno, si alluderebbe qui a ciò che di lei fu visibile. 4. dond(e): onde, per cui. – l’adomandai: le chiesi, l’interrogai. Per il costrutto cfr. XL 10, di cui ripete anche il movimento iniziale. – Perché: chiede la ragione della sua “trasfigurazione”. Bernardo, rispetto a Gianni Alfani mezzano d’amore, è piuttosto un confidente (ma cfr. 11). 5. Udistù: va con “novella”, per cui cfr. XXV 1 (per la forma contratta cfr. XXI 1): hai forse (“mai”) avuto notizie (nel senso di ‘hai incontrato, visto’)? 6. Sì feci: per dire ‘sì, ho udito’ (di cui “feci” è vicario), con
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che s’allegaron le mortai ferute d’amor e di su’ fermamento stella, con pura luce che spande soave. Ma dimmi, amico, se te piace: come la conoscenza di me da te l’ave?
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Sì tosto com’ I’ ‘l vidi seppe ‘l nome! Ben é, così con’ si dice, la chiave. formula mutuata dal francese (Contini): che cosa, è detto ai vv. 79. – ta’: tali, riferito proletticamente a “ferute” del v. sg.; ovvero sottinteso ‘novelle’. – appena: a mala pena, quasi non. 7. s’allegaron: vennero addotte (a propria giustificazione), dichiarate, col solito riflessivo per il passivo. L’incredibilità, sottolineata anche dalla spersonalizzazione del soggetto, riguarda la dichiarazione del proprio innamoramento da parte di Guido, come in genere del cavaliere in siffatti incontri, con tutte le iperboli del caso. – mortai: mortali, con dileguo (e cfr. 6 ta’) di -l- davanti a i (per ferute cfr. XX 11). 8. di su’ fermamento stella: la (ma l’assenza dell’articolo dice: non so che) stella (coordinato a “ferute”) del suo firmamento: lei, Pinella, come lui l’ha chiamata (l’‘ordo artificialis’ renderebbe il linguaggio difficile del dichiarante, e esprime anch’esso una sorta di ‘che so io?’). 9. con: riferito a “stella”: dotata di (così come l’ha descritta e colorita Guido). – soave: complem. predicat. dell’oggetto “luce” (soavemente): soggetto “stella”. 10. se te piace: per favore (cfr. il f r. ‘s’il vous plait’). – come: com’è che? o: forse che? 11. la conoscenza di me: notizia di me, chi sono (appena l’ha vista, l’ha chiamata per nome). È stato Bernardo a dire a Guido chi era la bellezza al bagno, e probabilmente ad additargliela (e ora s’informa da lei com’è andata). – l’àve: la ha (o, trattandosi d’un settentrionale, “ebbe” [Contini]; ma anche Cino ha àve pres., sicilianismo in rima, Onde vieni, Amor, 5). Regge “da te”. 12. Sì tosto com(e): non appena. – i’ ’l vidi: e, per la nota reciprocità (cfr. Conv., II IX 5), egli vide me. Per dire anche che essa vide d’esser vista. Per 1 intero emistichio cfr. Il Fiore, XLVII 11. – seppe ’l nome: parodia di Beatrice chiamata Beatrice anche da chi non ne sapeva il nome? Poiché Pinella non sembra nascondere significati, si sarà trattato di un’indiscrezione di Bernardo. 13. Ben è: è vero che è; ovvero: davvero è. – così con’ si dice: come (con’ è com’, gallicismo, con riduzione della nasale davanti a
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A lui ne mandi trentamilia some » .
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s), a quel che si dice. – la chiave: il sommo della perspicacia? O piuttosto uno che le sa tutte (in amore), a cui non si può nascondere nulla, a cui non c’è uscio che resista? Variante allora del soprannome di “Cavicchia”? Per cui qui, e dalla corrispondenza precedente, e così con XLIXa-b, verrebbe fuori il rovescio dello “sdegnoso e solitario” e del disdegnato d’amore: un gran cacciatore di donne, e cercato da loro. 14. mandi: “congiuntivo per l’imperativo” (Contini; e cfr. XXV 23); ma, in analogia con XLIVb 12, si può leggere mand’i’ (purché si divida trenta milia). – trentamilia some: solita quantificazione (iperbolica: cfr. Cecco Angiolieri, Sed i’ avessi un sacco di fiorini, 4, “con cinquicento some d’aquilini”, e meglio Muscia da Siena, Dugento scodelline di diamanti, 5, “e centomilia some di bisanti”) del saluto, su cui cfr. XLIIIª 2 (e cfr. Fiore, XIV 12). E può aver significato di compiacenza.
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XLIV (b) RISPOSTA DI GUIDO
Ciascuna fresca e dolce fontanella prende in Liscian sua chiarezz’ e vertute, Bernardo amico mio, solo da quella che ti rispuose a le tue rime agute:
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però che, in quella parte ove favella 1. fresca e dolce: con chiarezz(a) del v. sg. (Marti) compongono il trinomio del celebre attacco petrarchesco “Chiare, fresche e dolci acque” (come ha avvertito Parronchi, condizione, a norma della ‘perspectiva’ medievale, di perfetta diafanità e quindi di rivelazione della bellezza). – fontanella: ‘fontana’ per ‘fonte’: a specchio (nell’identica posizione) e in parte allitterando con foresella della proposta (anche il v. 2 riproduce lo schema del corrispondente di quella). 2. prende: trae, deriva (per dimorarvi presso Pinella, o addirittura, come pensava l’Ercole, per usar essa di prendervi il bagno: che renderebbe più stringente il richiamo petrarchesco). – Liscian: identificato con Lizzano in Belvedere nell’Appennino bolognese (un altro Lizzano è non distante, poco sopra San Marcello Pistoiese, ma il primo sarà privilegiato dall’essere su un affluente del Reno e in zona di bagni, e quindi meglio prestarsi a fornire immagini acquee alla risposta). – vertute: virtù salutare (piuttosto che forza, impulso). Dopo i tre attributi specifici suddetti, riassume il contributo della donna alla loro costituzione (è cioè la presenza di lei che rende le acque “chiare, fresche e dolci”, e benefiche). 3. amico mio: come Gualtieri (cfr. XLIIIª 8 e nota). Mio ‘rima’ con “sfigurìo” di XLIVª 3. 4. a le tue rime agute: interpretando le domande a Pinella della proposta (ossia XLIVª 4-5) secondo la loro realtà testuale. A meno che le “salute” di Guido di cui a XLIVª non fossero trasmesse da Bernardo per sonetto. Per agute (pungenti, che toccano il vivo) cfr. IX 38, XII 6; ti è pleonastico. 5. però che: dichiarativo: infatti. – in quella parte ove favella: varrà ‘favellando’; ma la perifrasi (per in quella parte cfr. XXVIIb 15 e nota, per cui l’intera frase dei vv. 5-6 varrà ‘a quanto ricordo’) richiama a quello spazio mentale in cui Dante e Cavalcanti stesso hanno collocato la parola d’Amore: cfr. del primo il celebre incipit “Amor che ne la mente mi ragiona De la mia donna...” (ricalcato
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Amor delle bellezze c’ha vedute, dice che questa gentiletta e bella tutte nove adornezza ha in sé compiute. Avegna che la doglia I’ porti grave per lo sospiro, ché di me fa lume lo core ardendo in la disfatta nave,
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da Dino Frescobaldi, Un’alta stella, 12 con variante appunto “favella”) e, della canz. Donne ch’avete, 43, “Dice di lei Amor...” , e qui VIII 5-6, IX 33-36 (e 40-42). Ancora Cino a Dante, Dante, quando per caso, 4: “... quel piacer che dentro si ragiona”. 6. II verso riproduce (o è riprodotto in) IX 33. Ma qui vedute sembra alludere all’occasione offerta dal disvelamento delle bellezze di lei al bagno. E naturalmente è un vedere cogli occhi d’Amore. 7. dice: soggetto “Amor” della dipendente rolettica: attesta. – gentiletta: per il diminutivo (alludente all’estrazione campagnola questa ‘gentilezza’?) cfr. XXXI 7, per l’accoppiamento con bella cfr. XXIX 2 (ma Contini giustamente richiama all’incipit dantesco “Perché ti vedi giovinetta e bella”), e per l’integrazione con adornezze (secondo una ‘variatio’ già applicata ai vv. 1-2) XXV 6-7 e relativi riscontri. 8. Cfr., anche per il costrutto, la canzone di Guinizelli cit. a XXV 6, v. 28: “tutto valor in lei par che si metta”. Ma anche qui (tutte nove adornezze vale ‘ogni mai vista bellezza’, e con compiute compl. predicativo dell’oggetto ha forza di superlativo assoluto) cfr. Dante, I’ mi son pargoletta, 13, “Le mie bellezze sono al mondo nove” (Contini): anche se Amore ha l’aria qui di enumerare e decantare per l’appunto tutto ciò che in lei è visibile (quella che da Boccaccio in poi sarà la ‘lode’ dell’avvenenza femminile). 9. Avegna che: benché, benché sia vero che, checché ne creda la Pinella. – la doglia i’ porti grave: costrutto analogo (per porti, e per doglia, cfr. XI 1) a quello del v 8, con grave compl. predicativo dell’oggetto, e a quello di XLII 11 (per altra accezione di “portare”), sulla stessa rima in -ave. 10. ché: dichiarativo, in realtà introduttivo di una autonoma metafora (ma i sospiri saranno, come altra volta esplicitamente, “saette”: cfr. XXI 9-10), anzi séguito di metafore che alla fine ci riconduce al campo semantico acqueo-fluviale. – di me fa lume: soggetto “lo core” del v. sg.: mi illumina, ma nel senso di ‘infiamma’, mi fa essere fiamma (cfr. XXVIIb 52). 11. ardendo: ardente (come in XXXVIIª 12). – nave: metafora per corpo (per disfatta ‘distrutta’ cfr. XXXI 18). L’immagine com-
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mand’ io a la Pinella un grande fiume pieno di lammie, servito da schiave bell’ e adorn’ e di gentil costume.
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plessiva è quella, deflagrata da situazioni solite, di un grande incendio, divampato dal cuore, che ha trasformato Guido in un falò e la sua vita in naufragio. Guido insomma è una nave in fiamme là dove Pinella prende refrigerio, dea delle acque. 12. fiume: risponde ad abundantiam a “fontanella” del v. 1 , e ha analoga funzione iperbolica di “trentamilia some” della proposta e di “sacco” di XLIIIª 13. Ma non si tratta di saluti, bensì dell’offerta e augurio e immaginazione di una più degna cornice per il bagno di lei: un intero fiume di cui la ninfa di Lizzano sarà regina. 13. lammie: ‘fate’, ‘streghe’, qui ‘ninfe’ (come per es. in Boccaccio), filando la metafora del fiume. –servito: così la tradizione (Favati, e già Di Benedetto, servite, riferito a lammie): si tratterà delle ‘serventi’ di questo favoloso bagno offerto a Pinella. 14. Si noti l’esatta ripresa dei tre attributi di 7-8 (anche qui con ‘variatio’ per il terzo).
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XLV A UN AMICO
Se non ti caggia la tua santalena giù per lo cólto tra le dure zolle e vegna a man d’un[o] forese folle che la stropicci e rèndalati a pena:
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dimmi se ‘l frutto che la terra mena nasce di secco, di caldo o di molle; e qual è ‘l vento che l’annarca e tolle; 1. Se: augurativo o desiderativo (‘possa non caderti’ ecc.). Nonostante l’avvio classicamente formale, è incipit, per es., di Rustico (Se tu sia lieto di madonna Tessa). – caggia: cada (per analogia ‘di proporzione’ su veggia/veda, seggia/sieda). S’intende, durante il lavoro dei campi, a cui non sei avvezzo. – santalena: antica moneta bizantina (bisante) con l’effigie di Sant’Elena, qui medaglia o “ciondolo” (Contini) portafortuna, non escluso non di metallo (cfr. v. 4). L’augurio è che il cambiamento d’abitudini non si traduca in volta di fortuna. 2. cólto: coltivato, campo (ancora vivo in Toscana, e cfr. Leopardi, La ginestra, 24). 3. vegna a man: càpiti, cada in mano (per vegna cfr. XXXª 52). – forese: contadino (da “fori”, come contadino da “contado”, villano da “villa”: e cfr. XXXª 2). – folle: incivile, rozzo (il ‘folle amore’ è l’amor sensuale), e fors’anche ignorante. 4. stropicci: soffreghi, per liberarla dalla terra e capire che cos’è; ovvero maneggi maldestramente, con le sue mani rozze. – rèndalati: te la renda (per l’ordine delle particelle cfr. XXXVIIª 14; per l’enclisi, vale la legge Tobler-Mussafia in principio di nuova proposizione, e forse con gusto del chiasmo). – a pena: a mala pena, a stento, malvolentieri (cfr. XLIVª 6). 5-6.Cfr. Virgilio, Bucol., III 106–7: “Dic quibus in terris... Nascantur flores...”. 5. mena: produce. 6. secco... caldo... molle (‘umido’): tre delle quattro ‘proprietà’ elementari (la quarta è il ‘freddo’) dalla cui combinazione (cfr. XXVIIb 25) dipendono tutte le cose naturali, a cominciare dai quattro elementi. 7. la ’nnarca e tolle: se la particella pronominale si riferisce a
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e di che nebbia la tempesta è piena;
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e se ti piace quando la mattina odi la boce del lavoratore e ‘l tramazzare della sua famiglia.
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I’ ho per certo che, se la Bettina porta soave spirito nel core, del novo acquisto spesso ti ripiglia.
