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Italian, Greek Pages ix, 164 [176] Year 2018
DISSOI LOGOI
Studi
di
Storia
della
Filosofia A ntica
Comitato direttivo Aldo Brancacci, Elisabetta Cattanei, Fulvia De Luise, Francesco Fronterotta, Silvia Gastaldi, Annamaria Ioppolo, Stefano Maso, Carlo Natali. La collana è espressione della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica). Si propone di raccogliere, in primo luogo, gli studi italiani in questo ambito e inoltre importanti contributi alla ricerca sul pensiero antico provenienti dall’estero. Vuole rappresentare la voce della nostra ricerca sul pensiero antico nel mondo e dialogare in modo fecondo con le altre tradizioni critiche ed esegetiche. Tutti i volumi della collana sono sottoposti a peer review.
STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA 7
STEFANO MASO
DISSOI LOGOI EDIZIONE CRITICAMENTE RIVISTA, INTRODUZIONE, TRADUZIONE, COMMENTO
ROMA 2018 EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
Prima edizione: ottobre 2018 ISBN 978-88-9359-225-3 eISBN 978-88-9359-226-0
Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia
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INDICE DEL VOLUME
Prefazione................................................................................................
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Introduzione............................................................................................ 1. Dissoi logoi........................................................................................ 1.1. Due ipotesi di datazione storica................................................ 1.2. Caratteristiche dello scritto....................................................... 1.3. L’autore...................................................................................... 2. La tradizione del testo e la sua edizione............................................. 2.1. Dispute o discorsi duplici?........................................................ 2.2. La tradizione manoscritta e le proposte stemmatiche............... 2.3. Edizioni e traduzioni................................................................. 2.4. Conclusione............................................................................... 3. Il testo critico......................................................................................
1 1 3 13 17 21 27 30 35 37 39
Dissoi logoi Sigla..........................................................................................................
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Commento...............................................................................................
93
Bibliografia..............................................................................................
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Indice analitico........................................................................................
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Indice dei passi citati..............................................................................
157
Indice dei nomi di persona.....................................................................
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Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
PREFAZIONE
Con questa edizione criticamente rivista dei Dissoi logoi mi sono proposto di dare piena autonomia anche in Italia a un testo tradizionalmente inserito in coda alla raccolta dei Die fragmente der Vorsokratiker di Hermann Diels e Walter Kranz: questa evenienza, che ne ha finora garantito la notorietà, ne ha però in parte condizionato la lettura e l’interpretazione. Tra l’altro il testo lì edito ha continuato a essere il riferimento indiscusso delle varie traduzioni italiane, da quella di Gabriele Giannantoni (1979) a quella di Mauro Bonazzi (2007)1. Per il presente lavoro editoriale mi sono avvalso fondamentalmente della collazione e dell’escussione dei codici effettuata da Thomas M. Robinson per la sua edizione critica del 19792. Ho provveduto peraltro a confrontare gli esiti cui lo studioso è pervenuto con le precedenti edizioni del testo di Conrad Trieber (1892), Ernst Weber (1897), Hermann Diels (1903/1907 e 1912); quindi, con l’edizione criticamente rivista realizzata da Alexander Becker e Peter Scholz (2004) e con il testo proposto da André Laks e Glenn Most (2016). Infine, importante strumento di confronto sono state le annotazioni critiche al testo fornite da Carl Joachim Classen (2001/2004), punto di partenza per l’edizione Becker – Scholz. L’esito finale presenta un testo che cerca di mantenersi vicino alle lezioni dei codici migliori, senza quindi eccedere nel tentativo di ottenere un greco sempre scorrevole e una lingua omogenea, mediando così tra quello proposto da Diels – Kranz (poco affidabile a causa di una ricostruzione stemmatica incompleta) e quello di Robinson (molto sensibile all’uso della lingua e, forse per questo, incline alla correzione e all’integrazione).
1 Ho già effettuato un primo tentativo di allontanarmi da questa consuetudine nel volume sui sofisti realizzato in collaborazione con Carlo Franco nel 1995. 2 In alcuni casi delicati ho verificato direttamente le lezioni dei codd. marciani V1 e V2.
Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
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PREFAZIONE
Proprio l’uso non sempre omogeneo del dialetto dorico da parte dell’Anonimo autore3 mi ha portato a riflettere sulla natura stessa del trattato, facendomi da un lato propendere per l’attribuzione a un maestro di retorica di origine dorica (forse di Taranto) giunto nell’Attica e lì venuto a contatto con il dialetto locale e con i primi maestri della tecnica sofistica; dall’altro, accogliere l’ipotesi di una datazione ‘alta’ che lo collocasse intorno alla metà del V secolo a.C., quando ancora la sofistica cominciava appena ad affermarsi e l’autore non aveva né la padronanza della tecnica né poteva ancora esprimersi alla perfezione nella lingua di Atene. Per questi ultimi aspetti ho sostanzialmente ripreso la tesi a suo tempo avanzata da Santo Mazzarino (1966) secondo cui, in base a una serie di elementi interni ai Dissoi logoi, la datazione ‘bassa’ comunemente adottata (fine V-inizio IV secolo) è da scartarsi: di fatto le obiezioni a essa mosse (a cominciare da quelle più significative di Untersteiner e di Robinson) possono essere tutte respinte4. L’Anonimo si rivela allora essere non un epigono, ma uno dei primi testimoni della diffusione dell’argomentazione sofistica nel territorio dell’Attica: ne sta cogliendo e apprezzando le caratteristiche e si impegna a esibirsi – molto probabilmente rivolgendosi ai suoi discepoli – nella tipologia del confronto tra opposte asserzioni. A tema sono di fatto opposizioni di carattere etico (sez. 1: bene/male; sez. 3: giusto/ingiusto), di carattere estetico-morale (sez. 2: bello/turpe) e di carattere logico-morale (sez. 4: verità/falsità); quindi opposizioni attinenti al tema della sapienza (sez. 5: folli/assennati; sez. 6: insegnabilità/non insegnabilità della sapienza; sez. 8: necessità/non necessità di conoscere la tecnica dialettica basata su brevi domande e risposte; sez. 7: utilità/non utilità della mnemotecnica), e a quello politico-sociale (sez. 8: le cariche pubbliche sono/non sono assegnabili per sorteggio). Alle spalle ci sarà di certo almeno Protagora, non tanto per il carattere relativistico del suo insegnamento legato al tema dell’«uomo misura», quanto piuttosto per l’uso delle antilogie5. L’Anonimo infatti non si limita a esporre tesi in contrasto attenendosi a un prudente relativismo, ma prende posizione: il suo iterato uso di ἐγώ e della prima persona testimonia tutto ciò; un uso che per di più è indicativo di una tecnica argomen-
3 Ritengo del tutto fuori luogo i tentativi di normalizzare in direzione del dialetto dorico il testo pervenuto. Uno tra i più convinti sostenitori della necessità di questa operazione è stato Ernst Weber. 4 Di un simile avviso è ora anche Daniel Moreno Moreno 2015. Un mio primo tentativo di mettere a fuoco l’intera problematica è apparso in «Antiquorum Philosophia» nel 2017. 5 «Sostengono i Greci, e per primo Protagora, che ad ogni argomento si contrappone un argomento (παντὶ λόγῳ λόγον ἀντικεῖσθαι)», Clem. Al., Strom. 6.65.1.
PREFAZIONE
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tativa elementare, non ancora addestrata alle strategie del dialogo socraticoplatonico o del trattato aristotelico. Nel corso di questo lavoro mi sono avvalso dei consigli di molti amici e colleghi che in tutte o su specifiche sezioni di esso sono intervenuti. Un grazie particolare a Carlo Natali, a Filippomaria Pontani e a Olga Tribulato, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia; al prof. Daniel Moreno Moreno di Zaragoza. Sono infine molto riconoscente al prof. Carlo Franco, insieme al quale, oltre vent’anni fa, avevo iniziato l’indagine sui Dissoi logoi che ora trova compimento.
INTRODUZIONE
1. Dissoi logoi. Il tentativo di definire che cosa siano i Dissoi logoi, e di collocarli all’interno di un quadro di sviluppo storico filosofico affidabile, è davvero arduo, poiché oggettivamente poggia su una serie di variabili che purtroppo sono interdipendenti. Nulla da cui partire appare con sicurezza assodato, se si esclude il fatto che lo scritto è anonimo, che è in dialetto dorico1 e che è incompleto. Attenendoci perciò a una saggia prudenza metodologica, potremo, a questo punto, procedere limitandoci a formulare la seguente serie di ipotesi strategiche: 1) collocare lo scritto all’interno della tradizione sofistica: si dovrebbe in questo caso precisarne con adeguata sicurezza l’epoca della stesura e concordare sul significato stesso di ‘sofista’. Ne dipenderebbe, di conseguenza, una qualche relazione con gli scritti di quei sapienti comunemente chiamati ‘sofisti’ (vale a dire: con Protagora, Gorgia, Ippia e Antifonte tra tutti) e, sicuramente poi, con l’opera di Platone e Aristotele. Se collocati in epoca socratica, i Dissoi logoi anticiperebbero la raffinata indagine teorica di questi ultimi; invece, se ritenuti contemporanei o a loro posteriori, potrebbero essere il frutto di un esercizio scolastico riferibile a uno o più maestri o studenti (non ateniesi) alle prese con problemi di elaborazione logico-retorica, se non un prodotto della seconda sofistica; 2) collocare lo scritto all’interno della tradizione relativistica: in questo caso verrebbe meno la possibilità di considerare i Dissoi logoi una semplice esercitazione scolastica, dato che da essi si dovrebbe evincere – nonostante l’apparente povertà argomentativa – una vera e propria tesi filosofica.
1 A dire il vero, anche sulle caratteristiche del dialetto dorico si sono sollevate perplessità, cfr. infra note 25 e 40. Un brillante riepilogo delle problematiche connesse all’opera è in Burnyeat 1997, III, pp. 106-107.
Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
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INTRODUZIONE
Ovviamente, a questo punto, occorrerebbe definire opportunamente il significato di ‘relativismo’ così da verificarne la valenza rispetto alle altre variabili; 3) procedere a partire dalla struttura stessa dello scritto e di conseguenza dirimere in un modo o nell’altro sia la questione storico-filosofica sia quella relativa alla ‘definizione’ medesima di ‘che cosa sia’ lo scritto oggi abitualmente denominato Dissoi logoi; 4) procedere a partire dalla tradizione del testo e quindi privilegiare il ruolo che lo scritto vi ha giocato, così da ricostruirne funzione e carattere in base all’interpretazione che ne è stata data nel corso dei secoli. La relativa arbitrarietà insita nelle prime due opzioni e la inevitabile precarietà della quarta inducono a privilegiare la terza opzione. Ma anche in questo caso la situazione non è definita con sicurezza: anzitutto, i capitoli che compongono l’opera non hanno a prima vista una struttura omogenea. Come poi si vedrà nel dettaglio2, solo i primi quattro hanno uno svolgimento dichiaratamente antinomico; nel quinto e nel sesto la contrapposizione tra tesi e antitesi è presente, ma per identificarla l’autore non usa l’espressione «dissoi logoi»; nel settimo, un’asserzione è controbattuta (ed è sottintesa la tesi sostenuta), mentre nell’ottavo e nel nono due distinte tesi sono difese (e quelle opposte da contrastare sono sottintese, oppure non ci sono pervenute). Tuttavia nell’insieme il carattere fondamentalmente antinomico dell’opera non si può negare, e questa è comunque una prima importante acquisizione per lo più accolta. Accanto a ciò, qualche ulteriore passo innanzi si potrebbe fare solo se almeno la definizione del momento storico in cui i Dissoi logoi furono scritti fosse decidibile, così da coniugare la struttura dell’opera a un contesto di riferimento non troppo vago. Purtroppo a questo riguardo esistono serie difficoltà. Cionondimeno sarà necessario affrontare tale questione fin da subito, se davvero si intende cercar di guadagnare qualche ulteriore più sicuro punto d’appoggio: sembra essere infatti questa l’unica ragionevole via a disposizione. Nel concreto si contrappongono due ipotesi, entrambe dipendenti dai seguenti pochissimi dati ricavabili dall’interno del testo: a) l’allusione, in 1.8, ai «recenti fatti di guerra» che hanno visto gli Spartani vittoriosi sugli Ateniesi e sui loro alleati;
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Cfr. infra pp. 25-27.
INTRODUZIONE
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b) il richiamo, in 1.8-10, a una tradizione mitico-storica che, dopo la vittoria degli Spartani sugli Ateniesi, in successione a ritroso evoca la vittoria degli Elleni contro i Persiani, la guerra troiana, la guerra di Tebe contro Argo (il riferimento è alla spedizione dei Sette contro Tebe, per la quale il richiamo è a Eschilo), la lotta tra Centauri e Lapiti, la guerra degli Dei e dei Giganti; c) la citazione dei discepoli di Anassagora e di Pitagora, in 6.8; d) la citazione dello scultore Policleto che insegna la sua arte al figlio, sempre in 6.8; e) l’allusione alle guerre persiane in 3.8, considerate concluse nel 479-478 a.C. 1.1. Due ipotesi di datazione storica. Ma ecco in breve riassunte le due alternative ipotesi: A) il terminus post quem per i Dissoi logoi è costituito dal riferimento alla conclusione della cosiddetta ‘Guerra del Peloponneso’ (413-404 a.C.) in cui gli Spartani (e i loro alleati) sconfissero gli Ateniesi (e i loro alleati), per cui l’epoca della scrittura va collocata intorno al 400 a.C.; il terminus ante quem potrebbe esser dato dal modo in cui sono menzionati gli scolari di Anassagora (6.8: Ἀναξαγόρειοι): un appellativo sicuramente adoperato in riferimento ad Archelao (successore di Anassagora nella scuola di Lampsaco) e ai suoi seguaci ateniesi3. Secondo Becker – Scholz4 occorre pensare al 380 a.C. come data prima della quale tale appellativo poteva essere stato adoperato. Non è chiaro tuttavia in base a quali considerazioni Peter Scholz abbia stabilito ciò5; è da tener presente, infatti, che secondo Diogene Laerzio (2.16-17), Archelao sarebbe stato maestro di Socrate; B) il terminus post quem è costituito dal riferimento alla vittoria degli Spartani sugli Ateniesi (e i loro alleati) a Tanagra, nel 457 a.C.; in questo caso il terminus ante quem deriva dal valore da attribuire alla citazione dello scultore Policleto che risulta essere, in quel momento, padre di un solo figlio, τὸν υἱόν, non di più di uno, come si ricava invece dal Protagora di Platone: in 328c infatti Paralo e Santippo, giovani figli di Pericle, sono 3 Gli Ἀναξαγόρειοι sono ricordati da Plat., Crat. 409b 6. Diels – Kranz 61.6, II, p. 50, in base alla cronaca bizantina di Giorgio Sincello, attribuiscono al filosofo presocratico Metrodoro di Lampsaco, amico di Anassagora, tale definizione di appartenenza. 4 Cfr. Becker – Scholz 2004, p. 16: «Einen immerhin ungefähren terminus ante quem gibt die Erwähnung von Schülern des Anaxagoras (…), von denen man in dieser Form nur bis etwa 380 v. Chr. gesprochen haben dürfte». 5 Forse la data di scrittura del Cratilo di Platone, in cui si citano gli Ἀναξαγόρειοι? Abitualmente però tale dialogo è collocato dopo il 370 a.C., nel cosiddetto periodo dialettico.
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INTRODUZIONE
citati come coetanei dei «figli di Policleto», οἱ Πολικλείτου ὑεῖς. Essendo poi Paralo e Santippo entrambi morti durante la peste del 429 descritta da Tucidide, questa data dovrebbe costituire un affidabile terminus ante quem per la collocazione storica della scena presentata nel dialogo platonico6, fatta salva la giusta cautela da esercitare relativamente all’affidabilità di Platone nella ricostruzione delle sue ambientazioni storico-narrative. Qualora tuttavia si accolga tale indizio cronologico, le conseguenze si riverberano anche nei Dissoi logoi: infatti se il 429 costituisce il terminus ante quem per l’ambientazione del Protagora (e all’epoca i figli di Policleto – coetanei di Paralo e Santippo – erano due), ecco che si può supporre che il terminus ante quem per i Dissoi logoi debba risalire ad almeno una decina di anni prima. Nel 440 Policleto potrebbe aver avuto solo un figlio7, coetaneo di uno dei figli di Pericle. La prima proposta è quella comunemente sostenuta dagli studiosi, sia dai primi che si occuparono del testo – al riguardo si veda in particolare l’edizione di Diels – Kranz, in FragVors 90, II, p. 405 n. 18 –, sia da Untersteiner 1954, III, pp. 148 e 152, da Robinson 1979, pp. 34-41, e ora da Becker – Scholz 2004, p. 16, nelle loro edizioni. La seconda proposta si deve a Santo Mazzarino; non sembra aver avuto molta fortuna sinora9, anche se le obiezioni mossegli da Untersteiner 1967, II, pp. 168-169, e da Robinson 1979, pp. 38-41, non risultano di fatto risolutive. La datazione ‘alta’ proposta da Mazzarino 1966, pp. 285-299, si fonda sui seguenti elementi. (1) In 1.8 l’autore dei Dissoi logoi si sta riferendo, come se si trattasse di un’unica vicenda bellica, «agli avvenimenti più recenti», τὰ νεώτατα: 6 L’epoca in cui è ambientato questo dialogo è comunque fittizia. Gli studiosi tendono a collocarla tra il 431 e il 420, in occasione del secondo viaggio di Protagora ad Atene (per la datazione di quest’ultimo, al 422-421, cfr. Capizzi 1955, pp. 222-223). A favore della data più antica sta – oltre all’accenno ai figli di Pericle come presenti alla discussione e Pericle stesso come ancora vivo – l’assenza di qualsiasi accenno alla guerra del Peloponneso. Cfr. già Burnet 1950, pp. 110-113, e Taylor 1976, p. 64. Ora, cfr. Manuwald 1999, pp. 77-82. 7 Utile a precisare la datazione di Policleto è la circostanza che lo vuole allievo di Hageladas: siccome di costui si conoscono le date di realizzazione di alcune sue statue di vincitori (520, 516 e 507 a.C.), Mazzarino 1966, pp. 288-289, propone una datazione piuttosto alta della nascita di Policleto e della sua vita, cosicché risulta da escludersi l’eventualità che nel 404 a.C. egli possa educare alla sua arte un suo eventuale secondo figlio. 8 Cfr. anche infra, pp. 22-24. 9 Si limita a scrivere Peter Scholz in Becker – Scholz 2004, p. 16 n. 11: «Alle Versuche, den Text früher als das vorgeschlagene Datum zu datieren, so z.B. in die Zeit um 450/440 v. Chr. (Mazzarino, Untersteiner [sic!]) oder in das späte 4. Jh. v. Chr., können nicht überzeugen».
INTRODUZIONE
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con questa espressione egli intende la recente «vittoria degli Spartani sugli Ateniesi e i loro alleati» che è affiancata «alla vittoria dei Greci sui Persiani». Ebbene, se scrivendo «vittoria degli Spartani sugli Ateniesi» avesse pensato alla guerra del Peloponneso (431-404), l’autore avrebbe sorprendentemente tralasciato di ricordare la significativa vittoria spartana sugli Ateniesi avvenuta mezzo secolo prima a Tanagra (457): infatti nessuno, nel 400, avrebbe potuto ritenerla un «avvenimento recente» da collegarsi alla vittoria di Spartolo (429) o, ancor più lontana nel tempo, a quella navale di Egospotami (404). Tanagra è ben più prossima alle guerre persiane, tradizionalmente considerate concluse nel 479-478, dopo Platea e Micale e la presa di Sesto, sull’Ellesponto. Invece se, come Mazzarino propone, si colloca la composizione dei Dissoi logoi prima della guerra del Peloponneso (per esempio intorno al 440), ecco che con l’espressione «vittoria degli Spartani sugli Ateniesi e i loro alleati» l’autore non può che riferirsi proprio a Tanagra, per di più in immediato confronto con le guerre persiane, da poco concluse10. (2) Lo scultore Policleto tentò di insegnare la sua arte a «un solo suo figlio» (6.8); l’autore dei Dissoi logoi mostra di non avere notizia alcuna di un secondo figlio. Poiché la scena del Protagora di Platone (dove si allude a due figli di Policleto) va collocata – se non nel 431 – al più tardi nel 423-2, i Dissoi logoi debbono essere considerati anteriori a tale epoca. (3) La datazione ‘alta’ per la nascita di Policleto (allievo di Hageladas, già attivo nel 520 a.C.) non si concilia con il fatto che egli avesse avuto un solo figlio qualora si collochino i Dissoi logoi a fine V secolo. (4) Le guerre persiane sono considerate un’unità nell’antica storiografia: invece la guerra del Peloponneso è ritenuta un insieme unitario solo tardi, con Tucidide. Perciò l’autore dei Dissoi logoi non avrebbe potuto alludere, con la semplice espressione «gli avvenimenti più recenti», alla vittoria degli Spartani contro gli Ateniesi e i loro alleati riferendosi a vicende all’epoca considerate ben distinte quali la battaglia di Egospotami (404) o quella di Spartolo (429). E non c’è dubbio che in greco dorico ἁ νίκα sia singolare e indichi per lo più un concetto puntuale. (5) Nella descrizione dei costumi dei barbari e dei non barbari (cap. 2 dei Dissoi logoi), in linea di massima l’autore dei Dissoi logoi appare indipen Esemplifica Mazzarino 1966, pp. 290-291: «Se noi trovassimo uno scritto, in cui si elenchino, come avvenimenti cronologicamente ordinati, ad esempio la vittoria prussiana del 1870 e poi una “vittoria in cui gli alleati vinsero i Tedeschi”, è chiaro che quest’ultima non potrebbe cercarsi nella guerra 1939/45, ma solo nella guerra 1914/15. Altrimenti l’autore direbbe “le vittorie” (…), o preciserebbe ulteriormente». 10
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INTRODUZIONE
dente da Erodoto (480-430 a.C.) e potrebbe rifarsi a opere anteriori quali quelle di Ecateo o di Dioniso di Mileto o Charone di Lampsaco o Damaste e Xantho lidio. (6) In 7.1 l’autore dei Dissoi logoi mostra di essere un democratico moderato che nelle elezioni non accetta un puro sistema di sorteggio, dato che per questa via avrebbero potuto essere premiate candidature non democratiche: non avrebbe cioè mai potuto riconoscersi nella democrazia ateniese di età erodotea11. Untersteiner 1967, II, pp. 168-170, obietta a Mazzarino: (1) se si fanno concludere le guerre persiane con la pace di Callia (449448) e non con Platea, Micale e Sesto (479-478), la difficoltà è superata, dato che anche la battaglia di Tanagra sarebbe compresa all’interno delle guerre persiane: solo la pace di Callia avrebbe determinato quel mutamento decisivo nella politica di Atene che avrebbe chiuso definitivamente il confronto con la potenza orientale. In questo modo, anche il nesso tra guerre persiane e guerra del Peloponneso diventa molto stretto: meno di vent’anni; (2) occorre distinguere tra la data in cui è collocata la scena drammatica e quella della composizione del Protagora (per quest’ultima, si pensa in genere al 395-394). Ci si ritrova così in una fase successiva alla guerra del Peloponneso, non anteriore (il che sarebbe inevitabile qualora si accetti di richiamarsi alla data della scena drammatica); (3) non va sottovalutata la generale mancanza di accuratezza di Platone nei suoi richiami storici. Ciò può produrre anacronismi: in questo caso, a proposito del numero dei figli di Policleto in occasione della citazione in Protag. 328c, vale a dire nel 431. Dato che in Dissoi logoi si accenna a ‘un solo’ figlio, è ben possibile che Platone, citando ‘due’ figli di Policleto, si confondesse con la situazione del 395-394, epoca di composizione del Protagora e non della scena drammatica. Quest’ultimo punto è, peraltro, indifendibile. Lo riconosce già Robinson che al riguardo, pp. 36-37, obietta a Untersteiner: a) sappiamo collocare con sicurezza nel 520 a.C. una delle statue costruite da Hageladas (il maestro di Policleto); b) Hageladas avrebbe dovuto avere, a quella data, almeno 20 Inoltre, occorre segnalare che solamente qualche decennio prima della tirannide dei Trenta divenne possibile ‘bocciare’ il candidato, anche se sorteggiato, al momento della docimasia (cfr. Rossetti 1980, pp. 45-46); perciò, solo se si sta alla datazione ‘alta’ dei Dissoi logoi, è pienamente comprensibile la ‘preoccupazione’ dell’Anonimo per il metodo del ‘sorteggio’ senza correttivi. 11
INTRODUZIONE
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anni; c) Hageladas avrebbe perciò dovuto avere all’incirca 80 anni nel 460, quando Policleto era agli inizi della sua carriera e potrebbe lui aver avuto allora 20 anni; d) se così fosse, Policleto avrebbe avuto 80 anni nel 400 quando, secondo Untersteiner, non avrebbe ancora avuto il suo secondo figlio. Inoltre, se i figli di Policleto sono comunque coetanei di quelli di Pericle, cioè di Paralo e Santippo, e questi ultimi per certo avranno avuto una ventina o trentina d’anni nel 429 (data della peste d’Atene) quando morirono; e se si ritiene anacronistico, come fa Untersteiner, il riferimento a Paralo e Santippo: ebbene, si è costretti a dedurre che i figli di Policleto – esplicitamente definiti ἡλικιῶται – siano stati tali (cioè abbiano avuto la stessa età di quelli di Pericle) all’epoca in cui fu scritto il Protagora, cioè intorno al 395. Ma, in questo caso, come spiegare che almeno uno dei due figli di Policleto dovrebbe esser nato dopo il 400 (data in cui i Dissoi logoi sarebbero stati scritti e in cui Policleto, stando a 1.8, avrebbe dovuto avere un solo figlio) e aver nel 395 almeno una ventina d’anni (cioè la stessa età di quelli di Pericle)? Ma anche la prima obiezione di Untersteiner a Mazzarino è contestata da Robinson, pp. 37-38: è certo possibile posticipare alla pace di Callia (449-448) la conclusione delle guerre persiane, tuttavia tale scelta appare del tutto ininfluente. Occorre osservare infatti che in nessun punto l’autore dei Dissoi logoi parla di due successive e ravvicinate guerre, la prima tra Greci e Persiani e la seconda tra Atene e Sparta12. L’espressione ἐν τῷ πολέμῳ (1.8) semplicemente allude a una generica ‘situazione’ di guerra, esemplificata immediatamente dopo col richiamo a differenti occasioni di combattimento e di vittoria o sconfitta, più o meno lontane o vicine nel tempo. Per parte sua Robinson 1979, pp. 38-41, obietta a Mazzarino: (1) la capacità dello scultore Policleto di insegnare o meno al proprio figlio o figli la sua arte è un topos ricorrente; l’autore dei Dissoi logoi avrebbe semplicemente commesso un errore nel dettaglio relativo al/i figlio/i; (2) è Platone che, per bocca di Socrate, commette l’errore nel riferirsi a un figlio o a più figli; (3) non c’è nessun errore: si può ritenere che la dramatic date del Protagora vada collocata nel 433 e che solo un figlio di Policleto fosse ancora vivo nel 400. Vale a dire: l’espressione τὸν υἱόν (un figlio) non esclude che precedentemente i figli fossero due;
Robinson 1979, p. 38: «What the author is discussing is not necessarily two consecutive wars, but rather two instances of victory (νίκα) in war». 12
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(4) non c’è nessun errore anche se si facesse riferimento al 450 come momento in cui Policleto avrebbe potuto avere due figli, ma che solo uno avrebbe raggiunto l’età cui insegnare con profitto la sua arte; (5) nei Dissoi logoi si fa riferimento solo a quello dei due figli di Policleto che di fatto divenne scultore; il fatto che ci fosse anche un altro figlio è del tutto irrilevante. Ebbene: le prime due obiezioni presuppongono un errore da parte dell’autore dei Dissoi logoi o da parte di Platone; ma ciò risulta di fatto non verificabile: Robinson medesimo ritiene pericoloso argomentare ad ignorantiam (p. 40). Il terzo e il quarto argomento si possono ritenere più solidi perché si fondano sulla correttezza sia dell’uno che dell’altro scrittore. Sono però entrambi ipotetici e Robinson riconosce che il terzo – se la relativa assunzione fosse vera – toglierebbe validità all’ipotesi di datazione di Mazzarino; ammette peraltro che se fosse vera l’assunzione prevista dal quarto argomento (e cioè che nel 450 Policleto poteva avere due figli ma che solo uno avrebbe raggiunto l’età utile all’apprendimento dell’arte della scultura), la tesi di Mazzarino ne uscirebbe rafforzata. Quanto al quinto argomento: sembra l’unico in grado di dar ragione delle discrepanze senza richiedere particolari assunzioni, e per questo – ritiene Robinson – può essere accettato. Come è del tutto evidente, le obiezioni di Robinson si riducono di fatto a poca cosa e non sembrano adeguate a scalfire l’ipotesi di datazione ‘alta’ proposta da Mazzarino13; allo studioso non resta che dichiarare, p. 41: «I conclude that the Δ. Λ. was written some time around 403-395 (the date accepted by most scholars14). This seems to me a date which both withstands the arguments of Mazzarino and accounts most simply for the treatise’s philosophical contents». Questa conclusione però da un lato sembra appoggiarsi a una communis opinio per lo più rinunciataria a confrontarsi con l’ipotesi di Mazzarino; dall’altro, lascia del tutto aperta la spiegazione prefigurata nell’obiezione (4) di Robinson a Mazzarino: perfezionandola, si può infatti tranquillamente
Ho già segnalato tale inadeguatezza in Maso – Franco 1995, p. 279. Oltre alle opinioni degli studiosi citati da Robinson medesimo, cfr. Untersteiner 1967, pp. 167-168, che cita anche Christ 1885, p. 48 n. 1; Trieber 1892, p. 216; H. Gomperz 1912, p. 138; Nestle 1940, p. 437. Quindi anche Giannantoni 1963, p. 261. A parere di costoro si tratta di uno scritto attribuibile all’epoca di Platone. Untersteiner inoltre esclude che lo scritto, come ipotizza invece Th. Gomperz 1910, p. 153, possa essere attribuito all’epoca postplatonica. 13 14
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sostenere quanto sopra già illustrato nella presentazione dell’ipotesi di datazione più ‘alta’. E cioè: nel 440 Policleto (all’epoca trenta/quarantenne) potrebbe aver avuto solo un figlio, della stessa età (ἡλικιώτης) di uno dei figli di Pericle. Un secondo figlio di Policleto, nato successivamente, sarebbe stato della stessa età (ἡλικιώτης) dell’altro figlio di Pericle morto insieme al fratello nel 429. A tale data avrebbe potuto avere almeno dieci anni, dato che tutti questi giovani sono citati come evidentemente in grado di essere incamminati nella strada dell’arte in cui i padri erano maestri. Scrive esattamente Platone: οἱ Πολυκλείτου ὑεῖς, Παράλου καὶ Ξανθίππου τοῦδε ἡλικιῶται, οὐδὲν πρὸς τὸν πατέρα εἰσίν, καὶ ἄλλοι ἄλλων δημιουργῶν, «i figli di Policleto, della stessa età di questi due giovani, Paralo e Santippo, non sono nulla rispetto al padre: e ciò vale anche per i figli di altri artigiani», Protag. 328c.
Anche Giuseppe Cambiano si mostra più propenso ad accogliere la datazione ‘bassa’. Per parte sua15 segnala almeno una difficoltà nella proposta di Mazzarino: l’uso dell’imperfetto, in 6.8, a proposito degli Anassagorei. L’Anonimo sta contrapponendo, alla tesi della non insegnabilità della sapienza e della virtù, quella dell’insegnabilità. Al secondo argomento presentato – in base al quale «se (sapienza e virtù) fossero oggetto di insegnamento ci sarebbero dei maestri riconosciuti, come per le arti» – obbietta: πρὸς δὲ τὰν δευτέραν ἀπόδειξιν, ὡς ἄρα οὐκ ἐντὶ διδάσκαλοι ἀποδεδεγμένοι, τί μὰν τοὶ σοϕισταὶ διδάσκοντι ἄλλ’ ἢ σοϕίαν καὶ ἀρετάν; {ἢ} τί δὲ16 ‘Αναξαγόρειοι καὶ Πυθαγόρειοι ἦεν; «Quanto al secondo argomento, per il quale non vi sarebbero maestri riconosciuti, che cosa altro insegnano i sofisti se non saggezza e virtù? Che altro volevano essere (ἦεν) i discepoli di Anassagora e Pitagora (scil. se non maestri di saggezza e virtù)?17»
La forma verbale ἦεν dell’ultima proposizione interrogativa, un imperfetto, rinvia a un passato che male sembrerebbe conciliarsi con la datazione ‘alta’ indicata da Mazzarino18. In realtà si può osservare che: (a) il
Cambiano 1971; cfr. la riedizione aggiornata 1991, pp. 118-119 n. 6. {ἢ} τί δὲ Wilamowitz, DK, Robinson, BS. 17 Moreno Moreno 2015, p. 11, segnala che il termine σοϕισταὶ è da intendersi in senso ampio (cioè «maestri»), dato che né Pitagora né Anassagora sono sofisti. Inoltre, lo scritto è da ritenersi di redazione ‘alta’ perché, se fosse della fine del V secolo, «se podría esperar una lista algo más larga». 18 Cfr. Cambiano 1991, p. 119: «Accettando la datazione 450-440, resterebbe da spiegare come fosse possibile parlare, già in tali anni, di Anassagorei come maestri del passato». 15 16
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problema sembra porsi solo per gli allievi di Anassagora, non per quelli di Pitagora (collocati peraltro, senza soluzione di continuità, in parallelo con gli Anassagorei). Inoltre (b) l’imperfetto potrebbe spiegarsi se inteso con valore qualitativo: può trattarsi di un ‘imperfetto di intenzione’ del quale va rilevata la valenza ipotetica19 che attenua di molto il rinvio al passato. In conclusione: la datazione ‘alta’ proposta da Mazzarino non risulta scalfita dalle obiezioni che le sono state mosse; anzi, essa sembra tenere in adeguata considerazione tutti gli elementi che è stato possibile evincere dal testo, mentre il quinto punto dell’argomentazione di Robinson funziona solo se si rinuncia a collocare nella giusta evidenza il richiamo a un figlio (e non a due) di Policleto. Inoltre, datando al 440 a.C. i Dissoi logoi, una serie di altri elementi segnalati da Mazzarino o da altri studiosi trova adeguata collocazione e, di conseguenza, rafforza l’ipotesi. In particolare: a) non ci sono problemi per la progenitura di Policleto; b) ἁ νίκα di 1.8 mantiene il suo valore puntuale: il riferimento è a una precisa fase di combattimento; c) il valore unitario di ἐν τῷ πολέμῳ si applica perfettamente al periodo delle guerre persiane; d) la successione di battaglie presentata in 1.8-10 acquista un suo senso logico e cronologico: si tratta di un percorso ‘a ritroso’ e che, insieme, procede dalla realtà immediata dei fatti storici (τὰ νεώτατα) alle vicende epiche e, addirittura, a quelle mitologiche: vittoria degli Spartani sugli Ateniesi, vittoria dei Greci sui Persiani, guerra di Troia, guerra tra Argo e Tebe, battaglia dei Centauri e dei Lapiti, battaglia degli Dei e dei Giganti; e) la mescolanza tra vicende storiche ed epico-mitiche di 1.8-10 si giustifica con il fatto che né Erodoto né Tucidide avevano ancora pubblicato i loro lavori nel 440 e quindi il loro approccio alla storia non era diventato canonico; la pubblicazione dell’opera di Erodoto va collocata intorno al 420 e quella di Tucidide almeno cinquant’anni dopo la data ‘alta’ dei Dissoi logoi; f) così pure, nel confronto tra i costumi dei barbari e dei non barbari in occasione della definizione di ciò che è bello e turpe (2.9-17), l’approccio appare comprensibilmente non erodoteo-tucidideo;
Untersteiner 1967, ad loc., traduce: «Che cosa furono gli Anassagorei e i Pitagorici?»; sulla stessa linea sia Robinson 1979: «And what were the followers of Anaxagoras and Pythagoras?», sia Becker – Scholz 2004: «Was waren die Anhänger des Anaxagoras oder des Pythagoras (sc. Anders als Lehrer der Arete)?», sia Laks – Most 2016: «Et qu’étaient les Anaxagoréens et les Pythagoriciens?». 19 In pratica, «volevano essere» corrisponde a un «vorrebbero essere». Per l’imperfetto di intenzione, cfr. Kühner – Gerth 1966, § 382, 7.
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g) il richiamo ai soli Pitagora e Anassagora (6.8) come capiscuola trova un’evidente giustificazione; h) il fatto che l’autore dei Dissoi logoi si definisca un ‘iniziato’ (μύστας, 4.4) può conciliarsi facilmente con la temperie culturale della metà del V secolo, dove il ruolo della religione e degli oracoli è ben diverso da quello che a essi è attribuito all’epoca di Tucidide; così pure, non tucidideo è l’atteggiamento mostrato nei confronti del mito e della tradizione epica20; i) il richiamo, in 3.8, all’eventualità che il barbaro stia per sopraffare la Grecia (μέλλοντος τῶ βαρβάρω τὰν Ἑλλάδα λαβὲν) si spiega più naturalmente come una allusione alle guerre persiane che non al periodo di tensione successivo al 41221; l) si spiega la non conoscenza (cfr. la sezione 7), da parte dell’Anonimo, della pratica della docimasia in occasione del ‘sorteggio’ per la nomina a cariche pubbliche22; m) l’uso frequente23 di ἐγώ per ribadire la centralità e la paternità dell’autore rispetto a quanto si va affermando e discutendo. Si tratta di un uso tipicamente arcaico nella tradizione retorica e filosofica, in contrasto con i modelli argomentativi del dialogo o del trattato abituali all’epoca di Platone. Rimane a questo punto un’altra eventualità: è possibile che lo scritto sia tardo e quindi che la ricostruzione storica che in esso appare compiuta sia solo il frutto di una semplice elaborazione di scuola? In questo caso potremmo aver a che fare con l’opera, in dialetto dorico, di un tardo maestro o di un erudito che si esercita nella gestione e nel riuso di una serie di tematiche filosofico-sofistiche basandosi sui dati storici e le competenze linguistiche di cui era in possesso. È questa la supposizione di Thomas Conley24. Lo studioso sostiene che non solo nessuno dei dati storici che si evincono dal testo dei Dissoi logoi permette di determinarne con certezza la data di composizione: echi e 20 Per un confronto tra l’approccio dell’autore dei Dissoi logoi e Tucidide, si veda sempre Mazzarino 1966, pp. 294-299. 21 Per aggirare la difficoltà Robinson 1979, p. 183, suggerisce che l’autore «is trying to universalize a moral point». 22 La ‘docimasia’, cioè quel controllo dei requisiti del candidato che ne poteva interdire l’elezione, è dubbio che fosse attestata all’epoca della datazione ‘alta’ dei Dissoi logoi. Cfr. Staveley 1972, pp. 57-60. Ci sono pervenute quattro orazioni di Lisia relative a processi di docimasia: 16, 25, 26, 31, e risalgono a dopo il governo dei Trenta tiranni. 23 Cfr. infra, pp. 15-16. 24 Un’ipotesi analoga è anche quella formulata da Fabricius 1724, p. 617, che identificava come autore lo stoico Sesto di Cheronea, del II sec. d.C., cfr. infra n. 62.
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paralleli al massimo consentono di stabilire un terminus a quo, ma nessun terminus ad quem (e tanto meno un terminus ante quem). Nemmeno si può, a suo parere, decidere con sicurezza se Platone fosse influenzato dai Dissoi logoi, oppure se, viceversa, l’autore dei Dissoi logoi fosse influenzato da Platone. Anche la questione del dialetto dorico costituisce un problema: si tratta sempre di puro dialetto dorico oppure in molti casi è intervenuta la normalizzazione (in direzione del dorico) da parte degli editori25? Ma al di là di queste considerazioni del tutto opinabili pur se lecite, il punto fondamentale da cui procede Conley è la constatazione che dei Dissoi logoi nessuno, prima della loro ‘identificazione’ in alcuni manoscritti della tradizione delle opere di Sesto Empirico, aveva mai sentito parlare26. Questo gli ha consentito di formulare la sua ipotesi provocatoria 27 e, come egli stesso ammette, puramente speculativa: quella per cui «the Dissoi logoi was composed in twelfth or thirteenth century Byzantium or any such thing» (p. 63). Ovviamente non val la pena addentrarsi ulteriormente in questo azzardato ma isolato gioco, nel quale molti tasselli – da quello della tradizione del testo a quello dell’uso del dialetto dorico e della pratica della mise en scène a scopo didattico – sono fatti combaciare; rammentare però anche questa
25 Al riguardo, cfr. Conley 1985, pp. 61-62. Come ricorda Robinson 1979, pp. 2-3, i primi tentativi di normalizzazione in direzione del dialetto dorico (-έν per -εῖν, α per η e simili) si devono al Fabricius nella sua edizione del 1724; anche nell’edizione di Orelli 1821 la strada seguita sarà quella di privilegiare i doricismi. Pure Trieber 1892 scommetterà sull’originario dialetto dorico del testo. Si tenga peraltro presente che uno dei migliori manoscritti, il Parisinus gr. 1963 (P3 = A DK), offre – accanto a specifiche forme doriche – alcune notevoli forme ioniche: p.e. σοφίη, in 5.7 e 6.1 (cfr. Robinson 1979, p. 24). Il Parisinus gr. 1967, per parte sua, in 3.10 presenta il dorico ἀλαθινοῖς, come correzione di ἀληθινοῖς. Più in generale si osservi che, in diverse occasioni, nelle vicinanze di un vocabolo in dialetto dorico possiamo ritrovare il medesimo vocabolo in ionico: p.e. in 1.10 c’è μάχη e alla riga successiva μάχα; in 1.1 i manoscritti danno ἐν τῇ Ἑλλάδι, mentre in 6.4 danno ἐν τᾷ Ἑλλάδι; in 3.16 e 3.17 abbiamo rispettivamente: ἀληθὴς, ἀλάθειαν, e, immediatamente dopo nel titolo della successiva quarta sezione, i manoscritti sono incerti tra ἀλαθείας e ἀληθείας (come pure in 4.1, sempre tra ἀλαθείας e ἀληθείας). Conley contesta anche il richiamo alla guerra del Peloponneso da intendersi come «recente vicenda storica»; c’è un possibile problema testuale: non in tutti i manoscritti si legge νεώτατα. I migliori, sostiene a p. 62, hanno νεότητι o νεότατι, per cui sarebbe ragionevole tradurre: «in terms of recentness» oppure «on a recentness scale». 26 Conley 1985, p. 60: «The Dissoi logoi, in short, was ‘missing’ – if one assumes that it was indeed written around 400 B.C. – for more than eighteen hundred years». 27 Non è provocatoria ma a tutti gli effetti insostenibile l’ipotesi formulata da Gruppe 1840, pp. 144-153, e citata come «the most eccentric» da Robinson 1979, p. 43: stando a essa l’autore dei Dissoi logoi sarebbe un ebreo alessandrino vissuto all’epoca di Caligola, lo stesso cui sono attribuiti i cosiddetti Frammenti di Archita.
