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Italian Pages 108 Year 2021
Nuova Rivista di
Letteratura Italiana diretta da Annalisa Andreoni, Pietro G. Beltrami, Luca Curti, Luca D’Onghia, Claudio Giunta, Mirko Tavoni, Antonio Zollino
XXIV, 2 2021
EDIZIONI ETS
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Nuova Rivista di Letteratura Italiana
Nuova Rivista di Letteratura Italiana Fondata da Pietro G. Beltrami, Umberto Carpi, Luca Curti, Piero Floriani, Marco Santagata, Mirko Tavoni Diretta da Annalisa Andreoni, Pietro G. Beltrami, Luca Curti, Luca D’Onghia, Claudio Giunta, Mirko Tavoni, Antonio Zollino Comitato scientifico internazionale Simone Albonico (Université de Lausanne), Theodore J. Cachey, Jr (University of Notre Dame), Jean-Louis Fournel (Université Paris VIII), Klaus W. Hempfer (Freie Universität Berlin), María Hernández Esteban (Universidad Complutense de Madrid), Manfred Hinz (Universität Passau), Dilwyn Knox (University College London), Rita Marnoto (Universidade de Coimbra), Domenico Pietropaolo (St Michael’s College at the University of Toronto), Matteo Residori (Université Sorbonne Nouvelle - Paris III), David Robey (University of Oxford), Piotr Salwa (Accademia Polacca di Roma), Dirk Vanden Berghe (Vrije Universiteit Brussel), Kazuaki Ura (Università di Tokyo), Jean-Claude Zancarini (École Normale Superieure de Lyon) Redazione Antonio Borrelli, Marina Riccucci, Chiara Tognarelli Esperto linguistico (lingua inglese): Luca Politi (Harvard University) Direttore responsabile Pietro G. Beltrami La «Nuova Rivista di Letteratura Italiana» si avvale della consulenza di revisori anonimi per la valutazione degli articoli proposti per la pubblicazione. «Nuova Rivista di Letteratura Italiana» is a double-blind peer reviewed journal. Gli articoli possono essere proposti per la pubblicazione tramite il sito nrli.it/nrli periodico semestrale Autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 15 del 1998 ISSN 1590-7929 abbonamento individuale: Italia € 48,00, estero € 60,00, pdf € 36,60 abbonamento istituzionale: Italia € 60,00, estero € 70,00, pdf € 60,00 bonifico bancario intestato a Edizioni ETS Intesa San Paolo IBAN IT 21 U 03069 14010 100000001781 BIC BCITITMM causale: abbonamento NRLI 2021
Nuova Rivista di Letteratura Italiana XXIV, 2 2021
Edizioni ETS
INDICE
SAGGI Mirko Tavoni, Quanto è probabile che Dante abbia scritto il De vulgari eloquentia a Bologna e perché ci interessa? aMelia Juri, Poesia, storia e classici nella lirica di Pietro Bembo. Una lettura delle Rime
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luca BelTraMi, Mitopoiesi e memoria letteraria in Paura della libertà 133 di Carlo Levi
Mirko Tavoni QUANTO È PROBABILE CHE DANTE ABBIA SCRITTO IL DE VULGARI ELOQUENTIA A BOLOGNA E PERCHÉ CI INTERESSA?*
riassunTo. Il saggio esplora l’idea che Dante abbia scritto il De vulgari eloquentia a Bologna, indirizzandosi prioritariamente al composito pubblico di questa città, come fanno pensare molti e stringenti indizi testuali di carattere linguistico, culturale e politico. La prima parte ricostruisce la storia di questa idea da quando venne proposta da Aristide Marigo, primo commentatore del trattato, nel 1938, a quando venne immotivatamente cancellata, negli anni Sessanta e Settanta, così nella biografia di Petrocchi come nell’Enciclopedia dantesca, a quando venne riproposta con rinnovati argomenti negli ultimi vent’anni. La seconda parte esamina dettagliatamente gli indizi testuali che supportano l’idea che il trattato sia stato scritto a Bologna e per Bologna; verifica se sia politicamente plausibile che un guelfo bianco esiliato come Dante scegliesse Bologna come sua residenza negli anni 13041305; e mostra come l’ipotesi alternativa di Treviso sia priva di fondamento. Parole chiave. Dante Alighieri; De vulgari eloquentia; Bologna nel Medioevo; Storia delle idee linguistiche; Biografia e letteratura. TiTle. How likely is it that Dante wrote De vulgari eloquentia in Bologna and why should we care? aBsTracT. The essay explores the idea that Dante wrote De vulgari eloquentia in Bologna primarily addressing the composite audience of this city, as numerous and compelling linguistic, cultural and political clues suggest. The first part traces the story of this idea from when it was proposed by Aristide Marigo, the first commentator of the treatise, in 1938, to when it was canceled without reason, in the sixties and seventies, in both Petrocchi’s biography and the Enciclopedia dantesca, and until it was revived with renewed arguments in the last twenty years. The second part examines in detail the textual clues supporting the thesis that the treatise was conceived in Bologna and for Bologna; it verifies whether it is politically plausible that an exiled white Guelph like Dante would choose Bologna as his residence in the years 1304-1305; and it shows that the alternative hypothesis of Treviso is groundless.
* Ringrazio per le loro preziose osservazioni a una precedente stesura di questo lavoro Gabriella Albanese, Gian Mario Anselmi, Armando Antonelli, Elisa Brilli, Alberto Casadei, Claudio Ciociola, Luca Curti, Luca D’Onghia, Gianfranco Fioravanti, Claudio Giunta, Giuseppe Indizio, Fabio Marri, Giuliano Milani, Laura Pasquini, Paolo Pontari, Gian Luca Potestà, Diego Quaglioni, Alfredo Stussi, Riccardo Tesi, Lorenzo Tomasin, Paolo Trovato, Marco Veglia, Michelangelo Zaccarello. Ovviamente la responsabilità delle tesi sostenute e dei giudizi espressi è solo mia.
DOI: 10.4454/NRLI.V24I2.386
NRLI XXIV, 2 (2021), pp. 11-109
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MIRKO TAVONI
keywords. Dante Alighieri; De vulgari eloquentia; Bologna in the Middle Ages; History of linguistic ideas; Biography and literature. corresPonding auThor. Mirko Tavoni, Accademia della Crusca. Via San Bernardo 4, 56125 Pisa, Italia. Email: [email protected].
1. Premessa metodologica 1.1. Parto da «… e perché ci interessa?». Ho il massimo rispetto per chi si dedichi alla biografia di Dante in termini puramente storici, ma a me le circostanze della sua vita interessano nella misura in cui gettano luce sulle sue opere e sul pensiero che in esse si esprime. Il che non è detto che accada, o che accada nella stessa misura, per tutte le opere di Dante e per tutte le diverse fasi della vita in cui ha scritto questa o quell’opera. A mio giudizio – fondato su una non breve esperienza di ricerca – nel caso del De vulgari eloquentia ciò si dà in massimo grado. Di questo voglio avvertire il lettore: se gli propongo una serie di argomentazioni puntuali su dove il trattato sia stato composto non è per appurare circostanze estrinseche, ma perché sono convinto che il composito ambiente metropolitano bolognese, nelle sue distinte ma congrue componenti linguistiche, letterarie, culturali e politiche, è nel suo insieme talmente compenetrato con l’ideazione e la scrittura del trattato da risultare illuminante su ciò che il trattato, per molti aspetti costitutivi, è. Giudicherà il lettore se è o non è così, ma è giusto dichiarare subito che tutta l’argomentazione ambisce a dimostrare questo. 1.2. Una forte istanza a storicizzare distintamente i testi che Dante ha scritto, anno dopo anno, nelle fasi successive del suo esilio, spesso drammaticamente contraddittorie – fasi che Dante a volte ha potuto scegliere, a volte ha dovuto subire, o meglio che può avere scelto o subito, di volta in volta, in modi che non è facile per noi discriminare – è venuta dai libri di uMBerTo carPi (2004 e 2013a). I quali hanno suscitato forti reazioni, soprattutto di risentita difesa d’ufficio dell’autonomia di pensiero, dell’indipendenza di giudizio e della sovrana libertà espressiva del Poeta, sminuite dall’invadenza di condizionamenti esterni qualificati come ‘riduttivi’ ovvero ‘meccanici’ ovvero ‘deterministici’: tre termini-chiave suggestivi ma in concreto vuoti, dietro i quali aleggia innominato il peccato che una volta si sarebbe detto ‘materialismo volgare’. Io credevo che queste reazioni risentite, in una tradizione peraltro storicista come quella italiana, fossero dovute alla spiccata connotazione politica della proposta di Carpi, anche legata alla sua inconfondibile personalità di studioso marxista (nonché di politico tout court: nel 2004, quando uscì
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La nobiltà di Dante, Carpi aveva lasciato l’Università già da dieci anni, nei quali era stato senatore e sottosegretario all’Industria). Dunque una proposta che poteva apparire a qualcuno, o a molti, intrusiva e disturbante rispetto alla letteratura come forma, e addirittura lesiva nella sfera dell’etica del sommo poeta, e della relativa retorica monumentale: la proposta di Carpi, infatti, è stata spesso svilita come se rappresentasse un Dante ‘opportunista’ (termine che nei critici di Carpi ricorre), che si adatta per interesse ai condizionamenti politici del momento – una banalizzazione totalmente immeritata del pensiero di Carpi, questa sì ‘riduttiva’. A me, che sono convintissimo dell’opportunità, anzi della ovvia necessità, dell’attenzione storicizzante sollecitata da Carpi, e che vedo benissimo, perché è impossibile non vederli, gli ostacoli, i dilemmi drammatici e i pericoli anche mortali con cui Dante dovette fare i conti nei passaggi chiave della sua vita, insomma la condizione di dipendenza nella quale per tanta parte del suo esilio si trovò a dover vivere, pensare e scrivere, l’idea di un Dante ‘cortigiano’ (altra parola ricorrente) non appare minimamente confortata dai dati di fatto. Comunque, l’istanza storicizzante di cui sopra, in riferimento al De vulgari eloquentia, è stata definita «principio critico della contingenza» (Mangini 2017): la ritengo una formula felice, per significare che non singole estemporanee o datate prese di posizione, che ci interessano fino a un certo punto, ma il pensiero di Dante, l’originalissimo e audacissimo pensiero di Dante, sempre alla conquista di nuovi territori, sempre totalizzante, nella sua continua evoluzione risente anche delle contingenze entro le quali viene via via prodotto, in risposta agli stimoli intellettuali offerti da quel particolare ambiente, in dialogo con quegli specifici destinatari e interlocutori, e alimentato dall’investimento personale, addirittura esistenziale, dell’autore sul suo rapporto con quei destinatari e interlocutori. E che, di conseguenza, ricercare quegli ambienti, quei destinatari e interlocutori, possa (non dico che debba, ma possa) – e tanto più in un caso, come quello del De vulgari eloquentia, in cui il luogo di composizione non sia noto per documentazione esterna – rivelarsi istruttivo, forse molto istruttivo, ai fini dell’intelligenza del testo. Insomma il «principio critico della contingenza» mi sembra, o meglio mi sembrava, una saggia e necessaria ovvietà, installata nella fisiologia dei rapporti umani e sociali, nei quali la scrittura letteraria, e tanto più in questo caso la scrittura di un trattato, rientra. Quale sarebbe, infatti, l’alternativa? Potremmo ritenere che ciò che pensiamo e affermiamo, di norma, non abbia alcun rapporto (di osmosi ma anche di dialettica e di opposizione, a seconda dei casi) con l’ambiente in cui viviamo? Non ne raccoglie gli stimoli? Non lo concepiamo come una nostra risposta a quegli stimoli, una risposta che potrà calarsi nella situazione esterna e agirvi, concretizzando nel mondo intorno a noi la nostra responsabilità intellettuale ed etica? Dunque il «principio critico della contingenza» mi sembrava scontato, e mi sembrava
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che tale dovesse apparire a chiunque; tanto più, ripeto, sullo sfondo di una tradizione storicista come quella italiana. Ma ho dovuto ricredermi. La manifestazione di tale principio, in riferimento al De vulgari eloquentia, ha suscitato, accanto a manifestazioni di consenso molto qualificate1, manifestazioni di dissenso che non mi sarei aspettato, se non altro perché la loro inconsistenza le esponeva a fare poca strada; ma soprattutto ha suscitato una sorta di resistenza passiva, che sono arrivato a percepire tardi, e di cui solo ora credo di aver capito la ragione. La ragione è che non si tratta di una reazione all’istanza marcatamente politica rappresentata da Carpi, che in quanto tale mi aspettavo potesse risultare ostica alla sensibilità media di studiosi di letteratura e filologia – reazione che infatti Paolo Pellegrini (2015), con elegante metafora, definisce «arginare la piena». No, c’è una chiusura silenziosa più diffusa, che sembra resistere non solo a un’intrusione di condizionamenti politici sentita come ‘eccessiva’, ma a qualunque attenzione ai possibili collegamenti fra i testi e le condizioni storiche, anche puramente culturali, dell’autore che li concepisce e li scrive. E questa chiusura, per quanto continui a sembrarmi strano, non data dagli anni Duemila, ma risale agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Solo in questi ultimi anni ho percepito, per esperienza diretta, quanto fosse fondata l’opposizione focalizzata da giuliano Milani e anTonio MonTefusco, Edd. (2014, pp. 1-4) fra l’assetto della dantistica, per prendere due date emblematiche, nei centenari del 1921 e del 1965. Nell’assetto 1921 «l’incontro tra studiosi di discipline diverse […] lasciava spazio a larghe zone di condivisione. Così il filologo Barbi non disdegnava di capire cosa differenziasse Dante da Cavalcanti nella visione del regime di Popolo, il giovane storico Salvemini discuteva insieme alla sua tesi che sarebbe diventata Magnati e popolani anche una tesina sull’identificazione di quale fosse il pianeta a cui si alludeva in Purgatorio I, 19, lo storico del cristianesimo Ernesto Buonaiuti, dopo aver riflettuto sulla coesistenza tra agostinismo e tomismo, concepiva la Commedia come nuova Apocalisse […]. Tutto questo continuò fino alla guerra e oltre, ma nell’apparente continuità andava in realtà maturando una profonda trasformazione, effetto del cruciale ingresso dell’idealismo nella cultura italiana, su cui si sarebbero innestate, in seguito, profonde innovazioni metodologiche». Si arriva così all’assetto 1965, «quando troviamo la Società Dantesca sotto la direzione già consolidata di Gianfranco Contini», negli studi del quale «emerge un orientamento che, valorizzando l’impegno dantesco sul terreno esclusivamente linguistico, induce a una messa tra parentesi della storia (e conseguentemente della biografia) come 1 Zanni (2011, pp. 285 e 293-297); gensini (2012, pp. 280-281); Tesi (2012, pp. 38-39); PerTile (2015, pp. 468 e 486); alBanese-PonTari (2016, pp. 91-92 e n. 137); Mangini (2017); anTonelli (2017a, p. 184 n. 30); anselMi (2021, pp. XXXIII-XXXVIII); Quaglioni (i.c.s.).
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principale fonte di spiegazione se non di interpretazione del testo». Non credevo che questo ‘assetto 1965’ rappresentasse ancora il senso comune implicito di parecchi addetti ai lavori. 1.3. Per la ragione prospettata al paragrafo precedente, è necessario presentare gli argomenti a favore di Bologna in ordine storico, via via che sono stati presentati e discussi, o rimossi, a partire dall’edizione Marigo del 1938 fino a oggi, perché solo così la logica della discussione o non discussione di quegli argomenti diventa visibile. Infatti, come apparirà chiaro, ciò che ha determinato il loro accoglimento o non accoglimento non è la significatività ovvero probabilità di ciascun argomento, o di tutti gli argomenti visti nel loro complesso (questo, per quanto possa apparire strano, non entra quasi mai in gioco), ma l’atteggiamento pregiudiziale di apertura o di chiusura, cioè di interesse o di attivo disinteresse, verso qualunque possibile incidenza delle circostanze biografiche sull’opera, anzi di qualunque possibile relazione tra circostanze biografiche e opera. Se ho detto «argomenti a favore di Bologna» invece di «argomenti pro e contro Bologna», è solo perché di argomenti contro la localizzazione del De vulgari eloquentia a Bologna non ne esistono. Esistono solo obiezioni che sono state mosse agli argomenti a favore, obiezioni che saranno scrupolosamente riferite punto per punto, e su cui il lettore si formerà il suo giudizio. O meglio: l’unico argomento che sia stato prodotto contro la localizzazione a Bologna è proprio di Carpi, convinto che Dante non potesse risiedere a Bologna negli anni in cui scriveva il De vulgari, cioè da metà 1304 a inizio 1306, perché al momento della cosiddetta battaglia della Lastra (20 luglio 1304) aveva rotto definitivamente con l’Universitas Alborum e con l’intero schieramento delle sue alleanze, il che doveva renderlo, agli occhi del Comune guelfo bianco di Bologna, un nemico e un traditore. Ma questo argomento è sbagliato, come credo risulterà dimostrato ai §§ 2.9 e 3.2. È curioso che gli studi di Carpi hanno rappresentato per me un importantissimo stimolo a occuparmi della biografia di Dante, ma il risultato della mia ricerca biografica circa il De vulgari è del tutto diverso dalla tesi che lui sosteneva. Dunque la sezione 2 del presente saggio s’intitola «Dove è stato scritto il De vulgari eloquentia? Storia della questione, 1938-2021». Metabolizzata la presentazione degli argomenti in ordine storico, sarà poi possibile ripercorrerli in ordine logico-sistematico nella sezione 4: «Indizi testuali e altri argomenti a favore di Bologna: quanto sono probanti?». Ma prima sarà opportuno chiarire, dedicandovi una specifica sezione 3, una condizione preliminare: se, cioè, Dante avesse o non avesse piena agibilità politica di Bologna negli anni in questione, 1304-1305. Se il risultato di questa verifica storico-politica sarà positivo, gli «indizi testuali e altri argomenti a favore di Bologna» potranno posarsi su un terreno solido.
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La storia raccontata nella sezione 2 è una storia istruttiva, un capitolo interessante della dantistica e della filologia italiane. Dal quale emerge, fra l’altro, che non esiste un solo argomento a favore della localizzazione del De vulgari a Treviso. A favore di Bologna ci sono argomenti sovrabbondanti, a favore di Treviso neanche uno. Eppure le biografie uscite negli ultimi sei anni presentano Treviso o senz’altro come l’unica localizzazione probabile (perfino al punto di non nominare nemmeno Bologna!), o come un’alternativa equiprobabile a Bologna. Strano ma vero. Ed è una delle ragioni per cui questo è un capitolo interessante, in tutti i sensi, nella storia della dantistica e della filologia italiane. Comunque, la notizia merita di essere messa in evidenza, ciò che provvede a fare la sezione 5, intitolata «L’alternativa Treviso non esiste».
2. Dove è stato scritto il De vulgari eloquentia? Storia della questione, 1938-2021 2.1. Aristide Marigo, editore e autore del poderoso commento (1938) che ha rappresentato il punto di riferimento indiscusso per il De vulgari per i successivi tre-quattro decenni, espone così la convinzione a cui lo ha portato il suo approfondito studio del testo (pp. XXIV-XXVI):2 Dove egli fosse ed in quali circostanze vivesse per esprimere un così alto sentire e fiducia di sè [si riferisce al passo «quantum vero [il volgare illustre] suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus» (I, xvii, 6)] non possiamo dire; ma la nostra mente corre a quello che fu per lui «primo rifugio» dalla vita combattiva ed agitata e «primo ostello» di pace per lo spirito, la corte di Bartolomeo della Scala. Se pensiamo invece quale dei luoghi che gli furon dimora nell’esilio era più atto a suggerirgli il disegno di un’opera come questa, materiata di cultura tradizionale nei campi più diversi, e quale più atto ad offrirgli raccolte di libri di varia scienza, coll’opportunità di giovarsi d’un indirizzo magistrale superiore e contatti col mondo della cultura internazionale, non esiteremo a fermare la nostra attenzione su Bologna. Appena sfuggito agli infidi scogli della politica di parte, è naturale pensare che Dante prendesse più stabile dimora in questa città, dove anche nel primo anno dell’esilio doveva aver fatto non brevi soggiorni, come in quella che era il rifugio degli esuli toscani ed il fulcro di resistenza contro i Neri. Anche non lo attestassero Giovanni Villani, il Boccaccio e Leonardo Bruni, saremmo ugualmente certi di una dimora del Poeta, fattavi fors’anche per attendere agli studi nell’Università celebratissima per il giure e la retorica, nella quale convenivano gli scolari delle più lontane regioni d’Italia e delle nazioni colte d’Europa. Egli ha conoscenza del dialetto di Bologna a tal punto da sapere
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Il brano resta identico in tutte le successive ristampe aggiornate fino al 1968.
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distinguere le sfumature dialettali che differenziano il parlare di un popolano di Borgo San Felice da quello di un cittadino della Strada Maggiore (I, ix, 4) […]. In questo interessante osservatorio di varietà etniche e culturali, di lingue, costumi e civiltà diverse, Dante ha certo studiato e comparato, come meglio poteva, i dialetti delle varie regioni d’ Italia, ha appreso qualche notizia sulle lingue e letterature del nord e nord-est europeo; vi avrà anche studiato più a fondo le poesie dei trovatori e dei troveri e fors’anche appreso da scolari teutonici qualche cosa intorno ai «Minnesinger», mentre ampliava la conoscenza sulle tendenze d’arte dei poeti di ogni parte d’Italia. Qui può avere approfondito il suo sapere filosofico, completando la dottrina acquistata a Firenze «ne le scuole de li religiosi e a le disputationi de li filosofanti» e quello teologico; e riprendendo lo studio dell’arte di retorica – che il movimento preumanistico pur qui faceva rifiorire – può avere sviluppata l’idea centrale del trattato, che anche per una lingua volgare, che assurga a dignità letteraria, potevano valere i fondamenti teorici ed alcuni dei precetti tradizionali per la composizione d’arte in latino (II, iv, 2-6). Ed a Bologna è probabilissimo che si sia ancor più strettamente legato con Cino da Pistoia – che vi dimorò tra il 1303 ed il 1306 ed ottenne nel 1304 il baccellierato – con quella amicizia che ci rivela il trattato, consolidata, oltre che da comunanza di sventure e, al disopra delle piccole lotte di parte, da alti ideali politici, anche negli studi e nella reciproca ammirazione per il frutto più bello del loro ingegno, la poesia. Concludendo diremo che il De Vulgari Eloquentia fu verosimilmente meditato e preparato nella materia di studio a Bologna e fu steso forse a Verona: di seguito e rapidamente (a giudicare dallo stile) fino al cap. IV del libro II, più lentamente da questo punto fino all’interruzione dell’opera.
Tranne qualche informazione storica collaterale, che negli ottant’anni successivi la ricerca ha rettificato, tutto questo è e resta vero. Sembra scritto ieri. Ed espresso con correttissima cautela. Marigo nella prima frase scrive: «Dove egli fosse ed in quali circostanze vivesse […] non possiamo dire», cioè premette che tutti gli elementi che seguono non costituiscono prova documentale che Dante abbia scritto il trattato a Bologna, e nell’ultima frase scrive (corsivo mio): «Concludendo diremo che il De Vulgari Eloquentia fu verosimilmente meditato e preparato nella materia di studio a Bologna». Tutti gli elementi da Marigo ottimamente sintetizzati, dunque, sono ‘soltanto’ elementi di profonda sintonia fra l’impostazione e i contenuti di fondo del trattato e l’ambiente culturale, universitario, poetico, linguistico e politico bolognese, e solo con esso, ai quali si aggiunge l’eccezionale congruenza delle fonti messe in opera nel De vulgari con le risorse bibliografiche uniche di Bologna. Scusate se è poco. 2.2. Davanti alla tesi bolognese sostenuta dal diretto predecessore Marigo con gli argomenti e con la convinzione che abbiamo visto, Pier Vincenzo Mengaldo, nell’Introduzione alla sua edizione critica (1968) non potrebbe essere più dismissive (pp. XVI-XVII):
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Ancora meno si può dire del luogo o dei luoghi in cui il trattato sarebbe stato scritto. L’oscurità in proposito discende direttamente dalla nostra sostanziale ignoranza della sezione di biografia dantesca che sta tra il soggiorno a Forlì e a Verona e quello presso i Malaspina, tra il 1304 e il 1306, cioè giusto nell’arco di tempo che ci interessa. Che qualcosa di preciso si possa dedurre, come altri ha pensato, dal tenore e grado delle conoscenze dialettali palesate nell’opera, io non credo. E non credo in particolare che la puntuale distinzione fra le parlate del centro e della periferia di Bologna (I, ix, 4) testimoni in favore di una presenza stabile in quella città nel periodo in questione: intanto perché son forti gli indizi di un soggiorno bolognese nella giovinezza (1286-87?)3, e perché ovviamente Bologna doveva pure essere stata ed essere un punto di passaggio obbligato per l’esule; secondariamente perché, e contrario, la sicura e non breve dimora a Verona in epoca immediatamente precedente o contemporanea al trattato non impedisce che la caratterizzazione del veronese sia la più generica e corsiva tra quelle, di norma piuttosto puntuali, tentate nel De V. E.4 Che l’opera poi presupponga, almeno, un rapporto abbastanza preciso con la cultura latina e volgare della Bologna del tempo pare, come vedremo, ben probabile, ma è metodicamente corretto tener distinti i due ordini di problemi.
La tematizzazione stessa di Bologna, che direi si imponesse data la pagina che abbiamo appena letta di Marigo, viene diluita nella vaghezza «del luogo o dei luoghi in cui il trattato sarebbe stato scritto», su cui «ancora meno si può dire». Il periodo primavera 1304-ottobre 1306, che era stato presentato come una precisa finestra delimitata fra i due eventi datati, prima e dopo, nella vita di Dante – cioè la partecipazione al tentativo di pacificazione di Niccolò da Prato nell’aprile-maggio 1304 e la partecipazione alla pace di Castelnuovo Magra il 6 ottobre 1306 – si riduce alla «sostanziale ignoranza […] giusto nell’arco di tempo che ci interessa». Tutti i contenuti testuali e storici addotti da Marigo sono evaporati, persi nell’«oscurità». Restano solo le «conoscenze dialettali palesate nell’opera», di nuovo plurali, in mezzo alle quali «la puntuale distinzione fra le parlate del centro e della periferia di Bologna (I, ix, 4)» si stempera, insieme con la «successiva elezione del bolognese a pulcrior loquela fra le municipali». Tutte le altre connessioni, parecchio stringenti, evidenziate da Marigo vengono ascritte a «un rapporto abbastanza preciso con la cultura latina e volgare della Bologna del tempo», che si ammette «probabile», ma dal quale non sarebbe «metodicamente corretto» ricavare nulla che ci aiuti a capire niente sull’ambiente nel quale il trattato sarebbe stato ideato e scritto. 3 Cfr. conTini, Ed. (1970, p. 397 n. 10), a commento del cap. I ix 4 antologizzato: «Sulla via Emilia, rispettivamente nella parte occidentale (allora suburbana) e nella orientale della città. Bologna era familiare a Dante fin dalla sua giovinezza, come risulta dal sonetto sulla Garisenda, di modo che è vano tentar di ricavare da questa menzione, come del resto più sotto da quella di Pavia, il minimo indizio sulle residenze di Dante al tempo del De vulgari». 4 Ma questo non è vero, si fonda su una lezione congetturale oggi superata (magara) di I xiv 5: v. qui n. 18.
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Ancora più sintomatiche queste frasi (p. XVII n. 1): La presenza di Dante a Bologna tra il 1304 e il 1306 è un luogo abbastanza comune tra gli studiosi (spesso addirittura con congetture sulla sua partenza dalla città dopo il patto dei bolognesi coi guelfi toscani del marzo 1306), e sarà anche probabile, ma non è provata; le notizie di biografi trecenteschi e più tardi, fra l’altro non concordi sul momento e il rapporto con altri soggiorni, sono solo un indizio.
Gli studiosi (Marigo non è l’unico) che hanno sostenuto questa tesi non hanno nome; la tesi, svuotata dei suoi contenuti, è declassata a «luogo comune» (non a ‘opinione diffusa tra gli studiosi’, che sarebbe il modo per dire la stessa cosa con connotazione neutra, mentre di un «luogo comune» la conoscenza critica può solo volersi sbarazzare). Quanto alla parentesi «spesso addirittura con congetture…», il patto dei bolognesi coi guelfi neri toscani del 5 aprile 1306 era vòlto «ad conculcationem, depressionem, exterminium atque mortem perpetuam ghibellinorum et alborum»5: se Dante in quel momento si fosse trovato a Bologna, sarebbe una «congettura» fuori luogo ipotizzare che fuggisse per salvare la pelle? Una congettura da focalizzare con «addirittura», per significare fino a che punto sarebbe fuori luogo? L’attenzione viene spostata sulle notizie dei biografi, che in effetti testimoniano un soggiorno di Dante esule a Bologna, e quindi non possono essere ignorate, ma che Mengaldo svaluta. Con ciò l’attenzione viene distolta dagli elementi interni al testo che chiamano a Bologna, che sono la cosa più importante, perché attengono a punti quanto mai qualificanti, dunque significano che la localizzazione è intrinseca al testo. Chi erano, oltre a Marigo, gli altri sostenitori della «presenza di Dante a Bologna tra il 1304 e il 1306», che Mengaldo sussume anonimamente sotto il «luogo comune»? È probabile che uno fosse Paul renucci, che nel suo Dante disciple et juge du monde gréco-latin (1954) nel cap. I.I «De Vérone à Bologne et à la Lunigiana: les témoignages du Convivio et du De Vulgari Eloquentia» (pp. 58-83 e 149-160), aveva sviluppato ampiamente la tesi bolognese, con dati e ragionamenti tutt’altro che peregrini (poi ripresi anche in renucci 1958, pp. 80-94). Mi chiedo se Mengaldo non fosse influenzato dal fatto che questo libro di Renucci, pur ponderoso e di aspetto accademico ed editoriale di tutto rispetto (l’autore, del resto, era cattedratico di letteratura italiana alla Sorbona), era stato stroncato, insieme al suo libro precedente sul Rinascimento, da Billanovich (1957-58) – non per Bologna, per tutto il resto. Un altro libro che era, questo sicuramente, presente a Mengaldo, era Dante e i trovatori provenzali di salvaTore sanTangelo (19592). Nel quale il soggiorno di Dante a Bologna tra il 1304 e il 1306 era un architrave dell’intera ‘ricostruzione’ (pp. 98-99): 5
orioli (1896, p. 4).
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Distinguo tre periodi nella formazione della cultura trobadorica di Dante, che si riflettono poi nelle sue opere. Nel primo periodo, che va fino all’esilio, e possiamo perciò denominar fiorentino, Dante ha una conoscenza molto superficiale della lingua e letteratura provenzale. Nel secondo, che va dalla primavera del 1304 alla primavera del 1306, Dante è molto probabilmente a Bologna, ove conosce e studia il canzoniere provenzale e le Rasos di R. Vidal, e compone le canzoni morali, i primi tre trattati del Convivio e quasi tutto il De vulgari eloquentia, oltre a buona parte dell’Inferno: il suo trovatore prediletto è Giraldo de Bornelh. Nel terzo periodo Dante non dispone più dei testi provenzali di cui sopra, ma conosce una fonte storica che gli fornisce alcune notizie sui trovatori. Cadono in questo tempo le rime della pietra, il quarto del Convivio, gli ultimi capitoli del De vulgari eloquentia e il rimanente della Commedia, a cominciare dagli ultimi canti dell’Inferno: il poeta provenzale di cui Dante abbia ora più stima è Arnaldo Daniello.
Tanto sprezzo del pericolo si commenta da solo, ma non è colpa dei biografi trecenteschi che mettono Dante a Bologna se sono stati inglobati in una cosa così. Che ha riscosso unanime esecrazione nell’ultimo sessantennio, da folena (1961, p. VI n. 10): Ci sono in questo quadro degli ottimi spunti ricostruttivi, ma i fondamenti empirici e soprattutto le catastrofiche deduzioni cronologiche vanno respinti in blocco;
a forMisano (2012, p. 268): Naturalmente, questa periodizzazione, gravida di conseguenze non indifferenti anche dal punto di vista biografico, non solo è ipotetica, ma inaccettabile.
Come se non bastasse, le tesi di Santangelo erano riprese in blocco (compresa la perentoria asserzione «Dante non poteva trovarsi che a Bologna», p. 6) nell’edizione del De vulgari del suo allievo Bruno Panvini, che veniva pubblicata, con non felicissimo tempismo, nello stesso anno di quella di Mengaldo (se ne veda la recensione del tutto negativa di Mengaldo 1970). Comunque, il libro di Santangelo avrà contribuito a far distogliere lo sguardo di Mengaldo da Bologna, ma la sua riluttanza all’ancoraggio biografico del trattato a una determinata città, coi suoi condizionamenti culturali e politici, a mio giudizio ha una ragione più profonda, in rapporto con l’‘idea di Dante’ di Contini, con la quale il De vulgari eloquentia di Mengaldo è in totale sintonia6. Quella è una grande stagione della filologia italiana7, e 6 Su questa sintonia mi soffermo in Tavoni (i.c.s., § 1). L’‘idea di Dante’ di Contini ha ovviamente dato il titolo alla sua classicissima raccolta di saggi danteschi (1970) scritti fra il 1938 e il 1968. 7 Basti ricordare, oltre all’edizione Petrocchi della Commedia (1966-67, 2a ed. 1994), le edizioni critiche che vengono messe in cantiere allora per iniziativa della Società Dantesca: l’edizione Brambilla Ageno del Convivio che vedrà la luce nel 1995 e l’edizione De Robertis delle Rime che vedrà la luce nel 2002; inoltre le Concordanze della lingua poetica italiana delle origini curate da
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l’edizione critica e commentata di Mengaldo, in quegli anni giovanissimo maestro, è un capolavoro di scienza e intelligenza che ha nutrito e continua a nutrire generazioni di lettori da decenni. Di quella stagione condivide qualità e limiti. La personale idiosincrasia di Contini per qualunque contaminazione tra fatti biografici e poesia è conclamata8. La pagina che abbiamo letto sopra di Mengaldo dà il messaggio che interrogarsi sulle circostanze biografiche è poco interessante, anche nel caso che un testo (e non una lirica, ma un trattato pieno di storia) contenga una quantità di informazione di rilevanza storico-biografica più che probabile ed evidentemente significativa, seppur non certificata da documenti (ma pochissimo nella vita di Dante è certificato da documenti). È una posizione culturale del tutto legittima, fondata su presupposti impliciti di grande finezza intellettuale – direi in qualche rapporto con le «profonde innovazioni metodologiche» a cui alludono Milani e MonTefusco, Edd. (2014) citati al § 1.2, cioè con l’introduzione dei metodi formali, che tutti noi di quella generazione (io, per età, come semplice studente e studioso alle primissime armi) abbiamo vissuto simpateticamente9. È una posizione culturale che abilita a vedere aspetti del testo importanti e difficili da vedere – ma che a quanto pare ha scoraggiato dal vederne altri altrettanto importanti. È un muro alzato fra il testo e la storia che l’ha prodotto. In questo caso specifico, la rimozione di Bologna fa il paio con l’interpretazione del trattato solo come riflessione linguistica, stilistica e metrica sulla poesia, e come autoesegesi sulla propria poesia, non cogliendo l’importanza delle istanze filosofiche e politiche, anche d’attualità, che strutturano tutto il primo libro, e che non possono essere scisse, pena un grave limite nella comprensione del testo, dalle coordinate politiche che condizionano la vita dell’esule e dell’intellettuale in quegli anni. 2.3. Il convegno Dante e Bologna nei tempi di Dante, tenuto nell’ambito delle celebrazioni del VII centenario della nascita, e i relativi atti pubblicati nel 1967, ci danno un’importante informazione su quello che potremmo definire il sentire medio della dantistica, a proposito del rapporto fra De vulgari eloquentia e Bologna, poco prima della pubblicazione dell’edizione Mengaldo. Questo ‘sentire medio’ conferma che la reazione di Mengaldo non è affatto isolata, anzi tutto l’assetto del convegno sembra costituirne la coerente preparazione. Spicca infatti, in tutto il convegno, l’assenza di una Avalle con il concorso dell’Accademia della Crusca (1992) e l’edizione Leonardi dei canzonieri delle origini (2000-01). 8 Su questa idiosincrasia cfr. Tavoni (2007, pp. 1063-1069). 9 A Pisa seguivamo i seminari di Francesco Orlando ed eravamo adepti del Contre SainteBeuve.
