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Italian Pages 248 Year 2022
Claude Meillassoux (1925-2005) antropologo e africanista francese, economista di formazione, ha compiuto ricerche da una prospettiva teorica marxista, analizzando le società non capitaliste.
PGreco Edizioni
16,00 euro
9 788868 024437
PGRECO | filorosso
ISBN 978-88-6802-443-7
CLAUDE MEILLASSOUX DONNE, GRANAI E CAPITALI
Donne, granai e capitali è una pietra miliare dell’antropologia che segna l’ingresso dell’apparato concettuale marxista negli studi antropologici. Quest’opera costituisce il risultato di una lunga riflessione che ha inizio nel 1958, anno in cui Claude Meillassoux esordisce come etnologo tra i Guro della Costa d’Avorio. Ma rappresenta anche uno dei tentativi più efficaci di situare storicamente i modi di produzione che hanno preceduto la comparsa del capitalismo e resta a tutt’oggi il primo lavoro di un antropologo inteso a cogliere la funzione essenziale svolta da uno di questi modi di produzione – quello domestico – nel processo riproduttivo del capitalismo stesso. Per Meillassoux, la riproduzione della comunità domestica si fonda infatti sullo sfruttamento delle capacità riproduttive della donna e, nelle condizioni storiche del dominio imperialista, il capitalismo riesce a fare proprio della comunità domestica il centro della riproduzione a buon mercato di una parte della forza-lavoro a esso indispensabile. Da questo punto di vista Donne, granai e capitali è anche e soprattutto un libro militante, nel senso che amplia la nostra conoscenza delle basi strutturali del sistema capitalistico, fornendo una serie di elementi teorici che rendono più efficace la comprensione delle contraddizioni di cui questo sistema è portatore.
CLAUDE MEILLASSOUX DONNE, GRANAI E CAPITALI
UNO STUDIO ANTROPOLOGICO DELL’IMPERIALISMO CONTEMPORANEO Prefazione di Lorenzo D’Angelo
PGRECO | filorosso
PGRECO filorosso
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COMITATO DI REDAZIONE Giacomo Clemente, Didier Contadini, Lorenzo D’Angelo, Vittorio Morfino, Michele Parodi, Luca Pinzolo, Stefano Pippa, Gianluca Pozzoni, Elia Zaru. COMITATO SCIENTIFICO Cinzia Arruzza (The New School for Social Research) Luca Basso (Università di Padova) Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo) Fortunato Cacciatore (Università della Calabria) Viola Carofalo (Università ‘L’Orientale’, Napoli) Andrea Cengia (Università di Padova) Giorgio Cesarale (Università Ca’ Foscari, Venezia) Mario Cingoli (Università di Milano-Bicocca) Luisa Lorenza Corna (Winchester School of Art) Simona De Simoni (Teoria critica della società) Mauro Farnesi Camellone (Università di Padova) Roberto Finelli (Università di Roma Tre) Roberto Fineschi (Siena School for Liberal Arts) Fabio Frosini (Università di Urbino) Andrea Fumagalli (Università di Pavia) Chiara Giorgi (Università ‘La Sapienza’, Roma) Augusto Illuminati (Università di Urbino) Simone Lanza (Università di Milano-Bicocca) Sandro Mezzadra (Università di Bologna) Cristina Morini (ricercatrice indipendente) Stefano Petrucciani (Università ‘La Sapienza’, Roma) Maurizio Ricciardi (Università di Bologna) Paola Rudan (Università di Bologna) Giovanni Sgro’ (Università eCampus, Novedrate) Salvatore Tiné (Università di Catania) Massimiliano Tomba (University of California, Santa Cruz) Maria Turchetto (Università Ca’ Foscari, Venezia) Giovanna Vertova (Università di Bergamo)
CLAUDE MEILLASSOUX
DONNE, GRANAI E CAPITALI
UNO STUDIO ANTROPOLOGICO DELL’IMPERIALISMO CONTEMPORANEO Prefazione di Lorenzo D’Angelo
PGRECO | filorosso
Titolo originale dell’opera: Femmes, greniers & capitaux Traduzione di: Ugo Fabietti Prima edizione: Maspero, Paris 1975. Prima edizione italiana: Nicola Zanichelli S.p.A., Bologna 1978
© 2022 – PGRECO EDIZIONI Via Gabbro 4-20100 Milano Per informazioni E-mail: [email protected] www.edizionipgreco.it Collana: filorosso, n. 17 ISBN: 9788868024437 L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.
Indice
p. VII
Prefazione di Lorenzo D’Angelo
XXIX
Prefazione di Ugo Fabietti
1
Introduzione
Parte I Capitolo 1
La comunità domestica Situazione della comunità domestica
15
1.1. L'incesto inutile
20
1.2. L'orda e i rapporti di adesione
27
1.3. Accoppiamento e filiazione
30
1.4. Donne trattenute e donne rubate
Capitolo 2
La riproduzione domestica
43
2.1. Il livello delle forze produttive
49
2.2. Ll costituzione dei rapporti di produzione
53
2.3. La costituzione dei rapporti di riproduzione
Capitolo 3
Le strutture alimentari della parentela
63
3.1. La riproduzione dell'energia umana, ovvero il processo di produzione energia-sussistenza-energia
68
3.2. Il pluslavoro
71
3 .3. La circolazione della prole
Capitolo 4
La dialettica dell'eguaglianza
74
4.1. La circolazione delle spose e delle doti
76
4.2. La dote come credito
p. 78 81
4.3. Lo scambio identico 4.4. Il valore sornione
Capitolo 5 90
5.1. Le donne
94
5.2. I cadetti
Capitolo 6 glianza
Chi sono gli sfruttati?
Contraddizioni e contatti: le premesse dell'inegua-
Parte H Lo sfruttamento della comunità domestica: l'imperialismo come modo di riproduzione della manodopera a buon mercato 108
1. I paradossi dello sfruttamento coloniale
117
2. Salari diretti, salari indiretti
124
3. L'accumulazione primitiva
127
4. Senza casa e senza terra: l'esodo rurale
131
5. L'eterno ritorno al paese natale: le migrazioni tornanti
140
6. Il mantenimento dei « giacimenti di manodopera»
144 149
7. Il doppio mercato del lavoro e la segregazione
153
9. I limiti del supersfruttamento del lavoro: a) La soglia di depauperazione; Criterio oggettivo della divisione del proletariato; b) La concorrenza
16 7
Conclusioni
177
Riferimenti
8. I benefici dell'immigrazione
Prefazione. Antropologia e marxismo di Lorenzo D’Angelo
1. Premessa Claude Meillassoux (1925-2005) è stato tra gli antropologi sociali più influenti e impegnati della sua generazione. Nato a Roubaix in Francia, di famiglia benestante, dopo essersi laureato, nel 1947, prosegue i suoi studi negli Stati Uniti presso la University of Michigan. Nel 1949 ottiene così un master in economia e scienze politiche che lo avrebbe dovuto preparare a gestire l’impresa tessile di famiglia. Tornato in Francia, lavora invece per qualche anno come interprete all’interno di un programma del Piano Marshall e poi in una impresa pubblicitaria. Agli inizi degli anni Cinquanta la passione politica lo avvicina a un gruppo di intellettuali politicamente impegnati che sono legati alla figura di Jean-Paul Sartre, il Comité d’Action des Gauches Indépendantes (CAGI). Inizia a leggere il Capitale con gli occhi di un militante di sinistra e inizia così un suo autonomo percorso di riflessione sul marxismo1. Negli anni del CAGI conosce un giovane ma già apprezzato antropologo sociale, Georges Balandier, il cui corso “Sociologie de l’Afrique noire” presso Institut d’Études Politiques di Parigi appassiona e catapulta il giovane Meillassoux negli studi antropologici. Balandier lo incoraggia a confrontarsi con la letteratura internazionale e in particolare con i lavori dei colleghi antropologi britannici. Nel 1955, lo assume per un progetto di ricerca finanziato dall’UNESCO2. Due anni dopo, Meillassoux si ritrova in Costa d’Avorio per condurre una ricerca sui Gouro, una ricerca che sarà relativamente breve per i canoni etnografici tradizionali (dal luglio del 1957 al gennaio del 1958), ma che gli permetterà di produrre analisi sorprendentemente ricche3. A partire da questa sua prima esperienza di campo in Africa, Meillassoux pubblica, nel 1960, il suo primo articolo4. L’articolo viene subito accolto molto positivamente, anzi, si potrebbe dire, con entusiasmo dai colleghi francesi C. Meillassoux, Preface to the English translation, in id. Maidens, Meal and Money: Capitalism and the Domestic Community, Cambridge University Press, Cambridge 1981. 2 M. Saul, Claude Meillassoux (1925-2005), in “American Anthropologist”, a. 107, n. 2005, pp. 753-757. 3 J. Copans, Claude Meillassoux (1925-2005), in “Cahiers d’études africaines”, n. 177, 2005 (http://journals. openedition.org/etudesafricaines/4887). 4 C. Meillassoux, Essai d’interpretation du phenomene economique dans les societes traditionnelles d’autosubsistance, in “Cahiers d’études africaines”, n. 4, 1960, pp. 38-67. 1
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che ne applaudono l’originalità5. In questo articolo Meillassoux espone per la prima volta le sue tesi circa il ruolo degli anziani nella gestione e nel controllo dei matrimoni e delle riserve di grano della società Gouro. Questa analisi viene estesa e approfondita nella sua tesi di dottorato discussa, nel 1962, con Balandier nel ruolo di relatore, e infine pubblicata in un voluminoso libro uscito due anni dopo6 – considerato da alcuni7 come un punto di svolta per l’antropologia economica francese8. Il 1964 è anche l’anno in cui Meillassoux inizia a lavorare al Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) e in cui comincia una nuova ricerca di campo, questa volta tra Mali e Senegal, per un progetto la cui direzione è affidata a Jean Rouch. Meillassoux si focalizza sul mondo culturale Mande e, in particolare, sui Soninke. In questo contesto lavorerà a lungo e ciò gli consentirà di pubblicare libri e testi vari su molteplici argomenti – tra gli altri, un dizionario della lingua Soninke, un’analisi delle acconciature femminili, raccolte di testi griot e leggende locali – argomenti in cui antropologia e storia si sostengono vicendevolmente9. In questi stessi anni, una parte del dibattito antropologico francese si accende intorno alla questione dei modi di produzione sollevata dallo storico dell’Africa Jean Suret-Canale. Ma, la figura dominante dell’antropologia francese è quella di Claude Lévi-Strauss, la cui teoria strutturalista travalica i confini disciplinari e nazionali. Uno dei suoi allievi, Maurice Godelier – che aveva fatto brevemente parte del gruppo di giovani studiosi nato agli inizi degli anni Sessanta intorno al filosofo marxista Louis Althusser10 – si incarica di coniugare questa teoria antropologica con il marxismo11 e, a partire da questa, elaborare la propria esperienza di campo in Papua Nuova Guinea12. Meillassoux segue un percorso intellettuale diverso, seppure inevitabilmente contiguo. Alla fine degli anni Sessanta, è uno studioso già riconosciuto a livello internazionale, attivo su più fronti, anche extra-accademici. I suoi lavori entrano B. Campbell, B. Schlemmer, A tribute to Claude Meillassoux, in “Review of African Political Economy”, a. 32, n. 103, 2005, pp. 197-201. C. Meillassoux, Anthropologie économique des Gouro de Côte d’Ivoire, Mouton, Paris 1964. 7 B. Campbell, B. Schlemmer, A tribute to Claude Meillassoux, cit.; J. Copans, Claude Meillassoux (1925-2005), cit. 8 Nella prefazione inglese di Donne, granai e capitali, Meillassoux afferma che quando pubblicò i suoi primi lavori agli inizi degli anni Sessanta, nessuno dei colleghi era interessato all’antropologia economica, a parte Pierre Bessaignet (C. Meillassoux, Preface to the English translation, cit., p. viii). Tuttavia, occorre ricordare che Maurice Godelier ebbe nel 1963 il primo incarico di antropologia economica in Francia. Il suo corso si teneva al College de France (N. Besnier, A. Howard, Maurice Godelier, in Newsletter of the Association for Social Anthropology in Oceania, 1997). 9 C. Meillassoux, The social structure of modern Bamako, in “Africa. Journal of the International African Institute”, a. 35, n. 2, 1965, pp. 125-142; id., Urbanization of an African Community: Voluntary Associations in Bamako, University of Washington Press, Seattle 1968; id., Lexique soninké (sarakolé)-français, Centre de linguistique appliquée, Dakar 1975. 10 V. Morfino, Introduzione, in E. Balibar, Cinque studi di materialismo storico, PGreco, Milano 2021, pp. I-LVI. 11 M. Godelier, Système, structure et contradiction dans “Le Capital”, in “Les Temps Modernes”, n. 246, 1966, pp. 828-64. 12 Id., Horizon, trajets marxistes en anthropologie, Maspero, Paris 1973; tr. it. di C. Damiani, Antropologia e marxismo, Editori Riuniti, Roma 1977. Altri antropologi aiuteranno Godelier in questa impresa concettuale (es. M. Augé, Théories du pouvoir et idéologie: étude de cas en Côte d’Ivoire, Herman, Paris 1975; M. Augé, Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort. Introduction à une anthropologie de la répression, Flammarion, Paris 1977, cit. in J-L. Amselle, Beyond Marxist anthropology, in “Canadian Journal of African Studies”, a. 19, n. 1, 1985, pp. 99-105). 5
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prefazione
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in dialogo con quelli di altri colleghi accomunati da una visione del marxismo che si ispira, in modo particolare, al lavoro di Althusser. Nel 1967 prende il posto di Jean Rouch nella direzione della linea di ricerca sulla cooperazione condotta all’interno del CNRS13. Nel 1969, organizza un seminario, passato alla storia, tra i colleghi universitari, come “Il seminario Meillassoux”: un luogo di incontro transdisciplinare in cui si discute, tra le altre cose, di economie tradizionali e capitaliste, sviluppo e sottosviluppo, neocolonialismo e imperialismo14. Queste riflessioni confluiranno in diversi lavori collettanei15, incluso un dossier sulla fame nel Sahel, pubblicato come collettivo16. A questo proposito, Meillassoux scrive anche un articolo di stampo accademico in cui evidenzia come le carestie non sono fatti naturali, ma il risultato di politiche agricole di sfruttamento liberali di cui beneficiano solo le imprese capitaliste17. La riflessione del gruppo di Meillassoux sul Sahel riesce ad uscire dagli angusti ambiti accademici ed è accompagnata dall’organizzazione di diversi momenti pubblici con discussioni e proiezioni di film che mirano a sensibilizzare lo spirito critico del pubblico francese su questo tema d’attualità – tutte attività che, per l’attenzione sollevata, procureranno a Meillassoux qualche difficoltà professionale18. Meillassoux è un africanista, e sa bene che un filo rosso unisce le forme di sfruttamento agricolo nel Sahel a quello delle periferie urbane di Parigi in cui egli ritrova gli stessi contadini africani, qui, proletarizzati. Si tratta allora di unificare all’interno di una cornice interpretativa comprensiva queste diverse geografie dello sfruttamento. Prende così forma quello che è forse il suo lavoro più famoso19: Femmes, greniers et capitaux, pubblicato nel 1975 e tradotto in italiano tre anni dopo con il titolo Donne, granai e capitali (1978). La ripubblicazione di questo testo a distanza di oramai più di quarant’anni dalla sua prima edizione italiana – curata da un giovanissimo Ugo Fabietti, di cui riproponiamo di seguito la prefazione – richiede un più approfondito lavoro di contestualizzazione rispetto a quanto fin qui fatto, un lavoro che permetta di dipanare, almeno in parte, il complesso intreccio di traiettorie rappresentato dall’antropologia marxista occidentale20. Questo lavoro di contestualizzazione è reso necessario J. Copans, Claude Meillassoux (1925-2005), cit. B. Campbell, B. Schlemmer, A tribute to Claude Meillassoux, cit.; M. Saul, Claude Meillassoux (1925-2005), cit.; B. Schlemmer, Hommage à Meillassoux, in www.alencontre.org, 2005. 15 Cfr. ad es. C. Meillassoux, (a cura di), L’évolution du commerce africain depuis le XIXème siècle en Afrique de l’Ouest, Oxford University Press, London 1971 [tr. ing.: The Development of Indigenous Trade and Markets in West Africa: Studies Presented and Discussed at the Tenth International African Seminar at Fourah Bay Collège Freetown, December 1969]; C. Meillassoux, Id., Femmes, greniers et capitaux, Maspero, Paris 1975. 16 Comité Information Sahel, Qui se nourrit de la famine en Afrique ? Le dossier politique de la faim au Sahel, Maspero, Paris 1974. 17 C. Meillassoux, Development or exploitation: Is the Sahel famine good business?, in “Review of African Political Economy”, n. 1, 1974, pp. 27-33. 18 Id., Preface to the English translation, cit., p. ix. 19 F. Viti, Claude Meillassoux, in “Africa. Rivista Trimestrale di Studi e Documentazione dell’Istituto per l’Africa e l’Oriente”, a. 60, n. 1, 2005, pp. 111-113. 20 Per quanto riguarda la contestualizzazione della traduzione italiana di Donne, granai e capitali uscita nel 1978, è utile ricordare che tre anni prima era stata tradotta una raccolta di saggi di Meillassoux, curata da P. Palmeri e pubblicata da Feltrinelli, intitolata L’economia della savana (1975). Il 1975 è anche l’anno in cui U. Fabietti si 13 14