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eventualità testimonia ancor di più l’insicurezza su cui poggiano tutti gli elementi di supporto abitualmente sfruttati dagli studiosi. 1.2. Caratteristiche dello scritto. Occorre ora affrontare più accuratamente una questione in qualche modo già emersa: i Dissoi logoi sono un unico scritto e sono di un unico autore? è un’opera comunque attribuibile allo stesso periodo in tutte le sue parti? Nell’attuale suddivisione del testo tradito28 si distinguono nove sezioni. Di esse solo le prime quattro sono accompagnate da una titolatura e iniziano proponendo con chiarezza una doppia argomentazione (δισσοὶ λόγοι, appunto) rispetto a un preciso tema. Nelle altre cinque sezioni lo svolgimento diventa via via più frettoloso e, a prima vista, sembra meno preciso nel discutere per opposti argomenti. Soprattutto le sezioni 8 e 9 appaiono lacunose29. Si è perciò pensato che si potesse distinguere più di un autore (oppure più di uno ‘studente’) alle prese con un’esercitazione retorica. In realtà, la recente approfondita analisi sulla struttura dei Dissoi logoi effettuata da Daniel Moreno Moreno consente di veder rafforzato il principio della coerenza interna del lavoro30: questo studioso, in particolare, rileva che la procedura logica che prevede due tesi contrapposte (per esempio: [a] ‘altro è il bene, altro è il male’; [b] ‘bene e male coincidono’) conduce, in tutte le sezioni, in direzione della negazione della seconda attraverso l’evidenziazione della fallacia che la supporta31: nel caso specifico, si propone un’interpretazione relativistica della seconda per cui sia [b1] ‘ciò che per alcuni è bene per altri è male’ sia [b2] ‘al medesimo
Per questo si veda infra pp. 25-27. Taylor 1911, p. 122, ritiene che anche l’inizio dell’opera sia andato perduto. 30 In precedenza, soprattutto H. Gomperz 1912, pp. 186-187, aveva difeso l’unitarietà dello scritto, attribuendo alla fretta il risultato cui ci si trova di fronte. Una fretta che però non impedisce di intravvedere la struttura antilogica dell’intero scritto, per cui anche nei capitoli finali «Wir in ihrem Bau eine Vereinfachung des Baues der Abschnitte I-IV, und nicht etwa umgekehrt in diesem ausgeführteren eine Ausgestaltung jenes gedrungeneren Baues zu erblicken haben», p. 187. 31 Moreno Moreno 2015, p. 14: «A mi juicio, queda bien clara la estructura del planteamiento: en primo lugar se dan a conocer dos tesis puestas frente a frente, después se expone a dónde llevaría seguir el camino que abre la segunda tesis y, cuando se está seguro de que los oyentes rechazan ese camino, se recuerda que hay otro, el primero, opción que no defiende con detalle – supongo que porque no se considera necesario». Là dove è esposta una sola tesi, quella antitetica è sottintesa e facilmente ricostruibile: così dunque nella sezione 8 («que cada persona sabe de una cosa») e nella sezione 9 («que una es la memoria y otra la sabiduría»), p. 20. Carlo Natali mi segnala che invece, per Aristotele, in caso di due ipotesi in contrapposizione, molto spesso la seconda è quella buona. 28 29
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individuo risulta ora bene, ora male’ ne sarebbero la ‘traduzione’ pratica: vale a dire, sarebbero due casi particolari riconducibili al caso generale: [b] ‘bene e male coincidono’. Alexander Becker ricostruisce con chiarezza questa situazione dal punto di vista logico32 proponendo una formulazione che attesta la relazione tra I-logos (= Identitätsthese, cioè [b]) e D-logos (= Differenzthese, cioè [b1] e [b2]). Il ragionamento si può così riassumere: I-logos dice che: [A] (a)(F) [(Fa ≡ ¬ Fa)], ‘Per ogni a e ogni F vale che: a è F se e solo se a non è F’. I-logos può però essere sviluppato nel seguente modo: [B] (a)(F) [(Fa ≡ ¬ Fa) ≡ ¬ (Fa ≡ ¬ Fa)], ‘Per ogni a e ogni F vale che: (a è F se e solo se a non è F) se e solo se non è vero che (a è F se e solo se a non è F)’. D-logos dice che: [C] (a)(F) [(Fa ≡ ¬ Fa) ∧ ¬ (Fa ≡ ¬ Fa)], ‘Per ogni a e ogni F vale che: (a è F se e solo se a non è F) e non è vero che (a è F se e solo se a non è F)’. Becker da ciò ricava: «Diese Formulierung macht deutlich, daß das Verhältnis von D– und I–Logos [cioè C] als ein Spezialfall des I-logos [cioè di B e quindi di A] aufgefaßt werden kann»33. Lo studioso tuttavia inserisce questo risultato formalmente corretto all’interno di un’approfondita indagine sulle modalità in cui la contrapposizione di tesi è gestita nella tradizione relativistico-sofistica a partire da Platone e, quindi, da Protagora, Eraclito, Callia, Gorgia, Antifonte. In base a ciò la sua interpretazione complessiva conduce a vedere nei Dissoi logoi un vero e proprio ‘esito’ della tradizione ‘relativistica’ della Grecia della fine del V secolo. Ma è evidente che [C] è un caso di [B] solo se si accetta che la congiunzione presente in [C] sia compresa all’interno del doppio condizionale presente in [B]: perciò il risultato in realtà è che le due asserzioni [b1] e [b2] solo fallacemente possono essere ricondotte all’asserzione [b] che identifica immediatamente «ciò che è bene» con «ciò che è male». Ma ciò allora implica che l’ispirazione dei Dissoi logoi non sia tanto relativistica, quanto piuttosto sofistica. Questo perché l’attenzione non sarebbe Becker – Scholz 2004, pp. 138-142. Becker – Scholz 2004, p. 139.
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posta esclusivamente nella difesa di un approccio in grado di accogliere diversi punti di vista, grazie all’introduzione di variabili di contesto decisive allo scopo: in realtà il più profondo interesse sarebbe dedicato alla mera contrapposizione delle tesi e alla gestione tecnica dell’argomentazione34. Detto altrimenti, il confronto sembra farsi più significativo se si procede al di là del pensiero di Protagora che si ricava senz’altro da Platone (alludo anzitutto al tema espressamente relativistico dell’homo mensura)35; immaginando una datazione ‘alta’ per i Dissoi logoi, ecco che il confronto si giocherà piuttosto intorno ai loci antilogici di pura matrice sofistica36. Se, dal punto di vista strutturale, l’unità dello scritto ha buone possibilità di ritenersi acquisita37, sempre a favore di essa può deporre pure il fatto che, quasi in tutte le brevi sezioni, volentieri l’autore intervenga direttamente usando la prima persona singolare38. Ciò accade in: 1.2: ἐγὼ δὲ καὶ αὐτὸς τοῖσδε ποτιτίθεμαι, «Io per parte mia mi associo a questi ultimi»; 1.11: ἐγὼ δὲ καὶ αὐτὸς τοῦτον διαιρεῦμαι τὸν τρόπον· δοκῶ γὰρ …, «Io per parte mia analizzo la questione secondo questo procedimento: ritengo che…»; 2.2: κἀγὼ πειρασεῦμαι, τόνδε τὸν τρόπον ἐξαγεύμενος, «E io per parte mia tenterò di darne spiegazione argomentando in questo modo»; Rossetti 1980, pp. 31-35, sottolinea che l’abilità nel gestire le fallacie depone a favore della competenza e delle qualità intellettuali dell’autore dello scritto. Castagnoli 2007, pp. 17-20, riconosce in 4.6 i passaggi chiave dell’argomentazione auto-confutatoria, successivamente sviluppata dialetticamente in Protagora, Platone e Aristotele. Gardella 2017 analizza la fallacia a dicto secundum quid ad dictum simpliciter nelle prime tre sezioni dei Dissoi logoi. Devo a Iker Martínez Fernández questa segnalazione. 35 Da segnalare che ciò permetterebbe di ridare nuovo peso alla tesi di H. Gomperz 1912, p. 162, una volta che il Protagora, cui lo studioso si riferiva nel rinvenire connessioni con i Dissoi logoi, non sia identificato meramente con il teorico del relativismo, quanto piuttosto con il sofista sostenitore dell’argomentazione antilogica. 36 La tradizione vuole appunto che Protagora per primo a ogni argomento abbia contrapposto un altro argomento: Ἕλληνές φασι Πρωταγόρου προκατάρξαντος παντὶ λόγῳ λόγον ἀντικεῖσθαι (Clem. Al., Strom. 6.65 = DK 80A20 / LM 31D27); cfr. Seneca, ep. 88.43. Diogene Laerzio cita ripetutamente le Antilogie di Protagora: 3.37 e 3.57. Cicerone, Brut. 12.46, le chiamava semplicemente loci. Sulla centralità dell’elemento antilogico nella filosofia di Protagora, cfr. soprattutto Schiappa 1991, pp. 89-102. 37 Tra i sostenitori invece della tesi secondo cui i Dissoi logoi sarebbero una compilazione di estratti di vari sofisti, c’è Zeller 1920, p. 1333. 38 Cfr. Moreno Moreno 2015, pp. 9-10. Questo tipo di approccio è in consonanza con la tesi dell’arcaicità dello scritto. Si pensi a Parmenide (p.e. fr. 2.1 DK, εἰ δ᾽ ἄγ᾽ἐγὼν ἐρέω; fr. 7.50 DK, ἐν τῶι σοι παύω) e soprattutto ad Empedocle (p.e. fr. 8.1 DK, ἄλλο δέ τοι ἐρέω; fr. 17.1 e 16 DK δίπλ᾽ ἐρέω; fr. 35 DK, αὐτὰρ ἐγὼ παλίνορσος ἐλεύσομαι; fr. 38.1 DK, εἰ δ᾽ἄγε τοι λέξω). 34
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2.26: ἐγὼ θαυμάζω, αἰ τὰ αἰσχρὰ συνενεχθέντα καλὰ ἐσεῖται, «Io mi stupisco che ciò che era stato portato come turpe sia poi considerato come bello»; 3.1: καὶ ἐγὼ τούτῳ πειρασοῦμαι τιμωρέν, «Io tenterò di sostenere quest’ultima tesi»; 3.7: ἐγὼ μὲν γὰρ οὐ δοκῶ· ἀλλὰ μᾶλλον …, «Io credo di no: farebbe meglio…»; 4.2: κἀγὼ τόνδε λέγω, «Anch’io affermo la stessa cosa»; 4.4: ‘μύστας εἰμί’ ... ἀλαθὴς δὲ μόνος ἐγώ, ἐπεὶ καὶ εἰμί, «“Io sono un iniziato” … vero sarebbe solo il mio discorso, perché io sono davvero un iniziato»; 5.11: ἐγὼ δὲ οὐ πράγματος τοσοῦτον ποτιτεθέντος ἀλλοιοῦσθαι δοκῶ τὰ πράγματα, «Io invece credo addirittura che una cosa non solo sia mutata da un’aggiunta di questo rilievo»; 5.15: ἐρωτῶ· ‘τὶ ἢ τὰ πάντα ἔστιν;’, «Chiedo: “È” rispetto a un unico aspetto o rispetto a tutti?»; 6.7: ἐγὼ δὲ κάρτα εὐήθη νομίζω τόνδε τὸν λόγον· γινώσκω γὰρ …, «Io trovo in effetti piuttosto ingenuo questo modo di ragionare: so che i maestri…»; 6.13: οὕτω λέλεκταί μοι ὁ λόγος, «Questo è il mio ragionamento»; καὶ οὐ λέγω … «io non affermo…; οὐκ ἀποχρῶντί μοι … «ma non mi soddisfano…»; 7.5: ἐγὼ ἥκιστα νομίζω δαμοτικόν, «In realtà io lo considero il meno favorevole»; 8.1: ‹τῶ δ᾽αὐτῶ› ἀνδρὸς καὶ τᾶς αὐτᾶς τέχνας νομίζω κατὰ βραχύ τε δύνασθαι διαλέγεσθαι, «Ritengo che spetti al medesimo individuo e alla medesima arte poter trattare dialetticamente in breve un argomento». E non basta: in più occasioni si evince che l’autore non interviene solo per sottolineare quanto sta dicendo: spesso prende posizione o si oppone esplicitamente a uno dei punti di vista proposti all’attenzione del lettore/ascoltatore. Così accade per esempio, in 1.11; 2.26; 5.6; 6.7; 6.1339. Questa omogeneità di registro e di stile presente nello scritto (unita al fatto che il dialetto dorico è adoperato sempre senza particolari variazioni linguistiche40) depone in Cfr. P. Scholz in Becker – Scholz 2004, pp. 16-17. È utile segnalare che molte delle varianti linguistiche di origine dorica presenti nei codici sono valutate e adottate dagli editori in base alla propria sensibilità linguistica e, ovviamente, alla tesi di fondo che ciascuno intende sostenere. Giustamente Classen 2004, p. 123, cita tra gli altri il caso della forma avverbiale καττωὐτό che tutti i manoscritti presentano in 5.2 ma che invece riportano καττοῦτο in 5.14 e κατὰ τοῦτο in 7.2. Tra gli editori c’è chi tra39
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direzione di un risultato chiaro: si è di fronte a una raccolta unitaria di loci frutto del lavoro di un unico autore di lingua dorica. 1.3. L’autore. Si può ora cercare di mettere meglio a fuoco la personalità dell’autore. Quanti hanno pensato a un’unica persona hanno evidentemente cercato di identificarla non solo in base alla propria sensibilità ed erudizione, ma anche cercando nel testo qualche riferimento oggettivo. Lo stesso Stephanus, in 4.4, invece di μύστας εἰμἰ leggeva Μίμας εἰμί41. Non è dato di sapere se si trattasse di pura congettura oppure se tale lezione fosse tratta da qualche manoscritto oggi perduto: tuttavia, come segnala sempre Robinson 1979, p. 41, si ritrova μύμας in due tardi codici: L (Leidensis Voss. misc. I n. 4) e Z (Monacensis gr. 79). Come lo Stephanus, anche altri studiosi hanno cercato di leggere un nome proprio: così Bergk 1872, p. 86, pensò a Μίλτας, un sofista – non meglio identificato – della scuola di Platone42; Mullach 1875, pp. xxiii-xxiv, lesse Μύστας, riferendosi a un sofista di più recente generazione; Blass 1881, p. 739, lesse Σιμμίας, riferendosi in questo caso al Simmia tebano – allievo del pitagorico Filolao – citato in Phaed. 61d; Teichmüller 1884, p. 105, pensò invece al poco probabile Σίμων, il calzolaio di Theaet. 146d-147b43.
scrive nei primi due casi καττωὐτό (così Mullach, Diels – Kranz, Robinson, Becker – Scholz), oppure corregge in καττωϋτό (così Meibom e, prima, già Fabricius e Orelli), oppure scrive κατταὐτό (Diels 1907), oppure segue letteralmente i manoscritti e riporta καττοῦτο nel secondo passo (Stephanus, North, Weber); nel terzo passo Stephanus, Weber e i più antichi editori continuano a seguire alla lettera i manoscritti, laddove Koen introduce la congettura κατὰ τωϋτό, Orelli e Mullach hanno καττωυτό, Diels 1903, Diels – Kranz e Becker – Scholz presentano sempre καττωὐτό e Robinson (seguito da Laks – Most) scrive κατὰ τωὐτό. Ma non basta: si ritrova καττωὐτὸ in 1.7 quale correzione di Matthaeus de Varis accolta da Diels 1907, Diels – Kranz, Robinson, Becker – Scholz e Laks – Most. In questo caso tutti i manoscritti presentano καὶ τοῦτο, Koen e Orelli hanno καττωϋτὸ (Orelli suggerisce anche καδδὲ ταυτὸ), Blass e Weber hanno καττοῦτο e Wilamowitz κατταυτὸ. Infine propongono καττωὐτό tutti gli editori moderni in 3.16, dove il cod. B presenta la lezione καττωϋτό, P2 κατωυτό e Z, L καὶ τωϋτό (così anche Stephanus). 41 Cioè: lo Stephanus tenta di riconoscere il nome proprio di colui che sta parlando. Come precisa Fabricius 1724, p. 617, in questo egli è seguito sia da North 1671 (il primo a tradurre in latino i Dissoi logoi) sia da Meibom 1688, nelle sue note al lavoro di North. 42 In questo, come in altri casi, si tratta di ipotesi minimamente suffragate. Qui l’idea di Bergk è che questo supposto Miltas, della scuola di Platone, sia un sofista che, siccome i Neopitagorici scrivevano in dialetto dorico, li imita «um ihre Fälschungen dadurch zu verdecken», p. 86. 43 Cfr. infra p. 66.
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Una volta però che (al di là del nome) si è deciso che non solo si tratta di un solo autore, ma pure che i Dissoi logoi si possono senza difficoltà collocare temporalmente verso la metà del secolo V a.C. – e più precisamente intorno al 440 –, ne discende una serie di conseguenze anche per quanto riguarda la motivazione che può aver originato lo scritto. Da un lato il fatto che l’autore si autodefinisca un ‘iniziato’ (μύστας, 4.4) lo qualifica nettamente nei confronti dei ‘non iniziati’: costoro saranno, evidentemente, i suoi allievi (o, almeno, quanti stanno prendendo a modello le sue argomentazioni); dall’altro, se si cerca di mettere in relazione l’approccio didattico/pedagogico – che sembra potersi evincere – con il dialetto dorico adoperato, si perviene a mettere a fuoco un attendibile profilo dell’autore. È possibile così immaginare un uomo acculturato (un maestro, appunto) in visita ad Atene, a quello cioè che sta diventando il centro d’irradiamento della nuova sapienza sofistica. Si può pensare che costui provenga da un’area periferica di lingua dorica della Grecia oppure dalla Magna Grecia44. La serietà dell’approccio e l’impegno che si coglie nell’argomentazione lasciano intuire la fatica e la puntigliosità di chi si sta confrontando per la prima volta con un nuovo mondo culturale e che lo fa in prospettiva comunque pedagogica45. D’altra parte, la relativa mancanza di approfondimento nelle singole trattazioni che costituiscono i Dissoi logoi comprova il fatto che il dialogo con i grandi maestri della sofistica – e soprattutto poi con Platone – è appena agli inizi. Perciò, piuttosto che pensare a un vero e proprio scritto di ‘scuola sofistica’ e, magari, tentare di ravvisarvi un confronto tra argomenti gorgiani e confutazioni attribuibili
Taranto, dove nel V secolo è presente un’importante comunità pitagorica, costituisce l’ambiente più interessante in cui collocare la scuola alla quale appartiene l’autore dei Dissoi logoi. Su questo, dopo Rostagni 1922, p. 174, e Mazzarino 1966, p. 293, cfr. ora la convincente argomentazione di Robinson 1979, pp. 53-54. Certo è che la stessa facies dorica del testo (in particolare i vocalismi) sembra puntare nella direzione di un’area severior qual è appunto quella di Taranto. 45 Levine Gera 2000, pp. 21-45, ha rilevato come alcune argomentazioni presenti nei Dissoi logoi possano essere interpretate come veri e propri ‘esperimenti mentali’ proposti in prospettiva pedagogica. La studiosa si sofferma su due casi: a) 6.12, se un bambino greco è allevato in Persia, parlerà persiano; b) 2.15-28, se si cambia ambiente educativo (Persia oppure Grecia), diversi diventano i valori morali e analoghi comportamenti sono giudicati in modo opposto. Ciò può avere anche qualche implicazione rispetto alla datazione. A mio parere, il confronto con Hdt. 2.2 dove è citato l’esperimento di Psammetico mostra che la presentazione dell’Anonimo è, dal punto di vista retorico, molto più asciutta e meno efficace di quella di Erodoto: vicina piuttosto all’approccio di Senofane (vissuto tra la fine del VI secolo e la prima metà del V a.C.), uno dei primissimi pensatori che hanno fatto ricorso agli esperimenti mentali. 44
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a Ippia (come ha tentato di fare Untersteiner 196746), l’ipotesi di un maestro di retorica interessato ai nuovi fermenti culturali emergenti nell’Atene della metà del V secolo è quella più semplice. La datazione ‘alta’ inoltre rende giustificabile la relativa superficialità e il non approfondimento che altrimenti si dovrebbero attribuire, più che a un maestro, all’esercizio di un allievo47 se – va ribadito – non fosse per l’esplicita indicazione di 4.4, in cui l’autore si dichiara un «iniziato», forse attorniato da un gruppo di non iniziati: ἐπεί τοι καὶ ἑξῆς καθήμενοι αἰ λέγοιμεν ‘μύστας εἰμί’, τὸ αὐτὸ μὲν πάντες ἐροῦμεν, ἀλαθὴς δὲ μόνος ἐγώ, ἐπεὶ καὶ εἰμί. «Infatti, se noi, seduti in gruppo, dichiarassimo “Io sono un iniziato”, tutti diremmo lo stesso, ma vero sarebbe solo il mio discorso, perché io sono davvero un iniziato».
Già Rostagni 1922, p. 175, aveva richiamato il contesto scolastico della lezione tenuta dal maestro di fronte agli allievi; è infatti del tutto probabile che i ‘non iniziati’ siano dei giovani che stanno affrontando il percorso di ricerca filosofica. Rostagni stesso aveva poi sostenuto la realtà di un movimento retorico-sofistico di origine pitagorica e l’esistenza di cosiddetti logoi pitagorici da ricondurre alla scuola di Gorgia o all’entourage gorgiano (pp. 185-199). Se non fosse per l’evidente approccio non dogmatico dell’Anonimo dei Dissoi logoi, tutti questi indizi indirizzerebbero in direzione di una comunità filosofica d’ispirazione pitagorica. Peraltro il richiamo a tale ambiente è molto probabile per quanto concerne la lingua48 e forse non
46 Secondo Untersteiner 1967, pp. 161-162, intere sezioni (in particolare 2.9 ss.; 5.1115) dipendono da Ippia. Non è escluso che anche i capitoli 8 e 9, cfr. p. 120 n. 46, possano dipendere da Ippia. Secondo Luria 1927, p. 447 n. 2, i Dissoi logoi sono qualcosa di composito e vi si intravvedono due fonti: una pitagorica, come pensava Rostagni, l’altra sofistica. 47 Guthrie 1969, III, p. 316. 48 Quanto alla correlazione con la lingua dorica scrive Moreno Moreno 2015, p. 10: «Si se acepta la lectura que hace del autor un iniciado y se señala que el dialecto dórico, tan presente en el texto, está asociado a los misterios, se puede conjeturar verosímilmente que nos encontramos ante el texto de un maestro iniciado preparado para iniciar a sus alumnos, incluso se puede imaginar que ha viajado, desde la Magna Grecia, hasta Atenas, y vuelve, cargado de novedades, a informar a sus pupilos de la última moda en filosofía: ¡las discusiones!». Già Robinson 1979, p. 54, segnalava l’uso di un imperfetto dialetto dorico e, mettendosi nella prospettiva di uno studente a lezione, ipotizzava: «there is no reason, for exemple, to think that a student would, if he were Doric-speaking, do other than take down his notes in unadulterated Doric». Ovviamente queste considerazioni sul dialetto dorico non possono di per sé provare la datazione ‘alta’ dei Dissoi logoi: resta solo confermato che, in ogni caso, il testo fu messo – e può esser anche oggi messo – in correlazione con la tradizione risalente all’area di Taranto.
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casualmente è presente in 6.8; a tale riguardo è da segnalare infine che, intorno alla metà del V secolo, non si erano ancora manifestate le successive violente contestazioni antiaristocratiche, soprattutto a Metaponto e a Crotone, nei confronti dei Pitagorici di seconda e terza generazione49. Si trattava di un momento storico di particolare fermento con esiti importanti in ambito matematico (Ippaso) e medico/naturalistico (Alcmeone). D’altra parte, anche coloro, tra gli studiosi, che oggi optano per una datazione tardiva dei Dissoi logoi non mancano di accogliere favorevolmente il richiamo al mondo pitagorico della Magna Grecia quale ‘culla’ probabile per l’Anonimo autore. In questa direzione si rinvia volentieri alla figura di Archita di Taranto: uomo politico, matematico e amico sì di Platone, ma – e questo è appunto interessante – sensibile ai modelli dell’argomentazione sofistica50. Molto probabilmente collocabile, dunque, all’interno dell’antica tradizione sofistica51, lo scritto anonimo tramandatoci con il titolo di Dissoi logoi si trova a misurarsi anzitutto con l’opera di Protagora e di Gorgia; sarà poi stretto, da un lato, dal tentativo di Platone di fissare una concezione della realtà che risulti oggettivamente – e non sofisticamente – interpretabile sia rispetto all’‘essere’ sia rispetto al ‘linguaggio’; dall’altro, dall’opera grandiosa di Aristotele che in modo definitivo porrà le basi scientifiche per la determinazione logica e ontologica di ciò che è ‘ente’. Ebbene, se è confrontato con quanto ci è pervenuto sia dell’Ateniese sia dello Stagirita, non possiamo negare che questo testo anonimo sia davvero fragile e poco consistente. E appare davvero miracoloso il fatto medesimo della sopravvivenza di queste 300 linee esatte della moderna edizione fino ad ora di riferimento: i Presocratici, curata da H. Diels e W. Kranz, nella quale il testo è riportato in coda e catalogato con il numero 9052. Ma, rispetto a quest’ultimo aspetto, è meglio andare con ordine.
49 Sui problemi di razionalizzazione della cronologia relativamente alle rivolte antipitagoriche a partire dall’opera di Giamblico, cfr. Musti 1990, pp. 60-65. Quanto al modo in cui si organizzavano le scuole pitagoriche e al significato stesso di ‘pitagorico’ nel V secolo, in riferimento soprattutto a Ippaso di Metaponto e ad Alcmeone di Crotone, cfr. ora Zhmud 2014, pp. 88-102. 50 Cfr. Huffman 2002, pp. 251-270. 51 O comunque collaterale a essa, come si evince dalla proposta formulata recentemente da Moreno Moreno 2015, p. 20: «Su autor ha de ser considerado como un nada bobo maestro de iniciados que avisa a sus pupilos de los peligros de las nuevas modas y que se mantiene fiel a sus ideas de siempre». 52 Nella recentissima edizione di riferimento per i testi dei presocratici, curata da André Laks e Glenn Most nel 2016, il testo dei Dissoi logoi è catalogato con il numero 41.
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2. La tradizione del testo e la sua edizione. Anzitutto i manoscritti antichi che tramandano il testo dei Dissoi logoi sono sempre e solo manoscritti che contengono le opere di Sesto Empirico, il filosofo scettico del II-III secolo d.C.53 Si tratta di documenti tutti piuttosto tardi, risalenti ai secoli XIV-XVI. Non esistono codici più antichi54 e neppure alcun codice indipendente che ci trasmetta i Dissoi logoi. Per di più, dei numerosi rami di cui è costituita tale tradizione sestana55, solo alcuni contengono i Dissoi logoi56. In particolare quelli cui fanno capo il cod. Parisinus gr. 1964 (P1 = E DK) e il subarchetipo ζ [a quest’ultimo appartengono il cod. Regimontanus 16 b 12 (R = K DK), il cod. Venetus Marcianus 262 (408) (V2 = V DK), il Parisinus gr. 1963 (P3 = A DK), il Berolinensis Phill. 1518 (B = P DK), il Cizensis fol. 70 (C)]. Inoltre, nessun manoscritto contiene il testo integrale dei Dissoi logoi, e quelli che lo contengono in parte non lo riportano tutti nello stesso modo: un gruppo (tra cui P3 = A DK, P6 = B DK, R = K DK, V2 = V DK) riporta il testo fin dove l’abbiamo oggi, cioè fino alla parola Ἐπειόν; un altro (tra cui P1 = E DK), si arresta alla conclusione della terza sezione, alla parola ποιέοντι. Non è qui però il caso di ripercorrere la ricostruzione stemmatica della tradizione testuale di Sesto Empirico nel suo complesso; l’operazione risulterebbe particolarmente problematica per la sua ‘circolarità’ e poco vantaggiosa perché – in un modo o nell’altro – tutti gli studiosi che se ne sono occupati, proponendosi di definire famiglie e apparentamenti tra codici sestani, si sono serviti proprio della presenza o dell’assenza dei Dissoi logoi per giustificare le supposte articolazioni della tradizione manoscritta di Sesto Empirico. La medesima edizione critica oggi di riferimento (cioè la Sexti Empirici opera, recensuit H. Mutschmann, libros tres continens, editionem stereotypam emendatam curavit, addenda et corrigenda adiecit I. Mau, Lipsiae in aedibus B. G. Teubner 1958) risente di questa strategia57. D’altra parte, anche chi per primo cercò di ricostruire uno stemma codicum specifico per i Dissoi logoi non poté a sua volta non tenere in conside-
La più completa collazione e recensione di questi manoscritti si deve all’eccellente lavoro di Robinson 1979, pp. 1-33. 54 Erroneamente il cod. Laurentianus 85, 19 (= F1) è ritenuto dal Mau ascrivibile al XIII/ XIV secolo. Concordemente gli altri editori lo collocano nel XVI secolo. Cfr. infra p. 30. 55 Per questa si faccia riferimento allo stemma predisposto da I. Mau nella prefazione alla revisione del terzo volume dell’edizione Mutschmann della Sexti Empirici Opera, Lipsiae 1954, p. viii. 56 Cfr. Mutschmann 1909, pp. 245-250. 57 Per i criteri base di ricerca e i primi risultati, cfr. Mutschmann 1909, pp. 245-249. 53
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razione la tradizione di Sesto; solo di qui si sarebbe poi potuto procedere alla costituzione critica del testo e alle conseguenti scelte di tipo ‘meccanico’: così Conrad Trieber nell’articolo del 1892 e poi Ernst Weber nella prima vera e propria edizione critica delle allora cosiddette Dialexeis, del 1897. Trieber ricostruì la situazione stemmatica che poi Mutschmann prese a riferimento e confrontò con quella sezione della tradizione manoscritta di Sesto che contiene appunto i Dissoi logoi58. Quanto all’edizione di Weber del 1897, essa dava seguito a due precedenti tentativi di produrre una moderna edizione basata su nuovi manoscritti: quello del maestro di Weber, Friedrick Blass, risalente agli anni 1881-1897, e quello di Martin Schanz del 1884. Sia Blass che Schanz non arrivarono tuttavia a produrre un’edizione: si limitarono essenzialmente a definire il valore dei nuovi manoscritti e a proporre una serie di congetture al testo tradito59. Anche il più autorevole recente editore, Thomas M. Robinson, nel concentrarsi sulla tradizione dei Dissoi logoi, segue il medesimo percorso e si confronta non solo con lo stemma proposto da Weber ma pure con quello di Mutschmann relativo all’opera di Sesto Empirico60. Ma val la pena soffermarsi un momento sull’edizione Diels (e poi Diels – Kranz), trattandosi dell’edizione per lungo tempo di riferimento61. Il testo messo a punto da Hermann Diels non rappresenta di per sé un grande progresso dal punto di vista filologico: il suo massimo pregio è dato dall’esser stato inserito nei Vorsokratiker e quindi di aver ottenuto una visibilità altrimenti impensabile. Nell’edizione del 1903 sono presi in considerazione sette codici distribuiti in tre rami. Tra i codici più importanti non sono compresi né il Parisinus gr. 1964 (P1) né il Parisinus gr. 1963 (= P3): entrambi questi due fondamentali codici, con le sigle rispettivamente di cod. E e di cod. A, sono invece inseriti da Diels nell’edizione del 1912. In questa revisione lo stemma risulta bipartito e semplificato al massimo: a fronte di una classe rappresentata dal solo cod. Parisinus gr. 1964 (P1) sta una seconda classe nella quale sono raccolti tutti gli altri codici. Da ciò si deduce come l’unico Cfr. Trieber 1892, pp. 210-248; Mutschmann 1909, p. 277 n. 1. Occorre precisare che l’edizione preparata da Trieber in realtà non fu mai pubblicata; si deve a Mutschmann il recupero e il riuso, per la sua edizione di Sesto Empirico, dei materiali e dello stemma che Trieber aveva messo a punto. 59 Su ciò cfr. Weber 1897, p. 33, e Robinson 1979, pp. 10-12. 60 Cfr. Robinson 1979, pp. 15-18. 61 Quella di Laks – Most 2016 è un’edizione criticamente rivista. Si fonda sul testo e sull’apparato critico fornito da Robinson. Non discute la tradizione del testo né l’organizzazione stemmatica e offre un apparato critico negativo. Non risulta esser stata consultata l’edizione tedesca di Becker – Scholz 2004 che si erano avvalsi delle note editoriali di J. Classen. 58
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oggettivo criterio di distinzione sia considerato il fatto di possedere o meno la versione ‘estesa’ dei Dissoi logoi. Infatti il cod. P1, del secolo XV, contiene il testo dei soli primi tre capitoli dell’opera. Resta assodato che Diels non ritiene per nulla giustificato ricondurre i Dissoi logoi a Sesto Empirico62: così, grazie all’autorevolezza dell’editore, da questo momento in poi l’opera avrà una vita a tutti gli effetti autonoma. Nei manoscritti sestani che li riportano, invece, i Dissoi logoi erano collocati in coda, quasi si trattasse di una sorta di appendice. Non c’era mai l’indicazione dell’autore. Il che equivaleva a suggerire la seguente conclusione: i copisti tardo medioevali e umanisti non trovarono motivo per estrapolare questo testo dalle opere di Sesto perché evidentemente lo ritenevano affine o almeno conciliabile con quanto precedentemente avevano letto e copiato. Al riguardo basta pensare al modo in cui Sesto, nei suoi Lineamenti Pirroniani (1.8), aveva marcato le caratteristiche generali dello Scetticismo: ῎Εστι δὲ ἡ σκεπτικὴ δύναμις ἀντιθετικὴ ϕαινομένων τε καὶ νοουμένων καθ’ οἱονδήποτε τρόπον, ἀϕ’ ἧς ἐρχόμεθα διὰ τὴν ἐν τοῖς ἀντικειμένοις πράγμασι καὶ λόγοις ἰσοσθένειαν τὸ μὲν πρῶτον εἰς ἐποχήν, τὸ δὲ μετὰ τοῦτο εἰς ἀταραξίαν. «La potenza dello scetticismo consiste nel contrapporre ciò che percepiamo e ciò che pensiamo secondo tutte le modalità possibili, per cui, in seguito all’uguale forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo per prima cosa alla sospensione del giudizio, quindi all’imperturbabilità».
Come non avvertire un’affinità, da un lato, tra il contrapporre un dato empirico e la percezione intellettiva opposta che se ne ha (τοῖς ἀντικειμένοις πράγμασι καὶ λόγοις) e, dall’altro, il contrapporre un’argomentazione a un’altra argomentazione (δισσοὶ λόγοι, come l’Anonimo inizia il suo scritto) o, addirittura come precisa Diogene Laerzio, opporre a un ragionamento il suo contrario in riferimento a qualsiasi tema di riflessione o dato empirico? Questi infatti, riferendosi al sofista Protagora, scriveva che δύο λόγους εἶναι περὶ παντὸς πράγματος ἀντικειμένους ἀλλήλοις63. Certo è che, in ogni caso, i copisti non si posero il problema dell’identità dell’autore.
Se lo Stephanus già da subito, come si vedrà qui di seguito, preferì riferire i Dissoi logoi a Diogene Laerzio, nell’edizione del 1724 il Fabricius, p. 617, riconoscendone i tratti antiscettici, attribuì l’opera allo stoico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco e uno dei maestri di Marco Aurelio. La confusione generata dall’omonimia avrebbe giustificato il fatto che questi dialoghi fossero stati tràditi in coda agli scritti di Sesto Empirico. Recentemente, per un’attribuzione all’ambiente scettico sembra propendere Bailey 2008, pp. 261-263, che, tra l’altro, segnala come lo scettico Zeuxis (amico di Enesidemo) avesse scritto un trattato περὶ διττῶν λόγων (cfr. Diog. Laert. 9.106 = fr. 281 Deichgräber). 63 Diog. Laert. 9.51. 62
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Tuttavia Diels, come si è anticipato, non è stato il primo a negare la paternità di Sesto Empirico. Nell’era moderna, già la prima edizione a stampa dei Dissoi logoi (realizzata da Henricus Stephanus nel 1570) si presentava con una sorprendente novità: il testo era in questo caso collocato in appendice all’edizione di Diogene Laerzio, il dossografo del II-III secolo d.C.64 Con ciò si suggeriva una presa di distanza dal vulgato apparentamento con l’opera di Sesto e, insieme, una nuova proposta di collocazione che evidentemente riconosceva al dossografo il merito di aver tratteggiato la storia di un nuovo genere argomentativo all’interno del quale lo scritto dell’Anonimo riceveva la sua adeguata valorizzazione. Lo studioso ed editore cinquecentesco volle inoltre dare almeno un titolo complessivo a tale appendice e optò per Διαλέξεις: un titolo che ebbe fortuna nell’Ottocento e che ancora è presente – insieme a Dissoi logoi – fin nella sesta edizione dei Vorsokratiker di Diels – Kranz del 1951-195265 e nelle successive ristampe. Ma dialexis significa ‘disputa’, ‘conversazione’, e tale vocabolo non sembra rendere adeguatamente le caratteristiche e le modalità degli scritti in questione. Non solo non c’è alcun elemento che rinvii a una qualche struttura dialogica, ma non sono nemmeno in primo piano intenzioni costruttive o decostruttive evidenziate per mezzo di particolari strumenti retorici o polemici. Semplicemente sono poste a tema, in successione, alcune questioni relative all’etica e alla conoscenza: per di più si tratta di temi che ricevono una trattazione tutto sommato schematica e artificiosa, lontana da qualsiasi scelta di campo che denoti un qualche impegno politico, ideale o teoretico. Meglio perciò oggi tenere fermo il richiamo all’impianto formale dell’opera costituito dalle prime parole (Dissoi logoi) e ribadito poi in 2.1, 3.1 e 4.1, tramite il quale almeno si coglie uno degli aspetti più appariscenti che ne caratterizzano la prima parte: quello per cui le distinte tematiche sono affrontate a partire da due tesi contrapposte che sembrano dar luogo a conclusioni inconciliabili o paradossali. Tuttavia in modo esplicito ciò sembra chiaro e giustificato solo se ci si riferisce ai primi quattro dei cinque capitoli in cui lo Stephanus aveva suddiviso l’opera, capitoli per i quali lo studioso si era sentito autorizzato a proporre un titolo:
Diogenis Laertii de vitis, dogmatis & apopthegmatis eorum qui in philosophia claruerunt, libri 10… Cum annotationibus Henr. Stephani. Pythag. philosophorum fragmenta. cum Latina interpretatione, [Genevae]: Excudebat Henricus Stephanus, 1570, pp. 470-482. 65 Il testo fornito dalle edizioni Diels – Kranz del 19345 e 1951-19526 è quello adottato come base nelle edizioni di Untersteiner 1954, III, pp. 148-191, e di Dumont 1969, pp. 232-246. 64
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ἀνωνύμου τινός διαλέξεις Δωρικῇ διαλέκτῳ, Περὶ τοῦ ἀγαθοῦ καὶ τοῦ κακοῦ, Περὶ τοῦ καλοῦ καὶ τοῦ αἰσχροῦ, Περὶ τοῦ δικαιοῦ καὶ τοῦ ἀδίκου, Περὶ τοῦ ψεύδους καὶ τῆς ἀληθείας, Περὶ τῆς σοφίας καὶ τῆς ἀρετῆς, εἰ διδακτόν. «Queste le dispute di un Anonimo in dialetto dorico: “Su ciò che è bene e ciò che è male”, “Su ciò che è bello e ciò che è turpe”, “Su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto”, “Sulla falsità e la verità”, “Sulla sapienza e sulla virtù, se si possano insegnare”».
In realtà, non solo il quinto (= l’ultimo) capitolo si sviluppa in modo non parallelo agli altri e tratta spunti tematici tra loro diversi, ma anche il quarto capitolo sembra suddivisibile in due sezioni e la seconda non risponde più alle caratteristiche formali di quella che oggi alcuni interpreti ritengono la ‘prima parte’66. Nel susseguirsi delle edizioni a stampa la questione della suddivisione in distinte parti dell’opera e della loro intitolazione ha continuato a interessare i filologi. Dopo North, che già nel 1671 aveva diviso in due parti (alla fine dell’attuale paragrafo 9) la quarta sezione, fu Teichmüller, nel suo saggio del 1884, a dividere l’intero testo (fino ad allora dunque composto di sei sezioni), in otto parti. Nel far questo lo studioso dava corpo alla sua tesi in base alla quale i Dissoi logoi erano opera del calzolaio ateniese Simon, cui potrebbe riferirsi Platone nel Teeteto (146d-147b e 180d) e autore dei cosiddetti Σκυτικοὶ διάλογοι (Dialoghi di cuoio). Di tali dialoghi a noi non pervenuti ci informa Diogene Laerzio (2.122-123); secondo Teichmüller i Dissoi logoi sarebbero da identificarsi con alcune delle 33 sezioni di cui quelli sono composti. E siccome Diogene riporta i titoli di tali sezioni, si avrà che, dopo il Περὶ τοῦ ἀγαθοῦ (cfr. sez. 1), il Περὶ τοῦ καλοῦ (cfr. sez. 2), il Περὶ δικαίου πρῶτον (cfr. sez. 3), il Περὶ δικαίου δεύτερον (cfr. sez. 4), dovremmo ravvisarvi il Περὶ τοῦ ὄντος (cfr. sez. 5), il Περὶ ἀρετῆς ὅτι οὐ διδακτόν (cfr. sez. 6); il Περὶ δημαγωγίας (cfr. sez. 7) e il Περὶ ἐπιστήμης (cfr. sez. 8). Purtroppo, oltre al fatto che tali titolature coincidono solo in parte con quelle effettivamente riportate nei Dissoi logoi, l’ordine in cui Diogene Laerzio cita le sezioni non corrisponde a quello che sarebbe richiesto dalle sezioni dei Dissoi logoi; sono questi alcuni dei motivi per cui rimane estremamente aleatoria l’ipotesi di identificazione messa a punto da Teichmüller. Resta il fatto che, da quel momento, il quinto capitolo dello Stephanus (quello cioè originariamente intitolato ‘Sulla sapienza e sulla virtù, se si possano insegnare’) risulta diviso in tre sezioni in base alle differenti tematiche 66 Un primo gruppo comprenderebbe le sezioni esplicitamente rispondenti al metodo antilogico (1-4); il secondo gruppo comprenderebbe le sezioni 5-7; il terzo, le sezioni 8-9; cfr. Becker – Scholz 2004, p. 15.
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che vi sono affrontate; dopo la nuova quinta sezione (individuata dal North che aveva diviso in due parti la quarta e che aveva come incipit «Folli e assennati, sapienti e dementi affermano e compiono le stesse cose»67), ecco: 6. «Sapienza e virtù non sono oggetto di insegnamento né di apprendimento»; 7. «Le cariche pubbliche devono essere assegnate per sorteggio»; 8. «Spetta al medesimo individuo e alla medesima arte poter trattare dialetticamente un argomento per brevi domande e risposte». Infine, a partire dalla terza edizione dei suoi Die Fragmente der Vorsokratiker (1912), Hermann Diels divise anche l’ottava sezione in due parti, sempre con l’intento di cogliervi precise unità tematiche. Per cui: 8. «Ciascuna persona è esperta di una cosa»; 9. «Una cosa è la memoria, altra cosa è la sapienza». Sezioni dei Dissoi logoi (i manoscritti riportano solo i titoli delle prime quattro sezioni; lo Stephanus suggerisce anche il titolo per quella che per lui è la quinta. In riferimento alla suddivisione di Teichmüller sono riportati gli incipit delle nuove sezioni identificate; la nona sezione, peraltro non identificata dal Teichmüller ma dal Diels, ha il seguente incipit: «La capacità di conservare il ricordo è il più grande e bel dono donato alla vita dell’uomo». Becker – Scholz, oltre a riprendere per la sesta sezione l’integrazione dello Stephanus relativa alla quinta, suggeriscono gli altri quattro titoli mancanti). Stephanus 1570
North 1671
Teichmüller 1884
Diels 1912
Becker – Scholz 2004
1. Su ciò che è bene e ciò che è male 2. Su ciò che è bello e ciò che è turpe 3. Su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto 4. Sulla falsità e la 4. Falsità e verità verità 5. Follia e sapien- 5. «Folli e assenza nati, sapienti e dementi affermano e compiono le stesse cose»
5. ‹Sulle cose: se esistono o non esistono›
Alla nuova sezione 5 Becker – Scholz 2004, pp. 74-75, propongono il seguente titolo: Über die Dinge, ob sie sind oder nicht sind. 67
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Stephanus 1570
North 1671
5. ‹Sulla sapienza e sulla virtù, se si possono insegnare›
Teichmüller 1884 6. ‹Sapienza e virtù non sono oggetto di insegnamento né di apprendimento› 7. «Le cariche pubbliche devono essere date per sorteggio»
Diels 1912
Becker – Scholz 2004 6. «Sulla sapienza e sulla virtù: se si possano insegnare»
7. ‹Su chi ha incarichi pubblici: se le cariche devono essere assegnate per sorteggio o no› 8. «Spetta al me- 8. Ciascuna per- 8. ‹Sull’universadesimo indivi- sona è esperta di lità del sapere› duo e alla mede- una cosa sima arte trattare dialetticamente in breve un argomento» 9. Una cosa è la 9. ‹Sulla capacità memoria, altra della memoria› cosa è la sapienza
2.1. Dispute o discorsi duplici? Tuttavia il modo stesso in cui era stata impostata l’intera problematica finiva daccapo per intrecciarsi con la più ampia questione relativa alle caratteristiche generali del testo tramandato, con quella della sua collocazione storica e dell’identità del suo autore (o dei suoi autori). Infatti, come appare evidente, diversi sono l’approccio e le proposte interpretative nel caso si ritenga di essere di fronte a un trattato unitario oppure a un raggruppamento di testi dovuto ad affinità tematiche oppure tecnico-espositive. E se non è possibile definire διαλέξεις (cioè ‘dispute’) tutte le parti che costituiscono l’insieme, si tenga presente che il titolo abitualmente adoperato di Δισσοὶ λόγοι (cioè ‘discorsi duplici’) è anch’esso inadeguato, dato che funziona perfettamente solo per la prima parte degli scritti68. Di qui era poi sorta la
68 L’espressione Δισσοὶ λόγοι si ritrova non per nulla in 1.1 (Δισσοὶ λόγοι λέγονται); 2.1 (λέγονται … δισσοὶ λόγοι); 3.1 (δισσοὶ δὲ λόγοι λέγονται); 4.1 (λέγονται … δισσοὶ λόγοι); significativamente già l’originaria quinta sezione (quella che poi è stata divisa in più parti dal Teichmüller) presentava qualche differenza strutturale rispetto alle precedenti.