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comunicazione sul De vulgari eloquentia. Ci sono comunicazioni, e molto autorevoli, praticamente su tutti i temi poetici-retorici-stilistici-linguistici trattati nel De vulgari eloquentia: Dante e Guinizzelli (Spongano); precedenti e significato dello Stilnovo dantesco (Roncaglia); lo Stilnovo, Onesto da Bologna e Dante (Marti); Dante e la retorica (Nencioni); il latino dei dettatori e quello di Dante (Brugnoli); la transumptio nei dettatori bolognesi e in Dante (Forti); il giudizio di Dante sul dialetto bolognese (Heilmann). Ma non c’è una comunicazione sul trattato dantesco in quanto tale. La compatta argomentazione che il primo commentatore del De vulgari aveva proposto, che collegava il trattato a Bologna, e che era stata ulteriormente sviluppata almeno da renucci (1954, 1958), viene lasciata cadere. In tutti i contributi sopra elencati il De vulgari viene citato, qua e là, per argomenti specifici, ma non viene mai evocato come testo che possa essere stato ideato e scritto a Bologna, come aveva proposto chi aveva notato che ha un profondo legame, molto probabilmente genetico, con la cultura di Bologna di quegli anni. Per un convegno che s’intitola Dante e Bologna nei tempi di Dante trovo singolare questa unanime cancellazione del più forte legame biografico che fosse mai stato proposto, autorevolmente, fra Dante e Bologna. Non troverei affatto strano se questo legame fosse stato studiato e contestato, con argomenti, giungendo alla conclusione che non sussiste. Ma che sia stato ignorato, come una cosa di cui semplicemente non si parla, mi appare davvero strano. Almeno Heilmann lo ha scritto, nel suo intervento dedicato proprio al giudizio di Dante sul dialetto bolognese (p. 153): Non interessa qui il tempo e la durata della dimora bolognese di Dante, né il problema se il De vulgari eloquentia fosse, tutto o in parte, redatto in questa città.
Sì, ma chi aveva deciso che questo non interessava? Non si sa, eppure fra tutti i relatori c’è il tacito accordo che questo non interessa. La relazione di gran lunga più interessante sul rapporto fra Dante e Bologna è quella dello storico Girolamo Arnaldi. Anzitutto, Arnaldi aveva capito benissimo qual era il comune sentire dei suoi colleghi letterati: «Molte delle interessantissime relazioni che abbiamo ascoltato si reggerebbero benissimo in piedi anche se venisse meno il supporto del soggiorno bolognese di Dante: le canzoni avevano notoriamente le ali, ma anche i codici, le mode letterarie, le idee viaggiavano con relativa facilità». Aggiungendo: «Il mio personale sviluppo del tema del Convegno presuppone invece un Dante, in carne ed ossa, a Bologna» (p. 172). E di qui stimolanti spunti sull’importanza che ha avuto, per la formazione della visione politica di Dante, s’intende del Dante uomo politico, il suo primo soggiorno a Bologna, l’unico riconosciuto, quello collocabile nel 1286-87, per cui «il famoso allargamento dell’orizzonte di Dante non avrebbe insomma proceduto da Firenze all’Italia, bensì da un’esperienza che era stata insieme, e sia pure in diversa misura, fiorentina e
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bolognese, all’Italia» (p. 173). E poi una prospettiva di rapporti con Bologna che, passando per l’azione di Dante priore, si protende in continuità verso il primo periodo dell’esilio: «Non a caso, quindici-venti anni dopo, quando Dante, nell’ottobre del 1301, lascerà Firenze insieme all’ambasceria inviata in tutta fretta a Roma, in un ultimo tentativo di scongiurare la venuta del ‘paciaro’ Carlo di Valois (l’ambasceria dalla quale Dante non farà più ritorno), la delegazione fiorentina attese, per muoversi, l’arrivo di una delegazione bolognese che doveva dare man forte nelle trattative, in una causa che, da tempo, era chiaramente di interesse comune»10. Interessante anche la relazione di Gianfranco Orlandelli sui Memoriali bolognesi come fonte per la storia ai tempi di Dante, che fa da trait d’union fra la stagione delle ricerche d’archivio tra Otto e Novecento, fiduciose di trovare tracce della presenza di Dante a Bologna (prima dell’esilio, all’epoca del sonetto alla Garisenda), e l’importante revival delle ricerche d’archivio di oggi, di cui darò conto al § 2.16. E interessante, infine, la relazione di Stefano Bottari sui miniatori Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese (Pg XI 79-84), che conclude che il primo risulta attivo a Bologna alla fine degli anni Sessanta del Duecento, mentre «l’attività di Franco […] scavalca per tempo quella di Oderisi, e verosimilmente s’addentra nel ’300» (p. 59) – fatto di evidente diretta pertinenza al tema che stiamo qui trattando, di un secondo soggiorno bolognese di Dante in coincidenza con la stesura del De vulgari 11. A questo proposito laura PasQuini (i.c.s) trova poco verosimile che Dante abbia voluto citare, per l’arte della miniatura, due personaggi secondari o addirittura di fantasia; è invece verosimile credere che Oderisi e Franco siano miniatori realmente esistiti e di un certo prestigio, che alla stessa stregua di Cimabue e di Giotto potevano consentire al poeta di formulare valutazioni immediatamente riscontrabili dal suo pubblico, che come lui poteva verificare una evoluzione nota e assodata in merito alle significative trasformazioni dell’arte, rilevabile anche nell’ambito del testo miniato.
E, sulla base di questo assunto quanto mai logico, suggerisce la possibile identificazione di Oderisi e Franco con due maestri salienti della miniatura bolognese del tardo Duecento e del primo Trecento le cui caratteristiche stilistiche sembrano corrispondere alle parole ‘tecniche’ di Dante («quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi […] più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese»): cioè rispettivamente il Maestro della Bibbia di Gerona 10 L’idea è stata approfondita e ha avuto interessanti sviluppi: v. BorToluZZi (i.c.s.) e qui sezione 3. 11 Cfr. anche Tavoni (2014c, pp. 63-65 e 2015, pp. 246-248). Medica (2021, pp. 43-51), nel trattare di «Dante e Bologna: Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese», segue sanTagaTa (2012) e assume per certo che Dante abbia risieduto a Bologna dal 1304 al 1306.
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(Biblioteca Capitolare, ms. 10) e il Maestro della Bibbia Lat. 18 della Bibliothèque Nationale de France. Il primo campione del cosiddetto ‘secondo stile’ (ultimo terzo del sec. XIII), il secondo, «sullo scorcio del Duecento, già in vista del secolo successivo», che Dante può aver conosciuto nel suo secondo soggiorno bolognese, rappresentante di un’ulteriore evoluzione […] dove le sollecitazioni dovute al retaggio della cultura bizantina lentamente si stemperano in una sempre maggiore aderenza a ritmi di stampo ormai pienamente gotico, con una pittura più corposa ed effetti di vigorosa plasticità che sembrano già interloquire con la cultura giottesca assisiate.
2.4. Nel 1966 Giorgio Petrocchi pubblica l’articolo La vicenda biografica di Dante nel Veneto. Nel quale, per prima cosa (pp. 90-95), focalizza il soggiorno di Dante presso Bartolomeo della Scala, dal maggio-giugno 1303 (arrivo dopo la rotta dei Bianchi a Castel Puliciano), alla tarda primavera 1304 (partenza verosimilmente causata dalla morte di Bartolomeo, il gran lombardo suo ospite, il 7 marzo, e dal concomitante richiamo a Firenze per il tentativo di pacificazione del cardinale Niccolò da Prato, aprile-maggio). È questa un’acquisizione confermata dalla ricerca successiva12 e oggi direi considerata definitiva. Dopodiché, prosegue Petrocchi (pp. 95-96): S’aprono anni nei quali è ancor più difficile seguire le vicende di Dante, e sovente impossibile. Per restare ai contatti col mondo veneto […] s’affaccia la suggestiva ipotesi d’un soggiorno dantesco a Treviso, presso Gherardo da Camino, il quale venne a morte nel 1306, e l’ipotesi vien presentata a fianco ad altra (offerta da Benvenuto) che vuole il poeta a Padova, ad ammirare il lavoro di Giotto (130405) nella cappella degli Scrovegni. Lo spazio di tempo sufficiente c’è, di quasi due anni, prima che con certezza ritroviamo il poeta (6 ottobre 1306) salire l’erta che da Sarzana porta a Castelnuovo, come procuratore di pace presso il vescovo di Luni, da parte dei nuovi suoi ospiti Malaspina, Franceschino e Moroello. La tradizione vuole inoltre che in questo stesso biennio Dante soggiornasse o almeno visitasse Venezia, il ricordo del cui arsenale è troppo minuzioso nei particolari, in un palese compiacimento di ‘cosa vista’, per collocarsi tra quelle determinazioni o comparazioni geografiche guidate dal dono della fantasia, Bruggia, Arli, Pola, ecc., e non tra le aperte denunce di esperienza personale (Io vidi già).
È con queste parole che viene lanciata la proposta di Treviso, poi destinata a tanta immeritata fortuna come ‘probabile’ sede di stesura del De vulgari eloquentia (anche se Petrocchi poi collocherà tale stesura a Verona nel 130304). Petrocchi non dice su quali basi gli «s’affacci la suggestiva ipotesi», che infatti non si basa su niente, se non il nome di Gherardo da Camino, che 12
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indiZio (2004, pp. 94-97 e 99-100); Tavoni (2014b, pp. 59-66, poi 2015, pp. 11-120); Pon(2015, pp. 192-193); Pellegrini (2016, pp. 50-53 e 59; 2018, pp. 34-36 e 42).
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Dante cita elogiativamente in Cv IV xiv 12-13, e, per bocca di Marco Lombardo, in Pg XVI 124; e sul fatto che in Pd IX 49 conferma di sapere cosa sono il Sile e il Cagnano – come non so quanti altri toponimi, personaggi e fatti di cronaca veneti e non veneti13. Ma la domanda preliminare e fondamentale, che nessuno si è posto, è: perché qui, dove Petrocchi si chiede come riempire gli anni 1304-1306 della vita di Dante, non nomina neanche Bologna? Quelli sono gli anni del Convivio e del De vulgari eloquentia. Petrocchi non poteva ignorare che l’editore del De vulgari eloquentia suggeriva con forza, e con argomenti un po’ più sostanziali del Sile e del Cagnano, che il trattato era intimamente legato a Bologna. Non poteva ignorarlo se non altro perché sul De vulgari eloquentia aveva tenuto due corsi di storia della lingua italiana all’Università di Messina negli anni accademici 1957-58 e 1960-61, le cui dispense sono pubblicate e ancora consultabili nelle biblioteche. E conosceva anche il libro di Paul renucci (1954), che sul De vulgari e Bologna si effonde per trenta pagine, e che Petrocchi cita più volte nel suo saggio del 1957 sulla pubblicazione dell’Inferno e del Purgatorio. Dunque perché ha cancellato Bologna? Questa cancellazione è in sintonia con quella operata dal contemporaneo convegno Dante e Bologna nei tempi di Dante che abbiamo trattato al § 2.3, al quale Petrocchi prende parte (con una relazione sulla tradizione emiliano-bolognese della Commedia). Ma lì ogni partecipante semplicemente parla d’altro, e con ciò contribuisce a quella che potremmo chiamare, con un’espressione colorita, una congiura del silenzio circa il possibile prolungato soggiorno di Dante a Bologna mentre scriveva il De vulgari eloquentia. Nessuno di quei relatori si rende responsabile di occultare un’informazione scientifica esistente allo stato dell’arte. Quello che fa Petrocchi nell’articolo La vicenda biografica di Dante nel Veneto, invece, assomiglia molto alla consapevole omissione di un’informazione scientifica esistente allo stato dell’arte, perché, trattando da biografo di quali siano le sedi in cui Dante può aver risieduto negli anni 1304-06, omette di nominare la città che era stata proposta con argomenti enormemente più significativi delle varie città venete sulle quali trascorre a ruota libera. Comunque, Petrocchi conferma di non voler parlare di Bologna anche nella Biografia scritta per l’Appendice dell’Enciclopedia dantesca e pubblicata nel 1978. E riconferma la stessa intenzione anche all’atto di pubblicare la Vita di Dante in volume per Laterza nel 1983. Bologna non compare mai, in nessuna di queste successive versioni. Il brano del 1966 citato sopra rimane lo stesso, con variazioni insignifi13 serena (1921) scrutina tutte le testimonianze locali che hanno voluto far risiedere Dante a Treviso, ospite dei Caminesi, e conferma che si basano solo su questi tre passi, che non dimostrano nulla: cfr. qui sezione 5.
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canti, nella versione 1978 e nella versione 1983. L’occasionale «Per restare ai contatti col mondo veneto…», legato al fatto che l’articolo era destinato agli Atti del convegno Dante e la cultura veneta, sparisce, e al suo posto compare «decide, come sembra certo, d’esulare in Italia settentrionale», ma Bologna, pur essendo in Italia settentrionale, continua a essere assente. «La suggestiva ipotesi d’un soggiorno dantesco a Treviso, presso Gherardo da Camino» (1966, p. 95), ora «s’affaccia come la più probabile, stante il ripetuto elogio del buon Gherardo, dalle pagine del Convivio [IV xiv 3] alle terzine del Purgatorio [XVI 121-140]. Gherardo viene a morte nel 1306, e quindi un soggiorno dantesco dall’estate del 1304 alla metà del 1306 non è impossibile» (1978, p. 34). Cioè: si parte da «la più probabile», nella frase che precede, e si arriva a «non è impossibile», in quella che segue. Si sarà notato che questa perorazione a favore del soggiorno a Treviso non fa il minimo riferimento ai contenuti del De vulgari eloquentia, al contrario della proposta Marigo, che scaturiva dai contenuti fondamentali del trattato. Nella versione 1983 qualcosina del De vulgari viene citato, giusto le cose più in vista, cioè le osservazioni che Dante fa sui dialetti veneti e su qualche altra cosa veneta (p. 99): Il lettore del De vulgari eloquentia valuta la notevole esperienza che Dante possiede dei dialetti veneti: le sincopi deformanti dei participi dei Padovani, la citazione onorifica di Aldobrandino de’ Mezzabati, il ricordo d’un canto veneziano, «Per le plaghe de Dio tu no verras», i crudi accenti degli abitanti di Aquileia e dell’Istria; al limite delle cose non «viste» ma sentite dire: i sepolcri di Pola, il Carnaro, ecc.
Ed ecco la conclusione che ne trae Petrocchi (ibidem): Se si guardi ad uno solo di questi elementi, poco esso potrebbe provare, ma l’intera messe di suggestivi ricordi ha in complesso un peso determinante per ritenere possibile la presenza di Dante nel Veneto, né si potrebbe affermare quale altro periodo avanti la composizione e la divulgazione dell’Inferno possa essere ipotizzato fuori del biennio 1304-1306.
La presenza di Dante nel Veneto era presupposta come un dato di fatto già nel titolo La vicenda biografica di Dante nel Veneto, del 1966. E ora, alla terza versione, dopo 17 anni, il punto d’arrivo dell’argomentazione è solo che tale presenza è «possibile». E poi solo «nel Veneto», senza precisare dove nel Veneto. E poi non possibile «fuori del biennio 1304-1306», mentre proprio Petrocchi, nell’articolo del 1966, aveva dimostrato che Dante aveva risieduto a Verona dalla primavera 1303 alla primavera 1304. Per finire, nella versione 1978 e poi in quella 1983, qualche pagina più avanti Petrocchi dice dove pensa che possa essere stato composto il De vulgari eloquentia. Molto dubitativamente e poco coerentemente, e sempre suggerendo un’imprecisabile sovrapposizione nei tempi di composizione di un’opera con
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l’altra, l’ordine per Petrocchi sarebbe De vulgari eloquentia, Convivio, Inferno, e gli anni sarebbero più o meno questi (Vita di Dante, pp. 102-103): Se osserviamo con attenzione i due momenti meno turbati e più propizi al lavoro, l’anno scaligero 1303-1304 e il triennio lunigiano-toscano 1306-1308 (con particolare riguardo per il soggiorno presso Moroello e a Lucca rispetto alla breve avventura casentinese), si sarebbe tentati di suddividere le tre parti fondamentali di questa produzione in un modo all’incirca come il seguente: a Verona il De vulgari eloquentia la cui datazione canonica, per motivi interni al testo, è del 1303-1304; in Lunigiana il Convivio (1304-1307) [ma contemporaneamente anche nella Marca Trevigiana?]; a Lucca l’Inferno nella sua completezza esecutiva, non nel disegno e nella verseggiatura (dunque sia 1304-1308 che 1306-1309: verseggiatura che è anche dell’età della Marca Trivigiana [alla quale però non si sa più quali anni siano assegnati]). Ovviamente è questo un discorso meramente schematico, giacché per vario tempo la composizione del trattato linguistico e quella dell’enciclopedia filosofica s’intrecciano e si completano a vicenda, e non si può far iniziare sic et simpliciter la composizione dell’Inferno al momento della «crisi» che cade al termine dell’assai complesso commento alla canzone della nobiltà. A parziale prova di quanto s’è detto, è conveniente osservare che la stesura del De vulgari eloquentia non suppone un lavorio concettuale e culturale dello stesso genere di quello del Convivio, e quindi può essere stata opera sollecita e di getto, altrettanto rapidamente e bruscamente interrotta come principiata, mentre la chiusura del IV libro del Convivio avviene, si direbbe, col punto fermo.
2.5. Il minimo che si possa dire è che tutta questa argomentazione di Petrocchi non spicca per particolare coerenza. Se poi ci chiediamo come la rimozione della sostanziosissima ipotesi del soggiorno bolognese abbia potuto perdurare fino all’ultima versione della Vita di Dante, senza essere mai dichiarata e motivata, troveremo due possibili risposte, che forse si riducono a una sola. Nel 1966 questa rimozione, debolissimamente ‘giustificata’ dall’orizzonte geografico del convegno Dante e la cultura veneta, come abbiamo visto è in sintonia con la stessa rimozione in atto nel coevo convegno Dante e Bologna nei tempi di Dante, e questa è in certo modo una spiegazione, pragmatica, anche se del tutto estranea alla logica della ricerca scientifica. Potremmo esplicitarla così: se l’ipotesi di un De vulgari eloquentia bolognese viene evitata perfino dai bolognesi che avrebbero potuto metterla al centro del loro convegno dedicato esattamente a Dante e Bologna, non sarà il caso neanche di menzionarla14. 14 arMando anTonelli (2015, pp. 10-11; 2017a, pp. 171-172; 2018, p. 47; anTonelli-cassì 2018, pp. 474-476) ha ripetutamente lamentato il disinteresse della ricerca universitaria bolognese verso la storia della letteratura e della lingua a Bologna nel Medioevo, facendolo iniziare proprio dalla metà degli anni Sessanta. anselMi (2021) motiva con ampia esemplificazione come il ruolo di Bologna nella storia della letteratura e della cultura italiana anche fino al Rinascimento e oltre sia sottovalutato, come risulta per esempio dall’assenza di Bologna dal primo volume dell’Atlante della letteratura italiana (2010).
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Nella Biografia inserita nell’Enciclopedia dantesca (1978), poi, la rimozione trova, per così dire, una giustificazione a distanza all’interno dell’opera: infatti Mengaldo, in varie voci dedicate al De vulgari eloquentia, ribadisce, ora in coincidenza con la pubblicazione del suo commento, come aveva fatto nell’Introduzione all’edizione critica di dieci anni prima, la sua contrarietà all’ipotesi bolognese, sicché si instaura una posizione quasi ‘istituzionale’ dell’Enciclopedia dantesca contro la genesi bolognese del De vulgari eloquentia, posizione che influenzerà l’opinione comune e la ricerca nei decenni seguenti. Infatti l’ipotesi della composizione bolognese non è neanche nominata nelle introduzioni di nessuna delle edizioni divulgative del De vulgari eloquentia pubblicate nei vent’anni successivi: le edizioni cecchin (1983), MaraZZini-del PoPolo (1990), coleTTi (1991), inglese (1998, 20022). Così Mengaldo nella voce De vulgari eloquentia. Composizione (ED II, p. 402): Poco si può dire di preciso intorno al luogo o ai luoghi in cui Dante avrebbe scritto il De vulgari Eloquentia: questo sia per l’impossibilità di una datazione veramente puntuale dell’opera […], sia e soprattutto perché sostanzialmente ignoriamo dove abbia vissuto Dante nel periodo che sta tra il soggiorno a Forlì e a Verona e quello presso i Malaspina, cioè giusto negli anni 1304-1306. In genere si localizza l’opera a Verona o a Bologna o in entrambe le città. Verona resta un’indicazione obiettivamente possibile, almeno per l’inizio dei lavori: si tenga conto che il soggiorno nella città presso Bartolomeo della Scala è stato fissato con buoni argomenti (da G. Petrocchi, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, in Dante e la cultura veneta, Firenze 1966, 13 ss.) tra il maggio-giugno 1303 e il marzo 1304. Non altrettanto si può dire per Bologna. È vero che molti studiosi (e in particolare del De vulgari Eloquentia)15 danno per scontata la presenza di Dante in questa città nel periodo appunto tra il 1304 e il 1306 (e c’è chi ha fissato la fine del soggiorno al marzo 1306, data del patto dei Bolognesi coi guelfi toscani), ma si tratta di una convinzione non basata su prove bensì solo su indizi, in primo luogo le indicazioni di alcuni biografi antichi, tutt’altro che decisive e univoche. Ci sarebbero poi varie spie ricavabili dall’opera stessa, e su cui si è insistito spesso: l’alta considerazione per la scuola poetica bolognese (ben oltre quella ovvia per il grande Guinizzelli), la proclamazione del dialetto bolognese a pulcrior loquela tra tutte le parlate ‘municipali’ d’Italia, soprattutto la percezione della differenza tra il bolognese del centro (Strada Maggiore) e della periferia (Borgo S. Felice): cfr. VE I ix 4, xv 2-6, II xii 6. Ma non sembrano indizi veramente probanti. Si tenga conto anzitutto che è quasi certo un soggiorno giovanile (1286-87?) di Dante a Bologna, e inoltre che la città emiliana sarà pur stata per lui, come per altri esiliati fiorentini, un luogo obbligato di passaggio e di sosta nei primi anni dopo la cacciata da Firenze. In particolare, il primo dato suaccennato va inquadrato nell’ambito dell’ammirazione e del debito verso gli aspetti più grandi ed egemonici della cultura 15 Questa formula sembra confermare l’inclusione, fra gli studiosi del De vulgari eloquentia a cui Mengaldo si riferisce, anche di Panvini oltre a Marigo, e, fra gli altri studiosi, di renucci (1954 e 1958) e MaZZoni (1965 e 1966): per i quali cfr. § 2.2 e 2.7.
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bolognese, e anzitutto nei confronti della tradizione locale di ars dictandi, che non hanno ovviamente bisogno di esser spiegati con un soggiorno continuato in loco nel periodo che c’interessa (e v. i giusti cenni di M. Marti, Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 19)16. Quanto ai due argomenti linguistici, paiono legittime e preferibili spiegazioni d’altro tipo (v. Bologna)17. E in genere, non si può non guardare con sospetto a ogni tentativo di ricavare ipotesi di conoscenze dirette di determinati luoghi dalle indicazioni, per quanto puntuali possano essere, che Dante offre sui rispettivi dialetti. Basti pensare al fatto che, mentre è sicuro un soggiorno non breve dello scrittore a Verona, e in epoca subito precedente o addirittura contemporanea alla stesura del De vulgari Eloquentia, la caratterizzazione del dialetto veronese (I xiv 5: e v. verona) è singolarmente vaga e tirata via18 (a maggior ragione non va preso in considerazione il suggerimento, avanzato dallo Zingarelli, di una presenza dantesca a Pavia, in base all’accenno ai Papienses di I ix 7). 16 I «giusti cenni» (MarTi 1966, p. 19) non sono un granché: «Qual mai motivazione storicamente e linguisticamente accettabile ci potrebbe persuadere della superiorità del volgare bolognese su tutti gli altri volgari d’Italia? e non intendiamo ragioni nostre, ma di Dante e del tempo di Dante. Il volgare bolognese è caro al poeta solo perché gli è cara Bologna; forse i ricordi di una sua certa giovinezza; forse una successiva meno lieta ospitalità; o la cultura della città, la sua luce, i grandi studiosi del diritto, i grandi maestri di retorica, la culla dello Stil Nuovo col bolognese Guido… Sono queste, probabilmente, le vere ragioni del giudizio di Dante sul dialetto bolognese». 17 Alla voce Bologna-Lingua (ED I, p. 662), a proposito della distinzione fra Bononienses Burgi Sancti Felicis e Bononienses Stratae Maioris, Mengaldo commenta: «A parte le deduzioni (assai labili) che se ne possono trarre in merito a un soggiorno di Dante a Bologna nel periodo della stesura del trattato…»; mentre «il riconoscimento della superiorità del bolognese sugli altri dialetti municipali» non viene affatto messo in relazione con l’eventuale soggiorno dell’autore a Bologna. 18 Ma questo non è più vero oggi. Alla voce Verona-Lingua (ED v, p. 978), Mengaldo commenta: «In xiv 5 il loro dialetto [dei Veronesi], caratterizzato dall’avverbio magara, è unito al bresciano e al vicentino come sottogruppo della parlata lombardo-veneta irsuta e ispida che si contrappone al molle romagnolo […] Stupisce […], dato l’attestato soggiorno di Dante a Verona subito prima o durante la composizione del trattato, la scelta di una caratterizzazione linguistica così generica di quella parlata (per l’avverbio magara [greco makàrie, “o felice”], v. in particolare Rohlfs e M. Cortelazzo), per la quale si può al massimo invocare il passo di una fiaba veronese citato dal vocabolario Beltramini-Donati: “E col so çerto e col me magari, / mi g’ò la borsa piena de dinari”». Ma la lezione magara, che si ristampava da secoli, non ha alcun fondamento. I mss., come riporta l’apparato dell’ed. Mengaldo, hanno: B mara, GT mar(r)a. Ho quindi accolto nella mia edizione il brillantissimo emendamento «maia!» ‘mangia!’ del maggior conoscitore di veronese antico, Nello Bertoletti: emendamento paleograficamente lievissimo ed estremamente mirato sotto il profilo sia dell’area dialettale che della connotazione lessicale: «maiar … variante dissimilata di magnar, che diversi dialetti lombardi occidentali riservano a soggetti animali e talvolta estendono agli uomini nel senso di ‘divorare’, ‘mangiare in modo vorace’, nei dialetti moderni della Lombardia orientale e delle province di Como, Trento e Verona è riferita, come forma rustica e popolaresca, all’atto del mangiare tout court, e sembra che così fosse in fase antica, come mostrano alcune occorrenze del tipo maiar riferito a esseri umani in testi volgari di quest’area» (BerToleTTi 2010, pp. 7-9), e come «è inequivocabilmente garantito dalla ricorrenza della forma nell’onomastica dell’epoca», in composti imperativali tipo Maiavac(c)a attestati a Brescia, Verona, Mantova, Cremona e aree limitrofe (ivi, pp. 11-15). Il blasone è dunque azzeccatissimo anche per significare l’appartenenza ‘lombarda’ del veronese. Fenzi, nella sua edizione, preferisce ripiegare su manara, continuando a lamentare la «superficialità di conoscenza, piuttosto sorprendente per Verona, dove Dante aveva soggiornato subito prima o durante l’inizio della stesura del De vulgari eloquentia».
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2.6. A mo’ di corollario al tratto di storia fin qui delineato, ma forse anche di sua ideale chiave di volta, riproduco due righe dall’ampia recensione dedicata da Contini all’ed. Marigo (conTini 1939). I riconoscimenti che il recensore presta al commentatore sono tutti nell’ordine dell’utilità e della probità del lavoro; nessuno nell’ordine dell’intelligenza filologica, linguistica, critica, estetica dell’interprete. In tre aggettivi: commento «alquanto lento e faticoso, ma utilissimo» (p. 283). S’intende che per Contini il De vulgari eloquentia avrebbe meritato ben altro commentatore. Al § 1.2 ho ricordato l’opposizione, messa a fuoco da Milani e MonTefusco, Edd. (2014, pp. 1-4), fra l’assetto della dantistica nel 1921 e nel 1965. Il nome che essi espongono come emblematico della fase 1965, refrattaria al dialogo fra letteratura e storia politica, e ancor più fra letteratura e biografia dello scrittore, è quello di Gianfranco Contini, di cui viene ricordato, oltre all’ineguagliato prestigio nella filologia italiana in senso lato, in particolare il ruolo di presidente della Società Dantesca Italiana e di autorevole ispiratore dei vari eventi del VII centenario – fra i quali quelli in cui ci siamo imbattuti nei paragrafi precedenti. Ciò premesso, ecco come Contini nel 1939 riferiva e giudicava le considerazioni di Marigo su dove il De vulgari fosse stato scritto (p. XXVI): Circa il luogo di composizione, tra Bologna e Verona (dell’ipotesi pavese dell’Imbriani non è, giustamente, più traccia) il Marigo si decide per tutt’e due.
Queste due righe non dicono poco. Dicono che: 1) sono appunto due righe su undici pagine, il che dà la misura di quanta importanza meritasse, agli occhi di Contini, il tema del luogo di composizione del trattato; 2) queste due righe Contini le spende per fare una battuta ingiusta ai danni di Marigo. Non è affatto vero che su questo argomento il commento di Marigo lasci il tempo che trova, anzi è Marigo il primo che ordina in modo logico tutti gli argomenti che è riuscito a vedere a favore di Bologna, che sono già abbastanza, anche se ce ne sono altri decisivi di cui non si è accorto. Per Contini l’unica informazione che conta (pochissimo) è il luogo: allora, Verona o Bologna? Invece quello che conta sono le motivazioni culturali che legano il trattato a Bologna, che Marigo aveva meritoriamente messo in luce, e che Contini non degna di una parola; 3) dire che il trattato dev’essere stato composto fra Verona e Bologna corrisponde alla verità storica: perché tutti gli ‘indizi’, o più che indizi, interni al testo chiamano a Bologna, ma è accertato che Dante ha risieduto prima a Verona, dalla primavera 1303 alla primavera 1304. È fra queste due città che ha composto il Convivio e il De vulgari; ed è ben possibile che abbia iniziato anche il De vulgari a Verona, anche se io propendo a credere che a Verona abbia ideato il Convivio e ne abbia scritto il primo libro, nel quale il De vulgari è annunciato, e che il De vulgari sia tutto bolognese. Poi Marigo pensava, sbagliando, a una cronologia inversa,
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prima Bologna poi Verona, perché in ottant’anni le nostre conoscenze sono progredite; ma, sulla base delle conoscenze dell’epoca, ciò che scriveva Marigo era perfettamente corretto. Stesso atteggiamento e stesse idee ricompaiono nel commento a brani scelti del De vulgari eloquentia che Contini antologizzò nella Letteratura italiana delle origini (1970). Quanto al testo, Contini non si attiene né all’edizione critica di Rajna (1896), pur definita «magistrale» e «ancora indispensabile» (p. 395), né alla recente edizione critica (1968) di Mengaldo, stranamente non citata, bensì «al testo […] fissato dal Bertalot (1920) dopo la scoperta del codice Berlinese, ma con lezione ricondotta dalla grafia medievale all’uso classico» (ivi); e a quel testo «accompagna la traduzione, inedita tranne che per il primo capitolo, di Pio Rajna» (ivi). La considerazione per il lavoro di Marigo, tanto per la costituzione del testo quanto per la traduzione, si conferma dunque immutata a trent’anni di distanza. Quanto al luogo di composizione del trattato, semplicemente, «non si sa dove Dante possa averlo scritto» (pp. 392-393). Quanto a Bologna, in particolare, a commento dei «Bononienses Burgi Sancti Felicis et Bononienses Stratae Maioris» Contini annota: «Bologna era familiare a Dante fin dalla sua giovinezza, come risulta dal sonetto della Garisenda, di modo che è vano tentar di ricavare da questa menzione, come del resto più sotto da quella di Pavia, il minimo indizio sulle residenze di Dante al tempo del De vulgari» (p. 397 n. 10). La frase coincide quasi alla lettera con un passaggio dell’Introduzione di Mengaldo alla sua edizione critica (cfr. qui n. 3), alla quale però Contini in queste pagine non fa nessun riferimento. E ovviamente, nel commentare gli esempi di «supprema constructio» in II vi 4, spiega chi sono Azzo («l’esempio è dunque beffardo, sconcia adulazione per un tiranno») e Carlo di Valois (p. 410 nn. 5 e 7), ma non sospetta che i due personaggi possano non essere stati scelti a caso. Più in generale, nessuna percezione che le idee linguistiche di Dante possano avere implicazioni storico-politiche: non una parola su cosa ci stia a fare l’evocazione di una «excellentissima Italorum curia» in I xviii 5 (p. 404); nessun sospetto che il trattato abbia un orientamento anti-fiorentino (anzi: «L’ideale perseguito da Dante non consiste naturalisticamente in nessuna parte, fosse pure Firenze», p. 393); nessuna importanza data al giudizio di maggiore nobiltà al latino o al volgare («Quando […] il De vulgari asserisce la maggior nobiltà del volgare rispetto al latino, e il Convivio, press’a poco contemporaneo, il contrario, la disputa è meramente verbale, o piuttosto dialetticosofistica, importando evidentemente la problematica e non consistendo vera contrapposizione di tesi», tanto da rientrare, questa «presunta contraddizione», tra le «futilità dell’esegesi moderna», p. 394). E, sovrana e incontrastata, la dimensione puramente letteraria della questione della lingua, tanto da
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considerare «giusta» l’idea del Manzoni «secondo la quale nel De vulgari “non si tratta di lingua italiana né punto né poco”, bensì “del linguaggio della poesia, anzi di un genere particolare di poesia”» (p. 394). 2.7. Occorre però rilevare un’autorevole voce in dissenso dalla linea principale fin qui seguita. Francesco Mazzoni, dal 1967 titolare della cattedra di Filologia dantesca all’Università di Firenze e dal 1968 Presidente della Società Dantesca Italiana, già nel 1965, nella nota introduttiva all’edizione del Convivio (1965), scrive: Ebbero così inizio, alla fine del 1304, e molto probabilmente a Bologna (terreno quanto mai propizio agli studi retorici e filosofici) due opere quanto mai significanti, diverse per impianto e per propositi, ma collegate, oltre che dalla cronologia, anche da una parzialmente comune problematica: il De vulgari Eloquentia e il Convivio: entrambe scritte come di getto, a ritmo serrato, con l’entusiasmo non di un neofita ma di un consapevole iniziatore: il trattato latino sicuramente (e bruscamente) già da mesi interrotto all’atto della partenza da Bologna nel 1306 (quando ne furono espulsi gli esuli di Parte Bianca); il Convivio, sentito quale opera di maggiore impegno e respiro, portato probabilmente ancora avanti, nonostante il peregrinare, fino a tutto il 1307, se non per alcuni mesi del 1308 (MaZZoni 1965, pp. XX-XXI).