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dal fatto che quello tra l’antropologia e il marxismo è un rapporto complesso, non sempre dichiarato, che, nel corso della sua storia, si è consumato, spesso, di nascosto o in maniera obliqua, come in certi contesti anglofoni di cui parleremo a breve. Al fine di riflettere sulle ragioni di questo particolare rapporto occorre però fare un passo indietro rispetto agli anni in cui prendeva forma il lavoro di Claude Meillassoux e, sulle orme di Maurice Bloch e del suo sempre attuale Marxism and anthropology (1983), provare a delineare lo scenario storico-intellettuale che fa da sfondo al lavoro di una generazione di studiosi che si affacciava all’antropologia accademica negli anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, alcuni dei quali coetanei dello stesso Meillassoux. Per tratteggiare questo scenario è utile esaminare in che modo l’antropologia anglofona, e in particolare quella statunitense, ha recepito il marxismo, poiché è anche dal confronto con questa tradizione che ha preso forma l’antropologia francese post-bellica. A questo riguardo è importante tenere a mente che l’antropologia britannica, dagli anni Venti fino agli anni Sessanta, ha sostanzialmente ignorato il marxismo21, a parte qualche significativa eccezione22 – ragione per cui, in questa introduzione sorvoleremo sugli scambi tra antropologia statunitense, britannica e francese23. L’antropologia italiana ha laureava con una tesi seguita dal filosofo F. Papi e dallo stesso C. Meillassoux. Il titolo della tesi di Fabietti era: “Teoria dei modi di produzione e l’esperienza sociale degli Yanomamö” (cit. in F. Remotti, In ricordo di Ugo Fabietti. Come si può giungere all’antropologia, in “Anuac”, a. 6, n. 1, 2017, pp. 11-21). Per una ricostruzione della biografia accademica di U. Fabietti e dei suoi punti di contatto con il lavoro e la biografia di C. Meillassoux, vedi anche A. Bellagamba, Futuri passati: La frontiera in divenire tra antropologia e storia, in “Antropologia”, a. 6, n. 1, 2019, pp. 277-297 e R. Malighetti, M. Van Aken, The anthropologist as nomad. On the ethnographic legacy of Ugo Fabietti (1950-2017), in “Nomadic People”, a. 22, n. 1, 2018, pp. 1-9. Più in generale, è importante rammentare il clima intellettuale (e politico) della fine degli anni Settanta in Italia nonché la presenza di una nuova generazione di antropologi che guardava con interesse al marxismo in un periodo in cui, tuttavia, molti intellettuali italiani, e non solo italiani, avevano già iniziato ad abbandonarlo (R. Finelli, Il disagio della “totalità” e i marxismi italiani degli anni ’70, comunicazione al seminario: La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia negli anni Settanta e Ottanta, Roma 26-28 novembre 2014). Per dare una idea di quel clima, basti ricordare che nel 1977 F. Remotti aveva organizzato a Milano un seminario su antropologia culturale e marxismo in collaborazione con la Fondazione Feltrinelli. Questo seminario ebbe vasta eco e fu recensito e discusso sui più importanti quotidiani e sulle riviste accademiche nazionali da A.M. Sobrero, L.M. Lombardi Satriani, A. Signorelli, D. Parisi, T. Tentori e lo stesso Remotti (vedi M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva, ovvero i sette giorni dell’antropologia cognitiva, in A. Lutri (a cura di), Modelli della mente e processi di pensiero. Il dibattito antropologico contemporaneo, ed. it, Catania 2008, p. 281, nota 19). È bene precisare, tuttavia, che quest’ultimo scrisse un articolo in cui esprimeva le sue forti perplessità sull’antropologia marxista e su quelle che considerava le tendenze autarchiche dell’antropologia italiana (F. Remotti, Tendenze autarchiche nell’antropologia culturale italiana. Note in margine a un convegno su “Antropologia culturale e marxismo”, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, a. 19, n. 2, 1978, pp. 183-226, cit. in F. Dei, Filosofia più fieldwork. L’antropologia di Francesco Remotti, in “Studi Culturali”, a. 15, n. 2, 2018, pp. 261-269). Alle critiche di Remotti rispose in seguito A. Signorelli (Antropologia, culturologia, marxismo. Risposta a Francesco Remotti, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, a. 21, n. 1, 1980, pp. 97-116. 21 M. Bloch, Marxism and Anthropology. The History of a Relationship, Clarendon Press, Oxford 1983, p. 145. 22 Cfr. ad es. P. Worsley, The Trumpet Shall Sound: A Study of “Cargo Cults” in Melanesia, Paladin, London 1957. 23 Per una visione approfondita sull’antropologia britannica della prima metà del Novecento, vedi A. Colajanni, Gli usignoli dell’imperatore. Lo studio dei mutamenti sociali e l’antropologia applicata nella tradizione britannica del contesto coloniale dagli anni ’30 agli anni ’50, CISU, Roma 2012, e R. Malighetti, Antropologia applicata. Dal nativo che cambia al mondo ibrido, Unicopli, Milano 2003. Per una visione di insieme critica degli sviluppi più recenti dell’antropologia statunitense, in relazione anche all’antropologia francese e italiana, vedi B. Palumbo, Immagini del mondo. Etnografia, storia e potere nell’antropologia statunitense contemporanea, in “Meridiana”, n. 15, 1992, pp. 109-140.
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seguito invece una sua specifica traiettoria legata, prevalentemente, al pensiero di Antonio Gramsci così come ai lavori di Ernesto De Martino e dei suoi allievi24 – una traiettoria che, per la ricchezza e varietà di posizioni, meriterebbe anch’essa un discorso a parte25. Per tornare all’antropologia statunitense, essa ha conosciuto vari tentativi di dialogo con il marxismo avvenuti, tuttavia, in un contesto accademico e ideologico spesso sfavorevole o persino ostile che è utile qui ricostruire. 24 es. A.M. Cirese (a cura di), Folklore e antropologia tra storicismo e marxismo, Palumbo, Palermo 1974; L.M. Lombardi Satriani, Analisi marxista e folklore come cultura di contestazione, in “Critica Marxista”, a. 6, n. 6, 1968, pp. 64-86; C. Pasquinelli, The history of a relationship: Contemporary cultural anthropology and Marxism in France and Italy, in “Dialectical Anthropology”, a. 7, n. 3, 1983, pp. 195-207; P.G. Solinas, Idealismo, marxismo, strutturalismo, in P. Clemente (a cura di), L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Laterza, Bari 1985, pp. 205-264. 25 Sfugge agli scopi di questa introduzione esaminare il rapporto tra marxismo e antropologia italiana, ma vale la pena ricordare, oltre ai riferimenti nel testo, i due numeri dei Quaderni di “Problemi del Socialismo” intitolati “Orientamenti marxisti e studi antropologici italiani” (15/16, 1979) curati da S. Puccini, V. Padiglione, A. M. Sobrero, e M. Squillacciotti (cit. in Palumbo, Immagini del mondo, cit.; M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva, cit.) a cui hanno contribuito G. Angioni, A.M. Cirese, P. Clemente, C. Gallini, C. Pasquinelli, T. Seppilli e P.G. Solinas. Il pensiero di Gramsci, in particolare, continua a influenzare, ancora oggi, nuove generazioni di antropologi italiani che hanno saputo riattualizzarlo e applicarlo in maniera originale ai propri campi di ricerca come, per esempio, in antropologia medica (es. G. Pizza, Second nature: on Gramsci’s anthropology, in “Anthropology and Medicine”, a. 19, n. 1, 2012, pp. 95-106; G. Pizza, L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione, Carocci, Roma 2020; P. Schirripa, L’efficacia tra simbolo e condizioni materiali di esistenza, in “AM Rivista della Società Italiana di Antropologia Medica”, a. 21, n. 49, 2020, pp. 181-193), antropologia politica e africanistica (es. R. Ciavolella, Gramsci in antropologia politica. Connessioni sentimentali, monografie integrali e senso comune delle lotte subalterne, in “International Gramsci Journal”, a. 2, n. 3, 2017, pp. 174-207; R. Ciavolella, Tra subalternità e autonomia. Tracce di Gramsci nel “pensiero africano” e nella ricerca africanistica, in “International Gramsci Journal”, 4 (4), 2022, pp. 282-295) o negli studi sulle culture popolari (es. F. Dei, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, Bologna 2018; F. Dei, A. Fanelli (a cura di), La demologia come “scienza normale”? Ripensare Cultura egemonica e culture subalterne, in “Lares. Quadrimestrale di studi demo-etno-antropologici”, n. 2-3, 2015). Di recente, A.M. Pusceddu e F.M. Zerilli hanno curato un dossier sul rapporto tra A.M. Cirese e il pensiero di Gramsci con vari contributi (Cirese 101: Rileggere le “Osservazioni sul folclore” di Antonio Gramsci, ANUAC, a. 11, n. 1, 2022, pp. 7-86) mentre P. Schirripa ha messo in luce come l’influenza di Ernesto de Martino su Vittorio Lanternari sia filtrata da una prospettiva storico-materialista marxista, seppure Marx non venga citato, per esempio, nell’edizione del 1959 de La grande festa, ma venga richiamato nella prefazione dell’edizione del 1976 (P. Schirripa, La grande festa e i movimenti religiosi, una prospettiva materialista nell’antropologia religiosa”, in “AM Rivista della Società Italiana di Antropologia Medica”, in stampa). Altri antropologi italiani hanno seguito percorsi marxisti diversi. Per esempio, il lavoro di C. Capello spicca per la sua originale interpretazione del concetto althusseriano di transindividuale (vedi C. Capello, Dai Kanak a Marx e ritorno: Antropologia della persona e transindividuale, in “DADA Rivista di Antropologia Post-Globale”, a. III, n. 1, 2013, pp. 99-114) così come per l’impiego del concetto di ideologia sempre in chiave althusseriana (vedi C. Capello, Rituali neoliberali. Uno sguardo antropologico sui servizi per la ricerca attiva del lavoro, in “Etnografia e Ricerca Qualitativa”, 2, 2017, pp. 223-242). È utile rammentare che il concetto di transindividuale è qui ripreso dal filosofo marxista V. Morfino il cui lavoro segue, e al tempo stesso sviluppa, alcune delle intuizioni di E. Balibar (es. E. Balibar, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 2005; E. Balibar, Filosofie del transindividuale: Spinoza, Marx, Freud, Mimesis, Milano 2020; E. Balibar, V. Morfino (a cura di), Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni, Mimesis, Milano 2014). Da parte mia, mi sono ispirato al concetto di temporalità plurale – proposto anch’esso da Morfino in Plural Temporality. Transindividuality and the Aleatory Between Spinoza and Althusser (2014) – così come ai concetti althusseriani di “materialismo dell’incontro” e di “articolazione dei modi di produzione” (es. L. D’Angelo, The art of governing contingency. Rethinking the colonial history of diamond mining in Sierra Leone, in “Historical Research”, a. 89, n. 243, 2016, pp. 136-157; L. D’Angelo, Diamonds and plural temporalities. Articulating encounters in the mines of Sierra Leone, in R.J. Pijpers, T.H Eriksen (a cura di), Mining encounters. Extractive industries in an overheated world, Pluto Press, London 2019, pp. 138-155).
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2. L’antropologia statunitense e il marxismo Fino alla prima metà degli anni Quaranta del Novecento, il capitalismo e il colonialismo non erano considerati, di per sé, oggetti di interesse per l’antropologia26. Essendo focalizzati sulle cosiddette “società primitive” – o, più in generale, su quelle società basate su una economia di sussistenza o di piccola scala generalmente trattate come “popoli senza storia”27 – gli antropologi non sembravano sentire l’urgenza di confrontarsi con la questione di come l’economia capitalista avesse a che fare anche con la vita sociale, economica e politica di queste società28. Bisognerà attendere quella generazione di antropologi che si formerà nel dopoguerra sotto la guida di Julian Steward per trovare dei lavori che mettano a fuoco tali questioni. L’originalità di questi studiosi sarà quella di leggere quei testi di Marx che aiutano a comprendere il ruolo delle società contadine nell’economia capitalista invece di partire dagli interessi dello stesso Marx per le cosiddette società “precapitaliste”. A questo proposito, bisogna ricordare che Marx fu significativamente influenzato, così come Engels, dall’antropologia americana quando questa era ancora ai suoi albori. Sia Marx che Engels, infatti, erano stati avidi lettori di Lewis Henry Morgan, l’autore di Ancient Society (1877)29 nonché esponente di spicco, insieme al collega britannico Edward Burnett Tylor, dell’antropologia evoluzionista. Questo interesse derivava dal fatto che i due filosofi rivoluzionari tedeschi intravedevano nelle società dei nativi americani una forma di comunismo primitivo che poteva ispirare la futura società post-capitalista. Leggendo Morgan, Marx raccolse una mole considerevole di appunti confluiti in quelli che sono divenuti noti come i Quaderni antropologici 30, mentre Engels fu chiaramente influenzato dall’autore di Ancient Society quando scrisse L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884)31. Con queste premesse, sembravano esserci le condizioni per un lungo e proficuo dialogo tra antropologia e marxismo32. In realtà, le cose andarono diversamente. Il progetto teorico di Morgan era strettamente legato all’evoluzionismo e, dopo la fine della Prima guerra mondiale, questa teoria fu ampiamente criticata e rimpiazzata da altri approcci che diventeranno dominanti, come il particolarismo di Franz Boas e dei suoi allievi. Per Boas il concetto di cultura ha una tale centralità che le condizioni materiali che partecipano alla formazione della cultura stessa finiscono in secondo piano. Il suo approccio è anti-evoluzionista in un contesto ideologico in cui l’evoluzionismo è frequentemente associato al M. Bloch, op. cit., p. 138; R. Layton, An Introduction to Theory in Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 1997. 27 E. Wolf, Europe and the People Without History, University of California Press, Berkeley 1982. 28 M. Bloch, op. cit., p. 138, 160-1. 29 L.H. Morgan, Ancient Society, or Researches in the Lines of Human Progress from Savagery through Barbarism to Civilization, Henry Holt & Co, New York 1877. 30 K. Marx, Quaderni antropologici. Appunti da L.H. Morgan e da H.S. Maine, Unicopli, Milano 2009. 31 La prima edizione del libro di Engels in tedesco è del 1884 mentre la prima traduzione in inglese è del 1902 (F. Engels, L’ origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan; trad. it. di D. Della Terza, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 2019). 32 M. Bloch, op. cit. 26
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comunismo. La proposta di Boas sottolinea invece l’irriducibilità delle culture e difende una forma di relativismo per la quale la validità di ogni cultura è stabilita in rapporto a sé stessa33. L’antropologia di Boas e dei suoi allievi – tra cui, le più dotate ed influenti furono senz’altro Ruth Benedict e Margaret Mead – si impose nella scena accademica antropologica come la più vicina alla sensibilità e ai valori della cultura liberale statunitense34. Nonostante l’influenza della scuola boasiana, le tesi evoluzionistiche di Morgan, così come quelle di Tylor, non furono dimenticate del tutto. Negli anni Trenta del Novecento, Leslie Alvin White si fece promotore di un tentativo di ravvivare i lavori di queste due figure centrali del pensiero antropologico evoluzionista. White conobbe l’antropologia negli anni Venti seguendo i corsi di Alexander Aleksandrovich Goldenweiser, uno studioso nato in Ucraina nel 1880 e migrato negli Stati Uniti nel 1900 che si era addottorato con Franz Boas. White si era avvicinato al marxismo alla fine degli anni Venti mentre il paese era scosso dalla crisi del 1929. In quello stesso periodo stabilì contatti con antropologi sovietici, compì un viaggio in Unione Sovietica, e si iscrisse al Socialist Labour Party americano quando quest’ultimo era sotto la guida di Arnold Petersen – un promotore del marxismo libertario di Daniel De Leon. Così come Franz Boas si era prodigato nel criticare l’evoluzionismo culturale mostrando quelli che, a suo modo di vedere, erano i suoi punti teorici più deboli – e i suoi assunti razzisti –, allo stesso modo, White divenne un fervido anti-boasiano che rivendicava la validità e l’attualità scientifica dell’evoluzionismo. Gli antropologi sovietici del tempo, per quanto condividessero con White lo stesso interesse per i lavori di Morgan e, più in generale per l’antropologia evoluzionista, erano, tuttavia, più simpatetici con il centralismo democratico del marxismo-leninismo che con il comunismo libertario americano, e non recepirono positivamente la sua teoria neo-evoluzionista, che pure era stata influenzata dal confronto con la stessa antropologia sovietica35. Al contempo, questo interesse di White per l’evoluzionismo di Morgan non fu visto di buon grado da vari colleghi americani poiché, come si è fatto cenno, veniva associato al comunismo e al marxismo – e quindi era visto come una prospettiva contraria agli assunti ideologici della vita americana. A partire dagli anni della Seconda guerra mondiale, con il mutato assetto geopolitico internazionale, White fu apertamente considerato come un pericoloso sovversivo comunista nonostante lo stesso antropologo non si fosse mai dichiarato tale e i suoi lavori non citassero apertamente Marx o Engels. Egli fu quindi osteggiato e poi ignorato fino agli anni Sessanta36, ossia, fino a quando le teorie evoluzioniste ritornano brevemente in auge grazie al lavoro di Julian Haynes Steward e alla sua proposta teorica: l’ecologia culturale. Steward e White erano quasi coetanei e condividevano in linea di massima un approccio all’evoluzione culturale che mostrava interesse per i cambiamenti tec-
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F. Boas, Race, language, and culture, MacMillan, New York 1940. M. Bloch, op. cit., p. 128. Ivi, pp. 128-9. Ivi, p. 129.