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questione sopra affrontata relativa alla liceità o meno di ipotizzare che si trattasse di più parti o testi raccolti insieme e che essi si potessero ritenere della medesima provenienza. Tentando di riassumere le opinioni dei più importanti studiosi moderni, si può tratteggiare il seguente quadro, in parte già messo a punto da Adolfo Levi69: − Taylor 1911, pp. 93-94, 122-123 e 128, ritiene impossibile conoscere quale sia la tesi generale dell’autore, ma in ogni caso pensa che siamo di fronte all’opera di qualche esponente dell’antica eristica derivata dall’eleatismo: forse qualcuno della cerchia di Euclide e dei megarici; − H. Gomperz 1912, pp. 186-187, – riprendendo le opinioni di Bergk, Valckenaer, Koen, Mullach70 – pensa come autore a un sofista; il carattere antilogico si intravvede in tutte le argomentazioni, anche se in alcune (dalla quinta in poi) non appare in evidenza per la semplificazione (Vereinfachung) cui è sottoposta la struttura esibita nei primi capitoli; − Pohlenz 1913, pp. 72-74, considera l’opera una vera e propria frettolosa compilazione di scuola sofistica, non destinata alla pubblicazione; l’autore sarebbe Ippia oppure un suo allievo (p. 77); − Zeller 1920, 1, pp. 1333-1334, è convinto che si tratti di una compilazione di estratti di vari sofisti e che la schematizzazione antilogica, che si trova solo nei primi quattro capitoli, ne sia una conferma indiretta; lo studioso inoltre stabilisce una relazione tra i sei capitoli dedicati all’insegnabilità della virtù e il Protagora di Platone, riferendosi in particolare alla pagina 319a e seguenti; − Diels, in Diels – Kranz 1934, II, p. 405 n. 1, ritiene che si tratti della trascrizione di materiali scolastici (Niederschrift von Schulvorträgen); − Kranz 1937, pp. 225-226, rifiuta, come Pohlenz, la tesi di Gomperz e contesta l’unitarietà dello scritto che Diels manteneva: essa varrebbe solo per i primi quattro capitoli; il loro autore risentirebbe dell’influenza dei sofisti in generale ma anche di Socrate; − Levi 1940, p. 294, d’accordo con Diels, Pohlenz e Nestle, ritiene che si tratti di «a conglomeration of unconnected parts»; − Untersteiner 1967, pp. 169-170, è favorevole all’unità dell’opera, in cui si assiste a una sorta di gradazione del punto di vista; in ogni caso condivide
69 Levi 1940, pp. 292-306. Ulteriore letteratura in Diels – Kranz 1934, II, p. 405 n. 1; Untersteiner 1949, pp. 167-170; Rossetti 1980, pp. 27-31; Moreno Moreno 2015, pp. 9-11. 70 Cfr. Trieber 1892, pp. 210-211.
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l’opinione di Rostagni che immaginava un maestro (un ‘iniziato’ di scuola pitagorica71) di fronte ai suoi discepoli; Guthrie 1969, III, p. 316, ritiene che questi scritti siano o gli appunti di uno studente (pupil’s notes) presi alle lezioni di un maestro che ha adottato il metodo di Protagora, oppure qualcosa (something) che un maestro ha scritto per i suoi discepoli; Robinson 1979, pp. 54 e 89 n. 68, considera i Dissoi logoi «a sophist’s fairly full but unpolished “lecture-notes”», di fatto non predisposto alla pubblicazione; probabilmente si tratta di uno scritto a carattere propedeutico, destinato, p. 76, «to instruct the beginner in the detection of fallacious reasoning»; Rossetti 1980, pp. 27-31, pensa a una raccolta di specimina messi a punto da un sofista che intende mostrare la propria competenza a un pubblico non ancora avvezzo alle discussioni oratorie ascoltabili ad Atene: potrebbe essere quello di «un qualche centro minore dell’Ellade»; Scholz, in Becker – Scholz 2004, pp. 17-18, propende per una raccolta di modelli argomentativi (Musterargumentationen): il pratico esercizio dell’in utramque partem disputare tipico della scuola sofistica; Solana Dueso 2013, pp. 454-457, immagina che una sorta di arbitro o moderatore esponga alcuni dei temi su cui si confrontano i sostenitori di due opposte posizioni: da un lato quella protagorea e dall’altro quella socratica; Moreno Moreno 2015, p. 10, propende per l’ipotesi che fa dei Dissoi logoi il testo di un maestro «iniciado preparado para iniciar a sus alumnos». Lo studioso intelligentemente conclude che «los Dissoi logoi deberían pasar de ser un apéndice a los sofistas a ser, en todo caso, un predacio a ellos», p. 20.
Come appare evidente, l’ipotesi che si tratti di uno scritto predisposto da un sofista per la sua didattica scolastica risulta essere la più condivisa. Il fatto della disomogeneità che si rileva nei vari capitoli sarebbe allora da attribuirsi più alla provvisorietà del lavoro (si tratti di appunti oppure di schemi o di esempi) che a una qualche forma di incoerenza nella svolgimento delle tesi o, addirittura, alla presenza di autori diversi. Inoltre tale disomogeneità può essere all’origine della divisione in gruppi delle varie sezioni, come proposto anche recentemente in Becker – Scholz 2004, p. 15: 71 Valckenaer (non sunt ista Pythagorei philosophi), Koen e poi Mullach (non Pythagoreum, sed sophistam hic loqui persuasum erit), in Trieber 1898, p. 210 nn. 2-4, escludono senz’altro l’attribuzione all’ambiente pitagorico.
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si tratterà in ogni caso di una divisione solo formale che non inficia la più generale unità dello scritto. Rispetto a quest’ultimo aspetto è però necessario ripercorrere la tradizione manoscritta per chiarire e giustificare così le cause dell’attuale disposizione del testo. 2.2. La tradizione manoscritta e le proposte stemmatiche. Utili alla costituzione del testo e distribuiti per contenuto e in ordine cronologico sono i manoscritti qui di seguito riportati. Essi sono tutti risalenti – come si è anticipato – ai secoli XIV/XVI. Per evitare confusione, si sono adottate le denominazioni utilizzate nella sua edizione da Robinson; tra parentesi sono riportate quelle dell’edizione Diels – Kranz o di altri editori qualora risultassero divergenti. Poiché in molte occasioni alcuni copisti e alcuni dei primi lettori dei Dissoi logoi hanno potuto lavorare su qualcuno di questi codici per le loro annotazioni critiche e congetture, si è ritenuto utile segnalare ciò qualora apparisse significativo. Contenenti il testo nella sua massima estensione, cioè fino a Ἐπειόν, sono: R (= K DK): Regimontanus (vel Regiomontanus) 16 b 12, saec. XIV/XV, membr. V2 (= V DK, Mutschmann): Venetus Marcianus gr. 262, olim card. Bessarionis 408, saec. XV, membr72. M: Oxon. Mertonensis 304, saec. XV/XVI, chart. V1 (= W DK): Venetus Marcianus gr. 4, 26, saec. XV/XVI, membr. F2 (= F DK): Laurentianus 85, 24, saec. XV/XVI, membr. F1: Laurentianus 85, 19, saec. XVI Mutschmann, Weber, Robinson (saec. XIII/XIV Mau), chart. P3 (= A DK): Parisinus gr. 1963, Venetiis anno 1534 a Nicolao Sophiano exaratus, chart. B (= P DK): Berolinensis Phillippicus 1518, anno 1542 a Camillo Bartolomeo de Zanettis Brixiano Venetiis scriptus, chart. C: Cizensis fol. 70, anno 1556, a Fabricio consultus, chart. P6 (= B DK = P Mutschmann): Parisinus gr. 1965, saec. XVI, chart. H (= H DK): Vesontinus gr. 409, f. 19, saec. XVI, chart. P4 (= C DK = Z Mutschmann): Parisinus gr. 2081, saec. XVI, chart. E (= z Mutschmann): Scorialensis T-1-16, saec. XVI, chart.
72 Mutschmann 1909, pp. 247 e 280, nel ricostruire la tradizione del testo delle Hypotyposen di Sesto Empirico, attribuisce a questo codice la sigla Ve e lo ritiene erroneamente della fine del XVI secolo.
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S: Savilianus gr. 1, saec. XVI, chart. T: Taurinensis gr. 12, saec. XVI, chart. Y1 (= R Mutschmann): Vaticanus gr. 1338, saec. XVI, chart. Y2 (= r Mutschmann): Vaticanus gr. 217, saec. XVI, chart. Z (= m Mutschmann): Monacensis gr. 79, saec. XVI, chart. P5 (= D Mutschmann): Parisinus gr., suppl. 133, saec. XVII, chart. L: Leidensis Voss. misc. I n. 4, saec. XVI/XVII, chart. Contenenti il testo fino a ποιέοντι (cioè fino alla fine della terza sezione) sono: P1 (= E DK): Parisinus gr. 1964, saec. XV, chart. P2 (= e Mutschmann): Parisinus gr. 1967, saec. XVI, chart. Q (= O Mutschmann): Ottob. gr. 21, anno 1541 a Nicolao Murmurio de Nauplia scriptus, chart. La diversa estensione del testo dei Dissoi logoi presente nei due gruppi qui distinti offre l’opportunità di ipotizzare almeno una tradizione bipartita, se non tripartita, dell’opera. Optano per la bipartizione Trieber 1892, Mutschmann 1909, Diels 1912, Robinson 197973; è incerto Weber 1897, che dichiara di essere a favore di uno stemma bipartito ma poi sembra più propenso a una tripartizione74; è invece per lo stemma tripartito Diels 1903. Da segnalare che Robinson afferma esplicitamente di essersi richiamato in modo particolare alla sistemazione dei manoscritti effettuata da Weber75, optando per la proposta della bipartizione ma proponendo una resa grafica tripartita dello stemma di Weber76. Si può tentare di ricavare e confrontare tra di loro i diversi stemmi che i principali studiosi hanno proposto. Anche in questo caso le sigle sono quel-
Lo stemma che Robinson 1979, p. 33, propone è, da ultimo, chiaramente bipartito. Tuttavia lo studioso descrive in realtà 3 famiglie di codici che dovrebbero consentire di pervenire all’archetipo: la prima famiglia, δ, con i codd. P1, P2 e una copia di P1; una seconda costituita dal solo cod. P3; la terza, γ, che comprende tutti gli altri codici. Solo per ipotesi ritiene che la seconda (cioè il cod. P3) e la terza (cioè γ) siano apparentate e dipendenti da un subarchetipo β. Il che consente al solo β di porsi in alternativa all’altro subarchetipo δ. 74 Weber 1897, p. 34: «Die von mir benutzen Codd. des Sextus gehen auf einen Archetypus … und zerfallen in 2 Familien (…) Ob der P3 = Paris. 1963 vom Jahre 1534…, die beste von allen mir bekannten Handschr., in die 1. Familie einzurehien ist, vermag ich nicht zu sagen». 75 Robinson 1979, p. 21: «In preparing the present edition I have, it will soon become clear, been more impressed by Weber’s assessment of the worth and inter-relationship of the main MSS». 76 Robinson 1979, p. 15. 73
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le adottate da Robinson; tuttavia la gerarchia di ogni stemma è strutturata in base al supposto livello di dipendenza effettiva, non di età (si rammenti infatti che si tratta di codici piuttosto tardi, tutti dei secoli XIV e XVI; il più antico sembrerebbe essere il Regimontanus 16 b 12, membranaceo attribui bile al XIV/XV secolo): 1. Trieber 1892
Questo stemma è ricavato dalla ricostruzione effettuata da Mutschmann 1909, p. 277 n. 1 (le sigle sono però quelle adottate da Robinson 1979, p. 18); di fatto l’edizione messa a punto da Trieber cui lo stemma doveva riferirsi non è mai stata pubblicata, ma Mutschmann poté avvalersi del manoscritto di Trieber messogli a disposizione da Wilamowitz (ibidem, p. 244 n. 1). Secondo Diels, l’indicazione del cod. Y è errata. Al suo posto deve intendersi il cod. V2.
2. Weber 1897
Il cod. P3 è di insicura collocazione: potrebbe essere ricondotto alla famiglia di P1 e P2. In questo modo lo stemma diverrebbe bipartito. Con la sigla St è indicato il codice usato dallo Stephanus (ante 1570)77. Henricus Stephanus traduce e stampa in latino gli Hypotyposeon libri di Sesto nel 1562 (la dedica riporta la data: 1559). Sulla prima pagina del cod. Taurinensis gr. 12 (= T) 77
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3. Diels 1903/1907
4. Mutschmann 1909
I codd. indicati tra parentesi appartengono alla tradizione complessiva delle opere di Sesto e non contengono i Dissoi logoi. Non è presente il cod. L: con tale sigla Mutschmann indicava il Londinensis King’s Library 16 D III, XVI saec., chart., che pure non contiene i Dissoi logoi.
5. Diels 1912
A questi codici Diels ipotizza di aggiungere anche il cod. B (= P secondo la sua denominazione), accanto a quelli del secondo ramo (cfr. FragVors II, p. 405). è riportata l’annotazione: Ex libris Henrici Stephani Florentiis emptus 1555: ciò fa supporre che questo sia uno dei codici che lo Stephanus consultò. Weber ritiene che questo codice comunque, magari indirettamente, sia da considerarsi vicino al testo adoperato dallo Stephanus. Nell’edizione di Diogene Laerzio, che questi stampò nel 1570, i Dissoi logoi sono inseriti per la prima volta in appendice, con la titolatura Dialexeis.
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6. Robinson 1979
Il cod. St è quello usato dallo Stephanus (1570); il cod. C è quello usato dal Fabricius (1718). Al cod. Y1 fanno riferimento le congetture di Mattheus de Varis (flor. 1540-157078) alle quali dà molto rilievo Robinson 1979, pp. 17-18, 20 e 27. Il cod. F1 per Robinson è del XVI saec.; per Weber è del XIII. Q è probabilmente un refuso; al suo posto ritengo vada letto O = Ottobonianus 21 (cfr. Mutschmann), apografo di P1.
Il confronto tra questi stemmi mostra anzitutto come nell’edizione Diels del 1903-1907 non siano presi in considerazione i codd. P1, P2, P3, fondamentali per la ricostruzione di uno dei rami della tradizione già secondo Trieber, Weber e anche Mutschmann. Nell’edizione del 1912 il cod. P1 è introdotto quale unica alternativa all’intera famiglia costituita da tutti gli altri codici, compreso P2. Del cod. P3 non v’è traccia. Quanto a Robinson, la quadripartizione del suo stemma consente: a) di raccogliere nella famiglia γ la maggior parte dei codici che presentano il testo nella sua massima estensione, cioè fino a Ἐπειόν, raggruppandoli in tre sottofamiglie (ε, ζ, η): queste sottofamiglie riprendono in linea di massima alcuni degli apparentamenti proposti da Weber e poi da Diels 1903-1907; b) di contrapporvi i codici P1 e P2 (contenenti, come il cod. Q, il testo fino a ποιέοντι) costituenti la famiglia δ; c) di attribuire una posizione autonoma al cod. P379, peraltro parallela alla famiglia γ e riconducibile alla comune ante-
Qualche notizia su questo stimato erudito corfinese, che fu nominato «correttore di greco» preso la Biblioteca Vaticana nel gennaio del 1562 da papa Pio IV, in De Maio 1973, pp. 331-333. Al de Varis si deve un Liber de Graecae linguae particulis, Romae 1588. 79 Weber riteneva completamente autonomo il cod. P3; Trieber invece lo apparentava piuttosto a P1 e P2, cioè a codici in contrapposizione alla famiglia γ di Robinson. 78
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riore famiglia β, sempre in virtù dell’estensione massima del testo offerto. È evidente che questa collocazione di P3 dovrebbe indebolire la possibilità di ritenerlo un testimone dirimente nei confronti delle lezioni di δ e di γ, dato che, in conclusione, lo stemma risulta bipartito e che ai codd. P1, P2, Q (la famiglia γ) è immediatamente contrapposta la famiglia β (cioè tutti gli altri codici, compreso P3). Tuttavia è innegabile la particolare considerazione in cui Robinson lo tiene nella costituzione del testo. 2.3. Edizioni e traduzioni. Come si è accennato in precedenza, per la fortuna dei Dissoi logoi fu necessario attendere la pubblicazione del monumentale lavoro: Die Fragmente der Vorsokratiker, Griechisch und Deutsch von H. Diels, pubblicati per la prima volta a Berlino nel 1903 presso l’editore Weidmann. La quarta edizione (Berlino 1922) fu rivista, ristrutturata e integrata (Nachträgen) con la collaborazione di W. Kranz, e assunse la divisione ora abituale in tre volumi: I e II, l’edizione dei testi e la traduzione tedesca80; III, gli indici e le concordanze. In questa edizione i Dissoi logoi occupano l’ultima posizione e sono catalogati con il numero 83. Nella quinta edizione (1934-1937) avvenne un’ulteriore riorganizzazione dell’opera e i testi filosofici, sempre raccolti nei primi due volumi, furono però disposti in tre sezioni: I, Anfänge (Gli inizi); II, Die Fragmente der Philosophen des sechsten und fünften Jahrhunderts (I frammenti dei filosofi del sesto e del quinto secolo); III, Ältere Sophistik (L’antica sofistica). La sesta edizione (Bonn 1951-1952) è quella definitiva dalla quale dipendono tutte le successive ristampe. In essa i Dissoi logoi sono collocati nella sezione comprendente l’Antica sofistica, catalogati ora con il numero 90. Occupano sempre l’ultima posizione, segno, a quanto pare, della loro problematica collocazione all’interno di una silloge che dovrebbe concernere solo testi ‘presocratici’81. Nell’integrale traduzione italiana dei Presocratici. Testimonianze e frammenti, due tomi introdotti da G. Giannantoni, pubblicati per la prima volta presso Laterza, Roma-Bari, 1979, e successivamente riediti nella collezione “Biblioteca Universale Laterza”, i Dissoi logoi sono tradotti con il titolo di Ragionamenti duplici da M. Timpanaro Cardini, pp. 1044-1056. Nella Per quanto concerne i Dissoi logoi, la prima traduzione tedesca è quella di Teichmüller 1884. In precedenza si poteva far ricorso, ritoccandola o adattandola, solo a quella latina di North 1671: così Fabricius 1724, Orelli 1821 e Mullach 1875. 81 Laks – Most 2016, nella loro nuovissima edizione dei testi dei presocratici, dopo Les arguments doubles / Pairs of Arguments (sez. 41), propongono altre due sezioni: 42, ‘Sophistes’ et ‘Sophistique’: caractérisations générales; 43, Philosophie et philosophes au théâtre. 80
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recente nuova traduzione I presocratici. Testimonianze e frammenti, Milano, Bompiani, 2006, a cura di G. Reale, i Dissoi logoi sono tradotti con il titolo di Discorsi duplici da M. Migliori, I. Ramelli, G. Reale. Tuttavia, alternativa all’edizione Diels – Kranz, risulta, per quanto concerne la reperibilità dei Dissoi logoi, l’opera di M. Untersteiner, Sofisti: Testimonianze e Frammenti, 4 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1949-1962. Nel terzo volume del 1954 (Trasimaco, Ippia, Anonymus Iamblichi, Δισσοὶ λόγοι, Anonymus Περὶ νόμων, Anonymus Περὶ μουσικῆς) i Dissoi logoi sono presentati in una collocazione nuova, con un testo criticamente rivisto, quindi tradotto e commentato. Il lavoro di Untersteiner è stato recentemente riproposto, a cura di F. Decleva Caizzi, presso Bruno Mondadori, Milano, 1996. È apparsa qualche anno fa, pubblicata presso Rizzoli, Milano, 2007, una nuova raccolta di buona parte dei testi della sofistica antica: I Sofisti, prefazione di F. Trabattoni, traduzione e cura di M. Bonazzi. I Dissoi logoi, con il titolo di Ragionamenti duplici, sono inseriti alle pp. 423-453, ma, purtroppo, è riprodotto a fronte il consueto testo Diels – Kranz. In ambito anglosassone esiste la traduzione realizzata nel 1968 da R. Kent Sprague, «Mind», 77, pp. 155-167. Tale lavoro è stato poi riproposto in The Older sophists: A complete translation by several hands of the fragments in ‘Die fragmente der Vorsokratiker’ edited by Diels Kranz with a new edition of Antiphon and of Euthydemus, edited by R. Kent Sprague, University of South Carolina Press, 1972, pp. 270-293; rist. Indianapolis-Cambridge, Hackett Publishing, 2001. Oltre a questa (e soprattutto oltre alla traduzione che accompagna l’edizione critica di T. M. Robinson di cui più sotto), si può far riferimento al primo dei due volumi curati da D. W. Graham, The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major Presocratics, ed. and transl. by D. W. G., Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 877-903 (19.B). Al testo criticamente rivisto si accompagna una nuova traduzione inglese. In ambito francese, l’opera di riferimento è la raccolta di J.-P. Dumont, Les sophistes: fragments et témoignages, traduits et présentés par J.-P. D., Paris, Presses Universitaires de France, 1969, in cui i Dissoi logoi sono riportati alle pp. 232-246. In ambito spagnolo, il testo dei Dissoi logoi è offerto, nella traduzione di J. Solana Dueso, Dissoi logoi – textos relativistas / Protagoras de Abdera, Madrid, Akal, 1996 (con revisione in Solana Dueso 2013), accanto alle testimonianze di Protagora. Ora però, la nuova raccolta dei testi dei primi pensatori greci fino a Socrate preparata da André Laks e Glenn Most – che aspira a sostituire l’edizione Diels – Kranz – offre alla sezione 41 il testo criticamente rivisto
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dei Dissoi logoi. Quest’ultimo è costituito sulla base dell’apparato critico messo a punto da Robinson. Laks – Most, per parte loro, mirano a un testo in equilibrio tra quello di Diels – Kranz e quello di Robinson82. L’opera è stata edita contemporaneamente nel 2016 con traduzione del testo greco in inglese (per la collezione Loeb della Harvard University, vol. IX, parte 2, pp. 167-207) e con traduzione francese (presso Fayard, Paris, pp. 1519-1535). I Dissoi logoi furono però per la prima volta a pieno titolo riconosciuti come testo autonomo, degno di una propria specifica collocazione all’interno della tradizione sofistica, soltanto a partire dalla fondamentale edizione critica di T. M. Robinson, Contrasting Arguments. An Edition of the ‘Dissoi logoi’, New York, Arno Press, 1979. Questo lavoro costituisce l’unica esemplare recensione di gran parte dei manoscritti sestani contenenti i Dissoi logoi e a tutt’oggi rimane l’edizione critica di riferimento. Sempre nell’ottica di dare loro un effettivo rilievo all’interno della sofistica antica, i Dissoi logoi sono apparsi, affiancati ai testi di Protagora e Gorgia, anche in un’edizione criticamente rivista italiana: Sofisti: Protagora, Gorgia, Dissoi logoi. Una reinterpretazione dei testi, a cura di S. Maso – C. Franco, Bologna, Zanichelli, 199583. Infine, a seguito di una serie di contributi e annotazioni al testo forniti da Carl Joachim Classen (2001 e poi 2004), è stata pubblicata una nuova edizione criticamente rivista del testo con traduzione tedesca: Dissoi logoi, Zweierlei Ansichten. Ein sophistischer Traktat, heraugegeben von A. Becker und P. Scholz, Berlin, Akademie Verlag, 2004. Questa edizione si segnala per la particolare attenzione prestata alle annotazioni critiche fornite da Classen 2001 e 2004. 2.4. Conclusione. Partendo dall’insieme dei dati emersi, dalla loro analisi e dal tentativo di vederne una connessione, si può ora formulare un’ipotesi globale sui Dissoi logoi. Si ha a che fare con un testo molto probabilmente unitario, anche se le ultime sezioni, dalla quinta alla nona (l’ipotizzata seconda o seconda e terza 82 In 48 casi Laks – Most accolgono la lezione di Robinson contra DK; in 29 casi accolgono quella di DK contra Robinson. In 9 casi LM sono contra la lezione accolta da DK e Robinson; in 14 casi le tre edizioni offrono lezioni distinte. In una sola occasione (5.13) LM presentano una loro correzione ricavandola da lezione manoscritta: ἢ ποτιτίθητί τι. 83 In quest’opera, l’edizione dei Dissoi logoi non si avvaleva dei contributi critici di J. Classen né poteva confrontarsi con le edizioni di Becker – Scholz e Laks – Most. Nella costituzione del testo già allora si cercava di mediare tra la lettura di Diels – Kranz e le lezioni proposte da Robinson. L’apparato critico era di tipo negativo.
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parte), sembrano a prima vista rispondere meno allo schema espositivo delle «argomentazioni in contrasto»84. Questo fatto può essere giustificato dall’attuale lacunosità del testo (è possibile comunque dedurre parte dell’argomentazione sottintesa); peraltro la lingua usata e le caratteristiche stilistiche non offrono alcun elemento che possa avvalorare l’ipotesi che si sia di fronte a testi di autori diversi riuniti insieme. Inoltre, tutti i manoscritti riportano in modo unitario i Dissoi logoi, esclusi ovviamente i tre che per motivi meccanici si interrompono alla fine di quella oggi considerata la terza sezione. Da ultimo, la relativa poca raffinatezza retorica e i mancati approfondimenti che oggi ci aspetteremmo in riferimento all’ambiente socratico possono conciliarsi sia con l’epoca ‘alta’ di scrittura sia con il contesto ambientale stesso in cui i Dissoi logoi furono scritti. Se il testo è collocato intorno al 440 a.C., evidentemente si è nel primo momento dell’affermazione della sofistica: è la fase dell’arrivo ad Atene e dell’insegnamento di Protagora (da Abdera), di Gorgia (da Leontini), di Ippia (da Elide), di Prodico (da Ceo)85. Un maestro di retorica (non necessariamente iniziato alla filosofia pitagorica) può benissimo anche lui essere giunto ad Atene proveniente da una regione in cui il dialetto dorico era dominante (potrebbe trattarsi di Taranto oppure della Sicilia86). Il contatto con la nuova temperie culturale l’avrebbe messo nella condizione di cimentarsi nella disciplina delle argomentazioni in contrasto: e a questo punto possiamo immaginare i Dissoi logoi come il frutto di una sua provvisoria rielaborazione scritta in occasione o in vista del rientro nella sua scuola di provenienza87. Certamente tutta questa sceneggiatura rimane puramente ipotetica; eppure sembra conciliarsi con quanto è possibile giudicare anche con riferimento alla situazione più generale. Nel 440 non solo il ‘movimento’
Per questo motivo la suddivisione ormai acquisita in seguito alla terza edizione di Diels dei Die fragmente der Vorsokratiker (1912) può essere confermata senza controindicazioni. In essa i diversi temi affrontati sono efficacemente distinti. 85 Un utile quadro cronologico relativo all’antica sofistica, alle scuole di retorica e di filosofia tra il 450 e il 400 è nell’appendice proposta da Becker – Scholz 2004, pp. 41-43. 86 A dire il vero il vocalismo severior di alcune parole punta più in direzione di Taranto che della Sicilia, in cui il dorico presenta invece una forma di vocalismo mitior. Peraltro non si può escludere all’origine un dorico con vocalismo mitior rimaneggiato poi in senso severior. 87 Le opinioni di Robinson 1979, p. 89 n. 68, e di Rossetti 1980, p. 30, vanno comunque in questa direzione, anche se entrambi propendono per una datazione tarda (dopo la guerra del Peloponneso) dello scritto. Rossetti precisa: «Nei Dissoi logoi si dovrebbero vedere (…) degli appunti per conferenze, più che un testo da dare in lettura ad estranei nella forma in cui possiamo leggerli noi ora». 84
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sofistico è agli esordi, ma non ancora è apparso all’orizzonte Socrate e la sua critica alla sofistica; la grande storiografia di Erodoto e Tucidide è di là da venire; la crisi delle comunità pitagoriche non è incombente. In quest’ottica, i vari punti di contatto tematici e linguistici che si possono rinvenire nei Dissoi logoi con i dialoghi di Platone o con i testi di Erodoto o della stessa sofistica saranno da interpretarsi come interessanti esperimenti retorici su questioni che cominciavano a essere dibattute anche in ambito filosofico: anticipazioni piuttosto che echi o semplicistiche riprese tardive88. In particolare, la non adeguata elaborazione in chiave sofistica delle contrapposte argomentazioni (che invece ci si dovrebbe attendere in epoca più tarda, dopo la lezione socratica), depone a favore di una chiave di lettura dei Dissoi logoi che ne faccia un primo tentativo – secondo la lezione protagorea – di confronto tra tesi in chiave sofistica e, solo in prospettiva, relativistica. D’altra parte, proprio quest’ultimo aspetto (l’atteggiamento in qualche modo relativistico) può essere considerato il motivo per cui i Dissoi logoi sono stati trasmessi in coda agli scritti dello scettico Sesto Empirico. 3. Il testo critico. Il testo qui presentato si avvale anzitutto dell’escussione dei manoscritti e della ricostruzione stemmatica proposta da T. M. Robinson nel 1979. In base a essa assumono un ruolo centrale i manoscritti Parisinus gr. 1964 (P1 = E DK), e Parisinus gr. 1967 (P2 = e Mutschmann), che dipendono dal comune subarchetipo δ. A quest’ultimo si contrappone il subarchetipo β, da cui dipende – da una parte – il Parisinus gr. 1963 (P3 = A DK), dall’altra, tutta una serie di manoscritti suddivisibili in tre aree: ε, ζ, η, tra i quali si distinguono per anzianità il Regimontanus 16 b 12 (R = K DK), il Venetus Marcianus gr. 262 (V2 = V DK = V / Ve Mutschmann); particolare attenzione meritano il Vaticanus gr. 1338 (Y1 = R Mutschmann) che riporta le annotazioni del «corrector graecorum voluminum» della Biblioteca Vaticana, Matthaeus de Varis, e il Berolinensis Phillippicus 1518 (B = P DK), il più affidabile rappresentante della famiglia η insieme al Venetus Marcianus gr. 4, 26 (V1 = W DK). Un serio problema peraltro è costituito dal fatto che i codici che contribuiscono a costituire il subarchetipo δ si interrompono alla fine della terza
88 È chiaro che un giudizio svalutativo emergerebbe nel momento in cui, ritenuti databili intorno al 400 a.C., i Dissoi logoi fossero confrontati con il relativismo sofistico che emerge dalle pagine del Protagora di Platone, dai testi di Gorgia o da Antifonte: cfr. il saggio di A. Becker, in Becker – Scholz 2004, pp. 113-142.
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sezione (cioè fino a ποιέοντι). Di conseguenza per le successive sezioni ci si può avvalere solo dei codici che contribuiscono a costituire il subarchetipo β: e tra essi in particolare del codice Parisinus gr. 1963 (P3 = A DK). Tenendo presente questa situazione, sono stati controllati puntualmente, oltre all’apparato critico del Robinson, quelli di Weber 1897 e di Diels – Kranz 1934, entrambi preziosi per ricostruire le lezioni adottate e le congetture dei precedenti filologi; si è inoltre compulsato l’apparato critico presentato nell’edizione di Becker – Scholz 2004, che tiene in grande conto le annotazioni di Classen 2001 e 2004. Infine, si è tenuta presente l’edizione criticamente rivista di Laks – Most 2016 (= LM). Queste cinque edizioni critiche (con l’aggiunta di quella di Untersteiner 1954, per lo più riproducente il testo di Diels – Kranz) consentono di affrontare i problemi testuali in modo documentato e affidabile. Ovviamente le scelte qui adottate rispondono a un criterio proprio: esso vorrebbe caratterizzarsi per una maggiore aderenza al testo tradito e per una adeguata cautela nei casi in cui l’intervento dell’editore appaia inevitabile. Per esempio, in 1.13, è evidente che il testo presenta una doppia interrogazione retorica con relative risposte: perciò il testo tradito, pur ellittico, non necessita di particolari integrazioni o arrangiamenti come proposto invece in un modo nell’edizione Weber, in un altro nelle edizioni Diels – Kranz e Untersteiner, e in altro ancora in Becker – Scholz e Laks – Most89. La soluzione indicata da Robinson, peraltro con una piccola variazione da me apportata90, sembra risolvere efficacemente il punto. In altra occasione, in 9.3, il testo di Robinson presenta una brillante correzione (δεύτερον, δεῖ μελετᾶν, αἴ κα ἀκούσῃς, «In secondo luogo, bisogna riflettere su ciò che si ode»); probabilmente non è necessaria: si potrebbe
Weber 1897, p. 38: «τί δέ, τώς συγγενέας ἤδη τι ἀγαθὸν ἐποίησας; . . . τὼς ἄρα συγγενέας κακὸν ἐποίεις. τί δέ, τὼς ἐχθρὼς ἤδη κακῶς ἐποίησας; καὶ πολλὰ καὶ μεγάλα. καὶ πολλὰ καὶ μεγάλα ἄρα ἀγαθὰ ἐποίησας». DK 1934 (e Untersteiner 1954): «(…) τί δέ, τώς συγγενέας ἤδη τι ἀγαθὸν ἐποίησας; “‹καὶ πολλὰ καὶ μεγάλα›”. “τὼς ἄρα συγγενέας κακὸν ἐποίεις. τί δέ, τὼς ἐχθρὼς ἤδη κακῶς ἐποίησας”; “καὶ πολλὰ καὶ ‹μεγάλα›”. “μέγιστα ἄρα ἀγαθὰ ἐποίησας (…)”». Becker – Scholz 2004: «(…) τί δαί, συγγενέας ἤδη τι ἀγαθὸν ἐποίησας; τὼς ἄρα συγγενέας κακὸν ἐποίεις. τί δέ, τὼς ἐχθρὼς ἤδη κακὸν ἐποίησας»; «καὶ πολλὰ καὶ ‹μεγάλα›». «μέγιστα ἄρα ἀγαθὰ ἐποίησας. (…)». Laks – Most 2016: «τί δέ, τώς συγγενέας ἤδη τι ἀγαθὸν ἐποίησας; τὼς ἄρα συγγενέας κακὸν ἐποίεις. τί δέ, τὼς ἐχθρὼς ἤδη κακῶς ἐποίησας; καὶ πολλὰ καὶ μεγάλα ἄρα ἀγαθὰ ἐποίησας». 90 Ecco il testo di Robinson 1979: «(…) τί δέ, τὼς συγγενέας ἤδη τι ἀγαθὸν ἐποίησας; τὼς ἄρα συγγενέας κακὸν ἐποίεις. τί δέ, τὼς ἐχθρὼς ἤδη κακῶς ἐποίησας; καὶ πολλὰ καὶ μέγιστα ἄρα ἀγαθὰ ἐποίησας. (…)». Rispetto a questo testo, l’unica differenza in quello da me proposto consiste nell’accogliere la lezione κακὸν (P1.2) e non κακῶς (rel. codd.). 89
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cioè mantenere il testo tràdito e accolto in genere dagli altri editori: δεύτερον δὲ μελετᾶν, αἴ κα ἀκούσῃς, «il secondo (scil. vantaggio che l’uso della memoria comporta, consiste) nel fare esercizio, se si è ascoltato qualcosa»91. Tuttavia, l’intervento di Robinson consente di evitare la più impegnativa – e credo altrimenti inevitabile – integrazione ‹πρᾶτον› al paragrafo precedente. Viceversa, in 1.14, il testo tràdito offre πολλὰ καὶ μεγάλα ἔχοντι παλιν; Robinson propone πολλὰ καὶ κακὰ ἔχοντι, πάλιν, ma in questo modo si perde μεγάλα. Forse è risolutiva la strada indicata da Matthaeus de Varis (πολλὰ καὶ μεγάλα κακὰ ἔχοντι πάλιν), recentemente perfezionata da Classen sulla scia di un’integrazione di Schanz (πολλὰ καὶ μεγάλα κακὰ ἔχοντι, ‹καὶ› πάλιν) e ora accolta anche da Laks – Most. In 4.2 Robinson interviene invece integrando con una particella ipotetica: αἰ μὲν ὡς ‹ἂν› λέγηται, non presente nei codici. Essa non pare necessaria alla comprensione del testo, come non lo è nemmeno l’integrazione proposta da Blass e recepita sia da Diels – Kranz sia da Laks – Most: ‹κα›. Meglio di tutto è seguire la lezione del cod. Parisinus gr. 1963, mantenuta da Mullach, Classen e ora da Becker – Scholz: αἰ μὲν ὡς λέγηται. Quanto alle lezioni divergenti tra codici, fin dove possibile si è cercata una soluzione rispettosa della ricostruzione stemmatica offerta da Robinson. Un esempio: in 6.1 l’importante cod. R (Regimontanus 16 b 12) è il solo a presentare la lezione καινός; tutti gli altri (in particolare i ‘concorrenti’ V2 e P3) hanno κενός. I principali editori – a cominciare da Weber e compresi Diels – Kranz, Robinson, Laks – Most – accolgono καινός di R; ciò immotivatamente, stante il quadro stemmatico. Solo Classen 2004, pp. 108-109 (seguito poi da Becker – Scholz), si oppone. La lezione κενός («insensato») è corretta e dà senso compiuto all’argomentazione. Come già sottolineato, il testo dei Dissoi logoi è in dialetto dorico; tuttavia in molti casi l’incertezza dei manoscritti tra forme doriche e ionico/ attiche lascia presupporre sia un uso della lingua dorica non più puro92, in 91 Questo è il testo di DK, Untersteiner, Becker – Scholz, Laks – Most; segnalo tuttavia che Becker – Scholz sembrano tradurre il testo di Robinson: «Zweitens: Du mußt wiederholen, wenn du etwas hörst». Quanto a Weber, mantiene δεύτερον δὲ ma accoglie una correzione di Blass e legge: δεύτερον δὲ μελετῆν ἅ κα ἀκούσῃς, «In secondo luogo, (consente) di mettere in pratica quello che si è ascoltato». 92 Anche in altre tradizioni letterarie (per esempio nella commedia di Epicarmo oppure nella lirica corale) la mistione dialettale è presente e il dorico non appare sempre nella sua purezza. Inoltre, come mi segnala Olga Tribulato, un autore della metà del V secolo a.C. non aveva segni speciali per scrivere le vocali lunghe: dunque il testo originale (qualunque fosse il dialetto in cui era scritto) poteva essere frainteso in fase di adattamento alle convenzioni dell’alfabeto ionico.
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conseguenza della permanenza in ambiente attico dell’autore; sia i tentativi dei vari copisti e/o editori di uniformare in un senso o nell’altro (vale a dire in puro dorico / nella lingua della koiné) il testo da riprodurre. Proprio alla non purezza del dorico si è fatto riferimento, rinunciando dunque a normalizzare sempre e comunque93: piuttosto lasciando apparire la non omogeneità del testo, testimonianza, come si è detto, di una fase particolare di sviluppo della conoscenza della lingua da parte di un autore proveniente da territori di lingua dorica ma probabilmente intenzionato a rivolgersi a destinatari parlanti in diverso dialetto. La questione si pone anche dal punto di vista puramente grafico: in questo caso, con Weber, Robinson e Laks – Most (ma contro Diels – Kranz, Becker – Scholz, e anche contro il testo presentato da Graham) si è deciso di rinunciare allo iota ascritto, uniformando sempre la grafia nelle corrispondenti forme più immediatamente leggibili con iota sottoscritto.
93 Tuttavia, nelle sezioni 2 e 3, i titoli in attico subito dopo seguiti nel testo da genitivi in dialetto dorico creavano molte perplessità. Per questo si sono eccezionalmente uniformati al dorico delle sezioni 1 e 4.
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SIGLA
Robinson B C E F1 F2 H L M P1 P2 P3 P4 P5 P6 Q R S St T V1 V2 Y1 Y2 Z
Diels – Kranz P (DK) – z (Mutschmann) – F (DK) H (DK) Vossianus – E (DK) e (Mutschmann) A (DK) C (DK) / Z (Mutschmann) D (Mutschmann) B (DK) / P (Mutschmann) O (Mutschmann) K (DK) – – W (DK) V (DK) / Ve (Mutschmann) R (Mutschmann) r (Mutschmann) m (Mutschmann)
Manoscritto Berolinensis Phillippicus 1518 Cizensis fol. 70 Escorialensis T-1-16 Laurentianus 85, 19 Laurentianus 85, 24 Vesontinus gr. 409, f. 19 Leidensis Voss. Misc. I n. 4 Mertonensis 304 Parisinus gr. 1964 Parisinus gr. 1967 Parisinus gr. 1963 Parisinus gr. 2081 Parisinus gr., suppl. 133 Parisinus gr. 1965 Ottobonianus gr. 21 Regimontanus 16 b 12 Savillanus gr. 1 Codex in usu Stephani Taurinensis gr. 12 Venetus Marcianus gr. 4, 26 Venetus Marcianus gr. 262 (= 408 Bessarionis) Vaticanus gr. 1338 Vaticanus gr. 217 Monacensis gr. 79
DK = Diels – Kranz 1934 BS = Becker – Scholz 2004 LM = Laks – Most 2016 Matth. de Varis = Matthaeus de Varis, coniecturae ad cod. Y1 (= Vaticanus gr. 1338)
Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
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ΔΙΣΣΟΙ ΛΟΓΟΙ 1. Περὶ ἀγαθῶ καὶ κακῶ1 [1] Δισσοὶ λόγοι λέγονται ἐν τῇ ‘Ελλάδι2 ὑπὸ τῶν ϕιλοσοϕούντων περὶ τῶ ἀγαθῶ καὶ τῶ κακῶ. τοὶ μὲν γὰρ λέγοντι ὡς ἄλλο μέν ἐστι τὸ ἀγαθόν, ἄλλο δὲ τὸ κακόν· τοὶ δὲ ὡς τὸ αὐτό ἐστι, καὶ τοῖς μὲν ἀγαθὸν εἴη3 τοῖς δὲ κακόν, καὶ τῷ αὐτῷ ἀνθρώπῳ τοτὲ μὲν ἀγαθόν τοτὲ δὲ κακόν. [2] ἐγὼ δὲ καὶ αὐτὸς τοῖσδε ποτιτίθεμαι. σκέψομαι δὲ ἐκ τῶ ἀνθρωπίνω βίω, ᾧ4 ἐπιμελὲς βρώσιός τε καὶ πόσιος καὶ ἀϕροδισίων· ταῦτα γὰρ ἀσθενοῦντι μὲν κακόν, ὑγιαίνοντι δὲ καὶ δεομένῳ ἀγαθόν5. [3] καὶ ἀκρασία τοίνυν τούτων τοῖς μὲν ἀκρατέσι κακόν, τοῖς δὲ πωλεῦντι ταῦτα καὶ μισθαρνέοντι ἀγαθόν. νόσος τοίνυν τοῖς μὲν ἀσθενεῦντι κακόν6 , τοῖς δὲ ἰατροῖς ἀγαθόν. ὁ τοίνυν θάνατος τοῖς μὲν ἀποθανοῦσι κακόν, τοῖς δ’ ἐνταϕιοπώλαις καὶ τυμβοποιοῖς ἀγαθόν. [4] γεωργία τε καλῶς ἐξενείκασα τὼς καρπὼς τοῖς μὲν γεωργοῖς ἀγαθόν, τοῖς δὲ ἐμπόροις κακόν. τὰς τοίνυν ὁλκάδας συντρίβεσθαι καὶ παραθραύεσθαι7 τῷ μὲν ναυκλήρῳ κακόν, τοῖς δὲ ναυπαγοῖς ἀγαθόν. [5] ἔτι ‹δὲ›8 τὸν σίδαρον9 κατέσθεσθαι καὶ ἀμβλύνεσθαι καὶ συντρίβεσθαι τοῖς μὲν ἄλλοις κακόν, τῷ δὲ χαλκῇ ἀγαθόν. καὶ μὰν τὸν κέραμον παραθραύεσθαι τοῖς μὲν ἄλλοις κακόν, τοῖς δὲ κεραμεῦσιν ἀγαθόν. τὰ δὲ ὑποδήματα κατατρίβεσθαι καὶ διαρρήγνυσθαι τοῖς μὲν ἄλλοις κακόν, τῷ δὲ σκυτῇ ἀγαθόν. [6] ἐν τοίνυν τοῖς ἀγῶσι τοῖς γυμναστικοῖς10 καὶ τοῖς μωσικοῖς καὶ τοῖς πολεμικοῖς· αὐτίκα ἐν τῷ γυμνικῷ τῷ σταδιοδρόμῳ, ἁ νίκα τῷ μὲν νικῶντι ἀγαθόν, τοῖς δὲ ἡσσαμένοις κακόν.
1 περὶ ἀγαθῶ καὶ κακῶ Weber, DK, Robinson, BS, LM: περὶ τῶ ἀγαθῶ καὶ τῶ κακῶ Stephanus: tit. om. P1.2, περὶ ἀγαθοῦ καὶ κακοῦ rell. codd. 2 ἐν τῇ ‘Ελλάδι codd. Robinson, LM: ἐν τᾷ Ἑλλάδι Mullach, DK, Classen (cfr. 6.4), BS. 3 εἴη codd., edd.: {εἴη} Wilamowitz (sed cfr. 4.6, Friedländer). 4 ᾧ Wilamowitz, DK, Robinson, BS, LM: ὧν codd. (ὧν = τούτων οἷς Classen). 5 κακόν … ἀγαθόν P1, DK, Robinson, LM: κακά … ἀγαθά rel. codd., BS. 6 τοῖς δὲ πωλεῦντι … κακόν P1.2, edd.: om. rel. codd. 7 παραθραύεσθαι codd. praeter P1.2, edd. (cfr. 1.5): περιθραύεσθαι P1.2, Classen, BS. 8 ‹δὲ› L (Vossianus), DK, Robinson, BS, LM: ‹δὴ› Trieber. 9 σίδαρον P1, edd.: σίδηρον rel. codd. 10 γυμναστικοῖς codd., BS: γυμνικοῖς Blass, DK, Robinson, LM.