Concetti ribaditi l’anno seguente, presentando l’evoluzione del pensiero politico di Dante: occorrerà l’esperienza dell’esilio, coi precoci contatti fra l’ambiente ghibellino dell’alta Italia (particolarmente con la corte degli Scaligeri, «primo rifugio e primo ostello») e i nuovi studi nel severo ambiente dei giuristi bolognesi (quando furono iniziati De vulgari Eloquentia e Convivio) perché si cristallizzi e sempre più si accentui in Dante un ripensamento profondo [attorno all’Impero] (MaZZoni 1966, pp. XXVII-XXVIII). Siamo intorno al 1307; e ben presto il trattato [il Convivio] rimarrà in tronco, sia per il peregrinare dell’esule (il quale, lasciata Bologna, s’era recato nel 1306 presso i Malaspina, dove lo troviamo, il 6 ottobre 1306, stipulare la pace in Sarzana tra Franceschino e il Vescovo di Luni), sia per il sopraggiungere del più vasto e determinante disegno della Comedìa (ivi, p. XXXII).
E nel 1978, in una sintesi della vita e delle opere di Dante, rappresenta senz’altro Dante a Bologna, impegnato a comporre Convivio e De vulgari eloquentia negli anni 1304-06: Fra il 1304 e il 1306 lo accoglie Bologna, città quanto mai propizia agli studi filosofici, giuridici, retorici, già visitata in anni giovanili; e in quell’ambiente hanno inizio due opere d’ampio respiro, il Convivio e il De vulgari eloquentia, a lenire la bruciante solitudine (cfr. De vulg. Eloq., II, vi, 8), e per un bisogno di interiore chiarificazione e illuminazione; ma anche per trovare sicura rivincita sul terreno ove, «per altezza d’ingegno» egli sa di distinguersi fra tutti. Desiderio di manifestarsi ai
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Fiorentini e al mondo in tutta la propria complessa e consapevole degnità operosa d’uomo di cultura, di filosofo, di poeta19, ormai lontano dalla conchiusa dimensione «municipale» degli anni giovanili, che anima opere diverse per impianto e propositi, ma collegate, oltre che dalla cronologia, da una problematica parzialmente comune. Il De vulgari e il Convivio sono opere scritte come di getto, a ritmo serrato, con l’entusiasmo non d’un neofita ma d’un consapevole iniziatore; il trattato latino si interrompe bruscamente (a II, xiv) ancor prima della partenza da Bologna (nel 1306 ne furono espulsi gli esuli di Parte Bianca); il Convivio, opera di maggiore impegno e respiro, portato avanti, nonostante il peregrinare, fino a tutto il 1307, se non anche per alcuni mesi del 1308, e interrotto anch’esso (a IV, xxx) per l’improvviso urgere di accadimenti che già in quelle ultime pagine il poeta veniva affrettando col cuore, mentre teorizzava, nei capitoli iv-v del trattato IV, la necessità dell’Impero e la provvidenzialità dell’ufficio imperiale (MaZZoni 1978, p. 16). Il Convivio e il De vulgari rimasero incompiuti. Il 2 ottobre 1306 il Comune di Bologna espelle gli esuli fiorentini. Dante, da parte sua, ha già lasciato la città. Il 6 ottobre stipula a Sarzana la pace tra Franceschino Malaspina e il Vescovo di Luni (ivi, p. 19).
Questi tre passi di MaZZoni (1965, 1966 e 1978), che presentano la composizione di Convivio e De vulgari eloquentia a Bologna negli anni 130406 come un dato di fatto, sono contemporanei ai due saggi biografici di PeTrocchi (1966 e 1978) nei quali Bologna non è neanche nominata. Nel ribadire la sua convinzione nel 1978, Mazzoni non poteva ignorare né PeTrocchi (1966) né Mengaldo Ed. (1968): li contraddice senza citarli. Naturalmente, affermare «fra il 1304 e il 1306 lo accoglie Bologna», e simili, è sbrigativo. Sarebbe stato più corretto dire: «Molti indizi convergenti ci portano a dire che fra il 1304 e il 1306 lo accoglie Bologna», e simili. Evidentemente, quegli indizi convergenti apparivano a Mazzoni tanto probanti da prendersi la responsabilità di fare quelle affermazioni nette. Nella sostanza, non è possibile dargli torto. Significativi anche i giudizi espressi da Maria Corti nel presentare, e poi approfondire ed estendere, la sua interpretazione del De vulgari eloquentia, a cominciare da Dante a un nuovo crocevia (1981), poi La felicità mentale (1983) e i Percorsi dell’invenzione (1993), infine gli Scritti su Cavalcanti e Dante (2003). L’idea di fondo, che il De vulgari fosse un testo ispirato in modo determinante dalla grammatica speculativa e dall’aristotelismo radicale, infatti, induceva la studiosa a puntare i riflettori sull’ambiente bolognese, dato che grammatica speculativa e aristotelismo radicale erano di casa non 19 Formulazione pienamente accettabile, ben diversa da quella di chi afferma che il De vulgari doveva servire a rendere il suo autore tanto gradito ai fiorentini da indurli a richiamarlo dall’esilio (cfr. § 2.9).
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meno a Bologna che a Parigi, come dice il cap. 1 di corTi (1981, pp. 9-31) «Bologna e Parigi: novità filosofiche e linguistiche», aggiornato in corTi (2003, pp. 312-326). Così corTi (1981, p. 35): È questo il momento dell’incontro con la grammatica speculativa, col pensiero dei modisti e in particolare coi Modi significandi di Boezio di Dacia. Incontro fiorentino o bolognese? Non si vuole porre qui un problema di domicilio fisico che è, tutto sommato, secondario, data la circolazione culturale fra Bologna e i vicini centri della Toscana; tuttavia non si vede perché trascurare i segnali che Dante stesso ci manda di un suo soggiorno a Bologna (anni 1286-87? o più tardi? o più volte?) tanto nel De V. E., I ix 4, dove gli piace distinguere il parlare dei «Bononienses Burgi Sancti Felicis et Bononienses Stratae Maioris» quanto altrove, né le testimonianze di Giovanni Villani, Boccaccio, Leonardo Bruni ecc. È d’altronde immaginabile che un uomo stupendamente curioso del sapere e della vita come Dante, partecipe della società di un gruppo di intellettuali bolognesi e toscani, non sia andato a seguire delle lezioni alla Facoltà delle arti?
Dunque Corti, pur restando in linea con la tendenza prevalente negli anni Sessanta e Settanta (il «domicilio fisico […] è, tutto sommato, secondario»), già a questa altezza non trascura affatto «i segnali che Dante stesso ci manda di un suo soggiorno a Bologna», e non solo negli anni canonici del sonetto della Garisenda, ma anche «più tardi? o più volte?». La sua ricerca, infatti, metteva in luce la sintonia di Dante non solo con il linguaggio della grammatica speculativa e dell’aristotelismo radicale, ma con il linguaggio filosofico in generale (corTi 1981, p. 36): E senza dubbio alla frequentazione del sapere filosofico-grammaticale da parte del suo autore il I libro del De V. E. deve il privilegiato impianto argomentativo della quaestio disputata: Et si obiciatur (I, ii 4, 6), si vero contra argumentetur (I, ii 7), Et si dicatur (I, ii 7), Si quis fatetur contra obiciens (I, v 2), dupliciter responderi potest (I, ii 4), ad hoc respondemus (I, ii 6), dicimus (I, ii 7; iv 6; v 2), Oritur et hinc questio (I, iv 5) ecc.
E tale sintonia suggeriva una dimora bolognese all’atto della scrittura: idea che si rafforza nelle tappe successive della ricerca, estese anche alla parallela scrittura del Convivio (corTi 1983, p. 132 = 2003, p. 153): Naturalmente non riguarda il nostro punto di vista l’ingresso di fonti legate al nuovo argomento (Ragione Canonica, Civile, Digesto, ecc.) se non in quanto possono far pensare a una sede dove la cultura giuridica fosse viva e insieme fosse viva l’operazione dei logici: qualche tempo, durante la stesura del De vulgari eloquentia e del IV del Convivio, Dante deve essere stato a Bologna.
Fino a proporre una geografia e cronologia della composizione di entrambi i trattati che data il De vulgari al 1304-1305 e lo collega a Bologna, differenziandosi dalle indicazioni di Mengaldo (da “sarà anche probabile ma
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non è provato” a “non è provato ma è probabile”) e Petrocchi (dal Veneto a Bologna e alla Romagna). Così corTi (1983, pp. 143-144 = 2003, p. 164): I primi tre trattati del Convivio abbraccerebbero il periodo forlivese e veronese dal 1303 e forse anche prima a metà del 1304 circa, il De vulgari eloquentia quello intermedio sino al lunigiano-toscano, in cui sarebbe stato composto il IV trattato. Nel periodo del De vulgari eloquentia, 1304-5 veramente Bologna attrarrebbe come sede dato che l’opera latina presuppone contatti con un tipo di cultura che, già lo ha detto Mengaldo e prima di lui con minore approfondimento Marigo, aveva un suo centro di elaborazione a Bologna; dove, si aggiunge, guiderebbero anche i sopra ricordati influssi della logica modista e della grammatica speculativa. A Bologna, postilla Marigo, visse dal 1303 al 1306 Cino da Pistoia, coincidenza che certo non danneggerebbe. Comunque, Bologna allo stato attuale delle ricerche d’archivio non è sede dimostrabile, ma non lo è nessun’altra (la panoramica dialettale del De vulgari eloquentia non porta più al Veneto che all’Emilia e alla Romagna).
e corTi (1993, pp. 78-79 = 2003, p. 224): Cercando di far luce sul rapporto cronologico fra le due opere siamo venuti altrove alla conclusione che i primi tre trattati del Convivio abbraccerebbero il periodo forlivese e veronese dal 1303 (e forse anche prima) a metà circa del 1304, mentre il De Vulgari si riferirebbe al periodo 1304-305, anteriore al momento lunigianotoscano (1306-309) in cui sarebbe stato composto il trattato IV del Convivio, che da un lato presuppone un distacco anche cronologico dagli altri tre e dall’altro realizza modelli stilistici messi teoricamente a fuoco nel De Vulgari. Dove fu composto quest’ultimo? Non si possiedono dati biografici per il periodo 1304-305, ma giustamente Mengaldo osserva che l’opera propone «un rapporto abbastanza preciso con la cultura latina e volgare della Bologna del tempo». Si è offerta una panoramica dell’ambiente bolognese, soprattutto nei riguardi della Facoltà di Medicina e delle Arti, per cui è persuasivo un influsso della cultura giuridica, logica, filosofico-grammaticale sul De Vulgari e sul IV del Convivio.
2.8. Nel 2004 Giuseppe Indizio, nell’articolo Le tappe venete dell’esilio di Dante, poi ristampato nei Problemi di biografia dantesca del 2013, ritorna sulla materia trattata da Petrocchi nel 1966, 1978 e 1983 (qui § 2.4). Conferma con ulteriori argomenti il soggiorno di Dante presso Bartolomeo della Scala dalla primavera 1303 alla primavera 1304, che oggi possiamo considerare un fatto accertato20; concorda sulla conoscenza anche di Treviso, Padova, Venezia (i testi ne recano prove evidenti), ma si chiede come mai questa conoscenza Dante dovrebbe averla acquisita nel biennio 1304-1306, come sostiene Petrocchi (in Tappe venete, pp. 95-96; Biografia, p. 34; Vita di Dante, p. 99): 20
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che vi soggiornasse [in Veneto, e in particolare a Treviso] tra la fine del 1304 e la prima metà del 1306 è una convinzione che, come traspare dal suo dettato, non si basa su alcuna prova e neppure su indizi. Sorge il sospetto che l’indicazione di quel biennio sia mossa unicamente dalla preoccupazione di trovare uno spazio di tempo agibile per inserirvi soggiorni che, dati alla mano, è difficile confutare. Allo scopo, il poco esplorato biennio 1305-06 si è prestato ottimamente. Tuttavia, alcuni dati circostanziali inducono ad anticipare tale dubbia cronologia (indiZio 2004, p. 99).
Questi «dati circostanziali» sono due. Il primo è che Dante può benissimo aver acquisito tale conoscenza durante il soggiorno a Verona del 130304, che proprio Petrocchi ha avuto il merito di fissare. In particolare perché (ivi, pp. 99-100): se osserviamo più da vicino la politica locale veneta al tempo della prima sosta veronese (1303-04), balza agli occhi il febbrile lavorio tra le Cancellerie di Padova, Treviso, Verona e Venezia per gravi motivi di dissenso commerciale, sfociati in guerra aperta nel corso del 1304. È una circostanza da vagliare con attenzione, visto che proprio su tali città si appunta la probabilità di un soggiorno dantesco. Non vi sono prove documentali, ma stando così le cose, è facile congettura che tra il 1303 e il 1304, il poeta si recasse a Padova, Treviso e Venezia in qualità di agente diplomatico veronese. Si tratta di un’incombenza che Dante, per gli stessi motivi, sarà chiamato a svolgere quasi sempre durante l’esilio (presso i Malaspina nel 1306, presso i Da Polenta nel 1314, ma la circostanza è controversa, e nel ’21, limitandoci ai casi per cui vi sia un minimo di documentazione): non è perciò arbitrario ritenere che l’anno di soggiorno scaligero l’abbia visto rivestire i panni dell’ambasciatore.
Il secondo dato è costituito insieme dalla datazione e dai contenuti del De vulgari eloquentia (ivi, p. 101): Il primo libro del De vulgari è ragionevolmente anteriore al febbraio 1305, allorché morì il marchese Giovanni di Monferrato, lì dato ancora per vivente (I xii 5). Il poeta, sembrerebbe, scrive al più tardi negli ultimi mesi del 1304. Ebbene, negli immediati paraggi della citazione monferrina (I xiv 5-8) l’esule mostra già una tale conoscenza dei dialetti veneti da indurci a credere, fino a prova contraria, in un’esperienza ricettiva de visu [qui ampia citazione del passo]. È appena il caso di notare che nello stesso contesto vengono citati Veronesi, Trevigiani, Padovani e Veneziani. È quindi plausibile che il poeta abbia visitato le quattro città prima (e non dopo) aver scritto questo passaggio, dunque prima del 1305.
Possiamo risparmiarci i successivi passaggi in cui Indizio ribatte alle argomentazioni di Petrocchi, il quale aveva sostenuto (lo abbiamo visto alla fine del § 2.4) che il De vulgari (assegnato al 1303-1304) precede il Convivio (assegnato al 1304-1307), contro l’evidenza del notissimo «Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza» (Cv I v 10); che tutta la conoscenza dei dialetti veneti che squaderna in I xiv 5-8 a Dante è arrivata per sentito dire,
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prima (!) di venire a contatto con quei dialetti, ciò che avverrà nella sua successiva visitazione della Marca Trevigiana (1304-1306); e che il Convivio è molto più pieno di conoscenze dialettali del De vulgari (!), tanto è vero che Dante scrive: «per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna» (Cv I iii 4). Non obietteremo certo alla conclusione di Indizio (p. 102): «La tesi di Petrocchi è chiaramente insostenibile». E anche Indizio ha notato che, per mettere insieme questo affresco, Petrocchi ha rimosso l’ipotesi del soggiorno bolognese negli anni 1304-1306 in coincidenza con la stesura del De vulgari. Un argomento addotto da Indizio a sostegno di tale soggiorno è «l’insolito tatto utilizzato nel De vulgari nel vagliare l’attitudine del dialetto locale a rappresentare quella lingua italica a vocazione illustre e unitaria che Dante andava teorizzando» (pp. 103-104). Un altro, che sviluppa di più rispetto a Marigo, è quello degli stretti rapporti con Cino da Pistoia (pp. 104-105), giurista di casa nello Studio bolognese: Esaminando la corrispondenza tra i due, si ha la netta impressione che il Pistoiese, consapevole del momento difficile dell’amico fiorentino, cercasse non solo di spronarlo alla poesia (Se tu sapessi ben com’io aspetto), ma soprattutto di accreditarlo accademicamente […]. Se ora ci chiediamo in quale città Cino poteva più efficacemente spendere la propria autorevolezza per Dante «ut in declaratione rei nimium dubitate titulus mei nominis ampliares» [come si esprime Dante nell’Ep. III 2 a Cino], Bologna potrà essere citata senz’altro quale luogo d’elezione (p. 105).
Ma soprattutto Indizio fa riferimento agli antichi biografi, con i quali ha particolare familiarità, e la cui testimonianza non può essere ignorata (pp. 104-105): La presenza del poeta a Bologna durante l’esilio è testimoniata da numerosi antichi biografi. Il primo è Giovanni Villani, sommo cronista del tempo di Dante, che del poeta fiorentino ebbe conoscenza personale. La testimonianza di Villani, per cui Dante nei primi anni dell’esilio frequentasse per un certo periodo lo Studio bolognese, è degna di nota poiché quel cronista non sentì il mito del grande poeta e non ne ingigantì la figura nelle poche pagine che a lui dedicò. Non mancano altri antichi biografi, più o meno attendibili, tra cui Giovanni Boccaccio e Benvenuto da Imola. La messe degli indizi bolognesi non è peraltro esaurita. Pietro Alighieri, figlio del poeta, in una sua canzone sulle sette Arti liberali dettata in memoria del padre, parla del: «Mi[o] maestro che lesse a Bologna». Pietro parla senza dubbio di Dante. Sebbene l’ipotesi di un insegnamento regolare sia da escludersi, è certo, fatte salve millanterie, che Dante ebbe frequentazione del venerando Studio felsineo […] Ricapitolando, le testimonianze dei più antichi e significativi biografi, il movente per l’avvio del Convivio e del De vulgari (1304 circa), ivi comprese certe concessioni alla sua lingua ed ai suoi dotti, una parte della corrispondenza con Cino (1305 circa), la parola di Pietro sulla lettura bolognese, tutto congiura per una presenza di Dante a Bologna dalla fine del 1304 o, meglio, dopo le brevi tappe
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ad Arezzo e in Casentino, dalla metà del 1305 [io credo piuttosto: dalla metà del 1304].
Dunque, riassumendo: già nel 1938 Marigo aveva desunto benissimo, dal suo approfondito studio del De vulgari eloquentia, l’alta probabilità del soggiorno bolognese del 1304-06. Diamo pure a PeTrocchi (1966) il merito di aver fissato il soggiorno veronese del 1303-04, anche se già renucci (1954, pp. 58-62), fin dal titolo «De Vérone à Bologne et à la Lunigiane» (pp. 57 e 58) e (1958, pp. 80-82), sulla base di uno spunto di BarBi (1904, p. 44) riportava correttamente la sequenza di questi due soggiorni, veronese e bolognese, intervallata dal rientro nella Universitas Alborum, a supporto del tentativo del cardinale da Prato, nella primavera 1304. Non mancava niente per capire da dove venivano tutte le informazioni che confluiscono nel De vulgari: facendo stanza a Verona, come spiega persuasivamente Indizio, Dante si era procurato le informazioni sui dialetti veneti; a Bologna rinverdisce e consolida le informazioni sul bolognese e sui dialetti romagnoli, che aveva già avuto modo di procurarsi nel primo soggiorno bolognese del 1286-87 e nel soggiorno a Forlì preso Scarpetta Ordelaffi nel 1303; e assorbe dall’impareggiabile dotazione bibliografica e dall’impareggiabile ambiente universitario di Bologna le moltissime e qualificatissime conoscenze filosofiche, teologiche e di ars dictaminis, nonché da altri ambienti bolognesi le conoscenze di lirica provenzale e di romanzi arturiani, che deversa nel Convivio e nel De vulgari. Non c’è bisogno d’altro. Era, o meglio avrebbe potuto essere, tutto perfettamente chiaro già negli anni Sessanta e Settanta. E in effetti i tre interventi di MaZZoni (1965, 1966 e 1978) dimostrano che tutto appariva perfettamente chiaro a uno studioso molto autorevole già allora. Invece la rimozione dell’indispensabile soggiorno bolognese del 1304-06, ‘anticipata’, per così dire, dall’assetto del Convegno bolognese del 1966, apre un vuoto che rende le cose incomprensibili, come si percepisce dai giri di parole di Petrocchi nella sua ondivaga navigazione (1966-1983) verso un approdo che non esiste. Ma la Biografia di Petrocchi, incorporata nell’Enciclopedia dantesca (1978), si impone come la biografia di riferimento di Dante. E il combinato disposto della Biografia di Petrocchi, del contemporaneo commento di Mengaldo al De vulgari eloquentia (pur importantissimo per tanti altri versi, inutile ripeterlo ancora), il cui messaggio è veicolato anche dalle voci rilevanti dell’Enciclopedia dantesca; e – bisogna aggiungere – del commento di Vasoli al Convivio, nella stessa edizione ricciardiana delle Opere minori (1978) nella quale è pubblicato il De vulgari di Mengaldo, commento al Convivio in cui non compare il minimo cenno a Bologna (sì invece, sulla scia di Petrocchi, al «soggiorno veronese e veneto», p. LXV), così come non ne compare alcuno nella voce Convivio, di Maria Simonelli, dell’Enciclopedia dantesca (II, pp.
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193-204) – il 1978 è un anno che non pecca certo di ‘biografismo’ –, bene, il combinato disposto di tutto ciò eclissa l’idea del soggiorno bolognese e della sua rilevanza per i due trattati danteschi per più di due decenni. L’idea viene rimessa in circolazione solo dall’articolo di indiZio (2004, poi 2013), poi dalla mia edizione del trattato (2011), dal Dante di Santagata (2012) e dall’edizione commentata di Gianfranco Fioravanti del Convivio (2014), che argomenta come il dispiegamento di fonti filosofiche del trattato richiede la consultazione in diretta di grandi biblioteche specialistiche, quali esistevano riunite quasi solo a Bologna. 2.9. La nobiltà di Dante (2004) di Umberto Carpi segna la brusca entrata in campo di un approccio politico e insieme storico-erudito, basato sull’assunto di fondo che Dante, bandito, si trovava a dipendere per la sua stessa sopravvivenza dai potenti ai quali via via si affidava, fossero essi feudatari, signori cittadini o magistrati comunali, ognuno dei quali in mutevoli stati di alleanza, di inimicizia o di guerra con altri; e che dunque ciò che di anno in anno Dante pensava e scriveva non può essere studiato senza chiedersi in quali circostanze biografiche, all’interno di un tale pericoloso e inevitabilmente condizionante reticolo, egli lo avesse pensato e scritto. Nelle pagine di Carpi irrompe un sacco di bibliografia erudita, da Scuola storica, su personaggi, famiglie, eventi, dispute su confini, assetti politici e giuridici di città e territori, combinazioni matrimoniali, mutevoli alleanze e inimicizie, ecc. ecc. che uno studioso medio di letteratura non aveva mai sentito nominare, e che dunque si può immaginare quanto potesse sentirsi invogliato a mettersi a studiare. Se poi ci ricordiamo che, nel nostro caso, perfino ipotizzare, su basi evidentissime e puramente culturali, un soggiorno nella più importante città universitaria d’Italia, nonché capitale dell’ars dictandi nonché cenacolo principe di poesia volgare, era stato considerato, quarant’anni prima, un condizionamento troppo deterministico (!), possiamo percepire la distanza fra i due approcci – e l’assoluta opportunità che anche il secondo si manifestasse. Sul De vulgari eloquentia Carpi dice una cosa molto intelligente. Nel cap. III «Fra Tuscia e Romandiola», § 1 «Una prospettiva dall’Appennino» (pp. 465-479), mette in rilevo come i primi tempi dell’esilio, vissuti fra Mugello e Casentino, facciano letteralmente vedere le cose a Dante da un punto di vista inverso: non più con lo sguardo rivolto dalla grande città di pianura verso le periferie appenniniche, dall’economicamente, politicamente e culturalmente impetuoso Comune toscano ai resti recessivi di ordinamento feudale; ma da quest’area di confine con le proprie vigenti giurisdizioni, lungo entrambi i displuvi, verso la Toscana e verso la Pianura padana, verso i regimi di popolo toscani e verso gli analoghi regimi padani in via di insignorimento. Prospettiva inaugurata appunto dal De vulgari eloquentia,
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I x 6, che assume la dorsale appenninica come linea divisoria fondamentale fra i volgari di destra e di sinistra; prospettiva che si ritrova identica nello sguardo di Dante sui fiumi di Romagna in If XXVII 25-54 e di Guido del Duca sulla valle dell’Arno in Pg XIV 16-5421. Ma quanto al luogo di composizione del De vulgari, e alla fase politica a cui appartiene, Carpi è stato tratto in inganno da due fatti concomitanti. Uno è la biografia di Petrocchi (la rettifica di Indizio non era ancora stata pubblicata). L’altro è la convinzione che il De vulgari si collocasse dopo la rottura con la compagnia malvagia e scempia dei fuorusciti bianchi, con ciò intendendosi la defezione dal partito guelfo bianco tout court, quindi dopo la caduta di ogni speranza di rientrare a Firenze con le armi, e quindi dopo la richiesta di perdono a Firenze consegnata alla perduta epistola Popule mee, quid feci tibi? e al secondo congedo di Tre donne. Tutto il libro di Carpi, infatti, ha al proprio centro questo evento, l’abbandono da parte di Dante dello schieramento guelfo-bianco, dopo il quale si apre la fase che Carpi ha chiamato dell’«Inferno guelfo». Questo momento di rottura, secondo Carpi come nell’opinione corrente all’epoca, coincide (poco prima o poco dopo) con la cosiddetta battaglia della Lastra, 20 luglio 1304. E Carpi dà giustamente per scontato che il De vulgari sia stato composto dopo, grosso modo nel periodo a cui pensavano Marigo e Renucci, nella finestra racchiusa fra il tentativo di pacificazione del cardinale da Prato, ovvero la battaglia della Lastra, a metà 1304, e l’entrata nell’orbita Malaspina nell’ottobre 1306. Carpi non sembra aver fatto caso che Petrocchi alla fine collocava la composizione del De vulgari nel primo soggiorno veronese 1303-1304, e si orientò a collocarlo nel periodo della ‘vicenda biografica di Dante nel Veneto’ di Petrocchi, centrata sulla «suggestiva ipotesi d’un soggiorno dantesco a Treviso, presso Gherardo da Camino» (PeTrocchi 1966, pp. 95-96 e successive versioni) – ipotesi che, si ricorderà, in Petrocchi riempiva il vuoto lasciato dall’ipotesi del soggiorno bolognese, caduta in disgrazia e occultata, chissà perché, nei modi che abbiamo visto. Ciò dato, la «suggestiva ipotesi» di Treviso calzava perfettamente per Carpi, perché Gherardo da Camino, guelfo nero, era stretto alleato di Corso Donati, a cui Carpi attribuiva il ruolo centrale nei tentativi di ottenere dal regime fiorentino il perdono per Dante, suo congiunto. Ecco il concetto presentato con le parole di carPi (2004, pp. 512-514) – per me del tutto condivisibili dal punto di vista metodologico perché pongono l’esigenza di rimpolpare lo scheletro biografico di Petrocchi con le necessarie istanze storico-politiche (senza però guardare tanto per il sottile sulle imprecisioni o contraddizioni fattuali dello scheletro stesso):
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Su questa e altra idrografia tosco-romagnola e relativa cartografia cfr. Tavoni 2017b.
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Noi non possiamo e presumibilmente non potremo mai ricostruire il diario esatto della biografia dantesca in questi anni, la mappa precisa dei suoi spostamenti e dei suoi soggiorni: dal più al meno, salvo specifici dissensi o dubbi su questa o quella tappa, su questa o quella datazione, mi pare però che il più recente biografo di Dante, Giorgio Petrocchi, abbia compiuto un’opera accettabile di selezione e di sintesi di quel secolare e spesso fantasioso lavorìo che aveva fatto vorticosamente viaggiare il povero esule in giro per l’Italia e per l’Europa qua e là e per ogni metropoli o borgo. Del Petrocchi è stato soprattutto apprezzabile lo sforzo di individuare negli spostamenti di Dante, anche nelle fasi più affannose, luoghi e tempi di soggiorno compatibili con la scrittura di opere come Convivio e De vulgari, Inferno e Purgatorio […]: ma come in quegli anni i movimenti d’un esule erano condizionati in modo così stretto dalle fluttuazioni politiche, allora ogni tentativo di ricostruire i percorsi danteschi non può limitarsi all’accertamento dei dati interni della biografìa personale; deve invece tener conto della compatibilità con gli andamenti delle grandi vicende dell’epoca capaci di determinare centralmente l’evolversi ideologico […], ma insieme deve calcolare anche quanto veniva imposto ovvero interdetto quasi giorno per giorno da un arduo labirinto di più contingenti microstorie. […] Così io consento col Petrocchi quando fissa nelle città di Treviso e di Lucca due altri luoghi importanti per Dante, non previsti nell’elenco di sedi ghibelline che ho proposto per il primo impatto con l’esilio: dunque fu certamente a Treviso, come vogliono i celebri elogi di Gherardo da Camino suo signore pronunciati nel Convivio e nel Purgatorio, e deve esserci rimasto per un tempo sufficiente ad acquisire le dirette esperienze venete di cui pullulano già Inferno e De vulgari. Fra il 1304 e il 1306, secondo propone Petrocchi? Nel 1304 è in Toscana per le vicende della legazione del cardinale Niccolò da Prato, nel 1306 attende a libertatis officia nella curia malaspiniana: dunque, mese più mese meno, attorno al 1305, dopo il disastro ‘bianco’ nella battaglia della Lastra, dopo il fallimento del cardinale e quando ha cominciato a manifestarsi da parte di Corso Donati un atteggiamento d’apertura e di ricerca di neppur segretissime intese nei confronti dei fuorusciti. Perché, se sullo scheletro d’un giornale di viaggio vogliamo impolpare una biografia mentale e politica, allora è necessario ricordare che Gherardo da Camino era guelfo fervente, intrinsecamente legato agli Estensi e, da sempre, ai guelfi fiorentini, tra i quali suo costante punto di riferimento fu Corso Donati.
Per questa ragione Carpi ritiene perfettamente compatibile e appropriato che Dante abbia composto il trattato a Treviso, impossibile che lo abbia composto a Bologna, che dopo la rottura coi Bianchi e la richiesta di perdono a Firenze doveva essere diventata per lui terra bruciata. Invece è impensabile che Dante abbia scritto il De vulgari eloquentia in una fase della vita in cui mirava a essere perdonato e riaccolto a Firenze. Basta leggere che cosa c’è scritto. Carpi, peraltro, non è il solo a non averci fatto caso: è un luogo comune ripetuto molte volte che, cadute le speranze di rientrare a Firenze con le armi, Dante punti a essere richiamato per i suoi meriti letterari, cioè grazie al Convivio e al De vulgari eloquentia. Per darne solo pochissimi esempi, Marigo stesso (1938, p. XXIII):
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Quella sconfitta fiaccò negli altri ogni ardimentosa speranza di ritorno colla forza in patria; ma egli aveva antiveduto e s’era proposto di preparare per sé quel ritorno per altra via, onesta e gloriosa: il riconoscimento da parte dei suoi concittadini non solo dell’ingiusta condanna, ma anche dell’onore che si sarebbe dovuto rendergli come poeta e come uomo di alto sapere. Di tanto sentiva che si sarebbe reso degno, acquistando una fama che avrebbe oltrepassato i confini della piccola patria. E però ora può parlare dell’ingiusto esilio con animo pacato, benché più altero che nel Convivio (I, iii, 4-5), protestando il suo indefettibile amore per Firenze e la sua innocenza, ma mostrando anche quale conforto gli venisse, fuori della sua terra, dalla gloria di poeta, e dall’alta coscienza del proprio valore: «quantum vero suos familiares [del volgare illustre] gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus» (I, xvii, 6).
MalaTo (20022, pp. 54-55): Probabilmente Dante si è dissociato dagli avventurosi progetti di quei proscritti di riconquista del potere con le armi, coltivando invece la speranza che il suo prestigio di intellettuale, la sua fama di letterato e di poeta potessero guadagnare a lui un provvedimento di amnistia, quale spesso in passato, nell’oscillazione continua della situazione politica fiorentina, ad altri esuli era stato concesso […]. In questa linea, mirati principalmente ad accrescere la propria fama, si collocano forse i progetti di opere importanti, come il Convivio e il De vulgari eloquentia, avviati proprio in quegli anni, fra il 1303 o ’4 e il 1307 circa.
inglese (2015, p. 82): La speranza del ritorno in patria permane, ma ora è tutta affidata al prestigio di Filosofo-poeta e alle opere che tale prestigio dovranno incrementare: anzitutto i trattati, De vulgari eloquentia e Convivio.
Cioè Dante spererebbe di essere richiamato a Firenze con tutti gli onori perché ha scritto che i Toscani, «ingordi nella loro dissennatezza, pretendono di arrogarsi il titolo del volgare illustre»; e che «in ciò non vaneggia solo il sentire del popolino», ma anche quello di uomini famosi, fra cui Brunetto Latini; «e poiché i toscani più degli altri delirano in questa ubriachezza, sembra giusto e utile sgonfiare i volgari municipali della Toscana, uno per uno», a cominciare da quello dei fiorentini che dicono «“Manichiamo introcque, che noi non facciamo altro”» (VE I xiii 1-2); o perché ha esaltato «quegli eroi luminosi, Federico imperatore e il suo degno figlio Manfredi» – cioè gli imperatori svevi in memoria dei quali Farinata compì «lo strazio e ’l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso» (If X 85-86) – i quali «spandendo la nobiltà e la dirittura del loro spirito, finché la fortuna lo permise perseguirono ciò che è umano, sdegnando ciò che è da bruti […], sicché ai loro tempi tutto ciò che partorivano gli spiriti più insigni fra gli Italiani vedeva la luce nella reggia di quei sovrani» (VE I xii iv).