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“terra”, s’intenda come endiadi ‘la incurva e solleva (lat. ‘tollit’) ad arco, a volta, la tende, la gonfia’ (producendo terremoti, ritenuti effetto di venti sotterranei); se a “frutto” (ma allora l’annarca), s’intenderà vento come clima, stagione (Virgilio nel I delle Georgiche spiega quali sono i venti propizi alle coltivazioni), e la coppia verbale come riferita al raccolto (con ‘hysteron-proteron’: fa cadere, ossia cogliere dalla pianta, e riporre in ‘arca’). 8. tempesta: propriamente la grandine. – piena: formata. 9. la mattina: di buon’ora, come s’usa in campagna (tu che sei abituato a dormire ancora). 10. boce: voce: “forma popolare, tuttora viva a Firenze” (Contini) in ‘bociare’ per ‘vociare’. – lavoratore: contadino, che lavora la terra per te (fr. ‘laboureur’). 11. tramazzare: tramestìo, trambusto delle faccende. Monte, Ai come, lasso, 1, ha “brigh’... e tramazzo”; e il Novellino, LXV (redaz. Pancitichiana), “chi aportava freni e chi selle: lo tramazzo era grande”. – famiglia: numerosa, com’è di quelle dei contadini (ma “famiglia” equivale a ‘i famigli’: non del “lavoratore”, ma come lui e per solito conviventi con lui). Se non è metafora (ma non soccorrono esempi) del codazzo degli animali da cortile. 12. ho per certo: ho per, considero come cosa certa. Cfr. VII 8, XLIXª 9. – la Bettina: col tipico articolo determinativo avanti al nome, valido in Toscana per quelli di donna, come già in XLIVb 12. È la donna dell’amico, custode di più eletto sentire (ma il nome, come quello di Pinella del son. precedente, e come forse quello della Lisetta di Dante, è indicazione di stile ‘comico’, e tradisce probabilmente l’aspirazione ad agi borghesi). 13. soave spirito: soavità, “finezza di sentimento” (Contini); ossia se è donna di sentimenti delicati. Per “soave spirito” cfr. XXVIII 10 e nota (dunque ‘spirito d’amore’), per il costrutto VIII 13, XXXVI 2, per la cadenza XXVI 3. 14. novo: recente; o piuttosto che ha fatto di te “gente nova”. – spesso ti ripiglia: non fa che riprenderti, rimproverarti; non ti dà pace.
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XLVI (a) In un boschetto trova’ pasturella più che la stella - bella, al mi’ parere.
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Cavelli avea biondetti e ricciutelli, e gli occhi pien’ d’amor, cera rosata; 1. Incipit tradizionale, in lingua d’‘oil’ come in lingua d’‘oc’ (verbo e complemento oggetto formano una locuzione obbligata). La formula è piuttosto quella di Rivière, V 2-3 e XIII 4-5: “deleiz un bouxon trovai Pastorelle...”; ma cfr. ancora, per la ‘combinatio’ iniziale, Bartsch, III 1, 1-2 (Jehan de Braine o Hues de SaintQuentin): “Par desous l’ombre d’un bois Trovai pastoure a mon chois”, nonché II 27 (Rivière LI secondo altro testo), 1-3: “En une praelle Trovai l’autrier Une pastourelle”. È palese imitazione del nostro l’incipit “Vidi una foresetta in un boschetto” citato per l’intonazione di una lauda nel cod. Chigiano L.VII.266, c. 250v) (Tanturli). I due sostantivi sono ‘unici’. 2. Cfr. ad es. Bartsch, III 32, 4 (Andriu Contredis): “Deus, tant belle n’esgardai”; e per la formula, I 68, 4 (Moniot de Paris): “plus blanche que laine”. – la stella: collettivo, per ‘le stelle’ (l’identico paragone, ben diffuso, e cfr. ad es. Guinizelli, Io voglio. del ver, 3, risuona in Inf., II 55), come in Donna pietosa di Dante, 50 (“le stelle” nella prosa); e cfr. 13, 23. – al mi’ parere: intercalare anch’esso tipico delle pastorelle e d’altri incontri (e cfr. “secondo il mio parvente” di Dante, Lo meo servente core, 10, dove viceversa si tratta di ‘lontananza’). 3. Cavelli (u): francesismo formale. Con immediata ripresa rimica dai vv. precedenti. – biondetti (u): con ricciutelli (u), complem. predicat. dell’oggetto. Anche per il diminutivo, è il “chief blondel” di Rivière, LVII 2, meglio “blondet” (con tutta la frase: “ele avoit chief blondet”) di Bartsch, III 35, 5. Ma anche l’altro attributo trova conferma in una romanza di Bartsch, I 29, 16-17: “chief blondet, Menuement recercelé”. 4. occhi pien’ d’amor: innesto guinizelliano (Vedut’ho, 6: “occhi lucenti, gai e pien’ d’amore”). – cera rosata: per cera (gallicismo) ‘volto’, cfr. I 23; con rosata (u) ‘rosea’ (cfr. Re Giovanni, Donna, audite como, 60, “bello viso rosato”, e qui I 18) corrisponde al “vis vermillet” di Rivière, XVIII 13 (che ha al v. sg. “boche qui rouzoie”), LXVI 19, e a “la color fresche et vermeille” di LVII 4 (segue “de roses fet un chapel”); ma cfr. “la color rosine” di XLVI 14, la “coulor rosee” di Bartsch, III 40, 28, e più distesa-
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con sua verghetta pasturav’ agnelli; [di]scalza, di rugiada era bagnata; cantava come fosse ‘namorata: er’ adornata - di tutto piacere.
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D’amor la saluta’ imantenente mente Rivière, LXV 13-15: “(truis) pastore colorie Assés plus que n’estoie mie La rose qu’ist dou rosier”. 5. pasturav’ agnelli: variante dei frequenti “sos anhels guardan” (Audiau, VIII 6, IX 9), “aigniax gardoit” (Rivière, LIX 4), “aignaux menot” (Bartsch, II 70, 2). Nell’ultimo esempio (v. 12) la pastorella “en sa main un baston tenoit”. Anche qui tre ‘unici’ in un verso. 6. discalza (u, come scalza, se s’accogliesse la congettura già antica [e] scalza): “nus pies et deslaciee” (Bartsch, II 102, 6: caratteristico della pastorella è d’essere “desliee”, “desafublee”, insomma “discinta”, fino a Poliziano, Stanze, I 19, 7, con entrambi gli attributi; e del cavaliere di prometterle di rivestirla da signora; salvo in Marcabru, L’autrier, jost’una sebissa, 5-7, dov’è vestita di tutto punto, “cap’ e gonel’ e pelissa, Vest e camiza treslissa, Sotlars e caussas de lana”. – di rugiada era bagnata: pennellata di Guido (rugiada ‘unico’); ma con memoria di Arianna abbandonata (cfr. 12) dell’Ars amatoria ovidiana, I 527-30: “tunica velata recincta, Nuda pedem, croceas inreligata comas... teneras imbre rigante genas” (Caridi)? Così Ilia negli Amores, III 6, 50, “errabat nudo per loca sola pede”. Sono tali suggestioni che han fatto parlare il Foscolo di “amor greco e catulliano”? 7. II canto, e il canto d’amore (lieto o triste: “et chantoit par amor”, Rivière, XL 7; “chantant De joli cuer amerous: Se j’avoie ameit un jor...”, ivi, XXXVII 7 sgg.), è spesso quello che rivela la pastorella al cavaliere. Il verso risuona in Purg., XXIX 1, “Cantando come donna innamorata” (Branca, ma già da tempo i commentatori danteschi). Anche (in)namorata è ‘unico’. 8. Cfr. IX 16 (di tutto piacere vale ‘d’ogni bellezza’, e riecheggia in Vita Nuova XXVI 3, “sì gentile e sì piena di tutti li piaceri” [Caridi]; per la funzione superlativante di tutto, ogni ecc. cfr. XXXVIIb 1-2; per piacere cfr. II 6). 9. D’amor: con saluto d’amore (ossia ‘amoroso’, secondo le tipiche formule analitiche di Guido [Marti]); con parole d’approccio e di corteggiamento. Nelle pastorelle il saluto coincide molte volte con l’esplicita richiesta d’amore (cfr. 10); e accanto ai vari “gentement”, “cortoisement la saluai” si legge anche (Rivière, XII 13) un “je la saluai per dousor”. – imantenente: senza indugio, ap-
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e domandai s’avesse compagnia; ed ella mi rispose dolzemente che sola sola per lo bosco gia, e disse: « Sacci, quando l’augel pia, allor disïa - ‘l me’ cor drudo avere » .
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Po’ che mi disse di sua condizione e per lo bosco augelli audìo cantare, pena vistala (indizio di pronta seduzione, secondo la tecnica sbrigativa del genere). 10. domandai: probabilmente transitivo, ossia parallelo a saluta’ (sottintendi dunque la). – s’avesse: ossia, in caso contrario, se le mancasse, se volesse. Cfr. Rivière, LVII 5 sgg.: “Je la saluai, la bele...: Bele avez vous point d’ami...? Tantost respont en riant: Nenil voir, chevalier sire, Mes g’en aloie un querant”. L’approccio e la richiesta d’amore sono infatti normalmente giustificati così: “Touse, t’amour requier; N’as compagnon ni jou compaigne” (Rivière, LXVIII 14-15). 11. dolzemente: gallicismo formale; a eco di 9 imantenente. E cfr. XXXª 5-6 (dolzemente è avverbio che accompagna facilmente i ‘sermones’ delle pastorelle: cfr. in particolare Bartsch, III 50, di Colins Pansace de Cambrai, 23: “elle respont par dousour”). 12. sola sola: tutta sola (“note sole”, Bartsch, III 45, 15), con formula iterativa ancor viva. – gia: cfr. per la forma XXXVIlb 12. Un’eco anche in questo caso nella “foresta spessa e viva” del Purgatorio dantesco, XXVIII 40 (e 41): “una donna soletta che si gia Cantando...”? 13. Sacci: sappi (meridionalismo, ovvero gallicismo, e comunque arcaismo: cfr. le parole seguenti). La rivelazione è, s’è detto, il grimaldello dell’avventura. – l’augel: cfr. I 10. Anche qui, come al v. 2, il singolare per il plurale. E cfr. v. 16. – pia (u): pigola, cinguetta, canta (cfr. v. 16). Riecheggia Bonagiunta, Avegna che partensa, 46, “come l’augel che pia” (e segue “lo me’ cor...”) (Contini). Per il significato del canto degli uccelli cfr. I 10-13. 14. disia: cfr. XX 13. – ’l me’ cor: soggetto di disia: fuori della caratteristica rappresentazione drammatica, perifrasi affettiva per ‘io’ (cfr. XIV 2, 4). – drudo: partner, amante (prov. ‘amic’: la pastorella di Guiraut Riquier, Gaya pastorella, 18-19, “dis que queria Amic de bon aire”; per contro Rivière, XIII 15-16, “... li priai K’elle fust ma drue”). Oggetto di avere. 15. Po’ che: tipica iunctura narrativa. – condizione: nel caso specifico ‘solitudine’ (e attesa d’amore). 16. e: nella pastorella non c’è sviluppo drammatico. Si trattava
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fra me stesso diss’ I’: - Or è stagione di questa pasturella gio’ pigliare - . Merzé le chiesi sol che di basciare ed abracciar, - se le fosse ‘n volere.
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Per man mi prese, d’amorosa voglia, in realtà di un consapevole invito d’amore. – per lo bosco: la scena dell’‘andare’ (pascolando) è la stessa del segnale convenuto. – audìo: radice latineggiante (e gallicizzante) e desinenza meridionale: 1ª persona (come al v. 25), non 3ª come vuole Marti: il segnale è per lui (e cfr. vv. sgg.). Per l’intera frase cfr. Johan Esteve, L’autrier, el gay temps de Pascor (Audiau, XV), 2: “Quant auzi ?ls auzelletz chantar”. 17. stagione (u): tempo, ora, momento (cfr. 13-14 “quando... allor...”). 18. gio’ pigliare (con assorbimento della reggenza nel di del complemento dipendente prolettico): letteralmente ‘godere’. 19. Merzé: grazia (regge di basciare ecc.); che mi concedesse. A meno che chiesi non regga se le fosse ’n volere, da cui a sua volta dipenderebbe proletticamente di basciare ecc.; per cui merzé varrebbe ‘di grazia’. – sol che: nient’altro che (cfr. XXXVIIIb 2). 19-20. basciare ed abracciar: normale sineddoche (anche se qui presentata come richiesta minima) del rapporto erotico, e atto (e coppia, qui ‘unicum’ come i suoi componenti) ricorrente nelle pastorelle, dove “le besier et l’acoler” (Rivière, LVII 15, e cfr. Audiau, VIII 61-62, “... embrassan E baizan”, Bartsch, II 70, 18, “entracolant et besant”) possono avere valore assoluto, non richiedono cioè specificazione di oggetto. 21-22. Cfr. Il Fiore, IX 5-6: “... e per la mano Mi prese e disse”. L’altro, illustre riscontro è con Petrarca, CCCII, 5: “Per man mi prese e disse...”. Nelle pastorelle, il gesto (l’iniziativa) è per solito del cavaliere (Rivière, LXI 33-34: “Pris la par la main nue, Mis la sus l’arbe drue”); ma cfr. Gavaudan, L’autre dia, per un mati (Audiau, IV), 11: “E pres me pel ponh...”. 21. d’amorosa voglia: mossa da, in atto di amoroso desiderio, d’amore (amorosa tradizionale attributo di voglia, dal Notaro a Monte, a Maestro Rinuccino, a Dante da Maiano; voglia qui ‘unicum’). Corrisponde a d’amor del v. 9. 21. La pastorella non ammette vie di mezzo: o rifiuto, fino a chiamar soccorso e aizzare i cani, o pieno consenso. L’espressione torna almeno in Rivière, XXXII, e per il cavaliere (23 “je li ai tout mon cuer doneit”; e cfr. ivi, XXIV 27 “mon cuer vos dains”, Bartsch, III 14, 65 “vos aves mon cuer”) e per la fanciulla (56 “je vos
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e disse che donato m’avea ‘l core; menòmmi sott’ una freschetta foglia, là dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore; e tanto vi sent’o gioia e dolzore, che ‘l die d’amore - mi parea vedere.