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Argomentazioni in contrasto 1. Bene e male [1] Nella Grecia sono formulate due argomentazioni in contrasto intorno al tema del bene e del male, da parte di coloro che si dedicano alla filosofia: c’è chi sostiene che altro è il bene, altro il male; altri, che c’è coincidenza e che ciò che per alcuni è bene per altri è male, e che al medesimo individuo risulta ora bene ora male. [2] Io per parte mia mi associo a questi ultimi. Comincerò a indagare a partire dalla vita umana, in cui ci si prende cura del mangiare e del bere e del piacere sessuale: ebbene, tutto ciò è male per chi è malato, ma bene per chi è sano e avverte questi stimoli. [3] E ancora: una mancanza di controllo in questi campi è male per chi perde il controllo, bene invece per chi commercia in essi e se ne arricchisce. Così pure una malattia è male per il malato, bene per il medico. E la morte male per chi muore, bene per gli impresari funebri e i becchini. [4] Inoltre, un’attività agricola che produce con successo il raccolto è bene per chi coltiva, male per i mercanti. E che le navi da carico subiscano collisioni e restino danneggiate è un male per l’armatore, un bene per chi lavora nei cantieri. [5] E ancora: che il ferro si corroda, perda l’affilatura e si usuri è male per gli altri, bene però per il fabbro. E anche che i vasi finiscano in pezzi è male per gli altri ma bene per i vasai, mentre il fatto che si consumino e lacerino le calzature è male per tutti gli altri e bene per il calzolaio. [6] Lo stesso accade nelle contese di atletica, di belle arti e di guerra: appunto nella corsa dello stadio la vittoria è bene per chi vince, male per chi resta sconfitto;
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[7] καττωὐτὸ1 δὲ καὶ τοὶ παλαισταὶ καὶ πύκται καὶ τοὶ ἄλλοι πάντες μωσικοί· αὐτίκα ἁ κιθαρῳδία2 τῷ μὲν νικῶντι ἀγαθόν, τοῖς δὲ ἡσσαμένοις κακόν. [8] ἔν τε τῷ πολέμῳ (καὶ τὰ νεώτατα3 πρῶτον ἐρῶ) ἁ τῶν4 Λακεδαιμονίων νίκα, ἃν5 ἐνίκων ‘Αθηναίως καὶ τὼς συμμάχως, Λακεδαιμονίοις μὲν ἀγαθόν, ‘Αθηναίοις δὲ καὶ τοῖς συμμάχοις κακόν· ἅ τε νίκα ἃν τοὶ ῞Ελλανες τὸν Πέρσαν ἐνίκασαν, τοῖς μὲν ῞Ελλασιν ἀγαθόν, τοῖς δὲ βαρβάροις κακόν. [9] ἁ τοίνυν τοῦ ‘Ιλίου αἵρεσις τοῖς μὲν ‘Αχαιοῖς ἀγαθόν, τοῖς δὲ Τρωσὶ κακόν. καδδὲ ταὐτὸν καὶ τὰ τῶν Θηβαίων καὶ τὰ τῶν ‘Αργείων πάθη. [10] καὶ ἁ τῶν Κενταύρων καὶ Λαπιθᾶν μάχη τοῖς6 μὲν Λαπίθαις ἀγαθόν, τοῖς δὲ Κενταύροις κακόν. καὶ μὰν καὶ ἁ τῶν θεῶν καὶ Γιγάντων λεγομένα μάχα καὶ νίκα7 τοῖς μὲν θεοῖς ἀγαθόν, τοῖς δὲ Γίγασι κακόν. [11] ἄλλος δὲ λόγος λέγεται ὡς ἄλλο μὲν τἀγαθὸν εἴη, ἄλλο δὲ τὸ κακόν· διαϕέρον ὥσπερ καὶ τὤνυμα οὕτω καὶ τὸ πρᾶγμα. ἐγὼ δὲ καὶ αὐτὸς τοῦτον διαιρεῦμαι τὸν τρόπον· δοκῶ γὰρ οὐδὲ διάδαλον ἦμεν8 ποῖον ἀγαθὸν καὶ ποῖον κακόν, αἰ τὸ αὐτὸ καὶ μὴ ἄλλο ἑκάτερον εἴη9· καὶ γὰρ θαυμαστόν κ’ εἴη10. [12] οἶμαι δὲ οὐδέ κ’ αὐτὸν ἔχεν11 ἀποκρίνασθαι, αἴ τις {αὐτὸν}12 ἔροιτο τὸν ταῦτα λέγοντα· «εἶπον δή μοι, ἤδη τι τὼς γονέας ἀγαθὸν ἐποίησας;13» ϕαίη κα· «καὶ πολλὰ καὶ μεγάλα.» «τὺ ἄρα κακὰ καὶ μεγάλα καὶ πολλὰ τούτοις ὀϕείλεις, αἴπερ τωὐτόν ἐστι τὸ ἀγαθὸν τῷ κακῷ.
1 καττωὐτὸ Matth. de Varis, DK, Robinson, BS, LM: καὶ τοῦτο codd.: καττωϋτό Koen, Orelli (vel καδδὲ ταυτό): κατταυτὸ Wilamowitz: καττοῦτο Blass, Weber. 2 αὐτίκα ἁ κιθαρῳδία codd. praeter P1.2 (ὁ κιθαρῳδός), Robinson, LM: αὐτίκα ‹ἁ νίκα› ἁ κιθαρῳδίας DK, Untersteiner: αὐτίκα ἁ κιθαρῳδίας BS. 3 τὰ νεώτατα Koen, edd.: τὰ νεώτατοι M, S (νεότατι rel.): τᾶ (P2 / τᾷ rel.) νεότητι P1.2: τὰ νεωστί North. 4 ἁ τῶν Koen, edd.: αὐτῶν codd. 5 ἃν Weber, edd.: ἐν ᾇ codd. 6 μάχη τοῖς codd.: μάχα τοῖς Mullach, DK, BS, LM. 7 καὶ νίκα codd., edd.: {καὶ νίκα} Wilamowitz. 8 οὐδὲ (vel οὐ P1.2) διάδαλον ἦμεν codd., Robinson, BS, LM: οὐ διάδαλόν ‹κ’› ἦμεν Blass: οὐδὲ διάδαλόν ‹κ’› ἦμεν DK. 9 εἴη codd. praeter P1.2 (ἦεν). 10 κ’ εἴη Stephanus, edd.: εἴη P2 : κείη rel. codd. 11 ἔχεν P1.2, edd.: ἔσχεν vel ἔσχον rel. codd. 12 {αὐτὸν} Diels, Robinson, LM: αὐτὸν codd. praeter P6, V2 (αὐτὸν αὐτὸν), BS: {αὐ}τὸν αὐτὸν Friedländer. 13 τι τὼς γονέας … ἐποίησας P1.2.3.4, V2, Robinson: τι τοὺς γονέας … ἐποίησας rel. codd., BS: τύ τι τοὶ γονέες … ἐποίησαν Schulze, DK, Untersteiner.
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[7] ed è la stessa cosa per la lotta, il pugilato e ogni altro campo artistico: appunto la partecipazione a un agone citarodico è bene per chi vince, male per chi resta sconfitto. [8] E in guerra (prendo spunto innanzitutto dagli avvenimenti più recenti) la vittoria degli Spartani sugli Ateniesi e i loro alleati fu un bene per gli Spartani, un male per gli Ateniesi e i loro alleati, mentre la vittoria dei Greci sui Persiani fu un bene per i Greci, un male per i barbari. [9] E ancora: la presa di Troia fu bene per gli Achei, male per i Troiani, e lo stesso vale per le vicende di Tebe e di Argo. [10] E la battaglia dei Centauri e dei Lapiti fu bene per i Lapiti e male per i Centauri. E anche la battaglia che, si narra, fu combattuta tra gli Dei e i Giganti e la conseguente vittoria fu bene per gli Dei e male per i Giganti. [11] L’altra argomentazione sostiene che altro è il bene, altro il male: come nella parola che li definisce, così differirebbero di fatto. Io per parte mia analizzo la questione secondo questo procedimento: ritengo che non possa neppure risultar chiaro che cosa sia bene e che cosa sia male, qualora si ammetta che si tratta di uno stesso concetto e non di due separati. Sarebbe infatti qualcosa di paradossale! [12] Credo che chi sostiene questo punto di vista non sarebbe neppure in grado di rispondere se gli fosse chiesto: «Dimmi, allora, hai mai fatto del bene ai tuoi genitori?». Lui infatti risponderebbe: «Sì, più volte e molto». «Più volte e molto sei loro debitore di male, dato che bene e male sono la stessa cosa.
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[13] τί δέ, τὼς συγγενέας ἤδη τι ἀγαθὸν ἐποίησας;1 τὼς ἄρα συγγενέας κακὸν ἐποίεις. τί δέ2, τὼς ἐχθρὼς ἤδη κακὸν3 ἐποίησας; καὶ πολλὰ καὶ μέγιστα4 ἄρα ἀγαθὰ ἐποίησας. [14] ἄγε δή μοι καὶ τόδε ἀπόκριναι· ἄλλο τι ἢ τὼς πτωχὼς οἰκτείρεις5 ὅτι πολλὰ καὶ μεγάλα κακὰ ἔχοντι, ‹καὶ› πάλιν6 εὐδαιμονίζεις ὅτι πολλὰ καὶ ἀγαθὰ πράσσοντι, αἴπερ τωὐτὸ κακὸν καὶ ἀγαθόν;» [15] τὸν δὲ βασιλῆ τὸν μέγαν οὐδὲν κωλύει ὁμοίως διακεῖσθαι τοῖς πτωχοῖς. τὰ γὰρ πολλὰ καὶ μεγάλα ἀγαθὰ αὐτῷ πολλὰ κακὰ καὶ μεγάλα ἐστίν, αἴ γα7 τωὐτόν ἐστιν ἀγαθὸν καὶ κακόν. καὶ τάδε μὲν περὶ τῶ παντὸς εἰρήσθω. [16] εἶμι δὲ καὶ καθ’ ἕκαστον ἀρξάμενος ἀπὸ τῶ ἐσθίεν καὶ πῖνεν καὶ ἀϕροδισιάζεν. τωὐτὸ γὰρ8 τοῖς ἀσθενεῦντι ταῦτα ποιὲν9 ἀγαθόν ἐστιν {αὐτοῖς}10, αἴπερ τωὐτόν ἐστιν ἀγαθὸν καὶ κακόν. καὶ τοῖς νοσέοντι κακόν ἐστι τὸ νοσεῖν καὶ ἀγαθόν, αἴπερ τωὐτόν ἐστι τὸ ἀγαθὸν τῷ κακῷ. [17] καδδὲ τόδε καὶ τἆλλα πάντα τὰ ἐν τῷ ἔμπροσθεν λόγῳ εἴρηται. καὶ οὐ λέγω τί ἐστι τὸ ἀγαθόν, ἀλλὰ τοῦτο πειρῶμαι διδάσκειν, ὡς οὐ τωὐτὸν εἴη κακὸν καὶ ἀγαθόν11, ἀλλ’ ‹ἄλλο› ἑκάτερον12.
τι ἀγαθὸν ἐποίησας; codd., Robinson, BS, LM: τι ἀγαθὸν ἐποίησας; ‹καὶ πολλὰ καὶ μεγάλα› DK. 2 τί δέ … τί δέ codd. praeter P1.2 (τί δαί), DK, Robinson, LM: τί δή … τί δή Trieber: τί δαί … τί δέ BS. 3 ἤδη κακὸν P1.2, DK, Classen, BS: ἤδη κακῶς rel. codd., Robinson, LM: ἤδη ‹τι› κακὸν Trieber. 4 καὶ πολλὰ καὶ μέγιστα P1.2, Robinson: καὶ πολλὰ καὶ μεγάλα rel. codd., LM: καὶ πολλὰ καὶ ‹μεγάλα›. μέγιστα Diels 1903, DK, BS. 5 οἰκτείρεις codd., Robinson: οἰκτίρεις Weber, DK, BS, LM. 6 πολλὰ καὶ μεγάλα κακὰ ἔχοντι, ‹καὶ› πάλιν Classen, BS, LM (πολλὰ καὶ μεγάλα κακὰ ἔχοντι πάλιν Matth. de Varis, North): πολλὰ καὶ μεγάλα ἔχοντι πάλιν codd.: πολλὰ καὶ μεγάλα ἔχοντι κακὰ καὶ πάλιν Schanz: πολλὰ καὶ κακὰ ἔχοντι ‹καὶ› πάλιν Diels1 (ἔχοντι· ‹καὶ› πάλιν DK): πολλὰ καὶ κακὰ ἔχοντι, πάλιν Robinson. 7 αἴ γα DK, Robinson, BS, LM: αἴκα codd. 8 τωὐτὸ (vel ταὐτὸ) γὰρ Orelli, Robinson: τοῦτο γὰρ codd.: ταῦτα γὰρ Mullach, DK, BS, LM. 9 τοῖς ἀσθενεῦντι ταῦτα ποιὲν P2 (ποιεῦν F2, P1), Robinson: τοῖς ἀσθενεῦντι ‹κακὸν, καὶ πάλιν› ταῦτα ποιὲν Blass, Weber, DK, LM: τοῖς ἀσθενεῦντι ‹κακὸν καὶ› ταῦτα ποιὲν Classen, BS. 10 {αὐτοῖς} Robinson ({αὐτοῖς?} Trieber): αὐτοῖς codd., rel. edd. 11 κακὸν καὶ ἀγαθόν codd., edd. praeter DK, Untersteiner (τὸ κακὸν καὶ τὸ ἀγαθόν). 12 ἀλλ’ ‹ἄλλο› ἑκάτερον Blass, DK, Robinson, BS, LM: ἀλλ’ ἑκάτερον codd., Untersteiner. 1
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[13] Dunque, hai fatto del bene ai tuoi cari? allora facevi loro del male. E che, hai fatto del male ai tuoi nemici? Hai fatto loro più volte e molto del bene. [14] E dammi risposta anche su questo: non hai forse compassione dei mendicanti perché patiscono molte e grandi disgrazie, e, daccapo, non li reputi fortunati perché hanno molti beni, posto che bene e male sono la stessa cosa?». [15] Così nulla vieta che il Gran Re sia nella medesima condizione dei mendicanti, dato che i molti e grandi beni altro non sono per lui che molti e grandi mali, posto che bene e male sono la stessa cosa. E lo stesso si deve dire per qualsiasi caso analogo. [16] Passo al dettaglio, cominciando dal mangiare, dal bere e dal piacere sessuale: mettere in pratica tutto ciò è un bene per chi è ammalato, posto che bene e male sono la stessa cosa. E anche per chi è ammalato poi la malattia è male e bene, posto che bene e male sono la stessa cosa. [17] E lo stesso vale per ogni punto toccato in precedenza nel ragionamento. Peraltro, io non stabilisco che cosa è il bene, ma tento solo di insegnare questo: che bene e male non coincidono ma differiscono l’uno dall’altro.
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2. Περὶ καλῶ καὶ αἰσχρῶ1 [1] λέγονται δὲ καὶ περὶ τῶ καλῶ καὶ αἰσχρῶ2 δισσοὶ λόγοι. τοὶ μὲν γάρ ϕαντι, ἄλλο μὲν ἦμεν τὸ καλόν, ἄλλο δὲ τὸ αἰσχρόν, διαϕέρον ὥσπερ καὶ τὤνυμα, οὕτω καὶ τὸ σῶμα3· τοὶ δὲ τωὐτὸ καλὸν καὶ αἰσχρόν. [2] κἀγὼ πειρασεῦμαι4 τόνδε τὸν τρόπον ἐξαγεύμενος. αὐτίκα γὰρ παιδὶ5 ὡραίῳ ἐραστᾷ μὲν χρηστῷ χαρίζεσθαι καλόν6 , μὴ ἐραστᾷ δὲ καλῷ αἰσχρόν7. [3] καὶ τὰς γυναῖκας λοῦσθαι ἔνδοι8 καλόν, ἐν παλαίστρᾳ δὲ αἰσχρόν, ἀλλὰ τοῖς ἀνδράσιν ἐν παλαίστρᾳ καὶ ἐν γυμνασίῳ καλόν. [4] καὶ συνίμεν τῷ ἀνδρὶ ἐν ἁσυχίᾳ μὲν καλόν, ὅπου τοίχοις κρυϕθήσεται· ἔξω δὲ αἰσχρόν, ὅπου τις ὄψεται. [5] καὶ τῷ μὲν αὐτᾶς9 συνίμεν ἀνδρὶ καλόν, ἀλλοτρίῳ δὲ αἴσχιστον10. καὶ τῷ γ’ ἀνδρὶ τᾷ μὲν ἑαυτῶ γυναικὶ συνίμεν καλόν, ἀλλοτρίᾳ δὲ αἰσχρόν. [6] καὶ κοσμεῖσθαι καὶ ψιμυθίῳ11 χρίεσθαι καὶ χρυσία περιάπτεσθαι, τῷ μὲν ἀνδρὶ αἰσχρόν, τᾷ δὲ γυναικὶ καλόν. [7] καὶ τὼς μὲν ϕίλως εὖ ποιὲν καλόν, τὼς δὲ ἐχθρὼς αἰσχρόν. καὶ τὼς μὲν πολεμίως ϕεύγεν αἰσχρόν, τὼς δὲ ἐν σταδίῳ ἀγωνιστὰς12 καλόν. [8] καὶ τὼς μὲν ϕίλως καὶ τὼς πολίτας ϕονεύεν αἰσχρόν, τὼς δὲ πολεμίως καλόν. καὶ τάδε μὲν περὶ πάντων.
1 Περὶ καλῶ καὶ αἰσχρῶ Fabricius, Weber: Περὶ τῶ καλῶ καὶ αἰσχρῶ Stephanus, BS: Περὶ καλοῦ καὶ αἰσχροῦ codd., DK, Robinson, LM: tit. om. P1.2. 2 αἰσχρῶ codd., Robinson, BS, LM: ‹τῶ› αἰσχρῶ Trieber, DK. 3 σῶμα codd.: πρᾶγμα Stephanus (cfr. 1.11; 3.13). 4 πειρασεῦμαι P3, edd.: πειρασοῦμαι rel. codd. 5 παιδὶ Blass, edd.: παιδίῳ codd. 6 ἐραστᾷ μὲν χρηστῷ χαρίζεσθαι καλόν P1.2, Robinson, BS, LM: ἐραστᾷ μὲν χρηστῷ μὲν χαρίζεσθαι καλόν rel codd.: ἐραστᾷ μὲν {χρηστῷ} χαρίζεσθαι καλόν Wilamowitz, DK. 7 μὴ ἐραστᾷ δὲ καλῷ αἰσχρόν codd., Robinson, LM: μὴ ἐραστᾷ δὲ {καλῷ} αἰσχρόν Wilamowitz, DK: ἐραστᾷ δὲ μὴ καλῷ αἰσχρόν Rohde (cfr. Weber), BS: ἐραστᾷ δὲ μὴ χρεστῷ αἰσχρόν Weber: {μὴ} ἐραστᾷ δὲ κακῷ αἰσχρόν Classen. 8 ἔνδοι Vahlen, edd.: ἔνιοι P1.2 : ἔνδον rel. codd. 9 αὐτᾶς North, edd. praeter LM (ἑαυτᾶς): αὐτὰς codd. 10 αἴσχιστον F2, P1.3, R, V1, V2 (ad marg.), Z (ex αἰσχρόν), edd.: αἰσχρόν rel. codd. 11 ψιμυθίῳ P1.2, edd.: ψιμμυθίῳ rel. codd. 12 ἀγωνιστὰς codd. Robinson, Classen, BS, LM: ἀνταγωνιστὰς Orelli, DK.
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2. Bello e turpe [1] Due argomentazioni in contrasto sono formulate anche intorno a ciò che è bello e turpe. C’è chi afferma che altro è il bello, altro il turpe: differiscono sia nella parola che li definisce sia nel concreto. Per altri invece bello e turpe sono lo stesso. [2] E io per parte mia tenterò di darne spiegazione argomentando in questo modo: per esempio, è bello per un bel ragazzo corrispondere a un amante degno di rispetto, turpe corrispondere a chi è bello ma non lo ama. [3] E per le donne, far le proprie abluzioni all’interno della casa è bello, turpe in una palestra, mentre per gli uomini è bello anche in una palestra o in un ginnasio. [4] E congiungersi con un uomo, se appartata al riparo di una parete, è bello; mentre è turpe all’esterno, dove qualcuno può vedere. [5] E ancora: congiungersi con il proprio marito è bello, con il marito di un’altra donna è oltremodo turpe. Anche per gli uomini congiungersi con la propria moglie è bello, con la moglie di un altro turpe. [6] E truccarsi, usare creme e ornarsi di pietre preziose è turpe per un uomo, mentre per una donna è bello. [7] Far del bene agli amici è bello, ai nemici, turpe. E fuggir via se si tratta di nemici è turpe, se si tratta di atleti nella gara dello stadio è bello. [8] Ed è turpe uccidere amici e concittadini, bello uccidere nemici, e così via per ogni altro caso.
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[9] εἶμι δ’ ‹ἐϕ’›1 ἃ τᾷ πόλιές τε αἰσχρὰ ἅγηνται καὶ τὰ ἔθνεα. αὐτίκα Λακεδαιμονίοις τὰς κόρας γυμνάζεσθαι ‹καὶ›2 ἀχειριδώτως καὶ ἀχίτωνας παρέρπεν καλόν· ῎Ιωσι δὲ αἰσχρόν. [10] καὶ ‹τοῖς μὲν›3 τὼς παῖδας μὴ μανθάνειν μωσικὰ καὶ γράμματα καλόν. ῎Ιωσι δ’ αἰσχρὸν μὴ ἐπίστασθαι ταῦτα πάντα. [11] Θεσσαλοῖσι δὲ καλὸν τὼς ἵππως ἐκ τᾶς ἀγέλας λαβόντι αὐτῷ4 δαμάσαι καὶ τὼς ὀρέας· βῶν τε λαβόντι αὐτῷ5 σϕάξαι καὶ ἐκδεῖραι καὶ κατακόψαι, ἐν Σικελίαι δὲ αἰσχρὸν καὶ δώλων ἔργα. [12] Μακεδόσι δὲ καλὸν δοκεῖ ἧμεν τὰς κόρας, πρὶν ἀνδρὶ γάμασθαι, ἐρᾶσθαι6 καὶ ἀνδρὶ συγγίνεσθαι, ἐπεὶ δέ κα γάμηται7, αἰσχρόν· ῞Ελλασι δ’ ἄμϕω αἰσχρόν. [13] τοῖς δὲ Θραιξὶ κόσμος τὰς κόρας στίζεσθαι· τοῖς δ’ ἄλλοις τιμωρία τὰ στίγματα τοῖς ἀδικέοντι. τοὶ δὲ Σκύθαι καλὸν νομίζοντι, ὃς ἄνδρα8 κατακανὼν9 ‹καὶ›10 ἐκδείρας τὰν κεϕαλὰν τὸ μὲν κόμιον πρὸ τοῦ ἵππου ϕορεῖ, τὸ δ’ ὀστέον χρυσώσας καὶ ἀργυρώσας πίνει ἐξ αὐτοῦ καὶ σπένδει11 τοῖς θεοῖς· ἐν δὲ τοῖς ῞Ελλασιν οὐδέ κ’ ἐς τὰν αὐτὰν οἰκίαν συνεισελθεῖν βούλοιτό τις12 τοιαῦτα13 ποιήσαντι. [14] Μασσαγέται δὲ τὼς γονέας κατακόψαντες κατέσθοντι14, καὶ τάϕος κάλλιστος δοκεῖ ἦμεν ἐν τοῖς τέκνοις τεθάϕθαι· ἐν δὲ τᾷ ‘Ελλάδι αἴ τις ταῦτα ποιήσαι15, ἐξελαθεὶς ἐκ τῆς ‘Ελλάδος κακῶς κα ἀποθάνοι16 ὡς αἰσχρὰ καὶ δεινὰ ποιέων. [15] τοὶ δὲ Πέρσαι κοσμεῖσθαι τε ὥσπερ τὰς γυναῖκας καὶ τὼς ἄνδρας καλὸν νομίζοντι, καὶ τᾷ θυγατρὶ καὶ τᾷ ματρὶ17 καὶ τᾷ ἀδελϕᾷ συνίμεν· τοὶ δὲ ῞Ελλανες καὶ αἰσχρὰ καὶ παράνομα. ‹ἐϕ’› Stephanus, edd. ‹καὶ› Blass, edd. 3 ‹τοῖς μὲν› Diels 1903 et edd. praeter Robinson, LM: ‹τήνοις› Wilamowitz. 4 αὐτῷ Blass, edd.: αὐτὼς codd. 5 αὐτῷ Blass, edd.: αὐτὼς codd. praeter P2 (αὐτὸς). 6 ἐρᾶσθαι codd., edd. praeter Robinson et LM (ἔρασθαι). 7 δέ κα γάμηται Blass (δέ κα γαμῆται Wilamowitz), edd.: δὲ καὶ γαμεῖται codd. 8 ὃς ἄνδρα codd.: ὅς ‹κ’› ἄνδρα Blass, DK: ὃς ἄνδρα ‹κα› Robinson, LM. 9 κατακανὼν Blass, edd.: κατακτανὼν P1.2: κτανὼν rel. codd. 10 ‹καὶ› Classen, BS. 11 φορεῖ … πὶνει … σπένδει codd. (praeter φορεῖν P2 / πίνη P1.2), BS: φορῇ … πίνῃ … σπένδῃ Blass, DK, Robinson, LM. 12 βούλοιτό τις Blass, DK, BS, LM: βούλοιτ᾽ ἄν τις codd.: βούλοιτ᾽ οὔτις Trieber. 13 τοιαῦτα codd., edd. praeter DK (τῷ ταῦτα). 14 κατέσθοντι codd. praeter P1.2 (κατέσθονται). 15 αἴ τις ταῦτα ποιήσαι Blass, Wilamowitz, edd.: ἄν τις ταῦτα ποιήση (vel ποιήσῃ) codd. praeter P1 (αἴ τις ταῦτα ποιήσῃ), P2 (αἴ τις ταῦτα ποιήσας cum ῃ superscr.). 16 κακῶς κα ἀποθάνοι Blass, edd. (κακῶς κ᾽ἀποθάνοι Wilamowitz, BS): κακὰ ἀποθάνοι P1.2: κακὰ ἀποθάνῃ (vel ἀποθάνη) rel. codd. 17 ματρὶ L (Vossianus), Stephanus, edd.: μητρὶ rel. codd. 1 2
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[9] Passo ora a esaminare ciò che città e popoli diversi considerano turpe. Per esempio, a Sparta appare bello che le donne compiano esercizi ginnici e si presentino in pubblico nude o semivestite, nella Jonia è turpe. [10] E per quelli è bello che i fanciulli non apprendano le belle arti e le lettere: per gli Joni non apprendere tutto questo è turpe. [11] In Tessaglia è bello che ciascuno selezioni personalmente un cavallo o un mulo dalla mandria per domarlo, oppure scelga personalmente un bue per ucciderlo, scuoiarlo e squartarlo; in Sicilia questi lavori sono turpi, da schiavo. [12] In Macedonia è bello che le fanciulle, prima di maritarsi, abbiano avuto esperienze erotiche e si uniscano con uomini, mentre è turpe che lo facciano dopo il matrimonio; in Grecia entrambe le situazioni sono turpi. [13] In Tracia il tatuaggio delle fanciulle è considerato un ornamento, presso gli altri popoli è un marchio punitivo per chi ha commesso dei reati. Gli Sciti giudicano bello che colui che ha ucciso un uomo ne scuoi anche il cranio ed esibisca lo scalpo legato alle bardature del cavallo, e che, ricoperto il teschio d’oro o d’argento, con esso si beva e si facciano libagioni agli dèi; in Grecia non si sarebbe disposti neppure a far entrare in casa propria chi avesse compiuto azioni del genere. [14] I Massageti fanno a pezzi i cadaveri dei loro genitori e se ne cibano, perché esser sepolti nel corpo dei propri figli pare la sepoltura più degna; chi facesse una cosa simile in Grecia sarebbe bandito dalla Grecia e destinato a ignominiosa morte perché responsabile di un’azione turpe e terribile. [15] In Persia è bello che gli uomini si trucchino come le donne e che si uniscano alla propria figlia, alla madre, alla sorella: cosa che in Grecia è turpe e contraria alle tradizioni.
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[16] Λυδοῖς τοίνυν τὰς κόρας πορνευθείσας καὶ1 ἀργύριον ἐνεργάσασθαι2 καὶ οὕτως γάμασθαι καλὸν δοκεῖ ἦμεν, ἐν δὲ τοῖς ῞Ελλασιν οὐδείς κα θέλοι3 γᾶμαι4. [17] Αἰγύπτιοί τε οὐ ταὐτὰ νομίζοντι καλὰ τοῖς ἄλλοις· τῇδε μὲν γὰρ γυναῖκας ὑϕαίνειν καὶ ἐργάζεσθαι5 καλόν, ἀλλὰ τηνεῖ τὼς ἄνδρας, τὰς δὲ γυναῖκας πράσσεν ἅπερ τῇδε τοὶ ἄνδρες. τὸν παλὸν δεύειν ταῖς χερσί τὸν δὲ σῖτον τοῖς ποσί, τήνοις καλόν, ἀλλ’ ἁμὶν τὸ ἐναντίον. [18] οἶμαι δ’, αἴ6 τις τὰ αἰσχρὰ7 ἐς ἓν κελεύοι συνενεῖκαι πάντας ἀνθρώπως ἃ ἕκαστοι νομίζοντι, καὶ πάλιν ἐξ ἀθρόων τούτων τὰ καλὰ8 λαβέν ἃ ἕκαστοι ἅγηνται, οὐδέν κα λειϕθῆμεν9, ἀλλὰ πάντας πάντα διαλαβέν. οὐ γὰρ πάντες ταὐτὰ νομίζοντι. [19] παρεξοῦμαι δὲ καὶ ποίημά τι [TrGrF II, adesp. fr. 26 Kannicht / Snell]· καὶ γὰρ τὸν ἄλλον ὧδε θνητοῖσιν νόμον ὄψῃ διαιρῶν· οὐδὲν ὄν10 πάντῃ καλόν οὐδ’ αἰσχρόν, ἀλλὰ ταὔτ’ ἐποίησεν11 λαβών ὁ καιρὸς αἰσχρὰ καὶ διαλλάξας καλά. [20] ὡς δὲ τὸ σύνολον εἶπαι, πάντα καιρῷ μὲν καλά ἐντι, ἐν ἀκαιρίᾳ12 δ’ αἰσχρά. τί ὦν διεπραξάμην; ἔϕαν ἀποδείξειν ταὐτὰ αἰσχρὰ καὶ καλὰ ἐόντα, καὶ ἀπέδειξα ἐν τούτοις πᾶσι. [21] λέγεται δὲ καὶ περὶ τῶ αἰσχρῶ καὶ καλῶ13, ὡς ἄλλο ἑκάτερον εἴη. ἐπεὶ αἴ τις ἐρωτάσαι τὼς λέγοντας ὡς τὸ αὐτὸ πρᾶγμα αἰσχρὸν καὶ καλόν ἐστιν, αἴ ποκά τι αὐτοῖς καλὸν ἔργασται, αἰσχρὸν14 ὁμολογησοῦντι, αἴπερ τωὐτὸν καὶ τὸ αἰσχρὸν καὶ τὸ καλόν.
{καὶ} Classen, BS (scil. πορνευθείσας ἀργύριον ἐργάσασθαι). ἐνεργάσασθαι Weber, DK, Robinson, LM: ἐνεργήσασθαι codd.: ἐργάσασθαι Mullach, BS. 3 θέλοι P1.2: θέλει rel. codd. 4 γᾶμαι Blass, DK, Robinson, BS, LM : γαμᾶν codd.: γαμῆν Matth. de Varis: γαμέν Trieber. 5 ‹ἔρια› ἐργάζεσθαι Valckenaer, DK, BS. 6 αἴ Wilamowitz, edd. praeter LM (ἄν): ἄν codd. 7 αἰσχρὰ North, edd. praeter LM (καλὰ): καλὰ codd. 8 καλὰ North, edd. praeter LM (αἰσχρὰ): αἰσχρὰ codd. 9 οὐδέν κα λειϕθῆμεν Robinson (ex Matth. de Varis): οὐδὲν καλυφθεῖμεν R (cum ῆ super εῖ): οὐδὲν καλλειφθῆμεν P1: οὐδὲν καλυφθῆμεν rel. codd.: οὐδέν ‹κα› καλλειφθῆμεν Weber, LM: οὐδὲ ἕν ‹κα› καλλειφθῆμεν DK: οὐδ᾽ ἕν κα λειϕθῆμεν Classen, BS. 10 ὄν Cobet, Untersteiner, Classen, BS: ἄν codd.: ἧν Nauck, DK, Robinson. 11 ταὔτ’ ἐποίησεν Valckenaer, edd. praeter Wilamowitz (πάντ’ ἐποίησεν): ταῦτ’ ἐποίησεν codd. 12 ἐν ἀκαιρίᾳ codd., edd. praeter Wilamowitz, Classen, BS ({ἐν} ἀκαιρίᾳ). 13 καὶ καλῶ: codd., Robinson, BS, LM: καὶ ‹τῶ› καλῶ Blass, DK. 14 ‹καὶ› αἰσχρὸν Wilamowitz, DK, Untersteiner. 1 2
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[16] In Lidia appare bello che le fanciulle esercitino la prostituzione e guadagnino soldi, e quindi prendano marito; in Grecia nessuno vorrebbe mogli simili. [17] In Egitto ciò che è bello è giudicato secondo criteri differenti dagli altri popoli. Tra noi è bello che siano le donne a filare e compiere altri lavori manuali, mentre là lo è che lo facciano gli uomini e che alle donne spettino le attività che qui toccano agli uomini. Impastare l’argilla con le mani e la farina con i piedi è bello tra loro, tra noi è il contrario. [18] Io ritengo poi che se si comandasse a tutti gli uomini di riunire tutti gli usi che ritengono turpi, e successivamente di togliere dal mucchio quelli che ciascuno ritenesse belli, non resterebbe nulla, ma tra tutti loro si porterebbero via tutto: non tutti hanno le identiche usanze. [19] Voglio anche portare a testimonianza qualche verso: «Tu la diversa norma dei mortali vedrai, se ben discerni; nulla è in tutto né bello né turpe, ma tale lo rende, nel coglierlo, l’Occasione, e lo fa bello e poi lo muta in turpe». [20] Sicché in sintesi ogni cosa risulta bella se fatta nel momento opportuno, turpe nel momento inopportuno. Qual è dunque il risultato del ragionamento? Mi ero ripromesso di dimostrare come la stessa cosa sia insieme bella e turpe, e l’ho dimostrato in tutti i casi. [21] Ma sul turpe e il bello si afferma anche che sarebbero distinti l’uno dall’altro. Infatti se si chiedesse, a quanti sostengono che la stessa azione è turpe e bella, se hanno mai compiuto un’azione bella, dovrebbero ammettere di averne compiuta una turpe, posto che turpe e bello sono la stessa cosa.
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[22] καὶ αἴ τινά γα καλὸν οἴδαντι ἄνδρα, τοῦτον καὶ αἰσχρὸν τὸν αὐτόν· καὶ αἴ τινά γα λευκόν, καὶ μέλανα τοῦτον τὸν αὐτόν. καὶ ‹αἴ› καλόν1 γ’ ἐστὶ τὼς θεὼς σέβεσθαι, καὶ αἰσχρὸν ἄρα2 τὼς θεὼς σέβεσθαι, αἴπερ τωὐτὸν αἰσχρὸν καὶ καλόν ἐστι. [23] καὶ τάδε μὲν περὶ ἁπάντων εἰρήσθω μοι· τρέψομαι δὲ ἐπὶ τὸν λόγον αὐτῶν, ὃν λέγοντι. [24] αἰ γὰρ τὰν γυναῖκα καλόν ἐστι κοσμεῖσθαι, τὰν γυναῖκα αἰσχρὸν3 κοσμεῖσθαι, αἴπερ τωὐτὸν αἰσχρὸν καὶ καλόν· καὶ τἆλλα κατὰ τωὐτόν. [25] ἐν Λακεδαίμονί ἐστι καλὸν τὰς παῖδας γυμνάζεσθαι, ἐν Λακεδαίμονί ἐστιν αἰσχρὸν τὰς παῖδας γυμνάζεσθαι, καὶ τἆλλα οὕτως. [26] λέγοντι δέ ὡς αἴ τινες τὰ αἰσχρὰ ἐκ τῶν ἐθνέων πάντοθεν συνενείκαιεν, ἔπειτα συγκαλέσαντες κελεύοιεν ἅ τις καλὰ νομίζοι λαμβάνεν, πάντα κα4 ἐν καλῷ ἀπενειχθῆμεν. ἐγὼ5 θαυμάζω αἰ τὰ αἰσχρὰ συνενεχθέντα καλὰ ἐσεῖται, καὶ οὐχ οἷάπερ ἦνθεν. [27] αἰ γοῦν ἵππως ἢ βῶς ἢ ὄϊς ἢ ἀνθρώπως ἄγαγον, οὐκ ἄλλο τί κα ἀπᾶγον6· ἐπεὶ οὐδ’ αἰ χρυσὸν ἤνεικαν, χαλκόν {ἀπήνεικαν}7, οὐδ᾽αἰ8 ἄργυρον ἤνεικαν, μόλιβδόν κα ἀπέϕερον. [28] ἀντὶ δ’ ἄρα τῶν αἰσχρῶν καλὰ ἀπάγοντι9; ϕέρε δή, αἰ ἄρα τις αἰσχρόν ‹τι› ἄγαγε10, τοῦτον δ’ αὖ ‹κα› καλὸν ἀπᾶγε11; ποιητὰς δὲ μάρτυρας ἐπάγονται, ‹οἳ›12 ποτὶ ἁδονάν, οὐ ποτὶ13 ἀλάθειαν ποιεῦντι.
καὶ ‹αἴ› καλόν Robinson, LM: καὶ καλόν codd.: καἰ καλόν DK, BS. ἄρα vel ἄρ codd.: αὖ Wilamowitz, DK. 3 ‹καὶ› αἰσχρὸν DK, Untersteiner. 4 κα Orelli, edd.: καὶ codd.: κε Matth. de Varis. 5 ἐγὼ codd., edd. praeter Blass (ἐγὼ ‹δὲ›), Classen, BS (κἀγὼ). 6 ἀπᾶγον Wilamowitz, edd.: ἀπάγον P4.6, V2: ἀπάγαγον rel. codd.: ἀπαγάγον Blass, Weber. 7 χαλκόν {ἀπήνεικαν} Wilamowitz, DK, Robinson, BS: χαλκὸν ἂν ἀπήνεικαν Mullach. 8 οὐδ᾽αἰ Matth. de Varis, Weber, Robinson, DK, BS: οὐδ᾽ ἂν P1.2 (οὐδὲ rel. codd.), LM. 9 ἀπάγοντι Wilamowitz, edd. praeter Mullach (ἀπάγαγον): ἀπαγαγόντι codd. 10 ‹τι› ἄγαγε Classen, BS: ‹ἄνδρα› ἄγαγε DK, Untersteiner: ἀπάγαγε codd.: ἄγαγε Mullach, Robinson, LM. 11 δ’ αὖ ‹κα› καλὸν ἀπᾶγε Classen, BS: αὖ ‹κα› καλὸν ἀπάγαγε Robinson, LM: δ᾽ ἂν καλὸν ἀπάγαγε vel καλὸν ἀπάγαγε codd.: κ᾽ αὖ καλὸν ἀπᾶγε DK. 12 ‹οἳ› North, Orelli, edd. 13 ποτὶ DK, edd.: ποτ᾽ codd. 1
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[22] E se conoscessero un uomo veramente bello, quel medesimo sarebbe turpe, e se bianco, quel medesimo sarebbe nero. E se è bello rispettare gli dèi, allora è anche turpe, posto che turpe e bello sono la stessa cosa. [23] E considerazioni simili posso esprimere per qualsiasi caso analogo. Intendo ora volgermi alle conseguenze del ragionamento che essi impostano. [24] Se infatti è bello che una donna si trucchi, allora è turpe che la donna si trucchi, posto che turpe e bello sono la stessa cosa, e così via. [25] Posto che a Sparta è bello che le fanciulle compiano esercizi ginnici, a Sparta è turpe che le fanciulle compiano esercizi ginnici, e così via. [26] Affermano che se si mettesse insieme ciò che tra tutti i popoli è considerato turpe, e poi si chiamassero i singoli a togliere ciò che ciascuno giudicasse bello, tutto sarebbe annoverato come bello. Io mi stupisco che ciò che era stato portato come turpe sia poi considerato come bello, diversamente che in precedenza. [27] Se fossero stati ammassati insieme cavalli o buoi o pecore o uomini, non si potrebbe poi togliere dal mucchio qualcosa di diverso; e se avessero portato dell’oro, non avrebbero ricavato del bronzo, né piombo se avessero portato argento. [28] Veramente dunque essi ricaverebbero cose belle a partire da cose turpi? Suvvia: se si sono raccolte insieme cose turpi, se ne potrebbero ricavare di belle? E chiamano pure a testimoni i poeti, che parlano per arrecare piacere, non per annunciare la verità.
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3. Περὶ δικαίω καὶ ἀδίκω1 [1] δισσοὶ δὲ λόγοι λέγονται καὶ περὶ τῶ δικαίω καὶ τῶ ἀδίκω. καὶ τοὶ μὲν ἄλλο ἧμεν τὸ δίκαιον, ἄλλο δὲ τὸ ἄδικον· τοὶ δὲ τωὐτὸ δίκαιον καὶ ἄδικον· καὶ ἐγὼ τούτῳ πειρασοῦμαι τιμωρέν. [2] καὶ πρῶτον μὲν ψεύδεσθαι ὡς δίκαιόν ἐστι λεξῶ καὶ ἐξαπατᾶν. τὼς μὲν πολεμίως ταῦτα ποιὲν αἰσχρὸν2 καὶ πονηρὸν ἂν ἐξείποιεν, τὼς3 δὲ ϕιλτάτως οὔ·4 αὐτίκα τὼς γονέας· αἰ γὰρ δέοι τὸν πατέρα ἢ τὰν ματέρα ϕάρμακον5 πιὲν καὶ6 ϕαγέν, καὶ μὴ θέλοι, οὐ δίκαιόν ἐστι καὶ ἐν τῷ ῥοϕήματι καὶ ἐν τῷ ποτῷ δόμεν καὶ μὴ ϕάμεν ἐνῆμεν; [3] οὐκῶν7 ἤδη ψεύδεσθαι καὶ ἐξαπατᾶν τὼς γονέας καὶ κλέπτεν μὰν τὰ τῶν ϕίλων καὶ βιῆσθαι τὼς ϕιλτάτως δίκαιον8. [4] αὐτίκα αἴ τις λυπηθείς τι9 τῶν οἰκηΐων καὶ ἀχθεσθεὶς10 μέλλοι αὑτὸν διαϕθείρεν ἢ ξίϕει ἢ σχοινίῳ ἢ ἄλλῳ τινί, δίκαιόν ἐστι ταῦτα κλέψαι, αἰ δύναιτο, αἰ δὲ ὑστερίξαι καὶ ἔχοντα καταλάβοι, ἀϕελέσθαι βίᾳ;11 [5] ἀνδραποδίξασθαι δὲ πῶς οὐ δίκαιον τὼς πολεμίως12 αἴ13 τις δύναιτο ἑλὼν πόλιν ὅλαν ἀποδόσθαι; τοιχωρυχὲν δὲ τὰ τῶν πολιτῶν κοινὰ οἰκήματα δίκαιον ϕαίνεται. αἰ γὰρ ὁ πατὴρ ἐπὶ θανάτῳ, κατεστασιασμένος ὑπὸ τῶν ἐχθρῶν, δεδεμένος εἴη, ἆρα οὐ δίκαιον διορύξαντα κλέψαι καὶ σῶσαι τὸν πατέρα; [6] ἐπιορκὲν δέ· αἴ τις14 ὑπὸ τῶν πολεμίων λαϕθεὶς ὑποδέξαιτο ὀμνύων ἦ μὰν ἀϕεθεὶς τὰν πόλιν προδώσεν, ἆρα οὗτος δίκαιά ‹κα›15 ποιήσαι16 εὐορκήσας;
Περὶ δικαίω καὶ ἀδίκω Orelli, Weber: Περὶ τῶ δικαίω καὶ τῶ ἀδίκω Stephanus: Περὶ δικαίου καὶ ἀδίκου codd., Robinson, BS, LM. 2 ‹καλὸν καὶ δίκαιον, τὼς δὲ ϕίλως› αἰσχρὸν Diels, DK. 3 ‹πῶς δὲ τὼς πολεμίως,› τὼς Diels, DK. 4 ϕιλτάτως οὔ· codd. Robinson, BS, LM: ϕιλτάτως οὔ; Blass, DK. 5 ϕάρμακον codd.: ϕάρμακον ‹τι› Stephanus, BS. 6 καὶ codd.: ἢ Schanz, Blass, DK. 7 οὐκῶν DK, Robinson, BS, LM: οὔκουν vel ὄκων codd.: οὔκων Stephanus, North: οὐκοῦν Mullach. 8 οὐκῶν ἤδη ψεύδεσθαι καὶ ἐξαπατᾶν τὼς γονέας καὶ κλέπτεν … δίκαιον codd., edd. prae ter DK, Untersteiner (οὐκῶν ‹δίκαιον› ἤδη ψεύδεσθαι καὶ ἐξαπατᾶν τὼς γονέας. καὶ κλέπτεν … δίκαιον). 9 αἴ τις λυπηθείς τι codd., edd. praeter Wilamowitz (αἴ {τις} λυπηθείς τις). 10 καὶ ἀχθεσθεὶς codd., edd. praeter Wilamowitz (ἢ ἀχθεσθεὶς). 11 βίᾳ; (vel βίαι;) Fabricius, DK, Robinson, BS: βίᾳ codd., LM. 12 οὐ δίκαιον τὼς πολεμίως codd., edd. praeter Wilamowitz (οὐ δίκαιον {τὼς πολεμίως}). 13 αἴ codd.: ‹καὶ› αἴ DK, Untersteiner. 14 ἐπιορκὲν δέ· αἴ τις punct. Mullach, edd.: ἐπιορκεῖν δὲ αἴ τις codd.: ἐπιορκὲν δέ, αἴ τις Fabricius. 15 ‹κα› Matth. de Varis, edd. 16 ποιήσαι codd., edd. praeter Wilamowitz (ποιησεῖ). 1
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3. Giusto e ingiusto [1] Due argomentazioni in contrasto sono formulate anche intorno a ciò che è giusto e ingiusto. Un gruppo afferma che altro è il giusto, altro l’ingiusto. Per l’altro giusto e ingiusto sono lo stesso. Io tenterò di sostenere quest’ultima tesi. [2] Come primo punto affermo che è giusto mentire e ingannare. I sostenitori della prima tesi dovrebbero ammettere che è riprovevole e malvagio comportarsi così nei confronti dei nemici, non così nei confronti degli amici. Si consideri il caso dei genitori. Se padre e madre dovessero bere o assumere un rimedio medicinale, ma si rifiutassero di farlo, non è forse giusto dar la medicina mescolata a loro insaputa nel cibo o in una bevanda? [3] Ovviamente è giusto anche mentire e ingannare i genitori, derubare gli amici e far del male ai propri cari. [4] E se una persona di famiglia vinta da un dolore e abbattuta fosse in procinto di togliersi la vita con una spada, una corda o altro, è giusto, potendo, impedirglielo e sottrarle l’arma; oppure, se si interviene troppo tardi quando l’ha già afferrata, strappargliela a forza? [5] E non è forse giusto render schiavi i nemici, una volta che ci si sia impadroniti di una città e si possa disporre della vita di tutti i suoi abitanti? Giusto appare anche perforare le pareti degli edifici pubblici della propria città. Se infatti il proprio padre, sopraffatto dai nemici, fosse posto in catene per venir condotto a morte, non sarebbe forse giusto fare irruzione nel carcere e portarlo via per salvarlo? [6] Anche spergiurare è giusto: se un uomo fatto prigioniero dai nemici facesse giuramento di consegnare la propria città in cambio della liberazione, farebbe forse una buona azione se prestasse fede al giuramento?