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Dovrebbe essere evidente che Dante ha scritto il De vulgari in una sua fase personale di massima ostilità – non umorale, non episodica, ma strategica, intellettuale, politica, poetica e linguistica – contro Firenze. 2.10. Nella mia edizione del De vulgari eloquentia (2011) ho sostenuto che il trattato è stato strutturato e scritto a Bologna, dove Dante risiedeva non per caso ma per scelta, e che di questa scelta risente profondamente. Idea che ho sintetizzato con le parole: «ancor più che indizi del fatto che il trattato sia stato scritto a Bologna, io vedo in esso indizi che sia stato scritto per Bologna» (Tavoni Ed. 2011, p. 1115). La seconda cosa, se mai non fosse chiaro, per me presuppone ovviamente la prima22. E in una nutrita serie di lavori successivi (Tavoni 2014a, 2014b, 2014c, 2015, 2016, 2017a, 2018, i.c.s.) ho sviluppato ulteriormente vari presupposti, aspetti e implicazioni di questa tesi. Nella sezione 4 esaminerò sistematicamente gli argomenti che la sostanziano. Qui accenno solo all’idea che la cosiddetta battaglia della Lastra – dopo la quale, ovviamente, è stato scritto il De vulgari eloquentia – segna per Dante solo la definitiva rottura con la compagnia, malvagia ma soprattutto incredibilmente scempia, dei fuorusciti fiorentini, capitanata da Baschiera della Tosa, responsabile di quella inimmaginabile disfatta militare; non segna affatto la sua defezione dal fronte guelfo bianco. Non è questo il momento in cui Dante si rassegna a chiedere perdono ai guelfi neri che governavano Firenze: lo farà solo nel corso del 1306, dopo che il rovesciamento del regime guelfo bianco di Bologna (gennaio-febbraio) lo investì violentemente, azzerando una seconda volta le sue prospettive di vita, e poi, con la conseguente caduta di Pistoia assediata (11 aprile), andò semplicemente distrutto ogni resto del fronte guelfo bianco in tutta l’Italia centro-settentrionale23. Non è Dante che diserta, è il fronte guelfo bianco che non esiste più. Rimando qui al § 3.2 il lettore che voglia valutare su quali argomenti si fonda questa interpretazione, diversa dall’interpretazione corrente, di che cosa sia stata la cosiddetta battaglia della Lastra in sé stessa e di che cosa abbia rappresentato nella biografia politica di Dante. In aggiunta a questo, segnalo solo che in Tavoni (2014a, pp. 47-53 e 2015, pp. 98-103), ho risposto alle obiezioni mosse alla tesi bolognese che avevo argomentato nella mia edizione, e in 2017a, puntualmente, a quelle espresse da Fenzi nella sua edizione. Non mi interessa riesumare qui né le obiezioni né le risposte. Ma solo oggi mi accorgo di quanto quelle obiezioni fossero simili, retoricamente simili, alla resistenza che era stata esplicitamen22
Cfr. invece qui § 2.13. Come ho sostenuto in Tavoni (2014b, pp. 84-85; 2015, p. 142); cfr. BarBero (2020, pp. 203-204). 23
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te o tacitamente opposta alla tesi di Marigo cinquant’anni prima. Sembra che il tempo non sia passato. Anche la spia stilistica del futuro epistemico concessivo («il volgare di Bologna sarà, sì, il più bello, ma…») riemerge uguale da quel lontano passato. C’è un concetto che circola in queste obiezioni: ‘biografismo’. Ecco, mancava questa parola per spiegare quello che è successo anche negli anni 1965-1978. Per spiegare perché, per esempio, il convegno bolognese del VII centenario della nascita, dedicato a Dante e Bologna ai tempi di Dante, avesse risolutamente bandito, senza dirlo, l’idea che il più straordinario trattato linguistico del medioevo europeo potesse essere stato concepito e scritto a Bologna grazie a Bologna. Oggi abbiamo la parola per spiegarlo: lo aveva fatto – verosimilmente – perché quell’idea peccava di ‘biografismo’! A commento di questa parola-chiave, mi permetto di riportare questa considerazione: Trovo impropria la critica di ‘biografismo’ che è stata mossa alla mia argomentazione pro-Bologna; non solo perché è una critica inafferrabile (cosa vuol dire in concreto?), ma perché altrettanto sostanziale è stato l’influsso inverso, del testo sulla biografia: l’assetto ideologico evidente del De vulgari eloquentia, infatti, costringeva ad arzigogoli interpretativi assurdi se lo si manteneva calato in una fase biografica ritenuta di riavvicinamento a Firenze. La necessità degli arzigogoli svanisce come neve al sole una volta che si riconosca, fatti alla mano, che il periodo 1304-inizio 1306 non è di riavvicinamento ideologico a Firenze. Un biografo di Dante potrebbe forse accusarmi di ‘testualismo’, se questo concetto esistesse (Tavoni 2017a, p. 24).
2.11. Marco Santagata, nel suo Dante. Il romanzo della sua vita (2012), all’inizio del capitolo «Il ritorno agli studi e alla scrittura. 1304-1306», scrive (p. 171): Da quando Dante si distacca dai compagni d’esilio la documentazione, già scarsa, si rarefà ulteriormente fin quasi a scomparire. Da questo momento, per riempire di contenuti la sua vita non possiamo affidarci che a ricostruzioni indiziarie. Perfino la prima tappa del suo girovagare dopo la rottura di metà 1304 è individuabile solamente per congettura. Tutto lascia credere, però, che essa sia Bologna.
Questo «Tutto» che portava a Bologna, per Santagata, erano essenzialmente le ricerche sul Convivio e sul De vulgari eloquentia dei due studiosi che aveva chiamato a commentare le due opere nell’edizione da lui diretta per i Meridiani Mondadori, cioè Gianfranco Fioravanti e me. Santagata ha fatto benissimo a fidarsi di questi studiosi: grazie a questa scelta, non temeraria, questo capitolo della sua biografia è perfettamente aggiornato allo stato dell’arte – oso affermare – ancora nove anni dopo la sua pubblicazione. Il che non può dirsi della biografia che, per differenziarsi dalla sua, ha voluto qualificarsi come ‘non romanzesca’ (§ 2.13).
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2.12. Nel 2013, a pochi mesi dalla morte di Carpi, esce il suo secondo libro dantesco, L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio. Merita leggere la nota (p. 24 n. 14) nella quale Carpi si misura con il fatto nuovo rappresentato dalle indipendenti e convergenti ragioni a favore di Bologna emerse nelle ricerche di Fioravanti e mie, che confliggevano con le idee da lui maturate nello scrivere La nobiltà di Dante: La Bologna significativa nella biografia dantesca è dell’ultimo scorcio anni ’80 e forse anche primi ’90 del Duecento, molto meno degli anni d’esilio. Possibile e anzi probabile che Dante fosse a Bologna tra 1304 e primi mesi del 1305 (quando fra l’altro il De vulgari era già a buon punto, essendovi dato come vivo il marchese Giovanni di Monferrato morto all’inizio del 1305, con il che verrebbero in qualche modo soddisfatte le esigenze dei più recenti commentatori dei due trattati, Tavoni e Fioravanti, entrambi decisi nel ritenere imprescindibile per quelle scritture una stanza bolognese), non certo dopo il definitivo ed esplicito abbandono della parte alborum ancora al potere in città (men che meno successivamente, a dominio ‘nero’ intransigente dei Caccianemici restaurato, con il famigerato Fulcieri da Calboli scelto per la carica podestarile).
Dunque un eventuale soggiorno a Bologna breve e risicato, dopo la Lastra (o magari anche poco prima della Lastra), ma prima che il cambio di fronte di Dante risultasse conclamato. Una soluzione di compromesso esilissima,24 di cui credo che neanche Carpi si sentisse né sicuro né soddisfatto. Ma era quello che il tempo e le forze gli avevano permesso di fare, nel tentativo di aggiornare onestamente ciò che lasciava alla comunità degli studi, e cioè, «in servizio delle tante e ricche ricerche dantesche che vanno pullulando», come scrive nell’Introduzione, il suo personale contributo a «una lettura della poesia in chiave politica, concettuale. Come Dante pretendeva, lui che ha sempre collegato il proprio onore di poeta alla condizione di cive» (p. 12). I due libri danteschi di Carpi, come ogni altro libro di ricerca, possono e devono essere contraddetti nel merito, quando è il caso, in un’ottica di progresso delle conoscenze nella quale dovremmo tutti pacificamente riconoscerci, e nella quale Carpi si riconosceva appieno. Ma l’istanza fondamen24 «Col primo libro del Convivio siamo nel 1304 a Bologna, attorno al tempo della Lastra. Dante riprende a scrivere, ed è evidente che c’è stato uno strappo, che la fase ‘bianca’ degli attacchi armati a Firenze insieme ai fuorusciti ghibellini per lui è terminata, che i suoi referenti politici stanno o sono già segretamente cambiati», p. 61; «come io tendo a credere, il quarto trattato del Convivio è stato scritto a Treviso nel 1305-’06 subito prima dell’esperienza in Lunigiana e dopo le inquiete stanze a Bologna dalla metà del 1304 ai primi mesi del 1305 e – brevissima – a Verona-Mantova», p. 149; «… fin verso l’estrema avventura della Lastra. A questa Dante non aveva partecipato, rompendo così per sempre con la compagnia malvagia e scempia e trovandosi di conseguenza costretto a lasciare Bologna, in quei mesi ancora in mano ai ‘bianchi’», p. 151; «meno agevoli a questo punto, credo, eventuali stanze a Bologna, per lui troppo ‘bianca’ all’inoltrarsi nel 1305…», p. 156.
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tale che anima quei due libri, a mio giudizio, è sacrosanta, mentre gli arroccamenti difensivi contro quella istanza li trovo del tutto privi di interesse. E L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio, se guardiamo alla sua data di pubblicazione, al pari dei due grandi libri pubblicati dalle Edizioni della Normale (il primo, Carducci: politica e poesia, nel 2011, ma il secondo, Patrioti e napoleonici: alle origini dell’identità nazionale, anch’esso nel 2013), testimonia l’eroica vocazione e dedizione del loro autore a ciò a cui credeva: alla ricerca per la comprensione storica dei fatti culturali e letterari e della poesia. 2.13. Giorgio Inglese ci teneva a distinguere lo stile della propria Vita di Dante. Una biografia possibile (2015) da quello del Dante di Santagata, tanto che, alludendo al sottotitolo di questo (Il romanzo della sua vita), scriveva (pp. 10-11): Più che tentare l’ennesima ricostruzione lineare – di tenore romanzesco – della vita di Dante, mi è parso conveniente proporre una combinazione non troppo incoerente fra elementi certi, probabili o solo plausibili: e rendere il lettore partecipe della distinzione fra ‘certezza’ storico-filologica (comunque sempre aperta a rettifiche), probabilità ragionata e, infine, semplice plausibilità – non gratuita ma euristica.
Sulla base di questi ottimi propositi storico-filologici Inglese colloca il De vulgari eloquentia, stando al titolo del cap. 17 (p. 81), a «Treviso (13041305?)» – dove, si noti, il punto interrogativo è riferito solo agli anni, non al luogo. L’ipotesi Bologna da me argomentata sarebbe motivata, secondo Inglese, solo dalla «speciale attenzione che il De vulgari riserva alla città di Bologna e ai suoi poeti» (p. 83), cioè dalla motivazione più banale e risaputa, e non anche dall’altra dozzina di motivi da me addotti. E viene riformulata come «ipotesi che il trattato sia stato scritto a Bologna, o almeno ‘per’ Bologna» (ivi), dove lo stupefacente avverbio almeno tradisce la totale incomprensione ovvero l’esatto rovesciamento di ciò che io ho sostenuto. Che cosa possa significare ‘per’ Bologna ma non ‘a’ Bologna Inglese lo spiega così: «ossia in vista di una ‘pubblicazione’ che, partendo dalla città universitaria per eccellenza potesse meglio diffondersi nell’intera penisola». Non commento la sensatezza di questa idea25. Noto soltanto che non è un’idea del 2015, ma del 1998. Così infatti inglese Ed. (1998, p. 75), nella nota a VE I ix 4: Che Bologna conti molto nel DVE non può essere revocato in dubbio, e ciò ha indotto studiosi come il Marigo a ritenere che l’opera sia stata ‘meditata e preparata’ 25 Nell’enunciarla Inglese rimanda a «Fenzi, 2012, pp. XXIII-XXIV», dove però non ce n’è traccia.
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a Bologna; si può anche pensare che, dovunque lo andasse componendo (per es., a Verona, come suggeriva Petrocchi), Dante pensasse di ‘pubblicare’ il trattato nella città universitaria, e pertanto riservasse tali cure alla sua lingua e letteratura.
Questa nota, a sua volta, è chiaramente ispirata da questo brano di Petrocchi, che compare uguale in PeTrocchi (1978, p. 38) e (1983, p. 109): L’esordio del De vulgari eloquentia è opera d’un uomo che tende celeriter a valorizzare l’originalità della propria impostazione di studio e il frutto dell’aqua nostri ingenii, quasi sollecitato da esteriori motivi che l’inducano a stendere un trattato che possa procacciargli udienza presso le corti o meglio in una città illustrata dallo Studio (donde le gentili espressioni indirizzate a Bologna, proprietaria del miglior volgare municipale, I, xv, 6, e d’un dialetto armoniosamente equilibrante la mollezza dei Romagnoli con la gutturalità dei Lombardi, I, xv, 3; città che è stata sede di illustri maestri dell’arte del dire, I, xv, 6).
Cioè, ricapitolando: Petrocchi, che come abbiamo visto (§ 2.4) si trovava davanti (Marigo, Renucci) l’ipotesi perfettamente logica, verosimile ed esplicativa di Dante a Bologna mentre scrive il trattato, prima la rifiuta senza neanche nominarla e la sostituisce con ipotesi venete infondate; poi, per tentare di recuperare gli ingombranti contenuti bolognesi del trattato, ne abbozza una versione di ripiego che differisce dall’originale per non essere né logica né verosimile né esplicativa, ma che in compenso, tanto per preservare la sovrana indipendenza di pensiero di Dante, assegna ai suoi giudizi linguistici un fine smaccatamente opportunistico. Questa seconda versione piace a Inglese, che ci aggiunge di suo la pensata della ‘pubblicazione’; e ritiene che questa idea, pensata nel 1978 per ribattere ad argomenti formulati nel 1938, vada ancora bene nel 2015 per ribattere ad argomenti formulati nel 2011 e 2014. Comunque: «Questa seconda versione dell’ipotesi [cioè ‘per’ Bologna ma non ‘a’ Bologna] è più credibile della prima» (p. 83). Perché? Perché, a detta di Inglese, Dante aveva rotto con la compagnia dei Bianchi fiorentini, e dunque «se, prima di guadagnare un asilo più sicuro di là dal Po, si fermò a Bologna, questo soggiorno dovette essere piuttosto breve» (ivi). L’idea è presa da carPi 2013a (v. qui § 2.12), essendo peraltro Inglese agli antipodi dell’impostazione, della mentalità e dello spirito di Carpi. In realtà, Carpi è un riferimento bibliografico recente da poter citare, ma le posizioni sono, alla lettera, quelle di PeTrocchi (1966, 1978, 1983), a Inglese ben più congeniale. Ora, Inglese avrebbe potuto anche accorgersi da solo che l’argomentazione di Petrocchi non stava in piedi (v. §§ 2.4-2.5). O almeno poteva prendere atto che era stata smontata da Indizio nel 2004 (§ 2.8). O, se non subito, poteva prenderne atto almeno quando l’articolo era stato ristampato, nel 2013, in un libro di 500 pagine intitolato Problemi di biografia dantesca pubblicato da una casa editrice specializzata in studi danteschi. Ma non ha fatto nessuna di queste cose.
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Dunque un esimio filologo e dantista presume di liquidare con poche frasi, riciclate dai decenni precedenti, un’argomentazione complessa e coerente, frutto di anni di ricerca, senza misurarsi con essa e travisandola. Inoltre Inglese, che pure ha curato anche lui un’edizione tradotta e commentata del De vulgari eloquentia (1998, 20022), a volte sembra non aver presente che cosa c’è in questo trattato. Altrimenti non scriverebbe che Dante sperava di essere richiamato a Firenze per le belle idee che ci aveva messo (cfr. § 2.9). Non scriverebbe che «nel De vulgari eloquentia non è operante il tema dell’Impero» (p. 81)26. E non scriverebbe che il luogo di composizione più probabile è Treviso, perché Treviso (vedi sezione 5) è l’ultima città dove il De vulgari eloquentia poteva essere composto. Beninteso, nessuna di queste tre idee sbagliate è originale di Inglese, ma chi si presenta come capace di discriminare fra ciò che è storicamente e filologicamente certo, ciò che è probabile e ciò che è solo plausibile, non può prendere sempre per buoni tutti i luoghi comuni che si trascinano nella bibliografia. 2.14. È comprensibile che chi scrive un’intera biografia di Dante, e su un particolare segmento di essa si trova davanti, nel panorama degli studi, due alternative, non spenda mesi di studio per farsi una propria opinione, ma presenti al lettore l’alternativa lasciandola aperta. È quello che fanno, rispetto all’alternativa Bologna / Treviso, due biografie uscite nel 2020-2021: cioè il Dante di Alessandro Barbero (2020), e Vite nuove. Biografia e autobiografia di Dante di Elisa Brilli e Giuliano Milani (2021b). Il Dante di Alessandro Barbero, premesso che «per il periodo fra la metà del 1304 e l’autunno del 1306 i riscontri documentari mancano completamente», presenta le due ipotesi che «sono state più fortunate di altre», e dà per prima quella bolognese, sintetizzandola correttamente e definendola «affascinante quanto inverificabile» (p. 197): L’ipotesi è sostenuta da molti studiosi, fra cui uno dei più recenti editori del De vulgari eloquentia, Mirko Tavoni, convinto che Dante abbia scritto lì quell’opera e gran parte del Convivio, iniziato poco prima a Verona; e che entrambe le opere siano caratterizzate da una medesima intenzione politica e pedagogica, rivolta in generale ai ceti dirigenti italiani, ma calibrata pensando a Bologna: una grande città retta da un comune popolare e guelfo, ma anche la sede della più grande e prestigiosa università al di qua delle Alpi. Lì Dante avrebbe voluto costruirsi un futuro, di dictator, di politico e di ‘filosofo laico’, sicché il De vulgari eloquentia sarebbe stato scritto non soltanto a Bologna, ma per Bologna.
Dell’altra ipotesi, «quella di una permanenza a Treviso, dove fino al marzo 26 Delle tre idee questa (che era già in Inglese Ed. 1998, p. 26) è l’unica che viene argomentata, in Inglese (2012, pp. 512-513). La discuto al § 4.12.
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1306 dominava Gherardo da Camino», Barbero invece dice solo che «l’argomento principale è che di questo signore Dante parla benissimo e più volte» (p. 201). Dice bene, perché altri argomenti non ne esistono, e questo unico si carica di una qualche apparente sostanza solo nel caso di un ipotetico appoggio guelfo nero alla richiesta di perdono di Dante, su cui infatti Barbero si sofferma per un paio di pagine. Il libro di Elisa Brilli e Giuliano Milani Vite nuove. Biografia e autobiografia di Dante (preceduto dall’edizione francese Dante. Des vies nouvelles) affianca in modo originale, tenendoli programmaticamente distinti, l’approccio dello studioso di storia sulla biografia documentaria di Dante e quello della studiosa di letteratura sull’autorappresentazione che Dante dà della propria vita (di qui il titolo e sottotitolo del libro). Ecco come viene presentata l’alternativa Bologna / Treviso (p. 151): Dove si trova Dante tra il marzo 1304, al tempo della lettera a Niccolò da Prato, e la disfatta della sua parte nel 1306? È ancora con i ribelli o si trova altrove? I documenti, di nuovo, tacciono. Da sempre i biografi tentano di colmare questo vuoto. Recentemente Mirko Tavoni ha insistito sulla possibilità di un soggiorno prolungato a Bologna che potrebbe aver ispirato l’ideazione e la scrittura del De vulgari eloquentia. Altri hanno pensato a un ritorno in Veneto [in nota rimando a Inglese 2015, p. 81]. Queste ipotesi, che si basano entrambe su argomenti persuasivi, condividono tuttavia la debolezza di fondarsi su scritti di Dante, ma non su dichiarazioni esplicite in cui egli faccia riferimento ai suoi spostamenti e ai suoi soggiorni.
Questo brano deve essere correttamente interpretato (come mi confermano anche comunicazioni personali dei due autori) alla luce del principio costitutivo di questa biografia a due mani, enunciato sopra. Quindi l’ipotesi bolognese e quella trevigiana qui vengono affiancate alla pari perché nessuna delle due si basa su documenti d’archivio – né peraltro sono, né l’una né l’altra, oggetto di autorappresentazione. Capisco l’interesse metodologico di attenersi esclusivamente, e ‘sperimentalmente’, alla comparazione tra i risultati dell’analisi dei corpora documentari e di quella dei racconti di sé. Se invece, più tradizionalmente, e certo legittimamente, si considerano insieme la vita e l’opera, attivando il circolo virtuoso tra le informazioni provenienti dall’una e dall’altra, la sproporzione fra gli argomenti a favore della composizione del De vulgari eloquentia a Bologna e a Treviso è quella che appare dalle sezioni 3, 4 e 5 del presente lavoro. 2.15. Paolo Pellegrini, nel paragrafo «Tra Convivio e De vulgari eloquentia» del suo Dante Alighieri. Una vita (2021, pp. 95-103), divaga su data e luogo di composizione delle due opere, così da lasciare il lettore con l’idea che ognuno dice la sua, chissà se si saprà mai qual è la verità. Ci dispensa qualche lezioncina di metodo:
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… sebbene attraverso una lettura forse troppo sbilanciata sui possibili orientamenti politici di Dante… (p. 99); una lettura deterministica [!] del rapporto tra testo e contesto va condotta con estrema cautela, senza dimenticare che Dante evidenzia invece una notevole libertà di giudizio nei riguardi delle situazioni in cui veniva a trovarsi, sia pure di estrema necessità (p. 101),
e ci fa capire quale sia, in mezzo a tante opinioni, la linea di pensiero più filologica, più coi piedi per terra (p. 96): Al silenzio eloquente di Michele Barbi, Giorgio Petrocchi rispondeva ipotizzando un possibile e prolungato soggiorno del poeta a Treviso tra l’estate del 1304 e la metà del 1306, ospite di Gherardo da Camino, già capitano della città che aveva appena ceduto il timone al figlio Rizzardo. In mancanza di ipotesi più convincenti [!], Giorgio Inglese ha rilanciato dubitativamente la proposta ricordando l’alto elogio che di Gherardo Dante affida al IV libro del Convivio e la onorevole menzione del buon e saggio Gherardo del canto XVI del Purgatorio (vv. 124 e 133).
Si tratta della linea di pensiero Petrocchi-Inglese, la cui saldezza razionale abbiamo potuto apprezzare ai §§ 2.4, 2.5 e 2.13, per cui a Pellegrini si attagliano in terza battuta le stesse parole già spese per Inglese, con le aggravanti di altri cinque anni di bibliografia scientifica ignorata e altre otto pagine di discorsi inconcludenti. Il lettore di quelle otto pagine, se non ha informazioni pregresse, per esempio uno studente, si chiederà a cosa servono tutte queste discussioni che non portano a niente e che, soprattutto, non ci dicono niente sul pensiero di Dante. Il lettore che abbia informazioni pregresse, invece, vede benissimo che l’unica tesi dotata di argomentazione cospicua, e intrinsecamente collegata col pensiero di Dante, cioè quella bolognese, è stata resa irriconoscibile per lasciare spazio alla ‘narrazione’ – è la parola giusta – del desultorio compilatore. È la negazione della filologia e dell’idea stessa di ricerca scientifica nel senso proprio della parola: cioè di un complesso di attività razionali, qualificate, organizzate, metodiche, esaustive, impegnative, coerenti, oneste, tendenti a uno scopo: arrivare a capire qualcosa di vero e di rilevante che non si era capito prima. 2.16. È interessante vedere se l’eventuale matrice bolognese del De vulgari eloquentia, assente (come abbiamo visto al § 2.3) dal convegno Dante e Bologna ai tempi di Dante, sia stata presa in considerazione dall’italianistica e dall’archivistica bolognese nei decenni successivi. Nell’ambito del convegno stesso, l’articolo di Ezio Raimondi I canti bolognesi dell’Inferno dantesco conferma questa assenza. La Bologna di Dante è, oltre a quella infernale, del tutto negativa, che dà il titolo all’articolo, quella
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purgatoriale, del tutto positiva, e Raimondi si chiede se ci sia un «disegno compositivo» che regola questa antitesi: dal testo di Dante si ricavano in fondo due immagini di Bologna. Vi è una Bologna di maggiorenti o di uomini di cultura […], quella dell’Inferno; e una Bologna di scrittori e di artisti, ospite del Purgatorio: e siccome la prima finisce in qualche modo col contrapporsi alla seconda, è lecito supporre che ciò non dipenda soltanto dalla qualità degli «exempla» e degli incontri che trovano posto in due cantiche così diverse, ma anche da un certo disegno compositivo, di cui importa sino a un certo punto che lo scrittore abbia chiara coscienza, dal momento che ciò che conta, anche in questo caso, è la logica stessa della sua opera nell’inquietudine, nello scatto degli umori che ne attraversano il tessuto (p. 48).
Ma, come risulta da queste ultime parole, quale possa essere questo «disegno compositivo», nel senso di «quali siano le convinzioni, dichiarate o segrete, che regolano nella Commedia l’evocazione del milieu bolognese» (p. 47)27 Raimondi non lo dice, anzi non sembra interessato a cercarlo: «Secondo il Lewis28, anzi, il poema dantesco si viene scrivendo come da se stesso e al poeta non resta altro che dare ordine alle energie che si combinano nel testo e ne dirigono lo sviluppo poetico» (p. 48). Parole sintomatiche del clima culturale: poiché il testo si scrive da solo, per dinamica endogena, l’autore è allontanato sullo sfondo, e non si affaccia neanche il sospetto che una spiegazione semplice e corposa dell’antitesi tra la Bologna infernale e quella purgatoriale sia proprio nel precisabile rapporto politico-biografico di Dante con Bologna nel tempo29. L’unico riferimento biografico evocato è «fuori dalla Commedia, all’altro Dante del sonetto alla Garisenda, al poeta giovane per il quale Bologna resterà per sempre la terra dove il ‘padre’ della nuova letteratura intonò Al cor gentile» (p. 71). E, fra questo poeta giovane a Bologna, e il poeta della Commedia, che non sappiamo (e non ci interessa 27 La frase completa – «Ma chi voglia oggi riprendere il discorso sugli inserti bolognesi del museo infernale dantesco, dovrà rinunziare del tutto all’intento celebrativo imposto da un costume ormai antico, per considerare piuttosto quali siano le convinzioni, dichiarate o segrete, che regolano nella Commedia l’evocazione del milieu bolognese» – fa sospettare che una ragione per cancellare dal convegno bolognese il tema della composizione bolognese del De vulgari fosse che esso venisse collegato al «costume ormai antico», stile studiosi locali, di rivendicare cimeli danteschi con «intento celebrativo». 28 Si tratta di Clive Staples Lewis, citato anche nelle pagine precedenti (26, 36) della raccolta Metafora e storia. Il riferimento specifico può essere al capitolo «The Genesis of a Medieval Book», in lewis (1966, pp. 18-40), per esempio a un passo come questo (p. 38): «In my opinion all criticism should be of books, not of authors. But when we are treating the Middle Ages it often must be. For many of the texts there is no one human being who can really be called the author in the full sense». 29 Rapporto che ho cercato di analizzare in Tavoni (2014c, pp. 51-66), ripreso in (2015, pp. 228-249). Nota bene Mineo (2016, p. 85): «La riflessione [di Raimondi] sui personaggi evocati nel mondo bolognese va oltre l’aspetto puramente cronachistico per coglierne la simbolicità etica. Meno o per niente quella politica».
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sapere) che rapporti avesse con Bologna, il trattatista del De vulgari eloquentia, cronologicamente intermedio fra i due, non esiste proprio. Di stampo storicizzante, invece, gli interventi di eMilio PasQuini (1980, 1987, 2018, 2021). Ha perfettamente ragione arMando anTonelli (2015, e curatela di PasQuini 2021) a rendere omaggio a Pasquini come al principale sostenitore, a Bologna, della fondamentale importanza di Bologna per Dante e viceversa. Pasquini è convinto che Dante, dopo il soggiorno giovanile negli anni del sonetto alla Garisenda, debba aver compiuto un secondo e ancor più importante soggiorno a Bologna nei primi anni dell’esilio: Non c’è ragione […] di dubitare della testimonianza di Giovanni Villani circa un nuovo soggiorno di Dante a Bologna nei primi anni dell’esilio (fin verso il 1303) insieme con altri fuorusciti di Parte bianca (1980, p. 282); dopo quel soggiorno da studente ce ne dovette essere almeno un secondo, in età più matura, assai più lungo ed intenso. Tutto lascia pensare, – anche alla luce della testimonianza di Giovanni Villani – che esso debba collocarsi nei primissimi anni del Trecento, quando (1303) Bologna accolse gli esuli e i fuorusciti di ‘parte bianca’ (1987, p. 65); una conoscenza approfondita del milieu bolognese, nel suo spessore sociale: maturata in almeno due soggiorni, più significativo forse il secondo, non più da oscuro studente ma da fuoruscito di qualche prestigio (1987, p. 67);
e che questo secondo soggiorno sia presupposto dal De vulgari eloquentia: Questo secondo soggiorno bolognese dovette lasciare tracce nelle riflessioni linguistiche depositatesi nel De vulgari. È giocoforza ammettere un’esperienza diretta della parlata locale alla luce della raffinata distinzione in base alla quale Dante […] esemplifica la differenziazione delle parlate interne alla stessa città proprio attraverso l’exemplum di Bologna (I, IX, 4-5) (1987, p. 66).
Pasquini, però, sembra escludere che questo secondo soggiorno possa coincidere con la stesura del De vulgari: Un’affermazione [quella sulle parlate di Strada Maggiore e di Borgo San Felice] che si colloca fra il 1303 e il 1305, senza che debba postularsi che il De vulgari sia, tutto o in parte, redatto a Bologna (ivi).
Perché sembra escluderlo? A parte il giudizio che conosciamo di Mengaldo (§ 2.2), che Pasquini fa suo a p. 66, lo esclude perché gli risulta che Dante non dovette rimanere a Bologna oltre il 1303 – vedi sopra «nei primi anni dell’esilio (fin verso il 1303)»: … ma egli non dovette rimanervi a lungo, anche per i collegamenti crescenti che si andavano stabilendo fra il capoluogo emiliano e la Chiesa in nome di un guelfismo sempre più intransigente e antimagnatizio (1980, p. 282);
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In ogni caso, Dante non dovette rimanere a lungo a Bologna, anche per via dei collegamenti che si andavano infittendo fra il capoluogo emiliano e la Chiesa, in nome di un guelfismo sempre più intransigente. Irreversibile, ormai, la sua collocazione politica, per il distacco da parte guelfa o da ogni compromissione con l’egemonismo papale (1987, p. 65).
La fonte dichiarata sottostante a queste affermazioni è la voce Bologna di Augusto Vasina nell’Enciclopedia dantesca. Il quale non scrive una voce banalmente evenemenziale, ma un’interpretazione delle linee politiche di fondo sul medio – e imprecisato – periodo. Cioè una voce inadatta a rapportare con precisione cronologica la storia, o diciamo pure la cronaca, politica di Bologna con la biografia di Dante; e in qualche punto fuorviante, come nell’affermazione che dal 1306 «Bologna parve legarsi sempre più alla Chiesa» (p. 661). È vero il contrario: il legato di Clemente V cardinale Napoleone Orsini, come già il suo predecessore cardinale Nicolò da Prato legato di Benedetto XI, per effetto del completo rivolgimento della politica papale dopo la morte di Bonifacio VIII, tiene una linea filo-bianco-ghibellina al punto da venire cacciato da Bologna. E come nel passo seguente (ivi): Se Dante fu a Bologna anche dopo il penultimo decennio del Duecento, si può ragionevolmente presumere che ciò potesse accadere, se non prima, almeno nei primi anni del Trecento, quando Bologna accolse gli esuli fiorentini di Parte bianca (1303). In seguito, e soprattutto dopo il 1306, l’ambiente bolognese dovette farsi sempre meno accogliente per il poeta, fino a divenire proibitivo negli ultimi tempi della sua vita, come è adombrato nella corrispondenza poetica fra Dante e Giovanni del Virgilio (1319-1321).
Non ci fu, infatti, nessuna continuità progressivamente sempre meno accogliente per Dante, dal 1303 in poi, fino addirittura ai suoi ultimi anni, bensì – come analizzato al § 3.1 – un interruttore che scattò nel gennaiofebbraio 1306: fino al mese prima c’era per Dante piena accoglienza, da quel momento cala per lui una inaccoglienza mortale e irreversibile. Condizionato da questa rappresentazione inesatta, Pasquini ritiene che Dante non potesse stare a Bologna nel 1304 e 1305, quando scriveva il De vulgari eloquentia. A ciò si aggiunge Petrocchi, che gli fa dire: Fra il 1304 e il 1306 si apre una zona buia nella biografia di Dante: che probabilmente trascorse quel triennio fra Veneto e Marca Trivigiana (PasQuini 1987, p. 66).
Questa doppia informazione fuorviante spiega perché Pasquini, all’epoca, sia stato trattenuto dal fare l’ultimo passo, che sarebbe stato del tutto coerente col quadro, da lui costruito, degli influssi poetici, linguistici, retorici e politici esercitati da Bologna su Dante, «ove Bologna è la città, dopo Firenze, che più trova reattivo l’animo del poeta» (1987, p. 65). Ritornando trent’anni dopo sull’argomento, che gli è stato caro per tutta
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la vita, PasQuini (2018, p. 19) mostra di essersi tenuto aggiornato, e ci lascia un paragrafo perfetto su Convivio e De vulgari: Ben più profondi saranno stati i contatti di Dante con Bologna nel triennio 13041306, anche in assenza di dati documentari inequivocabili, paragonabili cioè al sonetto della Garisenda, prova tangibile di una visita del giovane poeta a piazza Ravegnana. Nessun aggancio storico-documentario innerva infatti i tanti indizi che legherebbero a Bologna la stesura dei due trattati messi in cantiere dopo l’esilio, il Convivio e il De vulgari eloquentia. Specie quest’ultimo risulta opera ‘bolognese’ fino al midollo; ma anche il trattato volgare rivelerebbe a iosa la consultazione e fruizione di testi quasi introvabili fuori da un grande centro universitario, dotato di ricche biblioteche30.
In tutto il volume Il gioioso ritornare, prodotto dall’Archivio di Stato di Bologna, queste parole di Pasquini sono le più chiare e avanzate. Massimo Giansante, curatore del volume, nel commentarle scrive (p. 11): «il che implica ripetute e prolungate presenze di Dante a Bologna nel triennio 13041306», aggiungendo in nota: «Tradizione [tradizione?] in realtà non accettata in modo unanime, ed anzi, direi, di recente considerata con un certo scetticismo». Questo «certo scetticismo» deriva dalla frase «su posizioni scettiche Inglese», puramente descrittiva, prelevata in una singola nota di un singolo contributo estratto dalle centinaia di pagine della bibliografia sull’argomento (di che qualità sia lo scetticismo di Inglese è descritto qui al § 2.13). Sembra che l’Archivio di Stato di Bologna si attesti su una linea di agnostica prudenza, in attesa di un futuro in cui gli studiosi accademici si siano allineati all’unanimità31. Ma proprio l’Archivio di Stato di Bologna è una miniera d’informazione primaria di valore superlativo al riguardo, e una fucina unica di ricerche di prima mano, per cui gli eccellenti studiosi archivisti che ci lavorano potrebbero avere più fiducia nella propria autonoma capacità di giudizio. È notevole che il più meritorio e infaticabile di questi studiosi, Armando Antonelli, si spinga a dire (2017a, p. 184 n. 30): Per questa congerie di indizi, per le congetture che da essi ho tratto, per il quadro culturale e intellettuale bolognese che pare fare da riferimento alle due opere dantesche, mi pare molto probabile rintracciare il marchio di fabbrica del Dve (e probabilmente del Convivio) a Bologna, concordando in ciò con Tavoni, nonostante le riserve ragionevoli avanzate da Fenzi, da Inglese e da molti altri32. 30 Quello che aggiunge in nota: «Ciò sia detto anche se non si voglia accedere alle tesi di M. Tavoni […] e di G. Fioravanti […], ma soprattutto di L. Gargan […], ecc.» ipotizzo che possa spiegarsi come un gesto di signorile riguardo verso i suoi maestri e amici a cui le formulazioni antenate di quelle tesi non piacevano. 31 Il video Dante e Bologna nei documenti dell’Archivio di Stato, curato da Massimo Giansante (https://www.youtube.com/watch?v=jnbub3Cr0Fw), ha il non piccolo difetto di non nominare neanche Convivio e De vulgari eloquentia. A parte questo, e a parte l’errore di dire che Dante «a Bologna tornò poi, dopo il 1301, dopo l’esilio, proveniente forse da Forlì», per il resto è ben fatto. 32 Stessa dichiarazione in anTonelli-cassì (2016, p. 200 n. 34 e 2018, p. 482 n. 25).