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doing m’amor entiere”; e cfr. Rivière IV 41-42 “je met tout an vos servixe, Cuer et cors et kan ke j’ai”). Ma si noti anche che sono i “doni” del cavaliere (denaro, gioielli, vesti) che per lo più fanno capitolare la fanciulla (cfr. Bartsch, III 47, 50: “en vos dons m’aves conquis”). 23. foglia (u come freschetta): per il plurale: fogliame, ossia dove il bosco è più folto e accogliente (Johan Esteve cit. [Audiau XV], 86, semplicemente “sotz un arborelh”, in un invito che suona “menan gran solatz, Intrem no·n sotz u. a.”; ma Giles de Vies-Maison, Bartsch, III 10, 35, “sous la treille ki foillie”, e un’altra fanciulla, esplicitamente, Rivière, XX 34-37: “si alons an la bruiere Faire ceu c’amors nous proie. Trop plus bel fait a l’oriere De ces preis selons ces bois”). 24. fior’ d’ogni colore: ossia un prato smaltato di fiori (e valga ancora l’apparizione di Matelda nel Paradiso terrestre, Purg., XXVIII 36, 42), variazione coloristica più che immaginativa (ma cfr. 26) de “l’erbe verdoiant” di, ad es., Rivière, LVII 24. Se ne ricordò il Poliziano nelle ball. I’ mi trovai, fanciulle, 3-5, I’ mi trovai un dì, 5-6. 25. gioia e dolzore. coppia di gallicismi (cfr . ad es. Paganino da Serezana, Contra lo meo volere, 37, Guittone, Se de voi, donna gente, 27; per dolzore, ‘unicum’, cfr. le citazioni ai vv. 9, 11), per dire il piacere d’amore. 26. die: fiorentinismo (per riduzione dell’atona finale) ancor vivo (‘per die’ e sim., ma qui in protonia) per ‘dio’. – mi parea vedere: come si direbbe ‘essere al terzo cielo’, ‘in paradiso’ (la pastorella di Jehan Erars, Bartsch III 19, 46: “lors me sembla que fusse en paradis”); ma con ammicco forse all’ipotesi (cfr. XXVII b 14) della ‘visibilità’ d’Amore (come confermerebbe il riscontro con Cino, Vinta e lassa, 8, “Amor visibil veder mi paria”, sia pure in sogno), teoria e fantasia trovando cioè la loro realtà nell’esaltazione di una ‘aventure’. Sicché l’ultima immagine risponde alla prima. Ma per la funzione di “par che” in Guido cfr. XIV 11, XVII 12, XXXI 17.
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XLVI (b) LAPO FARINATA DEGLI UBERTI A GUIDO CAVALCANTI
Guido, quando dicesti pasturella, vorre’ ch’avessi dett’ un bel pastore: ché si conven, ad om che vogli onore, contar, se pò, verace sua novella.
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Tuttor verghett’avea piacente e bella: per tanto lo tu’ dir non ha fallore, ch’i’ non conosco re né ‘mperadore che non l’avesse agiat’ a camerella.
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1. vorre’: avrei preferito, sarebbe stato meglio; avresti dovuto (cfr. ‘vuolsi dire’ per ‘si deve dire’). – un bel pastore: valga, tra i tanti esempi, quest’attacco, per l’esatto parallelismo con la situazione ‘femminile’: “Pastorel les un boschel trovai seant, Qui por s’amiete... S’aloit dementant” (Bartsch, III, ossia Jehan Erars, 1-4). 3. si conven: corre obbligo. – che vogli onore: che desideri essere stimato; oggi si direbbe: che si rispetti. 4. se: quando, sempre che. – verace: complem. predicativo dell’oggetto novella: veritiera. – novella: racconto, fatto. Cfr. Dante, Poscia ch’Amor, 123 (“sue novelle Sono leggiadre e belle”), e Il Fiore, LXV 14 cit. da Contini a tal proposito. 5. Tuttor: sempre, ossia come nel tuo racconto (cfr. XLVIª 5). – piacente e bella: coppia sinonimica (cfr. II 6) qui applicata alla “verghetta”, con possibile illazione oscena. Per cui le parole stesse di Guido sono argomento per voltare al maschile l’avventura. 6. pertanto: perciò, quindi; in quanto (il Veronese ha intanto) parla di “verghetta” . – fallore: fallo (con terminazione provenzale), errore. 7. re né ’mperadore: coppia tradizionale, per dire il sommo della dignità (“No è om gentil, non re, no imperadore, Se non risponde a sua grandezza l’opra” è nella canzone di dubbia attribuzione a Cino L’alta vertù in morte di Arrigo VII, 67), e quindi della degnità dell’oggetto; ma si ricordi che le pastorelle sono spesso sedotte col complimento che sarebbero meritevoli di ben altro amante, barone, conte, duca ecc. ecc., che non un “pauvre bergier”. 8. Verso indecifrabile secondo la lezione tràdita. La correzione (d’altra mano; e valga come congettura) dell’iniziale di tamerella in c- (lo scambio è dei più frequenti) nell’antico Chigiano, inte-
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Ma dicem’un, che fu tec’al boschetto il giorno che si pasturav’agnelli, che non s’avide se non d’un valletto
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che cavalcava ed era biondetto ed avea li suo’ panni corterelli. però rasetta, se vuo’, tuo motetto.
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grata colla lettura agiat’a, si presterebbe all’interpretazione, già suggerita da Avalle (e Contini, PD, 1807 rinvia qui per camarela del Framm. Papafava, 30), ‘che non l’avesse (ad)agiato (fr. aaisié, messo a suo agio) in camera’, “dignatus cubili” . Un ingrediente di queste situazioni è peraltro la ‘chalemele’, ossia la piva o ‘ciaramella’, su cui sono intonati i canti pastorali; e non ci sarebbe che da intenderla come metafora oscena, e l[i] avesse agiata come ‘avesse adattata applicata a lui’, al bel pastorello. 9. un: un tale, ‘quidam’. – al: nel (quello di cui XLVIª 1). 10. sì: come tu dici (“con sua verghetta”: la cadenza riprende quella di XLVIª 5). Il soggetto di pasturav(a) è indeterminato in attesa d’essere determinato al v. sg. A meno che il testimone (un) non sia il pastore stesso, e che quanto segue non si riferisca a Guido (l’avventura cioè vista dal pastore): nel boschetto non c’erano che quel pastore e Guido in abito di valletto, con tutto quello che ne consegue, e con significato pregnante di teco. 11. valletto: propriamente (cfr. fr. vaslet diminutivo di ‘vassallo’) scudiero o servitore di cavaliere (e cfr. “che cavalcava”): qui, con passaggio analogo a quello di garzone e contrario a quello del lat. puer, nel senso di giovinetto. 12. cavalcava: verbo caratteristico degli inizi di racconto delle pastorelle (cfr. ad es. Rivière, XXXVIII 1, “L’autrier me chevalchoie...”, donde Dante “Cavalcando l’altr’ier...”), qui riferito al valletto oggetto delle attenzioni del cavaliere (se non si accetta l’altra interpretazione proposta al v. 10), con attitudini ben altro che agresti, e non s’esclude con allusione al sollazzo avuto nel boschetto (il cod. Veronese “e cavalcando li parve biondetto”). – biondetto: cfr. XLVIª 3. 13. corterelli: complem. predicativo dell’oggetto panni: l’abito delle pastorelle (come delle ninfe della tradizione classica) è succinto (cfr. XLVIª 6), come qui è ‘succinta’ la parola; qualcuna se lo tira anche sù. La malignità può insinuarsi anche qui. 14. Però: perciò, dunque. – rasetta: rassetta, rimetti a posto, correggi. – se vuo’: formula di cortesia (‘s’il vous plait’), corrisponde a se pò del v. 4. – motetto: mottetto; qui (e cfr. XLIIIb e ancora Debenedetti ivi cít., p. 70) nel senso generico (e con impiego del diminutivo) di ‘detto’ (cfr. 6), ‘poesia’.
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XLVII A FRATE GUITTONE D’AREZZO
Da più a uno face un sollegismo: in maggiore e in minor mezzo si pone, che pruova necessario sanz’arismo; 1. Da più a uno: procedendo dal più all’uno, deducendo da più cose una: ciò “face”, ‘fa’ (cfr. XXIX 10), produce (come si dice due più due, ossia la loro somma, ‘fa’ quattro: assimilando il procedimento deduttivo a quello aritmetico in forza dei termini usati) un sillogismo: con particolare riferimento alla natura, espressamente rilevata, del procedimento (per es. nell’Epitome in libro Priorum analyticorum, versione di Abramo di Balmes, I), “in quo ponuntur res plus quam una”, fondato cioè su più premesse (non una sola, “unde cos’è onne”),. dalle quali “sequitur... res alia ab eis necessario”. Su un procedimento simile dovrebbe fondarsi la dimostrazione dell’esistenza di Dio: con presupposizione di un termine più esteso (cfr. v. 2) di Dio stesso. Casuale la coincidenza del volgarismo sollegismo con quello (sologismo) di ‘solecismo’ com’è, in coppia appunto con “barbarismo”, in Brunetto, Rett., 17, 19: come prova l’ulteriore corruzione silogismo, del resto verificata anche nel Fiore di rettorica di Fra Guidotto (cfr. La prosa del Duecento, a cura di M. Marti e C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, p. 110, dove si dice “della buona favella”). 2. Definita la natura del sillogismo, se ne illustra l’articolazione. Tra il termine più esteso o “maggiore” e il “minore” se ne interpone, se ne dà (cfr. “ponuntur” sopra cit.) uno ‘medio’ (“mezzo”) ugualmente affermabile (cfr. XXVII b 30) dell’uno e dell’altro (nell’esempio classico ‘tutti gli uomini sono mortali: Socrate è uomo, Socrate è dunque mortale’: l’umanità, termine comune alle prime due proposizioni, dette appunto ‘premessa maggiore’ e ‘premessa minore’: la terza, o ‘conclusione’, congiunge i due termini estremi). 3. che pruova necessario: il quale procedimento ha valore probatorio con carattere di necessità (necessario è avverbio, calco sul latino), o anche: riesce (cfr. ‘provar bene’ o ‘male’) necessario (con riproduzione comunque della formula della ferrea consequenzialità del sillogismo secondo la definizione aristotelica: “necessario sequitur”, “ex necessitate accidit”, “necesse est contingere” secondo le varie versioni medievali dagli Analytica priora e dai Topico). – sanz’arismo: non, come normalmente si legge e s’intende, sanza rismo, senza ritmo,. senza rime (risme è appunto ‘rime’ in Iacopone cit.), ma senza ricorso al numero (¢riqmÒj donde ‘aritmetica’ o
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da ciò ti parti forse di ragione?
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Nel profferer, che cade ‘n barbarismo, difetto di saver ti dà cagione; e come far poteresti un sofismo ‘arismetrica’, come poteva apprendersi dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, III I 1), ossia al cumulo delle ‘auctoritates’, come nella dimostrazione di Guittone (“Onni lingua, onni schiatta e onni gente Conferman Lui ..., E non sol nescïenti òmin selvaggi, Ma li più molto e maggi Dei filosofi tutti e altri dotti. E ciò ch’afferman totti, Come Tulio dice, è necessaro”, vv. 26-32). L’esclusione è del resto suggerita da quanto segue alla definizione aristotelica degli Analytica priora: “nullius extrinsecus termini adiumento... ad necessarium efficiendum” (sillogismo imperfetto è quello che “indiget aut unius aut plurium... praeter quae sumpta sunt”). 4. ti parti: ti discosti. – di ragione: ragionevolmente. È ragionevole cioè discostarsi da ciò, dal fondamento del discorso razionale? O forse la frase è affermativa, non interrogativa (Tanturli): probabilmente hai ragione a non sillogizzare (tanto non ne saresti capace). Ma poiché il sillogismo è anche definito, nella citata Epitome, come procedimento “ad declarandum ignotum per notum”, è implicita l’impossibilità di una tale dimostrazione dell’esistenza di Dio (Guittone, canz. cit., vv. 41 sgg.: “Dico anche a ciò che non vísibil cosa Di nulla venne e non fece se stessa...”). 5. Nel profferer: nel solo esprimerti a parole, nel solo uso della parola. – che cade ’n barbarismo: che incorre in, soggetto (in te) a, affetto da barbarismo (si ha quando “verbis aliquid vitiose effertur”, Rhet. ad Herennium, IV 17, ossia è errore di pronuncia o di scrittura). Si riferisce, se non alla patente aretinità di Guittone (il Fiore di rettorica avverte: “Proferansi le parole sì come si conviene a ragione quando si dicono come si conviene secondo lo volgare donde si favella”, ed. cit., p. 109), al suo incorreggibile “plebescere” (De vulg. el., II VI 8). 6. Ti è cagione, la causa è, per te, la mancanza di sapere, l’ignoranza. Nella canzone cit., 16, Guittone aveva del resto dichiarato, a proposito di quanto stava per dire: “non del mio saver dico già farlo”. 7. e come ecc.: se non sai parlare, come ecc.; figùrati se ecc. – far: cfr. “face” del v. 1: costruire, mettere insieme. – poteresti: aretinismo, in funzione ironica. – sofismo: ragionamento falso sotto apparenza di verità, secondo la definizione del Tresor, I 5, 4 riportata da Contini. È il ragionamento a cui dovresti ricorrere per dimostrare ecc.; ma non ne sei capace. Qui, credo, il veleno ultimo dell’argomento.
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per silabate carte, fra Guittone?
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Per te non fu giammai una figura; non fòri ha posto il tuo un argomento; induri quanto più disci; e pon’ cura,
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ché ‘ntes’ ho che compon’ d’insegnamento volume: e fòr principio ha da natura. Fa’ ch’om non rida il tuo proponimento!
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8. per silabate carte: in versi, scrivendo in versi (altra difficoltà: “accordare le sillabe dei versi”, per giunta per una dimostrazione così sottile). Cfr. Lb 2. 9. Per te: da te, per opera tua. – fu: s’ebbe, “prese vita” (Marti); o più semplicemente, costrutto del tipo lat. ‘tibi fuit’. – una figura: una sola figura da cui (cfr. Vita Nuova, XXV 10) si possa estrarre un significato, “in guisa che” le parole “avessero verace intendimento”. 10. La lezione è quella proposta da Contini nell’edizione veronese del ’66 e fondata praticamente sul testo dell’altro ramo della tradizione rispetto all’antico Chigiano L.VIII.305: ‘non sarebbe mai addotta ad argomento il tuo, un argomento come il tuo’. Ossia non si può argomentare così. 11. induri: diventi sempre più duro d’intelletto (il verbo è crudo latinismo scritturale). – disci: impari. Altro latinismo, ironico, per questo “discere” che è un regredire intellettuale, d’uno per giunta che ha sempre fatto professione d’“insegnamento” (cfr. canz. cit., 20: “ed amaestri e reggia La lingua mia in assennando stolti”). – pon’ cura: bada, sta’ attento. 12. ’ntes’ho: ho sentito dire. 12-13. d’insegnamento Volume: un libro, un intero libro (ciò dicono l’inversione – cfr. XLIVª 8 – e l’enjambement), un trattato. Si tenga conto che tutta la seconda parte della dimostrazione della canzone, riguardante la vita eterna, è accolta e sviluppata da Guittone nella seconda metà della Lettera I a Gianni Bentivegna. 13. fòr... da natura: ha principio, fondamento, fuori di natura, ‘absque natura’ (con formulazione guittoniana, Se de voi, donna gente, 16-18: “... co sì novella Pòte a esto mondo dimorar figura Ch’è de sovra natura?”), non dipende da “natural dimostramento”, l’unico concepibile per Guido (cfr. XXVIIb 8: i due costrutti sono equivalenti). È quanto appunto si può dire di Dio, e il soggetto della proposizione è il soggetto implicito di tutta la discussione. 14. om: col solito valore di pronome indefinito. Ma il laico op-
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pone al frate la parola del Salmista, XXIV 3, “Neque irrideant me inimici mei”, XL 12, “non gaudebit inimicus meus super me”, ben presente al Petrarca di CCCLXVI 75. – rida: attivo, come in Dante, Poscia ch’Amor, 43 (“veggendo rider cosa Che lo ’ntelletto cieco non la vede”).