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nologici e rifuggiva il particolarismo boasiano37. Essi differivano però sotto altri importanti aspetti. In particolare, White difendeva una versione unilineare dell’evoluzionismo. Steward, invece, abbracciava una prospettiva che esaltava la pluralità o la multilinearità dell’evoluzione sociale come risulta chiaro, per esempio, in Theory of Cultural Change: The Methodology of Multilinear Evolution (1955)38. Inoltre, Steward prestava attenzione ai contesti ambientali che nelle analisi di White erano invece ignorati. Ispirato dai lavori di Karl Wittfoegel, e dalla nozione di modo di produzione asiatico, Steward esaminava come le diverse società si adattano a specifiche condizioni ambientali sulla base delle tecnologie a loro disponibili. Per questa attenzione agli aspetti ambientali o ecologici dell’evoluzione sociale la sua prospettiva fu definita appunto ecologia culturale. Sia White che Steward ebbero molta influenza su una generazione di giovani studiosi, alcuni dei quali erano stati veterani di guerra e provenivano dalla classe proletaria americana. Questi giovani si erano iscritti all’università avvicinandosi all’antropologia grazie ai benefici del GI Bill – un programma di borse di studio che concedeva, tra le altre cose, educazione superiore gratuita a chi aveva prestato servizio militare durante il conflitto mondiale. Alcuni di questi studiosi diventeranno stelle dell’antropologia americana come, per esempio, Stanley Diamond, Sidney Mintz e Eric Wolf – per citare solo alcuni degli allievi di Steward più famosi e influenti a livello internazionale che fecero anche parte del noto progetto People of Puerto Rico39. Anche Marvin Harris, come i colleghi qui menzionati, aveva ottenuto i benefici del GI Bill e si era potuto iscrivere alla Columbia University pur provenendo da un contesto proletario. Non aveva però fatto parte del progetto People of Puerto Rico. Sotto la guida di Charles Wagley, un antropologo esperto del Brasile, aveva condotto la sua prima esperienza di campo in Mozambico nel 1957. Vale la pena soffermarsi un momento proprio sul lavoro di Harris, il teorico del “materialismo culturale”, per mettere a fuoco una questione che sarà importante tenere a mente per contestualizzare gli sviluppi dell’antropologia marxista negli Stati Uniti ed evidenziare la specificità della prospettiva antropologica francese. Di fondo, la proposta di Harris si basa su due assunti. Primo, il materialismo culturale non si deve preoccupare, quantomeno in linea di principio, delle proprie implicazioni politiche – anche se poi, di fatto, Harris le esamina spesso. Secondo, e forse più importante assunto di questa proposta teorica: bisogna fare a meno della nozione di dialettica. Seguendo l’insegnamento di Steward, inoltre, il materialismo culturale di Harris fa proprio l’evoluzionismo multilineare, che ritiene pienamente in sintonia con la visione evolutiva dello stesso Marx. Come per i suoi predecessori, il principale bersaglio polemico del materialismo culturale è, ancora una volta, il particolarismo di Boas. Nel corso della sua lunga carriera, però, Harris si confronterà polemicamente anche con gli antropologi marxisti “ortodossi”, ossia, con U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Milano 2001, p. 175. J.H. Steward, Theory of Cultural Change: The Methodology of Multilinear Evolution, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1955. 39 Per approfondimenti, vedi G. Baca, Sidney W. Mintz: From the Mundial Upheaval Society to a dialectical anthropology, in “Dialectical Anthropology”, a. 40, n. 1, 2016, pp. 1-11. 37 38
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coloro che, a suo modo di vedere, ricorrono al pensiero dialettico ogni qual volta si tratta di comprendere, per esempio, le interazioni tra economia, società e morale. Qui, il riferimento è, soprattutto, all’antropologia francese che affronteremo in seguito. Per gli scopi di questa riflessione introduttiva basti osservare che il materialismo culturale di Harris semplifica eccessivamente questo tipo di interazioni e, come ha osservato più di un lettore critico, propone, di fatto, una forma di analisi deterministica in cui “la spiegazione delle credenze e dei valori delle persone è da ricercarsi direttamente nella natura della combinazione tecno-ambientale”40. Viste queste premesse c’è da domandarsi che cosa ci sia di veramente marxista nel “materialismo culturale” di Harris al di là del modo in cui lo presenta e lo definisce il suo artefice. La questione è rilevante in quanto Harris, a differenza dei suoi maestri e di altri suoi colleghi, si è sempre dichiaratamente definito come un marxista – e come tale è stato percepito nel dibattito accademico dagli anni Sessanta in poi, quando era meno problematico che negli anni precedenti dichiararsi tale visto il mutato contesto culturale. Fondando la sua proposta su assunti altamente problematici da un punto di vista marxista, Harris ha contribuito, però, a diffondere una immagine distorta di questo pensiero, una immagine che si è prestata a facili critiche41 e che ha diffuso l’idea che le debolezze teoriche del materialismo culturale fossero le stesse del marxismo tout court 42. Come si è fatto cenno, tra gli allievi di Stewart vi erano però anche studiosi di notevole spessore teorico come Eric Wolf e Sidney Mintz. Saranno loro a capire l’importanza di uscire dai ristretti ambiti della ricerca di campo per allargare lo sguardo e collegare le esperienze locali entro più ampie cornici interpretative economiche, politiche e storico-geografiche, spesso, di livello mondiale43. Per questa via, entrambi si avvicinano a posizioni marxiste in quanto le considerano utili a comprendere le economie rurali in rapporto alle società capitaliste e al colonialismo – prime fra tutte quelle espresse da Karl Kautsky, ossia, colui che Vladimir Lenin considerava un “rinnegato”, ma che Eric Wolf, per esempio, apprezza per il suo interesse verso le masse contadine – e, in particolare, le posizioni di Rosa Luxemburg, a sua volta criticata da Lenin così come da Trotskij44. Prima di passare ad esaminare la traiettoria francese è importante rimarcare un aspetto a cui si è fatto sopra rapidamente cenno e che ci consente di comprendere ancora più a fondo il modo in cui ha preso forma il rapporto tra antropologia e marxismo negli Stati Uniti. Fino agli inizi degli anni Sessanta, erano pochi gli studiosi che potevano dichiararsi apertamente marxisti senza correre il rischio di essere ostracizzati e relegati ai margini dell’accademia o espulsi da essa del tutto. Uno di questi studiosi era M. Bloch, op. cit., p. 133 (corsivo in originale). Vedi, per esempio, M. Sahlins, Culture and Practical Reasons, University of Chicago Press, Chicago 1976; tr. it. di B. Amato, Cultura e utilità, Anabasi, Milano 1994. 42 M. Bloch, op. cit., p. 135. 43 Tra le principali opere dei due antropologi americani vedi, per esempio, S.W. Mintz, Worker in the Cane: A Puerto Rican Life History, Greenwood Press, Westport, CN 1974; S.W. Mintz, Sweetness and Power. The Place of Sugar in Modern History, Sifton, New York 1985; E.R. Wolf, Peasant Wars of the Twentieth Century, Harper & Row, New York 1969. 44 M. Bloch, op. cit., p. 139. 40 41
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Karl August Wittfogel, l’autore di Oriental Despotism (1957)45. Wittfogel ebbe molta influenza sugli antropologi americani e il suo libro viene ancora citato da chi si occupa di studi agrari e sistemi di irrigazione, anche se per liquidarne rapidamente (e facilmente) le posizioni fin troppo meccanicistiche46. L’ipotesi materialista del suo magnum opus è che la ricorrenza di certi aspetti tecnologici, economici, ambientali e politici può spiegare l’insorgenza di configurazioni statuali simili in regioni del mondo diverse – che è poi l’idea di fondo che abbiamo già intravisto anche nell’ecologia culturale di Steward e che ricorre, più in generale, in molti movimenti ecologisti americani tra gli anni Cinquanta e Settanta47. Poco noto è il fatto che Wittfogel è stato uno studioso, a dir poco, controverso. Studi d’archivio hanno rivelato cupi retroscena sul suo operato accademico che gettano ombre, più in generale, sul mondo universitario americano dell’immediato Dopoguerra48. Questa vicenda merita un approfondimento. Wittfogel era nato in Germania nel 1896 e in gioventù era stato un membro attivo del partito comunista tedesco nonché un convinto antinazista al punto da essere arrestato e internato quando Hitler salì al potere nel 1933. Nel 1934 riuscì a scappare negli Stati Uniti dove riprese i suoi studi concentrandosi sul contesto economico e politico cinese. In questi studi, Wittfogel fa ampio uso di analisi materialiste di impianto marxista ed elabora una interpretazione della nozione di modo di produzione asiatico che lo porta a un profondo ed irrimediabile disaccordo con i teorici sovietici, i quali ritenevano che questa nozione – che pure era stata proposta, anche se non particolarmente elaborata, da Marx e Engels – non fosse conciliabile con la visione evolutiva lineare che gli stessi Marx e Engels avevano discusso in maniera più approfondita nei loro lavori principali, né essa era compatibile con il progetto politico e statuale sovietico49. La dismissione della nozione di modo di produzione asiatico fu sancita dalla conferenza di Leningrado del 1931 – su cui ritorneremo a breve – e questa decisione fu, secondo l’antropologo David Price50, una delle ragioni teoriche e ideologiche che spinse Wittfogel ad allontanarsi sempre di più dal comunismo pur rimanendo fedele ad una visione materialista di tipo meccanicista che traeva ampia ispirazione dal marxismo. Senza entrare troppo nei dettagli di una complessa vicenda che è al contempo politica ed accademica, Wittfogel si trasferì negli Stati Uniti nel 1934 e dopo qualche anno, a partire dagli anni Quaranta, divenne un informatore della Federal Bureau of Investigation (FBI) – come testimoniano in maniera dettagliata gli archivi de-secretati esaminati in tempi recenti da David Price. In K.A. Wittfogel, Oriental Despotism. A Comparative Study of Total Power, Yale University Press, New Haven 1957. Wittfogel è noto principalmente per la sua teoria idraulica elaborata mettendo a confronto gli aspetti tecnologici, economici, ambientali e politici condivisi dalle cosiddette “società idrauliche” – solitamente società repressive o dispotiche – presenti in varie parti del mondo (vedi D.H. Price, Wittfogel’s neglected hydraulic/hydroagricultural distinction, in “Journal of Anthropological Research”, a. 50, n. 2, 1994, pp. 187-204). 47 D.H. Price, Materialism’s free pass: Karl Wittfogel, McCarthyism, and the “bureaucratization of guilt ”, in D.M. Wax (a cura di), Anthropology at the Dawn of the Cold War. The Influence of Foundations, McCarthyism and the CIA, Pluto Press, London 2008, p. 38. 48 Ibid. 49 Ivi, p. 39. 50 Ibid. 45
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quanto informatore dell’FBI, Wittfogel aveva il compito di segnalare al governo americano colleghi e studenti che, a suo modo di vedere, mostravano simpatie comuniste. In diversi casi, si è scoperto poi, queste segnalazioni erano motivate più da antipatie o rivalità accademiche personali che da un effettivo interesse o passione per il comunismo delle persone denunciate. Quando la collaborazione di Wittfogel divenne, in parte, nota al pubblico – un articolo di giornale rivelò, infatti, che egli aveva testimoniato contro alcuni colleghi di fronte ad un’audizione con il senatore Patrick McCarran nel 1950 – egli fu isolato dai principali circoli intellettuali accademici liberali. Tenuto alla larga da gran parte dei colleghi e abbandonato dagli studenti, si ritrovò così a lavorare interamente alla sua opera più famosa, pubblicata nel 1957. Questo isolamento non fu però totale. Julian Steward, per esempio, lo invitò a una sessione da lui coordinata all’incontro annuale dell’American Anthropological Association del 1953 e pubblicò il suo contributo in una collettanea del 195551 in cui, come evidenzia Price52, tutti citano Wittfogel, ma lui è l’unico a citare direttamente Marx53. Perché questa relativamente lunga escursione nella vicenda di Wittfogel? Perché essa aggiunge altri importanti tasselli per ricostruire il panorama accademico che fa da sfondo al rapporto tra antropologia e marxismo negli Stati Uniti mostrando, in particolare, come sia stato possibile “disarticola[re] l’analisi materialista dalla più tradizionale impresa politica marxista”54. Negli anni del maccartismo, il paradosso che si crea è che, per molti studiosi, l’unico modo di applicare analisi materialiste senza correre il rischio di essere accusati di essere comunisti, e pagarne le conseguenze in termini di carriera professionale, è di appoggiarsi ai lavori di Wittfogel il quale, per il suo ruolo di informatore dell’FBI, aveva ottenuto una sorta di “lasciapassare”55. A ben vedere, questo lasciapassare non fu però concesso ignorando del tutto il modo in cui egli faceva uso del marxismo. La tesi da lui difesa secondo la quale l’eliminazione della proprietà privata e la gestione da parte dello Stato di lavori pubblici conduceva gli stati a forme di potere dispotico o tirannico aveva chiaramente nel mirino gli stati comunisti. È quindi un errore pensare che le analisi di Wittfogel siano distinguibili dalla sua azione di collaborazione con il governo americano in chiave anticomunista. Come osserva ancora una volta Price56, se Wittfogel avesse veramente seguito Marx fino in fondo, e non si fosse invece prefissato di criticarlo e di combattere, con ogni sua energia intellettuale, il comunismo, probabilmente, sarebbe stato anche lui vittima del maccartismo. Curiosamente, Marvin Harris è stato tra coloro che hanno fatto notare come la vicenda di Wittfogel, e il suo modo di usare concetti marxisti, abbia danneggiato
J.H. Steward et al., Irrigation Civilizations: A Comparative Study, Pan American Union, Washington 1955. D.H. Price, Materialism’s free pass, cit., pp. 52-53. 53 Non era insolito, tra gli antropologi che lavorarono negli anni del maccartismo, rimuovere riferimenti alle opere di Marx poco prima di essere pubblicati (J. Vincent, Anthropology and Politics: Visions, Traditions, and Trends, University of Arizona Press, Tucson 1990, pp. 238-242, cit. in D.H. Price, Materialism’s free pass, p. 55). 54 D.H. Price, Materialism’s free pass, cit., p. 52. 55 Ibid. 56 Ivi, p. 55. 51
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la reputazione del materialismo tra gli antropologi americani57. Come abbiamo visto, tuttavia, una simile critica è stata avanzata a proposito delle stesse posizioni di Harris. In sintesi, si potrebbe dire che entrambi hanno contribuito, seppure in contesti e per ragioni molto diverse, a indebolire la diffusione e la discussione di approcci materialisti e marxisti nell’antropologia statunitense58. Tenuto conto di tutto ciò, si comprenderà meglio la portata innovativa del tentativo francese di elaborare un’antropologia marxista e la ragione per cui, agli occhi di tanti antropologi statunitensi attivi dalla metà degli anni Sessanta in poi, questo modo di fare antropologia diventerà un “oggetto di culto”59. 3. L’antropologia francese marxista Fino alla fine degli anni Trenta l’antropologia francese era stata fortemente influenzata dai lavori di Marcel Mauss che, come è noto, era nipote e allievo prediletto di Émile Durkheim, il quale era un convinto repubblicano conservatore che nel 1871 aveva accolto con favore la soppressione dell’esperienza della Comune di Parigi60. La Seconda guerra mondiale sferzò un duro colpo al sistema universitario francese e alla scuola nata intorno a Mauss. Alcuni studiosi dovettero fuggire dalla Francia e dall’Europa come, per esempio, Claude Lévi-Strauss – a cui fu tolta la cittadinanza francese in quanto di origini ebraiche. L’antropologo parigino trovò rifugio negli Stati Uniti, a New York, dove, in quegli anni, la presenza di altri studiosi in fuga dall’Europa aveva contribuito a formare una vivace comunità intellettuale. Durante il suo soggiorno newyorchese, furono principalmente due le figure che influenzarono il suo percorso teorico: il linguista Roman Jakobson, rifugiato anch’egli dall’Europa a causa della guerra, e l’antropologo Franz Boas, nato in Germania ed emigrato negli Stati Uniti nel 1887, considerato da tanti il “padre dell’antropologia nordamericana”. È in rapporto alle teorie di questi due studiosi che Lévi-Strauss elaborò una nuova teoria per l’antropologia: lo strutturalismo61. Finita la guerra, e tornato a Parigi nel 1948, Lévi-Strauss si incaricò di rifondare la disciplina dopo il disastro provocato dal conflitto mondiale. Fino agli anni Sessanta, lo strutturalismo incoraggiò un modo di fare antropologia che non era né marxista né antimarxista – per quanto Lévi-Strauss affermasse che la sua teoria M. Harris, The Rise of Anthropological Theory: A History of Theories of Culture, Crowell, New York 1968; tr. it. di P.G. Donini, M. Sofri, M. Callari Galli (a cura di), L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Il Mulino, Bologna 1971. 58 Per un’analisi critica del materialismo culturale e delle ragioni del disinteresse verso questa proposta teorica in Italia, vedi P. Vereni, L’evoluzione del pensiero di Marvin Harris. Note sul materialismo culturale, in “L’Uomo”, a. 6, n. 1-2, 1993, pp. 267-289. 59 C.M. Hann, K. Hart, Economic Anthropology: History, Ethnography, Critique, Polity, Cambridge 2011; trad. it. di E. Guzzon, Antropologia economica. Storia, etnografia, critica, Einaudi, Torino 2011; p. 91. 60 P. Neveling, L. Steur, Introduction: Marxian anthropology resurgent, in “Focaal – Journal of Global and Historical Anthropology”, n. 82, 2018, pp. 1-15. 61 C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962; tr. it. di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 2015; Id., Anthropologie structurale, Plon, Paris 1964; tr. it. di P. Caruso, Antropologia strutturale, Net, Milano 2002. 57