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Quel che conta è che Armando Antonelli, in una raffica di contributi (qui parzialmente elencati in bibliografia) negli ultimi dieci anni33, scopre e mette a disposizione della comunità scientifica una quantità formidabile di documenti in volgare bolognese (nel progetto Anteo illustrato in anTonelli 2018 se ne contano più di 900) e in altre lingue, e di varie tipologie documentarie e testuali, dotandoli di interpretazioni illuminanti, di cui qualunque futuro editore del De vulgari eloquentia dovrà tener conto per arricchire non solo di riferimenti fattuali, ma anche di spunti concettuali, il proprio commento. In questa abbondanza trascelgo questo solo passo (anTonelli 2017a, pp. 183-184), perché oltre a ricordare il profluvio di elementi che dal background bolognese passano nei due trattati, mette a fuoco la cosa più significativa: cioè l’interlocuzione con l’ambiente, con persone dell’ambiente, dalle quali l’autore prende spunti e alle quali si rivolge come a suoi destinatari privilegiati e immediati: Difficile non cogliere negli esordi del De vulgari e del Convivio riflessi anche puntuali a testi, a docenti, a tematiche (come quella del tradurre la scienza in volgare) in ebollizione nel milieu culturale cittadino. Dante, inaugurando il commento filosofico in volgare dei propri testi poetici, richiama proprio la traduzione bolognese di Taddeo Alderotti dell’Etica Nicomachea di Aristotele, nella versione alessandrina, che fu il primo tentativo bolognese di tradurre in volgare testi filosofici (I, X, 10). Una cospicua documentazione d’archivio testimonia, inoltre, l’ampia disponibilità di biblioteche di privati e di enti religiosi, l’abbondante circolazione e copia di libri, cui Dante avrebbe, in qualche modo, potuto attingere; fonti che potrebbero assommarsi a quelle di prima mano sulla poesia e sulla prosa in volgare bolognese, senza dimenticare che la città doveva apparire una vera e propria babele di lingue che risuonavano nelle strade frequentate da magistri, studenti di tutte le nationes, mercanti e prestatori, presenti in città. I titoli delle due opere, i meriti vantati (teorici e metodologici) disseminati da Dante nel proemio o in luoghi strategici delle due opere, la forte presenza autobiografica dell’autore, il confronto intenso e antagonistico, sia esso esplicitato o implicito, con maestri riconosciuti e con opere famose, la forte tensione competitiva con i contemporanei sono tutti elementi che possono, anch’essi, essere ricondotti naturaliter a Bologna, all’orizzonte d’attesa del pubblico cui paiono fare riferimento il Dve e il Convivio […] Mi sembra che le due opere dedicate al volgare trovino i loro lettori privilegiati a Bologna negli ambienti colti dei maestri dello Studium, dei notai e dei teorici dell’oratoria pubblica. Del resto la città era stata nel Duecento al centro del dibattito sulla poetica, che aveva visto contrapporsi a Guittone d’Arezzo e a Bonagiunta Orbicciani da Lucca l’innovatore Guido Guinizzelli34. 33 Cfr. PasQuini (2018, p. 18): «… Armando Antonelli: quello stesso Antonelli che da anni va recuperando una somma incredibile di documenti nei dintorni di Dante e dall’acribia del quale dobbiamo sperare qualche scoperta decisiva per il nostro poeta». 34 Concetti simili, ma non ripetitivi, in anTonelli-cassì (2018, pp. 480-481). L’importanza cruciale dei notai, che ritornerà più volte nel corso dell’argomentazione, venne focalizzata per primo
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3. Agibilità politica di Bologna per Dante negli anni 1304-1305 3.1. Per verificare se Bologna fosse una città politicamente agibile per Dante dalla metà del 1304 (poco prima o poco dopo la battaglia della Lastra, 20 luglio) fino al rovesciamento del regime guelfo bianco bolognese (gennaio-febbraio 1306), bisogna verificare due cose: se l’assetto politico della città fosse adatto a dare ospitalità a un fuoruscito guelfo bianco fiorentino come lui, e se lui fosse nelle condizioni politiche per fruire dell’ospitalità che Bologna poteva dargli. Che la risposta alla prima domanda sia positiva ce lo dicono già ricerche sul sistema delle alleanze fra Bologna e Firenze negli anni a cavallo fra Due e Trecento quali BorToluZZi (2017, i.c.s.), grillo (2020). Ma, per verificarlo in dettaglio, dotiamoci di un elenco cronologico dei fatti (atti di governo, eventi politici e militari, ecc.) che caratterizzano la politica di Bologna, facendo iniziare questo elenco dal momento in cui Bologna, nel 1299-1300, riammette i Lambertazzi esiliati diciannove anni prima, per ricostituire una unità di forze cittadine ritenuta necessaria per contrastare la minacciosa pressione del Marchese d’Este, e con ciò dà inizio al particolare assetto politico, che possiamo chiamare guelfo bianco, che durerà appunto fino all’inizio del 1306. Così potremo verificare quali siano i rapporti di questa Bologna guelfo-bianca prima con il Comune di Firenze, poi, dall’instaurazione in Firenze dell’assetto guelfo-nero (novembre 1301) e dall’esilio dei guelfi bianchi fra cui Dante (gennaio-marzo 1302), quali siano i rapporti di Bologna col nuovo Comune di Firenze e quali con i fuorusciti. Per mettere insieme un elenco di fatti sufficiente ai nostri scopi (nella consapevolezza che per essere esaustivi bisognerebbe mobilitare ben altra bibliografia storica), basta schedare le poche decine di pagine di orioli (1896) e viTale (1901, pp. 75-105), integrandole coi riferimenti a Bologna nei due monumentali capitoli «Bonifacio VIII e Firenze» (pp. 3-354) e «Bianchi e ghibellini sotto la protezione del papa» (pp. 355-476) di davidsohn (1960 [1912]). Ne risulta un elenco cronologico di una cinquantina di fatti che permettono di seguire la politica del Comune di Bologna anno per anno, anzi quasi mese per mese. Osservando questo elenco di fatti, la prima cosa di direttissima pertinenza dantesca che bisogna sottolineare è che la lega fra il Comune di Firenze e quello di Bologna, per comune difesa contro le ingerenze del papa, del carda livi (1918, «Parte prima. Cultori di Dante nel ceto dei notari», pp. 1-35; nonché Parte terza. Questione iconografica e altre conseguenti»), livi (1921, cap. I «Simpatie, predilezioni nel ceto notarile (secoli XIII e XIV); riflessi in quello mercantile (secoli XIV e XV)», pp. 3-26); v. quindi, rispettivamente per gli aspetti politici e letterari, giansanTe (1998) e sTeinBerg (2018 [2007]).
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dinale legato Matteo d’Acquasparta e di Carlo d’Angiò, viene richiesta da Firenze e trattata con Bologna sotto il priorato (15 giugno-15 agosto 1300) di cui fa parte Dante. Gli ambasciatori fiorentini parlano davanti al Consiglio di Bologna il 30 luglio e il Consiglio, dietro parere favorevole degli anziani e del capitano, approva la lega con Firenze. L’atto finale della sua approvazione è del 29 agosto, due settimane dopo che Dante era uscito dall’ufficio35. L’alleanza che viene così stipulata, sotto la diretta responsabilità istituzionale di Dante, fra i due Comuni guelfo-bianchi resterà in vigore finché l’assetto del Comune di Firenze non verrà sovvertito (fine 1301-inizio 1302), e da quel momento in poi si trasformerà in alleanza fra il Comune di Bologna e i fuorusciti fiorentini. Questo avrà molto probabilmente comportato anche rapporti politici personali di Dante con esponenti bolognesi che direttamente o indirettamente potevano ancora partecipare alla guida del Comune nel 1304 e 130536. Primo effetto di questa alleanza fu che il 28 ottobre 1300 il Consiglio del popolo di Bologna delibera di mandare quattro ambasciatori, insieme a quelli di Firenze, Lucca, Siena e Comuni minori, al papa; l’ambasceria viene solennemente ricevuta da Bonifacio VIII l’11 novembre (viTale 1901, p. 79; davidsohn 1960 [1912], pp. 189-190). E ugualmente messi bolognesi fanno parte dell’ambasceria che Firenze invia a Bonifacio VIII nell’ottobre 1301 – troppo tardi, quando già Carlo di Valois muoveva verso Firenze; ambasceria della quale si ritiene comunemente, anzi si può considerare accertato (Milani 2017, p. 45), che facesse parte anche Dante, e dalla quale non sarebbe più rientrato, in quanto colpito dal bando37. Dunque anche in questa importante occasione Dante ebbe modo di familiarizzare con ambasciatori bolognesi, probabilmente giuristi, del Comune di Bologna38. La seconda cosa da notare è che «la ragione che aveva spinto il comune bolognese all’alleanza con Firenze – un’alleanza che mirava alla difesa reciproca del territorio – stava nel pericolo continuo e minacciante da parte del 35 Come documentato in viTale (1901, pp. 78-79). Cfr. davidsohn (1960 [1912], p. 184) e sanTagaTa (2012, pp. 390 e 1123). 36 E il 28 settembre 1301 Dante, come membro del Consiglio dei Cento, interviene con Lapo Saltarelli per concedere a Bologna l’autorizzazione a far passare per il contado fiorentino del grano diretto a Bologna (viTale 1901, p. 81; davidsohn 1960 [1912], pp. 224-225; Milani 2017, p. 42). 37 Cfr. davidsohn (1960 [1912], pp. 227-228); sanTagaTa (2012, p. 136); inglese (2015, pp. 67-68); BarBero (2020, p. 154); Brilli-Milani (2021b, pp.108-109). 38 Come suggerisce arnaldi (1967, p. 173), citato al § 2.3. Se invece, come ipotizza PeTrocchi (1978, pp. 29-30), Dante fosse stato ambasciatore a Roma non in questa ambasceria del 1301 ma in quella dell’anno prima (ma è improbabile: indiZio 2013, pp. 164-165 n. 105), anche in quell’occasione avrebbe avuto agio di conoscere i colleghi ambasciatori bolognesi. È significativo che «quando i bolognesi richiesero ai Priori dei sapienti che li accompagnassero dal Pontefice specificarono “qui non sint de adherentibus Marchioni Exstensis vel Maghinardi de Suxana”» (BorToluZZi, i.c.s., n. 3).
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signore di Ferrara» (viTale 1901, p 80). Questa ossessione antiestense (e antiangioina) è la costante sempre in primo piano nella storia bolognese di questi sette anni, è in perfetta sintonia con l’odio e il disprezzo ripetutamente espresso da Dante nella Commedia, per il Marchese (If XII 111-112, Pg V 77, Pg XX 80-81) e per il capo della pars marchexana bolognese, il ruffiano Venedico Caccianemici (If XVIII 50), e si rapporta puntualmente a un dettaglio rivelatore del De vulgari eloquentia (su cui ci soffermeremo al § 4.13). Nel giugno 1302 il nuovo regime di Firenze stringe un patto d’alleanza con Carlo di Valois e Azzo VIII d’Este contro Bologna (davidsohn 1960 [1912], p. 335), e almeno dal marzo 1303 è documentato l’invio di soldati bolognesi in aiuto ai fiorentini bianchi nella spedizione mugellana, e la partecipazione di questi prima alla conquista del borgo di Puliciano poi alla sanguinosa sconfitta inferta da Fulcieri da Calboli (viTale 1901, pp. 89-90; davidsohn 1960 [1912], pp. 340-341). In aprile Bologna si schiera apertamente anche a favore di Pistoia e apre le porte ai fuorusciti Bianchi fiorentini (davidsohn 1960 [1912], pp. 306-307, 335). Infatti è a Bologna che il capitano della Universitas Alborum Scarpetta Ordelaffi, in maggio, stipula un mutuo di 250 fiorini a sostegno della Universitas, mentre la stipula di un secondo mutuo di 450 fiorini il 18 giugno ci regala, registrati nell’atto, i nomi dei fuorusciti fiorentini presenti a Bologna che s’impegnano nel prestito, e che assommano al ragguardevole numero di 131. Fra i quali non c’è Dante perché sappiamo che in quel momento si trovava a Verona39. L’appoggio di Bologna ai Bianchi fiorentini e a Pistoia è attestato continuativamente per tutto il 1303, 1304 e 1305. La lega coi ghibellini e i bianchi di Romagna viene rinnovata nel giugno 1303 in un parlamento tenuto a Ravenna a cui partecipano ambasciatori dei bianchi di Firenze e di Pistoia. Viene eletto capitano generale di tutta la lega Salinguerra Torelli, di nobile famiglia ghibellina fuoruscita di Ferrara (orioli 1896, p. 4). In agosto la lega stringe alleanza addirittura con Aretini e Pisani. La parte reggente di Bologna si accosta sempre più ai ghibellini, pur continuando a dichiararsi guelfa (viTale 1901, pp. 92-93)40. Nel luglio 1304 un contingente bolognese partecipa alla disastrosa battaglia della Lastra. Dopo che la sconsideratezza del comandante dei Bianchi, Baschiera della Tosa, ha compromesso la vittoria, si ritirano verso Bologna, lasciando però caduti sul campo. L’episodio, in sé stesso e per il suo signi39
Cfr. qui § 2.4 e n. 13. Come ha rilevato Bortoluzzi (2017, p. 16): «I termini ‘guelfo’ e ‘ghibellino’ avevano infatti perso il loro significato originario dal momento che la realtà politica era profondamente mutata rispetto ai decenni precedenti, rendendo impossibile un inquadramento ideologico netto e omogeneo. A Firenze e Bologna le due categorie erano state riportate all’interno della politica cittadina, utilizzate per indicare gli amici con i quali coordinarsi [chiamati guelfi], e i nemici, sia quelli interni, sia quelli esterni, da combattere ed escludere [chiamati ghibellini]» 40
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ficato nella biografia di Dante, richiede una valutazione diversa da quella tradizionale (Tavoni 2014b, 2015 pp. 110-146 e qui § 3.2), ma comunque anche dopo di esso Bologna continua a sostenere i bianchi toscani, p.es. partecipando, nel giugno 1305, insieme con aretini e ghibellini romagnoli, a combattimenti nel Valdarno superiore per distogliere forze dall’assedio di Pistoia (davidsohn 1960 [1912], pp. 410-412). Anzi, l’impegno di Bologna si intensifica e si estende, tanto che nel gennaio 1306 la lega esistente si trasforma in una grande alleanza che collega città padane (alle città romagnole si aggiungono la Verona di Alboino della Scala e la Mantova di Guido dei Bonacolsi) e toscane (Pisa, Arezzo, Pistoia e i Bianchi di Firenze), facendo di Bologna l’anello di congiunzione fra le due regioni. Bologna è ancora il centro della resistenza contro gli angioini, i guelfi neri toscani e il Marchesato d’Este, come lo era stata prima della morte di Bonifacio VIII (11 ottobre 1303), così nel teatro di guerra toscano come in quello padano41. Questo ha direttamente che fare con una caratteristica non fino ad ora riconosciuta al De vulgari eloquentia, cioè il suo combattivo spirito politico militante (cfr. § 4.13). Paradossalmente, proprio questo rafforzamento dell’alleanza – che «si estendeva dai piedi delle Alpi ai confini meridionali della Toscana e della Romagna» (davidsohn 1960 [1912], p. 436) – mise in moto la reazione che portò rapidamente al rovesciamento del regime guelfo bianco. Infatti «il 26 e 27 gennaio 1306 Modena e Reggio si sollevarono contro il marchese Azzone, riconquistarono la loro indipendenza e cacciarono via i funzionari dell’Estense. Così il minaccioso pericolo costituito dal potente nemico si allontanò da Bologna e dal suo territorio» (ivi), e questo fece crescere un’irritazione verso l’assetto dominante, responsabile di una inimicizia verso Firenze «che dispiaceva assai alla maggioranza dei Bolognesi» (ivi). Il potentissimo Romeo Pepoli passò alla parte avversa, si ebbero selvaggi tumulti e le consuete uccisioni, distruzioni ed efferatezze, e ai primissimi di marzo il cambio di regime era compiuto. Dopo poche settimane, il 10 aprile, l’inevitabile capitolazione di Pistoia. Contemporaneamente, il 5 aprile Bologna stipula un’alleanza Nera con Firenze, Lucca, Prato e Siena «ad conculcationem depressionem, exterminium atque mortem perpetuam ghibellinorum atque blancorum» (orioli 1896, p. 4). E il 6 ottobre ribadisce il divieto «quod nullus banitus et rebellis aut aliquis alius de parte blancorum de Tuscia» osasse «transire, stare seu habitare in civitate seu districtu Bononie» (livi 1918, p. 156). Dunque non è corretto dire che Dante poté tornare a Bologna «se non prima, almeno nei primi anni del Trecento, quando Bologna accolse gli esuli fiorentini di Parte bianca (1303). In seguito, e soprattutto dopo il 1306, 41
Cfr. Bortoluzzi (2017), Antonelli (2019), Grillo (2020), Bortoluzzi (i.c.s.).
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l’ambiente bolognese dovette farsi sempre meno accogliente per il poeta», come fa la voce Bologna dell’Enciclopedia dantesca, che, come abbiamo visto al § 2.16, continua a ispirare affermazioni recentissime. Non esiste un «ambiente bolognese sempre meno accogliente per il poeta» a partire dal 1303, esiste un regime politico accoglientissimo fino alla fine del 1305 che nel gennaio-febbraio 1306 viene rovesciato e sostituito con un regime di segno politico opposto che minaccia di morte quelli come Dante. A puntuale riprova della cronologia sopra individuata si può addurre la cronologia delle cariche istituzionali ricoperte a Bologna da Fulcieri da Calboli, mortale nemico della parte guelfa bianca e personalmente di Dante, che Dante evoca come belva sanguinaria due volte: per la vittoria sui guelfi bianchi a Castel Puliciano nel marzo 1303 e i successivi supplizi inferti agli sconfiti in veste di podestà di Firenze («Vende la carne loro essendo viva; / poscia li ancide come antica belva; / molti di vita e sé di pregio priva», Pg XIV 61-63); e con timore e orrore, sotto il nome di Polifemo, nella seconda egloga a Giovanni del Virgilio. Dante andrebbe a far visita a Mopso (cioè a Giovanni del Virgilio) se non temesse Polifemo (cioè Fulcieri): «Mopsum visurus adirem, / hic grege dimisso, ni te, Polipheme, timerem» (Egl IV 7475), così caratterizzato: «“Quis Poliphemon” ait “non horreat” Alphesibeus / “assuetum rictus humano sanguine tingui […]”» (76-77). Tale cronologia è stata esaurientemente ricostruita su nuova documentazione d’archivio da alBanese-PonTari (2016): la Tabella 1 «Fulcieri da Calboli capitano del popolo a Bologna» (pp. 118-119) mostra che Fulcieri è per due volte capitano del popolo dal settembre 1299 all’agosto 1300, poi per tre volte dall’ottobre 1307 al marzo 1309, prima di tornare a esserlo dall’aprile al settembre 1321, al tempo appunto in cui Dante scrive la IV Egloga e Fulcieri «era riuscito ad assommare in sé un potere assoluto, quasi da ‘tiranno’, trovandosi a ricoprire contemporaneamente le due più importanti cariche di capitano della guerra e di capitano del popolo, e aveva cominciato a emanare bandi feroci e condanne mortali contro i Pepoli e i nemici della fazione avversa, dando nuove prove e conferme della sua famigerata politica guelfa radicale e di inesorabili e feroci odi partigiani» (pp. 83-84). Dunque il più feroce nemico di Dante, forlivese e antagonista degli Ordelaffi, è escluso da Bologna negli anni in cui Bologna è governata dagli amici di Dante; e in quegli anni si distingue come comandante militare contro i fuorusciti bianchi nel Mugello, come podestà loro persecutore a Firenze nera e, alla fine del 1305, come podestà a Modena per conto di Azzo d’Este. Dato tutto ciò, quando a metà del 1304 – vuoi dopo il fallito tentativo di pacificazione del cardinale da Prato (diciamo in giugno), vuoi dopo la disfatta militare della Lastra (cioè a fine luglio-agosto) – Dante dovette chiedersi dove riparare, poté ben pensare che Bologna fosse una sede assolutamente accogliente per un guelfo bianco come lui per ragioni politiche generali, alle
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quali si aggiungevano ancor più favorevoli ragioni politiche personali per il ruolo che aveva avuto come priore nella preparazione dell’alleanza con Bologna, quell’alleanza grazie alla quale Bologna continuava a sostenere i fuorusciti bianchi; e per la probabilissima conoscenza personale di esponenti di primo piano del regime bolognese, incontrati in veste di priore, o comunque di politico fiorentino, o di ambasciatore in una comune importante ambasceria in Curia nel 1301 o nel 130042. Dante doveva conoscere direttamente, personalmente, ciò che avveniva nei luoghi di formazione delle decisioni politiche a Bologna. Lo conferma questa eccezionale agnizione verbale operata da BorToluZZi (i.c.s.) su una riformagione datata 1296 dell’Archivio di Stato di Bologna: tra il 1296 e il 1298, negli anni in cui si combatté la prima fase del conflitto contro Azzo VIII d’Este, il diretto coinvolgimento fiorentino a quelle vicende si manifestò anche nella presenza di emissari della città del Giglio ai più importanti consigli cittadini, inclusi quelli della balìa degli Otto di Guerra, una magistratura con poteri eccezionali creata appositamente per affrontare politicamente e militarmente il conflitto. Una seduta consiliare del 7 giugno 1296 fa ipotizzare che l’Alighieri conoscesse le espressioni utilizzate nei consessi istituzionali bolognesi. L’intervento di uno degli anziani, Liazario: «item de terris qui sunt intra Renum et Sapinam a strata supra accipiantur homines pro custodia dicti castri […]» suggerisce una innegabile coincidenza con il verso dantesco: «E non pur io qui piango bolognese / anzi n’è questo luogo tanto pieno, / che tante lingue non son ora apprese / a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno (corsivo mio)» [If XVIII 61]. L’eccezionalità del ritrovamento è data dal fatto che quella in questione non è espressione comune e nelle centinaia di verbalizzazioni scritte dai notai del governo durante il conflitto appare qui per l’unica volta. […] A rinforzare l’ipotesi suggerita dalle parole de quo, la costatazione che nell’Inferno siano pronunciate da Venedico Caccianemici che nel 1296 fu membro della commissione degli Otto di Guerra e risulta tra i presenti alla riunione del 7 giugno. Indizi che, se non ci permettono di ipotizzare la presenza di Dante alla riunione bolognese, ci suggeriscono una sua conoscenza lessicale di come si discuteva in queste assemblee. Una circostanza che non stupisce, dato che Dante occupava una posizione di primo piano nella politica cittadina [con rimando a Milani 2017].
3.2. Verificare se Dante, dalla metà del 1304 all’inizio del 1306, fosse o no nelle condizioni politiche per fruire dell’ospitalità che Bologna poteva dargli, significa decidere se era ancora un guelfo bianco o se – per dirla con le parole di Cacciaguida nel XVII del Paradiso – aveva già rotto con la «compagnia malvagia e scempia» (v. 62) dei fuorusciti fiorentini e fatto «parte per sé stesso» (v. 69), con ciò intendendosi la rottura con l’intero sistema di alle42 Senza contare la presenza a Bologna, in posizione sociale ragguardevole, di un ramo a lui vicino della famiglia Alighieri: v. qui n. 48.
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anze circostanti quel manipolo di disgraziati. La compagnia dei fuorusciti, in seguito a quella rottura, si sarebbe fatta «tutta ingrata, tutta matta ed empia» (v. 64) contro di lui; ma «poco appresso», gli profetizza Cacciaguida, «ella, non tu, n’avrà rossa la tempia» (vv. 65-66): rossa di sangue, s’intende, allusione che viene, o meglio veniva tradizionalmente riferita al sangue versato dai fuorusciti fiorentini nella sconfitta della Lastra. Dunque, s’intendeva generalmente traducendo la profezia in precisi fatti storici, il distacco di Dante doveva essere avvenuto poco prima del 20 luglio 1304: precisamente, nel brevissimo periodo posteriore al fallimento del tentativo di pacificazione del cardinale Niccolò da Prato, al quale Dante aveva partecipato come membro attivo della Universitas Alborum, e anteriore alla Lastra. Questo presunto momento di rottura, poi, è stato caricato di ulteriore significato da carPi 2004, che, come abbiamo visto al § 2.9, ritiene quello il momento in cui Dante, visto il fallimento dei tentativi di rientrare a Firenze con le armi, decide di chiedere perdono ai governanti guelfi Neri di Firenze scrivendo loro l’epistola perduta, ma vista da Leonardo Bruni nella cancelleria di Firenze, Popule mee, quid feci tibi? Questo gesto pubblico, secondo Carpi, lo rese un traditore e un nemico agli occhi dei guelfi bianchi, fiorentini e non, e dunque egli non ritiene credibile che soggiornasse a Bologna dalla metà del 1304 all’inizio del 130643. Almeno stabilmente e in pianta organica: nel libro del 2013, poi, Carpi lascia solo aperta la possibilità di eventuali, saltuari e non convincenti passaggi (§ 2.12). Nell’articolo La cosiddetta battaglia della Lastra e la biografia politica di Dante (2014b), ripreso nel cap. IV di Qualche idea su Dante (2015, pp. 105-146), ho dato una ricostruzione diversa di questo passaggio, che sintetizzo così: a) La sanguinosa sconfitta a cui alludono le parole di Cacciaguida «ella, non tu, n’avrà rossa la tempia» (v. 66) non è la battaglia della Lastra, del 1304, ma necessariamente una battaglia dell’anno precedente, quasi sicuramente la sconfitta di Castel Puliciano del 12 marzo 130344; b) è questa la data che segna un primo distacco di Dante dalla compagnia dei fuorusciti, a cui segue il trasferimento nella Verona di Bartolomeo della Scala, probabilmente preparato da un’ambasceria di Dante presso lo stesso signore, a nome dei fuorusciti, alla fine del 130245. Dante si allontana dalla compagnia ma non passa certo al partito nemico, anzi si trasferisce presso un signore ghibellino46, dal quale 43 Argomento echeggiato da inglese (2015, p. 83: cfr. qui § 2.13); cfr. BarBero (2020, pp. 200-201). 44 La profezia di Cacciaguida rientra in quell’autorappresentazione della propria vita che va sempre interpretata alla luce del testo di cui fa parte (idea particolarmente sviluppata in Brilli – Milani 2021); ma un evento storico reale corrispondente a «ella, non tu, n’avrà rossa la tempia» esiste. 45 Cfr. qui n. 12. 46 L’identità ghibellina di Bartolomeo e di tutta la famiglia non può considerarsi incrinata dal contingente avvicinamento, avvenuto nel settembre 1302, con i Della Torre; già «nel 1303 il
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poi, al momento del tentativo del cardinale Niccolò da Prato, marzo-aprile 1304, potrà senza traumi rientrare nella Universitas Alborum, ad Arezzo, dove si renderà utile scrivendo a nome del capitano della Universitas l’Epistola I. Questo rientra perfettamente in quella che Brilli e Milani (2021b, p. 152) hanno definito «Una militanza fluida» – dove «le adesioni cambiano di continuo, si confondono e si riconfigurano» – e però un eventuale tradimento e passaggio al partito nemico resta ovviamente un fatto drammatico e pericoloso; c) la descrizione tradizionale della cosiddetta battaglia della Lastra come mossa avventurista e scriteriata non è per nulla convincente; è molto più probabile che fosse, al contrario, una ottima opportunità militare creata dalla sagace regia del Cardinale da Prato come prosecuzione della politica con altri mezzi; l’occasione di prendere quasi senza colpo ferire Firenze, che il cardinale aveva astutamente sguarnito dei suoi difensori, per opera di una vasta e preponderante convergenza di assalitori, con ogni probabilità patrocinata dallo stesso cardinale, radunati da Pisa, Pistoia, Bologna e Arezzo, oltre che dalla Universitas Alborum. Una battaglia che, data la sproporzione delle forze in campo, era impossibile perdere, e che i Bianchi riuscirono a perdere solo per l’incredibile scoordinamento fra i diversi contingenti e per il demenziale comportamento del loro comandante; d) quindi la narrazione tradizionale di un Dante che vede l’avventurismo dell’iniziativa e rompe coi fuorusciti irresponsabili che non se ne accorgono (particolarmente assurda l’idea che Dante consigliasse di rimandare l’attacco a un momento più favorevole, quando le circostanze erano eccezionalmente favorevoli) non è compatibile con le reali caratteristiche di questa iniziativa47.
Per tutte queste ragioni, argomentate nei lavori sopra citati, niente può farci sospettare che Dante – vuoi dopo il fallito tentativo di pacificazione del cardinale da Prato, vuoi dopo la disfatta militare della Lastra – avesse assunto posizioni politiche che gli rendessero problematico rifugiarsi a Bologna e lì costruirsi una nuova vita e una nuova interessante prospettiva di impegno intellettuale. E non solo non c’è nulla che osti a ciò, ma c’è lo speciale movente positivo costituito dai pregressi, personali rapporti di Dante con politici bolognesi D. [Bartolomeo Della Scala] tornò all’amicizia che aveva tradizionalmente caratterizzato per l’addietro i rapporti fra i Della Scala ed i Visconti» (varanini 1989, p. 383). 47 Mangini (2017, p. 147): «Si tratta evidentemente di una cronologia innovativa che ha lo scopo di segnare più profondamente (anche e soprattutto rispetto alla ricostruzione dello stesso Carpi) la discontinuità fra la stagione dei due trattati da una parte e quella della Commedia dall’altra, collocando fra il 1306 e il 1307 lo spartiacque fra due fasi che sarebbero nettamente separate. […] Non mi è possibile in questa sede esaminare nel dettaglio le argomentazioni di Tavoni, né esprimere un giudizio definitivo sulla nuova cronologia che esse disegnano; andrà però quantomeno riconosciuto che la pars destruens del suo discorso è dotata di una notevole, incalzante efficacia nel derubricare la Lastra ad episodio tutto sommato secondario e nel mostrare al lettore quanto siano, di fatto, esili le basi su cui poggiano aspetti tutt’altro che trascurabili della vulgata biografica come, in questo caso, l’identificazione di quella battaglia quale punto di svolta della vicenda esistenziale dantesca».
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del gruppo al potere. Che si aggiungono ai rapporti personali di conoscenza da lui allacciati al tempo del suo primo soggiorno, intorno al 1287, con i poetantes Bononie e con l’ambiente – peraltro importantissimo anche per la gestione del Comune – dei notai appassionati di poesia volgare, come l’Enrichetto delle Querce trascrittore del sonetto della Garisenda, nonché con maestri dello Studio48. La migliore conferma di tutto ciò è appunto nel fatto che il De vulgari eloquentia unisce poesia, filosofia e politica in una combinazione originalissima, cucita addosso alla persona di Dante esule e insieme cucita addosso all’identikit complessivo di Bologna49.
4. Indizi testuali e altri argomenti a favore di Bologna: quanto sono probanti? 4.1. Esamino prima, ai §§ 4.2-4.8, gli indizi e argomenti già addotti da Marigo (1938, pp. XXIV-XXVI, qui § 2.1), introducendoli con le sue parole e aggiornandoli allo stato delle conoscenze oggi; poi, ai §§ 4.9-4.15, gli ulteriori indizi e argomenti che siamo in grado di vedere noi oggi. Si tratta di punti non tutti ugualmente probanti, com’è ovvio, alcuni macroscopici altri microscopici (i secondi non meno importanti dei primi), e collegati in vari modi l’uno con l’altro. Poiché lo scopo di questo riesame è 48 A proposito di rapporti personali che potevano facilitare il soggiorno di Dante a Bologna nei primi anni del Trecento, e probabilmente anche negli anni giovanili del sonetto della Garisenda, occorre ricordare che Bellino Alighieri, figlio di Lapo cugino del padre di Dante, «si trasferisce negli anni Ottanta del Duecento a Ferrara e poi a Bologna, dove lo si ritrova a prestare denaro a singoli e comunità» (Codice Diplomatico Dantesco 2016, p. LV); «nel novembre 1289 […] probabilmente si era già fatta una base come prestatore nella piana a settentrione di Bologna, tra Bologna e Ferrara, a san Giovanni in Persiceto, dove trasferì anche la propria dimora. […] Da tempo abitava a Persiceto verso il 1296-97, quando si fece iscrivere tra i forenses che desideravano esercitare il prestito del danaro in Bologna o nella terra dove aveva portato la residenza» (voce Alighieri, Bellino, di Renato Piattoli, in ED I, pp. 134-135). Morì nel 1299. Sposò Guccia Farolfi da Monte San Savino, che visse fino al 1324, da cui ebbe sei figli – Francesco, Giovanna, Margherita, Isabetta, Francesca e Simona – tutti vivi e attivi nei primi anni del Trecento (albero genealogico in Enciclopedia Dantesca I, pp. 128-129, e in Codice Diplomatico Dantesco 2016, pp. XCVII-XCVIII). Era una famiglia ricca, come risulta dall’inventario dei beni ereditati da Francesco nel 1300, e imparentata con l’importante famiglia bolognese dei da Sala (livi 1918, pp. 134-146 e tavole genealogiche seguenti; livi 1921, pp. 115-128). Il suo prestigio è confermato dal fatto che in città risiedeva nella cappella San Bartolomeo in Palazzo, entro la cerchia di selenite (Armando Antonelli, comunicazione personale). I documenti, reperiti nell’Archivio di Stato di Bologna da livi (1918 e 1921) e descritti nel Codice Diplomatico Dantesco (2016, p. LXXX), vanno dal 1289 al 1312. 49 Lo storico medievale Daniele Bortoluzzi dedica la prima parte del suo articolo Dante e i primi anni dell’esilio (i.c.s.) alle relazioni politiche tra Firenze e Bologna in quegli anni, e la seconda parte a osservazioni, che condivido in pieno, sui contenuti del De vulgari eloquentia in rapporto a quello sfondo storico, assumendo la ‘bolognesità’ del trattato come un dato di fatto.