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[7] ἐγὼ μὲν γὰρ1 οὐ δοκῶ, ἀλλὰ μᾶλλον τὰν πόλιν καὶ τὼς ϕίλως καὶ τὰ ἱερὰ σώσαι ‹ἂν τὰ›2 πατρώϊα ἐπιορκήσας. ἤδη ἄρα δίκαιον καὶ τὸ ἐπιορκεῖν. καὶ τὸ ἱεροσυλέν· [8] τὰ μὲν ἴδια τῶν πόλεων ἐῶ, τὰ δὲ κοινὰ τᾶς ‘Ελλάδος, τὰ ἐκ Δελϕῶν καὶ τὰ ἐξ ‘Ολυμπίας, μέλλοντος τῶ βαρβάρω τὰν ‘Ελλάδα λαβὲν3 καὶ τᾶς σωτηρίας ἐν χρήμασιν ἐούσας, οὐ δίκαιον λαβεῖν4 καὶ χρῆσθαι ἐς τὸν πόλεμον; [9] ϕονεύεν δὲ τὼς ϕιλτάτως δίκαιον· ἐπεὶ καὶ ‘Ορέστας καὶ ‘Αλκμαίων· καὶ ὁ θεὸς ἔχρησε δίκαια αὐτὼ5 ποιῆσαι. [10] ἐπὶ δὲ τὰς τέχνας τρέψομαι καὶ τὰ τῶν6 ποιητῶν. ἐν γὰρ τραγῳδοποιίᾳ καὶ ζωγραϕίᾳ ὅστις πλεῖστα7 ἐξαπατῇ ὅμοια τοῖς ἀληθινοῖς8 ποιέων, οὗτος ἄριστος. [11] θέλω δὲ καὶ ποιήματα τῶν παλαιοτέρων9 μαρτύριον ἐπαγαγέσθαι. Κλεοβουλίνης [fr. 2 West]· ἄνδρ’ εἶδον κλέπτοντα καὶ ἐξαπατῶντα βιαίως10, καὶ τὸ βίᾳ ῥέξαι τοῦτο δικαιότατον. [12] ἦν πάλαι ταῦτα· Αἰσχύλου δὲ ταῦτα [frr. 301-302 Radt]· ἀπάτης δικαίας οὐκ ἀποστατεῖ θεός ‹καί·› ψευδῶν11 δὲ καιρὸν ἔσθ’ ὅπου12 τιμῇ θεός13.
{γὰρ} Wilamowitz. ‹ἂν τὰ› Robinson: ‹τὰ› Matth. de Varis, LM: ‹κα τὰ› Diels, DK, Classen, BS. 3 λαβὲν (vel λαβῆν) codd., Mullach, Untersteiner, Diels 1903, Robinson, BS: λαβεῖν DK, LM. 4 λαβεῖν codd., Robinson, LM: λαβὲν Fabricius, Mullach, Untersteiner, DK, BS. 5 αὐτὼ Blass, Weber, Robinson, BS, LM: αὐτῶ P1.2 R V2: αὐτῷ B V1: αὐτὼς Stephanus, DK, Untersteiner. 6 καὶ τὰ τῶν Diels, edd.: καὶ ταῦτα codd. 7 ὅστις πλεῖστα: codd., Diels 1903, Robinson: ὅστις ‹κα› πλεῖστα Blass, DK, LM: ὅστις πλεῖστα ‹κα› Trieber, BS. 8 ἀληθινοῖς codd. praeter P2 (ἀλαθινοῖς, ex ἀληθινοῖς). 9 ποιήματα τῶν παλαιοτέρων codd., BS: ποιημάτων παλαιοτέρων Diels, DK, Robinson, LM. 10 βιαίως Matth. de Varis, DK, Robinson, West 1989, BS, LM: βία· ὡς codd.: βίᾳ· ὡς Stephanus: δικαίως Bergk. 11 θεός ‹καί·› ψευδῶν Matth. de Varis, DK, Classen, BS: θεός. ψευδῶν codd., Diels, Robinson, LM. 12 ὅπου Hermann, edd.: ὅποι codd. 13 τιμῇ codd., edd. praeter Matth. de Varis, Orelli, DK, BS (τιμᾷ): ἐσθ᾽ὅτ᾽ἐν τιμῇ θεῶν Thiersch. 1 2
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[7] Io credo di no: farebbe meglio a spergiurare e a salvare la sua città, i suoi cari e i templi dei padri. Quindi è giusto spergiurare. E lo è anche saccheggiare i tesori dei santuari: [8] tralascio quelli legati a particolari città; ma per quanto riguarda quelli panellenici, come Delfi o Olimpia, nel caso che il barbaro stia per sopraffare la Grecia e l’unica salvezza resta nei tesori del santuario, non sarebbe giusto impadronirsene e usarli per i bisogni della guerra? [9] E anche uccidere i più cari è giusto, come mostrano i casi di Oreste e Alcmeone: il dio indicò che loro compivano azioni giuste. [10] Passo poi a considerare gli esempi delle arti e della poesia. Nell’arte tragica e nelle arti pittoriche il migliore è chiunque meglio induce l’inganno attraverso rappresentazioni simili al vero. [11] Voglio anzi portare la testimonianza di un testo poetico tra i più antichi, quello di Cleobuline: «Un uomo vidi rubare e ingannare violento, e giusto era l’agir violento». [12] Ma se questo era valido in antico, ecco la testimonianza di Eschilo: «Da giusto inganno non s’astiene il dio», e: «Giusta occasione di mentir talora onora il dio».
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[13] λέγεται δὲ καὶ τῷδε ἀντίος λόγος ὡς ἄλλο τὸ δίκαιον καὶ τὸ ἄδικόν ἐστιν, διαϕέρον ὥσπερ καὶ τὤνυμα οὕτω καὶ τὸ πρᾶγμα. ἐπεὶ αἴ τις ἐρωτάσαι1 τὼς λέγοντας ὡς τὸ αὐτό ἐστιν ἄδικον καὶ δίκαιον, αἰ ἤδη2 τι δίκαιον περὶ τὼς γονέας ἔπραξαν, ὁμολογησοῦντι3. καὶ ἄδικον ἄρα· τὸ γὰρ αὐτὸ ἄδικον καὶ δίκαιον ὁμολογέοντι ἦμεν. [14] ϕέρε ἄλλον δέ4· αἴ τινα γινώσκει5 δίκαιον ἄνδρα, καὶ ἄδικον ἄρα τὸν αὐτόν (καὶ μέγαν τοίνυν καὶ μικρὸν κατὰ τωὐτόν). καί{τοι} ‹ὁ› πολλὰ ἀδικήσας6 ἀποθανέτω, ἀποθανέτω ‹ … › πραξάμενος7. [15] καὶ περὶ μὲν τούτων ἅλις. εἶμι δὲ ἐϕ’ ἃ λέγοντες ἀξιόοντι8 τὸ αὐτὸ καὶ δίκαιον καὶ ἄδικον ἀποδεικνύεν. [16] τὸ γὰρ κλέπτεν τὰ τῶν πολεμίων δίκαιον, καὶ ἄδικον ἀποδεικνύεν9 τοῦτ᾽ αὐτό10, αἴ κ’ ἀληθὴς ὁ τήνων λόγος, καὶ τἆλλα καττωὐτό11. [17] τέχνας δὲ ἐπάγονται ἐν αἷς οὐκ ἔστι τὸ δίκαιον καὶ τὸ ἄδικον. καὶ τοὶ ποιηταὶ οὔτοι ποτ᾽ ἀλάθειαν12 ἀλλὰ ποτὶ τὰς ἁδονὰς τῶν ἀνθρώπων τὰ ποιήματα ποιέοντι.
ἐρωτάσαι P1.2: ἐρωτῆσαι Fabricius: ἐρωτήσαι Stephanus. αἰ ἤδη Wilamowitz, edd.: αἴ κα δέ codd.: αἴ ‹πο›κα δέ Blass. 3 ὁμολογησοῦντι Matth. de Varis, edd.: ὁμολογοσοῦντι P1: ὁμολογοῦντι rel. codd. 4 ϕέρε ἄλλον δέ codd., Classen (scil. λόγον): ϕέρε ἄλλον δή Trieber, BS: φέρε ἄλλοτε Diels 1903: ϕέρε ἄλλο δή DΚ, LM: ϕέρε ἄλλο δέ Robinson. 5 γινώσκει L, Blass, Weber, Robinson, Classen, LM: γινώσκη (vel γινώσκῃ) rel. codd.: γινώσκεις Diels, DK, Untersteiner, BS. 6 καί{τοι} ‹ὁ› πολλὰ ἀδικήσας Classen, BS: καί τοι (vel καίτοι) πολλὰ ἀδικήσας codd. Mullach, Schanz, Robinson, LM: καί τοι ‹ὁ› πολλὰ ἀδικήσας Diels, Untersteiner: καὶ ‹αἰ› (Friedländer) λέγοιτο «πολλὰ ἀδικήσας ἀποθανέτω» DK. 7 ἀποθανέτω ἀποθανέτω ‹ … › πραξάμενος C P6 V2 Y1.2: ἀποθανέτω πραξάμενος rel. codd.: ἀποθανέτω, ‹καὶ πάλιν πολλὰ δίκαια ἐργασά›μενος Schanz: ἀποθανέτω ‹ὁ πολλὰ καὶ δίκαια τὸν πατέρα ἐργα›ξάμενος Wilamowitz: ἀποθανέτω, ἀποθανέτω ‹πολλὰ καὶ δίκαια δια›πραξάμενος Blass, Weber, LM: ἀποθανέτω, ‹καὶ πολλὰ καὶ δίκαια δια›πραξάμενος Diels 1912, Untersteiner: ἀποθανέτω ‹πολλὰ καὶ δίκαια δια›πραξάμενος BS: ἀποθανέτω”, ἀποθανέτω ‹καὶ πολλὰ καὶ δίκαια δια›πραξάμενος Friedländer, DK: ἀποθανέτω ‹ἅτε θανάτω ἄξια δια›πραξάμενος Robinson: ἀποθανέτω, ἀποθανέτω ὡς δίκαια ‹δια›πραξάμενος Classen. 8 ἀξιόοντι codd., DK, Classen, BS, LM: ἀξιοῦντι Mullach, Robinson: ἀξιόωντι Stephanus: ἀξιώοντι Blass, Weber: ἀξιῶντι Wilamowitz. 9 τὸ γὰρ κλέπτεν … ἀποδεικνύεν bis codd. B, V1. 10 τοῦτ᾽ αὐτό codd., DK, Robinson, Classen, BS, LM: τοῦτο τωὐτό Diels 1903. 11 καττωὐτό codd. praeter B (καττωϋτό), P2 (κατωυτό), Z, L (καὶ τωϋτό): καὶ τωϋτό Stephanus: κατὰ τὠϋτό North. 12 οὔτοι ποτ᾽ ἀλάθειαν Blass, Weber, Robinson: οὔτοι ποτὶ ἀλάθειαν LM: οὐτο (vel οὐτό vel οὔτε) ποτ᾽ ἀλάθειαν (P1, ἀλήθειαν rel.) codd.: οὐ {το} ποτὶ ἀλάθειαν DK, Untersteiner: οὔ τι ποτὶ ἀλάθειαν Stephanus (οὔτι), Classen, BS. 1 2
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[13] Si contrappone a questa tesi un’altra, secondo cui altro è il giusto, altro l’ingiusto come nella parola che li definisce, così differirebbero di fatto. In effetti se si chiedesse a coloro che sostengono l’identità di giusto e ingiusto se essi abbiano compiuto qualche azione giusta nei confronti dei loro genitori, essi direbbero di sì. Ma allora avrebbero compiuto anche un’azione ingiusta, perché hanno convenuto che giusto e ingiusto coincidono. [14] Ecco un altro esempio: se si conosce un uomo giusto, allora si conosce anche un uomo ingiusto (o grande e piccolo, secondo lo stesso procedimento). E chi è condannato a morte per essere responsabile di molte gravi azioni, è condannato a morte per averne compiute ‹ … ›. [15] Ma basti su questo punto. Passo ora a trattare gli argomenti in base ai quali si sostiene di dimostrare che giusto e ingiusto sono lo stesso. [16] Infatti rubare al nemico è giusto: ma ciò equivale a sostenere che questo stesso gesto è ingiusto, se il loro ragionamento è vero, e così via per gli altri esempi. [17] Fanno poi riferimento ad arti in cui non c’è posto per il giusto e l’ingiusto, ma appunto i poeti non compongono le loro opere per l’affermazione della verità, bensì per il piacere del pubblico.
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4. Περὶ ἀλαθείας καὶ ψεύδεος1 [1] λέγονται δὲ καὶ περὶ τῶ ψεύδεος2 καὶ τῶ ἀλαθέος3 δισσοὶ λόγοι, ὧν ὁ μέν ϕατι ἄλλον μὲν τὸν ψεύσταν ἦμεν λόγον, ἄλλον δὲ τὸν ἀλαθῆ· τοὶ δὲ τὸν αὐτὸν αὖ. [2] κἀγὼ τόνδε λέγω· πρῶτον μέν ὅτι τοῖς αὐτοῖς ὀνόμασι λέγονται· ἔπειτα δέ, ὅταν λόγος ῥηθῇ, αἰ μὲν ὡς λέγηται4 ὁ λόγος οὕτω γεγένηται, ἀλαθὴς ὁ λόγος, αἰ5 δὲ μὴ γεγένηται6 , ψευδὴς ὁ αὐτὸς λόγος. [3] αὐτίκα κατηγορεῖ ἱεροσυλίαν τω· αἴ γ’ 7 ἐγένετο τὦργον, ἀλαθὴς ὁ λόγος· αἰ δὲ μὴ ἐγένετο, ψεύστας. καὶ τῶ ἀπολογουμένω ὥς γε ὁ λόγος8. καὶ τά γε δικαστήρια τὸν αὐτὸν λόγον καὶ ψεύσταν καὶ ἀλαθῆ κρίνοντι. [4] ἐπεί τοι καὶ ἑξῆς9 καθήμενοι αἰ λέγοιμεν ‘μύστας10 εἰμί’, τὸ αὐτὸ μὲν πάντες ἐροῦμεν, ἀλαθὴς11 δὲ μόνος ἐγώ, ἐπεὶ καὶ εἰμί. [5] δᾶλον ὦν ὅτι ὁ αὐτὸς λόγος, ὅταν μὲν αὐτῷ παρῇ τὸ ψεῦδος, ψεύστας ἐστίν, ὅταν δὲ τὸ ἀλαθές, ἀλαθής (ὥσπερ καὶ ἄνθρωπος τὸ αὐτό, καὶ παῖς καὶ νεανίσκος καὶ ἀνὴρ καὶ γέρων, ἐστίν).
1 Περὶ ἀλαθείας καὶ ψεύδεος F2, Classen, BS, LM: Περὶ ἀληθείας καὶ ψεύδους rel. codd.: Περὶ ἀλαθέος καὶ ψεύδεος DK: Περὶ ἀλαθείας καὶ ψευδέος Robinson. 2 ψεύδεος codd., edd. praeter Robinson (ψευδέος). 3 ἀλαθέος Diels, DK, Robinson, LM: ἀλαθείας P3.4, BS: ἀληθείας rel. codd. 4 αἰ μὲν ὡς λέγηται P3, Mullach, Classen, BS: ἂν μὲν ὡς λέγηται rel. codd.: αἰ μὲν ὡς ‹κα› λέγηται: Blass, DK, LM: αἰ μὲν ὡς ‹ἂν› λέγηται Robinson. 5 αἰ μὲν … αἰ δὲ P3: ἂν μὲν … ἂν δὲ rel. codd. 6 γεγένηται … μὴ γεγένηται Blass, edd.: γένηται … μὴ γένηται codd. 7 αἴ γ’ Diels, DK, Robinson, BS, LM: αἴκ’ codd.: αἰ μὲν Blass, Weber, Trieber. 8 ὥς γε ὁ λόγος codd., Robinson, BS, LM: ὡυτὸς λόγος Wilamowitz, DK, Untersteiner. 9 ἐπεί τοι καὶ ἑξῆς codd., Robinson, LM: ἐπεί τοι κατεξῆς Bergk: ἐπεί τοι αἰ ἑξῆς Wilamowitz: ἔπειτα τοὶ Diels, DK, Untersteiner: ἔπειτα καὶ Classen, BS. 10 μύστας codd. praeter L, Z (μύμας), DK, Untersteiner, Robinson, BS, LM: Μίμας Stephanus: Μύστας Mullach: Σιμμίας Blass: Μίλτας Bergk: Σίμων Teichmüller. 11 ἀλαθὴς codd., DK, Robinson, Classen, BS, LM: ἀληθὲς North: ἀλαθὲς Orelli, Mullach, Blass, Diels 1903.
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4. Verità e menzogna [1] Due argomentazioni in contrasto sono formulate anche intorno a ciò che è menzogna e verità: un gruppo sostiene che altro è il discorso mentitore, altro quello vero; l’altro gruppo che sono identici. [2] Anch’io affermo la stessa cosa: in primo luogo perché sono espressi con le stesse parole, poi perché, quando viene espresso un discorso, se il discorso è pronunciato in modo aderente a come sono andati i fatti, il discorso è veritiero; se i fatti non sono andati così, quello stesso discorso è falso. [3] Per esempio: si accusa un individuo di aver saccheggiato un tempio; se il fatto si è verificato il discorso è vero, in caso contrario, falso. Lo stesso vale pure per il discorso di chi si difende: anche il tribunale giudica circa il medesimo discorso se sia falso o vero. [4] Infatti se noi, seduti in gruppo, dichiarassimo: «Io sono un iniziato», tutti diremmo lo stesso, ma vero sarebbe solo il mio discorso, perché io sono davvero un iniziato. [5] Ne segue dunque che il medesimo discorso, quando implica menzogna, è falso, quando implica verità è vero (lo stesso accade anche all’uomo, che è fanciullo, ragazzo, adulto e vecchio).
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[6] λέγεται δὲ καὶ ὡς ἄλλος εἴη ὁ ψεύστας λόγος ἄλλος δὲ ὁ ἀλαθής, διαϕέρων τὤνυμα ‹ὥσπερ καὶ τὸ πρᾶγμα›1. αἰ γάρ τις ἐρωτάσαι τὼς λέγοντας ὡς ὁ αὐτὸς λόγος εἴη ψεύστας καὶ ἀλαθής, ὃν αὐτοὶ λέγοντι πότερός ἐστιν· αἰ μὲν ‘ψεύστας’, δᾶλον ὅτι δύο εἴη· αἰ δ’ ‘ἀλαθὴς’ ἀποκρίναιτο, καὶ2 ψεύστας ὁ αὐτὸς οὗτος. καὶ ‹αἰ› ἀλαθές τί ποκα3 εἶπεν ἢ ἐξεμαρτύρησε, καὶ ψευδῆ ἄρα τὰ αὐτὰ ταῦτα. καὶ αἴ τινα ἄνδρα ἀλαθῆ οἶδε, καὶ ψεύσταν τὸν αὐτόν. [7] ἐκ δὲ τῶ λόγω λέγοντι ταῦτα, ὅτι γενομένω μὲν τῶ πράγματος ἀλαθῆ τὸν λόγον, ἀγενήτω δὲ ψεύσταν. [8] οὐκῶν διαϕέρει ‹ἐρέσθαι› αὖθις4 τὼς δικαστὰς ὅ τι κρίνοιντο5 (οὐ γὰρ πάρεντι τοῖς πράγμασιν)· [9] ὁμολογέοντι δὲ καὶ αὐτοί, ᾧ μὲν τὸ ψεῦδος ἀναμέμεικται6 , ψεύσταν ἦμεν, ᾧ δὲ τὸ ἀλαθές, ἀλαθῆ. τοῦτο δὲ ὅλον διαϕέρει … 7
1 ‹ὥσπερ καὶ τὸ πρᾶγμα› Diels, DK, Robinson, BS, LM: ‹οὔτω καὶ πρᾶγμα› North: ‹καὶ τὸ πρᾶγμα› Mullach: ‹ὥσπερ καὶ› τὤνυμα ‹οὔτω καὶ τὸ πρᾶγμα› Blass: διαφέρων ‹τὸ πρᾶγμα ὥσπερ καὶ› τὤνυμα Wilamowitz. 2 ἀλαθής ἀποκρίναιτο, καὶ: codd. praeter P3 (ἀποκρίναιντο), Weber, DK, Robinson, BS (‘ἀλαθής’), LM: ἀλαθής, ἀποκρίναιτο καὶ Orelli: ἀλαθής, {ἀποκρίναιτο} καὶ Schanz: ἀλαθής, ἀποκρίναιτό κα Mullach. 3 καὶ ‹αἰ› ἀλαθές τί ποκα Robinson (καὶ ‹αἰ› Blass, καὶ ‹εἰ› Matth. de Varis), LM: καὶ ἀλαθές τί ποκα codd.: καὶ ἀλαθές τι ποκὰ Weber: καὶ ἀλαθῆ τίς ποκα North, DK, BS / … ποκα codd. praeter L, Z (πόκα e πόλα): πολλὰ Stephanus, North. 4 οὐκῶν διαϕέρει ‹ἐρέσθαι› αὖθις Robinson: οὐκῶν διαϕέρει αὖθις codd., Mullach, Weber: οὔκων διαϕέρει αὖθις Orelli, Classen, BS: οὔκων διαϕέρει ‹αὐτῶν τὤνυμα, ἀλλὰ τὸ πρᾶγμα. ἐρωτάσαι δὲ κά τις› αὖθις DK, LM: οὔκων διαϕέρει; ‹καὶ› αὖθις Gomperz, Untersteiner. 5 ὅ τι κρίνοιντο Orelli, Mullach (ὅ, τι κρίνοιντο), Robinson, LM: ὅτι κρίνοιντο codd.: ὅτι κρίνοντι Schanz, Gomperz: ὅ τι κρίνοντι DK, Classen : ὅτι ‹κα› κρίνωνται Weber. 6 ἀναμέμεικται Blass, edd.: ἀναμέμικται codd. 7 lacunam post διαϕέρει susp. North, Diels.
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[6] Si sostiene però che altro è il discorso menzognero, altro quello vero: come nella parola che li definisce, così differirebbero di fatto. Infatti se si domandasse, a coloro che sostengono che identico è il discorso falso e quello vero, quale dei due è quello che pronunciano, nel caso dicessero «falso» evidentemente ve ne sarebbero due; se dicessero «vero» questa stessa affermazione sarebbe falsa. Giacché se una qualsiasi affermazione fosse dichiarata o comprovata vera, contemporaneamente sarebbe anche falsa, e se si conoscesse un uomo che dice la verità, lo stesso sarebbe anche un bugiardo. [7] A partire da questo argomento essi sostengono che se si realizza l’evento il discorso è vero, se non si realizza è falso. [8] È quindi importante d’ora in poi chiedere a dei giudici quale sia il loro giudizio (essi infatti non sono presenti agli eventi); [9] devono riconoscere essi stessi che dove è implicata la menzogna, esso è falso, dove la verità, esso è vero. Ma questa è tutt’altra cosa …
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5.1 [1] «ταὐτὰ2 τοὶ μαινόμενοι καὶ τοὶ σωϕρονοῦντες καὶ τοὶ σοϕοὶ καὶ τοὶ ἀμαθεῖς καὶ λέγοντι καὶ πράσσοντι. [2] καὶ πρᾶτον μὲν ὀνομάζοντι ταὐτά3, γᾶν καὶ ἄνθρωπον καὶ ἵππον καὶ πῦρ καὶ τἆλλα πάντα. καὶ ποιέοντι ταὐτά, κάθηνται καὶ ἔσθοντι καὶ πίνοντι καὶ κατάκεινται4, καὶ τἆλλα καττωὐτό. [3] καὶ μὰν καὶ τὸ αὐτὸ πρᾶγμα καὶ μέζον καὶ μῇόν ἐστι καὶ πλέον καὶ ἔλασσον καὶ βαρύτερον καὶ κουϕότερον. οὕτω γάρ ἐντι ταὐτὰ5 πάντα· [4] τὸ τάλαντόν ἐστι βαρύτερον τῆς μνᾶς, καὶ κουϕότερον τῶν δύο ταλάντων· τωὐτὸν ἄρα καὶ κουϕότερον καὶ βαρύτερον6. [5] καὶ ζώει ὁ αὐτὸς ἄνθρωπος καὶ οὐ ζώει, καὶ ταὐτὰ7 ἔστι καὶ οὐκ ἔστι8· τὰ γὰρ τῇδ’ ἐόντα9 ἐν τᾷ Λιβύᾳ οὐκ ἔστιν, οὐδέ γε τὰ ἐν Λιβύᾳ10 ἐν Κύπρῳ, καὶ τἆλλα κατὰ τὸν αὐτὸν λόγον. οὐκῶν καὶ ἐντὶ τὰ πράγματα καὶ οὐκ ἐντί.» [6] τοὶ τῆνα11 λέγοντες, τὼς μαινομένως καὶ ‹τὼς σωϕρονοῦντας καὶ›12 τὼς σοϕὼς καὶ τὼς ἀμαθεῖς τωὐτὰ διαπράσσεσθαι καὶ λέγεν, καὶ τἆλλα ‹τὰ›13 ἑπόμενα τῷ λόγῳ, οὐκ ὀρθῶς λέγοντι. [7] αἰ γάρ τις αὐτὼς14 ἐρωτάσαι15, αἰ διαϕέρει16 μανία σωϕροσύνης καὶ σοϕία17 ἀμαθίης, ϕαντί· «ναί».
Sectionem novam sine titulo distinxit North. Titulum ‹Περὶ τῶν πραγμάτων, αἰ ἐντὶ ἢ οὐ› tempt. BS. 2 ταὐτὰ North, edd.: ταυτα vel ταῦτα codd. 3 ταὐτὰ Meibom, edd.: ταῦτα codd. 4 καὶ κατάκεινται post κάθηνται transposuit Wilamowitz, edd. praeter BS: κατάκεινται καὶ κάθηνται codd., BS. 5 ἐντι ταὐτὰ Diels, DK, Robinson, BS: εἴη ταῦτα codd. (ταὐτὰ Meibom): ἂν εἴη ταῦτα Mullach: κα εἴη ταῦτα Trieber, Blass (κ᾽ εἴη): κ᾽ εἴη ταὐτὰ LM. 6 post βαρύτερον susp. ‹ ὤσπερ … ἐστίν › (v. 4.5) collocandum Wilamowitz: lacunam susp. Diels 1903, DK, Untersteiner. 7 καὶ ταὐτὰ Mullach, edd.: κατταυτὰ codd. praeter Y1.2, Stephanus (κατ᾽ αὐτὰ): καὶ αὐτὰ North. 8 ἔστι codd. praeter P3 (ἐντί), edd. 9 ἐόντα P3, edd.: ὄντα rel. codd. 10 Λιβύᾳ codd., edd. praeter Trieber (‹τᾷ› Λιβύᾳ). 11 τοὶ τῆνα Diels, edd. praeter Mullach (τοὶ τοίνυν): τοί τινες codd. 12 ‹τὼς σωϕρονοῦντας καὶ› Diels, DK, Untersteiner, Classen, BS. 13 ‹τὰ› Blass, edd. 14 αἰ γάρ τις αὐτὼς codd. praeter P4.6, V2 (ἐν γάρ τις αὐτὸς): εἰ γάρ τις αὐτὼς Diels 1903. 15 ἐρωτάσαι Fabricius, edd.: ἐρωτάσας codd. 16 διαϕέρει V2, P3, edd.: διαϕέρη vel διαϕέρῃ rel. codd. 17 σοϕία codd. et edd. praeter P3 et Robinson (σοϕίη). 1
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5. [1] «Folli e assennati, sapienti e dementi affermano e compiono le stesse cose: [2] innanzitutto usano gli stessi nomi per cose come terra, uomo, cavallo, fuoco e così via. Poi compiono le stesse azioni: sedersi, mangiare, bere e dormire, e così via con altri esempi. [3] E, soprattutto, grande e piccolo, maggiore e minore, grave e leggero sono lo stesso, e così per ogni altra cosa. [4] Così un talento pesa più di una mina ma meno di due talenti: dunque lo stesso oggetto è più leggero e più grave di un altro. [5] E lo stesso individuo vive e non vive, la stessa cosa è e non è, perché ciò che qui da noi è in Libia non è, né ciò che è in Libia è in Cipro, e così via secondo il medesimo ragionamento. Ne segue che le cose sono e non sono». [6] I sostenitori di questa tesi (cioè che folli e assennati, sapienti e dementi compiono gli stessi atti e fanno le stesse affermazioni) e tutto quello che da essa segue, hanno torto. [7] Se si chiedesse loro se c’è differenza tra follia e ragionevolezza e saggezza e demenza, direbbero di sì.
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[8] εὖ γὰρ καὶ ἐξ ὧν πράσσοντι ἑκάτεροι δᾶλοί ἐντι ὡς ὁμολογησοῦντι. οὔκων1, καὶ ‹αἰ›2 ταὐτὰ πράσσοντι, καὶ τοὶ σοϕοὶ μαίνονται, καὶ τοὶ μαινόμενοι σοϕοί, καὶ πάντα συνταράσσονται. [9] καὶ ἐπακτέος3 ὁ λόγος πότερον ὦν4 ἐν δέοντι τοὶ σωϕρονοῦντες λέγοντι ἢ τοὶ μαινόμενοι. ἀλλὰ γάρ ϕαντι, ὡς ταὐτὰ5 μὲν λέγοντι, ὅταν τις αὐτὼς ἐρωτῇ· ἀλλὰ τοὶ μὲν σοϕοὶ ἐν τῷ δέοντι, τοὶ δὲ μαινόμενοι ᾇ οὐ δεῖ6. [10] καὶ τοῦτο λέγοντες δοκοῦντι μικρὸν ποτιθῆναι ‹τὸ› ᾇ δεῖ7 καὶ μὴ δεῖ, ὥστε μηκέτι τὸ αὐτὸ ἦμεν. [11] ἐγὼ δὲ οὐ πράγματος τοσούτω8 ποτιτεθέντος9 ἀλλοιοῦσθαι δοκῶ τὰ πράγματα, ἀλλ’ ἁρμονίας διαλλαγείσας· ὥσπερ ‘Γλαῦκος’ καὶ ‘γλαυκός’ καὶ ‘Ξάνθος’ καὶ ‘ξανθός’ καὶ ‘Ξοῦθος’ καὶ ‘ξουθός’. [12] ταῦτα μὲν τὴν ἁρμονίαν ἀλλάξαντα διήνεικαν, τὰ δὲ μακρῶς καὶ βραχυτέρως ῥηθέντα. ‘Τύρος’ καὶ ‘τυρός’, ‘σάκος’ καὶ ‘σακός’10, ἅτερα δὲ γράμματα διαλλάξαντα· ‘καρτός’ καὶ ‘κράτος’11, ‘ὄνος’ καὶ ‘νόος’. [13] ἐπεὶ ὦν οὐκ ἀϕαιρεθέντος οὐδενὸς τοσοῦτον διαϕέρει, τί δή, αἴ τις ἢ ποτιτιθεῖ τι12 ἢ ἀϕαιρεῖ; καὶ τοῦτο δείξω οἷόν ἐστιν.
οὔκων Robinson, BS: οὐκῶν P3, Meibom, DK, Untersteiner, Classen, LM: οὐκοῦν codd. καὶ ‹αἰ› Robinson: καὶ codd., Stephanus: αἲ North: ἂν Meibom: αἰ Mullach (Matth. de Varis susp.), DK, Classen, BS, LM. 3 ἐπακτέος Wilamowitz, DK, Robinson, LM: ἐπ᾽ ἄρτεος (vel ἐπάρτεος) H, P3, V1, B: ἐπ᾽ἄργεος F2, R: ἐπ᾽ἄγεος P4.6, V2: ἐπάργεμος Blass: ἐπακτός Classen, BS. 4 ὦν Wilamowitz, DK, BS: οἷον codd., LM: {οἷον} Koen, Orelli, Mullach, Trieber, Robinson. 5 ταὐτὰ Fabricius, edd. praeter North (ταῦτα): ταῦτα codd. 6 ᾇ οὐ δεῖ Blass, DK, Robinson, BS, LM: αἰ οὐ δεῖ codd.: αἰ μὴ δεῖ Trieber. 7 ‹τὸ› ᾇ δεῖ Diels, DK, Robinson, LM: αἰ δεῖ codd.: ᾇ δεῖ Blass, Classen, BS. 8 τοσούτω codd., Robinson, LM: τοσοῦτον Wilamowitz, DK, BS. 9 ποτιτεθέντος P3, edd.: προστεθέντος rel. codd. 10 ‘σάκος’ καὶ ‘σακός’ Weber, DK, Robinson, BS, LM: ‘σάκκος’ καὶ ‘σάκκος’ L, Stephanus: ‘σάκκος’ καὶ ‘σάκος’ Z: ‘σάκος’ καὶ ‘σάκκος’ rel. codd. 11 ‘καρτός’ καὶ ‘κράτος’ temptavi: ‘κάρτος’ καὶ ‘κράτος’ codd.: ‘κάρτος’ καὶ ‘κρατός’, Wilamowitz, DK, Robinson, BS, LM. 12 ἢ ποτιτιθεῖ τι codd., Robinson: ἢ ποτιτίθει τι Weber: τι ποτιτίθητι Diels, DK, BS. 1 2
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[8] Infatti dalle azioni di ognuno di costoro segue con ogni evidenza che dovrebbero confermare questa tesi. Ma se davvero compiono gli stessi atti, allora i saggi sono pazzi e i pazzi saggi, e ogni cosa è confusa. [9] A questo punto bisogna invece appoggiare la nostra tesi, chiedendoci perciò se sono i saggi o i pazzi a parlare nel momento giusto. Tuttavia essi sostengono, se vien loro posta la domanda, che pazzi e savi dicono la stessa cosa: ma mentre i saggi parlano quando è opportuno, i pazzi quando non è opportuno. [10] E precisando in questo modo essi credono che l’aggiunta di ‘quando è opportuno e quando non è opportuno’, in forza della quale viene a mancare l’identità, sia una cosa insignificante. [11] Io invece credo addirittura che una cosa non solo sia mutata da un’aggiunta di questo rilievo, ma già dalla variazione dell’accento: come tra ‘Glàukos’ [nome di persona] e ‘glaukòs’ [grigio-azzurro], ‘Xànthos’ [nome] e ‘xanthòs’ [biondo], ‘Xoùthos’ [nome] e ‘xouthòs’ [fulvo]. [12] In questi casi il mutamento è apportato dallo spostamento dell’accento, in altri casi dalla pronuncia lunga o breve delle sillabe, come per ‘Tŭros’ [nome di città] e ‘tūros’ [formaggio], ‘săkos’ [scudo] e ‘sākos’ [sacello]; oppure per inversione di una lettera, come per ‘kartós’ [liscio] e ‘krátos’ [forza], ‘ónos’ [asino] e ‘nóos’ [mente]. [13] Se dunque tale è la differenza senza che si sia tolto nulla, che dire del caso in cui si abbia un’aggiunta o una sottrazione? Ti mostrerò come funziona.
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[14] αἴ τις ἀπὸ τῶν δέκα ἓν ἀϕέλοι, οὐκέτι1 δέκα οὐδὲ ἓν ‹ἂν›2 εἴη, καὶ τἆλλα καττωὐτό3. [15] τὸ δὲ τὸν αὐτὸν ἄνθρωπον καὶ ἦμεν καὶ μὴ ἦμεν, ἐρωτῶ· «τὶ ἢ τὰ πάντα ἔστιν;» οὐκῶν αἴ τις μὴ ϕαίη ἦμεν, ψεύδεται «τὰ πάντα» εἰπών. ταῦτα πάντα4 ὦν πῄ ἐστι5.
1 ἀϕέλοι, οὐκέτι codd., Robinson: ἀϕέλοι ‹ἢ τοῖς δέκα ἓν ποτθείη›, οὔ κ’ ἔτι Diels, DK, BS: ἢ ποτιτίθητί τι LM. 2 ‹ἂν› L, Mullach, Robinson, LM: ‹κ᾽› Blass, Weber. 3 καττωὐτό Mullach, DK, Robinson, BS, LM: καττοῦτο codd. 4 ψεύδεται «τὰ πάντα» εἰπὼν. ταῦτα πάντα ὦν Robinson, LM: ψεύδεται τὰ πάντα εἰπόντες ταῦτα πάντα ὦν codd.: ψεύδεται, ‹τὸ τὶ καὶ› τὰ πάντα εἰπὼν (Mullach) ταὐτά. πάντα ὦν Diels, DK, BS: ψεύδεται, τὰ πάντα εἰπὼν ταῦτα. ‹τὰ› πάντα ὦν Gomperz, Untersteiner. 5 ὦν πῄ ἐστι Diels, DK, BS, LM: ὦν (vel ὧν) πῃ ἐστι codd.: ὦν πῃ ἔστι Robinson.
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[14] Se da dieci si toglie uno, non si ha più né dieci né uno, e così via secondo il medesimo ragionamento. [15] Quanto poi alla tesi per cui lo stesso individuo è e non è, chiedo: «“È” rispetto a un unico aspetto o rispetto a tutti?». Ecco che se si affermasse che non è, sarebbe falsa l’affermazione «rispetto a tutti». Ne consegue che tutto è rispetto a un qualche aspetto.
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6.1 [1] λέγεται δέ τις λόγος οὔτ’ ἀλαθὴς2 οὔτε κενός3 ὅτι4 ἄρα σοϕία5 καὶ ἀρετὰ οὔτε διδακτὸν εἴη οὔτε μαθητόν. τοὶ δὲ ταῦτα λέγοντες ταῖσδε ἀποδείξεσι χρῶνται· [2] ὡς οὐχ οἷόν τε εἴη, αἴ τι6 ἄλλῳ παραδοίης, τοῦτο αὐτὸν7 ἔτι ἔχειν. μία μὲν δὴ αὕτα. [3] ἄλλα δέ, ὡς, αἰ διδακτὸν ἦν, διδάσκαλοί κα8 ἀποδεδεγμένοι9 ἦν, ὡς τᾶς μωσικᾶς. [4] τρίτα δέ ὡς τοὶ ἐν τᾷ ‘Ελλάδι γενόμενοι σοϕοὶ ἄνδρες τὰ αὐτῶν τέκνα ἂν10 ἐδίδαξαν καὶ τὼς ϕίλως11. [5] τετάρτα δὲ ὅτι ἤδη τινὲς παρὰ12 σοϕιστὰς ἐλθόντες οὐδὲν ὠϕέληθεν. [6] πέμπτα δὲ ὅτι πολλοὶ οὐ συγγενόμενοι σοϕισταῖς ἄξιοι λόγω γεγένηνται. [7] ἐγὼ δὲ κάρτα εὐήθη νομίζω τόνδε τὸν λόγον· γινώσκω γὰρ τὼς διδασκάλως γράμματα διδάσκοντας ἃ13 καὶ αὐτὸς ἐπιστάμενος τυγχάνει, καὶ κιθαριστὰς κιθαρίζεν. πρὸς δὲ τὰν δευτέραν ἀπόδειξιν, ὡς ἄρα οὐκ ἐντὶ διδάσκαλοι ἀποδεδεγμένοι, τί μὰν τοὶ σοϕισταὶ διδάσκοντι ἄλλ’ ἢ σοϕίαν14 καὶ ἀρετάν; [8] {ἢ} τί δὲ15 ‘Αναξαγόρειοι καὶ Πυθαγόρειοι ἦεν; τὸ δὲ τρίτον, ἐδίδαξε Πολύκλειτος τὸν υἱὸν ἀνδριάντας ποιέν.
1 Titulum ‹Περὶ τᾶς σοϕίας καὶ τᾶς ἀρετᾶς, αἰ διδακτόν› suppl. Stephanus, DK, Untersteiner, BS. 2 ἀλαθὴς P3, edd.: ἀληθὴς rel. codd. 3 κενός codd. praeter R (καινός), Diels 1903, Classen, BS: καινός Gomperz, DK, Untersteiner, Robinson, LM: ἱκανός Shorey. 4 ὅτι Stephanus, edd.: τίς codd. 5 σοϕία codd. et edd. praeter P3 et Robinson (σοϕίη). 6 αἴ τι P4.6, DK, Robinson, BS, LM: ἂν rel. codd. 7 τοῦτο αὐτὸν P4.6, Blass, DK, Robinson, BS: τοῦτο αὐτὸ rel. codd. 8 διδάσκαλοί (διδασκαλοί Fabricius) κα: διδασκάλοι κα codd.: διδασκαλικά Stephanus. 9 ἀποδεδεγμένοι Orelli, DK, Robinson, BS, LM: ἀποδεδειγμένοι (οι ex ου) R, Weber: ἀποδεδογμένοι Z: ἀποδεδογμένοις L: ἀποδεδογμένην Stephanus. 10 τὰ αὐτῶν τέχνα ἂν codd., Robinson, LM: τὰν αὐτῶν τέχναν Schulze, DK, Untersteiner: τὰ αὐτῶν τέχνα κα Friedländer, Classen, BS. 11 καὶ τὼς ϕίλως L ad marg., Stephanus, edd.: καὶ πῶς ϕίλωσι (vel φίλως) rel. codd. 12 παρὰ Stephanus, edd.: περὶ codd. 13 διδάσκοντας ἃ codd., Robinson, LM: διδάσκεν τά κα Diels, DK, Untersteiner, BS. 14 σοϕίαν codd. et edd. praeter P3 et Robinson (σοϕίην). 15 {ἢ} τί δὲ Wilamowitz, DK, Robinson, BS, LM.
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6. [1] Si sostiene poi un’altra tesi, né vera né insensata, secondo cui sapienza e virtù non sono oggetto di insegnamento né di apprendimento. I sostenitori di questa tesi ricorrono a questi argomenti: [2] non è possibile che, se hai dato qualcosa ad altri, tu ce l’abbia ancora. Questo è il primo argomento. [3] Secondariamente, se fosse oggetto di insegnamento ci sarebbero dei maestri riconosciuti, come per le arti. [4] Terzo, che i sapienti della Grecia avrebbero dovuto insegnarla ai loro figli e amici. [5] Quarto, che alcuni non hanno tratto alcun vantaggio dalla frequentazione dei sofisti. [6] Quinto, che molti pur senza aver frequentato mai i sofisti sono diventati persone degne di rispetto. [7] Io trovo in effetti piuttosto ingenuo questo modo di ragionare: so che i maestri insegnano la parte di grammatica che essi personalmente conoscono; i citaredi, l’arte di suonare. Quanto al secondo argomento, per il quale non vi sarebbero maestri riconosciuti, che cosa altro insegnano i sofisti se non saggezza e virtù? [8] Che altro volevano essere i discepoli di Anassagora e Pitagora? Per il terzo, va ricordato che Policleto insegnò a suo figlio a scolpire.