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era ispirata dal marxismo e compatibile con esso – con il risultato pratico che l’antropologia francese non cercò nel marxismo una effettiva sponda teorico-politica per diversi anni nonostante ci fossero studiosi ideologicamente e politicamente vicini ad esso62. Così, in questo periodo post-bellico, furono pochi gli antropologi francesi che potevano dirsi effettivamente marxisti o che usavano nei propri lavori idee apertamente ispirate al marxismo. I pochi tentavi fatti produssero analisi legate a visioni rigidamente ortodosse risultando conseguentemente poco convincenti, anzi, questi tentativi confermavano i (pre)giudizi di chi le considerava troppo riduzionistiche. L’antropologia di Lévi-Strauss si proponeva invece come una novità rispetto ai paradigmi fino ad allora dominanti, e offriva un tipo di analisi che mirava a prevenire ogni forma di riduzionismo, al contrario di quanto si poteva dire dello struttural-funzionalismo legato alla scuola britannica di Radcliffe-Brown. Sarà la mutata atmosfera degli anni Sessanta – nel contesto della guerra in Algeria e in Vietnam, dello sforzo di destalinizzazione dell’Unione Sovietica, dei processi oramai avviati e, per certi aspetti conclusi, di decolonizzazione delle potenze imperiali europee in Africa e Asia, nonché della rivoluzione culturale proletaria promossa da Mao Tse Tung in Cina – a creare le condizioni culturali affinché vari studiosi si appoggiassero in maniera sempre più aperta e convinta a concetti e teorie marxiste. C’è una questione teorica, in particolare, che esprime bene questa esigenza di confrontarsi con le teorie marxiste, incluse quelle promosse dall’ortodossia sovietica, ossia, la questione della teoria dei cinque stadi della storia63. La visione della storia che gli antropologi ricavavano dai loro studi sulle cosiddette società “tradizionali” non si adattava a questo schema rigido. Lo storico dell’Africa Jean Suret-Canale, esponente di spicco degli intellettuali comunisti francesi e fondatore, nel 1960, del Centre d’Études et de Recherches Marxistes (CERM), fece il tentativo di risolvere questa problematicità rispolverando il concetto di modo di produzione asiatico proposto da Marx intorno al 185064. Marx aveva elaborato questo concetto quando si era interessato, in particolare, all’India e ad altri paesi del continente asiatico, tra cui la Cina, sentendo la necessità di includere questa enorme porzione di mondo nello schema di sviluppo del materialismo storico. Tuttavia, nei suoi lavori successivi, congiuntamente a Engels, Marx favorì un modello di sviluppo pensato a partire dall’esperienza storica dell’Europa occidentale. Tra il 1929 e il 1931 il concetto di modo di produzione asiatico fu al centro di un acceso dibatti-
M. Bloch, op. cit., p. 146-7. Secondo questa teoria, promossa da Stalin in un saggio pubblicato alla fine degli anni Trenta, la storia umana avrebbe dovuto seguire uno schema di sviluppo lineare attraverso cinque stadi: comunismo primitivo, società schiavistica, feudalesimo, capitalismo e socialismo (I. Stalin, Materialismo dialettico e materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1950). In questo schema non c’era spazio per altri modi di produzione come, ad esempio, quello asiatico, sebbene Marx e Engels lo discussero. Per porre rimedio a questo limite, alcuni pensatori marxisti suggerirono varie soluzioni, tra cui quella di considerare il modo di produzione asiatico come una variante dello stadio schiavistico (J.A. Fogel, The debates over the Asiatic mode of production in soviet Russia, China, and Japan, in “The American Historical Review”, a. 93, n. 1, pp. 56-79. 64 J. Suret-Canale, Les sociétés traditionnelles en Afrique tropicale et le concept de mode de production asiatique, in “La Pensée”, n. 117, 1964, pp. 21-42. 62 63
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to che si concluse con la Conferenza di Leningrado del 1931 durante la quale fu rigettato dai suoi partecipanti65. Per Suret-Canale, il concetto di modo di produzione asiatico doveva essere invece ripreso e riadattato alle condizioni esaminate dagli storici e antropologi francesi in Africa evitando così le secche del modello eurocentrico imposto dall’establishment sovietico66. In questo modo, si aprì la strada per l’elaborazione del concetto di modo di produzione africano e, cosa ancor più importante, passò l’idea che “non si trattava più di confermare le conclusioni dei classici marxisti, ma di continuare i loro lavori alla luce di nuove evidenze”67. L’antropologia, con la sua metodologia basata sulla ricerca di campo, poteva produrre queste nuove evidenze e rigenerare continuamente l’analisi materialista. Del resto, Marx ed Engels si erano appoggiati proprio ai lavori di un antropologo le cui teorie, tuttavia, erano oramai desuete. Così, come si è già fatto cenno, Suret-Canale ebbe un ruolo fondamentale nell’avviare, negli anni Sessanta, il dibattito francese sul modo di produzione asiatico mostrando come l’antropologia contemporanea potesse offrire riflessioni utili per andare al di là di Marx68. La nascente antropologia marxista non poteva però fare a meno di confrontarsi anche con lo strutturalismo di Lévi-Strauss per aspirare a una qualche forma di riconoscimento accademico. Vari studiosi hanno contribuito ad unificare marxismo e strutturalismo ma, fra questi, ebbe senz’altro un ruolo centrale, soprattutto tra gli antropologi, Maurice Godelier, il quale fu tra coloro che raccolsero la sfida lanciata da Suret-Canale di rinnovare le analisi di Marx e Engels sulle società precapitalistiche. A tal riguardo, Godelier elaborò un contributo teorico già nella prima metà degli anni Sessanta con un articolo pubblicato dal neonato CERM69. Il passo fondamentale compiuto in questa direzione fu congedare, innanzitutto, la teoria dei cinque stadi70. Come vedremo a breve, questo passaggio aprì il dibattito sviluppato dalla corrente più althusseriana dell’antropologia marxista francese sui modi (da sottolineare il plurale) di produzione in una ottica che rifiuta ogni linearità di sviluppo storico di stampo eurocentrico. Lo sforzo congiunto della generazione di antropologi francesi di quegli anni fu quindi improntato a superare questa visione della storia usando il concetto di modi di produzione non come una griglia entro la quale classificare le diverse società, ma come uno strumento teorico a tutti gli effetti, definito in maniera rigorosa e applicabile a realtà concrete71. Ciò implicava un diverso approccio e una parziale riconcettualizzazione del marxismo. La 65 K. Currie, The Asiatic mode of production: Problems of conceptualising State and economy, in “Dialectical Anthropology”, a. 8, n. 4, 1984, pp. 251-268. 66 J. Suret-Canale, Essais d’histoire africaine. De la traite des Noirs au néocolonialisme, Editions Sociales, Paris 1980. 67 M. Bloch, op. cit., p. 149. 68 L’idea che occorra andare “al di là di Marx” attraverserà per decenni varie discipline, in particolare, la storia, l’antropologia e la filosofia (es. J-L. Amselle, Beyond Marxist anthropology, cit.; T. Negri, Marx oltre Marx, manifestolibri, Roma 2003; M. Van der Linden, K.H. Roth (a cura di), Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the Twenty-First Century, Brill, Leiden-Boston 2014). Tale espressione, e i corrispondenti sforzi, meriterebbero un approfondimento che chiarisca fino a che punto si possa andare al di là di Marx con Marx. 69 M. Godelier, La notion de “mode production asiatique” et les schémas marxistes d’évolution des sociétés, Editions sociales, Paris 1963. Vedi anche M. Bloch, op. cit., p. 150. 70 es. M. Godelier, Système, structure et contradiction dans “le Capital”, cit. 71 M. Bloch, op. cit., p. 151.
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rilettura di Marx fatta da Louis Althusser a partire dalla metà degli anni Sessanta offriva, in tal senso, un più che valido sostegno teorico72. Con la pubblicazione di Lire le Capital (1965) e di altri lavori concomitanti, primo fra tutti Pour Marx (1965), il filosofo francese diventò infatti un riferimento per quanti intendevano smarcarsi dallo strutturalismo lévi-straussiano senza rinunciare al concetto fondamentale di struttura73. Il contributo filosofico di Althusser consentiva inoltre di definire meglio il concetto di modo di produzione mettendo sul tavolo della riflessione un altro concetto ad esso correlato, ossia quello di articolazione, su cui vale la pena qui soffermarsi brevemente. L’invenzione del concetto di articolazione viene spesso attribuita a Louis Althusser, che lo adotta nell’opera scritta insieme ai suoi allievi dell’École Normale Supérieure di Parigi, Lire le Capital 74. In questa opera collettiva, i contributi specifici di Louis Althusser ed Étienne Balibar spiccano in quanto impiegano questo concetto al fine di indicare una particolare forma di collegamento tra livelli diversi, una forma che non produce necessariamente una unità integrata e omogenea. Secondo Aidan Foster-Carter, è stato però Pierre-Philippe Rey a raffinare il concetto di articolazione nel dibattito storico-antropologico che diventerà noto come “controversia sui modi di produzione”. Questa controversia nacque negli anni Settanta dal tentativo di proporre una teoria marxista alternativa alla teoria della dipendenza di Gunder Frank. Secondo il principale rappresentante della scuola latino-americana della teoria della dipendenza, il responsabile primario del “sottosviluppo” dei cosiddetti “Paesi del Terzo Mondo” – per usare la terminologia allora in voga – è il capitalismo75. La sua divisione del mondo in “metropoli” e “satelliti”, e la sua concezione del capitalismo come entità omogenea e ubiqua, appaiono però agli occhi di tanti studiosi marxisti, e in particolare agli allievi di Althusser, troppo semplicistiche. Per questi ultimi, la relazione tra il modo di produzione capitalistico e gli altri modi di produzione non può essere pensata né in termini di semplice successione o transizione né in termini di dissoluzione o di trascendenza dialettica76. In questa ottica, il concetto di articolazione ha la funzione primaria di ripensare la relazione tra capitalismo e modi di produzione non-capitalistici a partire dall’assunto empirico secondo cui in ciascuna formazione sociale coesistono diversi modi di produzione. Rey considera il concetto di articolazione come un processo storico, e dunque temporale, che si sviluppa a stadi, ma che non si completa mai. Infatti, il capitalismo non può mai eliminare del tutto i modi di produzione non-capitalisti77. Non lo può fare perché ne va della sua stesPer una efficace sintesi del pensiero di L. Althusser, e della sua influenza sui suoi principali allievi e, in particolare, su E. Balibar, vedi V. Morfino, Introduzione, cit., così come L. Pinzolo, Il materialismo aleatorio. Una filosofia per Louis Althusser, Mimesis, Milano 2012; S. Pippa, Althusser and contingency, Mimesis International, Milano 2019. 73 L. Althusser, Pour Marx, Maspero, Paris 1965; tr. it. a cura di M. Turchetto, Per Marx, Mimesis, Milano 2015; L. Althusser et. al., Lire le Capital, Maspero, Paris 1965; tr. it. a cura di M. Turchetto Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006. 74 A. Foster-Carter, The modes of production controversy, in “New Left Review”, n. 107, 1978, a pp. 52-3. 75 A. Gunder Frank, Development and underdevelopment in the new world: Smith and Marx vs. the Weberians, in “Theory and Society”, a. 2, n. 1, 1975, pp. 431-466. 76 A. Foster-Carter, The modes of production controversy, cit. p. 51. 77 Ivi, p. 59. 72
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sa esistenza come forma di appropriazione di lavoro non retribuito. Per cui, viene abbandonata anche l’idea che esista un numero definito di modi di produzione78. Che il capitalismo abbia bisogno dei modi di produzione non capitalistici per il suo stesso funzionamento era stato già messo in luce da Rosa Luxemburg79, ma il lavoro di Claude Meillassoux, e in particolare Donne, granai e capitali, ha il merito di fare emergere questo aspetto in tutta la sua evidenza etnografica: dalle regioni aride e semiaride dell’Africa occidentale ai sobborghi parigini dove vivono gli ex contadini proletarizzati, i modi di produzione non-capitalistici, di fatto, sostengono le comunità risolvendo una questione cruciale di cui il capitalismo non si fa carico, ossia, garantire la riproduzione e la sicurezza sociale. Meillassoux ha anche un altro merito all’interno di questo dibattito: introduce, già in L’Anthropologie économique des Gouro de Côte d’Ivoire (1964), la nozione di “modo di produzione lignatico” o segmentario80. Secondo Meillassoux, tra i Gouro il modo di produzione lignatico mette in gioco le alleanze tra gruppi famigliari, a loro volta, controllati in maniera collettiva dagli anziani. La peculiarità di questo modo di produzione è che gli anziani utilizzano la parentela sia come strumento di controllo ideologico con il quale confermare le strutture di potere esistenti sia come mezzo di organizzazione del lavoro dei giovani. In questo sistema di organizzazione sociale i matrimoni diventano invece modi per stabilire o rafforzare rapporti e alleanze tra gruppi distinti. Il lavoro di Meillassoux fu ripreso dall’amico Emmanuel Terray – tra gli antropologi qui menzionati, uno dei più fedeli interpreti di Althusser insieme a Pierre-Philippe Rey – in Le marxisme devant les sociétés “primitives” (1969)81. Questo testo, tradotto anche in inglese, si compone di due lunghi saggi che contribuiranno a far conoscere e a diffondere i risultati dell’antropologia francese in ambito anglosassone, soprattutto, il lavoro di Meillassoux. Il primo saggio è una rilettura dell’opera principale di Morgan, Ancient Society, che mira a fare i conti una volta per tutte con gli approcci marxisti evoluzionistici mostrando le differenze, ma anche le convergenze, tra marxismo, strutturalismo ed evoluzionismo. Il secondo saggio, invece, riesamina appunto il lavoro condotto da Meillassoux tra i Guro in Costa d’Avorio – paese africano che lo stesso Terray conosce molto bene in quanto anch’egli vi ha condotto la sua ricerca di campo, ma tra i Dida82. Meillassoux aveva impiegato il concetto di modo di produzione, ma non lo aveva elaborato a fondo. Terray rilegge il testo di Meillassoux attraverso lenti althusseriane – la pubblicazione di Leggere il capitale, vale la pena ricordarlo, è di un anno successivo alla pubblicazione sui Gouro e Meillassoux ha sempre affermato di essersi avvicinato a Marx M. Bloch, op. cit., p. 150. R. Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals. Ein Beitrag zur ökonomischen Erklärung des Imperialismus, Vereinigung internationaler Verlagsanstalten, Berlin 1923; tr. it. di B. Maffi, prefazione di M. Turchetto, L’accumulazione del capitale, PGreco, Milano 2021. 80 Il concetto di modo di produzione lignatico è stato ripreso anche da Godelier, Terray e Wolf. 81 E. Terray, Le marxisme devant les sociétés “primitives”, Maspero, Paris 1969; tr. it. di C. Damiani, Il marxismo e le societá primitive, Savelli, Roma 1975. 82 E. Terray, L’organisation sociale des Dida de Côte d’Ivoire. Essai sur un village dida de la région de Lakota, Université d’Abidjan, Abidjan 1969. 78 79
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in maniera autonoma a partire dal suo impegno politico negli anni Cinquanta – e mostra come un uso più rigoroso dei concetti di modo di produzione e di formazione sociale riveli la presenza, nella società Gouro, di due diversi modi di produzione che si articolano: il modo di produzione legato al sistema tribale del villaggio, a sua volta associato all’attività della caccia, e il modo di produzione dominante legato al sistema di lignaggio e alle attività agricole, che è poi quello su cui si concentra l’attenzione di Meillassoux. In breve, la critica fondamentale rivolta da Terray al lavoro del collega e amico antropologo è che le società tradizionali non possono essere comprese nei termini di un unico modo di produzione, né i modi di produzione possono essere intesi sottolineando quasi esclusivamente gli aspetti tecnologici che li costituiscono, come tende a fare Meillassoux. Terray, da parte sua, evidenzia l’importanza di dover spiegare le variazioni e le trasformazioni sociali e il poterlo fare proprio attraverso il concetto di modi di produzione, i quali, articolandosi in maniere distinte a seconda dei diversi contesti, producono specifiche formazioni sociali capaci di attivare specifici cambiamenti. Le riflessioni di Terray sulla società Gouro sono state a loro volta oggetto di critiche da parte di un altro antropologo africanista althusseriano, vale a dire, il già menzionato Pierre-Philippe Rey. Quest’ultimo osserva che il modo in cui Terray usa il concetto di modi di produzione è problematico in quanto tende a presentarlo in termini statici, ossia, in un modo che non riflette la dinamicità che traspare invece dai testi di Marx. Secondo Rey, infatti, Terray usa il concetto di articolazione per descrivere il semplice accostamento o la mera coesistenza di diversi modi di produzione. Ma il concetto di articolazione rimanda a una realtà processuale che non integra le parti a un intero definito e delimitato, bensì conserva, almeno in parte, le tensioni e le contraddizioni di ciascuna realtà articolata. Per Rey, dunque, la contraddizione è – come per Marx nella Prefazione a Il capitale – il motore delle trasformazioni sociali o del cambiamento. Dal canto suo, Rey applica questa prospettiva nei suoi lavori dedicati ai modi di produzione della società congolese da lui descritta, per esempio, in Colonialisme, néo-colonialisme et transition au capitalisme (1971)83. 4. Donne, granai, capitali Le critiche e le riflessioni di Rey nel solco della riflessione segnata da Althusser hanno influenzato tanto i lavori successivi di Terray84 quanto quelli di Meillassoux, a cominciare da Donne, granai e capitali. L’attenzione di questa opera non è più su una circoscritta comunità africana, come nel suo primo importante studio sui Gouro. Ora, lo sguardo si allarga ai rapporti tra economie capitaliste mondiali centrali, da un lato, ed economie domestiche dei paesi del “Terzo Mondo” dall’al83 P-P. Rey, Colonialisme, néo-colonialisme et transition au capitalisme. Exemple de la “Comilog” au Congo-Brazzaville, Maspero, Paris 1971; vedi anche Id., Contradiction de classe dans les sociétés lignageèes, in “Dialectiques”, n. 21, 1977, pp. 116-133. 84 Cfr. ad es. E. Terray, Event, structure and history: The formation of the Abron Kingdom of Gyaman (1700-1780), in J. Friedman, M.J. Rowlands (a cura di), The Evolution of Social Systems, Duckworth London 1977, pp. 279-301; E. Terray, De l’exploitation: Éléments d’un bilan autocritique, in “Dialectiques”, 21, 1977, pp. 134-143.