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di mettere il lettore nelle condizioni ottimali per decidere se, a suo giudizio, questo complesso di indizi e argomenti ‘provi’ (uso il verbo più forte) che il trattato è stato scritto ‘a’ Bologna e ‘per’ Bologna, ovvero ‘quanto sia probabile’ che il trattato sia stato scritto ‘a’ Bologna e ‘per’ Bologna, mi permetto di invitare il lettore, mentre procede nella sua lettura critica di quanto segue, a tenere presente, fra sé e sé, il bilancio fra queste valutazioni: a) quanto ogni singolo elemento, a suo giudizio, sia di per sé da considerare probante; b) quanto, a suo giudizio, sia da considerare probante il complesso degli elementi, cioè il fatto che tutti gli elementi si possono spiegare con una ragione comune, cioè appunto che il trattato sia stato scritto a Bologna e per Bologna (o addirittura che si possano spiegare solo con questa ragione), mentre, se questa spiegazione non sussiste, tutti questi elementi, che apparentemente chiamano a Bologna, devono invece trovare spiegazioni in tante ragioni diverse una indipendente dall’altra; c) tutti questi indizi testuali, o comunque argomenti collegati al testo, costituiscono per così dire una metà, la metà testuale, della realtà biografico-testuale che stiamo guardando. L’altra metà, la metà biografica, l’abbiamo esaminata nella sezione 3, e ci ha portato a concludere che a metà del 1304, nelle circostanze in cui si trovava in quel frangente della sua vita, Dante poteva benissimo guardare a Bologna come a una città, che conosceva già molto bene, nella quale trasferirsi magari in pianta stabile, o addirittura come alla città nella quale trovava riunita una combinazione unica di condizioni a lui personalmente favorevoli, e cioè: regime politico amico e protettivo, ambiente di cultori di poesia volgare amico e ammirativo, ambiente universitario stimolante, dotazione di biblioteche filosofiche unica, oltre alla presenza di un ramo economicamente molto solido della famiglia Alighieri (cfr. qui n. 48). Dunque, se poi nel De vulgari eloquentia troviamo dispiegati tanti indizi e argomenti che chiamano a Bologna, sarà più probabile spiegarli perché appunto Dante si trovava a Bologna e ha concepito e scritto il trattato ‘su misura’ per la città che gli offriva tanto e dalla quale prendeva tanto; o sarà più probabile spiegarli in altro modo, cioè non spiegarli affatto, pensando che Dante si trovasse in un’altra città (che so, Treviso, o un’altra città presa altrettanto a caso), e che tutti quegli elementi che rendono il trattato «‘bolognese’ fino al midollo» (Pasquini) si sono addensati lì per caso?
4.2. «Egli ha conoscenza del dialetto di Bologna a tal punto da sapere distinguere le sfumature dialettali che differenziano il parlare di un popolano di Borgo San Felice da quello di un cittadino della Strada Maggiore (I, ix, 4)» (Marigo, Ed. 1938, pp. XXIV-XXV). Marigo, Ed. (1938, p. 67): «la conoscenza particolare di Bologna […] sta ad attestare un non breve soggiorno del Poeta in questa città», rimandando all’Introduzione «sulla probabilità che il nostro trattato sia stato scritto o meditato a Bologna». Mengaldo, Ed. (1978, pp. 74-75: «L’esempio bolognese […] non depone certo per un soggiorno di Dante all’epoca della stesura del trattato, poiché è ben probabile una precedente visita (1286-1287?) di
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Dante nella città». Per inglese, Ed. (1998) v. qui § 2.13. fenZi, Ed. (2012, pp. 61-62): «Che questa osservazione testimoni la conoscenza di Bologna da parte di Dante è evidente: a quali anni tale conoscenza risalga è piú difficile dire. Mentre niente si può affermare di un eventuale passaggio per Bologna nel 1303, occorre invece ricordare che nel secondo semestre del 1287 il notaio bolognese Enrichetto delle Querce trascrisse nel proprio registro il sonetto dantesco della Garisenda […] ed è ben possibile che proprio in quegli anni Dante sia stato a Bologna». La data 1303 rivela che Fenzi continua a dipendere dalla voce Bologna dell’Enciclopedia dantesca, che, su fondamenti inesatti (cfr. qui § 2.16), non prevede un possibile soggiorno nel 1304-1306. Giovanna Corazza, nel recentissimo e ottimo articolo Topografie bolognesi nel «De vulgari eloquentia» (2021, pp. 16-17), porta alla luce la competenza topografica, urbanistica e sociolinguistica sottostante all’esatta scelta e all’esatto abbinamento di questi due toponimi: Borgo San Felice e Strada Maggiore esemplificano la polarizzazione linguistica tra urbanitas e rusticitas, centro e periferia: l’espressività dei bolognesi che abitano le aree centrali del tessuto cittadino, rispetto alla parlata delle fasce liminari, prossima all’esecrata rusticitas delle campagne. Dante seleziona gli elementi topografici funzionali a rappresentare gli estremi opposti della gerarchia sociolinguistica bolognese, e allo stesso tempo modella con la massima precisione un disegno urbano morfologicamente fedele e insieme geometricamente perfetto, esemplato sullo schema simmetrico della relazione analogia – antitesi. Borgo San Felice e Strada Maggiore non sono infatti due luoghi tra loro irrelati, ma polari anche sul piano propriamente spaziale e sotto ogni aspetto della storia insediativa, dei caratteri urbanistici, dell’organizzazione economica e produttiva (p. 19).
Su questa base, e sulla base di una conoscenza esaustiva della bibliografia della nostra questione (p. 16 n. 27) da far invidia a tutti i suoi più recenti attori, Corazza giudica che: Dante dimostra in questo passo una comprensione del luogo davvero profonda, forse risalente al breve soggiorno giovanile del 1286-87, forse maturata in un soggiorno successivo, ipotizzato ma non provato a livello documentario. Del resto, la ricchezza, la pregnanza della fitta trama di cose e circostanze bolognesi presenti nel De vulgari eloquentia e nella Commedia, molte delle quali connesse a temi centrali della matura riflessione dantesca, difficilmente potranno derivare da impressioni ricevute alla fine degli anni Ottanta. Ad ogni modo la perfetta simmetria della coppia topografica Strada Maggiore / Borgo San Felice esprime una riflessione specifica sulla forma della città che sembra frutto non soltanto dell’esperienza diretta o dell’osservazione condotta da un punto di vista aereo (la Torre degli Asinelli, alta poco meno di un centinaio di metri? Un’altra torre, in posizione centrale rispetto all’asse dell’Emilia?), bensì di un processo di modellizzazione dello spazio che potrebbe essersi giovato del supporto visuale di una pianta urbana (pp. 16-17).
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Dunque non un ricordo estemporaneo e casuale ripescato da diciotto anni prima, ma molto più probabilmente un’osservazione puntuale messa a fuoco all’atto di costruire l’argomentazione e in funzione di essa50. Non mi pare che nessuno storico della lingua si sia posto il problema di individuare le caratteristiche contrastive delle due parlate, a parte osservare, com’è ovvio, che quella dei mediastini di Strada Maggiore doveva essere più smunicipalizzata. Uno stimolo e un aiuto specifico a costruire una ricerca così mirata viene da anTonelli (2017b, pp. 127-130), che dalla miniera dell’Archivio di Stato ha estratto documenti volgari atti a rappresentare la «complessa stratificazione sociale, cetuale, professionale, linguistica» degli abitanti dei Quartieri di Porta Ravegnana, Porta Procola, Porta Piera, Porta Stiera. 4.3. «… e con quel volgare ha presa tanta famigliarità da non sentirvi più asprezze e dissonanze, ma trovarvi anzi una temperata “suavitas” (I, xv, 2, 5), sì da considerarlo il migliore dei municipali d’Italia, nobilitato com’era nei continui rapporti, di ordine pratico ed intellettuale, che avevano i cittadini più colti con ospiti di altre regioni e di nazione diversa» (Marigo, Ed. 1938, p. XXV). Ha ragione Mengaldo, Ed. (1968, p. XVII n. 1) a ritenere «che la scelta di Bologna (sentita certo come ‘metropoli’) quale esempio di differenziazione di parlate tra centro e periferia di una stessa città non sia separabile, tra l’altro, dalla successiva elezione del bolognese a pulcrior loquela fra le municipali». È evidente che si tratta di due dimostrazioni della stessa speciale e motivata attenzione per la stessa città. Tavoni, Ed. (2011, p. 1310 = 2017, p. 186): «A me pare necessario evidenziare, anzitutto per la comprensione del testo, come quello sulla maggior bellezza del bolognese non sia un giudizio di gusto estemporaneo, ma il culmine di un’ampia argomentazione costruita mirando precisamente a questo fine; il che, insieme ad altri elementi portanti del testo, mi fa ritenere molto probabile che la composita e unica società letteraria bolognese sia il destinatario privilegiato del trattato». BarBero (2020, pp. 198-199): «Più seducenti sono la centralità riconosciuta a Bologna e ai suoi poeti nel De vulgari eloquentia, dove il volgare bolognese è lodato come il più bello d’Italia, mentre il simultaneo, irridente deprezza50 Peccato solo che Dante, scrivendo «Strate Maioris», non abbia scelto la parola giusta: «L’esempio sarebbe stato ancora più puntuale se Dante avesse addotto i “Bononienses platee maioris” (attuale via D’Azeglio e lato ovest di Piazza Maggiore), fra i quali si contavano gli Odofredi, i Guinizzelli, i de’ Libri» (inglese 2012, p. 518). Ma «l’espressione Burgus Sancti Felicis, in origine relativa all’agglomerato rionale sorto intorno alla chiesa e al monastero dei SS. Naborre e Felice, dalla metà del Duecento restrinse il suo significato all’arteria principale che lo attraversava: dunque, nell’età di Dante, Burgus Sancti Felicis era in realtà una via, come la Strada Maggiore» (coraZZa 2021, pp. 10-11).
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mento della Toscana e del suo linguaggio fa immaginare un Dante deciso a tagliare definitivamente i ponti con la regione natia». Molto giusto: e lo stesso buon senso fa immaginare un Dante deciso a coltivare con la massima cura il rapporto con Bologna. L’elezione del bolognese a pulcrior loquela fra le municipali è un indizio di ‘bolognesità’ tanto forte quanto auto-evidente, ma un indizio ancora più forte, di cui né Marigo né altri si erano accorti, è la motivazione che Dante adduce per cui il bolognese merita questo primato: e cioè la dicotomia fra volgari ‘lombardi’ e ‘romagnoli’ (I xiv 2-5), della quale nessun linguista è riuscito a indicare un qualche fondamento oggettivo, e che dunque è altamente sospetta di essere stata inventata da Dante al preciso scopo di esaltare la centralità di Bologna, posta al confine fra le due macroaree così da contemperarne gli opposti eccessi: ne tratto al § 4.9. 4.4. «In questo interessante osservatorio di varietà etniche e culturali, di lingue, costumi e civiltà diverse, Dante ha certo studiato e comparato, come meglio poteva, i dialetti delle varie regioni d’ Italia, ha appreso qualche notizia sulle lingue e letterature del nord e nord-est europeo» (Marigo, Ed. 1938, p. XXV). Importano le lingue del nord e nord-est europeo. Ovvero ci chiediamo: come si è fatto Dante l’idea che totum quod ab hostiis Danubii sive Meotidis paludibus usque ad fines occidentales Anglie Ytalorum Francorumque finibus et Oceano limitatur, solum unum obtinuit ydioma, licet postea per Sclavones, Ungaros, Teutonicos, Saxones, Anglicos et alias nationes quamplures fuerit per diversa vulgaria dirivatum (VE I viii 3),
ovvero da dove ha preso l’informazione che quasi tutte queste genti per dire sì dicono iò? …hoc solo fere omnibus in signum eiusdem principii remanente, quod quasi predicti omnes iò affirmando respondent.
Cominciamo col chiederci dove Dante potesse trovare riuniti parlanti di tutte queste lingue. La risposta è: solo in una grande città universitaria come Bologna. Nella quale (si notino i numeri impressionanti) «sino da tempi antichissimi accorrevano studenti non solo di tutte le parti d’Italia ma anche di tutte le regioni d’Europa; tantoche già nel secolo XIII, per testimonianza d’Odofredo, gli scolari erano giunti al numero di diecimila, e nel seguente fino a quello di tredicimila» (Malagola 1888, p. XVIII). E come può essergli venuta l’idea che tutte queste lingue nordiche e nordorientali europee – che ignorava del tutto – facessero parte della stessa famiglia, risalente allo stesso idioma babelico? A questo proposito, sarebbe interessante se questa affermazione (gaudenZi 1889, p. XVIII n. 2) fosse confermata:
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È notevole come Dante, nel suo libro del Volgare eloquio (c. VIII), assegni un solo idioma agli Sclavoni, Ungheri, Teutonici, Sassoni e Inglesi, che insieme formavano (se si tolgono gli Inglesi) a Bologna la nazione tedesca.
Così come, a proposito di «et dico Yspanos qui poetati sunt in vulgari oc» (II xii 3), sarebbe interessante se fosse confermata l’affermazione che segue (ivi): E notevole è soprattutto come tra i primi [i poetanti in lingua d’oc] egli ponga gli Spagnuoli (certo per considerazione dei Catalani), che in Bologna facevano parte della nazione provenzale, benché in maggioranza essi si servano per affermare della particella sì.
Ma non sembra che queste due affermazioni di Gaudenzi – riprese anche da Mengaldo, Ed. (1978, pp. 65-66 n.) e fenZi, Ed. (2012, p. 54 n.) – siano confermate. Anzi, a quanto pare le nazioni fra Due e Trecento erano le seguenti tredici (Malagola 1888, p. XVIII): Fino dal 1265 […] le Nazioni ultramontane […] erano tredici, e cioè la francese, la spagnuola, la provenzale, l’inglese, la piccarda, la borgognona, la pittaviense, la turonense e cenomanense, la normanna, la catalana, l’ungherese, la polacca e la tedesca […] Nel 1317 erano ancora tredici, quella dei francesi, degli spagnuoli, dei provenzali, degl’inglesi, dei piccardi, dei borgognoni, dei pittaviensi e guasconi, dei turonensi, dei cenomanensi, dei catalani, degli ungheresi e dei polacchi e finalmente dei tedeschi.
Dunque non sembra che dai nomi delle nazioni ultramontane nello Studio bolognese Dante sia stato aiutato a concepire questo maxi-raggruppamento di genti che per dire sì dicevano iò. Affermazione che va bene per Teutonici, Sassoni e Anglici, non per Schiavoni e Ungheresi. A proposito dei quali ultimi Marigo, Ed. (1938, pp. 50-51 nota) osserva: «per gli Ungheresi sarà da tener presente anche che, pur avendo per avverbio affermativo igèn, usano spesso come espressione di consenso un jô, corrispondente al nostro ‘bene!’». E del resto Dante, che sa di essere su terreno scivoloso, dice «fere omnibus» e «quasi predicti omnes». Ma il punto è un altro: come faceva Dante, anche se si trovava in una situazione – più unica che rara – in cui aveva a portata di mano parlanti di tutte queste lingue, e anche in abbondanza, a sapere che tutti, o quasi tutti, o comunque molti di loro, per dire sì, dicevano iò? Siamo pratici: immaginiamo di trovarci in una situazione in cui ci sono, accanto a noi, parlanti di lingue a noi del tutto ignote, che parlano fra di loro, e dei cui discorsi non capiamo niente. Mettiamo che appartengano a cinque diversi gruppi linguistici. Come facciamo – a meno che non ci mettiamo per ore e ore ad ascoltarli, e supponendo che a loro non dia noia che ci sia uno che sta ad ascoltarli per ore e ore, e supponendo di essere dotati di una eccezionale capacità di decrittare lingue parlate sconosciute (tanto per prospettare il totale
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irrealismo di tutta la situazione) – come facciamo a individuare la particella affermativa usata anche da uno solo di questi cinque gruppi linguistici? E a scoprire poi che più d’uno di questi gruppi linguistici, o magari tutti o quasi, usano la stessa particella affermativa? Adesso, come se non bastasse, facciamola ancora più difficile. Immaginiamo che a conclusione del corso di glottologia ci chiedano di rispondere a questa assurda domanda: «Dite se usavano una stessa particella affermativa, e se sì quale, studenti universitari parlanti cinque diverse lingue, a voi del tutto ignote, a cui potete esservi trovati casualmente vicini diciotto anni fa, quando non vi importava niente di sapere come parlassero e meno che mai vi sareste chiesti quale particella affermativa usassero». Questo per dire che c’è un solo modo in cui Dante può essersi procurato questa informazione, nel momento in cui ne aveva bisogno, e nei precisi termini in cui aveva creato questo bisogno: cioè mentre lavorava al trattato, dove aveva imposto il principio che la particella affermativa identifica le lingue. Principio-chiave, perché è grazie ad esso che, partendo dalle lingue d’oc e d’oïl, la parallela nozione di lingua di sì gli permetteva di «costruire il tetto comune» dei volgari municipali italiani sussumendoli sotto l’entità vulgare latium, e con ciò, come è stato detto efficacemente, di «inventare la lingua italiana»51. Bene, questo unico modo era di andare dagli studenti di queste nazioni – nel 1304, non certo nel 1286, quando non gli passava per la testa niente di tutto ciò – e chiedergli – in latino o in bolognese: «Voi, per dire sì, come dite?». Questo iò apparentemente banale è in realtà un’informazione cruciale per tutto l’assetto dell’Europa linguistica, perché senza di esso il secondo dei tre idiomi babelici europei, quello ‘germanico-slavo’, non si giustifica; dunque non si può dire che l’Europa è divisa in tre maxi-aree linguistiche; dunque salta tutta la simmetria, a monte, con i tre continenti, e a valle con le tre lingue d’oc, d’oïl e di sì; dunque niente ydioma tripharium nel senso di ‘tre idiomi babelici d’Europa’ (I viii 2), dunque niente decenni di discussioni su cosa voglia dire ydioma tripharium. Senza questo iò salta tutto il I libro del De vulgari eloquentia. È una delle tessere indispensabili alla costruzione del De vulgari così com’è, e Dante può solo essersela procurata nel momento in cui progettava questa costruzione, come tessera intagliata su misura per incastrarsi nel punto del mosaico ad essa riservato. 4.5. «Vi avrà anche studiato più a fondo le poesie dei trovatori e dei troveri e fors’anche appreso da scolari teutonici qualche cosa intorno ai 51 Bruni (2010, p. 78): «La genialità di Dante consiste nell’aver forzato la realtà e costruito il tetto comune del volgare di sì per il pugliese, il lombardo, il toscano, separandoli dal francese e dalle altre lingue».
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«Minnesinger» mentre ampliava la conoscenza sulle tendenze d’arte dei poeti di ogni parte d’Italia» (Marigo, Ed. 1938, p. XXV). Lasciando da parte i Minnesänger e i poeti italiani, importa la lirica trovadorica, che ha la parte maggiore nel trattato, ma anche tutta la produzione in versi e in prosa in lingua d’oïl. Bologna, tra fine Duecento e inizio Trecento, è un centro privilegiato per l’accesso a manoscritti provenzali e francesi, in misura tale da considerare questo un elemento almeno indicativo per la localizzazione del De vulgari eloquentia, o no? La risposta è più che positiva, sulla base di ricerche recenti che hanno iniziato a esplorare il «capitolo paradossalmente meno esplorato», cioè appunto quello bolognese: «paradossalmente perché, per più ragioni, era invece quello su cui ci si sarebbe aspettato un immediato approfondimento in direzione romanza: per la centralità di Bologna e del suo Studium, per la presenza importante e durevole (ben ventitré anni) dell’esule figlio di Federico, per il ruolo evidentemente ampio rappresentato dal mercato librario e dalle esigenze della confezione stessa dei manufatti, per la presenza concreta, numericamente consistente, di uomini d’oltralpe» (BruneTTi 2004, p. 126). Così, alla «più antica testimonianza scritta della ricezione in Italia della letteratura d’oïl», la glossa del giurista bolognese Odofredo (+1265) che parla dei «ciechi che vanno nel cortile del Comune di Bologna a cantare di messer Rolando e Oliviero» (ivi, p. 128), si aggiunge quella, segnalata da anTonelli-Pedrini (2000, p. 79), su uno «Zoparinus cantator» che all’ombra della Garisenda e al cospetto di un giullare toscano cantava una canzone del ciclo di Guillaume d’Orange. Per re Enzo venne composto a Bologna il più antico testo francese scritto in Italia, un volgarizzamento del Moamin (trattato di falconeria), già fatto tradurre da suo padre dall’arabo in latino. Del resto, «che Enzo dovette avere a Bologna manoscritti romanzi (anche parte dei libri di Federico?) sembra essere dimostrato dal testamento che destina per l’appunto i “libri romanciorum” – suoi evidentemente, per quanto è chiaramente detto ubicumque sint – a tre fideles ghibellini (poi puntualmente banditi da Bologna nel 1277), citati nel testamento per nome e noti al tessuto cittadino quali uomini di punta del partito lambertazzo» (BruneTTi 2004, p. 131). E di nuovo ad arMando anTonelli (2003, p. 70) dobbiamo la più antica attestazione dell’esistenza di libri francesi in Italia: un documento bolognese del 1290 che nomina fra i beni inventariabili di uno speziale due libri «de romano scilicet domini Lançalocti et librum de Ronçivagli», uno arturiano e uno carolingio. A partire da questo documento, BruneTTi (2004, pp. 134-138) allarga lo sguardo da un lato al ms. Oxford, Bodleian Library, Canonici 54 della Mort Charlemegne «trascritto a Bologna nei primissimi anni del Trecento» (pp. 136-137), dall’altro sul libro di Lancillotto nominato nell’atto:
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Quel libro-icona dell’amore di Francesca e di Paolo, richiamato da Dante a cifra riassuntiva, emblematica della stessa natura e qualità dell’amore cortese (in Inf. V 67 e Paradiso XVI, 14-5) era dunque a Bologna nelle mani private di uno speziale, verosimilmente negli stessi anni in cui Dante era passato di lì, quando appunto Enrichetto delle Quercie appuntava sulle sue carte Non me poriano zamay far emenda (p. 137).
Dei 6 testimoni italiani del Lancelot databili al XIII secolo «il parigino BNF. fr.773 è riconosciuto con certezza all’Italia del Nord e ad una decorazione bolognese», e conserva «proprio quella lezione (“quil la besoit”) che riesce ipotesto preciso del bacio di Francesca (e cfr. contestualmente l’episodio del colpo di tosse trasferito invece a Beatrice in Paradiso XVI, 14-15)» (pp. 137-138). Quanto alla presenza a Bologna del provenzale, a parte il trovatore bolognese del primo Duecento Rambertino Buvalelli, e il genovese Luchetto Gattiluso che in veste di podestà siglò il testamento di re Enzo (BruneTTi 2004, pp. 138-140), frammenti di un canzoniere provenzale dall’Archivio di Stato di Bologna sono stati pubblicati da longoBardi (1990). La stessa longoBardi (2001), giunta al termine di una annosa ricerca nell’Archivio di Stato di Bologna, compiuta con l’aiuto di Armando Antonelli, ha recuperato frammenti pergamenacei di codici francesi e provenzali riusati come copertine di protocolli notarili del XVII secolo: lacerti provenienti da 20 codici originari che «si datano tra il terzo quarto del secolo XIII (il codice provenzale) e la prima metà del secolo XIV» (p. 20), e si ascrivono, questi ultimi, alla materia che Dante assegna alla prosa in lingua d’oïl, «videlicet Biblia cum Troianorum Romanorumque gestibus compilata et Arturi regis ambages pulcerrime et quamplures alie ystorie ac doctrine» (VE I x 2)52. Questo insieme di ricerche rivela la presenza di manoscritti francesi e provenzali a Bologna fra Due e Trecento, e per di più sembra collegarla ad ambienti notarili, integrando così in direzione gallo-romanza quel connubio fra notai e poesia volgare che accompagna e caratterizza la presenza di Dante a Bologna fin dal sonetto della Garisenda. E di un tale connubio giunge precisa conferma dal documento dell’Archivio di Stato (Procuratori del Comune, busta 5) datato 1302, ritrovato e segnalato da Antonelli (2003, p. 70) con «briciole di canzoni provenzali», su cui orlando (2004, p. 267): «mai sino ad ora versi trobadorici erano riemersi dal gurgite vasto dell’Archivio […] mai si era raggiunta l’evidenza che i notai possedessero esemplari trobadorici»53. 52 «Le opere campionate sono le seguenti: a) un canzoniere provenzale b) l’Estoire d’Eracles c) l’Histoire ancienne jusquà César d) il Sidrac e) il Guiron le Courtois f) il Tristan (Queste) g) la Vulgata [Estoire du Graal, Queste, Lancelot, la Mort Artu] h) la Post-Vulgata [Suite du Merlin, Continuazione della Suite du Merlin, Queste] i) le Prophécies de Merlin» (longoBardi 2001, p. 20). 53 In aggiunta a tutto ciò Giuseppina Brunetti, che ringrazio vivamente per la sua gentilezza, mi segnala una ricchissima bibliografia, esplorando la quale il quadro bolognese si arricchirebbe ulteriormente e di molto. Mi limito qui a trascegliere, per chi desideri approfondire, oltre a delcorno Branca (1998), opera di riferimento generale imprescindibile, i seguenti contributi
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Infine, riguardando tutto questo background dal punto di vista del trattato dantesco, importa ricordare che Dante, con la teoria dei tre magnalia – salus, venus, virtus (II ii 7) – impone alla tradizione lirica in lingua d’oc e di sì una «fondazione e classificazione filosofica dei generi poetici, totalmente imprevista nelle riflessioni metaletterarie fino ad allora prodotte in entrambe le tradizioni» (Tavoni, Ed. 2011, p. 1102 = 2017, p. XL), fondata sulle tre potenze dell’anima («sicut homo tripliciter spirituatus est, videlicet vegetabili, animali et rationali, triplex iter perambulat», II ii 6) definite nel De anima di Aristotele (II iii 414a e sgg.). Si tratta di una teoria comunissima nella filosofia scolastica, anche divulgata in Tresor II vi 1, ma non è il caso di pensare qui a una tale mediazione volgare, dato che il passo del trattato linguistico è sovrapponibile a quello, scritto nello stesso lasso di tempo, di Cv III ii 10-14 («Dico adunque che lo Filosofo nel secondo dell’Anima, partendo le potenze di quella, dice che l’anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare», ecc.), il quale a sua volta è uno dei 31 luoghi del Convivio che citano il De anima (come si può ricavare dall’interrogazione di DanteSources: https://dantesources.dantenetwork.it/index.html). Questo rende evidente una novità di Dante, pertinente anche alla presente argomentazione: e cioè che Dante sussume la lirica volgare – tutta la tradizione lirica romanza – entro un universo di discorso filosofico, in linea con l’impegno filosofico della lirica volgare, che aveva avuto un antesignano proprio in Guinizzelli («ancor che’l senno venga da Bologna…», gli aveva rimproverato Bonagiunta), e che aveva l’esempio più vicino nel commento latino alla canzone Donna me prega del Cavalcanti a opera del medico fiorentino Dino del Garbo, che nel 1304-1306 era in servizio come professore nella Facoltà delle Arti di Bologna. 4.6. «Qui può avere approfondito il suo sapere filosofico, completando la dottrina acquistata a Firenze “ne le scuole de li religiosi e a le disputationi de li filosofanti” e quello teologico» (Marigo, Ed. 1938, p. XXV). Il punto dirimente, a proposito dell’esplosione di «sapere filosofico» che si dispiega nel Convivio ma anche nel De vulgari eloquentia, è se essa può essersi prodotta solo mediante la consultazione diretta e continuata di un patrimonio di libri che poteva trovarsi riunito solo in un centro universitario di altissima specializzazione come Bologna. Rimando per questo al § 4.11. 4.7. «e riprendendo lo studio dell’arte di retorica – che il movimento preumanistico pur qui faceva rifiorire – può avere sviluppata l’idea centrale del trattato, che anche per una lingua volgare, che assurga a dignità letteraria, specificamente bolognesi: della vedova (1983), guéneT lovaTo (1987), longoBardi (2004), anTonelli (2009, 2013), de sanTis (2019), BenenaTi (2020).
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potevano valere i fondamenti teorici ed alcuni dei precetti tradizionali per la composizione d’arte in latino (II, iv, 2-6)» (Marigo, Ed. 1938, p. XXV). Che l’ars dictandi sia uno dei riferimenti del trattato emerge in almeno due punti. Uno è all’inizio del II libro (II i 1), dove «Dante si premura di chiarire che il volgare italiano illustre si applica sia alla poesia sia alla prosa. Certamente allo scopo di estendere anche alla prosa il raggio di applicazione della propria dottrina, rettificando l’impressione che poteva derivare dal fatto che nel primo libro aveva parlato solo di poeti, e che lui stesso aveva essenzialmente fama di poeta. […] Questa estensione alla prosa poggia sulla tradizione retorica mediolatina per cui il dictamen (termine riferito infatti alla canzone in II xii 7) è triplice: prosaicum (prosa), metricum (poesia quantitativa latina), rithmicum (poesia accentuativa volgare). In termini di pubblico, significa che Dante si rivolge ai cultori di artes dictandi: che nella Magna Curia avevano costituito il retroterra della scuola poetica siciliana, e in nessun centro italiano erano così fiorenti come a Bologna, radicati nell’ambiente universitario, nella Facoltà di Diritto, con maestri fiorentini come Boncompagno da Signa e Bene da Firenze» (Tavoni, Ed. 2011, pp. 1099-1100 = 2017, pp. XXXVII-XXXVIII; ulteriori dettagli nelle note ad locum). L’altro punto è nel cap. II vi, dedicato alla constructio, dove Dante conferma che il De vulgari intende coprire sia l’eloquentia in versi che quella in prosa, e di conseguenza rivela la sua effettiva destinazione sia al pubblico dei versificatori volgari sia a quello dei dettatori, volgari e latini. L’interesse di Dante per la constructio non è propriamente sintattico, ma retorico (Tavoni, Ed. 2011, pp. 1435-1436 = 2017, pp. 311-312). E in II vi 4, per esemplificare quale possa essere la «supprema constructio» in versi volgari, Dante sciorina un climax di tre esempi in prosa latina (!), da uno «pure sapidus» a uno «et sapidus et venustus» a uno «et sapidus et venustus etiam et excelsus». Che con ciò intenda essere apprezzato dai maestri di ars dictaminis è abbastanza trasparente54. Ma il rapporto non è solo teorico e a due, fra legittimazione della poesia volgare e ars dictaminis. Solo a Bologna c’è una circolarità sociale, nella quale il De vulgari eloquentia e il suo autore abitano, fra insegnamento dell’ars dictandi in più ambienti universitari; notariato che di quell’insegnamento è pervaso e che lo mette in pratica, in latino e in volgare, in atti privati e soprattutto pubblici, nella gestione del governo cittadino di cui è elemento portante (il notaio Enrichetto delle Querce ne è una colonna per decenni)55; 54 Per di più, il contenuto politico-sarcastico dei tre esempi s’indirizza con precisione alla Bologna di quegli anni: v. § 4.13. 55 Cfr. anTonelli (2017a, pp. 182-183): «Il De vulgari eloquentia pare riflettere un vasto dibattito che si andava svolgendo all’interno del milieu laico bolognese, nel Duecento, tra i professori
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e poesia volgare, di cui giudici (come Guinizzelli) e giuristi (come Cino) sono cultori e maestri. Non a caso i Memoriali sono una innovazione bolognese sia come strumento giuridico-amministrativo sia come deposito di memoria poetica volgare: è l’ambiente studiato dal libro di JusTin sTeinBerg (2018 [2007]), ben evidenziato dal suo titolo e sottotitolo, ed esplorato trasversalmente da pressoché tutti i lavori di Armando Antonelli. 4.8. «Ed a Bologna è probabilissimo che si sia ancor più strettamente legato con Cino da Pistoia – che vi dimorò tra il 1303 ed il 1306 ed ottenne nel 1304 il baccellierato – con quella amicizia che ci rivela il trattato, consolidata, oltre che da comunanza di sventure e, al disopra delle piccole lotte di parte, da alti ideali politici, anche negli studi e nella reciproca ammirazione per il frutto più bello del loro ingegno, la poesia» (Marigo, Ed. 1938, pp. XXV-XXVI). Dante assegna a Cino un ruolo di primissimo piano come campione della poesia d’amore, e con la ripetutissima formula «Cynus Pistoriensis et amicus aius» (I x 2, I xvii 3, II ii 8, II v 4, II vi 6) ostenta insieme amicizia e deferenza verso di lui. Ho suggerito che ciò sia in rapporto con il credito di cui godeva Cino a Bologna sia come giurista sia come poeta volgare, e con lo straordinario valore simbolico bipartisan che la diarchia poetica Cino-Dante esprime per il fatto che entrambi sono esuli, e di partiti opposti: guelfo bianco Dante, guelfo nero Cino (Tavoni, Ed. 2011, pp. 1095-1096 = 2017, pp. XXXIIIXXXIV; Tavoni 2015, pp. 101-103; 2017a, pp. 25-29; 2018, p. 209). Questa visione delle cose «rischia di mettere in ombra l’importanza oggettiva di Cino per Dante, dopo il distacco da Guido Cavalcanti» (inglese 2012, p. 512)? Lascio la risposta a Fenzi, più competente di me in fatto di lirica due-trecentesca, che non si dà pace per come Dante «surclassi l’amico non solo nel numero delle citazioni […] ma anche nella trabordante e persino imbarazzante differenza di ‘peso’ qualitativo, ond’è vero che il ruolo che Dante si riserva di ‘cantore della rettitudine’ è ben coperto da Doglia mi reca e Poscia ch’Amor, ma è anche vero che le altre canzoni allegate, pur nella loro ampia diversità d’accenti, sono tali da promuoverlo, in maniera implicita ma insieme clamorosa, a vero rappresentante anche dell’altro dei magnalia, l’amore, invece di un Cino da lui alquanto debolmente sorretto» (p. XLII); per come, «citando se stesso, Dante continui a rubare la scena a Cino, specialmente nel campo indicato come proprio dell’amico, cioè di poeta d’amore» nelle aule dello Studium e tra i teorici del regime comunale nelle assemblee consiliari, impegnati a elaborare un linguaggio politico nuovo, sotto il segno della retorica. Nella Bologna del tempo di Dante andava dipanandosi una profonda riflessione sullo statuto delle artes (oratoria, prosa d’arte, notariato, grammatica, poetica, filosofia, diritto) e sul loro ruolo nella società, promossa, dibattuta e divulgata da doctores prestigiosi e riconosciuti in un ambiente altamente competitivo». E cfr. giansanTe (1998).