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XLVIII (a) GUIDO CAVALCANTI A GUIDO ORLANDI
Una figura della Donna mi s’adora, Guido, a San Michele in Orto, che, di bella sembianza, onesta e pia, de’ peccatori è gran rifugio e porto.
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E qual con devozion lei s’umilìa, chi più languisce, più n’ha di conforto: li ‘nfermi sana e’ domon’ caccia via 1. figura: immagine dipinta (come nello stesso Trattato d’Amore di Guittone, descrizione appunto di una pittura del dio). – -la Donna mia: la Madonna (‘mia donna’), ‘variante’ di ‘Nostra Donna’ o “la Donna nostra” (come ha XLIXb 8): cfr. Guittone, O benigna, o dolce, o prezïosa, 3, “madre del mio Signore e donna mia” (Pollidori), e al v. 22 “Madonna”. Dante a sua volta alternerà “donna nostra” a “donna mia” (per es. nella serie per il lutto di Beatrice, Voi che portate, 5, Se’ tu colui, 2, Voi donne, 9, e per contro Onde venite voi, 3). 3. di bella sembianza: bella. Costituisce trfcolon (con ‘variatio’) con onesta (manifestazione della virtù come dignità e grazia: cfr. la mia nota a Vita Nuova, XXVI 5, v. 1) e pia (venerabile o pietosa: l’appellativo, ripreso dall’Orlandi al v. 2 è anche, sempre in trìcolon, nel Salve Regina). Cfr., per la serie, l’attacco ciniano “Bella e gentile, amica di pietate”. 4. rifugio e porto: “refugium peccatorum” è una delle ‘laudes’ delle litanie della Vergine: qui in dittologia sinonimica (‘interpretatio’) con “porto” (dunque porto di scampo), secondo un uso autorizzato dalla Scrittura (“firmamentum meum et refugium meum”, “fortitudo mea et refugium meum”, “refugium et virtus” ecc.). Gran vale ‘valido’, ‘efficace’. 5. qual: chi, ossia ‘se uno’ (lat. ‘si quis’). – lei: dativo: ‘a lei’. – s’umilia: “si prostra devoto” (Contini). 6. chi: integra qual del v. 5: colui il quale; ossia quanto. – languisce: è afflitto (nella Scrittura, anche nel senso di essere infermo; e cfr. 9). – di conforto: partitivo dipendente da più. 7-8.Per la serie cfr. il “caeci vident, claudi ambulant, leprosi mundantur” ecc. di Matt., XI 5, Luc., VII 22. 7. sana: risana (e così al v. 9). Cfr. “qui sanat omnes infirmitates tuas” di Ps., CII 3, “sanare infirmos” di Luc., IX 2, e anche per
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e gli occhi orbati fa vedere scorto.
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Sana ‘n publico loco gran langori; con reverenza la gente la ‘nchina; d[i] luminara l’adornan di fòri.
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La voce va per lontane camina, ma dicon ch’è idolatra i Fra’ Minori, per invidia che non è lor vicina
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la proposizione sg. “infirmos curate..., daemones ejicite” di Matt., X 8 (domon’ con labializzazione di e protonica davanti a labiale come in ‘domani’, ‘domandare’: Rohlfs 135). 8. orbati: privi della vista, ciechi. – scorto: chiaro, chiaramente (forma avverbiale da ‘scorgere’). Cfr. Dante, Se’ tu colui, 12, “Ell’ha nel viso la pietà sì scorta”, ossia chiaramente visibile. 9. Cfr. ancora Matt., IV 23 “... sanans omnem languorem et omnem infirmitatem” (da cui anche Iacopone, XCII 91 cit. da Marti). – ’n publico loco: com’era la loggia in questione, adibita a mercato del grano: in pubblico. – langori: con riduzione analoga a quella di liquore in licore. 10. la ’nchina: le fa riverenza, le s’inginocchia davanti, la venera (inchinare attivo come ad es. in Guido delle Colonne, Gioiosamente canto, 60: “così v’adoro como servo e ’nchino”). 11. luminara: luminaria (cfr. matera per materia), lumi, lampade votive o candele, probabilmente accese anche fuori della loggia. 12. la voce: la fama. – per lontane camina: lontano (come Dante, Cavalcando l’altrier, 10, dice “di lontana parte” per ‘di lontano’). Camina (‘strade’: cfr. 19) plurale neutro analogico (come ad es. carra per ‘carri’). 13. idolatra: riduzione da idolàtria (cfr. 11 luminara) per ‘idolatria’. – Fra’ Minori: francescani osservanti. 14. lor vicina: presso di loro, in casa loro, ossia di loro (soggetto: l’immagine venerata). Cfr. Rustico di Filippo, Le mie fanciulle, 8: “s’han del pane, il pozzo è lor vicino” (ossia quello che hanno per bere è il pozzo, nient’altro che acqua).
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XLVIII (b) GUIDO ORLANDI A GUIDO CAVALCANTI
S’avessi detto, amico, di Maria gratïa plena et pia: « Rosa vermiglia se’, piantata in orto » , avresti scritta dritta simigl’a. « Et veritas et via »: del nostro Sire fu magione, e porto
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2. gratïa plena et pia: intesi ovviamente come attributi di Maria. Ma poiché “gratia plena” è la salutazione angelica (Luc., I 28), potrebbe anche trattarsi dell’inizio di quello che Guido avrebbe dovuto dire (ave è compreso in avessi del v. 1). Per pia cfr. XLVIII b 3; ma anche l’attacco della lauda di Guittone “Grazïosa e pia Virgo dolce Maria”, appunto parafrasi del finale del Salve Regina (Pollidori). Gratia è naturalmente trisillabo. 3. Riecheggia, integrandolo dell’abbastanza consueto attributo e di un diverso complemento di luogo, il “quasi plantatio rosae in Jericho” e il “quasi rosa plantata super rivos” di Eccli., XXIV 18, XXXIX 17, alludendo evidentemente alla collocazione (e dunque alla funzione) dell’immagine sacra (ma con interferenza di specificazioni profane del tipo ‘rosa di giardino’, ‘giglio d’orto’). E il paragone s’accosta ai tanti altri dello stesso libro da “quasi oliva speciosa in campis” (XXIV 19) a “quasi cedrus exaltata in Libano” (XXIV 17). 4. dritta: giusta, esatta. – simiglìa: o “similìa” (Contini che cita Guittone, Non sia dottoso, 8, Maestro Torrigiano, Chi non sapesse, 14): similitudíne, termine di paragone (deverbale del tipo ‘caccia’, ‘ricerca’, o diciamo ‘sbadiglio’, con avanzamento d’accento in analogia coi sostantivi in -ìa, come in umilìa del v. 10 e già della proposta). Per dire: se tu credessi a queste cose, apprezzeresti la presenza, 13, di quell’immagine, capiresti che cosa ci sta a fare. O anche: è la fede espressa nella lode che ha valore, non la figura dipinta. 5. Inteso senz’altro come (suggerito) ulteriore riconoscimento dei meriti della Madonna (ma adattandole le parole dette di sé da Cristo “Ego sum via et veritas et vita”, Ioan., XIV 6), epperò tra virgolette come il v. 3, anziché come semplice ammaestramento (meno probabile che et veritas et via sia coordinato a simiglìa). 6. Infatti ecc. – nostro Sire: Nostro Signore, come in XXXIX 13, dov’è peraltro Amore. – magione: casa, dimora, ricettacolo. Con porto (de la nostra salute) illustra in qualche modo “et veritas
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della nostra salute, quella dia che prese Sua contia, [che] l’angelo le porse il suo conforto; e certo son, chi ver’ lei s’umilìa e sua colpa grandìa, che sano e salvo il fa, vivo di morto.
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Ahi, qual conorto - ti darò? che plori con Deo li tuo’ fallori, et via” (e risponde a rifugio e porto di XLVIIIª 4). – porto: ossia il luogo dove approdò, tra gli uomini, e venne a compimento (cfr. ‘venire a buon porto’). 7. salute: ‘salus’, salvezza. – dia: dì (con forma siciliana), giorno. 8. contìa: contezza (da ‘conto’, ossia cognito, con terminazione anche qui sicilianeggiante, peraltro frequente in rima): con Sua ‘di Lui’ (genitivo oggettivo) e prese, esprime il ‘concepimento’. Cfr. il “virum non cognosco” di Luc., I 34. 9. che: come al v. precedente (ma a un grado inferiore di subordinazione): quando. – conforto: la ‘salutatio’ angelica include le parole “Ne timeas, Maria, invenisti enim gratiam apud Deum”. 10. certo son (... che, v. 12): formula asseverativa, analoga a “per certo” e simili. Si ritrova ad es. in Dante, Non canoscendo, amico, 9, o, nella variante “(E) certo i’ credo”, in Voi che savete, 17. – chi: prolettico: ‘si quis’, se uno. – ver’: di fronte a. 11. grandìa: da ‘grandiare’ per ‘grandire’ (cfr. il fr. ‘grandir’), ingrandire: non minimizza, riconoscendone la gravità. 12. sano e salvo: secondo l’analogia evangelica tra guarigione e remissione dei peccati (cfr. Matt., IX 6: “Ut autem sciatis quia Filius hominis habet potestatem in terra dimittendi peccata, tunc ait paralytico: Surge...”). E la Scrittura ha sia “sanum feci” (Ioan., VII 23) sia “salvum facere” (passim). – vivo di morto sottintendi “fa” della proposizione precedente: lo fa, di morto che era, vivo (secondo l’affermazione di Cristo a Marta, Ioan., XI 25, “etiamsi mortuus fuerit, vivet”. È la continuazione della serie di Matt., XI 5 cit. a XLVIIIª 7-8: “... mortui resurgunt”. Ma cfr. anche, per la formula; XXXII 1). 13. conorto: prov. ‘conort’: esortazione. – plori: latinismo scritturale: tu pianga (che ha valore finale). 14. con: di fronte a, rivolgendoti a (cfr. ‘parlare con’). – fallori: falli, con terminazione provenzale, sul modello di dolzore (XLVIª 25).
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e non l’altrui: le tue parti diclina, e prendine dottrina dal publican che dolse i suo’ dolori.
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Li Fra’ Minori - sanno la divina [I]scrittura latina, e de la fede son difenditori li bon’ Predicatori: lor pridicanza è nostra medicina.
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15. l’altrui: quello degli altri (si riferisce a XLVIIIª 13-14). – le tue parti: la tua parte, quanto spetta a te (di colpa). Nel libro di Giobbe torna più volte l’espressione “pars hominis impii” (XX 29, XXIV 18, XXVII 13) nel senso di ciò che tocca (in eredità) all’empio. – diclina: abbassa, ossia riconosci come ‘abiectae’, umilia? ovvero respingi, rigetta da te (declinare nella Scrittura significa tra l’altro distoglier(si), allontanar(si): per es. Ps., XXXVI 27: “Declina a malo”). 16. -ne: di ciò, in ciò. – dottrina: insegnamento, esempio. 17. dal publican: si riferisce alla parabola del pubblicano e del fariseo oranti al Tempio (Luc., XVIII 10-14), dove il “Pharisaeus stans”, ritto in piedi, potrebbe aiutare a spiegare “diclina”. – dolse: costruito transitivamente con l’accusativo dell’oggetto interno, ossia in ‘adnominatio’ con “dolori” (qui: ciò di cui si dolse, si dichiarò pentito; le sue colpe). Corrisponde a 13 plori. 19. latina: apparentemente pleonastico (la vulgata della sacra Scrittura è appunto latina), sta forse ad esaltazione della dottrina dei Francescani, che leggono quel latino, e a giustificazione dei vv. 2 e 5. 21. bon’: valenti. – Predicatori: i frati ‘ordinis praedicatorum’, i Domenicani, non nominati dal Cavalcanti, ma coinvolti evidentemente nella diatriba, come risulta dal Villani, e qui introdotti in chiasmo coi concorrenti dell’altro ordine. 22. predicanza: predicazione, con sostituzione di suffisso analoga a quella di consideranza, dilettanza ecc. In ‘adnominatio’ con Predicatori così come allitterano fede e difenditori al v. 20. – medicina: risponde a XLVIIIª 7, 9. E cfr. nota al v.12.