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tro. Le due parti di cui si compone il testo riflettono questa ambiziosa estensione che non è solo geografica ma anche storica: dall’Africa precoloniale, coloniale e postcoloniale all’Europa contemporanea. In particolare, la prima parte si concentra sul riesame delle comunità domestiche attraverso un confronto teorico, in particolare, con Marshall Sahlins e con quello che in quegli anni era considerato il suo lavoro più importante: Stone Age Economics (1972) – un libro oramai diventato un classico dell’antropologia economica85. Marshall Sahlins – allievo, tra gli altri, di Leslie White, e profondamente influenzato dallo strutturalismo di Lévi-Strauss – si appoggia alle tesi dell’economista russo A.V. Čajanov86. Per quest’ultimo, nelle economie contadine – che per Sahlins sono un modo domestico di produzione – vige il principio secondo cui gli individui tendono a lavorare, e quindi a produrre, quel tanto che è necessario alla propria sussistenza. In un contesto in cui i bisogni e i desideri sono limitati, come quello delle società primitive e contadine, ciò si traduce in una economia dell’abbondanza in cui l’ozio occupa gran parte di una giornata tipo, molto più di quanto accada in una società basata sull’accumulo e sul soddisfacimento di bisogni e desideri illimitati come quella capitalista. Per Meillassoux, la questione si pone in termini diversi, per certi aspetti, opposti. Infatti, per Sahlins la comunità domestica è il regno dell’improduttività, per Meillassoux quello della produzione e riproduzione continua dei produttori87. Ciò che non risulta convincente della proposta di Sahlins – dal punto di vista di Meillassoux – è che essa si pone su un piano di astrattezza dal quale non è possibile capire a quale specifico contesto storico egli si riferisca quando prende in considerazione le “società primitive”. Analogamente, per Meillassoux è scorretto trattare uniformemente i cacciatori-raccoglitori e le comunità domestiche agricole senza considerare le loro differenze. Conseguentemente, non risulta nemmeno chiaro come l’economia domestica contribuisca alla riproduzione della forza lavoro necessaria al funzionamento dei modi di produzione di volta in volta dominanti88. Per di più, Sahlins non spiega cosa tenga insieme le comunità basate su un’economia domestica. Non è chiaro, infatti, come possa emergere da quest’ultima una economia che richiede, invece, una intensificazione della produzione – al di là dei bisogni limitati e contingenti degli individui –, così come non è chiaro come nasca l’esigenza di creare alleanze sociali, come quelle espresse attraverso i legami matrimoniali tra gruppi domestici differenti, regolate solitamente dai maschi anziani. La seconda parte di Donne, granai e capitali mostra come le comunità domestiche vengano sfruttate su scala internazionale seguendo logiche imperialiste che non distruggono necessariamente i modi di produzione non capitalistici, ma li conservano per sfruttarli quanto più possibile. Le economie domestiche non sono infatti più viste nei loro rapporti interni o locali, ma in relazione al contributo che offrono all’economia capitalista nel suo insieme, per esempio, attraverso quei lavoratori M. Sahlins, Stone Age Economics, Tavistock, London 1972; tr. it. di L. Trevisan, a cura di R. Marchionatti, L’economia dell’età della pietra, eléuthera, Milano 2020. A.V. Čajanov, The Theory of Peasant Economy, Richard D. Irwin, Homewood 1966. 87 U. Fabietti, Between two myths: Underproductivity and development of the Bedouin domestic group, in “Cahiers de Sciences Humaines”, a. 26, n. 1-2, 1990, a p. 238. 88 Ivi, pp. 238-9. 85
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migranti che forniscono manodopera a basso costo nei paesi più industrializzati e ricevono cura nei paesi d’origine. Ciò che tiene insieme queste economie sono proprio le comunità domestiche che, per Meillassoux, non sono retaggi del passato o parti, per così dire, esterne al capitalismo, ma rappresentano il tratto comune a diverse forme di sfruttamento economico, tanto nei villaggi rurali africani controllati dagli anziani maschi quanto nelle metropoli europee in cui dominano le imprese capitaliste. Assume particolare rilevanza qui il ruolo (extra)economico giocato dalle donne – che le precedenti analisi antropologiche marxiste, viziate da varie forme di androcentrismo, tendevano a ignorare o sottostimare e che Meillassoux, invece, mette in rilievo. In questo modo egli, in parte, accompagna e, in parte, anticipa analisi femministe materialiste dedicate al tema della cura e della riproduzione sociale. Conseguentemente, il concetto stesso di lavoro viene esteso anche a quelle attività che, non essendo retribuite, vengono spesso escluse dalla sua definizione come, per esempio, i lavori di cura o di accudimento89. L’attenzione di Meillassoux per le forme dello sfruttamento economico e per le ideologie discriminatorie che le legittimano – in particolare, il razzismo – riflette l’esigenza di mostrare la rilevanza dell’antropologia per la comprensione del mondo contemporaneo. Sullo sfondo di questa esigenza si staglia però anche una preoccupazione, ossia, che la distruzione delle forze produttive causata dal capitalismo non crei solo le condizioni per la crisi finale del capitalismo stesso – che tanti auspicano e vedono come una forma di liberazione –, ma anche per il sorgere di uno stato di barbarie che può essere evitato solo se i proletari di tutto il mondo riescono ad organizzarsi per affermare un’alternativa socialista. È tenendo conto di tutto ciò che si comprende meglio quanto intende dire l’antropologo francese nella sua prefazione all’edizione inglese di Donne, granai e capitali (infelicemente tradotto in Maidens, Meal and Money) laddove scrive: “la disciplina dovrebbe smettere di essere un pretesto per fantasie esotiche e diventare uno strumento di libertà”90. 5. Conclusioni Seguendo Layton91, si potrebbe affermare in conclusione che il contributo critico dell’antropologia marxista è stato, quantomeno, triplice: 1) spingere l’analisi antropologica al di là dei confini delle comunità ristrette con cui solitamente interagiscono gli antropologi durante le loro ricerche di campo e stabilire connessioni spazio-temporali più ampie rispetto a quelle incoraggiate da gran parte della generazione che si è formata leggendo i testi di Malinowski o Boas, e dei loro allievi92 – perché non esistono né società isolate né popoli fuori dalla storia; 2) mettere in rilievo la strutturale debolezza delle posizioni funzionaliste dal momento che queste ultime tendono a porre tutti gli elementi di un sistema 89 D. Tocheva, Domestic mode of production, in H. Callan (a cura di), The international encyclopaedia of anthropology, Wiley & Sons, Oxford 2018, https://doi.org/10.1002/9781118924396.wbiea1803. 90 C. Meillassoux, Preface to the English translation, cit., p. x. 91 R. Layton, op. cit. 92 C. Hann, K. Hart, op. cit., tr. it. p. 18.
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sullo stesso piano e, così facendo, allentano la presa teorico-politica sulle questioni che stanno invece a cuore all’antropologia marxista, in particolare, quelle relative a gerarchie e potere; 3) rovesciare o, quantomeno, problematizzare l’assunto strutturalista per cui la vita sociale è interamente guidata dalle strutture di pensiero, e non dalle condizioni pratiche e materiali della stessa, come suggerisce lo strutturalismo di Lévi-Strauss. In questo contesto, come osservano Neveling e Steur, Donne, granai e capitali spicca nella letteratura antropologica marxista per la capacità di unire l’analisi dei temi classici dell’antropologia (es. parentela, miti, ed economie domestiche) con l’analisi del capitalismo su larga scala, quello che opera nelle fabbriche o nelle multinazionali sfruttando la divisione internazionale del lavoro ed incide sulla vita delle comunità rurali solo apparentemente separate da esso93. Ed è forse proprio per questa capacità di unificare l’analisi di situazioni e contesti diversi che il libro di Meillassoux continua ad essere una fonte di ispirazione sia per gli antropologi che per gli storici94, una fonte su cui e con cui ragionare intorno alle eterogenee e sempre mutevoli forme attraverso le quali il capitalismo sfrutta le classi sociali subalterne e, su questo sfruttamento, costituisce la propria contingente esistenza95. Ci auguriamo che la ripubblicazione di questo libro possa contribuire a riaccendere una discussione critica su questi temi, oggi più che mai necessaria. Ringraziamenti Desidero ringraziare Michele Parodi, Vittorio Morfino, Gianluca Pozzoni, Carlo Capello e Pino Schirripa per aver letto e commentato versioni precedenti di questa introduzione; il gruppo MIR per la oramai pluriennale condivisione di esperienze, idee e passioni. Ovviamente, sono il solo responsabile di tutti gli eventuali errori, dimenticanze o imprecisioni di questo testo. Opere citate di C. Meillassoux C. Meillassoux, Essai d’interpretation du phénomene économique dans les sociétés traditionnelles d’autosubsistance, in “Cahiers d’Etudes Africaines”, a. 1, n. 4, 1960, pp. 38-67. P. Neveling, L. Steur, Introduction, cit., p. 8. es. J.-L. Paul, Au-delà de “Femmes, Greniers et Capitaux”: Faire fructifier l’héritage de Claude Meillassoux, in “Journal des Anthropologues”, n. 114-115, 2008, pp. 223-245; Id., Les structures alimentaires de la parenté de Meillassoux, in “Journal des Anthropologues”, n. 118-119, 2014, pp. 113-130; F. Viti, Travail et apprentissage en Afrique de l’Ouest: Senegal, Cóte d’Ivoire, Togo, Karthala, Paris 2013; H. Weiss, Reclaiming Meillassoux for the age of financialization, in “Focaal – Journal of Global and Historical Anthropology”, n. 82, 2018, pp. 109-117. 95 Tra le iniziative più recenti dedicate alla rivalutazione dell’opera di Meillassoux vale la pena menzionare la conferenza tenuta da Glauco Sanga nel 2018 e dedicata in modo particolare alla comprensione del fenomeno delle migrazioni da parte dell’antropologo francese. In questa conferenza Glauco, Sanga ha messo in luce la profeticità di alcune intuizioni di Meillassoux degli anni Settanta, incluse quelle contenute in Donne, granai e capitali (C. Sanga, A cosa serve l’antropologia. Il contributo di Claude Meillassoux alla comprensione del fenomeno delle migrazioni, Dipartimento di Studi Umanistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Venezia, 23/04/2018). 93 94
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C. Meillassoux, L’Anthropologie économique des Gouro de Côte d’Ivoire, Mouton, Paris 1964. C. Meillassoux, The social structure of modern Bamako, in “Africa. Journal of the International African Institute”, a. 35, n. 2, 1965, pp. 125-142. C. Meillassoux, Urbanization of an African Community: Voluntary Associations in Bamako, University of Washington Press, Seattle 1968. C. Meillassoux, (a cura di), L’évolution du commerce africain depuis le XIXème siècle en Afrique de l’Ouest, Oxford University Press, London 1971 [tr. ing.: The Development of Indigenous Trade and Markets in West Africa: Studies Presented and Discussed at the Tenth International African Seminar at Fourah Bay Collège Freetown, December 1969]. C. Meillassoux, Development or exploitation: Is the Sahel famine good business?, in “Review of African Political Economy”, n. 1, 1974, pp. 27-33. C. Meillassoux, (a cura di) L’esclavage en Afrique précoloniale, Maspero, Paris 1975. C. Meillassoux, Femmes, greniers et capitaux, Maspero, Paris 1975. C. Meillassoux, Lexique soninké (sarakolé)-français, Centre de linguistique appliquée, Dakar 1975. C. Meillassoux, Sur deux critiques de “Femmes, greniers et capitaux” ou “Fahrenheit 450,5” in “L’Homme”, a. 17, n. 1, 1976, pp. 123-128. C. Meillassoux, Preface to the English translation, in C. Meillassoux, Maidens, meal and money. Capitalism and the domestic community, Cambridge University Press, Cambridge 1981, pp. vii-x.
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Donne, granai e capitali costituisce il risultato di una lunga riflessione che ebbe inizio nel 1958, anno in cui Claude Meillassoux esordì come etnologo tra i Guro della Costa d'Avorio. Da allora questa riflessione è venuta articolandosi in relazione al problema di studiare i modi di produzione caratteristici delle formazioni sociali africane anteriori alla colonizzazione. Donne, granai e capitali rappresenta anche uno dei tentativi più efficaci fino ad ora intrapresi di situare storicamente i modi di produzione che hanno preceduto la comparsa del capitalismo a partire dall'impiego di nozioni e concetti specifici, pertinenti cioè a ciascuno dei modi di produzione presi in esame, e resta a tutt'oggi il primo lavoro di un antropologo inteso a cogliere la funzione essenziale svolta da uno di questi modi di produzione - quello domestico - nel processo riproduttivo del capitalismo stesso. Da questo punto di vista Donne, granai e capitali è anche un libro militante, nel senso che amplia la nostra conoscenza delle basi strutturali del sistema capitalista fornendo una serie di elementi teorici che rendono più efficace la comprensione delle contraddizioni di cui questo sistema è portatore. Situato all'interno del campo teorico marxista, il libro di Meillassoux rompe in maniera definitiva tanto con la tradizione proto-marxista rappresentata dai vari tentativi di situare i modi storici di produzione sulla base di schemi precostituiti desunti dalle Formen o dalle poche osservazioni di Marx sul « modo di produzione asiatico », 1 quanto con la tradizione dell'antropologia economica classica rappresentata dai lavori delle cosiddette scuole « formalista » e « sostantivista ». 2 Due rotture che hanno al fondo motivazioni ideologiche e scientifiche senz'altro dif-
I. Si vedano a questo proposito i lavori del C.E.R.M., Sur le mode de productio11 asialÙJue e l:tudcs sur /es sociétés dc pasteurs nomades, Paris, 1970 e 197-l rispettivamente. 2. Sulla differenza tra queste ultime e lo spazio teorico dell'antropologia marxista è utile consultare il libro di S. Borutti, Analisi marxista e antropologia eco11omica, De Donato, Bari, 1973 e l'introduzione di P. Palmeri a Meillassoux, L'economia della savana, Feltrinclli, Milano, I 975.