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(p. LIV); per come scelga come «testo a questo proposito esemplare la canzone Digno sono eo di morte: una versione piuttosto modesta del tema del ‘cuore rubato’, che è stata ritenuta opera giovanile e comincia con un settenario, ha la stanza ove i settenari sono piú numerosi degli endecasillabi, e non ha né concatenatio né combinatio finale. Si tratta insomma di una canzone che resta troppo al di sotto del soverchiante modello di Arnaut Daniel e si conferma come un testo largamente inadeguato, di vecchia scuola e in ogni caso di qua dalla rivoluzione ideologica e stilistica costituita dallo Stilnovo dantesco» (pp. LIV-LV)56; «E perplessità suscita anche la citazione della canzone Avegna ched el m’aggia, motivata dall’eccellenza della costruzione» ma chiusa in «un tessuto lessicale arcaizzante che Roncaglia trova ‘abbastanza sorprendente’ in una canzone citata con tanto onore» (p. LV); «E c’è l’assenza di Cino dalla Commedia […], dove pure sarebbe piú che lecito aspettarsi qualcosa che dia ragione del posto che occupa nel De vulgari eloquentia. Ma è proprio e solo al tempo del trattato che il legame tra Dante e Cino appare particolarmente forte e diretto» (ivi). Anche in questo tempo, però, nel sonetto Degno fa voi trovare ogni tesoro, Dante sottopone Cino a una vera «requisitoria», e nel «sonetto vicinissimo a questo, il famoso Io mi credea del tutto esser partito», dà «un definitivo addio a Cino impigliato in rime che a Dante piú non interessano e in amori da poco […]. Gli interessi di Dante sono ormai altri, ma egli sembra denunciare pure l’intima e irrimediabile mancanza di serietà di un corrispondente che comincia forse a giudicare troppo inferiore a sé» (p. LVI). Ce n’è abbastanza perché Fenzi concluda: «Un punto, o meglio, un interrogativo, resta perentorio: perché mai a rappresentare al livello piú alto la poesia d’amore, quella che lo celebra senza ombra d’elegia e senza ‘accidenti’ di sorta nella sua piú pura ed essenziale verità di potenza dell’anima, Dante ha scelto proprio Cino, di lí a poco denunciato come poeta accidentale, ondivago, inessenziale?». Bene, la mia interpretazione dà una risposta a questo «interrogativo perentorio». Il che non significa che nella scelta di Dante non possano agire anche motivazioni poetiche autentiche (sono meno severo di Fenzi): nella corrispondenza con Onesto Cino si pone come difensore della nuova poetica stilnovistica contro la vecchia guardia guittoniana, per cui a Cino si riconosce un ruolo di «mediazione tra la nuova cultura poetica fiorentina e gli ambienti culturali bolognesi» (Marrani 2004, p. 16: questa stessa moti56 E segnata addirittura da una rima imperfetta per assonanza, fra il v. 1 morte e il v. 6 fore (fronte abCcbA), per cui i tre mss. del De vulgari, concordi fra loro e col capitale Chigiano Lat. VIII 305, tramandano la lezione giusta, contro l’aggiustamento ch’io mora : fora del resto della tradizione e delle edizioni moderne. Infatti l’esistenza, eccezionale ma incontestabile, di rime imperfette ovvero assonanze nella poesia di stile alto nei tre antichi canzonieri della lirica duecentesca è stata dimostrata da TrovaTo (1987); ma certo non era questa una caratteristica che potesse conferire particolare lustro a una canzone.
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vazione, peraltro, è ‘bolognese’); e, attraverso precise «agnizioni di lettura, ovvero puntuali riscontri verbali», Cino si dimostra difensore di Dante e della sua Vita nova (Brugnolo 2003, p. 158). Ma la logica che spinge Dante a fare le sue mosse nel De vulgari eloquentia non è quella delle ideologie poetiche implicite (su cui c’è ampia varietà di interpretazioni) o delle sfumature di stile di cui possiamo andare in cerca57. È una logica nella quale, a mio giudizio, conta molto di più una motivazione ambientale bolognese come il prestigio di Cino come giurista (e Quaglioni i.c.s. insiste sull’affinità di pensiero giuridico che accomuna Cino e Dante), a dare peso all’altra valida motivazione poetica, peraltro essa stessa bolognese, di essere corrispondente di Onesto. E conta molto il fatto di essere, come Dante, esule, e per di più del partito opposto: il che si presta magnificamente a far recitare a una coppia di poeti esuli il ruolo di rappresentanti di punta del volgare illustre, esso stesso ‘esule’, che «velut acola peregrinatur et in humilibus hospitatur asilis, cum aula vacemus» (VE I xviii 3). 4.9. La dicotomia fra volgari ‘lombardi’ e ‘romagnoli’ (VE I xiv 2-5) – i primi, a detta di Dante, tanto aspri da far sembrare una donna che li parli un uomo, i secondi tanto molli da far sembrare un uomo che li parli una donna –, e con essa l’intero sistema dei volgari settentrionali nell’Italia dialettale di sinistra, che ha in quella dicotomia la sua struttura portante, si spiega nel modo più economico con l’intento di dare a Bologna la centralità fra queste due macroaree, e con ciò assegnare al bolognese il primato estetico per la sua ‘medietà’ (I xv 2-6). Questa idea, che avevo espresso nel mio commento al De vulgari (2011, pp. 1115 e 1300-1301 = 2017, pp. LIII e 176-177), non è piaciuta a inglese (2012 p. 521): «Ricorre invece, non senza eccessi, nel commento di Tavoni un’interpretazione ‘strumentale’ della linguistica dantesca». Ho già risposto a questa e ad analoghe obiezioni (Tavoni 2014a, pp. 50-53), francamente retoriche. Se le riprendo qui un’ultima volta è perché questo è un punto rilevante per definire l’intenzione che muove Dante, e la struttura della tesi che ne risulta. Per quanto Dante presenti questa dicotomia fra volgari ‘lombardi’ e ‘romagnoli’ come una contrapposizione polare, altamente espressiva (maschio / femmina), i linguisti che si sono spesi per individuare in quali tratti fonetici essa si concretizzi, non sembra che ci siano riusciti58. In ordine cronologico: 57
Per un panorama degli studi recenti su Cino (e Dante) v. livraghi (2012), arQués coroEdd. (2016), Meier-Zanin, Edd. (2019). 58 Oggi, con gli strumenti di cui disponiamo, potremmo riprendere la ricerca sulla realtà linguistica bolognese-emiliano-romagnola su cui Dante ha dato i suoi giudizi. Nel Corpus OVI Minas-Tranfaglia,
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a) Non si danno elementi dialettologici a conforto dell’affermazione di Dante, né giudizi dialettologici che la giustifichino (benché sia famosissima), nelle varie «Italie dialettali» da ascoli (1885) in poi; né nelle moderne opere d’insieme sulla dialettologia italiana; né negli studi storici sul romagnolo; né in altra bibliografia sincronica e diacronica sui dialetti emiliani e romagnoli (bibliografia in Tavoni 2014a, p. 52 n. 48); b) goidànich (1926, p. 110): «Un siffatto carattere e della lingua e del popolo è del tutto sconveniente alle condizioni e della lingua e del popolo della Romagna d’oggi: dialetto, di cadenze rudi; popolo, robusto fiero virile se altri mai». Appunto. Ciò premesso, Goidànich credeva almeno di poter collegare la mollitudo alla pronuncia «kl per kj, -ada per -ata e š per s» (p. 116) e la garrulitas alla pronuncia «kjo, pjo per klo, plo (nessi che possono fare l’impressione di un cinguettio, di un gracchio o simili)» (p. 121). Ma viene smentito da chi interviene dopo di lui. c) heilMann (1967): «Che Dante opponendo la garrulitas dei lombardi (secondo l’accezione etnicogeografica del termine corrente ai tempi suoi) alla mollities dei romagnoli, e lodandone il giusto contemperamento nei bolognesi, accenni ad un fatto fonetico (acustico) è fuori dubbio […]. Ma, detto questo, si presenta estremamente difficile ed opinabile determinare, in concreto, la natura delle due opposte qualità» (p. 155). Già. Poi dimostra che la spiegazione di Goidànich non sta in piedi (pp. 156-159), e conclude: «Se dunque, da un lato ci sfugge la garrulitas dall’altro non riusciamo a concretare la mollitudo». Già. Per concludere: «A mio avviso, per quanto si debbano riconoscere a Dante eccellenti doti di osservatore di fenomeni linguistici, non possiamo pretendere da lui analisi e valutazioni precise, determinazioni di isoglosse e simili. In altri termini, dobbiamo accontentarci di quello che egli ci dice; e – a mio parere – questo non va al di là di una caratterizzazione generale di tono che si richiama anche ad una esemplificazione concreta, ma che rimane sempre, e prevalentemente, soggettiva, più estetica che linguistica». Il concetto è chiaro. d) devoTo-giacoMelli (1972, p. 61): «Oggi questi apprezzamenti sono difficili da valutare. A un orecchio moderno i dialetti emiliani sembrano ‘molli’ piuttosto nei territori di Piacenza e Parma, mentre a partire da Reggio verso oriente appaiono più aspri o vigorosi, anche se non proprio gutturali». Cioè l’esatto contrario di quello che dice Dante. e) Pellegrini (1977), Carta dei dialetti d’Italia: nell’area uniformemente violetta dei dialetti gallo-italici, che include l’indistinta area ‘IV emilano’, e al suo interno il continuum fra le zone ‘IVa occidentale’, ‘IVb orientale’, ‘IVf romagnolo’, dov’è il fascio di isoglosse che passa per Bologna lasciando a ovest e a nord-est Modena, Reggio e Ferrara, e a sudovest la Romagna? Non esiste, non c’è neanche un’isoglossa che segua questo tracciato.
dell’Italiano antico (http://gattoweb.ovi.cnr.it/) possiamo infatti definire (Altre funzioni > Definizione di sottocorpora) il sottocorpus dei testi bolognesi (69), dei testi emiliani non bolognesi (23), e dei testi romagnoli (31). Si può escludere che i secondi si rivelino ipervirili, i terzi effeminati, e i primi equilibrati, ma analizzando questi sottocorpora si potrà forse imparare nel dettaglio qualcosa di nuovo. Come si potrà forse imparare qualcosa di nuovo da analisi disaggregate per quartieri dei testi urbani bolognesi dissepolti da anTonelli 2017b (v. qui § 4.2).
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Lascio fuori da questo elenco Tesi (2016, pp. 238-246), che propone di identificare queste caratteristiche opposte non in tratti fonetici ma prosodico-musicali. La proposta, che vuol mettere in relazione caratteristiche sopra-segmentali dei dialetti odierni con teorie musicali medievali che Dante poteva avere presenti, possibili percezioni di stereotipi e possibili significati di termini come asperitas, mollities, garrulitas, ecc., cioè risulta al possibile incrocio di tante variabili, è interessante ma non verificabile. Non credo che impressioni acustiche sfuggenti di questa natura possano spiegare la marcatissima decisione testuale di installare la dicotomia fra le due macroaree fatte incontrare sulla linea di Bologna. Possiamo fare come consiglia Heilmann: «accontentarci di quello che egli ci dice». Non mi sembra però un grande traguardo esegetico. Non è meglio prendere atto che Dante ha ‘voluto’ dare il primato al bolognese, e glielo ha dato con un gesto autoriale deciso? Per compierlo avrà messo a frutto, fra sé e sé, impressioni acustiche, forse prosodico-musicali, che poteva avere nell’orecchio, probabilmente suggerite e incanalate, o semplicemente create, dai provvidenziali stereotipi etnici dei rozzissimi Longobardi e degli effeminati Bizantini. Così facendo, peraltro, non ha assegnato alla lingua di Bologna una qualità che non possedeva. Le ha dato quello che le spettava. Cioè ha riconosciuto alla parlata dei mediastini di essere temperata per neutralizzazione dei tratti provinciali e rustici circostanti (v. qui § 4.2). Ovvero, essendo Bologna la metropoli che era, con grandissima circolazione di persone delle più varie provenienze (pensiamo solo ai diecimila-tredicimila studenti universitari: Malagola 1888, p. XVIII, qui § 4.4), e molta diffusa cultura latina e volgare, ha riconosciuto al bolognese cólto il fatto di essere una lingua molto smunicipalizzata. Solo che questa qualità, che possedeva effettivamente, gliel’ha attribuita plasticamente, da grande regista della propria scrittura, posizionando Bologna sul confine linguistico da lui tracciato, e francamente evanescente, fra ‘Lombardia’ e ‘Romagna’, e con ciò incoronandola come baricentro geolinguistico dell’Italia di sinistra. 4.10. Il tracciato che separa Bologna e la Romagna da Ferrara, Modena e Reggio non è un confine linguistico, come abbiamo appena visto, ma in compenso è un confine politico: è il confine del Marchesato estense che incombe minaccioso su Bologna e sulle alleate città romagnole. E questo ha che fare con l’esaltazione, accanto al nutrito gruppo dei poeti volgari bolognesi («maximus Guido Guinizzelli, Guido Ghisilerius, Fabrutius et Honestus et alii poetantes Bononie», I xv 6), anche dei loro modestissimi affiliati romagnoli («Thomam videlicet et Ugolinum Bucciolam, Faventinos», I xiv 3), e per contro con la dichiarazione sprezzante che non possono esistere poeti ferraresi, modenesi e reggiani («Et hec est causa quare
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Ferrarensium, Mutinensium vel Regianorum nullum invenimus poetasse: nam proprie garrulitati assuefacti nullo modo possunt ad vulgare aulicum sine quadam acerbitate venire», I xv 4). Questa gerarchia di valori e disvalori ricalca i confini dell’alleanza politica antiestense, antifiorentina e antiangioina di vitale importanza così per Bologna come per gli esuli fiorentini bianchi nel 1304-05. Questo sembrerebbe pacifico. Infatti già Marigo (p. 127) notava che «ai Ferraresi e Modenesi, nominati nel § 2 come confinanti dei Bolognesi, sono aggiunti anche i Reggiani, non confinanti, perché fossero accomunate nello stesso giudizio le parlate delle tre città, col loro territorio, rette dagli Estensi». E anche Mengaldo (p. 122) concorda che «il criterio dell’accostamento è, come ha visto il Marigo, politico (Modena e Reggio erano entrambe sotto la signoria estense)». E anche Fenzi sembra d’accordo (p. 109): «il discrimine vero è politico, come ha visto Marigo ed ha ulteriormente precisato Tavoni, ad l.». Ma sente subito il bisogno di mettere un freno: «…in relazione con la sua ipotesi – peraltro discutibile – della dimensione tutta bolognese del D.v.e.» (ivi). E nell’Introduzione (p. XXIV): «si può concedere che taluni giudizi danteschi siano condizionati da scelte politiche (i romagnoli contro i nemici ferraresi, modenesi e reggiani). Non si può tuttavia andare oltre, facendo di questi giudizi una specie di meccanica trascrizione sotto copertura linguistica di giudizi politici». Perché non si può «andare oltre»? E quale potere dovrebbe avere la formula magica «meccanica trascrizione» per obnubilare i dati di fatto? I dati di fatto sono che poeti ferraresi e reggiani c’erano, come riferiscono tutti i commentatori, ultimo Fenzi: «naturalmente qualche poeta lo si trova, come il già ricordato Reolfino da Ferrara, ammiratore del Mezzabati, o Gherardo da Reggio, più che decoroso corrispondente di Cino da Pistoia […], oltre il leggermente più tardo Botrico da Reggio (vd. Mengaldo, ad l.), ben equiparabili ai preferiti faentini, ma il discrimine vero è politico», ecc. Appunto. Questi due, Reolfino da Ferrara e Gherardo da Reggio, Mengaldo li giudica addirittura una «appendice transappenninica dello Stilnovo» (p. 122). E se siamo tutti d’accordo che Dante li rimuove per scelta politica, cos’ha di diverso questo dalla vitanda «meccanica trascrizione sotto copertura linguistica di giudizi politici»? Viceversa, quanto ai due faentini, Ugolino Buzzola Manfredi e Tommaso da Faenza, secondo Marigo (p. 118) Tommaso «si rivela poeta assai mediocre e seguace della maniera guittoniana»; e di nessuno dei due ci è giunto nulla che giustifichi linguisticamente e stilisticamente la qualifica di poeta illustre (semmai, per altri e più contenutistici motivi, la rara tenzone politica con Cino e Onesto in cui Tommaso tratta Bonifacio VIII da simoniaco). Né poteva costituire titolo per essere accreditato come poeta illustre, nel caso di Ugolino Buzzola Manfredi, l’essere figlio di fra’ (cioè frate gaudente) Alberigo
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«da le frutta del mal orto» (If XXXIII 118-9), e di essere stato con lui nel 1285 coautore del massacro dei consanguinei Manfredo e Alberghetto Manfredi (strage di Pieve di Cesato), che frutterà a suo padre l’inaudito trattamento di ghiacciare fra i traditori dei parenti in fondo alla Tolomea ancor prima di essere morto. A che pro tentare di velare d’ombra le scelte così chiare e nette di Dante? Dante persegue una sua intelligente, e anche abbastanza evidente, strategia testuale. Gli rendiamo un buon servizio se la vediamo e la facciamo vedere ai lettori del suo trattato. 4.11. Fondamentale anche per la composizione bolognese del De vulgari eloquentia è quanto il più recente commentatore del Convivio, gianfranco fioravanTi (2014), ha desunto dalle modalità di composizione del trattato in rapporto alle sue fonti filosofiche. Fioravanti giudica del tutto infondata e irrealistica l’opinione che Dante lavorasse «su compendi e florilegi, anzi che proprio su compendi e florilegi sarebbe avvenuta la sua formazione, anche filosofica» (p. 9). Al contrario (p. 10): una lettura attenta del Convivio è sufficiente a mostrare come vi siano presenti in maniera non mediata […: segue una quindicina di titoli di grandi opere di Aristotele, Alberto Magno, Tommaso]; e l’elenco pecca sicuramente per difetto. Ora, opere del genere, al tempo di Dante, erano normalmente contenute in codici di grandi dimensioni, troppo costosi per poter essere comprati e tanto meno commissionati da un esiliato in precarie condizioni economiche.
Conclusione (p. 13): l’allentamento della tensione politica ed un soggiorno piuttosto lungo nella città mater studiorum per eccellenza, già punto di riferimento per molti intellettuali fiorentini, una città dove circolavano testi ed idee, ricca di biblioteche anche private, senza problemi per il reperimento del materiale scrittorio (altro ostacolo per un esule migrante di cui forse non ci si rende pienamente conto), sembrerebbero davvero le condizioni più adatte per dar ragione della stesura del Convivio, almeno dei primi tre trattati.
Già gargan (2009), del resto, aveva segnalato inventari di biblioteche bolognesi dell’epoca corrispondenti alle materie trattate nel Convivio. L’argomento di Fioravanti, della necessaria disponibilità di molti libri molto impegnativi, è un argomento forte a favore della composizione bolognese anche del De vulgari, a cui Dante attendeva in parallelo negli stessi anni. Lo sarebbe anche se l’identico ragionamento non si applicasse anche al De vulgari, ma invece vi si applica: tutto il I libro del trattato linguistico, infatti, implica la consultazione non mediata di specifiche opere di Aristotele, Tommaso, Agostino, Isidoro, Orosio, Ovidio, Lucano, Egidio Romano,
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Uguccione da Pisa, del Genesi, di poesia e prosa provenzale e francese, e l’elenco pecca sicuramente per difetto. Per esplorare le citazioni registrate dai più recenti commenti ai due trattati invito il lettore a interrogare – per singole opere, per autori e per ‘aree tematiche’ – DanteSources (https://dantesources.dantenetwork.it/index.html), e farsi così un’idea d’insieme dell’intertestualità soggiacente all’argomentazione in entrambi i trattati59. Sottolineo qui, a titolo indicativo, solo due momenti particolari. Il primo è il dispiegamento di riferimenti astronomici concentrato nel II e nel III libro del Convivio. DanteSources (ricerca per area tematica: Astronomia: Tolomeo, Alfragano, Sacrobosco, Alpetragio) evidenzia 10 riferimenti nel II libro e 5 nel III. Questo da un lato evoca la singolare testimonianza di Pietro Alighieri, nella sua canzone sulle sette Arti liberali dettata in memoria del padre, dove l’Astronomia definisce Dante «il mio maestro che lesse a Bologna»60; dall’altro (cfr. anche renucci 1954, p. 67), fa sospettare che Dante orientasse in direzione astronomica il commento alle due canzoni Voi che ’ntendendo e Amor che nella mente anche molto più dettagliatamente di quanto la spiegazione dei versi richiedesse, in ragione di un suo interesse astronomico del momento e della disponibilità dei libri utili a sostanziare quelle digressioni. Il secondo è nel xvi capitolo del I libro del De vulgari eloquentia, dove Dante mette in campo il principio aristotelico della reductio ad unum in eodem genere (Metaphysica, X 1), per effetto del quale anche nel genere dei volgari ne deve esistere uno, il più semplice e il più nobile di tutti, che funga da unità di misura di tutti gli altri. Era un principio tirato in ballo in quegli anni dai teorici della superiorità del potere del papa su quello dell’imperatore 59 Allo stato attuale di sviluppo di DanteSources è possibile solo farsi un’idea quantitativa d’insieme delle ‘fonti’ citate da Dante; sarà possibile fruire dei risultati di ricerca dettagliati quando sarà completato lo sviluppo del progetto Hypermedia Dante Network descritto in BarTalesiPraTelli-Meghini-MeTilli-ToMaZZoli-livraghi-Zaccarello (2021). 60 BarBero (2020, pp. 199-200): «Il termine è tecnico, e indica un insegnamento universitario; i dantisti ritengono che Piero ricordasse male, e che tutt’al più Dante abbia dato lezioni private, ma rimane un po’ d’imbarazzo a ignorare una testimonianza così esplicita. Anche Giovanni Villani afferma che Dante, bandito da Firenze, “andossene a lo Studio a Bologna”: e si è tentati di interpretare questa testimonianza non nel senso che andò a studiare, per la terza volta e vent’anni dopo il suo primo soggiorno!, ma piuttosto a cercare lavoro, ottenendo quel titolo di magister che qualche contemporaneo gli attribuirà verso la fine della sua vita. L’astronomia era considerata parte della filosofia, in quanto uno dei modi per capire com’è fatto e cosa significa l’universo, e Dante nella Monarchia non esita a usare in prima persona il verbo philosophari quando, partendo proprio dall’astronomia, ragiona sul parallelo fra l’ordine divino dei cieli e quello dell’impero: cosa evidentissima, dichiara, alla ragione umana, a chi sa sillogizzare, a noi che ne filosofiamo. Se da giovane i ‘filosofanti’ gli apparivano uomini d’un’altra specie, il Dante maturo si considerava anche lui un filosofo, e non è incongruo il sospetto che dietro a questa sicurezza possa trapelare un’esperienza accademica».
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(infatti Dante lo contesterà in Mn III xii 1: cfr. rosier caTach, Ed. 2011, pp. 50-55 e 312-315), e considero probabile (Tavoni 2016, pp. 210-212) che Dante qui lo abbia estrapolato da questa controversia, cioè da testi prodotti nell’entourage di Bonifacio VIII negli anni dello scontro con Filippo il Bello: la Glossa aurea di Jean Lemoine, il De ecclesiastica potestate di Egidio Romano, la stessa bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII61: tutti testi militanti scritti nel 1301-1302, di cui Dante poteva trovare copie nel 1304 in un centro di studi giuridici e teologici aggiornato come lo Studio bolognese. 4.12. L’idea imperiale. Tutto il De vulgari eloquentia cade sotto l’ispirazione dell’idea imperiale. Dall’evocazione degli «illustres heroes» Federico II e il suo benegenito figlio Manfredi (I xii 4), ai quali si deve la fondazione della tradizione poetica illustre italiana, fino agli odierni «vulgares eloquentes», eredi di quegli illustri siciliani, che costituiscono i membri della fantasmatica «curia» d’Italia, uniti non dal Principe ma dal «gratioso lumine rationis», sicché «falsum esset dicere curia carere Ytalos, quamquam Principe careamus, quoniam curiam habemus, licet corporaliter sit dispersa» (I xviii 5), tutta la storia del volgare illustre va dalla sua origine imperiale nella Magna Curia di Federico II all’auspicata ricostituzione di quella Curia, su cui Dante getta il suo sguardo profetico nel vuoto, e di cui i poeti volgari ai quali il De vulgari eloquentia dà identità e voce sono intanto l’avanguardia, una specie di ‘curia in esilio’. I poeti, continuando a «fabbricare» nei loro versi il volgare illustre, tengono in vita la prospettiva di una ricomposizione politica dell’Italia che la redima dall’endemica lacerazione municipale, dalla guerra permanente in cui versa. Sembra incredibile, perché la sfrenata fantasia e ambizione intellettuale di Dante ci mettono davanti a cose che non avremmo mai potuto concepire, ma è così: non è un’interpretazione ardita del testo, è il suo significato letterale. Dante ha caricato i poeti illustri italiani di cui si è eretto a portavoce, 61 Naturalmente questo non è dimostrabile in senso stretto. Dante può aver colto l’idea direttamente dalla lettura di Metaphysica, X 1, o anche averla semplicemente in memoria, trattandosi di principio ben noto. Ma quale delle due trafile consideriamo più probabile? Quella che ho proposto qui, e cioè che Dante, nel 1304, veda in questa pubblicistica l’applicazione del principio e gli scatti l’idea di estrapolarlo al problema del volgare, e che poi lo riprenda nella Monarchia? Oppure che nel 1304 lo adibisca in campo linguistico senza essere influenzato dal fatto che lo stesso principio era speso nella pubblicistica papale, e che poi nella Monarchia, trovandoselo di fronte nella pubblicistica papale (della quale peraltro è molto improbabile che non fosse al corrente fin dal suo apparire sulla scena), scopra che quei teorici del potere papale ricorrono allo stesso principio aristotelico di cui lui si era originalmente servito quando trattava del volgare illustre? diego Quaglioni, nel suo commento alla Monarchia (2014), precisamente al luogo (III xii 1) in cui Dante ribatte all’argomento della reductio ad unum, dà molto peso a questa anticipazione in VE I xvi (la cita sei volte alle pp. 1357-1364), anche perché più in generale ritiene che sia nel soggiorno bolognese del 1304-1306, in rapporto con lo Studio e con Cino, che Dante getta le basi della teoria poi sviluppata nel IV del Convivio e pienamente nella Monarchia.
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quella quindicina di individui sparsi in tre o quattro città, alcuni dei quali anche parecchio scalcagnati, di questa stratosferica dignità e responsabilità. Se non si capisce questo non si capisce il De vulgari eloquentia, perché non si capisce quale sia, agli occhi del suo autore, la ragion d’essere di questo testo nell’Italia del 1304-05. Non serve interrogarsi, come si è fatto a lungo, su quale sia il rapporto fra la lingua dei poeti e la lingua degli Italiani62, perché il rapporto che Dante pone è fra la lingua dei poeti e la lingua della Curia, ed è un rapporto chiarissimo e semplicissimo, perché è un rapporto di identità. La lingua degli Italiani, di tutti gli altri italiani, si squadernerà sui vari livelli dei volgari inferiori, e il volgare illustre, in quanto cardinale, li guiderà come loro capofamiglia (I xviii). Non c’è altro da dire. Invece secondo inglese (2015, p. 81), «nel De vulgari eloquentia non è operante il tema dell’Impero». Com’è possibile? È possibile perché, a detta di Inglese, Federico II sta lì come re d’Italia, mica come imperatore. È un re come un altro: È opportuno distinguere l’esaltazione di Federico ii e Manfredi, quali heroes che hanno dato concretezza e unità alla curia dei latini oggi dispersa (Dve i xii e xviii), dalla nozione di Impero universale che sorge nel quarto del Convivio e si dispiega nella Monarchia (inglese 2012, p. 512)63. Federico e Manfredi sono qui delineati essenzialmente come principes ltaliae; dopo di loro, «curia, secundum quod unita accipitur – ut curia regis Alamannie – in Ytalia non est». Nel De vulgari eloquentia non è operante il tema dell’Impero (inglese 2015, p. 81).
Anche qui il pensiero di Inglese è in sintonia con l’Enciclopedia dantesca. Nella quale, alla voce Impero – La dottrina dell’Impero (III, pp. 384-393), di Pier Giorgio Ricci, il De vulgari eloquentia non è neanche nominato, e alla voce Federico II, di Raoul Manselli (II, pp. 825-828), l’ammirazione per Federico II e Manfredi in VE I xii, seppur espressa «in termini di esaltazione addirittura inconsueti per l’Alighieri», viene giudicata di natura puramente culturale e non politica: È questo un passo dove non va solo sottolineata l’affermazione di un ideale di vita e di cultura, ma si deve anche indicare la partecipazione del poeta stesso che tende appunto a identificarsi con coloro che si sono sforzati di avvicinarsi e di ade62
Mi riferisco alla discussione fra Vinay (1959) e Mengaldo (1968, pp. LXIV-LXXVII). Inglese prosegue: «L’assimilazione logica fra De vulgari e Monarchia, portante in R. [cioè Rosier-Catach Ed. 2011] (pp. 50-55) e quindi in T. [cioè Tavoni Ed. 2011] (pp. 1096-97), deriva ai due studiosi da Giorgio Stabile [cioè Stabile 1997, pp. 261-262: segue ampia citazione]. Questo passaggio del ragionamento di Stabile non mi convince». Ma questa derivazione non sussiste, il mio ragionamento è del tutto diverso da quello di Stabile. 63
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rire alla loro grandezza: Federico II assurge così ad altezza e validità di esempio di superamento dell’animalità bruta e di espressione di quanto di meglio può dare l’essere umano […] Va notato, tuttavia, che per grande che sia l’ammirazione per Federico II e l’elogio che ne viene fatto, il poeta sembra trattenersi, in quest’opera, da ogni considerazione politica (p. 827). Il momento elogiativo, col suo giudizio attento all’opera di cultura di Federico II e di Manfredi […] si riferisce, soprattutto, a un tempo in cui non si era ancora venuta manifestando in Dante la consapevolezza dei problemi storici dell’epoca, con la ricerca delle ragioni per cui il mondo è fatto reo (Pg XVI 104). Quando una tale questione s’impone alla coscienza del poeta, i problemi della cultura tendono a perder di significato e di rilievo, sempre più sostituiti da quelli della realtà religiosa e politica (p. 828).
Con tutto il rispetto per l’illustre storico, che pure non aveva affatto di Dante un’idea puramente letteraria, questa valutazione apolitica è del tutto irrealistica: Che questo apprezzamento per l’opera culturale di Federico II e di Manfredi possa prescindere da una determinatissima convinzione e intenzione politica, oltre a essere palesemente contraddetto dalla veemenza del dettato, è del tutto implausibile […] Per il mondo guelfo fiorentino dal quale Dante proveniva e dal quale era stato espulso Federico II era Satana, l’Anticristo. Un semplice apprezzamento culturale, politicamente neutro, per un personaggio tanto esecrabile, era dunque precluso a un uomo che come Dante proveniva da quel mondo. Non gli era invece preclusa una radicale conversione: che è infatti l’atteggiamento di Dante in questa fase, inequivocabilmente espresso dal testo. È noto che l’aggettivo benegenitus (§ 4) con cui Dante qualifica Manfredi reagisce alla libellistica guelfa che ne sfruttava la nascita illegittima. Ma non è certo questa l’unica spia lessicale dell’essere questo un testo tutto schierato a sostegno dell’idea imperiale. Ancor più rilievo hanno le parole heros-heroicus: «illustres heroes, Fredericus Cesar et benegenitus eius Manfredus» (§ 4), contrapposti ai degeneri «ytalorum principum» successivi «qui non heroico more sed plebeio secuntur superbiam» (§ 3). Sono parole da interpretare alla luce della concezione aristotelica (Ethica, VII, 1, 1145a) della virtus heroica o divina quale virtù sovrumana che fa l’uomo simile alle sostanze separate, contrapponendosi alla bestialitas: il che chiarisce l’antitesi humana-brutalia: «nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit humana secuti sunt, brutalia dedignantes» (§ 4). E sono parole dantesche esclusive di questo preciso momento64 (Tavoni 2016, pp. 207-208). 64 Sul chiarissimo significato politico del passo concorda anche fenZi (2013, p. 172): «È impossibile sottovalutare questo omaggio a Federico II e Manfredi che, per essere ben radicato e pienamente coerente con tutto il discorso che Dante è andato svolgendo sino a quel punto, non cessa tuttavia di sorprendere per il suo tono vibrante, per la sua portata politica clamorosamente ghibellina e per la sua complessa sostanza ideologica, che rinvia alle teorizzazioni sulla nobiltà svolte dieci anni prima nella canzone Le dolci rime e riprese ora e sviluppate in direzione apertamente aristocratica e ‘imperiale’ nel libro IV del Convivio». Non concorderei invece con Fenzi sulla qualifica di ghibellino tout court con cui etichetta Dante. Dante è sempre attentissimo a qualificarsi
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Ulteriore riprova della politicità del passo (I xii 3-4) si ha nell’invettiva che lo segue immediatamente (I xii 5): Racha, racha! Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi «Venite carnifices, venite altriplices, venite avaritie sectatores»?
Per quale colpa i due re Federico II d’Aragona e Carlo II d’Angiò, e i due marchesi Giovanni di Monferrato e Azzo VIII d’Este (di nuovo lui!) vengono esecrati? Forse perché non sono stati altrettanto liberali protettori della poesia? Evidentemente no, bensì per le loro colpe politiche. Il nome di Federico II viene a Dante dai suoi incontri degli anni 13021303, e segnatamente dal suo soggiorno alla corte veronese di Bartolomeo della Scala – soggiorno di pochissimo precedente quello bolognese. E carPi (2004, pp. 82-83) mette bene in luce di quanta connotazione ghibellina fosse sovraccarico: In termini stretti di ‘svevismo’, per esempio, avranno pur contato qualcosa ambienti in cui la memoria, anzi la discendenza Hohenstaufen e il suo valore politico erano così fisicamente e drammaticamente presenti. A Verona Bartolomeo e Cangrande sposi alle sorelle Costanza e Giovanna dai nomi dantescamente fatali, figlie del nipote di Federico II Corrado d’Antiochia […] ma anche il cugino loro ghibellinissimo Federico della Scala […] sposo a una terza figlia di Corrado, nomata Imperatrice: perciò, dominae in riva all’Adige, le nipoti di Federico II Costanza e Giovanna e Imperatrice; in Casentino Bianca Giovanna Contessa [la probabile destinataria della canzone di questi stessi anni Doglia mi reca] pur essa a sua volta nipote di Federico II, ma per parte di madre […]. Schiatte nobili e suggestione simbolica dei nomi, persistenza di sangue svevo per via – proprio come accadrà all’Enea della Monarchia – di uxores, echi imperiali in un’epoca in cui il casato degli Hohenstaufen, a mezzo secolo dalla loro repentina disfatta, cominciava ad entrare nel mito65. come imperiale, super partes. Per fare un solo esempio, proprio la nostra invettiva contro i degeneri successori degli eroi svevi è rigorosamente bipartisan: Federico II d’Aragona e Carlo II d’Angiò, Giovanni di Monferrato e Azzo VIII d’Este, due ghibellini e due guelfi. 65 Varanini (1988, p. 119) rileva che fin dagli anni Ottanta-Novanta, e nei primissimi anni del Trecento nei quali cade il primo soggiorno di Dante, la signoria scaligera, senza allentare il suo radicamento nel ceto mercantile e notarile, persegue una decisa politica di ‘nobilitazione’: «sono gli anni dei matrimoni con gli Este o con gli Svevi» – cioè di Costanza della Scala (1289) con Obizzo I d’Este (poi nel 1299 con Guido Bonacolsi, a sancire l’alleanza strategica con Mantova), e di Bartolomeo della Scala (1291) con Costanza di Antiochia nipote dell’imperatore Federico II – e sono gli anni «delle ‘magne curie’ cavalleresche in cui sono fatti cavalieri i figli e i nipoti, giovani e giovanissimi, di Alberto ed alcuni fra i suoi collaboratori», con «assunzione più consapevole, da parte dei della Scala, di valori socio-culturali e di uno stile di vita nuovo e diverso», rilevabile nell’assegnazione al monastero di San Zeno, «luogo simbolo che gronda da ogni sasso tradizione imperiale e ‘feudale’[…] in qualità di domicelli o di socii dell’abbate di parecchi fuorusciti e ghibellini eccellenti».