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XLIX (a) GUIDO CAVALCANTI A GUIDO ORLANDI
La bella donna dove Amor si mostra, ch’è tanto di valor pieno ed adorno, tragge lo cor della persona vostra: e’ prende vita in far co·llei soggiorno,
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Perc’ha s’ dolce guardia la sua chiostra, 1. La bella donna: l’attacco (incluso tanto del v. 2) riecheggia in Petrarca, XCI 1 (“La bella donna che cotanto amavi”): anche qui per donna cara altrui. Ma è anche un incipit ciniano. – dove Amor si mostra: in cui Amore è riconoscibile, visibile, s’incarna (Dante, Io mi senti’svegliar, 14, arriverà all’identificazione di Amore e madonna); o semplicemente: appare (cfr. v. 2). 2. Cfr. XXXI 8. La relativa, con funzione di complemento predicativo del soggetto (equivalente a: dove si mostra che Amore ecc., ossia nella quale Amore dispiega tutta la sua potenza), è forse in relazione non tanto al v. 3 (semmai al v. 4), ma, con sfumatura concessiva (pur in così ampia dimostrazione d’amore), ai vv. 5 sgg. 3. tragge: trae (cfr. XXVIIª 57): portandolo a star con sé, facendolo suo. – !a persona vostra: non si tratta della solita perifrasi (come in XXXI 14, XXXV 21), ma si riferisce proprio alla scorporazione del cuore. 4. e’: esso, il cuore. – prende vita: rivive, di morto che era, per effetto d’amore, finché albergava in lui; ha la sua vera vita. – in far... soggiorno: a star presso di lei (la stessa perifrasi nell’incipit di Rustico “Amor fa nel mio cor fermo soggiorno”; co·llei ‘con lei’ con assimilazione in fonosintassi, come in i·llei ‘in lei’ al v. 10). Si tratta, come si vede, di una serie di luoghi comuni: Amore in lei, pieno di valore, cuore asportato e che in lei rivive. 5. Perc(hé): il nesso causale sembrerebbe giustificabile solo con quanto segue (la seconda quartina illustra la virtù di lei), per cui si propone punto fermo dopo il v. 4; ma potrebbe anche riferirsi, secondo un’altra interpretazione (per cui vedi sotto), al v. preced., a giustificazione del soggiorno del cuore presso di lei. – ha sì dolce guardia: è così dolcemente (amorosamente) guardata, custodita difesa (dal vostro cuore? da Amore? ma cfr. XLIXb 5-6, e l’interpretazione alternativa di quel sonetto perché “dolce” può sì essere un requisito della femminilità, ma [Tanturli] una guardia dolce è una guardia senza nerbo, se non addirittura invitante e cfr., oltre che “crudel ritorno” del v. 8 “Dolze-Riguardo” – “Douz
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Guido Cavalcanti - Rime
che ‘l sente in India ciascun lunicorno, e la vertude l’arma a fera giostra; vizio pos’ dir no I fa crudel ritorno,
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ch’ell’ è per certo di sì gran valenza, che già non manca i·llei cosa da bene, Regart” – di Fiore, XIX 1, CCI 6, e la dolcezza “più... che mele” dello Schifo quando consente l’accesso all’Amante, Fiore, XVI 1, 3, nell’episodio qui e lì a vario titolo presente). – la sua chiostra: la cinta di difesa (Il Fiore, XXV 14, ha “chiusura”). E il “virginal chiostro” di Petrarca, CCCLXVI 78 (e già “virginitatis claustra” si legge nell’Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne, 1. III); la sua verginità. 6. ’l sente: percepisce ciò, ne percepisce il profumo; ovvero lo sa per esperienza (e quindi ne è verifica: non è detto se positiva o negativa). Si riferisce alla leggenda, da Plinio in qua, del selvaggio unicorno (lunicorno per concrezione dell’articolo), attratto dall’odore del grembo verginale dove va a riposare il capo, e solo così preda dei cacciatori (e quindi riprova della purezza della fanciulla). In India può aver semplice valore di riferimento geografico (per dire che gli unicorni indiani sanno la sua virtù). 7. l’arma: coordinato ad ha del v. 5: è sua armatura, sua difesa; ovvero: la costringe, spinge (ad armarsi). – a fera giostra: non contro l’unicorno, ma contro l’assalto della passione (“giostra” è metafora coerente con “armare”); se “fera” non significa feroce resistenza alla virtù stessa (uno dei due rami della tradizione legge la vertù de l’alma ha ecc.). 8. pos’ dir: posso dire, affermare, non v’è dubbio (nella versione passiva “potest dici”, è tipica formula assertiva della trattatistica – cfr. ad es. il De felicitate di Iacopo da Pistoia cit., ll. 59-60, 120 – applicata in poesia anche da Dante, Amor che ne la mente, 48, 51; ma qui, oltre naturalmente a XXV 1, cfr. Monte, Segnore Dio, 9-10, in lode di madonna: “Tutto ’l piacer del mondo posso dire Ch’a sé lo tiene...”). Si sottintenda un che (vizio è prolettico; per l’apocope di posso davanti a dire cfr. A. Roncaglia in SFI, VIII [1950], pp. 302-5). – no i fa crudel ritorno: non vi (i è la forma atona di ivi) trova luogo, per quanto tenti d’aggredirla, imperversi (crudel complem. predicat. dell’oggetto invece d’attributo del soggetto); ovvero: vi accede (e cfr. v. 4) senza incrudelire, senza sforzo. 9. per certo: cfr. VII 8 XLV 12 (e qui 8). – valenza: risponde a valor del v. 2. 10. cosa da bene: cosa buona, bene, come in III 14. Ma tutto il
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Guido Cavalcanti - Rime
ma’ che Natura la creò mortale.
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Poi mostra che ‘n ciò mise provedenza: ch’al vostro intendimento si convene far, per conoscer, quel ch’a lu’ sia tale.
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verso ricorda XLIVb 8. 11. ma’ che: salvo che, se non che (provenzalismo). 12. Poi: altro nesso non limpido (e mostra ripete mostra del v. 1): alla fine, infine? mise provedenza: usò provvidenza, fu provvida (con tipica perifrasi). Si trattò dunque d’un atto provvidenziale della Natura. 13. intendimento: intelletto (non è da escludere, con Marti, la lezione nostro, con generale riferimento all’intelligenza umana; ovvero al vostro i. è prolettico di a lu’ del v. 14: ciò, l’averla creata mortale, è provvidenziale, in quanto ha creato qualcosa di simile, e conoscibile, al vostro intelletto). – si convene: è forza, è necessario; non può cioè non. 14. far: con valore vicario: ‘intendere’ (regge quel), o secondo l’altra interpretazione, ‘creare’ (cfr. 11), con quel retto da conoscer (non seguito da virgola): che è quello che si conviene al vostro intelletto che si crei. – per conoscer: nella prima ipotesi: per averne conoscenza. – quel ecc.: (solo) ciò che è simile ad esso (secondo la dottrina che non si può conoscere che ciò che si è): mortale, finito come lui (il che equivale, secondo Favati, Inchiesta, p. 103, a tacciare d’intellettualmente “morto” l’Orlandi; sicché la conclusione del sonetto anticiperebbe e insomma costituirebbe il modello della battuta di Guido nella novella VI 9 del Decameron). Altrimenti (cfr. IV 12-14), la conoscenza non è possibile.
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XLIX (b) RISPOSTA DI GUIDO ORLANDI A GUIDO CAVALCANTI
A suon di trombe, anzi che di corno, vorria di fin’ amor far una mostra d’armati cavalier, di pasqua un giorno, e navicare senza tiro d’ostra
4
ver’ la Gioiosa Garda, girle intorno a sua difensa, non cherendo giostra 1. A suon di trombe ecc.: correzione (a gara: anzi che vale ‘piuttosto che’) del cit. v. 10 del son. XXXII del Fiore. 2. vorria: cfr. XXXVIIIª 1. – di: “per” (Contini); ovvero specificativo di mostra. Jin’amor: è, nella propria formulazione provenzale (come indica anche l’ortografia, per cui amor è femminile), il perfetto amore cortese. – mostra: rassegna, rivista, sfilata (il sintagma far... mostra ritorna in Inf., XXII 2). 3. d’armati cavalier: ricordo di III 2. – pasqua: nel senso generico di festa religiosa (dipende da un giorno). Cfr. le espressioni ‘pasqua di Natale’, ‘pasqua d’Epifania’ (ancor oggi “pasquetta”) e perfino ‘di Quaresima’, nonché il sempre vivo ‘pasqua di Risurrezione’ che è il senso proprio e primo del termine. 4. navicare: con passaggio (analogico) da sonora a sorda. Cfr., anche per il complemento seguente, ancora XXXVIIIª 3-4. – tiro: soffio (cfr. ‘tirar vento’). – ostra: ostro (con alterazione della desinenza per la rima), austro, vento del sud, apportatore di tempesta. Cfr. Monte, Lo nomo ca per contradio si mostra, 9, “turba [sì] co’ mar a l’ostra”. 5. Gioiosa Garda (con calco formale del fr. ‘garde’, anche per ragioni di rima: cfr. Il Fiore, XXIII 1): così ribattezzò Lancillotto la rocca della “Dolorosa Guardia” dopo averne sconfitto il feroce castellano (cfr. La Tavola ritonda..., per cura... di F. L. Polidori, Bologna, Commiss. per i testi di lingua, 1864, pp. 22-26). Qui simboleggia il femminil “chiostro” di XLIXª 5. Si noti la rima interna con XLIXª 5 (nel caso sia Cavalcanti a rispondere, avrebbe anche riaffermato i diritti della lingua nostra). 5-6.girle intorno A sua difensa: il castello espugnato da Lancillotto, opera di stregoneria, aveva dodici gironi, ed era difeso, a mo’ di ronda, da tre schiere di 100, 200, 400 cavalieri. Difensa, che conserva il nesso -ns- del participio latino, è probabilmente un altro francesismo, come conferma anche Il Fiore, XXX 9.
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Guido Cavalcanti - Rime
a te, che se’ di gentilezza adorno, dicendo il ver: per ch’io la Donna nostra
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di su ne prego con gran reverenza per quella di cui spesso mi sovene, ch’a lo su’ sire sempre stea leale,
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servando in sé l’onor, come s’avene. Viva con Deo che ne sostene ed ale, né mai da Lui non faccia dipartenza.
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6-7.non cherendo giostra A te: altro ricordo dello scontro tra Lancillotto e il difensore del castello: senza sfidare te a duello, non considerandoti come nemico (per cherere cfr. XXVIIb 5). Tutti uniti insomma nel celebrare la virtù di madonna. 7. che se’ ecc.: cfr. XLIXª 2 (e IX 16). Ciò che farebbe ancora pensare che il sonetto di Cavalcanti sia la risposta (altro che “gentilezza”! Non c’è nulla da difendere). 8. dicendo il ver: probabilmente semplice intercalare: a dire il vero (Il Fiore, XXXIV 12: “a ver vo dire”). O participio presente riferito a “te”: che dici il vero circa la virtù di lei. – per ch(e): per cui. 8-9.la Donna nostra Di su: la Madonna (cfr. XLVIIIª 1) che sta in cielo. 9. ne: di ciò (prolettico di 11-12). 10. quella: l’amata. – di cui... mi sovene: che ho a mente. 11. sire: l’amante. O Amore. – stea: è la forma del fiorentino dugentesco, analogica su sia (fino a completa evoluzione in stia: cfr. Castellani, NFT, pp. 72-73, Rohlfs 556). 12. servando: serbando intatto (qui onor è nel senso ristretto di ‘onestà’, la “vertude” di XLIXª 7). –s’avene: si conviene, nel senso di ‘si deve’. 13. Viva: augurativo: viva essa. – con Deo: secondo la volontà di Dio (cfr. 14). – sostene ed ale: sostenta, tiene in vita, e nutre (lat. ALIT). La stessa coppia nella ballata dell’Orlandi, Lo gran piacer ch’i’ porto immaginato, 33 (Pollidori). 14. faccia dipartenza: si allontani, si separi.
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L (a) GUIDO ORLANDI A GUIDO CAVALCANTI
Per troppa sottiglianza il fil si rompe e ‘l grosso ferma l’arcone al tenèro, e se la sguarda non dirizz’ al vero, in te forse t’avèn, che[c]ché ripompe;
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e qual non pon ben diritto lo son pe’ 1. sottiglianza: sottigliezza (con terminazione provenzaleggiante). – il fil: evidentemente la corda della balestra, da cui è tolto l’esempio dei vv. 1-4 (e cfr. 12), che fornirà materia all’attacco di un altro sonetto dell’Orlandi, “Poi che traesti infino al ferro l’arco”, a Dante che se ne ricorderà in Purg., XXV 18. 2. ’l grosso: sottintendi “filo”. – ferma l’arcone al tenèro: blocca, ossia non fa distendere dopo che è stato teso (cfr. XXXVIIIb 9), l’arco (l’accrescitivo per parodia dei diminutivi cavalcantiani?), non liberandosi (e quindi non liberandolo) dal tenèro, dall’impugnatura della balestra (in Conv., IV XXIV 3, “lo tenere dell’arco” ne indica il colmo, dove appunto s’impugna) col dente (la ‘noce’) che, abbassato, fa scattare la corda. Si tratta dunque dell’esempio di due opposti eccessi (entrambi eventualmente riferibili a XXVIIb) tra i quali Cavalcanti non avrebbe saputo tenere il giusto mezzo. Anche Dante, nel XXV della Vita Nuova, parla, proprio d’intesa con lui, di certi poeti “grossi” che non sanno spiegare le proprie immagini. 3. la sguarda: la mira (deverbale del tipo appunto di ‘mira’). – dirizz’: 2ª persona, con valore indefinito. Cfr. 5 qual. – al vero: in cui consiste il segno, il bersaglio. Il balestrare è cioè metafora del mirare al vero. 4. in te... t’avèn: “dipende... da te” (Avalle). Ovvero in te si contrappone a “al vero”: dunque ‘è rivolta verso di te’ (la mira), oppure ‘si ritorce contro di te’ (la freccia). – che[c]ché ripompe: “checché tu faccia per ricaricarla” (Favati), “per quanto tu faccia pompa, ti vanti” (Avalle, che suggerisce l’emendamento tu pompe), ma sempre secondo interpretazioni del verbo che mi paiono anacronistiche. II sospetto è che sia qui mascherata una rima imperfetta (tipo ‘ricompre’), che giustificherebbe l’accusa di “false rime” di Lb 8 meglio che la rima divisa son pe’ del v. sg. 5. lo son pe’: il suo piede, secondo congettura felicemente il Favati (i mss. sompe, sumpe), con francesismo per la forma del possessivo (e in evidente allitterazione con pon ben che precede).
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Guido Cavalcanti - Rime
traballa spesso, non loquendo intero;
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ch’amor sincero - non piange né ride (in ciò conduce spesso omo o fema): per segnoraggio prende e divide.