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ferenti ma che comunque avvengono all'insegna di un tentativo di elaborazione di concetti specifici intesi a cogliere la logica altrettanto specifica di funzionamento delle altre formazioni sociali. È utile precisare che questo duplice distacco si situa all'interno di un progetto di ridefinizione dell'antropologia marxista su basi non economicistiche, venendo così a dissipare tra l'altro un malentendu che vedrebbe assimilata l'antropologia marxista all'antropologia economica. Donne, granai e capitali è invece la dimostrazione del fatto che le due nozioni di antropologia marxista e di antropologia economica, lungi dal ritagliarsi a vicenda, occupano spazì ideologicamente e teoricamente differenziali, anche se talvolta compatibili. Questa compatibilità può essere ottenuta solo qualora l'antropologia che si proclama marxista miri alla elaborazione, secondo il progetto del Capitale di Marx, di una teoria della pratica economica e sociale che corrisponda effettivamente a una comprensione della logica che regola il processo di riproduzione delle formazioni sociali storiche o contemporanee, ma in ogni caso eccentriche rispetto a quelle capitaliste. In questo senso viene ad essere scartata la possibilità che l'antropologia marxista prenda ad oggetto l'economico in sé, il cui studio, per essere corretto, deve avvenire secondo modalità procedurali che non lo isolino dal contesto delle altre istanze che compongono la totalità di un sociale strutturato. Lo stesso Polanyi aveva del resto perfettamente compreso la natura differenziale dello spazio occupato dall'economico all'interno delle società « senza mercato », ma si era arrestato a questa considerazione separando poi arbitrariamente l'economico dal sociale nel caso del sistema capitalistico. 3 Ora, è chiaro che l'antropologia marxista non si situa in modo originale in rapporto all'antropologia economica liberale per il solo fatto di riconoscere l'indissociabilità dell'economico dal sociale anche all'interno del modo capitalistico di produzione; e neppure per il fatto di ammettere, come Polanyi ammise in polemica coi sostenitori delle teorie dell'homo economicus, che nelle società « senza mercato » l'economico sussiste « incastrato » nel sociale. A differenza dell'antropologia economica in generale, quella marxista parte dall'analisi del processo produttivo come luogo privilegiato di costituzione dei rapporti di produzione e di riproduzione delle formazioni sociali. Le domande che essa si pone sono: chi lavora e per chi lavora? chi è il destinatario del prodotto di quel lavoro? chi controlla le modalità di circolazione di questo prodotto?
3. Polanyi, Arensberg e Pearson, Trade and Market in the Early Empires, The Free Press, Glencoe, Ili. 1957
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quali sono i mezzi attraverso i quali questo controllo si realizza affinché il sistema sociale possa riprodursi? ecc. È mediante la presa in considerazione dei meccanismi che regolano la formazione dei rapporti osservabili a partire dal processo produttivo dunque ( e non solo dal processo di circolazione dei beni prodotti come fa invece l'antropologia economica liberale), che l'antropologia marxista perviene ad elaborare un sapere originale delle altre formazioni sociali. Quando Meillassoux pubblicò nel 1960 il suo celebre Saggio d'interpretazione del fenomeno economico nelle società tradizionali di autosussistenza,4 egli partì proprio dalla considerazione dell'esistenza di questi rapporti di produzione che la precedente tradizione dell'antropologia economica aveva fino a quel momento ignorato. All'interno delle cosiddette società segmentarie e successorie agricole africane, società costituite da comunità omologhe in rapporto tra loro, strutturate sulla base del principio di lignaggio e dell'anzianità, e dove il potere politico di tipo centralizzato è assente, i rapporti di produzione, che secondo la tradizione antropologica classica (lungo la linea Malinowski-Mauss-Polanyi) trovavano la loro spiegazione a livello istituzionale come rapporti di prestazione-ridistribuzione e che quindi venivano situati a livello della circolazione, erano ora esplorati da Meillassoux con l'intenzione esplicita di ricercare quali fossero le condizioni strutturali che ne determinano la funzione e la riproduzione. Meillassoux, che doveva pervenire per questa via alla elaborazione di modelli teorici specifici relativi a due forme radicalmente differenti di sfruttamento della terra, tipiche dei cacciatori-raccoglitori e degli agricoltori cerealicoli rispettivamente, individuava nel rapporto con la terra come mezzo di lavoro la peculiarità delle comunità domestiche che costituiscono la struttura di base delle società segmentarie africane. Sono le particolari modalità in cui accade la produzione a far sì che i rapporti di produzione, quelli che apparivano come rapporti di prestazione-ridistribuzione del prodotto tra giovani e anziani, si strutturino secondo un principio di prestito-restituzione del prodotto agricolo in modo tale da giustificare la costituzione di rapporti sociali basati sul principio del]' anzianità. Qui Meillassoux era nella condizione di introdurre un elemento di novità rispetto alle teorie classiche della struttura e dei rapporti sociali. Una volta definita la natura dei rapporti di produzione che vengono a costituirsi sulla base di un meccanismo di investimento ciclico della forza-lavoro neila terra, la quale per questo motivo è mezzo di lavoro e
4. In Meillassoux, op. cit., pp. 31-62.
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non più semplice oggetto di lavoro come nel caso dei cacciatori-raccoglitori, la ricerca si apriva verso l'analisi dei rapporti di riproduzione che vigono all'interno della comunità domestica, e ciò in conseguenza della duplice funzione che i rapporti di produzione vengono ad assolvere all'interno di questo tipo di comunità. Da un lato infatti i rapporti di produzione costituiscono il quadro entro il quale si rende possibile riprodurre in continuazione, e secondo le stesse modalità, il ciclo del processo produttivo; dall'altro, questi rapporti di produzione, strutturati sul principio dell'anzianità, appaiono dominanti a livello ideologicosociale in quanto rapporti di parentela, e ciò per il fatto che la parentela è l'elemento che viene a svolgere una funzione strutturante in seno al processo produttivo e che assicura allo stesso tempo l'equilibrio interno della cellula produttiva. Le forme di cooperazione e le modalità di circolazione del prodotto accadono infatti entro un quadro istituzionale espresso nel linguaggio della parentela, e la ripartizione degli individui tra le cellule produttive, come pure l'appartenenza giuridica ad esse, si definisce esclusivamente sulla base dell'ideologia della parentela. Il concetto di riproduzione viene qui a designare non solo l'insieme delle condizioni materiali e ideologiche che consentono a queste comunità di riprodurre secondo le stesse modalità il processo produttivo e i rapporti di dominio nei quali esso si inscrive, ma altresì quella che appare la condizione fondamentale della riproduzione sociale stessa: la riproduzione degli individui all'interno delle cellule produttive, quindi la riproduzione dei produttori. È a partire da queste premesse che Meillassoux sviluppa tanto la critica alle teorie classiche della parentela quanto l'analisi del modo di produzione domestico. Nella prospettiva di Meillassoux la proibizione dell'incesto assume un significato completamente diverso da quello che essa riveste nell'antropologia classica e strutturale in modo particolare. Una volta adottata una prospettiva di tipo materialistico, la proibizione dell'incesto non appare più come il corollario del principio di reciprocità che mette i gruppi umani in condizione di doversi rapportare gli uni agli altri attraverso il meccanismo dello « scambio delle donne »; tantomeno la risposta a una domanda filosofica sul passaggio dalla natura alla cultura. Nell'ottica della riproduzione sociale, la proibizione dell'incesto appare come il mezzo ideologico attraverso il quale viene « ordinato » ai membri di piccole comunità continuamente minacciate nel loro equilibrio interno di reperire un partner esterno alla loro comunità d'origine. Meillassoux analizza il livello di efficacia funzionale posseduto dalle cellule elementari di produzione e mostra come esse non siano autosufficienti per quanto riguarda la loro riproduzione.
Prefazione XXXIII
Lo « scambio delle donne » e quindi l'esogamia, assieme al correlato ideologico di entrambe, la proibizione dell'incesto, appaiono così come i mezzi che consentono a queste comunità di far fronte agli accidenti demografici cui sono soggette e di riprodurre le condizioni strutturali della produzione materiale e della riproduzione sociale. Mediante una circolazione bilanciata delle donne e della loro prole viene così ad essere tendenzialmente assicurata la possibilità, per ogni cellula produttiva, di ricostituire al proprio interno la forza-lavoro necessaria all'espletamento delle operazioni produttive. Siamo qui molto lontani dalla filosofia lévistraussiana dei fondamenti « naturali » della cultura e dall'immagine delle società primitive che gli odierni ideologi del buon selvaggio vorrebbero offrire. 5 Il fatto che all'interno delle società segmentarie africane la circolazione ordinata delle donne sia il meccanismo dominante che consente ad esse di ricostituire le condizioni strutturali della propria esistenza non significa che esso sia un dato di portata etnografica universale come invece pretende che sia l'antropologia strutturale: la circolazione delle donne è solo uno dei diversi modi in cui viene assicurato l'equilibrio della cellula produttiva, nella fattispecie il risultato delle condizioni strutturali determinate che fanno del gruppo domestico il centro della produzione e della riproduzione della società globale. È nelle società segmentarie, dove i rapporti di parentela assumono una funzionalità produttiva e ideologica dominante, che questo meccanismo si impone. Diversamente da altre società, come per esempio quelle di cacciatori-raccoglitori o di protoagricoltori, la cui riproduzione avviene sulla base di condizioni strutturali differenziali rispetto alle società agricole africane di tipo segmentario, la circolazione delle donne diviene un processo ordinato, pacifico, che esclude la violenza e il ratto di esse come sistemi correttivi di un equilibrio demografico frequentemente compromesso. Meillassoux restituisce alla « circolazione delle donne » una pertinenza storica che la situa in rapporto a una particolare forma di organizzazione socio-economica, il modo di produzione domestico, e la parentela, che per l'antropologia strutturale e funzionalista è la chiave universale per poter comprendere l'essenza delle società primitive, diviene un « modo di produzione dei produttori ». Il libro di Meillassoux esplora così le modalità in cui, all'interno di questo modo di produzione, accade la circolazione delle « produttrici di produttori », le donne, e demistifica le condizioni ideologiche della teoria dello « scambio » come fatto universale. 5. Come ad esempio Clastres (La società contro lo Stato, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1977) e Lizot (« Economie ou société? », Joumal de la Société des Américanistes, Tome LX, 1971, pp. 136-175).
XXXIV Prefazione
Organizzato attorno al concetto di riproduzione, Donne, granai e capitali mira a situare questa forma di organizzazione socio-economica rappresentata dalla comunità domestica all'interno del contesto più generale costituito dal ruolo funzionale che tale forma assume nel processo riproduttivo dei modi storici di produzione che sono ad essa succeduti e del capitalismo in particolare. Ciò presuppone una precisazione rigorosa dei tratti critici che caratterizzano il modo di produzione domestico, definibile, secondo Meillassoux, sulla base del livello delle forze produttive ad esso corrispondente. Sono le stesse modalità teoriche di impostazione e di soluzione del problema che consentono a Meillassoux di spostare lo sguardo dalla comunità domestica in sé al rapporto di sfruttamento impostale dal sistema capitalista. Questo è un altro elemento che pone Meillassoux in uno spazio originale rispetto a quegli stessi autori che prima di lui si sono occupati dello studio della comunità e del modo di produzione domestici. Per quegli autori che si rifanno alla tradizione del funzionalismo britannico, la comunità domestica non è analizzabile che dal punto di vista del processo ciclico che consente il rimpiazzamento di una generazione precedente da parte di una generazione successiva. Di questo rimpiazzamento non vengono colte che le caratteristiche formali, con l'effetto di fornire un'immagine del processo riproduttivo molto simile a quella di un semplice processo ripetitivo. 6 La persistenza di un'idea dell'unità sociale domestica fondata sull'analogia biologica da un lato, e la tendenza a pensare il gruppo domestico indipendentemente dalle relazioni che lo mettono in rapporto con gruppi omologhi assicurandone la riproduzione dall'altro, non solo elimina la possibilità di mettere in evidenza quelli che sono i rapporti di produzione e di riproduzione dominanti all'interno di esso, ma contribuisce anche ad occultare quelle che sono le sue reali possibilità di trasformazione e di adattamento a situazioni storiche radicalmente nuove. Il gruppo domestico viene così pensato come un tratto caratteristico ed esclusivo delle « società primitive », e lo studio di esso non sfiora neppure lontanamente il problema di un suo eventuale inserimento in un contesto più ampio. Il funzionalismo, anche nei suoi contributi più intelligenti e originali, non è mai riuscito a cogliere il problema dell'inserimento della comunità domestica all'interno del processo di riproduzione capitalistico attraverso la messa in luce delle caratteristiche strutturali di tale comunità e dei rapporti di produzione che vigono al suo interno. In alcuni casi gli antro6. Questo è esattamente l'esito cui approdano gli studi sul « gruppo domestico » raccolti da J. Goody in The Developmental Cycle in Domestic Groups, C.U.P., Cambridge, 1958.
Prefazione
XXXV
pologi funzionalisti hanno denunciato la brutalità dello sfruttamento di queste comunità attraverso il sistema delle « riserve », ma la loro analisi non si è mai liberata di un approccio empirico che poco ha permesso di sviluppare lo studio dei rapporti economici e sociali su cui si fonda questo sfruttamento. Anche a differenza di Marshall Sahlins, una parte del celebre libro 7 del quale costituisce un classico sul modo di produzione domestico, Meillassoux mostra di voler definire l'appartenenza storica di questo particolare modo di produzione al fine di poterne comprendere la funzione che esso ha svolto e continua a svolgere all'interno di sistemi socioeconomici che lo dominano lasciando ad esso il costo sociale della riproduzione della forza-lavoro. Benché Sahlins sia uno dei pochissimi antropologi americani ad essersi aperto ai concetti e ai metodi del marxismo, contravvenendo così alla tradizione prevalentemente « culturologica » che determina l'orientamento di questo genere di studi negli Stati Uniti, la sua analisi del modo di produzione domestico resta fortemente confusiva per quanto riguarda l'attribuzione indiscriminata di questa nozione a « tutte » le comunità primitive, fatta eccezione per le società di cacciatori-raccoglitori che egli definisce, raggiungendo così gli ideologi del buon selvaggio, « prime società d'abbondanza ». 8 Al modo di produzione domestico viene così assegnato uno spazio di esistenza storica largamente indefinito che impedisce di analizzare i diversi rapporti di dominazione che lo hanno legato ad altri modi di produzione. La seconda parte di Donne, granai e capitali tratta dell'inserimento delle formazioni sociali africane tradizionali, e quindi della comunità domestica, nel processo di riproduzione del capitale. Partendo da una critica delle teorie dello « scambio ineguale » tra paesi occidentali e paesi del « terzo mondo », tra le formazioni sociali del « capitalismo del centro », e le formazioni sociali del « capitalismo periferico », Meillassoux mostra come il trasferimento di valore dai paesi sottosviluppati verso quelli industrializzati avvenga non già sulla base 7. Stone-Age Economics, Aldine, Chicago, 1972. 8. Questo in effetti è il titolo dell'edizione francese del libro di Sahlins curata da Pierre Clastres. Secondo Sahlins il modo di produzione domestico fondato sullo sfruttamento della terra mediante l'agricoltura sarebbe un «regresso» rispetto alle modalità di appropriazione della natura messe in atto dai cacciatori-raccoglitori. Qui Sahlins porta all'estremo la confusione concettuale poiché, malgrado dichiari di rifarsi teoricamente a Marx, egli assolutizza il carattere istantaneo che la produttività del lavoro riveste presso queste popolazioni per giungere alle stesse conclusioni cui giungono i teorici dell'homo economicus: adattando i propri mezzi ( tecniche produttive) ai propri fini (gli elementari bisogni connessi con la sopravvivenza), il cacciatore-raccoglitore lavora meno dell'agricoltore.