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Ciò dato, chiedo scusa per un paio di domandine paradossali, su quanto sapeva Dante sulla suprema istituzione politica della sua epoca. Sapeva che Federico II era l’imperatore, vero? Sì, lo sapeva. Sapeva che quella di rex Alemannie e di rex Ytalie erano (in aggiunta a quella di rex Romanorum) le due corone che l’imperatore eletto, in successione, assumeva, la prima venendo incoronato ad Aquisgrana, la seconda a Milano, per poter poi essere, a compimento dell’iter previsto, incoronato imperatore a Roma dal papa? O credeva che fossero due (o tre) re diversi? No, sapeva che erano la stessa persona. Quindi che senso ha dire che Federico II ha fondato la scuola poetica siciliana non in veste di imperatore ma di ‘re d’Italia’? Che lui e Manfredi stanno nel De vulgari eloquentia come ‘principes Italie’, e che l’Impero non c’entra? E la futura curia di cui i vulgares eloquentes sono le disperse membra, che cos’è se non la curia del futuro agognato imperatore che finalmente venga in Italia, a Roma, a prendere il posto che è suo? O è la curia e l’aula di un semplice ‘re d’Italia’? E in quale mai ordinamento giuridico è prevista una tale figura di un ‘re d’Italia’ che non sia – per definizione – lo stesso uomo che è stato già eletto a imperatore dai principi elettori e incoronato ‘re di Germania’? Sono domande vere, perché non riesco a immaginare attraverso quali giri di parole possano trovare risposta. Beninteso, l’iter da rex Romanorum a rex Germanie a rex Italie a imperatore non era affatto un iter regolare che scorreva pacificamente dalla prima all’ultima tappa. Al contrario, l’ultimo che lo aveva portato a termine era appunto «Federigo di Soave, ultimo imperadore delli Romani– ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti siano» (Cv IV iii 6). Infatti, in ordine cronologico: Rodolfo d’Asburgo, eletto re di Germania nel 1273 e morto nel 1291, non scese mai in Italia («Rodolfo imperador fu, che potea / sanar le piaghe c’hanno Italia morta, / sì che tardi per altri si ricrea», Pg VII 94-96); Adolfo di Nassau, eletto re di Germania nel 1292 e morto nel 1298, idem; e Alberto I d’Asburgo, figlio del suddetto Rodolfo, eletto re di Germania nel 1298, si trovava ad essere l’imperatore eletto al momento del viaggio oltremondano di Dante (marzo 1300), per cui si prese in pieno, anche a nome del padre, un’invettiva di sei terzine, incluso augurio di una brutta fine a lui e a suo figlio, verificatesi infatti entrambe nel 1307-1308, che fosse di monito al suo successore testé eletto (e qui appunto fa il suo ingresso nel poema la premonizione dell’alto Arrigo): «O Alberto tedesco ch’abbandoni / costei ch’è fatta indomita e selvaggia, / e dovresti inforcar li suoi arcioni, / giusto giudicio da le stelle caggia / sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto, / tal che ’l tuo successor temenza n’aggia», ecc. (Pg VI 97-102). L’accostamento, in VE I xviii 4-5, della «curia regis Alamannie», che «unita accipitur», cioè che semplicemente esiste, e della «excellentissima Ytalorum curia», che invece «unita» non esiste, ed è solo supplita, nel volo
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intellettuale di Dante, dai «membra eius» che «non desunt», questo accostamento sta a significare, già qui nel De vulgari, esattamente come nel IV del Convivio e poi nel VI e VII del Purgatorio, il rammarico di Dante perché dopo Federico II non c’è stato nessun suo successore eletto che sia venuto in Italia a fare l’imperatore: perché tutti, «Ridolfo e Andolfo e Alberto», si sono fermati in Germania, dove appunto la loro curia è esistita ed esiste, e hanno mancato di costituire la parallela curia italiana. Lo stesso identico pensiero imperiale che Dante esprimerà discorsivamente nel VI e VII del Purgatorio, e che nel IV del Convivio – luogo di prima e già piena teorizzazione della necessità dell’Impero – esprimerà nominando i tre mancati imperatori succeduti a Federico II, nel I libro del De vulgari lo esprime già icasticamente affiancando alla curia esistente dell’imperatore in quanto rex Alamannie la curia inesistente dell’imperatore in quanto rex Ytalie. All’altezza del De vulgari eloquentia Dante non ha ancora scoperto la provvidenzialità dell’Impero romano. La scoprirà di lì a poco (anzi a pochissimo), con l’Eneide, nel IV del Convivio. Ma ha già abbracciato l’idea dell’Impero, l’idea politica dell’Impero del suo tempo66. L’ha abbracciata con tanta decisione da non esitare a prorompere in quell’elogio svettante addirittura di Federico II, il nome che incarna il massimo d’incompatibilità con l’universo guelfo. Un nome che Dante non farà mai più come riferimento politico, nemmeno nelle più accese epistole per Enrico VII. Importa poco questa conversione nella sua vita, solo perché non ha ancora scoperto nei libri (o semplicemente non l’ha ancora detto) che l’Impero romano è provvidenziale? Anche in questo caso l’Enciclopedia dantesca rappresenta un deciso regresso rispetto alla comprensione del De vulgari eloquentia. Ecco infatti come presentava questa materia, in modo piano e lineare, Marigo nel 1938 (nota a I xviii, pp. 155-156): l’Italia, come manca di una reggia, manca di una curia unificata da un sommo principe, mentre la curia di Germania è unificata dall’imperatore, che è pure «Rex Germaniae». Ma questi, come imperatore e «Rex Romanorum», dovrebbe avere la sua sede a Roma, intitolarsi «rex Italiae» e convocando in una «Curia Italiae» i prìncipi ed i «gentili» del «giardin dell’Impero», sentirne il giudizio sui più gravi provve66 Concordo in pieno con scoTT 2004, p. 259: «Tutti questi elementi [intende i soggiorni a Forlì presso Scarpetta Ordelaffi e a Verona presso Bartolomeo della Scala] rendono più che probabile una conversione da parte di Dante o quanto meno un’affinità politica con il ghibellinismo dell’Italia settentrionale, ‘conversione’ avvenuta negli anni 1303-04. Bisogna, però, subito aggiungere che questa fase ghibellina fu di breve durata, perché assai presto essa venne trasformata dal concetto della missione provvidenziale di Roma, scoperta intorno al 1306-07 e documentata dai capitoli 4-5 del quarto trattato del Convivio». Nel De vulgari eloquentia, Dante probabilmente estrapola anche l’idea della reductio ad unum, in I xvi, dalla letteratura militante sul rapporto fra il potere dell’imperatore e quello del papa: cfr. qui n. 61.
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dimenti del Regno e dell’Impero, come ora fa convocando nella Curia Alamanie i «principes et magnates Alemanniae» […]. Dante ha sempre il ricordo nostalgico di Federico II, che considera «ultimo imperatore de li Romani, ultimo, dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti sieno appresso la sua morte e de li suoi discendenti» (Conv., IV, iii, 6). Egli non poteva dimenticare che il grande imperatore, italiano di spirito e di aspirazioni, mirava veramente a far Roma capitale dell’Impero […], e già aveva effettivamente tenuto curia imperiale in Italia con prìncipi italiani […]. Rievocando in lui il magnifico mecenate dei poeti volgari (I, xii, 4), Dante pensa, con rimpianto, a quale altezza ed a quale dignità d’arte sarebbe assurta la lingua nostra, se Federico non fosse stato avversato dalla fortuna e la sua politica, imperiale e italiana, fosse stata continuata dai successori.
Questa conversione intellettuale e personale alla pars Imperii, scattata per motivi immediatamente politici nell’esperienza di regimi padani come quelli di Forlì e di Verona, preceduta e accompagnata dalla militanza congiunta fra guelfi bianchi e ghibellini fin dai primi giorni dell’esilio e fino alla battaglia della Lastra, Dante può portarla a un primo, già notevolissimo livello di consapevolezza teorica, quale appunto leggiamo nel testo del De vulgari eloquentia, nel clima culturale di Bologna. Sullo sfondo di fattori contingenti favorevoli quali l’alleanza con quei regimi padani, nel modo più stretto con quelli romagnoli, si accampa il fattore culturale – non contingente – forse decisivo, cioè il fatto stesso di essere un importantissimo centro di cultura giuridica. Infatti, come mi fa notare l’amico Diego Quaglioni (comunicazione personale): Tra Due e Trecento Bologna è il centro di una cultura giuridica che si può chiamare filoimperiale nel senso che lo studio del diritto civile filoimperiale lo era quasi di necessità, perché tutto il sistema del diritto comune si regge sulla presupposizione di un diritto civile comune come diritto dell’Impero. Non si tratta però solo di una cultura di civilisti. Per quanto possa apparire paradossale, è anche la canonistica a nutrire sentimenti ‘filoimperiali’, nel senso che la funzione universale (e salvifica) dell’Impero non può non essere difesa anche contro le pretese dei regni particolari (anche nelle posizioni ierocratiche estreme, come quelle di Innocenzo III, l’Impero e il Papato sono i due astri posti da Dio nel firmamento, che l’esegesi scritturale del tempo interpreta semplicemente come «Ecclesia»). Ne dà un esempio eccellente, proprio nel 1303, Bonifacio VIII, che approvando l’elezione di Alberto di Sassonia parla dell’Impero come di una «monarchia Ecclesie», scrivendo che il re dei Romani era «promovendus in imperatorem et monarcham omnium regum et principum terrenorum» e che Alberto era «rex precellens super omnes reges», e che nessuno era «ab eo exemptus»67.
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Cfr. de vergoTTini (1993, pp. 248-249).
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4.13. Il contenuto politico sarcastico degli esempi di «supprema constructio» sintattica (II vi 4). I tre esempi di costruzione sintattico-retorica forgiati da Dante, dal grado «pure sapidus» a quello «et sapidus et venustus» a quello «et sapidus et venustus etiam et excelsus», sono così fatti su misura per un pubblico di cultori di artes dictandi (tanto più data la singolarissima scelta di dare, come modelli di sintassi poetica volgare, tre esempi di sintassi prosastica latina), da orientare decisamente su Bologna, capitale dell’ars dictaminis (cfr. § 4.7). Ma ancor più mirato è il contenuto politico degli esempi. Esso punta a Bologna con precisione assoluta, perché salda il destino del fuoruscito fiorentino perseguitato dal partito estense-angioino al destino della città che gli dà rifugio essendo minacciata dallo stesso partito68. Primo esempio, «pure sapidus»: «Piget me cunctis pietate maiorem, quicunque in exilio tabescentes patriam tantum sompniando revisunt». «M’addoloro, io più d’ogni altro pietoso, per quanti consumandosi nell’esilio solo in sogno rivedono la patria». Dante fa propria la consuetudine dei dettatori italiani, ricordata da Mengaldo, di produrre exempla di bello stile da materia politica, e la personalizza producendo tre esempi tutti legati al proprio esilio. In questo primo esempio c’è appunto solo il tema dell’esilio. Secondo esempio, «et sapidus et venustus»: «Laudabilis discretio marchionis Estensis, et sua magnificentia preparata, cunctis illum facit esse dilectum». «Il lodevole discernimento del Marchese d’Este e la sua sempre pronta magnificenza a tutti lo rendono caro». Di nuovo e più elevato c’è l’uso dell’ironia antifrastica contro l’odiato Azzo VIII, già bollato di ogni nequizia, e in particolare di avarizia, nella precedente menzione in I xii 5, a questa strettamente collegata. Il contenuto della frase è di direttissima pertinenza bolognese. Azzo VIII, ‘il Marchese’ per antonomasia, era infatti il punto di riferimento della fazione guelfa nera bolognese, ovvero geremea, che da lui prendeva appunto il nome di Pars Marchexana. Era l’alleato di Firenze Nera e capo dell’intero territorio guelfo che chiudeva Bologna a Nord e a Ovest (Ferrara Modena Reggio, non per caso accomunate in I xv 4 dalla speciale menzione di non aver mai avuto e di non poter avere nessun poeta, come abbiamo visto qui al § 4.10), e che Dante rappresenterà come il padrone servito dal ruffiano bolognese (capo della fazione geremea) Venedico Caccianemico (If XVIII) e dalla belva sanguinaria Fulcieri da Calboli (Pg XIV). Nel momento in cui Dante scrive questa pagina, il Marchese è l’incombente aggressore contro il quale Bologna resiste alleandosi con i ghibellini romagnoli in teoria suoi nemici. Anzi, proprio la minaccia estense aveva determinato, per reazione, il formarsi e consolidarsi del regime guelfo 68 È curioso che Marigo, così avvertito del legame fra il De vulgari e Bologna, non se ne sia accorto, mentre non mi stupisco che non ne faccia parola Mengaldo.
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‘bianco’ che permetteva a Dante di risiedere a Bologna in questi anni, come descritto qui al § 3.1: «una lunga serie di congiure, che tentarono ripetutamente, nei successivi sei anni [a partire dal 1300] di consegnare la città a Azzo VIII d’Este» determinarono per reazione «sentenze di condanna al bando e al confino» di esponenti ‘geremei’ (Milani 2003, p. 382); fino a che, nel 1303, «un nuovo complotto mise in luce l’alleanza fra questi [i ‘marchesani’ bolognesi], i neri fiorentini, l’Estense e Carlo di Valois» – cioè appunto il «Totila secundus» del nostro terzo esempio. Terzo esempio, «et sapidus et venustus etiam et excelsus»: «Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia, nequicquam Trinacriam Totila secundus adivit». «Strappata la maggior parte dei fiori dal seno tuo, Firenze, invano in Trinacria il secondo Totila si spinse». Il ‘secondo Totila’ è Carlo di Valois, il fratello del re di Francia inviato a Firenze da Bonifacio VIII come ‘paciere’ fra Bianchi e Neri, il quale nel novembre 1301 sovvertì il governo dei Bianchi e determinò surrettiziamente la presa del potere da parte dei Neri. L’assimilazione a Totila, re dei Goti, si basa sulla notizia, data da Giovanni Villani nella sua Cronica, cap. I, che Totila, non potendo espugnare Firenze con la forza, convinse i Fiorentini «con false lusinghe e vane promessioni» ad aprirgli le porte e poi distrusse la città, proprio come aveva fatto Carlo di Valois, entrato subdolamente come falso paciere. Carlo di Valois partì poi subito, lasciando Firenze in mano ai Neri, come capitano generale per riconquistare agli Angioini la Sicilia caduta sotto il dominio aragonese dopo la rivolta dei Vespri (1282), ma fallì nell’impresa e dovette firmare, il 31 agosto 1302, l’ingloriosa pace di Caltabellotta, che lasciava l’isola al regno di Federico III d’Aragona, con il nome appunto di Trinacria, creato in quell’occasione per distinguerlo dal Regnum Siciliae, nome rimasto alla parte continentale. Per questa ragione il toponimo non è neutrale, bensì è carico di disvalore politico per Dante, qui come in I xii 3, appunto il passo «in obproprium ytalorum principum» degeneri successori degli illustri eroi Federico II e Manfredi («Sed hec fama trinacrie terre…» : cfr. qui § 4.12), e come sarà in bocca a Carlo Martello in Pd VIII 67 («E la bella Trinacria che caliga…»): «The employment […] by Charles Martel of this particular name for Sicily adds an additional sting to his utterances […] in rebuke of his house; and there can hardly be a doubt that Dante introduced it here with this intention, and not as a mere synonym for Sicily as the commentators take it» (ToynBee 1902, p. 276). L’esempio dantesco unisce dunque queste due azioni successive (13011302) di Carlo di Valois, evidenziandone sprezzantemente la capacità di vincere a tradimento, l’incapacità di vincere militarmente. Ma Carlo di Valois non era solo il responsabile dell’ingiusto esilio di Dante, richiamato dal primo esempio retorico; era, al tempo stesso, il potente soggetto che complottava con i geremei bolognesi per consegnare la città all’Estense (vedi l’esempio
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precedente «Laudabilis discretio marchionis Estensis…»)69. In questo terzo esempio, dunque, Dante instaura una perfetta solidarietà politica ed emotiva fra sé stesso e la città a cui si stava rivolgendo. Nei tre esempi c’è un crescendo di complessità insieme stilistica e tematica, su materia politico-biografica: il primo esempio è un generico lamento per la pena dell’esilio («non sine – si direbbe – quodam elegie umbraculo», cfr. II xii 6); il secondo, che potrebbe dirsi comico-satirico, punta a Bologna, e sembra mirato a far scattare nel pubblico bolognese l’indignata identificazione contro il nemico comune; il terzo, tragico, unisce il tema dell’esilio, ma non più espresso in prima persona, a quello dell’attacco politico, nominativo ma dottamente nobilitato, in una testura dantescamente condensata. Oppure, in alternativa a tutto ciò, si può lasciar cadere tutto l’evidentissimo côté bolognese che Dante ha magistralmente inscritto nei suoi esempi retorici, intrecciandolo indissolubilmente al proprio côté personale ed evidenziando il significato politico comune all’uno e all’altro, e ritenere solo la bravura retorica e l’esilio come tema privato. È quello che fa fenZi, Ed. (2012, p. XL): Dante inserisce dunque una esibizione di personale bravura, come di chi voglia mostrare d’avere perfettamente assimilato i precetti dell’ars dictaminis ancorati ai modelli classici e però altrettanto perfettamente piegati alle proprie intenzioni. Il punto vero, infatti, è che attraverso quegli esempi Dante non solo esibisce la propria legittimità ‘dettatoria’, ma riesce anche a far riemergere con forza la propria vicenda di esiliato […] Tutto ciò significa, insomma, che questi esempi di constructio sono al servizio di un rinnovato e preciso discorso che Dante fa sul proprio esilio, nel quale l’impegno formale di tipo squisitamente retorico depura un tema gravato di tanta passione da ogni ‘accidentalità’ elegiaca e mostra un autore ormai ‘cittadino del mondo’, talmente padrone dei propri mezzi espressivi da riuscire a modulare e sublimare attraverso di essi la propria vicenda.
Però, se si ritiene che il significato del passo sia solo questo, perché inserire anche le parole seguenti (ibidem)? Il tema dolente dell’esilio e del suo sfondo politico richiamato dal Totila secundus, cioè Carlo di Valois, la vince sulla didattica neutralità dell’esempio, e ciò diventa ancora piú vero se si considera che l’esempio che sta fra i due contiene un sarcastico attacco al marchese Azzo VIII d’Este, alleato della Firenze nera e dei neri bolognesi – i Geremei –, e tra i responsabili del rivolgimento che nel febbraio 1306 fece di Bologna una feroce nemica dei Bianchi, ai quali tolse ogni possibile speranza.
Queste parole, infatti, hanno senso solo se si ritiene che Dante scrivesse a Bologna, per Bologna, e persino che il rivolgimento politico del febbraio 1306 abbia che fare con l’interruzione forzata del trattato. 69 Il ruolo di Carlo di Valois come socio dell’alleanza incombente su Bologna fra il 1302 e il 1304 è definito da davidsohn (1960 [1912], p. 335).
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Portare alla luce il fortissimo significato politico-biografico che hanno i nostri esempi di constructio ha delle implicazioni per la valutazione dell’intero De vulgari eloquentia e della posizione del suo autore nel momento in cui lo scrive. Infatti, se si leggono questi esempi al di fuori della contestualizzazione storico-politica che ho messo in luce – e fino a dieci anni fa tutti li leggevano così – è logico interpretarli, come fa alBerT ascoli, nel suo Dante and the Making of a Modern Author (2008, pp. 167-169) come segno di delusione politica, di perdita di ambizioni politiche e di conseguente ritiro nello spazio protetto della poesia e della retorica: The obvious inference is that the retreat into questions of poetic style, and the reduction of authorial ambitions to those of the poetic craftsman, is the only tenable position in a historical situation where Dante and his language no longer hold any hopes of successfully mediating between knowledge and power.
Se invece vediamo la destinazione bolognese di questi veri e propri slogan politici, vediamo che Dante si sente nel pieno della sua azione militante di poeta. In questo momento – e siamo a soli sette capitoli di distanza dal punto in cui il trattato verrà abbandonato; verosimilmente siamo nella seconda metà del 1305 – Dante non si sente ancora in una situazione di sconfitta, ma in una situazione di lotta aperta. E Dante si trova a Bologna per scelta, perché quella è la sua parte politica, e questo messaggio lo inscrive nel testo con tutta chiarezza. 4.14. Il rovesciamento del regime guelfo-bianco di Bologna nel gennaiofebbraio 1306 come possibile causa dell’interruzione del De vulgari eloquentia. L’idea è già in renucci (1954, p. 64): Seule l’interruption du De Vulgari Eloquentia paraît soudaine; celle du Convivio fut comme préméditée et amortie a loisir. On serait tenté d’en inférer que l’arrét du premier ouvrage fut causé par un brusque evénement survenu dans la vie de Dante, tandis que la suspension du deuxième résulta d’un changement de programme dans son activité intellectuelle. De là à expliquer l’abandon du De Vulgari Eloquentia par l’expulsion du 2 octobre 1306, et la fin du Convivio par le commencement de la Divine Comédie, il n’y a qu’un pas.
L’idea invece che il trattato linguistico venga abbandonato per ragioni endogene, perché superato dall’ideazione della Commedia, che presuppone un assetto teorico implicito ben diverso, ha molti e incontestabili argomenti a proprio favore. È l’idea che, per esempio, dichiara Mengaldo, Ed. (1968, pp. XV-XVI): «Si può dare per scontato che l’interruzione, come e più di quella parallela del Convivio, va messa anzitutto in rapporto con la nascita della Commedia»; essa si darà «quando la Commedia è diventata per Dante una presenza
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così assorbente ed esclusiva da imporre il sacrificio di quanto dell’attività in corso allontanasse da essa o addirittura ne contraddicesse taluni fondamenti». Ed è l’idea che sPagnolo (2013) sviluppa in un articolo a ciò dedicato. Sono d’accordo. Anche a me (come ho scritto in Tavoni 2014a pp. 49-50) risulta evidente che la Commedia si fonda su un assetto del tutto diverso da quello del De vulgari, e comporta un decisivo ripensamento dei fondamentali, dell’idea di poesia, per definizione endogeno. Ma questo ripensamento deve pur essere avvenuto in un certo arco di tempo e in certe condizioni ambientali, su cui non abbiamo informazione documentaria certa. Interrogarsi su quali siano stati questi tempi e luoghi, perché dovrebbe ridurre (ho in mente il famigerato aggettivo riduttivo) la nostra capacità di penetrazione nella storia intellettuale di Dante, anziché ampliarla? Nella fattispecie, la maturazione intellettuale-poetica-religiosa-creativa che spinge Dante a lanciarsi nella composizione del poema, lasciandosi alle spalle la pur quasi altrettanto geniale elaborazione del De vulgari, avrà mille concause; ma se è vero che il De vulgari è stato scritto in prospettiva bolognese – e gli ‘indizi’ in questo senso sono tanto forti che non li chiamerei più ‘indizi’– allora il crollo del regime su cui questa prospettiva si basava, trasformando Bologna in terra bruciata per lui, e con ciò azzerando il dialogo con i destinatari privilegiati che Dante aveva in primo piano nel concepire tutti gli snodi della sua argomentazione, mi sembra che possa essere invocato come una buona ragione per cui il trattato è rimasto interrotto a metà di un capitolo e mai più ripreso. 4.15. Infine, la vessatissima contraddizione fra il giudizio di maggiore nobiltà assegnato al latino nel Convivio, e di maggiore nobiltà assegnato al volgare nel De vulgari, su cui sono corsi fiumi d’inchiostro senza – a mio giudizio – risultati convincenti, credo che si spieghi molto meglio se si chiama in causa il diverso atteggiamento autoriale di Dante verso i diversi pubblici dei due trattati. Devo a questo punto richiamare qual è, secondo gianfranco fioravanTi (2014, 2015), con cui concordo totalmente, il pubblico al quale Dante si rivolge nel I libro del Convivio. L’idea è che nel Convivio Dante intende «insegnare ai nobili che cosa sia la vera nobiltà», e che i destinatari specifici a cui si rivolge sono per l’appunto i «principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati» (Cv I ix 5). A mio giudizio, i primi rappresentanti di questo ceto davanti ai suoi occhi sono, nel momento in cui scrive queste parole, gli uomini e le donne della famiglia e dell’entourage di Bartolomeo della Scala di cui è ospite nel 1303-130470. 70
Cfr. Tavoni (2014a; 2015, cap. III, pp. 77-103).
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Avendo presente questo pubblico veronese del I libro del Convivio, e il pubblico bolognese del De vulgari, mettiamo a confronto questi due passi: per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare (Cv I xvii 6). Quod autem honore sublimet [il volgare illustre], in promptu est. Nonne domestici sui reges, marchiones, comites et magnates quoslibet fama vincunt? Minime hoc probatione indiget. Quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus. (VE I xvii 5-6)71.
È evidente la ben diversa sicurezza, rispetto alla propria condizione di esiliato, e l’enorme aumento di fiducia in sé stesso come autore, che traspare dal secondo brano rispetto al primo. E non c’è da stupirsene. Il primo brano, infatti, Dante lo ha scritto per i signori di Verona, che lo ospitano come esule – solo, politicamente isolato e povero. Egli si propone loro come ‘filosofo laico’ che può assisterli culturalmente nell’arte di governo. Da loro spera di ottenere, grazie al convivio dottrinario che per loro imbandisce, di riscattarsi dall’avvilimento anche intellettuale conseguente alla dolorosa povertà. Interpreta il suo ruolo con dignità e orgoglio, ma oggettivamente è uno al loro servizio, senza risorse proprie, che dipende dalla loro liberalità, dal loro volubile apprezzamento, dal loro arbitrio. Il secondo passo, invece, Dante lo ha scritto a Bologna, immerso in un ambiente intellettuale dove gode di alto prestigio, come poeta volgare illustre, come maestro di poetica e di retorica e forse anche – non è escluso anche se non è probabile – con un qualche ruolo universitario. Non è più al servizio di «principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente», ma si sente 71 A commento di questi due passi Brilli-Milani (2021b, pp. 172-173) osservano giustamente: «I riferimenti alla propria vita sono parte integrante dei progetti-opere ai quali Dante si dedica. Il De vulgari eloquentia e il Convivio presentano entrambi dei capitoli che rievocano la sua condizione. […] Come questi esempi mostrano, non c’è nulla di più rischioso che trattare l’evocazione delle vicissitudini di Dante come digressioni estemporanee dettate dalla prepotenza delle emozioni. Il legame tra vissuto e testo, tra vita e opera è più profondo e di natura strutturale. La vita dell’autore fa il suo ingresso nell’opera a giustificazione della sua necessità e a garanzia della sua possibilità di riuscita. A sua volta, l’opera si fa carico del compito di riscattare il vissuto, incluse le parti più amare, trasformandole in fonte di nuova conoscenza e di riconoscimento sociale. Siamo cioè di fronte al tentativo d’instaurare un circolo virtuoso tra vita e opera, che dovrebbe ribaltare il circolo vizioso causato dal bando». Questa è la costante che accomuna i due passi, poi c’è l’inversione di segno, da negativo a positivo, che li differenzia.
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liberamente al servizio del volgare, che lo ripaga di gloria al punto da farlo sentire superiore a principi, baroni, cavalieri, operando uno straordinario, anche se solo percepito, scavalcamento sociale. Ciò premesso, veniamo all’opposto giudizio di maggiore nobiltà assegnato al latino nel Convivio, e di maggiore nobiltà assegnato al volgare nel De vulgari, in questi due passi: Dunque quello sermone è più bello, nello quale più debitamente si rispondono [li vocabuli; e più debitamente li vocabuli si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte. Onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile (Cv I v 14). Harum quoque duarum [locutionum] nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat. Et de hac nobiliori nostra est intentio pertractare (VE I i 4-5).
La maggiore nobiltà del latino, nel primo contesto, è ovvia. L’atteggiamento di ‘filosofo laico’, che divulga la filosofia a nobili illetterati nell’entourage scaligero veronese, infatti, presuppone la tradizionale superiorità del latino. Dante dice di sé: «io adunque che non seggio alla beata mensa [dei litterati, dove si mangia il «pane delli angeli», cioè il sublime cibo della filosofia], ma, fuggito della pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati» (Cv I i 7-10). E dunque intende distribuire in volgare qualcosa del vitale cibo del sapere a chi da quella beata mensa dei litterati è escluso perché non sa il latino: agli «’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati» (I i 6), e in particolare, appunto, ai nobili illetterati (I ix v). In questo schema prossemico, il latino sta per definizione più in alto del volgare. Invece a Bologna, avendo come interlocutori un pubblico solidale di maestri di artes dictandi in latino e in volgare e di giudici-notai litterati ma al tempo stesso appassionati e cultori di poesia volgare, Dante può assumere l’atteggiamento, che gli è riconosciuto, di massimo poeta volgare e di teorico dell’eloquenza volgare, e in questo ambiente eccezionalmente favorevole e solidale può spingersi a valorizzare il volgare fino a questo inaudito punto di audacia. Se questa spiegazione convince, possiamo considerarla un ultimo argomento a sostegno della matrice bolognese del De vulgari – e insieme una manifestazione abbastanza lampante di come tale matrice sia utile, anzi preziosa, oserei dire imprescindibile, per capire la logica che presiede al trattato.
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5. L’alternativa Treviso non esiste ugo foscolo non aveva torto a scrivere, nel suo Discorso sul testo della Divina Commedia (1825, p. 275): Se l’epiteto di BUONO assegnato a Gherardo [da Camino, in Pg XVI 124 e 138] e le lodi dategli nel Convito [IV xiv 12] sono prove che Dante fu presso di lui, tutti gli altri lodati ugualmente e nel poema, e nel Convito, domanderanno lo stesso merito.
E augusTo serena (1921), ponendosi la domanda Dante a Treviso?, dopo aver passato in rassegna gli argomenti di tutti gli studiosi locali che hanno sostenuto un tale soggiorno, confessa di essere rimasto con niente in mano. Abbiamo visto (§ 2.4) che nella storia redazionale della biografia di Petrocchi «la suggestiva ipotesi d’un soggiorno dantesco a Treviso, presso Gherardo da Camino» (chissà perché «suggestiva», poi) «s’affaccia», priva di fondamento, nel 1966 e si riaffaccia «come la più probabile» nel 1978. La maggiore probabilità sopraggiunta è portato esclusivo del tempo intercorso, evidentemente benefico. L’ipotesi del soggiorno a Treviso ha ricevuto nuova linfa dalla tesi di carPi (2004) della richiesta di perdono a Firenze sostenuta da Corso Donati, e quindi plausibilmente appoggiata da Gherardo da Camino, che di Corso era stretto alleato. Da qui verrebbero la gratitudine e gli elogi di Dante. Ma il De vulgari eloquentia, come abbiamo visto, porta segni inequivocabili di essere imperiale e antifiorentino, per cui Corso e Gherardo avrebbero piuttosto dovuto chiedere a Dante di bruciarlo se ci teneva a essere perdonato, mentre sarebbe molto strano se Dante, nel caso si trovasse mai a Treviso aspettando il perdono di Firenze, si dedicasse a scrivere quel trattato. Opportunamente ricorda carPi (2004, p. 515) che Dante si mostrerà ben consapevole di quali rischi mortali corressero [da parte dei Caminesi] i nemici politici degli Estensi («ma s’io fosse fuggito inver la Mira, / quando fu’ sovvragiunto ad Oriaco, / … / corsi al palude e le cannucce e ’l braco…» [Pg V 79-84]): non un derelitto esule con sentenza capitale addosso, ma perfino un dominus sulla cresta dell’onda, in viaggio per assumere a Milano la carica di podestà per il primo semestre 1298 dopo averla autorevolmente esercitata a Bologna, quale era Jacopo del Cassero.
E appunto a proposito di Estensi, concepire e scrivere a Treviso, alla corte del buon Gherardo, il sarcastico esempio dettatorio «Laudabilis discretio marchionis Estensis, et sua magnificentia preparata, cunctis illum facit esse dilectum» (II vi 4, cfr. qui § 4.13), così come evocare, a esecrazione di chi è venuto dopo gli illustri eroi svevi Federico II e Manfredi, i «cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum» (I xii 5), che richiamano d’ogni dove carnefici, ingannatori e seguaci della cupidigia, sarebbe stato come scrivere queste parole alla corte stessa del marchese Azzo VIII.
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6. Conclusione L’articolo è venuto molto lungo – perché, spero, esaustivo. Di conseguenza la conclusione potrà essere molto breve. Non tocca a me, ma ai competenti lettori, per i quali ho prodotto al meglio delle mie capacità tutti gli argomenti su cui possono formarsi il loro giudizio, rispondere alla domanda posta dal titolo: «Quanto è probabile che…?» (quanto all’altra domanda, «… e perché ci interessa?», credo che l’interesse sia risultato più che evidente). Quale sia la mia convinzione circa la probabilità è scontato. Tuttavia voglio esplicitarla, calandola in una classica formula giudiziaria: io ritengo provato al di là di ogni ragionevole dubbio che Dante ha scritto il De vulgari eloquentia a Bologna e per Bologna nel 1304-1305. Scrivo queste parole perché mi piacerebbe che qualificati lettori, magari giovani e magari non pochissimi, si sentissero a loro volta motivati, per proprio gratuito interesse intellettuale, a mettere a fuoco il loro proprio giudizio, su questa come su altre questioni critiche, con il senso di responsabilità che questa formula impegnativa evoca, e che per farlo fossero disposti a spendere il tempo necessario, la concentrazione necessaria, e a mettere in gioco la libertà mentale necessaria, l’indipendenza di giudizio necessaria. È solo un caso di studio, ovviamente, ma è rappresentativo. Purtroppo ho la sensazione che la libera, disinteressata passione intellettuale per ricerche esigenti di questo tipo non abbondi. Temo che, nelle questioni su cui la comunità scientifica è divisa, il non avere una propria opinione possa essere la scelta col miglior rapporto costi/benefici. Dichiarare di non sapere, sospendere il giudizio, non costa niente, non turba nessun equilibrio e conferisce superiore pensosità filologica. La storia della questione che ho ricostruito, sia quella più antica sia quella più recente, non mostra tanti esempi di best practices nel dibattito scientifico quale dovrebbe essere, cioè con libera e ariosa costruzione di argomentazioni, ed eventuali controargomentazioni, all’insegna della curiosità, della falsificabilità, del fair play, del rigore razionale, della buona fede, del coraggio, del buon senso e del piacere per la scoperta. Tutte virtù parecchio elitarie. Non scarseggiano invece le worst practices accademiche, che ci sono sempre state, ma che sarebbe bene non diventassero troppo pervasive72. 72 L’amico Paolo Trovato mi segnala un suo scritto, pubblicato in appendice alla ristampa (20142) del Discorso intorno alla nostra lingua di Machiavelli, nel quale esamina una serie di interventi che continuano a esprimere dubbi sulla paternità del testo, benché sia stata provata con argomenti schiaccianti una trentina di anni prima, come se niente fosse. A commento del singolare fenomeno – a proposito del quale si chiede: «Insufficienza di informazioni o tentativi di manipolazione?» (p. 101) – Trovato cita le parole del premio Nobel per l’Economia Paul Krugmann (p. 102): «l’d like to believe that ideas and evidence matter, at least a bit. Otherwise, what am I doing with my life?» (traduzione Trovato: «Mi piacerebbe poter credere che gli argomenti e le prove che si producono contano, almeno un poco. Altrimenti, perché fare questo mestiere?»).
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DE VULGARI ELOQUENTIA SCRITTO A BOLOGNA?
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2021