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[9] καὶ αἰ μέν1 τις μὴ διδάξῃ2, οὐ σαμῇον· αἰ δ’ ἔστι διδάξαι3, τεκμάριον ὅτι δυνατόν ἐστι διδάξαι. [10] τέταρτον δέ αἰ μή τοι παρὰ σοϕῶν σοϕιστῶν4 σοϕοὶ γίνονται· καὶ γὰρ γράμματα πολλοὶ οὐκ ἔμαθον μαθόντες. [11] ἔστι δέ τις5 καὶ ϕύσις, ᾇ δή6 τις μὴ μαθὼν παρὰ σοϕιστᾶν ἱκανὸς ἐγένετο, εὐϕυής γα γενόμενος7, ῥᾳδίως συναρπάξαι τὰ πολλά, ὀλίγα μαθὼν παρ’ ὧνπερ καὶ τὰ ὀνύματα8 μανθάνομεν· καὶ τούτων τι ἤτοι πλέον ἤτοι ἔλασσον, ὁ μὲν παρὰ πατρός ὁ δὲ παρὰ ματρός. [12] αἰ δέ τῳ μὴ πιστόν ἐστι τὰ ὀνύματα μανθάνειν9 ἁμέ10, ἀλλ’ ἐπισταμένως ἅμα γίνεσθαι, γνώτω ἐκ τῶνδε· αἴ τις εὐθὺς γενόμενον παιδίον ἐς Πέρσας ἀποπέμψαι καὶ τηνεῖ τράϕοι, κωϕὸν ‘Ελλάδος ϕωνᾶς, περσίζοι κα· αἴ τις τηνόθεν τῇδε κομίζοι11, ἑλλανίζοι κα. οὕτω μανθάνομεν τὰ ὀνύματα, καὶ τὼς διδασκάλως οὐκ ἴσαμες. [13] οὕτω λέλεκταί μοι12 ὁ λόγος, καὶ ἔχεις ἀρχὴν καὶ τέλος καὶ μέσαν13· καὶ οὐ λέγω, ὡς διδακτόν ἐστιν, ἀλλ’ οὐκ14 ἀποχρῶντί μοι τῆναι ταὶ ἀποδείξιες15.
αἰ μέν codd., edd. praeter Robinson et LM (ἂν μέν). διδάξῃ codd., Stephanus, Mullach, Robinson, LM: διδάξαι Blass, Wilamowitz: ἐδίδαξε Diels, DK, BS. 3 αἰ δ’ ἔστι(ν) διδάξαι codd., Robinson: αἰ δέ τις ἐδίδαξε Wilamowitz: αἰ δ᾽ εἶς τις ἐδίδαξε DK, Untersteiner, BS, LM. 4 {σοϕῶν} σοϕιστῶν Schanz, Blass, Weber, Diels, DK. 5 τις codd., Robinson, BS, LM: τι Schanz, DK, Untersteiner. 6 ᾇ δή Diels, DK, Robinson, BS, LM: αἰ δή codd. 7 ἐγένετο, εὐϕυής γα γενόμενος Diels, DK, Classen, BS, LM: ἐγένετο εὐϕυής, καὶ γενόμενος codd., Stephanus: ἐγένετο, εὐϕυής καὶ γενόμενος Robinson: ἐγένετο, εὐϕυής κα γενόμενος Blass, Gomperz: ἐγένετο, εὐϕυής γενόμενος Schanz, Wilamowitz. 8 τὰ ὀνύματα codd., Robinson, BS, LM: τὠνύματα Diels 1903, DK (ὠνύματα P3). 9 μανθάνειν Orelli, DK, BS: μανθάνεν codd., Weber, Robinson, LM. 10 ἁμέ Koen, DK, Robinson, BS, LM: ἅμα (vel ἅμε) codd. 11 κομίζοι codd., edd. praeter Wilamowitz, DK, Untersteiner (κομίξαι). 12 οὕτω λέλεκταί μοι Diels, DK, Robinson, BS, LM: οὐ λέλεκταί μοι codd.: οὗ λέλεκταί μοι North: {οὐ} ἤλεγκταί μοι Koen. 13 μέσαν P3, DK, Untersteiner, Robinson, LM: μέσην rel. codd.: μέσον Mullach: μέσα Diels 1903, BS. 14 ἀλλ’ οὐκ Diels, DK, Robinson, BS: ἀλλ’ ὄτι οὐκ F1.2, LM: ἀλλ’ ὄτι rel. codd., Stephanus, North. 15 τῆναι ταὶ ἀποδείξιες Robinson, codd. (praeter Y1.2 qui om.): τῆναι ταὶ ἀποδείξεις Stephanus, LM: τῆναι ταὶ ἀποδειξίες Weber, Classen, BS: τῆναι αἱ ἀποδείξεις Mullach, Gomperz, Diels, DK, Untersteiner. 1 2
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[9] E quand’anche qualcuno non avesse insegnato, ciò non costituisce una prova: se c’è un insegnamento, esso è la prova che l’insegnamento è possibile. [10] Quanto al quarto punto, se anche alcuni allievi dei saggi sofisti non sono divenuti saggi, è anche vero che molti non hanno appreso la grammatica pur avendola studiata. [11] Va considerata poi anche la disposizione naturale per la quale una persona, pur senza aver seguito l’insegnamento dei sofisti, diviene capace – sempre che per natura sia di buona indole – di comprendere con facilità la maggior parte dei problemi, conoscendo solo quei primi rudimenti di cultura che apprendiamo da chi ci insegna l’alfabeto. Anzi, molti di questi elementi ci vengono – chi più chi meno – alcuni dal padre, altri dalla madre. [12] E se taluno non crede che la parola sia frutto di apprendimento, bensì ritiene che la possediamo all’atto della nascita, rifletta su questo caso: se un neonato venisse mandato in Persia e là allevato, ignaro della lingua greca, parlerebbe persiano; ma se se ne portasse uno dalla Persia alla Grecia, parlerebbe greco. Dunque noi apprendiamo a parlare, ma non siamo consapevoli di chi ce lo insegni. [13] Questo è il mio ragionamento, e ne hai inizio, fine e parte centrale. Dunque io non affermo che siano oggetto di insegnamento, ma non mi soddisfano nemmeno gli argomenti di chi sostiene la tesi contraria.
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7.1 [1] λέγοντι δέ τινες τῶν δαμαγορούντων2 ὡς χρὴ τὰς ἀρχὰς ἀπὸ κλάρω γίνεσθαι, οὐ βέλτιστα ταῦτα νομίζοντες. [2] αἰ γάρ τις αὐτὸν ἐρωτῴη3 τὸν ταῦτα λέγοντα4, «τί δὴ σὺ τοῖς οἰκέταις οὐκ ἀπὸ κλήρω τὰ ἔργα προστάσσεις5, ὅπως ὁ μὲν ζευγηλάτας, αἴ κ’ ὀψοποιὸς λάχῃ, ὀψοποιῇ, ὁ δὲ ὀψοποιὸς ζευγηλατῇ, καὶ τἆλλα κατὰ τωὐτό;6 [3] καὶ πῶς οὐ καὶ τὼς χαλκῆας καὶ τὼς σκυτῆας συναγαγόντες καὶ τέκτονας καὶ χρυσοχόας διεκλαρώσαμεν7 καὶ ἠναγκάσαμεν ἅν χ’8 ἕκαστος λάχῃ τέχναν ἐργάζεσθαι, ἀλλὰ μὴ ἃν9 ἐπίσταται;» [4] τωὐτὸν δὲ καὶ ἐν ἀγῶσι τᾶς μωσικᾶς διακλαρῶσαι τὼς ἀγωνιστὰς καὶ ὅ τι χ’ ἕκαστος {κα} λάχῃ10, ἀγωνίζεσθαι· αὐλητὰς κιθαριεῖται11 τυχὸν καὶ κιθαρῳδὸς αὐλήσει· καὶ ἐν τῷ πολέμῳ {τὼς} τοξότας καὶ {τὼς} ὁπλίτας ἱππασεῖται12, ὁ δὲ ἱππεὺς τοξεύσει, ὥστε πάντες ἃ οὐκ ἐπίστανται οὐδὲ δύνανται, {οὐδὲ} πραξοῦντι13.
Titulum ‹Περὶ τῶν ἀρχόντων, αἰ χρὴ τὰς ἀρχὰς ἀπὸ κλάρω γίνεσθαι ἢ οὐ› tempt. BS. δαμαγορούντων P3, edd.: δημαγορούντων rel. codd. 3 αἰ γάρ … ἐρωτῴη P3, Trieber, Robinson: εἰ γάρ … ἐρωτῴη rel. codd., DK, BS, LM: καὶ γάρ … ἂν ἐρωτῴη Mullach. 4 {τὸν ταῦτα λέγοντα} Diels 1903. 5 προστάσσεις L, Matth. de Varis, Trieber, Diels, Robinson, BS, LM: προστάσσης rel. codd. 6 κατὰ τωὐτό Robinson, LM: κατὰ τοῦτο codd.: κατὰ τωϋτό Koen: καττωυτό Orelli, Mullach: καττωὐτό Diels, DK, BS. 7 διεκλαρώσαμεν Meibon, DK, Robinson, BS, LM: διεκληρώσαμεν codd.: διακλαρώσομεν Mullach: διεκλαρώσαμες Weber. 8 ἅν χ’ North, DK, Robinson, BS: ἀνάσχ᾽ (vel similiter) codd. (ἁ ἀν χ’ ad marg. L): ἃν ἄν χ’ Matth. de Varis, Meibom. 9 μὴ ἃν P3, Stephanus, edd.: μὴ ἄν rel. codd. 10 {κα} λάχῃ Blass, DK, Robinson, BS, LM: κα λάχῃ codd. praeter L, Z, Stephanus (καὶ λάχῃ). 11 κιθαριεῖται Robinson: κιθαριζέτω codd., Weber, LM: κιθαρίξει Diels 1903, BS: κιθαριξεῖ Wilamowitz, DK, Untersteiner. 12 {τὼς} τοξότας καὶ {τὼς} ὁπλίτας ἱππασεῖται Wilamowitz, DK, Robinson, BS, LM: τὼς τοξότας καὶ τὼς ὁπλίτας ‹καὶ τὼς ἱππέας· καὶ ὁ μὲν τοξότας ὁπλιτευσεῖ, ὁ δ῾ ὁπλίτας› ἱππασεῖται Blass, Weber. 13 {οὐδὲ} πραξοῦντι Schanz, Weber, DK, Robinson, BS, LM. 1 2
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7. [1] Alcuni oratori sostengono che le cariche pubbliche debbono essere date per sorteggio, ma questa loro opinione non è la migliore. [2] Se infatti si chiedesse a un sostenitore di questa tesi: «Perché non assegni per sorteggio i lavori ai tuoi servi, così che quello che porta il carro, se gli toccasse di dover cucinare, cucinasse, e il cuoco portasse il carro, e così via per tutti gli altri? [3] e perché allora, convocati insieme fabbri e calzolai, carpentieri e orefici, non dovremmo sottoporli a sorteggio e costringere ciascuno a praticare il mestiere capitato per sorte e non quello di cui è esperto?». [4] Sarebbe lo stesso che nelle gare artistiche si sorteggiassero i concorrenti e ciascuno gareggiasse secondo l’esito del sorteggio, cosicché il flautista si trovasse a suonar la cetra e il citaredo il flauto; e in guerra arciere e fante andassero a cavallo, e il cavaliere tirasse con l’arco, sicché ciascuno farebbe un’attività che non conosce né che è capace di svolgere.
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[5] λέγοντι δὲ καὶ ἀγαθὸν1 ἦμεν καὶ δαμοτικὸν κάρτα· ἐγὼ ἥκιστα νομίζω δαμοτικόν. ἐντὶ γὰρ ἐν ταῖς πόλεσι μισόδαμοι ἄνθρωποι, ὧν αἴ κα τύχῃ ὁ κύαμος, ἀπολοῦντι τὸν δᾶμον. [6] ἀλλὰ χρὴ τὸν δᾶμον αὐτὸν ὁρῶντα αἱρεῖσθαι πάντας τὼς εὔνως αὐτῷ, καὶ τὼς ἐπιταδείως στραταγέν, ἁτέρως δὲ νομοϕυλακὲν καὶ τἆλλα […]2.
καὶ ἀγαθὸν F2, R, edd.: ἀγαθὸν rel. codd. καὶ τἆλλα {…} codd. praeter L, Stephanus (καὶ τἄλλα): καὶ τἆλλα Diels, DK, Robinson, BS, LM: καὶ τἆλλα ‹καττωὐτό› Weber, Schanz: καὶ τἆλλα ‹ἐπιστατέν› Blass. 1 2
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[5] Eppure essi affermano che si tratta di un ottimo procedimento, particolarmente favorevole al popolo; in realtà io lo considero il meno favorevole. Vi sono nella città oppositori del popolo che se venissero favoriti dalla fava che li designa, distruggerebbero il popolo. [6] Invece bisogna che il popolo scelga, controllando di persona tutte le persone che gli sono favorevoli, in modo che chi è in grado di farlo comandi l’esercito, altri sorveglino le leggi e ogni restante attività […].
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8.1 [1] ‹τῶ δ᾽ αὐτῶ›2 ἀνδρὸς καὶ τᾶς αὐτᾶς τέχνας3 νομίζω κατὰ βραχύ τε δύνασθαι διαλέγεσθαι4, καὶ ‹τὰν› ἀλάθειαν5 τῶν πραγμάτων ἐπίστασθαι, καὶ δικάσασθαι6 ὀρθῶς, καὶ δαμαγορεῖν οἷόν τ’ ἦμεν, καὶ λόγων τέχνας ἐπίστασθαι, καὶ περὶ ϕύσιος τῶν ἁπάντων ὥς τε ἔχει καὶ ὡς ἐγένετο, διδάσκεν. [2] καὶ πρῶτον μὲν ὁ περὶ ϕύσιος τῶν ἁπάντων εἰδώς, πῶς οὐ δυνασεῖται περὶ πάντων ὀρθῶς καὶ πράσσεν; 7 [3] ἔτι δὲ8 ὁ τὰς τέχνας τῶν λόγων εἰδὼς ἐπιστασεῖται καὶ περὶ πάντων ὀρθῶς λέγεν. [4] δεῖ γὰρ τὸν μέλλοντα ὀρθῶς λέγειν περὶ ὧν ἐπίσταται περὶ τούτων λέγεν. ‹περὶ› πάντων γ᾽ ἄρ᾽9 ἐπιστασεῖται. [5] πάντων μὲν γὰρ τῶν λόγων τὰς τέχνας ἐπίσταται, τοὶ δὲ λόγοι πάντες περὶ πάντων τῶν ἐ‹όντων ἐντί›10. [6] δεῖ δὲ ἐπίστασθαι τὸν μέλλοντα ὀρθῶς λέγεν, περὶ ὅτων κα λέγῃ, ‹τὰ πράγματα›11, καὶ τὰ μὲν ἀγαθὰ ὀρθῶς διδάσκεν τὴν πόλιν πράσσεν, τὰ δὲ κακά τως κωλύειν12.
Titulum ‹Περὶ τοῦ πάντα ἐπίστασθαι› tempt. BS. ‹τῶ δ᾽ αὐτῶ› Robinson, LM: ‹τῶ αὐτῶ› Blass, Weber, DK, BS. 3 καὶ τᾶς αὐτᾶς τέχνας Blass, Weber, DK, Robinson, BS: κατὰ τᾶς αὐτᾶς τέχνας codd. 4 διαλέγεσθαι North, Weber, DK, Robinson, BS, LM: ‹κατὰ μακρὸν› διαλέγεσθαι Orelli: καὶ ἀλέγεσθαι (vel καὶ λέγεσθαι) codd. 5 ‹τὰν› ἀλάθειαν Wilamowitz, edd. 6 δικάσασθαι F1.2, Meibom, Weber, Robinson, BS, LM: διδασκάσασθαι rel. codd., Stephanus, North: δικάζεν ἐπίστασθαι Wilamowitz, DK, Untersteiner. 7 ὀρθῶς καὶ πράσσεν codd., Robinson, BS, LM: ὀρθῶς καὶ ‹λέγεν καὶ› πράσσεν Blass, Weber: ὀρθῶς καὶ ‹τὰν πόλιν διδάσκεν› πράσσεν Diels, DK, Untersteiner: ὀρθῶς καὶ διδάσκεν tempt. Classen. 8 δὲ Diels, edd.: δὴ codd. 9 ‹περὶ› πάντων γ᾽ ἄρ᾽ Robinson (‹περὶ› Rohde, Blass), BS, LM: πάντων γὰρ codd.: πάντ’ ὦν {γὰρ} Diels, DK, Untersteiner: περὶ πάντων γὰρ Classen (forsitan). 10 τῶν ἐ‹όντων ἐντί› Orelli, edd.: τῶν ε‹ . . . . › codd. (τῶν ἐ‹ . . . . › P3, Z, L), Stephanus, North, Fabricius. 11 κα λέγῃ, ‹τὰ πράγματα› Diels (κα λέγῃ Blass), DK, Untersteiner, BS: καὶ λέγοι ‹ . . . . › codd. (λέγει F1.2), Robinson, LM: δεῖ λέγεν Mullach. 12 τὰ δὲ κακά τως κωλύειν codd. (vel τῶς), DK, Robinson, BS: τὰ δὲ κακὰ τὼς κωλύειν LM: τὰ δὲ κακά πως κωλύειν Orelli: τὰ δὲ κακὰ διακωλύεν Blass: τὰ δὲ κακὰ παντῶς κωλύειν Trieber: τὰ δὲ κακὰ †πως κωλύειν Weber. 1 2
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8. [1] Ritengo che spetti al medesimo individuo e alla medesima arte poter trattare dialetticamente in breve un argomento, e conoscere la verità dei fatti e rettamente giudicare, ed essere in grado di parlare in pubblico e conoscere la tecnica dell’argomentazione, e dare insegnamenti circa la natura e l’origine delle cose. [2] E per prima cosa si consideri: chi conosce la natura di ogni cosa non dovrebbe essere in grado anche di agire rettamente in ogni circostanza? [3] In modo parallelo, anche chi conosce la tecnica dell’argomentazione sarà capace di parlare efficacemente su ogni argomento. [4] Infatti chi vuole parlare con efficacia deve avere conoscenza del tema di cui intende parlare: in conseguenza di ciò sarà in grado di parlare su ogni argomento. [5] Costui per l’appunto conosce la tecnica propria di ogni tipo di discorso; e vi sono discorsi di ogni tipo che concernono ogni tipo di realtà. [6] Bisogna infine che chi si propone di parlare efficacemente conosca i fatti di cui vuol parlare ed efficacemente insegni alla città quali sono le cose buone da fare e quali le malvage da evitare.
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[7] εἰδὼς δέ γε ταῦτα1 εἰδήσει καὶ τὰ ἅτερα τούτων· πάντα γὰρ2 ἐπιστασεῖται· ἔστι γὰρ ταῦτα3 τῶν πάντων, τῆνα δὲ ποτὶ4 τωὐτὸν τὰ δέοντα παρέξεται, αἰ5 χρή. [8] κἂν μὴ ἐπιστᾶται6 αὐλέν, ἀὶ7 δυνασεῖται αὐλέν, αἴ κα δέῃ τοῦτο πράσσεν. [9] τὸν δὲ δικάζεσθαι ἐπιστάμενον δεῖ τὸ δίκαιον ἐπίστασθαι ὀρθῶς· περὶ γὰρ τούτω8 ταὶ δίκαι9. εἰδὼς δὲ τοῦτο, εἰδήσει καὶ τὸ ὑπεναντίον αὐτῷ καὶ τὰ ‹ἄλλα αὐτῶ ἑ›τεροῖα10. [10] δεῖ δὲ αὐτὸν καὶ τὼς νόμως ἐπίστασθαι πάντας· αἰ τοίνυν τὰ πράγματα μὴ ἐπιστασεῖται, οὐδὲ τὼς νόμως. [11] τὸν γὰρ ἐν μωσικᾷ νόμον τίς ἐπίσταται;11 ὅσπερ καὶ μωσικάν· ὃς δὲ μὴ μωσικάν, οὐδὲ τὸν νόμον. [12] ὅς γα ‹μὰν›12 τὰν ἀλάθειαν τῶν πραγμάτων ἐπίσταται, εὐπετὴς13 ὁ λόγος ὅτι πάντα ἐπίσταται.
γε ταῦτα Blass, Weber, Robinson, LM: γε αὐτὰ codd.: ταῦτα Diels, DK, BS. πάντα γὰρ codd., edd. praeter Blass, BS (πάντα ἄρα): Weber (πάντα δὲ). 3 ταῦτα codd., Robinson: ταὐτὰ Diels, Untersteiner, BS, LM. 4 τῶν πάντων, τῆνα δὲ ποτὶ P3, Robinson, Classen: τῶν πάντων, κεῖνα δὲ ποτὶ rel. codd., Weber: τῶν πάντων τῆνα, ‹ὁ› δὲ ποτί Diels, DK, Untersteinrer, BS, LM. 5 παρέξεται, αἰ Robinson, Classen, LM: παρεσσεῖται (vel πρασσεῖται). χρὴ codd., Blass, Weber: πραξεῖται· χρὴ Trieber: πράξει, αἰ χρή DK, BS. 6 χρή. κἂν μὴ ἐπιστᾶται Robinson, LM: χρὴ κἂν μὴ ἐπίσταται codd.: χρὴ γὰρ καὶ αἰ μὴ ἐπίσταται Weber: χρή. καἰ μὲν ἐπίσταται DK, Untersteiner, BS. 7 ἀὶ Diels (= ἀεὶ), DK, Robinson, BS, LM: αἰ (vel ἀὶ) codd.: οὗ Blass: ᾇ Weber. 8 τούτω P3, Weber, Robinson, BS, LM: τούτων rel. codd.: τοῦτο Wilamowitz, DK. 9 ταὶ δίκαι Blass, DK, Robinson, BS, LM: τὰ δίκαια codd.: τὰ δικαστήρια Matth. de Varis: τὸ δικάζεσθαι Meibom. 10 καὶ τὰ ‹ἄλλα αὐτῶ ἑ›τεροῖα Robinson tempt. (… ἑτεροῖα Mullach): καὶ τὰ . . . ‹ἑ›τεροῖα LM: καὶ (vel καὶ τὰ) ‹. . . . . . . .›τέρεια (vel τερεία) codd. praeter P4.6 (καὶ τὼς νόμως ‹. . . . . . . .›τέρεια): καὶ τὰ †τέρεια Weber: καὶ πάντα τὰ ἅτερα Wilamowitz, BS (ἄτερα): καὶ τὰ ἅτερα πάντα Diels 1903: καὶ τὰ ‹τούτων› ἅτερα DK, Untersteiner. 11 τίς ἐπίσταται; Robinson: τίς ἐπίσταται codd. praeter Y2 (τὶς ἐπίσταται): τις ἐπίσταται Fabricius, Orelli, Weber, BS: {τις} Wilamowitz LM: ὡυτὸς ἐπίσταται Diels, DK, Untersteiner. 12 ὅς γα ‹μὰν› Wilamowitz, DK, Robinson, BS, LM: ὅς γα codd. praeter L (ὃς γὰρ): ὅς δὲ Blass, Weber. 13 εὐπετὴς Matth. de Varis, edd.: ἀπετὴς codd. praeter Y2 (εὐπατὴς ex ἀπατὴς): εὐπετὴς ‹τούτῳ› Mullach. 1 2
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[7] Ma se conoscerà tutto questo, saprà anche il resto – in effetti saprà tutto –, perché questa conoscenza è parte di un tutto, e al momento debito gli darà la capacità di affrontare quanto gli si parerà davanti, se ve ne sarà necessità. [8] E nel caso non fosse capace di suonare il flauto, ebbene, se dovesse farlo, ne diverrebbe in ogni circostanza capace. [9] E chi vuole esprimere consapevolmente una sentenza deve conoscere bene il giusto, perché su questo ci si deve pronunciare. Ma se conosce questo, conoscerà anche il suo contrario e tutto ciò che da esso si differenzia. [10] Dovrà aver conoscenza anche di tutte le leggi, ma se non conoscesse i fatti, nemmeno potrebbe conoscere le leggi. [11] Infatti le leggi dell’armonia musicale chi le conosce? Chi conosce la musica; chi ignora questa, ignora anche le leggi. [12] E così chi conosce la verità dei fatti conosce – facile deduzione – ogni cosa.
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[13] ὃς δὲ ‹κατὰ›1 βραχὺ ‹διαλέγεσθαι δύναται›2, δεῖ νιν ἐρωτώμενον ἀποκρίνασθαι3 περὶ πάντων· οὐκῶν4 δεῖ νιν πάντ’ ἐπίστασθαι.
ὃς δὲ ‹κατὰ› Blass, Weber, Robinson, BS, LM: ὃς δὲ codd.: ὣς δὲ ‹καὶ κατὰ› Diels, DK. ‹διαλέγεσθαι δύναται› δεῖ Blass, Weber, Robinson, BS, LM: ‹διαλέγεσθαι δύναται, αἴ κα› δέῃ DK. 3 ἀποκρίνασθαι codd., Weber, Robinson, LM: ἀποκρίνεσθαι DK, Untersteiner, BS. 4 οὐκῶν Orelli, Weber, DK, Robinson, BS, LM: οὐκοῦν Y2: οὔκουν rel. codd. praeter P3 (οὔκων, ω ex ου). 1 2
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[13] E chi sa trattare dialetticamente un argomento per brevi domande e risposte deve, a domanda, saper rispondere su ogni argomento: quindi deve sapere ogni cosa.
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9.1 [1] μέγιστον δὲ καὶ κάλλιστον ἐξεύρημα εὕρηται ἐς τὸν βίον μνάμα καὶ ἐς πάντα χρήσιμον, ἐς φιλοσοϕίαν τε καὶ σοφίαν2. [2] ἔστι δὲ τοῦτο, ἐὰν3 προσέχῃς τὸν νοῦν· διὰ τούτω ‹γὰρ› ἐλθοῦσα4 ‹ἁ› γνώμα5 μᾶλλον αἰσθησεῖται σύνολον ὃ ἔμαθες6. [3] δεύτερον δεῖ μελετᾶν7, αἴ κα ἀκούσῃς· τῷ γὰρ8 πολλάκις ταὐτὰ9 ἀκοῦσαι καὶ εἶπαι ἐς μνάμαν παρεγένετο. [4] τρίτον αἴ κα ἀκούσῃς, ἐπὶ τὰ10 οἶδας καταθέσθαι, οἷον τόδε· δεῖ μεμνᾶσθαι Χρύσιππον; κατθέμεν11 ἐπὶ τὸν χρυσὸν καὶ τὸν ἵππον. [5] ἄλλο, Πυριλάμπη12· κατθέμεν ἐπὶ ‹τὸ› πῦρ13 καὶ τὸ λάμπειν. τάδε μὲν περὶ τῶν ὀνυμάτων· [6] τὰ δὲ πράγματα οὕτως· περὶ ἀνδρείας14 ἐπὶ τὸν ῎Αρη καὶ τὸν ‘Αχιλλῆα, περὶ χαλκείας δὲ ἐπὶ τὸν ῞Ηϕαιστον, περὶ δειλίας ἐπὶ τὸν ‘Επειόν … 15
Titulum ‹Περὶ μνήμης› tempt. BS. ἐξεύρημα … καὶ σοφίαν codd., Stephanus, Fabricius, Robinson, BS, LM: ἐξεύρημα … χρήσιμον ‹τά τ᾽ ἄλλα καὶ› ες … καὶ σοφίαν Blass, Weber: ἐξεύρημα εὕρηται μνάμα καὶ ἐς πάντα χρήσιμον, ἐς τὰν σοϕίαν τε καὶ ἐς τὸν βίον DK, Untersteiner. 3 ἔστι δὲ τοῦτο, ἐὰν codd., Stephanus, Fabricius, Robinson: ἔστι δὲ τοῦτο· ‹πρῶτον (πρᾶτον)› ἐὰν Schanz, DK, Untersteiner, BS, LM: ἔστι δὲ τοῦτο, αἴκα Blass, Weber. 4 ‹γὰρ› ἐλθοῦσα Schanz, Blass, Weber, Robinson, BS: παρελθοῦσα codd., DK, Untersteiner, LM: παρελθόντα Wilamowitz. 5 ‹ἁ› γνώμα Orelli, Diels, DK, Robinson, BS, LM. 6 σύνολον ὃ ἔμαθες codd., edd. praeter Diels, Untersteiner (σύνολον ὃ ἔμαθες post παρεγένετο, 9.3, transposuerunt). 7 δεῖ μελετᾶν Robinson: δὲ μελέταν codd.: δὲ μελετᾶν North, DK, BS, LM: δὲ μελετῆν Weber: διὰ τῶ μελετᾶν Mullach. 8 τῷ γὰρ Schanz, DK, Robinson, BS, LM: τὸ γὰρ codd. 9 ταὐτὰ P3, Y2 (ex ταῦτα) Meibom, DK, Robinson, BS, LM: ταῦτα rel. codd. 10 ἐπὶ τὰ Matth. de Varis, edd.: ἔπειτα codd., Mullach (ἔπειτα δ᾽εἰδῇς). 11 δεῖ μεμνᾶσθαι Χρύσιππον; κατθέμεν Robinson: δεῖ μεμνᾶσθαι Χρύσιππον, κατθέμεν codd., rel. edd. 12 Πυριλάμπη Blass, DK, Robinson (πυριλάμπη·), BS, LM: πυριλάμπη codd.: πυριλάμπην Mullach. 13 ‹τὸ› πῦρ Blass, edd. 14 ἀνδρείας Stephanus, edd.: ἀνδρίας codd. 15 ad fin. Σῆ: ἐλλιπὲς οὕτο καὶ τὸ ἀντίγραφον, ὡς ὁρᾶτε P3: σημείωσαι ὅτι τὸ ἐπίλοιπον οὐχ εὑρέθη rel. codd. 1 2
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9. [1] La capacità di conservare il ricordo è la più grande e bella scoperta fatta a favore della vita dell’uomo, utile in ogni circostanza, per la filosofia e per la saggezza. [2] Innanzitutto tale capacità si attiva solo se si è concentrati; infatti, procedendo in tale modo, la conoscenza meglio percepirà l’unità dell’oggetto appreso. [3] In secondo luogo bisogna riflettere su ciò che si ode: ascoltare e ripetere più volte la stessa cosa è di aiuto alla memoria. [4] In terzo luogo: bisogna collegare ciò che si è udito a ciò che precedentemente si sapeva. Un esempio: si deve ricordare il nome di «Crisippo»? Lo si colleghi a ‘chrysos’ [oro] e ‘hippos’ [cavallo]; [5] ancora, nel caso di Pirilampe: lo si colleghi a ‘pyr’ [fuoco] e ‘lampein’ [brillare]. Questo almeno con i nomi. [6] Per i fatti si può seguire questo procedimento: collegare ‘eroismo’ ad Ares e Achille, ‘metallurgia’ a Efesto, ‘viltà’ ad Epeo …
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[1] Bene e male Presentandole come l’espressione di due linee argomentative contrapposte (e, nel far questo, dichiarandosi in comunione d’intenti con chi si occupa di filosofia, ὑπὸ τῶν ϕιλοσοϕούντων), l’autore si preoccupa di esplicitare con chiarezza i tratti delle divergenti tesi sostenute: (a) quella per cui bene e male sono distinti; (b) quella per cui bene e male coincidono. Inizia a partire da quest’ultima. Nel far questo (§§ 2-10) egli presenta una serie di esempi tratti dall’esperienza quotidiana dai quali emerge che, appunto, bene e male – indifferenti in origine – sono distinti in un modo o nell’altro solo a un secondo livello: allorché ci si riferisce a colui che esprime il giudizio di valore (bene/male) o alla prospettiva di osservazione dei fatti presi in considerazione (insiste su questo aspetto, recentemente, Eustacchi 2016, pp. 57-63). Sembrerebbe trattarsi dunque della difesa di una tesi chiaramente relativistica, realizzata per accumulazione di esempi a favore, e nella quale entra in campo il fattore καιρός, cioè l’importanza del momento in cui un certo fatto si presenta o una certa valutazione di un fatto si manifesta: in modo esplicito questo aspetto sarà sviluppato in 2.19-20 e 3.12. Nella discussione della tesi contrapposta (§§ 11-17), l’autore presenta invece un’argomentazione per assurdo, tesa a dimostrare che, se bene e male non si potessero distinguere in quanto tali (e di fatto), non sarebbe nemmeno possibile poi procedere nella conclusione di tipo ‘relativistico’. Vale a dire: solo perché bene e male sono qualcosa di diverso l’uno dall’altro è poi possibile sostenere che il soggetto (A) reputi una certa determinata cosa (un certo determinato fatto) un bene, mentre il soggetto (B) ritiene la medesima determinata cosa (il medesimo determinato fatto) un male. In pratica, le due argomentazioni in contrasto sono in contrasto apparente, mentre in realtà finiscono per integrarsi. Solo perché bene e male sono distinguibili (ὡς ἄλλο μέν ἐστι τὸ ἀγαθόν, ἄλλο δὲ τὸ κακόν, § 1; ὡς οὐ Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
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τωὐτὸν εἴη κακὸν καὶ ἀγαθόν, § 17) è possibile sostenere che sono la stessa cosa (ὡς τὸ αὐτό ἐστι, § 1), peraltro interpretabile in modo ‘relativo’ al soggetto interpretante e/o ai contesti di riferimento. Nella conclusione, l’autore sottolinea correttamente di non volersi impegnare nella definizione di che cosa è bene (καὶ οὐ λέγω, τί ἐστι τὸ ἀγαθόν, § 17) e di che cosa è male, ma di volersi mantenere al puro e semplice livello argomentativo-didattico (τοῦτο πειρῶμαι διδάσκειν, § 17). [1.1] … due argomentazioni in contrasto: Δισσοὶ λόγοι: letteralmente ‘argomentazioni duplici’, e per questo ‘in contrasto’. Pare – così Diogene Laerzio 9.51 – che per primo fosse stato Protagora a teorizzare la possibilità di una duplice argomentazione (una opposta all’altra) a proposito di qualsiasi fatto: καὶ πρῶτος ἔφη δύο λόγους εἶναι περὶ παντὸς πράγματος ἀντικειμένους ἀλλήλοις; cfr. anche Isocr., Helen. 1: δύω λόγω περὶ τῶν αὐτῶν πραγμάτων. Le principali testimonianze protagoree sono raccolte in FragVors: DK 80A20 = LM 31D27 (Sen., ep. 88.43 e Clem. Al., Strom. 6.65.1); DK 80B6b e DK 80A21 = LM 31D38 (Aristot., Rhet. 1402a 24-28); DK 80B6 = LM 31D18 (Cic., Brut. 12.46); DK 80B5 = LM R1a, R1b (Diog. Laert. 3.37 e 3.57). L’espressione δισσοὶ λόγοι si ritrova nell’Antiope di Euripide, fr. 189 Nauck2 / Kannicht: ἐκ παντὸς ἄν τις πράγματος δισσῶν λόγων ἀγῶνα θεîτʹ ἄν, εἰ λέγειν εἴη σοφός, «potrebbe gareggiare ad argomentare in modo duplice di fronte a ogni fatto colui che fosse abile parlatore». Per quanto concerne in generale l’opera – che, a partire dallo Stephanus è conosciuta anche come Διαλέξεις, «Discussioni» – si veda tra gli altri Untersteiner 1967, II, pp. 161-165; questi non solo vi ravvisa elementi di origine pitagorico-sofistica, ma la considera luogo di confronto tra argomenti gorgiani e confutazioni attribuibili a Ippia. Si tratta di una tesi che rimane ancorata più che altro a impressioni generali e alla sensibilità critica dello studioso: in realtà – fatta salva l’ascendenza sofistica, l’impianto strutturalmente unitario e la forma linguistica di origine dorica – nulla di preciso o definitivo è possibile ricavare dalla lettura, tantomeno l’autore o la data di composizione. Più equilibrato è il giudizio di chi si limita a rilevare il carattere eclettico delle varie trattazioni, magari segnalando l’assenza di spunti originali: il che fa propendere per un lavoro scolastico, esercitazione di un maestro o appunti di un allievo, cfr. Guthrie 1969, III, p. 316, e, recentemente, Moreno Moreno 2015, pp. 9-11. [1.1] … coloro che si dedicano alla filosofia: Molto probabilmente l’autore, se identificabile con un ‘iniziato’ (cfr. § 4.4) e quindi, in pratica, con un maestro, intende riferirsi alla nuova ‘classe’
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di professionisti della tecnica oratoria e sofistica. Siamo nella fase in cui la filosofia comincia ad affermarsi, nell’Ellade, non solo come generica disponibilità al pensare e alla pratica della riflessione, ma come nuovo strumento di affermazione culturale. In questo senso si ritrova il vocabolo φιλοσοφία alla conclusione dei Dissoi logoi (9.1), quasi a racchiudere insieme l’intera serie delle discussioni sviluppate. Una rapida ma documentata messa a fuoco del significato è in Robinson 1979, pp. 147-148. Se, come ritengo, l’opera va fatta risalire alla metà del quinto secolo a.C., è possibile che l’autore abbia in mente una serie di protagonisti del panorama culturale (tra tutti si può pensare a Protagora e Antifonte), alla tecnica dei quali amerebbe avvicinarsi e con cui forse vorrebbe confrontarsi. [1.2] … mi associo a questi ultimi: L’autore, come poi farà anche in seguito, interviene in prima persona dimostrandosi così non un semplice ripetitore di idee altrui; precisamente egli qui si dichiara dalla parte di coloro che negano la separatezza assoluta dei due concetti e che, piuttosto, rilevano la relatività di qualsiasi identificazione. Ed è appunto l’etichetta di relativismo quella che per molti studiosi sembra spiegare meglio l’atteggiamento conciliatorio dell’Anonimo; cfr. tra gli altri Mazzarino 1966, I, p. 287; Zeppi 1974, pp. 23-31; Barnes 1979, II, pp. 214-220. Una recente disamina della questione è il saggio di A. Becker, in Becker – Scholz 2004, pp. 113-142. È possibile che il riferimento più generale fosse comunque a Eraclito, le cui sentenziose affermazioni connesse alla sua dottrina dei contrari servivano a ribadire il rapporto di interdipendenza tra gli opposti, cfr. frr. 50, 51, 53, 67 DK (= LM 9D46, D49, D64, D48), oppure la relatività insita nella valutazione di fatti oggettivi: «Il mare è l’acqua più pura e impura: per i pesci è potabile e gli conserva la vita, per gli uomini è imbevibile e mortale», fr. 61 DK (= LM D78). [1.4] … bene per chi lavora nei cantieri: Dopo una prima serie di esemplificazioni dove al bene sperimentato da uno è contrapposto il male sperimentato da un altro (in riferimento sempre allo stesso oggetto o fatto), una seconda serie contrappone piuttosto la situazione del singolo a quella dell’intero gruppo di appartenenza. Non solo dunque l’attenzione si concentra sul criterio del kairós (ciò che è opportuno in una data situazione), ma appare in evidenza un significativo interesse ‘sociologico’ dal momento che il singolo soggetto avverte il peso che il suo agire e il suo partecipare alla vita comportano. Il relativismo assume così una rilevanza etica.
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[1.6] … contese di atletica, di belle arti e di guerra: L’ultima serie di esempi si concentra sul tema della gara nelle sue varie versioni: da quella atletica, a quella sublimata in senso artistico, a quella più brutale, la guerra. In tutte il medesimo oggettivo risultato è leggibile necessariamente come vittoria o sconfitta. [1.8] … avvenimenti più recenti: Questa sezione e, in particolare, il riferimento al conflitto tra Atene e Sparta hanno fornito materiale al dibattito circa la datazione dell’opera: cfr. supra pp. 4-5. Gli avvenimenti storici e mitici sono evocati in ordine cronologico inverso; Mazzarino 1966, I, pp. 289-290, propose di riferire «la vittoria degli Spartani sugli Ateniesi e i loro alleati» non tanto alla guerra del Peloponneso (431-404) in generale, quanto piuttosto alla vicenda di Tanagra (457 a.C.) che vide gli Spartani aver ragione di oltre 14.000 avversari. Gli argomenti di Mazzarino sono ribattuti da Robinson 1979, pp. 35-38, anche se non esaurientemente. Questi comunque propende, insieme alla maggior parte degli studiosi, per una datazione bassa che fa del 404 il termine post quem: i Dissoi logoi sarebbero stati scritti tra il 403 e il 395. La mia opinione è invece che l’opera sia, senza particolari controindicazioni, databile intorno al 440 a.C., poco dopo Tanagra, nel momento in cui i maestri di formazione sofistica e le loro idee cominciavano a circolare per l’Ellade. [1.9] … le vicende di Tebe e di Argo: Il riferimento è alla spedizione dei Sette contro Tebe: la lotta fratricida tra i tebani Eteocle e Polinice che vide coinvolta anche Argo. Com’è noto, Eschilo ne fece il soggetto di una sua tragedia, rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 467 a.C. [1.10] … si narra: Sull’importanza di questa precisazione di carattere narratologico per la distinzione, attuata in questa parte dei Dissoi logoi, tra leggenda e storia, cfr. Mazzarino 1966, I, pp. 295-297; anche Erodoto aveva fatto una netta distinzione tra «generazione degli uomini» e «generazione degli eroi», e ciò testimonierebbe di una qualche affinità. Da notare l’intreccio di prospettive rovesciate: quella temporale (dalle vicende più prossime a quelle più remote), quella spaziale (da Atene e l’Ellade al cielo), quella narratologica (dai contenuti storici a quelli mitologici). [1.11] … qualcosa di paradossale!: L’Anonimo tenta di perfezionare la tesi che semplicisticamente coglie una diretta implicazione tra differenza nominale (τὤνυμα) e differenza ontologi-
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ca (τὸ πρᾶγμα): lo fa affermando anzitutto la centralità della ‘differenza’ in sé. Nel sostenere ciò si affida all’esperienza più immediata che esige senz’altro la separatezza dei due concetti che sono posti in opposizione (bene e male, bello e turpe, vero e falso ecc.), pena l’avverarsi di situazioni paradossali, grottesche, e, da ultimo, la perdita di senso del discorso. Sulla questione della relatività del linguaggio e, peraltro, sulla necessità di controllarlo, si esercita soprattutto la dottrina protagorea dell’ὀρθοέπεια: Socrate, in Phaedr. 267c, ricorda a Fedro quale fosse uno dei temi chiave di Protagora: «Qualcosa come l’“espressione corretta”, e molti altri temi ancora». La capacità di controllo sul singolo vocabolo e la sua relazione con l’oggetto di cui è significante (appannaggio soprattutto dei poeti, cfr. Plat., Protag. 338e-339a) si allargava poi all’arte di gestire l’intera frase e l’intero discorso: come assicura Socrate, Protagora era in grado di pronunciare discorsi estesi e ben fatti, ma anche di rispondere, a domanda, in breve oppure, se era lui a porre la domanda, ad aspettare e accettare la risposta, Protag. 329b, 334e-335c. Socrate insomma attribuisce a Protagora la capacità di adoperare sia il discorso sintetico (brachylogia) sia quello articolato (makrologia). Sulle caratteristiche della dottrina linguistica di Protagora è da vedere Classen 1959, pp. 33-39 (ora in Classen 1976, pp. 215-247, che al riguardo collega l’intento educativo – esplicitamente evocato da Platone – alla prospettiva implicata dalla dottrina dell’«uomo-misura». [1.12] … bene e male sono la stessa cosa: A questa tesi ‘forte’ l’Anonimo si oppone, proponendo piuttosto – come si è visto – l’esperienza pratica per cui bene e male assumono il loro effettivo valore solo in relazione a un soggetto giudicante: bene e male non sono la stessa cosa, eppure spetta a ciascuno identificarli autonomamente, al di là di arbitrarie forzature pregiudiziali e di impossibili distinzioni puramente nominali. Il testo qui accolto è quello proposto da Robinson sulla base di tutti i principali manoscritti. Diels – Kranz, seguiti da Untersteiner, accolgono invece un emendamento di W. Schulze mediante il quale si renderebbe più logico lo scambio delle battute. Al posto di εἶπον δή μοι, ἤδη τι τὼς γονέας ἀγαθὸν ἐποίησας; («Dimmi, allora, hai mai fatto del bene ai tuoi genitori?»), scrivono: εἶπον δή μοι, ἤδη τύ τι τοὶ γονέες ἀγαθὸν ἐποίησαν; («Dimmi, allora, i tuoi genitori ti hanno mai fatto del bene?»). [1.14] … patiscono molte e grandi disgrazie: I codici hanno la lezione πολλὰ καὶ μεγάλα ἔχοντι, che già Matthaeus de Varis integrò con il prevedibile κακὰ. Con Schanz 1884 si inserisce anche καὶ
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prima di πάλιν. Diels, già dall’edizione del 1903, conferma κακὰ ma espunge μεγάλα (come del resto anche Robinson): occorre non trascurare, però, che μεγάλα è nei codici e mantenerlo non crea particolari problemi. Cfr. Classen 2001, p. 112. [1.16] … dal mangiare, dal bere e dal piacere sessuale: A chiusura dell’argomentazione ritorna il richiamo a ciò di cui l’uomo primariamente si preoccupa nella vita. Al § 2 esso serviva a segnalare la relatività di tali attività rispetto alle condizioni del medesimo soggetto, ora sano, ora ammalato. La stessa medesima cosa/attività è allo stesso tempo bene e male. Qui invece è evidenziata la paradossalità di una concezione indifferenziata della realtà: se non c’è differenza in sé, all’ammalato bene e male appaiono indistinguibili, al punto che il fatto stesso di essere ammalato è un bene. [1.17] … io non stabilisco che cosa è il bene: Si tratta di un’importante affermazione dalla quale emerge la consapevolezza dell’autore rispetto alla separatezza radicale tra linguaggio e realtà: proprio quanto poi Gorgia distingue nello sviluppare la sua argomentazione sul non-essere (Sext. Emp., adv. log. 1.65; [Aristot.], De Mel. Xen. Gorg. 979a 12-14). Rinunciando a stabilire che cosa sia il bene, e dunque rinunciando a stabilire nel contempo che cosa sia il male, rimane pur sempre affermata quella diversità reale che poi determina sì la differenza del linguaggio, ma pure la relatività del giudizio o dell’operazione logica che riferisce inevitabilmente il linguaggio alla realtà.