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E tu ‘feristi e no.lli par la sema? Ovidio leggi: più di te ne vide. La metafora è ora tratta dalla deambulazione, ma con analoga funzione (cfr. non... diritto con 3 non dirizz’). 6. non loquendo intero: allusione al ‘carmen interruptum’ di XI a cui sembrerebbe riferirsi, a norma della didascalia del Vaticano, il v. sg.? Il bello è che altrettanto si può dire del componimento presente. Dunque non loquendo intero (il latinismo ritorna nella risposta di Dante da Maiano, Di ciò che stato sei dimandatore, 9, al primo sonetto della Vita Nuova) può valere: dato che il tuo parlare resta a mezzo, ma anche: per dirla in breve (e passando alla sirima). L’espressione è ripresa da Dante, Le dolci rime, 43 (“e, dopo ’l falso, parla non intero”). 7. ch(é): díchiarativo (riferito ai vv. 3-4 e 5-6, ossia al non mirare al vero e al non por dritto il piede). –amor sincero: il vero amore. Cfr. dello stesso Orlandi Ragionando d’amor, 12. È curioso come la traduzione di questo concetto in Petrarca, XXVIII 114 (“... Amor per cui si ride e piagne”) troverà in Gozzano un’eco più aderente alla sua prima formulazione (“il vero amor per cui...” ecc., Convito, 14). 8. in ciò: in pianto o in riso (cfr., s’è detto, XXVIIb 46). – conduce: induce (cfr. XXVIIb 46 move). Amore non piange né ride, ma è causa di pianto e di riso. – fema: femmina (fr. ant. feme). 9. per segnoraggio (prov. ‘senhoratge’): come signore degli amanti, prepotentemente. – prende: innamora; ovvero comprende, unisce (cfr. Terino da Castelfiorentino, Naturalmente chere, 11: “insieme due coraggi comprendendo”). 10. E tu ecc.: e tu dici che ecc.; o meglio: lo dici ferito. – ’l: Amore. Il riferimento sembra a passi analoghi a quello di XI 8 (e XII 9-10), ossia IX 37-39, XXXI 24. – li: vi (è la forma atona dell’avv. lì), ovvero in lui. – par: appare visibile, si vede. – sema: cicatrice, secondo la proposta testuale e l’interpretazione dello stesso Favati, Inchiesta, p. 84 n. 13 (a p. 85). Per poter parlare di Amore ferito, bisogna che se ne vedano i segni. 11. Ovidio: autorità in fatto d’amore, in ispecie per l’Ars amatoria. – ne vide: ne capi (‘vidit’).
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Guido Cavalcanti - Rime
Dal mio balestro guerda ed aggi tema.
12
12. -l mio balestro: la balestra della mia critica. – guarda: guàrdati. – tema: timore.
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L (b) RISPOSTA DI GUIDO CAVALCANTI A GUIDO ORLANDI
Di vil matera mi conven parlare [e] perder rime, silabe e sonetto, s’ ch’a me ste[sso] giuro ed imprometto a tal voler per modo legge dare.
4
Perché sacciate balestra legare e coglier con isquadra archile in tetto e certe fiate aggiate Ovidio letto e trar quadrelli e false rime usare,
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1. vil matera: soggetto frivolo (per matera cfr. XXVIIb 15, XLVIIIª 11). – mi conven: mi tocca, sono costretto a. 2. perder: buttar via, sprecare. Cfr. il proverbio ‘perdere il ranno e il sapone’, lat. ‘oleum et operam perdere’. – rime ecc.: la serie dei tecnicismi può in parte spiegare il ‘naturalismo’ di XVIII 1-4. 3. giuro ed imprometto: coppia sinonimica, possibile residuo di una formula giuridica. 4. voler: “intenzione” (Contini): di scrivere un sonetto (com’è stata, con l’esito che si sa, la vostra). – per modo: secondo misura, rispettando le proporzioni; o anche: in proporzione del difetto? Ma con l’ipotesi di un “primo” sonetto di Cavalcanti, il difetto sarà dell’Orlandi? – legge: norma, regola. 5. Perché: benché. – legare: con allusione ironica al “filo” di cui a Lª 1-2. Come se tutto quello che sapeva farsene l’Orlandi consistesse non nell’armare ma legare la balestra. 6. coglier: colpire. – con isquadra: “ad angolo retto” (Contini), come misurato con la squadra, non di sbieco; ossia centrando il bersaglio a regola d’arte. – arcale: secondo l’ultima congettura di Contini (ed. Tallone del ’68: l’unico manoscritto, Vaticano lat. 3214, ha archile), trave di capriata d’una tettoia. – in tetto: stando sul tetto, dunque non da lontano (bella abilità!). Ma forse non si tratta di bersaglio, e Cavalcanti ha volutamente frainteso arcone della proposta come termine architettonico, attribuendo all’Orlandi una qualche abilità muraria o geometrica (coglier varrebbe prendere le misure a?), di cui non si vedrebbe traccia nella costruzione del sonetto. 7. certe fiate: talvolta. – aggiate Ovidio letto: replica a Lª 11. 8. trar... usare: dipendono (in figura di chiasmo) ancora da
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Guido Cavalcanti - Rime
non pò venire per la vostra mente là dove insegna Amor, sottile e piano, di sua manera dire e di su’ stato.
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Già non è cosa che si porti in mano: qual che voi siate, egli è d’un’altra gente: sol al parlar si vede chi v’è stato.
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Già non vi toccò lo sonetto primo: Amore ha fabricato ciò ch’io limo.
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sacciate del v. 5. Per trar ‘tirare’, ‘scagliare’ cfr. IX 37, XXXª 24; quadrelli sono frecce a punta a sezione quadrangolare. Per le “false rime”, vedi nota a Lª 4. 9. venire per: passare per, ossia penetrare in; venirvi in mente, insomma, esservi concepibile (ma già Di Benedetto, e poi Favati, proponevano di leggere pur, con mente soggetto di venire). 10. là dove ecc.: se si mantiene per, proposizione soggetto di pò venire (come in Inf., XII 94 “e che ne mostri là dove si guada” oggetto): l’insegnamento o diciamo la suggestione di linguaggio immaginoso che viene da Amore. – sottile e piano: parlando sottile (cfr. Dante, Oltre la spera, 10), come solo pochi possono intendere, e a bassa voce (difficile vedervi, come vi s’è visto, un tratto di poetica che associ ‘sottigliezza’ concettuale a ‘pianezza’, chiarezza di dettato; e l’accostamento più plausibile sembra, oltre che al Dante cit., a XXXVIIb 7). 11. manera: modo d’essere, o d’apparire (appunto ridente o piangente). È l’amore stesso che suggerisce siffatte immagini. – dire: pende da insegna del v. 10, regge di sua manera e di su’ stato. 12. Già: rafforzativo, al solito, della negazione, come anche al v. 15. – in mano: contrapposto a là dove ecc. del v. 10. Amore è una realtà puramente mentale, non è sostanza visibile (e cfr . XII 14). 13. qual che voi siate: chiunque voi siate (è l’incipit di un sonetto di Dante a Dante da Maiano), nel senso che Cavalcanti finge di non conoscere il suo interlocutore (Contini), e perciò gli si rivolge col voi; ovvero ‘quale che sia la vostra qualità’ (Marti)? Amore comunque appartiene ad altra “gente”, ad un altro mondo, è altra cosa. 14. al parlar: a come si esprime (“chi” ecc.). – v(i): “là dove” ecc. (cfr. 10). 15. vi toccò: vi colpì (come si dice nella scherma), vi fece effetto
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Guido Cavalcanti - Rime
(essendo in lingua d’Amore). – primo: “precedente” (Contini), ma non i vv. 1-14, che costituirebbero il vero sonetto, ma quello che dobbiamo supporre precedesse il sonetto dell’Orlandi (come confermerebbe anche il passato remoto – ma Contini suggerirebbe per ragione d’accento un v’ha tocco se non un vi tocca). 16. ha fabricato: stesso campo semantico del v. 6: è l’autore di. – limo: portandovi un semplice contributo d’arte del dire (in cui evidentemente Amore non si perde). Il verbo è in rima (e in clausola) nel sonetto di Guinizelli per l’appunto a Guittone (e sottoponendogli una canzone) O caro padre meo, 14 (“vostra correzion lo vizio limi”).
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L (c) GUIDO ORLANDI A GUIDO CAVALCANTI
Amico, I’ saccio ben che sa’ limare con punta lata maglia di coretto, di palo in frasca come uccel volare, con grande ingegno gir per loco stretto,
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e largamente prendere e donare, salvar lo guadagnato (ciò m’è detto), accoglier gente, terra guadagnare. 1. limare: con ripresa del verbo finale di Lb. Si noti l’‘adnominatio’ saccio/sa’. 2. lata: larga (latinismo), quindi poco aguzza. – coretto: corazza, di fitta maglia di ferro. Lavorarla con una punta senza punta avrebbe richiesto una notevole abilità (cfr. Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, Firenze, Le Monnier, 1921, 380: “l’agora e’ coretti [ossia “chiavare maglie di coretto”] non può fare chi perde il vedere”: dunque ‘hai buona vista’?). E cfr. v. 4. 3. di palo in frasca: da un argomento all’altro (come risulta dai vv. 5-7, non solo letterario: il pretesto è per ironizzare la ‘versatilità’, e cfr. LIII, dell’aristocratico Guido, in realtà, cfr. 5, di assai più larghe vedute)? sottraendoti a una stringente discussione? E comunque “la prima attestazione del proverbio” (Contini). 4. ingegno: ordigno, macchina. La canz. XXVIIb? – gir: passare (cfr. Lb 9). Capace, Guido, di assottigliarsi e destreggiarsi nelle difficoltà. – loco stretto: le strettoie tecniche della medesima canzone (Tanturli)? 5. largamente: con larghezza (di cui s’enunciano gli atti fondamentali); senza guardare pel sottile. Cfr. LIII 22, – prendere: accettar doni (o appropriarsi del non donato?). 6. salvar: serbare, tesaurizzare (cfr. ‘salvadanaio’), insomma tenere ben stretto. – lo guadagnato: il guadagno. Circa la capacità in affari dei Cavalcanti cfr. G. Villani, N. cronica, VIII LXXI cit. per XLVIIIª ; e ancora LIII 12, dove “nobeltate” e “arte” vanno fianco a fianco (Contini). – ciò m’è detto: così (cfr. fr. ‘ça’) mi dicono, a quanto mi dicono. I guadagni sono sempre presuntivi, non si confessano mai. Ma potrebbe riferirsi proprio al son. LIII e il “sapere” del Cavalcanti (che regge gli infiniti di questi vv. 1-7) corrispondere ed alludere alle lì sciorinate attitudini. 7. accoglier: senza guardar troppo alla qualità? o ‘raccogliere’
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Guido Cavalcanti - Rime
In te non trovo mai ch’uno difetto:
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che vai dicendo intra la savia gente faresti Amore piangere in tuo stato. Non credo, poi non vede: quest’è piano.
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E ben di’ ‘l ver, che non si porta in mano, anzi per passïon punge la mente dell’omo ch’ama e non si trova amato.
14
Io per lung’ uso disusai lo primo amor carnale: non tangio nel limo.
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(armati)? Cfr. LIII 14, “gran masnad’avere”. – terra: difficile, senz’articolo, che significhi ‘la città’. Alluderà agli incrementi fondiari (anche nel contado) della famiglia. – guadagnare: acquistare, dunque, più che conquistare. Ma è sospetta (Contini) la ripetizione del verbo. 8. mai ch(e): se non; che. Cfr. XLIXª 11 (e Dante, Inf., IV 26, “non avea pianto mai che di sospiri”). 9. dicendo: con ripresa di è detto del v. 6. – intra: tra (vantandoti). 10. Sottintendi ‘che’. – in tuo stato: come fossi tu, in tua vece (cfr. XIV 7, e XXVIIª 5). 11. Non credo: non è possibile. Ripresa del “Nisi videro... non credam” di Tomaso (Ioan., XX 25)? – poi: poiché, dato che. – non vede: è cieco, cioè non ha occhi (per piangere). – piano: ovvio, pacifico. 12. E: d’altra parte. – ben: con valore asseverativo, come in I 26. – di’: tu dici. – che: dipende da di’ ’l ver. 13. per passïon: con, di tormento. – punge: trafigge, tormenta (cfr. Inf., V 3, XII 133). – la mente: si conferma l’operazione soprattutto interiore di amore. 14. Vecchio ‘tópos’ del ‘duol d’amore’. Cfr. ad es. Dante (a Dante da Maiano), Qual che voi siate, amico, 12-14: “certanamente a mia coscienza pare, Chi non è amato, s’elli è amadore, Che ’n cor porti dolor senza paraggio” (senza pari), Non canoscendo, amico, 10-11: “sacci ben, chi ama, Se non è amato, lo maggior dol porta”. La disputa sul modo di rappresentare Amore si va perciò a invischiare in sottigliezze di psicologia amorosa. – si trova: è, suo malgrado. 15. per lung’ uso: per vecchia abitudine, ossia da lungo tempo. – disusai: ho smesso di praticare (l’immagine che di sé rende l’Or-
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landi è coerente con quella dei sonetti XLVIIIb e XLIXb). Si noti l’‘adnominatio’ (più esattamente: figura etimologica), già applicata al v. precedente e al v. 1 (e ai vv. 6-7? E cfr. l’opposizione 4 grande/stretto, e allitterazioni del tipo 4 ingegno gir, 11 credo... vede, 13 per passïon punge). – primo: di un tempo? o primitivo? o di cui si parla nel “primo” sonetto (Tanturli)? 16. tangio: crudo latinismo, con desinenza rifatta sulla 2ª e 3ª persona: tocco (ossia non mi immergo, non metto il dito in..., non mi macchio di...); ‘traduce’ “toccò” di Lb 15 (Pollidori). – limo: fango.
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LI A MANETTO
...
Guata, Manetto, quella scrignutuzza, e pon’ ben mente com’è divisata e com’è drittamente sfigurata e quel che pare quand’ella s’agruzza!
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Or, s’ella fosse vestita d’un’uzza con cappellin’ e di vel soggolata ed apparisse di dìe accompagnata 1. Guata: cfr. XLII 9. – scrignutuzza: gobbina (diminut. di scrignuto, munito di scrigno ‘gobba’). 2. pon’... mente: bada, considera (cfr. XXXIX 3). – divisata: propriamente ‘distinta’, ‘disposta’, ovvero ‘composta’, ‘formata’: nel senso di ‘deformata’ (o di agghindata, azzimata? si pensi a divisa nelle sue varie accezioni, ‘impresa’, o ‘livrea’, e al più ampio spettro semantico, in antico, del fr. ‘deviser’). 3. drittamente: perfettamente (ironico, come ben del v. 2). In rima con mente del v. 2 (Marti). – sfigurata: contraffatta, stravolta (cfr. XLIVª 3); o forse ‘truccata’. 4. quel che pare quand(o): riecheggia ben altra contemplazione (Dante, Ne li occhi porta, 12, “Quel ch’ella par quando un poco sorride”), ma è già in Rustico, Quando ser Pepo (per un caso di satiriasi), 12: “quelli che dippo par...”. – s’agruzza: s’aggruccia, si stringe nelle spalle (Ercole, Di Benedetto, Branca, Marti), ovvero (da agro?) “s’irrita” (Contini). Ma si ricordi che gruccia (da cui il primo significato) è anche il bastone (a forma di stampella) su cui s’appollaia la civetta per il richiamo (dunque: ‘fa la civetta’?). 5. Or: introduce l’ipotesi che abbraccia i vv. 5-13. – uzza: ant. fr. houce, fr. mod. housse: ampia sopravveste (anche la gualdrappa del cavallo da guerra, coprisella, fodera dello scudo). Per cui vestita d’un’uzza (’espressione è ricalcata nel sonetto attribuito a Dante, v. 5) significherebbe ‘vestita da parata’. 6. cappellin(a): copricapo unisex. – di vel soggolata: con un velo o fascia (‘soggolo’) che avvolge la gola e il mento, e probabilmente anche la cappellina, secondo la moda d’allora (superstite, fino a ieri, in talune vesti monastiche femminili). 7. di dìe: di giorno (latinismo formale), per dire in pubblico (cfr. del resto Guinizelli, Gentil donzella, 14, “lo giorno quando voi vi dimostrate”).