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di uno « scambio », ma attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro alla cui riproduzione e al cui costo sociale provvedono la comunità e il modo di produzione domestico. È una strategia che consente, attraverso la messa in opera di meccanismi esplicitamente studiati o inconsci (il razzismo) di creare, all'interno dei paesi capitalisti più avanzati come nei paesi dominati da una élite bianca, un doppio mercato del lavoro e di risparmiare allo stesso tempo al capitale l'onere del costo della riproduzione fisica e della formazione professionale di una parte della manodopera. La comunità domestica, grazie alle sue eccezionali capacità di mobilitazione delle sue risorse produttive e riproduttive, viene così a trovarsi inserita nel quadro più ampio della riproduzione capitalistica. Il capitalismo da parte sua tende a mantenerla in vita per quel tanto che essa risulta funzionale al contenimento dei costi della sua riproduzione, mentre tende invece a distruggerne le basi strutturali per potersi rifornire incessantemente di ciò che si riproduce all'interno di essa e che gli necessita come elemento imprescindibile della sua riproduzione: il lavoratore libero. La comunità domestica dunque, tanto in Africa, dove essa possiede ancora dei caratteri fortemente originali, quanto in Europa, dove essa sussiste nella forma residuale della famiglia cui è demandato ormai il compito quasi esclusivo di riprodurre la forza-lavoro, viene sottoposta ad un duplice processo di mantenimento e di distruzione, duplice processo suscettibile di portare alle estreme conseguenze quelle che sono le sue stesse condizioni strutturali: lo sfruttamento delle capacità produttive e riproduttive della donna e la trasformazione in diseguaglianze sociali permanenti di quelle che erano solo differenze di status momentanee (il rapporto anziani-cadetti). Il duplice controllo della circolazione delle donne e dei beni di sussistenza (il controllo cioè delle politiche matrimoniali e dei granai nella comunità domestica tradizionale) tende così ad essere assunto, nella congiuntura storica del colonialismo, dal capitale, con l'effetto di destrutturare tanto i rapporti sociali quanto i legami affettivi caratteristici di quel modo di riproduzione sociale. Le due parti del libro dedicate all'analisi della comunità domestica e all'esplicitazione del tipo di sfruttamento cui essa è sottoposta dal capitalismo rispettivamente potrebbero dare l'impressione di una distanza storica concettualmente irrecuperabile. Al contrario, questa distanza riproduce la traumaticità dell'impatto della comunità domestica col colonialismo e il dramma di tante popolazioni esposte alla brutalità dei rapporti di sfruttamento imposti loro da un sistema socio-economico e da una cultura completamente estranei. Il progetto parallelo di Meillassoux, quello di studiare le trasformazioni del modo di produzione domestico in direzione di altri modi di produ-
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zione ad esso logicamente success1v1, non appare, m Donne, granai e capitali, che appena abbozzato. Esso è stato momentaneamente sacrificato all'urgenza di rendere noti quei risultati della ricerca suscettibili di fare dell'antropologia uno strumento di comprensione della realtà sociale nella quale noi stessi ci muoviamo, e non più un possibile « pretesto ai fantasmi dell'esotismo ». UGO
FABIETTI
Introduzione*
Se la nozione di parentela ha invaso l'etnologia, è perché essa designa un principio d'organizzazione sociale molto diffuso - ancorché non generale, nemmeno presso le società « primitive » - che tende a istituzionalizzare e a regolare una funzione comune a tutte le società, compresa la nostra: quella della riproduzione degli individui in quanto soggetti produttori e riproduttori e, in modo più specifico nell'ambito dell'economia domestica, quella della riproduzione sociale in generale. L'etnologia classica non ha saputo cogliere, della riproduzione, che le sue manifestazioni istituzionali, senza preoccuparsi di cercare di comprenderne la funzione essenziale. In conseguenza di ciò l'etnologia, non essendo in grado di mettere in rapporto la parentela con gli altri dati dell'organizzazione economica e sociale, la considera come un dato primario e di portata universale trattandola principalmente sotto gli aspetti formale e normativo. « Secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l'alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose; dall'altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie » (F. Engels, 1884, 33 ). Engels commise un errore mettendo sullo stesso piano la produzione dei mezzi di sussistenza e la produzione degli uomini? È ciò che lascia intendere la nota di redazione al suo libro pubblicato presso le Editions Sociales, secondo la quale questa assimilazione dei due piani sarebbe una « inesattezza ». Il che significa liquidare un genere di produzione fonQuesto lavoro fa parte di un programma di studi sui sistemi economici africani intrapreso a partire razione rapportantesi a un antenato comune all'interno del lignaggio. È estremamente utile ricondurre simili problemi ai lavori di Emile Benveniste. Si veda, in particolare su questo punto, le sue ricerche sulla nozione di «fratello» e di «sorella» (Benveniste, 1969, 164 e segg.; si veda anche Jaulin, 1973, II, 142).
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getto. A questo riguardo l'etnologia può essere veramente sospettata di aver intrapreso un'interpretazione al contrario della storia invece di aver cercato di rintracciare il movimento reale di essa.
1.3.
Accoppiamento e filiazione
Questa tendenza alla generalizzazione arbitraria si ritrova in un altro genere di confusione, quella tra regole di accoppiamento e regole di filiazione. Le prime indicano i congiunti possibili, le seconde - attraverso il matrimonio e le nascite che ne derivano - i rapporti di dipendenza di un individuo nei confronti delle generazioni che vengono prima di lui. In altre parole, si è confuso tra la ricerca di una compagna e la ricerca di una progenitura. La parentela, in quanto categoria, non si applica che al secondo caso. È la filiazione che conduce alla nozione di parentela tra persone i cui rapporti si definiscono sulla base dei loro legami permanenti, eterni e intangibili con un « padre » comune, vicino o lontano, reale o putativo (Cap. 2.2.). Ora, un'opera come Le strutture elementari della parentela è interamente rivolta verso il problema della scelta del congiunto, cioè dell'accoppiamento.2J Lévi-Strauss (196 7) non discute della filiazione ( capitolo 8) che in rapporto ai problemi sollevati dal matrilignaggio o dal patrilignaggio nella scelta dei partners, senza prestare alcuna attenzione a quello che è il problema della parentela per eccellenza, e cioè la destinazione della progenitura. In queste condizioni la « parentela » assume i caratteri di un fenomeno di portata applicativa generale poiché essa non tratta che del fenomeno generale dell'accoppiamento al quale essa si riduce, senza che vengano presi in considerazione gli aspetti legati alla procreazione. Tutte le società, qualunque sia la loro organizzazione sociale e il loro scopo, vengono così a confondersi tra loro. Certo, la parentela regola anche l'accoppiamento in riferimento alla posizione degli individui all'interno di un quadro genealogico, ma non il contrario. Le norme che regolano soltanto l'accoppiamento, qualora siano presenti, si accontentano di quadri di riferimento più semplici, che permettono di riconoscere da una generazione all'altra i partners possibili, senza intervenire nella
20. « Intendiamo per strutture elementari della parentela i sistemi [ ... ] che prescrivono il matrimonio con un certo tipo di parenti; o, se lo si preferisce, i sistemi che, pur definendo tutti i membri del gruppo come parenti, Ii distinguono in due categorie: coniugi possibili e coniugi proibiti » (Lévi-Strauss, 1967, 11 ).
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Capitolo 1
destinazione della progenitura. I sistemi fondati su metà (moitiés) 21 s1 limitano a fornire soltanto questo tipo di indicazioni. Qui le metà si sostituiscono alle genealogie come mezzo di identificazione. La nozione di filiazione si arresta nel punto in cui il ciclo delle proibizioni matrimoniali si chiude - dopo una o più generazioni a seconda del numero delle sotto-sezioni - ma sempre con la sola prospettiva di contribuire all'identificazione del possibile coniuge. Le regole d'accoppiamento, al contrario di quelle di filiazione, sono rivolte in misura ben maggiore verso il passato e il presente che non verso il futuro: è in ragione dei rapporti stabiliti nelle generazioni precedenti che vengono definiti i rapporti presenti di ego. Per contro, le regole d'accoppiamento ignorano le preoccupazioni che tutte le società strutturate sulla base della parentela mostrano per la loro posterità. Limitare lo studio della parentela al problema dell'accoppiamento implica una considerazione del matrimonio come avente per scopo principale, se non esclusivo, quello di permettere ad individui di sesso differente di vivere insieme. Lévi-Strauss, curiosamente materialista su questo punto, pensa in effetti che vi siano delle cause economiche sufficienti per rendere ragione del semplice accoppiamento (1967, 77), in particolare la complementarità del lavoro maschile e femminile. Ma questa causa economica non è l'unica. La ripartizione dei compiti sulla base della differenza sessuale è - è il caso di ricordarlo? - un fatto di « cultura » e non di « natura ». Se si può osservare l'esistenza di una divisione dei compiti, molto variabile secondo i casi d'altra parte, tra uomini e donne - o comunque tra coloro che rispondono alle definizioni sociali dell' « uomo » e della « donna » - compiti che fanno della donna (o dello schiavo) la serva dell'uomo, questa divisione è consecutiva a una sottomissione precedente della donna e non a immaginarie capacità distinte. Non vi è che il parto e l'allattamento di cui le donne siano le sole capaci. Ora, questa specializzazione naturale non spiegherebbe l'accoppiamento che nella prospettiva della riproduzione, ancorché le donne, una volta fecondate, sarebbero in grado di bastare ad essa dal punto di vista economico e sociale da sole. In realtà nulla, nella natura, spiega la divisione sessuale del lavoro, non più che istituzioni come il matrimonio o la discendenza per via paterna. Tutti i compiti loro spettanti sono imposti alle donne con la costrizione e quindi tutti sono fatti culturali che devono essere spiegati, e non servire da spiegazione.
21. Una società è divisa in metà allorché essa riconosce al proprio interno l'esistenza di due categorie principali - eventualmente divise in sotto-sezioni - alle quali appartengono tutti gli individui membri di questa società secondo un tipo di appartenenza definita attraverso quella dei loro genitori e entro le quali l'unione è o sconsigliata o proibita, a seconda dei casi. Si tratta di una considerazione puramente tassonomica poiché gli individui appartenenti alla stessa metà non vivono necessariamente nella stessa orda o in orde separate. Su questo sistema gli etnologi hanno costruito delle combinazioni che, risalendo per molte generazioni indietro nel tempo, divengono d'una complessità estrema, comprensibile soltanto mediante l'impiego di raffinati strumenti matematici. In pratica sembra che simili prescrizioni siano spesso trasgredite, che l'appartenenza sia cambiata secondo convenienza, e che di fatto gli individui non si definiscano in tal modo che da una generazione all'altra.
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Le strutture elementari della parentela di Lévi-Strauss non sono altro che una generalizzazione delle regole dell'accoppiamento a tutte le società in cui esiste l'istituzione della parentela. Qui, tuttavia, la generalizzazione agisce all'inverso. Mentre prima abbiamo potuto osservare come i termini esprimenti l'appartenenza per adesione vengano assimilati a termini di parentela per filiazione e come la loro trasposizione trasformi l'orda in una specie di proto-lignaggio, ora, al contrario, le regole di parentela delle società con struttura di lignaggio vengono ridotte alle norme d'accoppiamento che dominano nell'orda, per cui le società con struttura di lignaggio tendono ad essere presentate come società composte da protometà esogamiche. Sembra dunque che né il funzionalismo, né lo strutturalismo riescano a fornire i mezzi teorici atti a differenziare due tipi distinti di organizzazione sociale, quello cioè al cui interno domina il principio dell'adesione e l'altro al cui interno domina il principio della filiazione; un tipo al cui interno la posizione sociale dell'individuo è funzione della sua partecipazione presente alle attività comuni, l'altro ove tale posizione è funzione della sua crescita in seno di una cellula produttiva e del suo posto nel ciclo della riproduzione tramite un referente genealogico. Queste caratteristiche, associate alla differenza radicale che oppone questi due tipi di società sul piano del modo di sfruttamento della terra, contribuiscono pertanto a distinguere due sistemi economici e sociali primari i cui principi fondamentali non sono riducibili alle stesse categorie. Benché Serge Moscovici proponga una distinzione tra rapporti di adesione (che egli chiama rapporto di affiliazione) e rapporti di parentela, le nostre idee non concordano su molti altri punti. In primo luogo per Serge Moscovici questa distinzione riguarda la differenza tra i gruppi di ominidi e i gruppi di cacciatori-raccoglitori, mentre per me essa si situa tra cacciatori-raccoglitori e agricoltori." Cosi facendo egli introduce di nuovo, come del resto la maggior parte degli autori, una confusione arbitraria tra questi due tipi di civiltà, attribuendo incautamente le caratteristiche dell'uno all'altro. Serge Moscovici per contro stabilisce una differenza fondamentale tra la raccolta e la caccia sulla base del fatto che i rapporti di produzione sarebbero del tutto diversi nei due casi. I rapporti di raccolta sarebbero individuali e non necessiterebbero né di conoscenze di tipo particolare né di allenamento fisico. I rapporti di caccia, in-
22. Senza che ciò implichi da parte mia una qualche assimilazione degli uomini agli ominidi. L'idea di una continuità sociale o culturale tra l'uomo e l'animale, come l'idea dominante dell'etologia contemporanea secondo la quale sarebbe possibile rintracciare tra gli animali l'origine di alcune nostre istituzioni sociali e dei nostri comportamenti, si fonda su di un antropocentrismo implicito illustrato da esempi presi dalla vita di specie molto diverse e avulsi dal loro contesto. Questo antropocentrismo apparentemente bizzarro, messo sotto accusa ancor più dell'etnocentrismo degli etnologi, conduce diritto a un determinismo naturalista senza uscita e alle dottrine totalitarie del potere.
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Capitolo 1
vece, sarebbero di natura collettiva ed esigerebbero tanto un allenamento quanto un apprendistato. Nel primo caso la società resterebbe perciò individualizzata, nel secondo caso invece apparirebbero i rapporti organizzati e la parentela di tipo paterno. Ora, ciò che noi sappiamo della realtà dei rapporti sociali di produzione (vedi in particolare i contributi raccolti in Lee e Devore, 1968) non conferma questa ricostruzione immaginaria. La raccolta esige talvolta il percorrimento di lunghe distanze. Essa viene condotta in gruppo allo scopo di difendersi dalle belve. Richiede perciò un allenamento fisico come una conoscenza precisa delle piante, dei luoghi, degli animali pericolosi, dei mezzi per proteggersi da essi, di materie prime utilizzabili per tagliare, trasportare, custodire, ecc. Per contro, la caccia e la cattura mediante trappole dei piccoli animali vengono praticate correntemente in prossimità degli accampamenti dai cacciatori, uomini o donne, giovani o vecchi che siano, che tengono il prodotto ricavato per loro, senza spartirlo: entrambe queste attività non esigono che poche conoscenze, nessun allenamento fisico e non suscitano alcuna forma di cooperazione. È a un certo tipo di caccia collettiva o alla battuta che si riferisce Serge Moscovici, ma senza precisare e senza analizzare il rapporto di queste attività alle altre. È in questa stessa prospettiva che Serge Moscovici collega la comparsa della parentela a quella della società di caccia, la quale sarebbe all'origine di « legami duraturi ». È piuttosto vero il contrario: le società di caccia sono instabili. Secondo Serge Moscovici la parentela emergerebbe tuttavia dalla paternità, essa stessa suscitata dal desiderio del padre cacciatore di « riprodurre l'uomo » per mezzo della trasmissione del suo sapere a suo figlio! È una teoria ben bizzarra e ben naturalista quella di pensare che la voce del sangue si faccia sentire tutt'a un tratto in questa occasione. In questa società la paternità non è ancora individuale; essa interessa l'insieme del gruppo. Perché, oltretutto, scegliere un ragazzo invece di una ragazza per questo apprendistato? Inoltre Serge Moscovici stesso mostra che l'apprendimento, allorché si istituzionalizza - ma ciò avviene in società di un altro ordine - è quasi sempre affidato non al padre, ma a parenti o alleati lontani, cosa che indebolisce notevolmente la sua dimostrazione. L'apprendimento delle tecniche relative alla sopravvivenza è, per di più, relativamente rapido. Il più delle ,,o!te avviene per imitazione e non è suscettibile di far nascere dei rapporti durevoli (Meillassoux, 1960). Allorché il potere degli adulti sui giovani viene esercitato tramite la conoscenza, esso si fonda non più sulla trasmissione di conoscenze pratiche, ma sulla trasmissione di co11osce11ze artificiali, esoteriche, irrazionali, le quali, dal momento che non si basano su alcuna forma d'empiria o di ragionamento, non possono mai essere scoperte nuovamente. Ora questa invenzione del sapere esoterico come strumento di dominazione è ben posteriore al paleolitico.
1.4.
Donne trattenute e donne rubate
Se la mobilità degli individui è generale e contribuisce comunque alla riproduzione sociale, la sua forma e la sua portata variano dall'orda alla società agricola. Nella prima, al cui interno dominano i rapporti di adesione, una riproduzione aleatoria si realizza tramite il flusso di adulti d'ambo i sessi, poiché la riproduzione fisica costituisce il sottoprodotto delle unioni che sono conseguenza di questa mobilità. Nella seconda, invece, la mobilità degli individui di un sesso o dell'altro è oggetto di una
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politica, violenta oppure pacifica, destinata a mettere in rapporto, al fine della procreazione, degli individui puberi la cui prole verrà inserita, alla nascita, all'interno dei rapporti di discendenza. Per il funzionalismo, come per lo strutturalismo, la mobilità matrimoniale - lo si è visto - è circoscritta al problema della scelta del coniuge: tale problema può essere affrontato e risolto in modo formale. Per noi invece, siccome questa mobilità agisce contemporaneamente sulla composizione degli effettivi dal punto di vista della ripartizione dei sessi e dell'età, sulla loro crescita numerica, sulla distribuzione sociale degli individui e infine sui meccanismi del potere, essa riflette l'insieme dei meccanismi per mezzo dei quali una società organizza la propria produzione e la riproduzione dei rapporti della produzione, meccanismi che non sono universali, ma che sono soggetti alle condizioni storiche della produzione. Più avanti (Cap. 2.2. e 2.3.) faccio vedere come la produzione agricola per mezzo dello sfruttamento della terra come mezzo di lavoro favorisca, date certe condizioni, la costituzione di legami sociali permanenti e continuamente rinnovati, e come la circolazione dei beni di sussistenza tra generazioni contigue e la solidarietà che si stabilisce in tal modo tra di esse facciano insorgere delle preoccupazioni legate alla riproduzione fisica e strutturale del gruppo. Allorché sono presenti queste preoccupazioni connesse alla riproduzione dei rapporti organici che associano nel tempo i membri della cellula produttiva, le donne sono ricercate per la loro qualità di genitrici oltre che come compagne. Dato che in generale l'accoppiamento esige l'unione di individui di sesso opposto appartenenti a cellule produttive differenti (Cap. 1.1.), il problema che si pone nelle società preoccupate della loro riproduzione ciclica è perciò quello dell'appartenenza della progenitura. Secondo l'etnologia classica la discendenza viene a stabilirsi lungo due assi principali: la matrilinearità e la patrilinearità. 23 Nel primo caso la prole viene affiliata alla comunità d'origine della genitrice e la discendenza viene a stabilirsi attraverso delle sorelle o delle figlie degli uomini della comunità. Lo zio materno ( il fratello maggiore della madre) ha autorità sui figli della sua o delle sue sorelle. Nel secondo caso, invece, la prole di una donna è affiliata alla comunità dello sposo riconosciuto di costei, in genere attraverso quest'ultimo. È il rapporto « padre-figlio » a noi familiare. Tra la matrilinearità e la patrilinearità l'etnologia ha individuato l'esistenza di forme miste dette per esempio bilineari, forme in base alle quali le famiglie dei coniugi si dividono alcune prerogative
23. Per una comparazione relativa al funzionamento delle due formule e alle contraddizioni che esse comportano, si deve leggere un ottimo studio di A. Marie (1972).