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[2] Bello e turpe Come per ‘bene’ e ‘male’, anche per ‘bello’ e ‘turpe’ si possono sostenere argomentazioni in contrasto. Per τὸ αἰσχρόν, più che per τὸ καλόν, la valenza etica è immediatamente coglibile e farebbe propendere per un’interpretazione etica, piuttosto che estetica. Tuttavia lungo tutta questa sezione l’ambiguità rimane e forse è più opportuno mantenere, anche a livello di traduzione, la doppia valenza: analogamente in italiano la valenza etica è subito coglibile in ‘turpe’, quella estetica in ‘bello’. Le traduzioni di Laks (convenable / inconvenant) e di Becker – Scholz (Schickliches / Unanständiges) e soprattutto di Robinson (seemly / shameful) sembrano puntare senz’altro in direzione morale; tuttavia, come sottolinea Laks in Laks – Most 2016, p. 1523 n. 1, «Nous avons partout maintenu la traduction de kalon par ‘convenable’ et d’aiskron par ‘inconvenant’, bien que dans certains cas, ‘beau’ et ‘laid’ auraient été plus appropriés en français». È chiaro, a questo punto, che l’ambiguità appartiene al significato stesso dei vocaboli e all’uso che ne fa un autore di madre lingua dorica in area attica intorno alla metà del quinto secolo a.C. Anche Bonazzi 2007, p. 431, traduce con «bello» e «turpe». La sezione è divisa in due parti: dopo che il tema è stato enunciato (§ 1), inizia (parte A) l’argomentazione tesa a dimostrare che è lo stesso soggetto che distingue in modo opposto identici fatti o comportamenti o cose (§§ 2-17). Segue un passaggio centrale nel quale dapprima è proposto una sorta di esperimento mentale teso a mostrare che tutto ciò che è bello per gli uni è turpe per gli altri (§ 18) e, di conseguenza, che tutto finisce per perdere la caratteristica che lo rende distinguibile (πάντας πάντα διαλαβέν); quindi, è evocato in modo esplicito il concetto di καιρός (§§ 19-20), adoperato per introdurre la diversità. Di essa si argomenta (parte B) per assurdo, immaginando le conseguenze che deriverebbero nel caso in cui fatti o comportamenti o cose fossero indistinguibili (§§ 21-27). È rilevante che i risultati ottenuti attraverso l’esperimento mentale del § 18 siano in questa seconda parte ripresi (§§ 26-27) per sostenere l’argomentazione per assurdo e ottenere un esito opposto: se tutto fosse uguale, non sarebbe possibile ricavare il diverso dall’identico (οὐκ ἄλλο τί κα ἀπᾶγον). La conclusione (§ 28) è costituita da due interrogazioni retoriche miranti a confermare la tesi che la diversità originaria è premessa sia per l’apparente identità del tutto sia per la relatività di quanto ciascun soggetto, nelle diverse occasioni, giudica a proposito di ciò che prende in considerazione. Tentare di proporre una soluzione alternativa non appartiene al campo della verità e dunque della filosofia: piuttosto appartiene all’arte dei poeti e di quanti si
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propongono di divertire attraverso ciò che sorprende o confonde (‹οἳ› ποτὶ ἁδονάν, οὐ ποτὶ ἀλάθειαν ποιεῦντι). [2.1] … differiscono sia nella parola che li definisce sia nel concreto: Come in 1.11 (e poi in 3.13 e 4.6, in quest’ultimo solo per congettura) a quanto compete al linguaggio è contrapposto quanto compete ai fatti e alla cosa nella sua concretezza. Da un lato τὤνυμα e dall’altro, questa volta, τὸ σῶμα (invece di τὸ πρᾶγμα). Per uniformare – ma non è necessario, anzi – lo Stephanus, p. 472, correggeva σῶμα in πρᾶγμα. L’hanno seguito Mullach, Blass, Weber, Diels 1903. [2.2] … a chi è bello ma non lo ama: Accertato il gioco simmetrico dell’antitesi, appare incerto il riferimento di καλῷ all’amante piuttosto che al ragazzo. Per aggirare la difficoltà Wilamowitz-Moellendorff 1889, p. 9, seguito da Diels – Kranz e Untersteiner, propose l’elisione di χρηστῷ e di καλῷ, per cui la traduzione sarebbe: «è bello per un bel ragazzo corrispondere a chi lo ama, turpe a chi non lo ama». Un’alternativa più economica potrebbe essere quella di elidere il μή e leggere κακῷ al posto di καλῷ (così Classen 2001, p. 115): «… turpe corrispondere a chi sia amante non degno di rispetto». Qui, come più sotto, la serie di esemplificazioni legate alla definizione di moralità/immoralità (cioè di bello/turpe) getta uno squarcio all’interno del costume sessuale e delle abitudini etiche all’epoca accettate. Interessante è in particolare la «liceità» riconosciuta alle pratiche sessuali specie in situazione nascosta; per un approfondimento cfr. anzitutto Foucault 1991, pp. 58-67, che riconduce alla tematica del kairós alcuni aspetti del problema. [2.5] … proprio marito: Sembra sicura l’interpretazione che, in questo paragrafo, vede in ἀνήρ il marito e in γυνή la moglie; molto meno evidente è il significato da dare ai medesimi vocaboli nel successivo § 6. Cfr. Robinson 1979, pp. 164-165. Nella loro traduzione, Becker – Scholz 2004, p. 57, mantengono sempre Mann e Frau. [2.7] … se si tratta di atleti nella gara dello stadio è bello: Nella traduzione si tenta di rendere l’ambiguità del concetto di φεύγειν. La valutazione morale che soggiace agli esempi presi in considerazione è la stessa cui fa riferimento Gorgia nella sua Autodifesa di Palamede, DK 82B11a, 18-19 (= LM 32D25): «Allora feci ciò (scil. tradire i Greci) per cercar d’aiutare qualche mio amico o per danneggiare qualche mio avversario? Sì per que-
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sti scopi si potrebbe arrivare a compiere misfatti. Ma allora per me l’effetto è stato tutto il contrario, perché ho cercato di danneggiare amici e aiutare nemici (τοὺς μὲν φίλους κακῶς ἐποίουν, τοὺς δὲ ἐχθροὺς ὠφέλουω). (…) Resta la possibilità che io avessi agito per sfuggire a una minaccia o a una fatica o a un pericolo (εἴ τινα φόβον ἢ πόνον ἢ κίνδυνον φεύγων ἔπραξα)». [2.9] … popoli diversi considerano turpe: Tutta la sezione relativa alle differenze geografiche permette, riguardo agli «indicatori culturali» prescelti, significativi raffronti con Erodoto, puntualmente segnalati sia da Untersteiner 1967, III, pp. 159-161, sia da Robinson 1979, pp. 165-166. Per il tatuaggio e le usanze ricordate al § 13, cfr. Hdt. 5.6.2; 4.26; 4.65-66. Per l’antropofagia citata al § 14, cfr. Hdt. 1.216.2; 3.38.3-4. Peraltro, la frase ἐν τοῖς τέκνοις τεθάφθαι rinvierebbe – secondo Untersteiner – a Gorgia, DK82B5a (= LM 32D30a-b), più che a Erodoto. Sui costumi dei Persiani richiamati al § 15, cfr. Hdt. 3.31; 68 e 88. Per i costumi dei Lidi (§ 16), cfr. Hdt. 1.93.12-18; quanto agli Egizi (§ 17), si veda Hdt. 2.35. La datazione ‘alta’ qui adottata per i Dissoi logoi implica che si trattasse di notizie ai più note o che Erodoto riprendesse tali esempi da una fonte più antica conosciuta anche dall’Anonimo dei Dissoi logoi: per esempio Ellanico. [2.13] … un ornamento: Erodoto, 5.6.2, conferma che il tatuaggio presso i Traci è segno di nobiltà (τὸ μὲν ἐστίχθαι εὐγενὲς κέκριται), diversamente dalla tradizione greca che vi vedeva il marchio della schiavitù. [2.14] … se ne cibano: La notizia trova conferma in Erodoto, 1.216; e, più tardi, in Strabone, 11.513. In entrambi questi autori si riporta che, a essere immolati e mangiati in una sorta di rito collettivo, sono coloro che ormai hanno raggiunto la vecchiaia. Se l’Anonimo precisa che si tratta dei genitori (τὼς γονέας), Erodoto più genericamente scrive che al banchetto partecipano i familiari (οἱ προσήκοντες). [2.18] … si porterebbero via tutto: Sul rovesciamento di collocazione tra τὰ αἰσχρὰ e τὰ καλὰ, quasi tutti gli editori concordano con il North che l’ha proposta per primo, dando maggior efficacia all’esempio. Mantengono l’originario testo Laks – Most, per i quali è dal cumulo dei καλὰ che ciascuno toglie un αἰσχρὸν cosicché non ne rimane più nessuno. In ogni caso l’esempio lascerebbe intravvedere un’eco dell’argomentazione zenoniana relativa al grano di miglio (Simpl., Phys. 1108, 18 = DK 29A29
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= LM 20D12a-b: così Taylor 1911, p. 105) e un’anticipazione del paradosso del sorite attribuito a Eubulide. Quanto a Erodoto, cfr. 3.38 e 7.152. Levine Gera 2000, pp. 35-40, considera questo esempio (ripreso poi ai §§ 26-28), un autentico esperimento mentale da confrontarsi con quello presentato nella sezione 6.12. [2.19] … lo muta in turpe: La citazione poetica (= TrGrF II, adesp. fr. 26 Kannicht / Snell) è tipica della pratica sofistica; secondo Untersteiner 1967, III, p. 161, essa riporta il testo alla valenza etica del concetto di kairós, quindi a un ambito avvicinabile a quello gorgiano. Rostagni 1922, pp. 172-173, fu il primo invece a vedere in questo frammento chiari elementi di tipo pitagorico, poiché vi si alluderebbe non tanto al «comune concetto retorico del καιρός, quanto alla ragione filosofica di esso, ricercata nella natura e nella costituzione dell’Universo», p. 173. Rimane evidente, come sottolinea Robinson 1979, p. 170, che in modo netto sono distinte due norme antitetiche: quella secondo cui ogni cosa è assolutamente e inequivocabilmente bella o turpe (πάντῃ καλόν … αἰσχρόν); l’altra (ἄλλον … νόμον) in base alla quale è l’Occasione (ὁ καιρός) che rende ora bella ora turpe la stessa cosa. [2.20] … turpe nel momento inopportuno: Si tratta di una delle asserzioni più interessanti alle quali approda l’atteggiamento conciliante dell’Anonimo: sottolinea Isnardi Parente 1977, p. 14: «L’opportunità si presenta come l’unica soluzione ai dilemmi della relatività: vale a dire che il criterio di superamento della relatività non è che l’elevazione della stessa relatività a norma». Si può ricavare ciò anche dall’insegnamento gorgiano, teso non tanto a ritrovare fondazioni divine o metafisiche, quanto soluzioni intelligenti – razionalistiche – alla questione della convivenza umana. Sul kairós, sul suo fondamento teorico e sulla definizione e uso del kairós nell’arte oratoria, cfr. Trédé-Boulmer 2015, pp. 253-300. Mirato a precisare i tratti fondamentali del kairós in riferimento alla teoria retorica è il saggio di L. Kinneavy 2002, pp. 58-76. Quanto alla riflessione di Gorgia sul kairós, cfr. Poulakos 2002, pp. 89-96. Eustacchi 2016, pp. 62-63, esamina questo passo alla luce di quello che chiama «multifocal approach»; in pratica avremo qui la semplice giustapposizione di due prospettive contrapposte nell’indagine della realtà. Perciò deduce la seguente traduzione: «To put the matter generally, all things are seemly from the right point of view (καιρῷ), but shameful from the wrong point of view». È il punto di vista a determinare, non solo in questo caso ma anche in tutti gli altri casi affrontati dall’Anonimo, la variabilità dei giudizi
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estetico-percettivi: si tratta cioè di cogliere la valenza fenomenologica delle relazioni che costituiscono la realtà. [2.22] … un uomo veramente bello: In questo passo trova conferma la tesi che lungo l’intera sezione si giochi in un modo non del tutto perspicuo sulla compresenza, in καλός, di un valore in senso etico e in senso estetico: il che rinvia alla valenza culturale della kalokagathia. Il più completo studio sulla kalokagathia è a tutt’oggi quello di Bourriot 1995; si tratta di un’analisi di tutte le occorrenze del termine da cui si ricava che, più che essere un lascito della civiltà omerica, la kalokagathia è stata introdotta, nell’Atene del quinto secolo, dai sofisti quale slogan per propagandare un modello di intellettuale vincente: «Ce slogan convenait particulièrement à Athènes, à la fin du gouvernement de Périclès. La cité se pretendait l’école de la Grèce», I, p. 620. In ogni caso la kalokagathia, com’è proposta dai sofisti, e poi da Platone e da Isocrate, dovette perdere fin da subito ogni connotazione di tipo militare e guadagnare piuttosto quell’accento morale che rinvia alla virtù e alla giustizia. Al di là della prima impressione peraltro corretta (Robinson 1979, ad loc., traduce «handsome», avvenente; Becker – Scholz 2004, ad loc. «anständig», decente/accettabile), anche in questo passo permane sullo sfondo il valore morale, comune a tutto il capitolo: lo dimostra il confronto con la struttura argomentativa di 3.14, dove analogamente si applica a un individuo – a un uomo – una categoria di valore morale prima indagata in astratto: in tale caso la giustizia. [2.26] … Io mi stupisco: Classen 2001, p. 119, ritiene che occorra legare questa proposizione in modo meno brusco alla precedente, così da guadagnare in modo più coerente la conclusione. Blass (cfr. Weber in apparato, p. 42) proponeva ἐγὼ δὲ, mentre Classen suggerisce κἀγὼ, in parallelo a 2.2 (κἀγὼ πειρασεῦμαι). In realtà non è per nulla necessaria questa correzione. [2.26] … diversamente che in precedenza: Se il medesimo esempio evocato al § 18 allora serviva per dimostrare la relatività del giudizio che si applica su un medesimo oggetto/fatto, al punto che tutto può risultare ‘bello’ e ‘morale’ in una certa condizione o occasione (kairós), e poi ‘turpe’ e ‘immorale’ in altra condizione o occasione, ora è adoperato per mostrare l’assurdità di ritenere che ‘bello’ / ‘morale’ e ‘turpe’ / ‘immorale’ siano in sé stessi identici. L’esempio si protrae anche nel successivo paragrafo facendo riferimento all’assurdità di considerare identiche cose
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concrete e ben distinte, quali differenti animali e differenti metalli: è così preparata la conclusione, di stampo prettamente retorico, all’intera sezione. [2.28] … se ne potrebbero ricavare di belle?: La battuta non è facilmente ricostruibile e il testo manoscritto deve essere inevitabilmente corretto. Robinson legge αἰ ἄρα τις αἰσχρὸν ἄγαγε, correggendo col Mullach il testo manoscritto: ἀπάγαγε; quindi procede introducendo la congiunzione ipotetica ‹κα› e mantenendo la successiva forma ἀπάγαγε dei manoscritti. Ciò forse è sufficiente a dare un senso alla frase: «If someone had brought along an ugly man, would he have taken him away handsome instead?». Diels – Kranz e Untersteiner si erano mossi (in modo meno economico ma più esplicito) nella stessa direzione: αἰ ἄρα τις αἰσχρὸν ‹ἄνδρα› ἄγαγε …, «Se uno avesse condotto ‹un uomo› brutto, lo riporterebbe poi via bello?». Classen 2001, p. 120, convincentemente propone di inserire, dopo αἰσχρὸν, il pronome ‹τι›, così da ottenere un diverso ma più coerente significato: «Se uno avesse riunito insieme cose turpi, ne porterebbe via di belle?». Lo seguono Becker – Scholz, che però subito dopo, come Diels 1903 e quindi Diels – Kranz, correggono in ἀπᾶγε la lezione ἀπάγαγε dei codd., mantenuta, come si è detto, da Robinson. [2.28] … non per annunciare la verità: La chiusa è analoga a quella di 3.17. In entrambi i casi la tecnica retorica, all’interno della quale figura certamente anche la tecnica poetica, non obbedisce necessariamente alle esigenze della verità e della dimostrazione scientifica. Al centro, come tra gli altri giustamente rilevato da Untersteiner 1967, III, pp. 163-164, è la dottrina dell’arte intesa come illusione/inganno, ἀπάτη. Ovviamente è corretto intravvedere un’anticipazione (o un’eco) della riflessione gorgiana sulla parola e sulla sua potenza, cfr. in particolare l’Encomio di Elena, 8-10, e quindi DK 82B23 = LM 32D35 (Plut., Mor. 348c = de gloria Athen. 5), dove si richiamano i pregi della tragedia. Secondo Gorgia essa è in grado di procurare, con le vicende narrate e le pene, un inganno in cui chi lo induce realizza il suo compito meglio di chi non lo induce (παρασχοῦσα τοῖς μύθοις καὶ τοῖς πάθεσιν ἀπάτην, ὡς Γοργίας φησίν, ἣν ὅ τ᾽ ἀπατήσας δικαιότερος τοῦ μὴ ἀπατήσαντος), e chi ne subisce gli effetti è più sapiente di chi non li subisce (ὁ ἀπατηθεὶς σοφώτερος τοῦ μὴ ἀπατηθέντος). Si veda anche Segal 1962, pp. 130-131. Il fatto che, a detta dell’Anonimo, i poeti privilegino il versante emotivo/psicologico («dare piacere») rispetto a quello razionale («annunciare la verità»), conferma la distanza crescente che va separando il campo dell’invenzione artistica da quello della procedura logica e si traduce in una distinta – non interscambiabile – fruibilità degli
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strumenti e dei risultati. Se si sta al campo della logica, insomma, non si possono invocare quali testimoni i poeti. Aristotele chiarirà definitivamente il raggio d’azione e il valore dei risultati conseguiti da un lato seguendo la procedura logico/dialettica, dall’altro seguendo l’argomentare retorico nelle varie sue manifestazioni, cfr. Rhet. 1355b 15-20, e il cap. 9 della Poetica. Quanto al tema del piacere, Robinson 1979, p. 177, rinvia per un confronto – oltre che al Gorgia dell’Encomio di Elena, 10 – a Hdt. 7.101.3; a Thuc. 1.21.1; 22.4; e ad Eratostene, in Strab. 1.1.10. Che poi esso sia ripreso con ben altra intenzione da Platone (e da Socrate) si ricava da Gorg. 501e-503a, e Resp. 607c.
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[3] Giusto e ingiusto Siamo al terzo tentativo di proporre due argomentazioni contrastanti sul medesimo tema. Anche in questo caso si tratta di una questione prettamente etica e, ancora una volta, esplicitamente l’autore si propone di sostenere la tesi a prima vista più difficile da sostenere: [A] quella di chi afferma che giusto e ingiusto sono la stessa cosa. Nei §§ 2-4 si pone la questione della menzogna e si mostra che, rispetto al fine che si intende perseguire, non si può negare che essa possa essere non solo più efficace, ma senz’altro giusta. Nel § 5 si propongono esempi di comportamento abitualmente ritenuti giusti nei confronti dei nemici. Più in generale, nel caso delle azioni che si intraprendono, si sottolinea che il fine ultimo (p.e. salvare qualcuno) può richiedere mezzi di solito ritenuti non giusti. Nei §§ 6-7 si torna a quella forma di menzogna che è lo spergiuro; anche spergiurare può essere giusto, per esempio nel caso in cui lo si sia fatto per salvare la città. Nei §§ 8-9 addirittura le azioni più riprovevoli (quali il sacrilegio e l’omicidio di parenti) possono essere considerate giuste. Un ultimo esempio, relativo alle opere artistiche e alla poesia (§§ 10-12), è addotto a conforto della tesi per cui l’ingiusto è giusto. La seconda parte del capitolo è più complessa, pur nella sua stringatezza. Dapprima (§§ 13-14) l’autore dichiaratamente passa a illustrare la tesi opposta [B], quella di chi distingue giusto e ingiusto. L’intenzione è di mostrare la loro irriducibile differenza sia sul piano del linguaggio sia di fatto. L’argomentazione è per assurdo: non solo, se così non fosse, chi dicesse di agire giustamente nei confronti dei propri genitori, si troverebbe nel contempo a dire di agire ingiustamente verso di loro; ma anche chi è giusto risulterebbe ingiusto. Eppure, si conclude, accade che di norma chi è responsabile di azioni ingiuste sia condannato. Poi (§§ 15-17) si riaffronta di nuovo la tesi [A] di chi sostiene l’identità di giusto e ingiusto: si sostiene che se gli esempi addotti sono stati esposti con un’argomentazione affidabile e quindi vera (ἀληθὴς λόγος), non solo l’identità di giusto e ingiusto comporterebbe che «rubare al nemico è giusto», ma anche che «rubare al nemico è ingiusto». Insomma: l’argomentazione che punta a sostenere la tesi dell’identità non implicherebbe di fatto l’impossibilità di distinguere il giusto dall’ingiusto, quanto piuttosto si limiterebbe a mostrare l’ambivalenza dei due valori. Per questo (§ 17), proprio perché priva di un chiaro ancoraggio alla verità, non ha senso invocare l’etica nel caso delle opere d’arte: di per sé i poeti compongono le loro opere ποτὶ τὰς ἁδονὰς τῶν ἀνθρώπων, «per il piacere del pubblico».
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[3.1] … ciò che è giusto e ingiusto: Sia Untersteiner 1967, III, p. 164, sia Robinson 1979, p. 178, suggeriscono un confronto sia con gli insegnamenti impartiti a Ciro dal padre Dario I di Persia (cfr. Xenoph., Inst. Cyri 1.6.26-35) sia con il dialogo «Su ciò che è giusto» (περὶ δικαίου) attribuito a Platone ma certamente spurio. Secondo Untersteiner il passo di Senofonte risale a Gorgia. Quanto al breve dialogo pseudoplatonico, va rimarcato che lì, come nel presente capitolo dei Dissoi logoi, si sottolinea la centralità della parola attraverso la quale si arriva a distinguere il giusto dall’ingiusto: ‘Αληθῆ μὲν οὖν· καὶ λόγος ἐστίν, ὡς ἔοικεν, ᾧ τὰ δίκαια καὶ ἄδικα κρίνεται, «Questa è la verità: è la parola, come pare, ciò che consente di distinguere il giusto dall’ingiusto» (373d). [3.2] … non così nei confronti degli amici: Ingannare e agire in modo malvagio nei confronti dei nemici appartiene ai comuni principi dell’etica tradizionale (cfr. [Plat.], de iust. 373b-d), peraltro rimessi decisamente in discussione da Socrate (cfr. in particolare Crit. 49ae; Resp. 332d-335e; Gorg. 474c-479e). Rovesciando la prospettiva, nel nostro passo si intende sostenere che non solo è riprovevole ingannare e agire in modo malvagio nei confronti dei nemici, ma che addirittura è giusto farlo nei confronti degli amici. Il testo peraltro non è sicuro; l’impegnativa integrazione proposta in Diels – Kranz, e ripresa da Untersteiner, va nel senso di prendere le mosse dall’assunto abituale per cui ci si può porre l’interrogativo: τὼς μὲν πολεμίως ταῦτα ποιὲν ‹καλὸν καὶ δὶκαιον, τὼς δὲ φίλως› αἰσχρὸν καὶ πονηρὸν ἂν ἐξείποιεν· ‹πῶς δὲ τὼς πολεμίως› τὼς δὲ ϕιλτάτως οὔ; «Si dirà che ‹è bello e giusto› far questo ai nemici, ma turpe e malvagio ‹agli amici›; ‹come mai ai nemici sì› e agli amici no?». È evidente che, in questo modo, la tesi di chi distingue tra giusto e ingiusto non è messa in discussione. Se invece si tiene a mente che l’Anonimo sta presentando, per confutarla, la tesi avversaria di coloro che sostengono la netta separazione tra giusto e ingiusto, è possibile – per giunta conservando il testo manoscritto – giungere al seguente risultato: se si afferma (come afferma l’Anonimo) che vi sono occasioni in cui è giusto mentire e ingannare (e per questa via poi sposare la tesi della non separazione tra giusto e ingiusto), i suoi avversari – qualora fossero d’accordo che a proposito degli amici è giusto mentire e ingannare – per definizione non potrebbero esserlo a proposito dei nemici (τὼς μὲν πολεμίως ταῦτα ποιὲν αἰσχρὸν καὶ πονηρὸν ἂν ἐξείποιεν). La distinzione porterebbe al paradosso di non poter mai ingannare i nemici. In pratica risulterebbe «riprovevole e malvagio» mentire e ingannare i nemici, non «riprovevole e malvagio» mentire e ingannare gli amici.
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Riassumendo: o si ammette che mentire può essere giusto e ingiusto (e dunque è relativo) oppure le due cose sono separate. In questo secondo caso si aprono due possibilità: [A] mentire ai nemici è giusto oppure ingiusto; ma se è ingiusto, allora è giusto mentire agli amici; [B] mentire agli amici è giusto oppure ingiusto; ma se è giusto, allora è ingiusto mentire ai nemici. [3.3] … è giusto anche mentire e ingannare i genitori: Si sta susseguendo una serie di esempi che alludono al tema del kairós, vale a dire del contesto e del momento particolare in cui un certo accadimento viene a verificarsi. Proprio come si ribadisce nel citato dialogo pseudoplatonico in cui si sostiene che può esser giusto mentire, ingannare, far del male tanto ai nemici quanto agli amici: motivo per cui ῎Εστιν ἄρα, ὡς ἔοικεν, ψεύδεσθαί τε καὶ ἀληθῆ λέγειν δίκαιον καὶ ἄδικον ... Καὶ μὴ ἐξαπατᾶν καὶ ἐξαπατᾶν δίκαιον καὶ ἄδικον, «Pare che il mentire e il dire il vero siano a un tempo cosa giusta e cosa ingiusta … e il non ingannare e l’ingannare, ugualmente, giusto e ingiusto» ([Plat.], de iust. 374d). La conclusione dedotta è esplicita: ‘Εμοὶ μὲν τοίνυν δοκεῖ ἐν μὲν τῷ δέοντι καὶ τῷ καιρῷ ἕκαστα τούτων γιγνόμενα δίκαια εἶναι, ἐν δὲ τῷ μὴ δέοντι ἄδικα … ὁ μὲν ἄρα ἐν τῷ δέοντι ἕκαστα τούτων ποιῶν δίκαια ποιεῖ, ὁ δὲ μὴ ἐν τῷ δέοντι ἄδικα, «Secondo me sono giuste quelle azioni che sono compiute quando si deve e al momento opportuno; ingiuste quelle che si compiono fuori luogo … Chi dunque compie ciascuna azione quando si deve agisce giustamente, mentre agisce ingiustamente se la compie quando non si deve» (375a). Sul tema dell’inganno giustificato, cfr. Xenoph., Memor. 4.2.14-18: la serie di esempi che Socrate porta (simili a quelli dei Dissoi logoi, ma più numerosi e discorsivamente esposti) costringe il suo interlocutore Eutidemo a ritrattare quanto con sicurezza aveva dapprima affermato: che la menzogna (ψεύδεσθαι) va collocata dalla parte dell’ingiustizia (πρὸς τὴν ἀδικίαν). [3.6] … se prestasse fede al giuramento?: La tematica affrontata in questo paragrafo ricorda di nuovo l’arringa di Palamede. In quel caso (DK 82B11a19 = LM 32D25, 19) l’eroe omerico affronta la questione del tradimento che si compie ἢ κέρδος τι μετιόντες ἢ ζημίαν φεύγοντες, «per speranza di vantaggio o per sottrarsi a una punizione». All’opposto che nel presente passo dei Dissoi logoi, lì Gorgia argomenta mostrando come sia giusto e onorevole tener fede al giuramento fatto. Dunque, come per la falsità e l’inganno, anche per lo spergiuro vale il fine per cui esso è compiuto: spergiurando si può sia salvare la patria (Dissoi logoi) sia si può perderla (Palamede), rovesciando così la definizione di giusto
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e ingiusto. Aristotele, EN III 1, 1110a 1-10, porrà al centro la questione della responsabilità soggettiva a proposito delle decisioni che si prendono qualora le azioni che ne conseguono siano compiute per paura di mali peggiori (διὰ φόβον μειζόνων κακών) oppure in vista di qualcosa di bello (διὰ καλόν τι): tra gli altri, citerà il caso di chi è ricattato dal tiranno che ne tiene prigionieri i genitori e i figli. [3.7] … salvare la sua città, i suoi cari e i templi dei padri: Dall’astrattezza della casistica presentata e delle riflessioni conseguenti si ricava come il ragionamento nel suo insieme non pervenga a collocarsi efficacemente all’interno della prospettiva teorica illuminata dal concetto di kairós, come invece era accaduto precedentemente, cfr. 2.20. Nel passo presente non sembra corretto riferirsi a un ambito relativistico, quanto piuttosto a un retroterra etico dove giusto e ingiusto trascendono l’occasionalità. È fuori discussione infatti il salvataggio della città, e in vista di ciò anche azioni sacrileghe, quali il saccheggio dei santuari o il sacrificio dei propri cari, sono da considerarsi giuste. [3.8] … nel caso che il barbaro stia per sopraffare la Grecia: L’Anonimo si limita a esemplificare in modo generico. Tuttavia è senz’altro lecito pensare alle guerre persiane della prima metà del V secolo. Invece Robinson 1979, p. 183, poiché per i Dissoi logoi ha in mente una datazione bassa, propende per le intromissioni persiane nelle vicende della Grecia successive al 412. [3.8] … usarli per i bisogni della guerra?: Non si tratta di un’ipotesi fantasiosa: lo storico Ecateo, in vista della rivolta ionica contro i Persiani, suggerisce ai Milesii di accaparrarsi il tesoro di Creso conservato nel tempio di Branchida e provvedere, grazie a esso, alla supremazia marittima (Hdt. 5.36). L’eventualità di adoperare per fini bellici il tesoro dei templi di Delfi e di Olimpia sarà contemplata dai Corinzi e dagli Spartani all’inizio della guerra del Peloponneso: cfr. Thuc. 1.121 e 143. [3.9] … compivano azioni giuste: L’oracolo di Delfi (Eur., Orest. 416) conforta Oreste, il figlio di Agamennone e Clitennestra, nel suo proposito di vendicare la morte del padre uccidendo la madre ed Egisto, il suo amante. Anche nel caso di Alcmeone, l’eroe che aveva ucciso per vendetta la madre Erifile, colpevole di aver ingannato il marito Anfiarao spingendolo alla morte, entra in gioco il dio di Delfi. Cfr. Apoll. 3.6-7.
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[3.10] … induce l’inganno attraverso rappresentazioni simili al vero: Immediato è il riferimento al tema gorgiano della ἀπάτη nel teatro, cfr. Plut., de gloria Athen. 5 (= DK 82B23 / LM 32D35): «Ebbe fioritura e rinomanza la tragedia; era uno spettacolo e un ascolto meraviglioso per gli uomini di allora: procurava con le vicende e le pene un inganno (ἀπάτην) in cui – dice Gorgia – chi lo induce realizza il suo compito meglio di chi non lo induce (ὅ τ᾽ ἀπατήσας δικαιότερος τοῦ μὴ ἀπατήσαντος), e chi ne subisce gli effetti è più sapiente di chi non li subisce (ὁ ἀπατηθεὶς σοφώτερος τοῦ μὴ ἀπατηθέντος). Infatti l’ingannatore è più vicino al proprio compito naturale in quanto ha agito secondo la sua promessa; l’ingannato è più sapiente perché, dove non c’è insensibilità, ci si fa cogliere più facilmente dal piacere della parola». [3.11] … un testo poetico tra i più antichi: È preferibile mantenere l’articolo partitivo, seguendo i codici. Diels – Kranz, Robinson e Laks – Most, elidendolo, intendono: «Voglio portare la testimonianza di antichi testi poetici». [3.11] … l’agir violento: Questi due versi [IEG, fr. 2 West] di Cleobuline – poetessa rodiense della metà del VI secolo, conosciuta soprattutto per la sua intelligenza (il padre la chiamava Eumetis, la «saggia») e l’abilità nel proporre e risolvere indovinelli (Plut., Sept. sap. convivium 148c-d) – vanno intesi come un indovinello. Per la soluzione si è proposto un richiamo ad Aristot., EN 1134a 16, là dove si teorizza che si possano compiere azioni ingiuste senza essere ingiusti. Più pertinente è senz’altro il confronto con Hippocr., de diaet. 24: «La competizione e i maestri di ginnastica insegnano cose di questo tipo: ad aggirare la legge legalmente (παρανομέειν κατὰ νόμον), a commettere giustamente ingiustizia (ἀδικέειν δικαίως), a ingannare eludere afferrare (ἐξαπατέειν, κλέπτειν, ἁρπάζειν), a usare violenza per ottenere i risultati più belli e più infamanti (βιάζεσθαι τὰ κάλλιστα καὶ αἴσχιστα)»; in questo caso la soluzione dell’indovinello sarebbe: «il lottatore». Visto però il contesto di riferimento, è possibile che la soluzione sia: «il poeta». Al poeta infatti tutto è permesso: anche, come immediatamente dopo si dirà a proposito di Eschilo, la decisione di attribuire al dio il ‘giusto inganno’ e l’abilità di decidere quando la menzogna è più opportuna della verità. Cfr. Untersteiner 1967, III, pp. 167-168. [3.12] … la testimonianza di Eschilo: La citazione di Eschilo (= fr. 601 Mette = fr. 3 Aesch. 301-302 Radt) rafforza la tesi che nella valutazione dell’azione – e dunque a proposito del fatto che essa sia giusta/ingiusta – sia decisivo il momento opportuno. Questa
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citazione, proprio perché include il termine chiave καιρός, costituirebbe, secondo Untersteiner 1967, II, pp. 168-169, un evidente indizio che riconduce all’ambiente gorgiano. [3.13] … così differirebbero di fatto: Come in 1.11, alla tesi A (attestante l’identità dei contrari) è opposto il suo contrario non-A (attestante la diversità dei contrari): in particolare si osservi che la differenziazione è considerata effettiva allorché essa investe sia l’aspetto formale (cioè la parola che denota qualcosa) sia l’aspetto essenziale (ciè il fatto o il dato esperienziale che è ontologicamente diverso). A proposito di giusto/ingiusto però l’Anonimo procede passando subito all’esemplificazione e, tra l’altro, riprendendo il caso del comportamento nei confronti dei genitori già evidenziato in 1.12-13. La paradossalità insita in tale esempio (e nei due successivi, § 14) serve a confermare la tesi attestante la diversità dei contrari. Poi, dal § 15 al § 17, sono rapidamente analizzate e confutate due argomentazioni sostenute dai teorici dell’identità dei contrari. [3.14] … per averne compiute ‹ … ›: Il testo è lacunoso e tutte le restituzioni sono incerte. In ogni caso, se l’interpretazione d’insieme del ragionamento è corretta, ci si trova di fronte a un tentativo di reductio ad absurdum, come sottolinea Robinson 1979, pp. 120-121 e 187-188: l’uomo giusto sarebbe da condannare a morte qualora «giusto» e «ingiusto» fossero equiparati. Tuttavia Robinson medesimo ne svilisce il significato con la sua peraltro interessante integrazione (cfr. apparato) e intende: «Ma se un uomo è stato davvero ingiusto nel suo comportamento, egli deve essere condannato a morte! Di fatto egli si è ridotto ‹in una situazione che esige la morte›»; a questo punto, più efficace risulta l’intervento di Diels – Kranz che, migliorando un’ipotesi di Blass e ritenendo errata la dittologia (ἀποθανέτω ἀποθανέτω) che i codici della sola famiglia ε presentano, risolvono: «E chi abbia commesso molte azioni ingiuste sia condannato a morte per averne compiute ‹molte di giuste›!». Su questa stessa linea ora Becker – Scholz, mentre Classen 2004 si mantiene alla lezione dei codici che riportano la dittologia, intendendo, p. 124: «E chi è condannato a morte per essere responsabile di molte gravi azioni, è condannato a morte per averle compiute ‹come se giuste›». Laks – Most seguono Blass e Weber, e intendono: «Che muoia per aver commesso molte azioni ingiuste – che muoia per aver commesso molte azioni giuste». [3.16] … se il loro ragionamento è vero: È qui ribadita l’argomentazione per assurdo, ancora una volta riprendendo un esempio già preso in considerazione. Nel caso di bello/turpe (2.7-8) si
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sosteneva la relatività del valore di un’azione rispetto al differente destinatario (amico/nemico). Ora si sostiene la paradossalità dell’identificazione di giusto/ingiusto rispetto al destinatario preso singolarmente (p.e. rispetto al nemico). Queste prime tre sezioni dei Dissoi logoi sono state recentemente esaminate da Gardella 2017. La studiosa punta anzitutto a sottolineare la centralità dell’antilogia in riferimento sia alla prospettiva ‘relativistica’ sia a quella che definisce ‘oggettivistica’. Originale è però il suo tentativo di mostrare come la posizione dei relativisti appaia rafforzata una volta appurato che le critiche loro mosse dai difensori dell’oggettivismo risultano poggiare sulla fallacia a dicto secundum quid ad dictum simpliciter (cfr. Aristot., Soph. el. 166b 37-167a 4 e 180a 34-b 7). A suo parere, gli oggettivisti non precisano mai che l’attribuzione a un medesimo ente di predicati contrari non si dà in modo assoluto, ma sempre in modo relativo alla prospettiva specifica di un soggetto in una determinata circostanza (p. 44). [3.17] … bensì per il piacere del pubblico: La chiosa conclusiva ripropone, quasi a mo’ di ritornello, la questione già esaminata del significato e delle caratteristiche della funzione poetica; cfr. 2.28.
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[4] Verità e menzogna Con la quarta argomentazione si passa dal piano etico a quello logicolinguistico. Forse si tratta della parte più interessante dell’intero scritto dell’Anonimo, perché vi è implicita la possibilità stessa di procedere nell’argomentare per affermazioni contrastanti o meno. Lo sviluppo tuttavia avviene a partire da una considerazione radicale: una medesima asserzione (quella cioè in cui sono mantenute le stesse parole e non ci sono variazioni linguistiche) può avere in una circostanza significato ‘vero’ e in un’altra significato ‘falso’? Vale a dire: è lecito teorizzare la coincidenza tra il linguaggio e il dato effettivo? Se così fosse, saremmo di fronte all’ipotesi di una concezione non autonoma del linguaggio rispetto alla realtà: si tratterebbe di una sorta di oggettivismo assoluto. Altrimenti, l’unica possibilità che si affaccia per stabilire la verità o la falsità di una definizione sarà data solo a posteriori, allorché l’osservazione consentirà di verificare la congruenza tra linguaggio e dato effettivo, oppure la deduzione logica giustificherà l’asserto. Per questo motivo di per sé non ci potrà essere coincidenza immediata tra linguaggio e dato effettivo; ciò sarà analiticamente spiegato da Aristotele in Cat. 4a 23-b 13 e nel quarto capitolo del libro epsilon della Metafisica; cfr. anche Top. 178b 25-28. In questo modo però non sarà possibile riconoscere chi sia il mentitore, perché le parole di chi dice il falso potranno risultare identiche a quelle di chi dice il vero. Si tenga presente che questa conclusione deve potersi estendere al linguaggio nella sua concezione più ampia: cioè anche al linguaggio del corpo. Infatti la tecnica oratoria e le modalità che accompagnano quanto è asserito interferiscono e integrano o modificano il significato, come accade nel modo più evidente quando a parlare è un attore o un retore. Nel caso dell’attore è come se si fosse di fronte a un mentitore di cui conosciamo per definizione lo status e le caratteristiche. Invece (come preciserà Aristotele, Metaph. 1104b 17-22) nel caso del sofista e del dialettico rispetto al filosofo la situazione ritorna a essere indecidibile, almeno a prima vista: «I dialettici ed i sofisti esteriormente hanno il medesimo aspetto (ὑποδύονται σχἠμα) del filosofo (infatti, la sofistica è una sapienza solo apparente, ed i dialettici discutono di tutte le cose, e a tutte le cose è comune l’essere), e discutono di queste nozioni, evidentemente, perché esse sono effettivamente oggetto proprio della filosofia». Più in generale, l’indifferenza tra verità e falsità sembra poggiare sul fatto che entrambe si manifestano attraverso il linguaggio e il ragionamento:
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sempre è possibile argomentare/sostenere una tesi e sempre è possibile argomentare/sostenere il suo opposto. Da questo punto di vista si può dire che – rispetto al problema della verità/falsità – l’argomentazione di per sé risulta ininfluente, ed è questa l’unica cosa sicura; se poi è vero che il linguaggio non può garantire né della verità né della falsità, occorre allora indagare gli avvenimenti cui il linguaggio allude, poiché saranno essi che, una volta identificati (e, dunque, a posteriori) autentificheranno o falsificheranno le asserzioni di chi parla. In questa direzione – che ovviamente si apre alla sfera dell’etica – sembra muoversi anche Euripide: «O figlio, si possono certo pronunciare discorsi falsi (λόγοι ψευδεῖς) in grado di battere la verità (νικῷσεν ἂν τἀληθές) usando splendide parole: ma non è questo ciò che c’è di più perfetto, quanto piuttosto la natura e la giustizia (ἡ φύσις καὶ τοὐρθόν); colui che vince per la sua facondia certo è saggio (σοφός), ma io stimo pur sempre migliori i fatti (τὰ πράγματα κρείσσω νομίζω) dei discorsi (τῶν λόγων)», fr. 206 Nauck 2 / Kannicht. Rimane però un problema: come è possibile stabilire in modo obiettivo il significato/importanza degli stessi avvenimenti che accadono? non entra in campo, anche a questo livello, la questione dell’interpretazione e della sua arbitrarietà? Ecco sullo sfondo emergere nella loro irrisolta elementarietà i dubbi e le conclusioni che Gorgia aveva posto al centro del suo trattato Il non essere o la Natura e che provocatoriamente investivano il rapporto tra l’essere e il pensiero: «Lo strumento della comunicazione è la parola, ma la parola non è l’oggetto reale (λόγος δὲ οὐκ ἔστι τὰ ὑποκείμενα καὶ ὄντα); e noi non comunichiamo agli altri qualcosa di reale, ma la parola, che è altro dagli oggetti (ὃς ἕτερός ἐστι τῶν ὑποκειμένων)», § 84. Già nel secondo paragrafo l’Anonimo si dichiara d’accordo con la tesi della ‘indifferenza’, cioè della non distinguibilità, tra il linguaggio che dice il vero e quello che dice il falso (per la ricostruzione dei vari passaggi, cfr. Moreno Moreno 2015, pp. 16-17). La motivazione dell’Anonimo (§§ 2-3) corrisponde a quanto affermerà Aristotele a proposito di Socrate seduto e Socrate in piedi (Metaph. 1004b 1-3 e in Cat. 4a 23-b 13): vale a dire quando esiste la connessione (σύνθεσις) tra l’affermazione e il dato della realtà effettuale si dirà il vero, mentre quando tale connessione non esiste (διαίρεσις) si dirà il falso. Aristotele, con un decisivo passo innanzi, preciserà che tale connessione o separazione (e dunque il vero e il falso) non solo non sono nel linguaggio (cfr. Metaph. 4.4), ma nemmeno nelle cose: sono solo nella mente, cioè nel pensiero: οὐ γάρ ἐστι τὸ ψεῦδος καὶ τὸ ἀληθὲς ἐν τοῖς πράγμασιν … ἀλλ᾽ ἐν διανοίᾳ, Metaph. 6.4 1027b 25-27. E, ancora,
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che l’unione dovrà esserci realmente (εἰ σύγκειται, ἀληθές, 9.10 1151b 33), e non potrà essere solo ipotizzata. L’Anonimo si limita invece, mostrando i suoi tratti ‘relativistici’, a evocare un decisore esterno: l’eventuale tribunale (§ 3) che giudica cosa è vero/falso oppure giusto/ingiusto. In questo modo ci si sposta in direzione del contesto sociale e quindi dei valori condivisi che consentono di fissare dei parametri di riferimento oggettivi. Nei §§ 4 e 5 sono portati due esempi a ulteriore conferma della relatività del valore di verità di un’asserzione. In particolare, nel § 4 l’Anonimo evoca il proprio caso personale e ipotizza che l’epiteto di «iniziato» possa essere attribuito sia a sé medesimo sia ai suoi allievi (o a chi lo sta ascoltando). La verità o la falsità della stessa asserzione dipende solo dalla persona a cui essa è «connessa». Nel § 6 si ritorna all’ipotesi che il discorso vero e il discorso falso siano diversi già a livello linguistico (e quindi di significato); l’Anonimo ribadisce la contraddittorietà di tale assunto. Dal § 7 al conclusivo § 9 l’Anonimo approda definitivamente alla risoluzione che vero e falso siano decidibili solo a posteriori. È riconfermata la deliberazione dirimente costituita dall’intervento di un tribunale (cfr. § 3) quale istanza esterna e oggettiva. [4.2] … Anch’io affermo la stessa cosa: Come nelle precedenti sezioni (1.2; 2.2; 3.1) anche sul tema del vero/falso l’Anonimo si mette in gioco in prima persona: l’uso reiterato di questa modalità linguistico-retorica depone senz’altro a favore della datazione ‘alta’ del trattato. Senza alcuna esitazione l’Anonimo dichiara subito la propria intenzione di collocarsi dalla parte di chi sostiene la coincidenza tra i discorsi che sostengono posizioni contrarie. Le motivazioni sono due: la prima, ovvia, evoca appunto l’identità delle parole (e dunque l’identità del linguaggio) tra l’asserzione vera e l’asserzione falsa; la seconda è invece caratteristica di questa sezione, dato che si fa ricorso non tanto a elementi di carattere soggettivo, quanto piuttosto a constatazioni oggettive a posteriori dipendenti dalla ‘corrispondenza’ o meno tra l’asserzione e il dato effettuale. Quanto rimanga un problema – e dunque possa daccapo rientrare nella sfera della soggettività – il riscontro di tale ‘corrispondenza’, non sarà esplicitamente ammesso dall’Anonimo; tuttavia il ricorso a un tribunale esterno (§§ 3 e 8) per dirimere la questione indica la percezione dell’aporia soggiacente. Quello che è comunque evidente è che la tesi approvata in questa quarta sezione (secondo cui il ‘vero’ e il ‘falso’ sono in contrasto tra loro) non si concilia con la epistemologia protagorea. Cfr. Levi 1940, pp. 298-301.