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d’alcuna bella donna gentiluzza,
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tu non avresti niquità sì forte né sarestii angoscioso sì d’amore né sì involto di malinconia,
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che tu non fossi a rischio de la morte di tanto rider che farebbe ‘l core: o tu morresti, o fuggiresti via.
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8. gentiluzza: l’attributo della lode (e dell’intelligenza d’amore) adattato all’oggetto della rappresentazione. Cfr. XLIVb 7 “gentiletta”. 9. niquità: ira, rabbia (niquitoso vale ‘infuriato’, ‘inferocito’). 10. angoscioso: tipico contrassegno della passione cavalcantiana. Il colmo del ridicolo è riuscire a far ridere Guido. 11. involto: avvolto, ossia preso, oppresso. – malinconia: umor nero (sulla semantica di questo termine cfr. G. Petronio in LN, IX [1947], pp. 9-13). Condizione cara all’Angiolieri e ai suoi imitatori, e che ritorna nel plazer-enoi di Cino Tutto ciò ch’altrui agrada, 10, e frequentazione di Dante (Un dì si venne a me Malinconia), ingrediente comunque sempre di rappresentazioni ‘comiche’. 12. fossi a rischio de: corressi il rischio, rischiassi. Per il costrutto “tu non avresti... che tu non fossi...” dei vv. 912 cfr. ad es. Arnaut Daniel, Pois Ramons, 44-45: “ia non saubra tant de gandill, No?il compisses lo groing e?l cill”. 13. di: dal. – che farebbe ’l core: solita perifrasi attualizzante (cfr. XV 10), più oggettivazione psicologica (cfr. V 8, XIV 2, XXV 4 ecc.). Il comico emerge appunto dal rovesciamento della situazione tragica. 14. O fuggire, o morire dal ridere. Si tratta del resto di ‘situazioni’ dilemmatiche ben note. Tant’è che il verso riproduce l’opposizione famosa “e qual soffrisse di starla a vedere Diverria nobil cosa, o si morria” di Donne ch’avete, 35-36 (Contini).
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LII A NERONE CAVALCANTI
Novelle ti so dire, odi, Nerone: che’ Bondelmonti trieman di paura, e tutti Fiorentin’ no li assicura, udendo dir che tu ha’ cuor di leone:
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e’ più trieman di te che d’un dragone, veggendo la tua faccia, ch’è sì dura 1. Novelle ti so dire: ho qualcosa (cfr. XXV 1) da dirti (con odi che segue vale: ‘senti’, o ‘sappi’). La formula già in un incipit di Rustico, “A voi, Chierma, so dire una novella”. E nei due sonetti sopra cit., v. 9: “Ond’io ’l ti fo saper”, “Ma so bene...”. 2. Bondelmonti: della famosa “casa di che nacque il vostro fleto”, secondo le parole di Cacciaguida a Dante (Par., XVI 136), per il mancato matrimonio di Buondelmonte con una Amidei (cfr. Compagni, Cronica, I II), al momento della divisione in Neri e Bianchi schieratasi coi Donati (ivi, II XXVI), mentre i Cavalcanti “tennono coi Cerchi”, come tutti i Ghibellini, e Guido in particolare “perché era nimico di messer Corso Donati” (ivi, I XXII). Il Villani (N. cronica, VIII 1) ricorda tra le altre la “guerra” che c’era “tra i Cavalcanti e’ Bondelmonti”. – trieman: e così al v. 5, con normale dittongamento di E. 3. tutti: tutti i (normale l’ellissi dell’articolo dopo tutti davanti a nome proprio; anche se si potrebbe leggere tutt’i). Anche il v. 3 del sonetto contro Fastello cit. comincia “e tutto (il giorno)”. E l’altro di Rustico Messer Bertuccio, 3, “e ciascun fiorentin di ciò ragiona”. – assicura: rassicura, toglie di timore, dà coraggio (verbo singolare con soggetto plurale – e cfr. v. 7 – soprattutto per ragioni di rima). 4. udendo dir: ripresi, in ordine inverso, i verbi del v. 1 . – cor: coraggio. Per la metafora proverbiale cfr. Schiatta Pallavillani (a Monte), D’un convenente, 6: “dico infra me: quegli ha cor di coniglio”; ma è cadenza anche della “corona” di Lippo, XXVIII 8, “... quand’i’ penso aver cuor di leone”. “Leone” torna in rima due volte (vv. 10, 12; ma la seconda starà per “dragone”?) nel ritratto del ‘miles gloriosus’, ancora di Rustico, Una bestiuola ho visto molto fera. 5. dragone: drago. 6. dura: minacciosa, feroce.
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che no la riterria ponte né mura, se non la tomba del re Pharaone.
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Deh, con’ tu fai grandissimo peccato: s’ alto sangue voler discacciare, che tutte vanno via sanza ritegno!
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Ma ben è ver che ti largâr lo pegno di che pot[e]rai l’anima salvare: s’ fosti pazïente del mercato!
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7. la riterria: la tratterrebbe, le resisterebbe, costituirebbe riparo o difesa contro di essa. – ponte né mura: a significare le difese d’un castello. 8. se non: se non fosse, tranne. – la tomba del re Pharaone: “se ‘induratum’ era il cuore di Faraone, come dice l’Esodo, tanto più dura, e perciò atta a rivaleggiare con la faccia di Nerone, ne sarà stata la tomba” (Contini). 9. con’: com’ (davanti a t), come. – fai... peccato: sei cattivo, crudele (espressione topica, cfr. Dante, Ciò che m’incontra, 9, Se’ tu colui, 10). 10. alto: nobile (i Buondelmonti erano dei “grandi” di Firenze). – sangue: stirpe. – voler: a voler (apposizione di “peccato”). 11. che: riferito a senso a “sì alto sangue” ossia i Buondelmonti: pron. relativo con valore consecutivo. – vanno via: fuggono (cfr. l’incipit cit. “A voi che ve ne andaste per paura” e Dante, Venite a intender, 3). In realtà nessuno si muove. 12. Ma: tipica iunctura avversativa, con rovesciamento di prospettiva (ben è ver che, ‘è vero che’) dei sonetti satirici di Rustico (i due già citati contro Fastello e ai Guelfi, e l’altro A voi, messere Iacopo comare, sempre ad inizio di 2ª terzina, e nel secondo anche al v. 9, e ancora El Muscia sì fa dicere e bandire, 9, Chi messer Ugolin biasma o riprende, 9). – largâr: largarono, lasciarono libero (allentando i legami), ossia condonarono (in cambio di che?). 13. di che: col quale pegno, col valore del quale. – l’anima salvare: probabilmente antifrastico: piuttosto dannartela, col vergognoso mercato. 14. sì ecc.: protasi della consecutiva preposta. – fosti pazïente del: “tollerasti” (Contini), accettasti.
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LIII DINO COMPAGNI A GUIDO CAVALCANTI
Se mia laude scusasse te sovente, dove se’ negligente, amico, assai ti laudo, un poco vaglie, come se’ saggio, dico, intra la gente, visto, pro’ e valente, e come sai di varco e di schermaglie,
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e come assai scri[t]tura sai a mente 1. Se... scusasse: possa (augurativo) servire a scusarti (a scusare la tua – a toglierti l’accusa di – “negligenza”). – sovente: riferito a scusasse invece che a laude (o complem. predicativo del sogg. laude, e cfr. 3 assai ti laudo: così non facessi che lodarti per tua “scusa”). 2. dove: in ciò in cui, di ciò (proprio) di cui. – se’ negligente: non ti curi, sei “sdegnoso” (carattere –ossia ‘difetto’, peraltro ‘lodevole’, rispetto all’essere “cortese e ardito” – riconosciutogli appunto nel ritratto postumo della Cronica). Il vocabolo torna in rima, in coppia con “vile”, al v. 3 della canzone del pregio. 3. un poco vaglie: (e tu) aiutami un poco (esci dal tuo “disdegno”)? Evidente, nell’incertezza, l’opposizione assai/un poco. 4. come ecc.: che ecc. Esplicitazione, a tutto il v. 9, del generico assai (di tutto) ti laudo del v. 3 (e dico con valore di ‘intendo dire’, ‘cioè’) e quindi svolgimento del tema e dello stesso impegno retorico iniziale. – intra la gente: cfr. Lc 9, dove si ripropone, probabilmente per semplice esteriore ‘conversio’, lo stesso verbo e lo stesso attributo, lì riferito a gente. 5. visto: agile, destro (ant. fr. ‘viste’, fr. ‘vite’). Cfr. il Detto d’Amore, 409, in coppia con “forte”, dove il Roman de la Rose, 2195, ha “viste e legier” (e poco sopra, 402-3: “cortese e franco e pro’ Convien che sie...”). In Pacino Angiulieri, Amor ch’è visto, saggio e canoscente, in altra serie triadica (tutti i componenti si ritrovano qui), e con significato piuttosto d’agilità intellettuale, avvedutezza. 6. sai di: t’intendi di, sei esperto di. – varco: difesa al varco (cfr. LII 7 “ponte” – ma cfr. anche Lc 4); o agguato (cfr. Inf., XXX 8)? –schermaglie: scherma. 7. assai: molta. – scri[t]tura: nel senso lato di scritti, libri, e in quello ristretto di Sacra Scrittura (cfr. Bonagiunta a Guinizelli,
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soffisimosamente, e come corri e salti e ti travaglie: ciò ch’io dico, ver’ te provo neente appo ben canoscente che nobeltate ed arte insieme aguaglie.
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E grande nobiltà non t’ha mistiere Voi ch’avete, 14, “traier canson per forsa di Scrittura” secondo l’interpretazione di Gorni, Il nodo della lingua, pp. 41, 45), la cui frequentazione, in queste rime ampiamente attestata (ma “sai a mente” implicherà mera conoscenza esteriore?), doveva essere evidente ai contemporanei. 8. soffisimosamente: coniazione originale sulla base di soffismo (cfr. XLVII 7) con desinenza aggettivale -oso ed epentesi di i (con effetto di superlativo): sofisticamente, sofistichissimamente, con raffinate deduzioni. 9. ti travaglie: ti agiti. Si noti l’alternanza (e probabilmente il voluto cumulo indiscriminato) di attitudini (e prestazioni) intellettuali, vv. 4, 7-8, e fisiche e guerresche, ossia cavalleresche, vv. 5-6, 9; e cfr. v. 12. “E corri e sali e salta” è tra le raccomandazioni di Ricchezza all’amante, se “sa giucar di lancia”, nel Detto d’Amore, 423. 10. ciò ch’io dico: riassuntivo di quanto “detto” ai vv. 4-9, funge da apodosi, con nemmen troppo ardito anacoluto (‘qualunque cosa io possa dire’)„ della più ampia protasi dei vv. 1-9. – ver’ te: a confronto di te, di ciò che sei. – provo: vedo per prova, constato che è. – neente: arcaismo etimologico. 11. appo: presso (‘apud’), agli occhi di... – ben canoscente: uno che ben conosca e discerna (cfr. XXVIIb 5). Guittone, Comune perta, 51, con identica reggenza: “appo scïente”. 12. che... aguaglie: dipendente da “ben canoscente”: uno che sappia discernere (o semplicemente: veda) che possiedi in egual misura... Ovvero (ma non si spiegherebbe ver’ te): un intenditore, che confronti... – nobeltate ed arte: opposizione fondamentale (ed attuale), in termini di potere, dello stato fiorentino, e della lotta politica in corso: ‘grandi’ (dei quali era Guido; e cfr. 13 “grande nobiltà”), contro gli uomini delle ‘arti’; qui riassuntiva (condizione di nascita e attitudini d’ingegno) dell’alternanza ed eclettismo di cui alla nota al v. 9. Ovvero, se aguaglie valesse ‘confronti’: i valori della prima a petto di quelli della seconda. 13. E: eppure. – grande nobiltà: qualità di ‘grande’ (si ricordi che la famiglia dei Cavalcanti, a differenza degli Uberti e degli stessi Alighieri non era nobile). – t’ha mistiere: non t’è mestieri (“li è mestiere” in rima al v. 148 della canzone), non t’occorre, non ne
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né gran masnad’ avere: c[hi] ha cortesia ma[n]tien leggera corte. Se’ uom[o] di gran corte: ahi, con’ saresti stato om mercadiere!
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Se Dio recasse ogn’omo a dritta sorte drizzando ciò che tort’è, hai bisogno: nobile come sei per tua virtù (e cfr. 15); o “negligente” di ciò? 14. masnad(a): in senso non deteriore di séguito, brigata; con possibile allusione (Tanturli) alla “solitudine” di Guido (le cronache d’altra parte attestano il gran numero di persone che potevano armare i suoi; e “Tegna bella masnada”, “Tenga masnada a corte” è raccomandazione, rispettivamente per il “barone” e per il “rettore”, della canzone cit., vv. 45 e 58. E cfr. v. 32 sotto citato). 15. leggera: piccola, poca. – corte: séguito (e mantenere è, come “tenere” sopra cit., pertinente al sostantivo). La cortesia non si misura cioè dalla gente che s’ha dintorno, dall’apparato. Ovvero leggi, senza integrare il testo: c’ha’ cortesia, ma tien’ 1. c. (‘infatti sei cortese di tuo, non perché tu abbia gran codazzo’); Del Lungo, facendo soggetto cortesia: ché (ma si può mantenere cha ‘che’) cortesia mantien ecc. Stessa ‘adnominatio’ nella canzone, v. 35: “e faccia cortesie non vi sian corte” (dove corte è aggettivo, ma rima con 32 “mantenga ricca corte”). 16. di gran corte (così il ms.): in evidente opposizione (cfr. 3 assai... poco) a leggera corte del v. preced. (e quindi in rima identica), e in risposta a “grande nobiltà” del v. 13: sei, certo, per nascita e relazioni, un ‘grande’. Stesso significato comunque se si legga, con Del Lungo, e con rima identica col v. 18, di gran sorte. 17. con’ saresti stato ecc.: davvero saresti potuto riuscire ugualmente tale essendo ecc.; che perfetto mercante saresti riuscito con le tue qualità! perché non potresti essere un eccellente mercante? – mercadiere: è la proposta del Del Lungo (prov. e fr. ant. mercadier) di contro a mercatante del ms. (om ha funzione sostantivante), che torna in rima al v. 132 della canzone. 18. recasse: menasse, conducesse (come dire: a compimento). – ogn’omo: ognuno. a dritta sorte: al suo giusto destino, al giusto) suo fine; alla perfezione di sé. Se cioè destino e giustizia (dare a ciascuno il suo) coincidessero. Perché nessuno in realtà è come Guido, e lui non fa uso delle sue qualità. 19. drizzando: raddrizzando (in ‘adnominatio’ con dritta del v. preced.). – ciò che tort’è: esplicita rivendicazione d’eguaglianza sociale d’uno che fu sostenitore di Giano della Bella. Insomma: colmando le differenze. “Pulir torto” (in rima) è ciò che si vuole tra
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daria cortesia [a] ch[i] ha mistiere, e te faria ovrere, pur guadagnando, ed i’ donando forte.