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Capitolo 1
sui figli di questi ultimi oppure attraverso le quali la successione avviene sulla base di entrambe le linee. Questa terminologia tuttavia non esprime una simmetria. Se la patrilinearità viene a stabilirsi, secondo questa classificazione, tra « padre » e figli della moglie, la matrilinearità non viene a stabilirsi tra la madre e i suoi figli (poiché in tal caso saremmo in presenza di un sistema matriarcale), ma tra il fratello della madre e i figli di quest'ultima. (È solo perché non esistono società che a nostra conoscenza praticano la filiazione madre/figlia che questo linguaggio non si presta ad equivoci.) Se la terminologia classica suppone sempre l'esistenza di una filiazione istituzionale e genealogica, sottostante cioè alle strutture della società attraverso il tempo, le regole di residenza vengono date per rapporto al genitore col quale risiede la coppia, ma senza alcun riferimento alla prole. Si possono distinguere in tal modo la patrilocalità, allorché gli sposi risiedono col padre del marito; l'avuncolocalità (quando essi risiedono presso lo zio dello sposo); la matrilocalità, al quale termine si preferisce spesso quello più preciso di uxorilocalità (residenza nella famiglia della sposa); la virilocalità (residenza presso lo sposo) ecc. Sembra anche importante enunciare le regole di residenza dei figli della coppia per rapporto alle comunità d'origine degli sposi, residenza che in genere determina quella della madre, poiché quest'ultima deve restare accanto al bambino per l'intero periodo dell'allattamento che prolunga la fatica della maternità. Ora, questa residenza può variare a seconda che il matrimonio valga per uno solo o per più figli. Nel primo caso, ad esempio, i figli possono essere trattenuti nella comunità del padre a partire dalla fine dell'allattamento, mentre la madre resterà o ritornerà nella sua. Il modo di residenza più comune per la donna è quello in base al quale ella resta nella comunità nella quale procrea e nella quale la sua prole viene inserita in un quadro di discendenza. 24 Come dunque si sarà potuto notare, il vocabolario etnologico classico relativo a questo problema si riferisce interamente a società che possiedono una struttura di parentela, società al cui interno i rapporti di discendenza vengono istituzionalizzati e sono di natura genealogica. Tale vocabolario ha un contenuto più giuridico che funzionale. Il suo impiego per tutte le forme di organizzazione sociale crea una confusione generale. In quelle società al cui interno i rapporti di filiazione non sono istitu-
24. La pratica di lasciare i figli a balia, pratica che permette di incrementare la riproduzione affidando i bambini di una stessa madre nati durante il periodo di allattamento di un figlio precedente a una donna che ha latte ma non figli, non sembra poter raggiungere il carattere di una pratica corrente che all'interno della famiglia estesa poliginica, cioè all'interno della comunità domestica.
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zionalizzati, dove c1oe essi restano subordinati parzialmente all'opportunità del caso, il problema della destinazione della prole è generalmente connesso a quello della mobilità delle donne nubili: si trattengono i figli di quelle stesse donne che sono trattenute, di modo che la filiazione immediata ( quella che viene a stabilirsi per un individuo, senza pregiudicare quella della sua futura prole) viene decisa dalla residenza della madre ( almeno fino allo svezzamento), sia all'interno della sua comunità, sia in quella dello sposo. Su di un piano strettamente funzionale, perciò, e indipendentemente dalle regole di discendenza o di residenza, vengono a stabilirsi due forme di mobilità degli adulti puberi ( che sono spesso anche delle norme in ragione della loro reciproca incompatibilità), due forme di mobilità indispensabili alla costituzione dei rapporti di discendenza e le cui implicazioni demografiche, sociali e politiche mi paiono decisive. In un caso le donne restano nella loro comunità di origine e gli uomini vengono sollecitati a procrearvi ed eventualmente a risiedervi. Si tratta di un sistema che potrebbe essere definito come ginecostatico: la riproduzione del gruppo si fonda unicamente sulle capacità generatrici delle donne nate nel gruppo. Nell'altro caso le donne, scambiate su di una base di reciprocità, non procreano all'interno della loro comunità, ma in una comunità alleata che ne incorpora la prole. La riproduzione dipende dalle capacità politiche che i gruppi hanno di negoziare, in qualunque momento, un numero adeguato di donne. Queste due modalità di circolazione non possiedono la stessa efficacia, poiché esse giocano sulle differenti funzioni riproduttive dei due sessi: le capacità di fecondare dell'uomo sono in pratica illimitate, ma possono essere esercitate nei confronti di una donna non importa da quale individuo specifico; le capacità generative della donna si limitano al quoziente del numero degli anni fecondi per la durata del periodo della gravidanza e dell'allattamento (prolungata talvolta per mezzo di proibizioni di natura culturale). Durante questo periodo di gestazione la simbiosi della donna e del suo bambino fanno di essa un essere unico e insostituibile. Si può allora pensare che, poiché la posta è costituita dalla prole delle donne, quando una di queste due pratiche è in funzione tende ad escludere l'altra, poiché la contemporanea mobilità degli individui dei due sessi non è in grado di assicurare alcuna distribuzione ordinata delle donne puberi e quindi una distribuzione ordinata del vantaggio rappresentato dalle loro capacità di genitrici, per cui o ci si tiene tutte le donne oppure le si scambia tutte con delle altre. La mobilità, a seconda che essa sia maschile oppure femminile, produce effetti pratici e logici sulla residenza e sulla discendenza che sono osser-
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vabili presso tutte le società dette « armoniche », cioè nella stragrande maggioranza dei casi. La relazione più frequente si stabilisce entro ginecostatismo, matrilocalità e matrilinearità da un lato; ed entro ginecomobili tà, patrilocalità e patrilineari tà dall'altro. Gli effetti sociali di queste due diverse soluzioni sono importanti poiché, come rivedremo più oltre ( p. 3 7 ), il ginecostatismo non permette di affrontare altrettanto bene la correzione di quegli incidenti che mettono in causa la riproduzione delle piccole unità demografiche ( epidemie, sterilità, morti premature, ecc.).
• Il criterio della mobilità permette di introdurre nell'analisi la possibilità di collegare il modello della discendenza alle condizioni generali della produzione presso le società agricole. Le regole di residenza e di discendenza proposte dall'etnologia classica si riferiscono al piano normativo o giuridico, non sono legate ad alcuna necessità apparente e non possono che suggerire l'esistenza di una « scelta » arbitraria della società in favore di questo o quel complesso di regole. Per contro si può osservare che la mobilità matrimoniale, che produce degli effetti immediati sulla discendenza e sulla residenza, è associata a pratiche agricole distinte tra loro in ciascun caso. La scuola etnografica tedesca aveva individuato da molto tempo una relazione apparente entro l'agricoltura per innesto di talee (plantagebouturage) e le forme di organizzazione sociale dette matrilineari. È infatti notevole constatare che il ginecostatismo e la discendenza attraverso le figlie o le sorelle sono maggiormente diffusi in quelle zone ove domina questo tipo di agricoltura (nella foresta africana o nella foresta amazzonica, per esempio), mentre le società ginecomobili e patrilineari si incontrano più generalmente nelle zone a produzione cerealicola. Se si esaminano brevemente le condizioni che predominano nell'agricoltura per innesto di talee, si possono individuare alcuni elementi che conferiscono una certa logica a questa relazione e che permettono, attraverso due modi differenti di circolazione matrimoniale, di osservare l'instaurarsi dei rapporti di produzione e di riproduzione di tipo domestico. Precisiamo che questa correlazione discende da una tendenza e non da un determinismo di tipo assoluto, poiché i rapporti di produzione sono essenzialmente gli stessi, qualunque sia il genere di agricoltura praticata. Essi servono dunque da supporto a dei rapporti istituzionali di riproduzione. Come vedremo, ciò che decide del modo di discen-
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) individuale della terra, un punto questo sul quale quasi tutti sono d'accordo. Poiché tuttavia l'appartenenza a una comunità è la condizione di accesso alla terra, si ritiene generalmente che tale collettività ne abbia la « proprietà comune ». In realtà la coscienza di una « appropriazione », cioè di un rapporto esclusivo con una porzione del suolo, non è conseguenza né del processo di esplorazione e di occupazione delle terre, né del lavoro investito dai membri presenti e passati del gruppo. Tale coscienza non emerge se non quando il godimento di questa terra è minacciato da un'altra collettività. Ora, si può constatare che la conquista di terre è praticamente assente dalle relazioni tra società domestiche, anche quando la densità della popclazione è elevata. La comunità domestica non frappone solitamente ostacoli
3. Contrariamente agli etnologi francesi, impiego il termine affinità (afji11ité) - e non per designare: i rapporti di un individuo con i parenti del proprio coniuge, e il termine alfine (a/Jin) - e non alleato (allié) - per indicare gli individui compresi in questo rapporto (Littré). Preferisco riservare :I termine alleanza a quei rapporti sanzionati da « atti » (giuramenti, patti, trattati, ecc.) e che vengono stretti al di là dei rapporti di parentela e di affinità.
allean~a (alliance) -
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all'ammissione di individui o di famiglie straniere una volta che siano definiti i rapporti sociali che legheranno questi ultimi alla collettività. Le « conquiste » si rivelano spesso come l'effetto di una lunga infiltrazione di immigrati accolti in questo modo, ma il cui numero o le cui attività permettono loro a un dato momento di imporsi ai loro ospiti. Anche ammettendo che la terra sia oggetto di contesa e di conquista da parte di società militari, la sua protezione non comporta ipso facto la costruzione di un diritto reale elaborato a tal punto da far nascere, indipendentemente dalle circostanze storiche adatte, il concetto di proprietà. La proprietà, che implica, nel senso completo del termine, i diritti di usus, fructus e abusus, è connessa all'economia di mercato, la quale consente l'alienazione del prodotto e la sua trasformazione in merce, il suo inserimento cioè in rapporti di produzione contrattuali di un altro ordine rispetto a quelli che prevalgono nella comunità domestica. Il termine « proprietà » è dunque inesatto, anche se accompagnato dalla qualifìcazione di « comune » che a questo riguardo non ne cambia il senso. Il diritto moderno fornisce, come categoria più prossima, quella di patrimonio, indicante cioè una sorta di bene appartenente, indiviso, ai membri di una collettività (familiare) e che si trasmette normalmente per mezzo dell'eredità, del prestito o della donazione tra membri di questa comunità, cioè sempre senza contropartita. 4 Ora, la relazione alla terra di tipo patrimoniale deriva dai rapporti di produzione domestici che la proprietà, lungi dal rinforzare, contribuisce, al contrario, a dissolvere. A queste stesse condizioni storiche si associa l' autosussistenza, cioè la capacità, da parte della comunità, di produrre i beni di sussistenza necessari alla propria sopravvivenza e alla propria riproduzione a partire dalle risorse che sono alla sua portata e che sono ottenute per sfruttamento diretto. L'autosussistenza non è caratteristica della sola comunità domestica, ma è riferibile anche all'orda, seppure all'interno di condizioni sociali della produzione differenti. Nella comunità domestica l'autosussistenza è strettamente legata a un modo specifico di circolazione del prodotto che si oppone alla emergenza di una divisione sociale del lavoro 5 e che esclude lo scambio equivalente a vantaggio dello scambio identico (Cap. 4.3. b). Senza essere determinante, l'autosussistenza può essere considerata una
4. La vendita dd patrimonio, cioè la conversione in merce, è un atto straordinario che richiede, anche all'interno delle nostre società capitalistiche di mercato, garanzie c precauzioni particolari. 5. Vi è divisione sociale del lavoro quando le cellule produttive non possono far fronte ai propri bisogni che per mezzo dello scambio equivalente dei loro prodotti. Nella società domestica, \'i è una ripartizione dei compiti.
La riproduzione domestica
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carattensuca cnttca, poiché la sua scomparsa comporta alla fine la dissoluzione dei rapporti di produzione domestici. 6 Il concetto di autosussistenza non va confuso tuttavia con quello di autarchia. L'autosussistenza non esclude rapporti con l'esterno, e neppure certi scambi di mercato i cui effetti sono sempre suscettibili di venir neutralizzati, e senza che venga raggiunta quella soglia critica al di là della quale le trasformazioni dei rapporti di produzione che esse comportano divengano irreversibili. Ho mostrato altrove ( 1964, 1968, 1971) come per esempio le merci e il denaro vengano neutralizzati attraverso la loro trasformazione in tesori o in beni patrimoniali nell'economia domestica o « di palazzo », e come gli scambi vengano concentrati nelle proprie mani da parte del più anziano o del sovrano e non penetrino nella sfera dei rapporti domestici o di affinità. 7 L'autosussistenza non esclude nemmeno l'esistenza di specialisti legati alla pratica di una tecnica come la metallurgia. Specialità non implica specializzazione, cioè la pratica esclusiva, da parte di una unità di produzione autonoma, di un'attività non produttiva di alimenti implicante un trasferimento continuo di beni di sussistenza verso questa unità specializzata. La pratica di una specialità non implica necessariamente l'abbandono delle attività agricole. Quando ciò avviene - e spesso soltanto in parte - la sussistenza della comunità specializzata è assicurata nel quadro allargato dei meccanismi di ridistribuzione. Il gruppo specializzato viene a trovarsi allora in una posizione di cliente verso una o più comunità agricole, che lo riforniscono di prodotti per la sussistenza contro l'obbligo di sopperire ai bisogni dei suoi padroni relativamente ai prodotti della sua specialità. Attraverso questo sistema gli effetti della divisione sociale del lavoro vengono prevenuti, i meccanismi fondamentali della comunità domestica vengono preservati anche se, alla fine, questi trasferimenti possono agire sulle condizioni sociali della produzione dei beni di sussistenza (Meillassoux, 1973 ). Il modello che io propongo può essere applicato a situazioni di questo genere mentre le istituzioni conservatrici continuano ad operare. Ciò che definisce il livello delle forze produttive non è solo la pratica di una tecnica, ma gli effetti socialmente ~ccettati della sua applicazione. Questo è il motivo per cui l'impiego di una nuova tecnica non rivoluziona subito la società nella misura in cui essa vi si adatta, spesso per lungo tempo, resistendo istituzionalmente agli effetti sociali che una 6. È oltretutto un concetto necessario per poter comprendere i meccanismi e.li supersfruttamento di cui è suscettibile questo modo di produzione durante il periodo coloniale ( II parte, e Dupriez, 1973). 7. Questo fenomeno è ancora imperfettamente compreso da M. Godelier, il quale (1973 a) non distingue che tra « merci » e « beni che possono essere donati ».
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produzione specializzata comporta e allo scambio ristretto al quale essa dà luogo. 8 È più spesso a livello degli insiemi politici che non a livello delle comunità che queste trasformazioni operano .
• L'organizzazione sociale della comunità agricola domestica si costituisce contemporaneamente, e in modo indissociabile, attorno ai rapporti di produzione quali vengono a formarsi a partire dai limiti economici imposti dall'attività agricola, praticata entro le condizioni definite dal livello delle forze produttive, e attorno ai rapporti di riproduzione necessari alla perpetuazione della cellula produttiva. Se l'esposizione di questo processo esige la separazione dei due tipi di rapporti, la loro interazione è continua in ragione della simultaneità dei bisogni della produzione e della riproduzione da un lato, e della necessità di risolverli nel campo della loro azione reciproca dall'altro. Che la riproduzione sia la preoccupazione dominante in queste società, è chiaro. Tutte le istituzioni sono rivolte a questo fine. L'enfasi posta sul matrimonio, le istituzioni matrimoniali e paramatrimoniali, la discendenza, il culto della fecondità, le rappresentazioni concernenti la maternità, l'evoluzione della condizione della donna secondo la sua posizione nel ciclo della fecondità; le inquietudini suscitate dall'adulterio e dalle nascite fuori del matrimonio, le proibizioni sessuali, ecc., sono altrettante testimonianze del posto occupato dalla funzione della riproduzione. I rapporti di parentela derivanti dal matrimonio (in quanto istituzione) più ancora che dalla nascita (la quale non è altro che un avvenimento codificato in occasione del matrimonio), sono chiaramente rapporti che vengono a costituirsi attorno alla riproduzione degli individui. 9 Nella società domestica la riproduzione degli individui e il loro mantenimento dalla nascita in poi per tutta la vita, costituiscono l'oggetto di un controllo sociale attento che domina l'insieme dei rapporti sociali. Invece di essere, come è nell'orda, un atto breve e di portata immediata (l'accettazione o l'accoppiamento), il processo di riproduzione vi si compie per mezzo di un'operazione a scadenza molto lunga (promessa, fidanzamento, matrimonio, dote, ecc.). La nozione di discendenza vi si sviluppa in questa prospettiva. È la discendenza, e quindi la successione, che viene sanzionata dalle cerimonie più importanti come possono es8. C'è bisogno