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l’altro dal re che “orrato pregio aver disìa”, canz. cit., v. 37. 20. cortesia: il ms. kortese. – [a] ch[i] ha mistiere: non come te, che non ne hai bisogno (con ripresa, qui con costrutto personale, ma in rima identica, della locuzione del v. 13). La cortesia è infatti ciò che manca alla perfezione dell’artigiano. 21. e te. tipica opposizione da ‘tenzone’. Il termine correlativo è i’ del v. 22. – ovrere: operaio (gallicismo); uomo cioè dell’‘arte’. Integrando in te la cortesia innata con l’industriosità. 22. pur: tuttavia, sempre, continuando a; senza cessare con ciò di (il gerundio, al solito, non riferito al soggetto). Ossia col vantaggio del guadagno (interesse a cui Guido non era ritenuto estraneo: cfr. XXXb, Lc 6. Ma i redditi dei Cavalcanti, e cfr. XLVIIIª). – ed i’ donando: ed io, che mi guadagno il pane col lavoro, manifestando a mia volta gli effetti dell’acquisita perfezione: la liberalità essendo un tratto della cortesia (“largo ’n donare” si raccomanda nella canz. cit., vv. 50 e 79, sia del “barone” sia del “cavaliere”), e il corrispettivo onorevole dei larghi guadagni. – forte: molto, generosamente.
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LIV
C I N O D A PISTOIA A G U I D O CAVALCANTI
Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo, Guido, che fate di me sì vil ladro? Certo bel motto volentier ricolgo: ma funne vostro mai nessun leggiadro?
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Guardate ben, chéd ogni carta volgo: se dite il vero, i’ non sarò bugiadro. 1. le cose vostre: l’oggetto del furto (temi, versi e simili), genericamente indicato stante la domanda “Qua’ son...”, con significato di: ‘non vi ho rubato nulla’. 2. fate di me: mi fate passare per un, mi accusate d’essere un. – sì: come dite. Se ne induce che “vil ladro” (in rima) sia specifica citazione della proposta. 3. Certo: è vero, sì; ammetto che. – bel motto: i fiori del ‘parlare’ altrui, con riguardo alla bellezza dello stile (quella che Dante invita ad apprezzare nel finale della canz. Voi che ’ntendendo: “ponete mente almen com’io son bella”). – volentier: ossia spesso. – ricolgo: raccolgo, tesaurizzo, fo mio. Cfr. XLI 8. 4. funne vostro: ne fu, di “motti” vostri. – leggiadro: “sollazzo... con... amore e l’opera perfetta” è il terzetto di cui si compone, secondo Dante (Poscia ch’Amor, 89-90), la leggiadria. L’accusa a Guido potrebb’essere di mancanza del primo componente, di un eccesso di ‘spleen’ da parte dell’“amoroso” (e “dolce”, a stare al Dante del De vulgari eloquentia) messer Cino; o di un ‘trobar’ tutt’altro che ‘leu’, e perciò irricevibile; anche se è evidente la debolezza dell’argomento che non c’è nulla di buono da rubare. 5. Guardate: fate attenzione a quello che dite, ripensateci. – ogni carta: “del mio libro” (Contini), o del vostro (Marti). Si tratta insomma di una risposta ponderata. Ma sembra trasparire il “vos exemplaria... Nocturna versate manu, versate diurna” di Orazio (Ars poet. 268-69), per cui la battuta si tradurrebbe in una vera e propria poetica dell’imitazione. 6. se dite il vero: se quello che dite in rima, ossia cantate, è vero. – i’ non sarò bugiadro: la mia, a sua volta, non è poesia mentita. La verità cioè è di tutti (con riferimento all’accusa di ‘falso profeta’). II futuro indica necessità, consequenzialità; bugiadro è l’esito normale del lat. medievale BAUS(I)ATOR (Contini): cfr. avo-
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Guido Cavalcanti - Rime
Queste cosette mie, dov’io le sciolgo, ben le sa Amor, innanzi a cui le squadro. Ciò è palese, ch’io non sono artista, né cuopro mia ignoranza con disdegno, ancor che ‘l mondo guardi pur la vista;
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gadro da AVOCATOR, ant. fr. pastre da PASTOR. Giustamente rilevata da Contini la tipica opposizione ‘se tu..., io’ da tenzone, come ad es. nel sonetto di Cecco Dante Alighier, s’i’ son bon begolardo. 7. queste cosette mie: i miei (modesti: cfr. 12 e per contro 1 cose) prodotti poetici (cfr.. Dante, Vita Nuova, V 4: “feci per lei certe cosette per rima”; e il bello è che si tratta di simulazioni d’amore per la donna-schermo; quasi che Cino voglia ammiccare a Guido che, com’egli sa bene, la poesia è poesia, è l’intenzione che conta). – dov(e): nella mente. O) ‘di dove’? attingendo dove? (il cod. Barberiniano lat. 3953 ha com’io, il Casanatense 433 da cui); comunque con affermazione di autenticità, vidimata da Amore. La proposizione è prolettica, come a sua volta queste cosette mie, rispetto a “ben le sa” ecc. – sciolgo: sciolgo in parole, esprimo (come si dice ‘sciogliere il canto’); o ‘interpreto’? 8. le: riferito a “cosette”, come le del v. preced., anziché (lo) alla proposizione “dov’io...”. – squadro: “squaderno” (Contini, con rinvio a Inf., XXV 3, per le “fiche” di Vanni Fucci, non per nulla, osserva Gorni, “ladro” e pistoiese, dunque con consapevole richiamo a questo sonetto), sottoponendole al suo giudizio. Amore qui non appare tanto come ‘dettatore’, ma come ‘lettore’ e critico delle “cose” di sua pertinenza (come in XLI secondo la nostra interpretazione). 9. Ciò: prolettico della proposizione seguente (‘quello che è evidente è’). – artista: in tradizionale opposizione a “legista”, vale appartenente alla facoltà delle arti ossia di medicina (Tanturli), con distinzione significativa in bocca ad uno che aveva frequentato l’altra, quella di diritto, e rivolgendosi a un “filosofo naturale” o che la pretendeva a tale (e cfr. anche il riconoscimento del Compagni del sonetto precedente). La rivendicazione è (cfr. vv. 12-14) di una poesia come schietta espressione del proprio sentimento di contro a una poesia artificiosa e espressione di una ferrea necessità. 10. Non si accusa Guido d’“ignoranza” (l’ignoranza essendo piuttosto la propria, di chi cioè ha fatto altri studi), ma si rifiuta il suo snobismo (il “disdegno” è, s’è visto, un contrassegno suo). Ma quella dell’ignoranza ammantata di presunzione è la tipica accusa rivolta contro i medici. Cuopro è esito normale di COOPERIT. 11. ancor che: benché. – pur la vista: solo l’apparenza, la mera
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Guido Cavalcanti - Rime
ma sono un uom cotal di basso ‘ngegno che vo piangendo, tant’ho l’alma trista, per un cor, lasso, ch’è fuor d’esto regno.
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apparenza. Ci vuol poco a farsi passare per grandi poeti. 12. cotal: qual sono. Rincalza un. – di basso ’ngegno: se ne ricorderà Dante, contrapponendogli, nel X dell’Inferno, l’“altezza d’ingegno” (benché non salutifera) del suo interlocutore. Ma “un uom cotal di basso ’ngegno” è citazione di XXVIIb 6 “om di basso core”, ammissione di ciò proprio che Cavalcanti rifiutava come capace d’accedere al suo “natural dimostramento” (Tanturli), quindi conferma della contrapposizione di due culture di cui al v. 9. 13. che vo piangendo: unito a son un del v. preced., riccheggia l’incipit di X. Sono parole di Guido, come quelle che seguono, ma sono il “vero” di sé. – l’alma trista: cfr. XV 13 (e relativa nota 1213), dove figura anche tanto (trista qui complem. predicativo dell’oggetto); lì come qui in relazione a core. 14. un cor: una (cfr. X 3), ma in riferimento al suo sentire. – ch’è fuor d’esto regno: il richiamo è troppo evidentemente ancora a Cavalcanti, XXXVIIIb 5, per intendere (Contini, Marti) ‘fuori di questa vita’ (benché proprio Cino indichi con “l’altro regno” l’altro mondo, Io non posso celar, 32), e detto del proprio cuore. Cfr. per contro Dante, Amor, da che convien (ma composta anni dopo la morte di Cavalcanti), 71: “questa sbandeggiata di tua corte”.
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LV NUCCIO SANESE A GUIDO CAVALCANTI
I mie’ sospir’ dolenti m’hanno stanco, ch’escon di me per forza di dolore; e quelli che non posson gir di fòre mi feron duramente per lo fianco,
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cercando s’eo di dogli’ avesse manco; e po’ li sento entrar dentro dal core, e m’hanno sì disfatto ogni valore, che Mort’è ne la mente venut’ anco.
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1. sospir’ dolenti: sintagma (e cfr. 9) non cavalcantiano (cfr. nota a XV 12-13), bensì ciniano e frescobaldiano, ma per cui cfr. VIII 3 e V 7, XXXII 12, e, se dolenti valesse ‘piangenti’, XXXI 11 e in forza anche di 2, XVII 10-11. E cfr. anche Dante, Era venuta, 7-8: “e diceva a’ sospiri: ‘Andate fòre’; Per che ciascun dolente si partia”. – stanco: participio pass. forte. 2. escon di me: cfr. XVII 11. – per forza di: per effetto di (spinti da). Cfr. XXVIII 14, e per il sostantivo retto (con duplicazione della connotazione del v. 1) VIII 3. 3. quelli ecc.: impediti di sfogo. – di fòre: fuori. Cino, Se voi udiste la voce dolente, 2: “dé miei sospiri quand’escon di fòre”. Ma per la distinzione cfr. ancora Dante, Era venuta cit., “... quei [sospiri] che n’uscian for con maggior pena...”. 4. Con duplicazione ed esacerbamento dello stesso tormento (cfr. 2). – feron: in forte allitterazione con 3 fòre. – per: trafiggendo; nel. 5. manco: mancanza (deverbale del tipo dono, sguardo ecc.). I sospiri rimasti dentro garantiscono il livello massimo di dolore supplendo ad eventuali vuoti di sofferenza. Anche l’anticipazione del complemento è di tipo cavalcantiano. 6. Nella loro penetrazione. Ma il processo non è lucidamente padroneggiato, visto che è proprio il cuore (cfr. VIII 3, XVII 10 e, se si vuole, XV 5-6) la fonte dei sospiri. E vedi ancora 9-10. 7. disfatto: cfr. XIII 9, XXXI 18, XXXIV 25, XLIVb 11 in relazione a valore piuttosto XXXVIIIb 14; per ogni valore (in analogo contesto) VII 10, XI 4, XXXII 30. 8. Cfr., anche per l’analogo ordine delle parole, XXXII 14. – ne la mente venut(a): cfr. XII 3. – anco: anche; persino. La Morte stessa.
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Guido Cavalcanti - Rime
E rompon li dolenti mie’ sospiri il cor, che dentro è tanto combattuto che pur conven che Morte a·ssé lo tiri.
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Amor, i’ son a tal per te venuto, ch’omo non trovo che·mmi degni o miri, ed ogni tu’ poder m’è disaiuto.
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9. rompon: in Cavalcanti piuttosto in accezione guerresca (cfr. VII 10, IX 14), qui equivale a ‘struggono’ e simili. 10. che ecc.: l’eco (sempre in rima) è piuttosto di Dante, dove il verbo, nel senso semplicemente di ‘affliggere’ o ‘ostacolare’, torna ripetutamente, in particolare Amor che movi, 65, “che gli spiriti miei son combattuti”, Madonna, quel signor10-11: “la qual è stata tanto combattuta, Che sarebbe perduta”, o di Cino (a eco di Dante), L’uom che conosce, 34–35 “... ’l core, ov’è si combattuta La vita, ch’è perduta” (per dentro cfr. il sonetto conteso fra Dante e Cino Se ’l viso mio, 9-11: “la morte... Combatte dentro quel poco valore Che mi rimane...”). 11. conven: è forza. – tiri: in questa accezione in XXVIIb 54. La Morte in Cavalcanti piuttosto appare, s’avvicina, sale nel viso, stringe; ma cfr. XVIII 10, e comunque Cino, Io fu’ ’n su l’alto e ’n sul beato monte, 10-11: “... fa’ che qui mi traggia La Morte a sé...”. Per la variante di Vd, che ben può e’ dir che ecc. (ossia non è esagerato dire che ecc.), cfr. XLIXª 8 e nota. 12. a tal: a tal punto; in tal condizione. Cfr. Cino, Sì mi distringe amore, 85, “già son venuto a tale... Che... ” (e medesimamente O tu, Amor, 12-13); ma anche Guinizelli, Donna, l’amor mi sforza, 50, 53, “... a tal sono adutto ..., Amore a tal m’ha dutto”. 13. Cfr. X 3-4, e in particolare XV 8 (e 14). Degni o miri può essere endiadi per ‘degni di mirare’; omo al solito vale ‘nessuno’. 14. poder (con lenizione intervocalica, rimasta nell’accezione agricola del termine): potere, valore, ossia aiuto. – disaiuto: con aggiunta di un nuovo caso ai tanti composti con dis- di Cavalcanti: il contrario di aiuto, ossia danno; ovvero inutile.
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