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[4.3] … anche il tribunale giudica circa il medesimo discorso: Di fronte alla difficoltà di stabilire in modo oggettivo il vero e il falso – dato che il linguaggio, nella sua più ampia accezione, è identico in entrambi i casi – l’Anonimo evoca il giudizio di un attore esterno: il tribunale. In Plat., Theaet. 201b-c, si sottolineerà, a proposito delle decisioni nei tribunali, la differenza tra opinione vera (δόξα ἀληθής) e conoscenza (ἐπιστήμη), aggiungendo peraltro l’importanza della persuasione (τὸ πεῖσαι) nel guadagnare la prima. [4.4] … «Io sono un iniziato»: L’esemplificazione dell’Anonimo conferma che l’unica possibilità di verificare la verità o la falsità di un’asserzione può essere solo a posteriori e all’interno di una concezione corrispondentista della verità. Nell’esempio in questione, contemporaneamente da più persone è pronunciata la stessa asserzione («Io sono un iniziato»), ma essa risulterà vera in un caso e falsa in tutti gli altri perché, come viene poi spiegato, uno solo tra i presenti era a tutti gli effetti un ‘iniziato’. Al di là di questo, occorre rilevare che tale attestazione, come suggerì Rostagni 1922, p. 175, richiama il contesto scolastico della lezione tenuta dal maestro di fronte agli allievi; un ‘iniziato’ alla conoscenza – un «iniziato ai Misteri» (μύστας εἰμί) si rivolge a dei non iniziati. Ciò costituisce uno dei rari elementi «autobiografici» interni al testo, insieme al giudizio che è espresso sulla democrazia in 7.1 e 7.5. Cfr. anche Mazzarino 1966, pp. 293-294, e recentemente Moreno Moreno 2015, pp. 14-15. In μύστας sembra fuori luogo tentare di leggere un nome proprio, prendendo lo spunto dal fatto che due tardi manoscritti del XVI sec., Z (Monacensis gr. 79) e L (Leidensis Voss. misc. I n. 4), riportano una diversa lezione: μύμας. In questa direzione si mosse per primo lo Stephanus, proponendo Μίμας: il codice a sua disposizione è gemello del Leidensis. [4.5] … implica menzogna … implica verità: Ancora una volta è sottolineata l’autonomia del linguaggio e dell’argomentare: solo la presenza del contenuto rende falso o vero il discorso che, dal punto di vista formale/grammaticale, è intangibile. Tuttavia Robinson 1979, pp. 192-193, sottolinea l’uso di παρῇ («is present to», e quindi «implica») che rinvierebbe al concetto di παρουσία, centrale nel sistema platonico per connettere il mondo del sensibile al mondo delle idee (cfr. Phaed. 100d e 105c); di conseguenza l’Anonimo apparterrebbe alla tradizione «essenzialista» che si sviluppa con Socrate e Platone e che perviene però, si badi, a esiti di tipo realistico. È senz’altro possibile che quest’uso metaforico cominci a
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diffondersi prima di trovare nella teorizzazione di Platone la più appropriata traduzione e affermazione. Kneale – Kneale 1960, p. 16, ipotizzano che in questo passo dell’Anonimo si possano individuare le premesse per la distinzione stoica tra φωνή e λεκτόν. Bailey 2008, pp. 252-257, prova a verificare se nell’affermazione μύστας εἰμί si possa già riscontrare il ‘gioco’ consapevole tra tokens («the perceptible parts of language which are not meaningful by themselves») e propositions («the meaningful imperceptible parts that they can express»), così da capire esattamente cosa l’Anonimo intenda con logos. [4.5] … fanciullo, ragazzo, adulto e vecchio: Non solo i contrari possono essere espressi da discorsi identici, ma, come preciserà accuratamente Aristotele nel primo capitolo delle Categorie, con lo stesso nome si rinvia con verità a diversi enti (omonimia), poiché la definizione dell’essenza di questi enti è diversa; invece, qualora siano identici il nome e la definizione dell’essenza (come nel caso di ‘uomo’ e ‘bue’ che sono ‘animali’ per definizione), Aristotele parla di sinonimia. Nell’esempio dell’Anonimo, in riferimento alle Categorie aristoteliche si parlerebbe appunto di sinonimia, dato che la definizione dell’essenza di ‘uomo’ è la stessa e si predica per ‘fanciullo’, per ‘ragazzo’, per ‘adulto’, per ‘vecchio’. Con la sua dottrina delle cause e del movimento (cfr. Phys. 2.7; 5.1-2; Gen. et corr. 2.9-10) Aristotele spiegherà infine come uno stesso soggetto (‘uomo’) possa divenire, e quindi essere ‘fanciullo’, ‘ragazzo’, ‘adulto’ ‘vecchio’. Quanto al tema dell’identità tra il discorso che dice il vero e il discorso che dice il falso, Pinjuh 2014, pp. 50-53, avvicina senz’altro questo paragrafo dell’Anonimo alle tesi sostenute nell’Ippia minore da Platone, ma non concorda con Pohlenz 1913, pp. 76 ss., che puntava a una diretta identificazione di Ippia con l’Anonimo (o con un suo scolaro). [4.6] … così differirebbero di fatto: L’integrazione è resa necessaria dal confronto con le sezioni 1.11 e 3.13 dove è enunciata per la prima volta la tesi in oggetto. Tutti gli editori intervengono cercando di riprendere il testo di 3.13, e la soluzione adottata da Diels sembra la più efficace grammaticalmente. Quanto all’argomentazione sviluppata nell’intero paragrafo: essa è presentata come quella sostenuta da coloro che ritengono che il discorso vero e quello falso differiscano sia nella parola sia effettivamente. Costoro (con i quali l’Anonimo non è d’accordo) dapprima presentano un’argomentazione per assurdo riferita alla tesi dei loro avversari: se costoro (cioè quelli che sostengono l’identità) dovessero poter decidere se quanto dicono è vero o falso, si contraddirebbero in ogni caso, sia rispondendo [A]
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che è ‘vero’ sia rispondendo [B] che è ‘falso’. Infatti, rispondendo [B], implicitamente ammetterebbero la non identità di ‘vero’ e ‘falso’, per cui le possibili risposte non sarebbero identiche ma, appunto, ‘due’ in quanto differenti. D’altro canto, rispondendo [A] finirebbero per dover concedere che [A] significa [B], dato che l’affermazione che [A] e [B] sono identici è stata ritenuta vera. Castagnoli 2007, pp. 17-20, procede a una accurata disamina della procedura logica seguita dall’Anonimo e giunge alla conclusione che si tratta della formulazione ellittica di una argomentazione auto-confutatoria, introdotta in forma di dilemma ma in un contesto dialettico. Ricostruisce così l’argomento; «If ‹they answer that their own λόγος is› ‘false’, then it is clear that ‹they are conceding that the false λόγος and the true λόγος› are two things»; «if they answer ‹that their own λόγος is› “true”, then must admit that this very λόγος› is (also) false», p. 20. Sul passo, interviene anche Bailey 2008, pp. 258-261, che, a p. 259, precisa: «But what is so striking about the second contrasting argument in Dissoi logoi 4 [e cioè che altro è il discorso menzognero, altro quello vero] is that this is not what we get. Far from giving us an argument that says that the true logos is different from the false one in such a way as to suggest scepticism about falsehood, 4.6 gives us what appears to be a self-refutation argument. That is, it offers an argument depending on the the possibility of a false logos». Ma oltre a tutto questo, soprattutto in riferimento al ruolo che tale argomentazione dovrebbe sostenere, nel presente paragrafo si avvertono ulteriori complicazioni logiche: come si è già rilevato, l’argomentazione per assurdo, presentata da parte di chi sostiene la tesi della ‘diversità’, è rivolta ai sostenitori di quella dell’identità; ma occorre ricordare che i sostenitori della ‘diversità’ si riferiscono anzitutto al versante linguistico: solo a partire da qui ecco che la differenza delle asserzioni che si riferiscono al vero o al falso finisce per riprodurre la differenza dei dati di fatto effettivi cui esse sono correlate. Perciò la replica appare non all’altezza di quanto richiesto. In pratica, tanto l’argomentazione di chi sostiene l’‘identità’ delle asserzioni che dicono il ‘vero’ e il ‘falso’ quanto l’argomentazione di chi sostiene la ‘diversità’ finiscono per essere a posteriori, evocando entrambe quale controprova il richiamo alla realtà effettuale; il che è ribadito immediatamente dopo, al § 7. Nella parte conclusiva del paragrafo, in cui comunque si riassumono i limiti della tesi dell’‘identità’, sono presenti elementi che troveranno perfetta articolazione nel paradosso del mentitore, enunciato nella sua completezza – cfr. Diog. Laert. 2.108 – nel IV secolo da Eubulide, il discepolo di
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Euclide di Megara. Robinson 1979, pp. 193-194, sottolinea questo evidente richiamo – insieme a Plat., Theaet. 170e-171c, ed Euthyd. 286e-287d – per evocare la temperie filosofico-culturale in cui collocare l’autore dei Dissoi logoi. Certamente l’argomentazione dell’Anonimo non è completa; ma anche se non mostra la raffinatezza e l’efficacia che sarà guadagnata all’epoca di Platone o più tardi, in ogni caso siamo di fronte – una volta accettata la datazione ‘alta’ dei Dissoi logoi – alla formulazione più antica del paradosso. Su questo cfr. Rossetti 1980, pp. 35-36. [4.8] … È quindi importante d’ora in poi chiedere a dei giudici: Dopo οὐκῶν /οὔκων διαϕέρει gli editori ipotizzano una lacuna di estensione variamente definita che integrano in diversi modi. Robinson 1979, ad loc., legge con i manoscritti οὐκῶν (con valore affermativo: ‘ebbene’) invece che οὔκων (con valore negativo proposto per primo da Orelli 1821: ‘perciò non’) e inserisce il verbo ἐρέσθαι («chiedere»), congiungendo così i due paragrafi; sembra la soluzione più interessante: «È quindi importante d’ora in poi chiedere a dei giudici quale sia il loro giudizio». Diversamente Untersteiner, adottando la punteggiatura proposta da H. Gomperz 1912, p. 145 n. 310, legge: οὔκων διαϕέρει; ‹καὶ› αὖθις τὼς δικαστάς, ὅτι κρίνοιντι, «Non c’è forse una differenza? E deducono anche che i giudici dànno un solo giudizio». Tentano di mantenersi più vicini alla lezione manoscritta Classen e Becker – Scholz, che leggono: οὔκων διαϕέρει αὖθις τὼς δικαστάς ὅ τι κρίνοντι, «E ancora una volta non importa che i giudici giudichino qualcosa». Laks – Most seguono Diels – Kranz e interpretano: «Non è che siano differenti i loro nomi, ma la cosa stessa. E si potrebbe chiedere nuovamente ai giudici quale sia la cosa che giudicano…». Il richiamo a un giudizio esterno è quanto mai interessante: dopo il tentativo problematico di risolvere il problema della verità/falsità riferendosi a ipotetiche caratteristiche oggettive del linguaggio e dopo il richiamo ufficiale alla verità dell’evento (la sola in grado – a posteriori – di definire la situazione), ecco l’ultima frontiera costituita dal richiamo al giudizio dirimente di un giudice esterno che potrebbe non aver assistito di persona all’evento (di qui la sua imparzialità) ma che evidentemente stabilirà sia la bontà dell’argomentazione sia il rapporto dell’argomentazione con i dati effettuali. [4.9] … dove è implicata la menzogna: Ai giudici è attribuita la capacità di riconoscere quando in un’asserzione è implicata una relazione di verità o di falsità con quanto è asserito: cioè con l’evento richiamato. Ciò è in accordo con la tesi finora sostenuta dall’Anonimo e con la prospettiva corrispondentista in essa evocata.
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[4.9] … Ma questa è tutt’altra cosa…: La conclusione del passo è sorprendente e, a mio parere, sembra suggerire che anche il ricorso a dei giudici – grazie al quale si dovrebbe stabilire in modo obiettivo la verità o falsità di un qualche fatto che dovrebbe a sua volta comprovare o confutare una qualche asserzione – non aggirerebbe il problema di come stabilire a sua volta la verità o la falsità del giudizio dei giudici. Avremmo solo spostato la questione dal punto di partenza («ma questa è tutt’altra cosa») senza peraltro aver risolto nulla: ancora una volta rimane in evidenza lo stacco nettissimo tra il piano dell’essere e quello del linguaggio, secondo l’indicazione di Gorgia. Invece Robinson 1979, p. 125, sospetta che nella lacuna sia da immaginare il termine di paragone cui διαϕέρει si riferisce, e traduce: «But this view is totally different ‹from their original thesis›». Come dire: la tesi originale (di chi sostiene la ‘identità’ dell’asserzione vera e di quella falsa) non rinvierebbe alla verità effettuale, ma direttamente al giudizio dei giudici. Sulla stessa linea ora Becker – Scholz 2004, p. 73, che traducono: «Das aber ist gänzlich verschieden (zu der gennanten Ansicht?…)». Untersteiner 1967, III, p. 173, sembra interpretare in modo ancora diverso, dato che traduce: «Questo costituisce una differenza totale». Evidentemente il pronome τοῦτο δὲ non si riferisce alla tesi nel suo complesso (che, in quanto tale, è confrontata con quella a essa opposta, cfr. Robinson e BS); piuttosto si riferisce a un lato della tesi (quello per cui è verace il discorso cui è mescolato il vero) in opposizione all’altro lato della medesima tesi (quello per cui è menzognero il discorso cui è mescolato il falso).
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[5] Fino al 1570 la quarta sezione comprendeva anche l’attuale quinta. Tutto quanto poi seguiva costituiva un unico ultimo capitolo che lo Stephanus aveva intitolato: Περὶ τῆς σοφίας καὶ τῆς ἀρετῆς, εἰ διδακτόν («Sulla sapienza e sulla virtù, se si possano insegnare»). La quinta attuale sezione deriva invece dalla divisione in due parti dell’originaria quarta: divisione operata dal North 1671, che giustamente aveva notato il netto cambiamento tematico. Ovviamente per questa attuale quinta sezione non esiste un titolo originale, ma alcuni commentatori hanno cercato di proporlo evidenziando ciò che la caratterizza. Schmid – Stählin 1940, III, 1, p. 204 n. 4, propongono: περὶ σωφροσύνης καὶ μανίας («Sulla saggezza e sulla follia»), in questo modo concentrandosi sulla parte iniziale della sezione; oppure: περὶ τῶ πάντα τὰ ἀντικείμενα ταὐτὰ ἦμεν («Sull’identità degli opposti»), in questo modo riferendosi al tema complessivo della sezione. Becker – Scholz 2004, pp. 74-75, si richiamano invece alla parte centrale e conclusiva della sezione, là dove al tema degli opposti si aggancia quello ontologico, e propongono: περὶ τῶν πραγμάτων, αἱ ἐντὶ ἢ οὐ («Sulle cose: se esistono o no»). Come non c’è il titolo, così non c’è nemmeno il consueto richiamo alle «due argomentazioni in contrasto» (δισσοὶ λόγοι) con cui si aprivano le precedenti sezioni. In ogni caso la struttura generale risulta mantenuta. C’è una prima parte (§§ 1-5) in cui è sostenuta la tesi (A) per cui il medesimo linguaggio può dire cose diverse e opposte, e al limite può dire della medesima cosa che esiste e non esiste. Ma ciò non è accettabile da parte dell’Anonimo. Questa tesi è quindi confutata (§§ 6-15) in due mosse: dapprima (B1, §§ 6-8) si procede per assurdo sostenendo che tale tesi comporterà che pazzi e savi dicano e compiano le stesse cose. Poi si introduce una serie di precisazioni (B2, §§ 9-15) in base alle quali si mostra come le medesime azioni o asserzioni assumano diverso valore o significato in dipendenza di differenti variabili e contesti: si tratta di quanto poi Aristotele – in modo certamente più organico e ragionato – rielaborerà nella messa a punto della teoria degli «accidenti» e delle «categorie». In successione, l’Anonimo introduce la variabile del «quando si deve / non si deve», ‹τὸ› ᾇ δεῖ καὶ μὴ δεῖ (in pratica è il tema del ‘momento opportuno’); quindi le varianti (διαλλαγαί) linguistiche come lo spostamento dell’accento, la pronuncia lunga o breve delle sillabe, l’inversione di lettere; quindi la differenza (διαφέρον) per aggiunta e sottrazione; da ultimo la relazione tra il singolare e l’universale (τὶ ἢ τὰ πάντα).
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[5.2] … e così via con altri esempi: I primi due paragrafi sembrano sostenere che il comportamento di chi è in possesso della ragione può apparire identico a quello di chi non lo è: stesse le parole, stesse le azioni e le reazioni. Effettivamente a prima vista la differenza non può essere colta, e ciò proprio perché la relazione con la realtà non è ancora stata stabilita oppure non è reputata necessaria. L’indifferenza e l’indeterminazione dunque regnano sovrane. Nei §§ 3-4 la situazione è diversa: gli esempi sono riferiti ad aspetti quantitativi/qualitativi che evocano un medesimo ente: ma, in realtà, in questi casi al centro è il concetto di ‘relazione’, dato che il medesimo ente è considerato solo per la sua relazione che lo compara ad altri differenti enti; l’equivoco sorge perché il linguaggio non è in grado di esprimere questa diversità come appartenente al soggetto. Dire che lo stesso oggetto «è più leggero e più grave di un altro» risulta contraddittorio (al centro è posto «il soggetto») a meno che non si intenda «è più leggero di uno e più grave di un altro» (al centro è posta la relazione del «soggetto» con due diversi «oggetti»). Come segnala Guthrie 1969, p. 317 n. 1, secondo Platone, Theaet. 152d, 155b-c, l’idea di questo tipo di relatività costituirebbe una sorta di ‘secret doctrine’ di Protagora. [5.5] … è in Libia: La menzione di Cipro, anche in rapporto con la Λιβύη [= Africa settentrionale], potrebbe implicare un indizio di cronologia ‘alta’ attraverso il richiamo alle azioni militari ateniesi del 460/59 e del 450/49, piuttosto che alla Cipro di Evagora I, come ritiene Untersteiner 1967, ΙΙΙ, pp. 174-175. [5.5] … le cose sono e non sono: La tesi dell’identità di tutte le cose – e cioè dell’annullamento di qualsiasi differenza la quale, dunque, rimarrebbe solo a livello di semplice illusione/ apparenza, complice anche le caratteristiche intrinseche alla struttura del linguaggio – raggiunge la tensione massima nel momento in cui è ricalcato al contrario l’assunto parmenideo: ταὐτὰ ἔστι καὶ οὐκ ἔστι / ἐντὶ τὰ πράγματα καὶ οὐκ ἐντί (cfr. Parm., fr. B 6 DK = LM 19D7: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ ᾽ οὐκ ἔστιν). Ovviamente si tratta di una ripresa «molto indebolita» che, in qualche modo, anticipa la riconsiderazione del problema dell’essere quale la effettuerà Platone. In pratica sembra netta la sensazione che l’uso esistenziale e l’uso predicativo del verbo «essere» siano ormai nettamente percepiti anche nelle riflessioni meno impegnative, come in questo caso. Robinson 1979, p. 200, rinvia per un confronto all’interessante passaggio dialogico di Plat., Euthyd. 283c-284b.
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[5.6] … folli e assennati: È necessaria l’integrazione ‹τὼς σωϕρονοῦντας καὶ› che si ritrova in Diels 1903 e in quasi tutti gli editori moderni: solo Robinson 1979 non la recepisce. Essa permette di mantenere il ritmo duale del paragrafo. Nei due paragrafi che seguono l’argomentazione è per assurdo e, tramite essa, l’Anonimo intende confutare la tesi dell’identità del (A) comportamento dei folli e del (B) comportamento degli assennati: se (A) e (B) coincidessero, ma se si confermasse – d’altro canto – che tra follia (a) e assennatezza (b) c’è differenza (come dovrebbero dimostrare i conseguenti comportamenti), non resterebbe che concludere che «i saggi sono pazzi» e «i pazzi sono saggi»: nel senso di una equivocità dei termini e, dunque, di una confusione generale: πάντα συνταράσσονται. L’Anonimo sembra così ritenere che la non identificabilità del comportamento (cioè la sua non riconoscibilità come quello di un ‘folle’ o come quello di un ‘assennato’) non può non implicare, per i suoi avversari, la non identificabilità degli autori. [5.8] … dalle azioni di ognuno di costoro: Anche in questo paragrafo, come in analoghi casi (per esempio supra 4.7), solo il rinvio all’esperienza pratica risulta dirimente a riguardo di una discussione e decisione dialettica. È evidente che l’abilità di confutare l’assunto dell’«identità tra follia e ragionevolezza» poggiando esclusivamente sull’argomentazione logica non risulta per nulla acquisita dall’Anonimo. [5.9] … parlare nel momento giusto: Riappare la tematica del kairós, applicata a quell’agire specifico che è l’uso del linguaggio, dunque in un contesto tipicamente retorico. Ci si può interrogare se la tecnica retorica che fa ricorso all’antilogia (la quale poggia sull’immediato diretto confronto di esperienze opposte) sia conciliabile con il richiamo al kairós; Sichirollo 1961, p. 66, ritiene probabile piuttosto un esito conflittuale tra le due strategie. Secondo Dupréel 1948, p. 90, e Untersteiner 1967, III, pp. 175-176, non ci sono dubbi che siamo di fronte a un passo di chiara ispirazione gorgiana; significative le riprese linguistiche nel dialogo «Su ciò che è giusto» (περὶ δικαίου) attribuito a Platone: ἐν … τῷ δέοντι καὶ τῷ καιρῷ (375a). Ovviamente anche in questo caso si può solamente inferire la comunanza di ispirazione ma non la priorità di uno o dell’altro testo. Da sottolineare come la diversità di quello che – stando al linguaggio – apparirebbe identico è data da ciò che Aristotele riterrebbe un ‘attributo’. Il kairós assurge, in pratica, al ruolo di vero e proprio attributo di ciò che è detto, e consente di definire di conseguenza che si è di fronte a un compor-
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tamento ‘saggio’ oppure ‘dissennato’. Esattamente come, in 4.7, a una simile funzione il kairós era assurto a proposito della verità. Quanto al testo greco, in apertura del paragrafo la correzione proposta da Wilamowitz (ἐπακτέος, «da appoggiare») – che in qualche modo s’ispira all’ἐπ᾽ ἄρτεος (vel ἐπάρτεος) di alcuni codici – è senz’altro da riprendere così com’è (Diels – Kranz, Robinson, Laks – Most) oppure con il leggero adattamento che rinuncia però alla sfumatura ‘necessitante’ (ἐπακτὀς, «appoggiata») proposto da Classen 2004, p. 105, e accolto da Becker – Scholz. Fabricius 1724, p. 629, leggeva, col cod. Laurentianus 85, 24 (= F2), ἐπ᾽ ἄργεος (traducendo: «inutilis quaestio»); North 1681, p. 69 A. 9, osserva: «forsan ἐπερωτέος ὁ λὀγος, si vox ferre potest, forte ἐπ᾽ ἀρτίου, vel ἐπαρτής: paratus sermo». A ciò segue una proposizione interrogativa indiretta introdotta da πότερον e rafforzata da ὦν (dorico per οὖν, «perciò»). [5.10] … sia una cosa insignificante: La critica dell’Anonimo nei confronti dei suoi avversari è a questo punto precisata: essi avrebbero sottovalutato il ruolo che l’introduzione del kairós (vale a dire della variabile temporale) svolge. Il ‹τὸ› ᾇ δεῖ καὶ μὴ δεῖ (da intendersi come il fatto che qualcosa in un certo momento sia opportuno e in un altro momento non sia opportuno) determinerebbe a tutti gli effetti la perdita dell’identità di quanto, a parole, risulta identico. L’Anonimo è convinto che sia questo dettaglio (o simili dettagli) a provocare la criticità della tesi dei suoi avversari. Ecco quindi, a seguire nei §§ 11-12, una serie di esempi di carattere linguistico/fonetico in cui la variazione di qualche elemento apparentemente insignificante (μικρὸν) produce una serie di differenziazioni semanticamente decisive. [5.12] … il mutamento è apportato: L’intera sezione (§§ 11-14) è da confrontarsi anzitutto con il Cratilo di Platone: in esso Platone tra l’altro riconosce la grande reputazione che i sofisti avevano guadagnata per la loro particolare attenzione alla precisione terminologica (391b-c). Dialogando con Ermogene, Platone mostra grandissimo interesse per l’originario etimo dei vocaboli e, nel dare qualche esempio dei mutamenti (418a, ἀλλοίωσις) avvenuti nel corso dei tempi (416d-421d), ne indica alcune pratiche: il sostituire una lettera con un’altra (417b e 418c, μεταστρέφειν), l’aggiungere o togliere qualche lettera (418a, προστιθέναι / ἐξαιρεῖν). A Platone sta a cuore la restituzione (419a-b, ἀποδιδοῦν) dell’originaria forma del vocabolo e quindi del suo significato originario: tra l’altro, a suo parere, qualsiasi variazione può esser l’occasione per originare nuovi vocaboli: «Se togliamo, aggiungiamo oppure trasportiamo qualche lettera,
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non è che noi abbiamo scritto quel tal nome seppur scorrettamente; in realtà non l’abbiamo scritto per nulla: di fatto subito diventa un diverso nome se di un qualcosa si fa carico, ἐάν τι ἀφέλωμεν ἢ προσθῶμεν ἢ μεταθῶμέν τι, οὐ γέγραπται μὲν ἡμῖν τὸ ὄνομα, οὐ μέντοι ὀρθῶς, ἀλλὰ τὸ παράπαν οὐδὲ γέγραπται, ἀλλ᾽ εὐθὺς ἕτερόν ἐστιν ἐάν τι τούτων πάθῃ (432a). Per questa sezione, ulteriori rinvii sono suggeriti, attraverso Platone, ad altri esponenti della sofistica: Untersteiner 1967, III, pp. 176-177 – seguendo tra gli altri H. Gomperz 1912, pp. 71 e 171-172; Levi 1940, pp. 300-301; Dupréel 1948, p. 273 – rinvia a Ippia, soprattutto rilevando la comunanza di concetti quali la ἀλλοίωσις («mutamento») e la ἁρμονία (nel senso tecnico di «accento», cfr. Hipp. Maior 285d; Hipp. Minor 368d). Sempre Gomperz ibidem e Maier 1913, pp. 16-17, pensano anche ad un confronto con Prodico (Crat. 384b; Euthyd. 277e). Ma anche Protagora risulta interessato alla precisione linguistica: cfr. DK 80A27, A28, A29 (= LM 31D23, D24, D25), soprattutto là dove sottolinea la facilità con cui si incorre in solecismi. [5.12] … ‘kartós’ [liscio] e ‘krátos’ [forza]: A proposito dell’accoppiamento di κάρτος («forza», mss.) / καρτός («liscio») da un lato e κράτος («forza», mss.) / κρατός (genitivo di κράς: «del capo»), nessuna delle soluzioni proposte dagli editori appare soddisfacente: seguire i mss. significa infatti non variare il significato delle due parole, essendo la prima la forma epica della seconda (per cui κάρτος «forza» = κράτος «forza», a meno che non siano intese come robur e regnum, come proposto da Blass in Weber 1897, p. 47). D’altra parte, posto che si debbano affiancare due parole differenti per metatesi, appare improbabile alla luce della precedente serie di esempi che vi compaia un lemma al genitivo [κρατός], come invece fanno in genere gli editori. Per questo qui si è preferito accoppiare καρτός a κράτος, «liscio» a «forza». [5.13] … un’aggiunta o una sottrazione: Nei precedenti paragrafi si è segnalato il mutamento di significato in seguito alla mera variazione e/o spostamento di lettera: se così è, tanto più ovvio e prevedibile sarà il mutamento in caso di aggiunta o sottrazione di lettera. Di fatto però, soprattutto in questo caso, non si potrà parlare di semplice mutamento, quanto piuttosto di radicale differenziazione dell’oggetto cui ci si riferisce. La sottrazione o l’aggiunta di un’unità a una ‘decina’ fa sì che non si abbia assolutamente più a che fare con una ‘decina’. Robinson 1979, pp. 171 e 207, sottolinea che, molto probabilmente, siamo di fronte a: «The first document in extant Greek to use this particular argument»; si ritrova una simile argomentazione in Sesto Empirico, adv. Eth. 64-67 (cfr. in particolare
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l’analogo uso di τὸν καιρόν, adv. Eth. 66 ≈ καιρῷ, Diog. Laert. 2.20), e ciò – tra l’altro – consente di giustificare perché i Dissoi logoi siano stati tràditi come opera di Sesto. [5.15] … rispetto a un unico aspetto o rispetto a tutti?: L’interpretazione qui seguita esplicita il valore esistenziale di τὸ δὲ τὸν αὐτὸν ἄνθρωπον καὶ ἦμεν καὶ μὴ ἦμεν, per cui, in conclusione, la sintetica proposizione interrogativa propone la distinzione tra esistenza legata alle caratteristiche particolari di ciascun particolare ente (= «secundum quid») ed esistenza in assoluto («simpliciter»). In linguaggio moderno potremmo tradurre: «“È” in senso particolare o universale/assoluto?», e con ciò ci chiederemmo se l’individuo esiste simpliciter oppure esiste in quanto è ‘tale preciso individuo’ con ‘tali precise caratteristiche’. Robinson 1979, p. 208, nel rinviare a un’analoga discussione in Aristot., Soph. el. 166b 37 ss., si chiede se per caso Aristotele non abbia avuto sott’occhio questo passo dell’Anonimo. [5.15] … rispetto a un qualche aspetto: Il testo qui tradotto è quello stabilito da Robinson. L’individuo-uomo e ogni altra singola realtà esistono solo in quanto la loro esistenza è legata alle loro specificità (ταῦτα πάντα ὦν πῄ ἐστι); all’opposto, è negata l’esistenza in assoluto, simpliciter: in modo analogo Aristot., Soph. el. 166b 37 e 169b 10, contrappone la determinazione particolare (πῃ ἔστι) al significato assoluto (ἀπλῶς). Di conseguenza anche l’affermazione di ‘non essere’ va sempre intesa in senso particolare, ed è falsa l’affermazione del ‘non essere’ in senso assoluto. Diversamente leggendo, traduce in modo meno efficace Untersteiner 1967, ΙΙΙ, ad loc.: «Dunque, se uno dice di non esistere, dice il falso, qualora la sua affermazione riguardi l’universale. Dunque, ogni essere è connesso con una qualità». Diels, DK, BS seguono invece l’integrazione del Diels (‹τὸ τὶ καὶ›) e quindi intendono: «Dunque, se qualcuno dice di non esistere, ha torto quando afferma che ‹“in senso particolare” e› “in universale” sono la stessa cosa. Così, in un qualche modo sono tutte le cose».
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[6] Questa sezione, identificata come sesta dal Teichmüller 1884, era stata intitolata precedentemente dallo Stephanus 1570: Περὶ τᾶς σοϕίας καὶ τᾶς ἀρετᾶς, αἰ διδακτόν, «Sulla sapienza e sulla virtù, se si possono insegnare». Dal punto di vista formale, la struttura argomentativa presenta una forte discontinuità con le sezioni precedenti, al punto che si è anche pensato di ritenere che le ultime sezioni siano frutto di un’aggiunta successiva. Dapprima sono esposti cinque argomenti per sostenere che sapienza e virtù non si possono insegnare (§§ 2-6); a ciò l’Anonimo contrappone cinque argomentazioni per sostenere il contrario (§§ 7-11). A queste è aggiunto un esperimento mentale (§ 12) in base al quale si dimostra che l’apprendimento di una certa lingua dipende dal luogo in cui si nasce e si vive. Nel concludere la sezione, l’Anonimo dichiara sì di non sposare la tesi per cui virtù e saggezza sono oggetto di insegnamento (egli considera «fortemente ingenuo», κάρτα εὐήθη, tale modo di ragionare, § 7), ma di non essere soddisfatto (οὐκ ἀποχρῶντί μοι, § 13) nemmeno dalle argomentazioni di chi sostiene la tesi opposta. Un chiaro esempio di argomentazioni contrastanti rispetto alle quali egli non prende posizione. Sul significato di questa ‘astensione’ cfr. Robinson 1979, pp. 75-77: lo studioso vi legge un’intenzione propedeutica, «to instruct the beginner in the detection of fallacious reasoning», p. 76. La questione dell’insegnabilità della sapienza e della virtù è affrontata nel Menone di Platone, dove è approfondita ulteriormente in un modo che vede però al centro la definizione stessa di cosa sia la virtù; solo di qui è esaminata l’ipotesi se la virtù sia scienza e perciò insegnabile. Socrate rimane dubbioso al riguardo: «Che la virtù si possa insegnare, se è scienza, non nego che sia detto bene; che però non sia scienza, guarda se non ti pare che motivatamente io lo metta in dubbio», 89d. Si osservi tuttavia che il dubbio di Socrate è fondato sull’impossibilità di considerare i sofisti maestri affidabili, in particolare sul piano etico, laddove per l’Anonimo la riuscita o la non riuscita di un insegnamento di per sé non prova nulla né a riguardo del docente (§ 10) né a riguardo dell’insegnabilità tout court (§ 9). Su tutto il problema, utili i capitoli Can Virtue be Taught? di Guthrie 1969, III, pp. 250-260, ed È possibile insegnare la virtù? di Kerferd 1988, pp. 169-178. Più recentemente si veda l’analisi di Roochnik 1997, pp. 1-13. Dupréel 1948, p. 42, ritiene che sia possibile confrontare queste antilogie sull’insegnabilità della virtù con Protagora; Untersteiner 1967, III, pp. 178-179, pensa soprattutto a Gorgia: più precisamente ritiene gorgiani gli argomenti della tesi (§§ 2-6) e riferibili a Ippia quelli della controtesi (§§
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7-11). Ma, come giustamente conclude Robinson 1979, pp. 68 e 211, si tratta di pure ipotesi e nulla è possibile davvero provare. [6.1] … né insensata: Praticamente tutti i manoscritti hanno οὔτ’ ἀλαθὴς οὔτε κενός («né vera né insensata»); per cercar di evitare la presunta ovvietà insita in tale affermazione, Gomperz, Diels – Kranz, Untersteiner e Robinson privilegiano la lezione dell’importante cod. Regimontanus 16 b 12: καινός, «innovativa» / «rivoluzionaria». (Alla lezione -αι- è peraltro posta sopra la lezione -ε-, probabile emendamento del copista medesimo). Καινός potrebbe rinviare a Ippia, DK 86B6 (LM 36D22), come per parte sua fa notare Untersteiner 1967, III, p. 179: τοῦτον καινὸν καὶ πολυειδῆ τὸν λόγον ποιήσομαι, «renderò questo discorso innovativo e molto vario». In realtà non è necessario accogliere tale variante, perché l’Anonimo intende, in questa sezione, mantenersi estraneo rispetto a una qualsiasi scelta di campo: l’argomentazione di chi sostiene che sapienza e virtù non si possono insegnare sarà anche ‘non vera’, ma non per questo si potrà giudicare ‘insensata’. [6.2] … tu ce l’abbia ancora: Questo primo argomento è di tipico stampo sofistico; in qualche modo può essere avvicinato al ragionamento che Gorgia compie laddove, nel trattato Il non essere o la Natura, sostiene l’impossibilità che la stessa cosa esista contemporaneamente in più soggetti separati tra di loro: cfr. De Mel. Xen. Gorg. 6.23. Ciò implicherebbe uno sdoppiamento della cosa: δύο γὰρ ἂν εἴη τὸ ἕν. [6.3] … maestri riconosciuti: Roochnik 1997, p. 5, giustamente sottolinea che ἀποδεδεγμένοι, «riconosciuti», è un vocabolo decisivo, nel contesto della problematica affrontata in questa sezione (cfr. § 7). Si tratta infatti di verificare se è possibile stabilire una differenza netta tra le tecniche (tutte ‘insegnabili’ da specifici e riconoscibili maestri) e la virtù: in base a che cosa è ‘riconoscibile’ il saggio e la sua tecnica didattica? [6.5] … frequentazione dei sofisti: Introdotto il tema dell’insegnabilità e del sapiente (σοφός) che insegna, entra in campo il sofista (σοφιστής). Le prime attestazioni di σοφιστής (inteso più come ‘saggio’ che come ‘didatta’ esperto di una qualche scienza) si devono a Erodoto, cfr. 1.29; 4.95; ma si veda la sezione 79 dei FragVors di Diels – Kranz, II, pp. 252-253, in particolare la testimonianza di Elio Aristide, or. 46.311-2, che documenta l’evoluzione dell’uso e del significato
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del termine. Quasi a commento scrive Miralles 1996, p. 872: «Σοφιστής deriva da un verbo, σοφίζομαι, che non significa propriamente “avere la saggezza” né “essere saggio”, ma “fare uso della saggezza” o “agire come un saggio” o, ancora, “fingersi saggio” … Dal saggio si passa così al sofista, in una società in cui le diverse tecniche hanno ciascuna il suo professionista e in cui la parola, scritta, è dominio comune che condividono – dialogo, discorso – dal poeta drammatico al filosofo … Il sofista può, fino a un certo punto, essere proposto come il nuovo intellettuale». Tutto questo vale certamente all’epoca di Platone; tuttavia, in Protag. 316d, Platone precisa che: τὴν σοφιστικὴν τέχνην … εἶναι παλαιάν, «la tecnica sofistica è antica» e fa dire a Protagora: «Esercito quest’arte ormai da molti anni (πολλά γε ἔτη ἤδη εἰμὶ ἐν τῇ τέχνῃ), e infatti i miei anni messi insieme sono molti: non c’è nessuno tra tutti voi del quale io, per età, non possa essere padre», 317c. Perciò, se non è fuori luogo immaginare l’applicazione di tale arte già intorno alla metà del V secolo, anche l’accezione di ‘sofista’ (nel senso di colui che, in quanto esperto, pratica l’arte di insegnare una qualche scienza) deve essere ammessa per quell’epoca. È in ogni caso interessante rilevare l’incertezza dell’Anonimo nell’uso del termine: al § 4 si legge σοϕοὶ ἄνδρες, qui al § 5 e nei successivi si legge σοϕισταὶ, al § 10 si legge σοϕοὶ σοϕισταὶ. Rispetto poi ai frutti dell’arte dialettica e retorica del sofista ci sono eccezioni su entrambi i versanti: (a) esiste chi non ha tratto alcun vantaggio dalla frequentazione dei sofisti; (b) esiste chi è diventato saggio senza doverli frequentare. Tutto questo sembra deporre in direzione dell’inutilità della loro opera di insegnamento della saggezza. Ma ciò vale solo per i sofisti oppure è questo un tratto caratterizzante la questione della virtù in generale e la sua insegnabilità? Quanto al ruolo educativo del ‘sapiente’ (§ 4), l’argomentazione è ripresa al § 8, là dove sono citati i filosofi Pitagora e Anassagora. [6.7] … so che i maestri insegnano: All’ingenuità della prima argomentazione l’Anonimo fa corrispondere un’ovvia e immediatamente constatabile osservazione: colui che insegna qualcosa, continua a conoscere quel qualcosa. L’argomento che introduce il tema dell’istruzione alfabetica non può non esser collegato alla più ampia questione della «literate revolution» greca: non sembra possibile però – anche per la natura controversa della documentazione nota – ricavarne argomento per un preciso inquadramento cronologico dei Dissoi logoi. Sul problema cfr. tra gli altri Harris 1991, pp. 106-131. All’ingenuità della seconda argomentazione, l’Anonimo risponde citando la definizione stessa di sofista: è il sofista colui che pretende di insegnare saggezza e virtù! Cfr. Plat., Protag. 312b-313c, là dove, intorno alla definizione
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elementare di ‘sofista’ quale τὸν τῶν σοφῶν ἐπιστήμονα «esperto del sapere», Socrate costruisce la sua critica alla pretesa di poter insegnare qualcosa ignorando se ciò faccia bene o male; cfr. Plat., Euthyd. 273d-274a, là dove Socrate interroga Eutidemo e Dionisodoro sulla possibilità di insegnare la virtù. [6.8] … i discepoli di Anassagora e Pitagora?: La citazione di Anassagora e Pitagora è fatta puramente a titolo di esempio e implica che essi siano considerati quali ‘insegnanti’ (cfr. Moreno Moreno 2015, p. 11). L’ordine cronologico rovesciato può dipendere da diversi fattori: Anassagora è certamente il più vicino nel tempo (contemporaneo dell’Anonimo, in base alla datazione ‘alta’) e forse anche nello spazio geografico, se si accetta l’ipotesi che l’Anonimo si trovi in Ellade ma che sia originario della Magna Grecia. Quanto all’uso dell’imperfetto ἦεν nella proposizione interrogativa (con il quale si rinvia ai discepoli di Anassagora e di Pitagora), molto probabilmente esso è adoperato riferendosi sinteticamente a entrambi: tale imperfetto sarebbe un imperfetto di ‘intenzione’ per cui la valenza temporale (il passato mal si concilierebbe con i discepoli di Anassagora, cfr. Cambiano 1991, p. 119) risulta fortemente attenuata. Untersteiner 1967, III, p. 181, segnala che anche Platone (Crat. 409b e Parm. 126a-b) cita i seguaci di Anassagora; quanto ai seguaci di Pitagora, lo studioso rinvia alle scuole di Argo, Sicione e Fliunte ricordate da Giamblico, Vita Pyth. 36.267. [6.8] … insegnò a suo figlio: Nell’allusione a Policleto si è visto un elemento utile a fissare la datazione dei Dissoi logoi, cfr. soprattutto Robinson 1979, pp. 34-41, con ampia discussione e conferma, a suo parere, della composizione del trattato nel periodo 403-395. In realtà l’inferenza sembra destinata a restar debole in quanto la menzione del figlio di Policleto non implica che questi fosse l’unico – ciò in contrasto con i figli dello scultore di cui si parla in Plat., Protag. 328c – bensì può riferirsi (senza neppur pensare a un anacronismo del dialogo platonico) – all’unico tra i figli di Policleto che, a conoscenza del redattore dei Dissoi logoi, si dedicò alla scultura; cfr. Mazzarino 1966, pp. 288-289, e supra, pp. 5-7. Ogni deduzione ricavata da questa sezione difficilmente per altro si può considerare valida per l’intero corpus dei Dissoi logoi, data la non garantita unità dell’opera. [6.10] … alcuni allievi dei saggi sofisti non sono divenuti saggi: Pur essendo un unicum, è senz’altro da mantenere il σοϕῶν attributo di σοϕιστῶν, perché in questo modo si dà forza alla distinzione tra sofista e
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sapiente che è incipiente verso la metà del V secolo e, insieme, si garantisce un significato di per sé neutro al vocabolo. Il passo conferma le perplessità dell’Anonimo rispetto alla generica capacità di insegnare qualcosa. Da un lato non immediatamente si può assicurare che il sofista sia maestro di virtù e dunque di saggezza (come conferma Plat., Men. 95c: οὐδ᾽ ἄρα σοὶ δοκοῦσιν οἱ σοφισταὶ διδάσκαλοι εἶναι;); dall’altro, se anche lo fosse, non per questo gli allievi per definizione (cioè per aver studiato con i sofisti) diventano a loro volta sapienti. Proprio come non è automatico l’apprendimento della grammatica per il solo fatto di averla studiata. [6.11] … la disposizione naturale: L’Anonimo dà giustificazione e sostegno a quanto finora asserito in merito alla forza e utilità della didattica sofistica: essa non è tutto. Anzi: occorre non sottovalutare l’importanza dell’indole (φύσις) e delle doti naturali che caratterizzano ogni individuo. Quando ci si trovi di fronte a qualcuno favorito da una buona disposizione (εὐϕυής), ecco che sono sufficienti i rudimenti di base per progredire; in questo caso sono decisivi i genitori e i primi maestri. Intendendo rilevare l’importanza della buona disposizione del carattere, Diels, Diels – Kranz, Classen, Becker – Scholz correggono il καὶ dei manoscritti e leggono: εὐϕυής γα γενόμενος. In questo modo l’inciso acquisisce quel valore di condizione di partenza che ne giustifica la sottolineatura. Untersteiner 1967, III, pp. 181-182, si richiama a Ippia e al tema del libero giuoco della qualità (DK 86C2), in contrapposizione alla tesi del carattere innato della competenza linguistica (cfr. il rinvio a Hdt. 2.2); Robinson 1979, pp. 216-217, seguendo Kranz 1937, p. 228, è più propenso a suggerire un confronto con Protagora DK 80B3 (LM 31D11), là dove si accenna al talento innato e all’esercizio assiduo (φύσεως καὶ ἀσκήσεως, διδασκαλία δεῖται). [6.12] … ma non siamo consapevoli di chi ce lo insegni: Immediato il raffronto con Hdt. 2.2, dove si narra la storia di Psammetico e della conferma dell’ipotesi innatista sull’origine del linguaggio. Cfr. Levine Gera 2000, pp. 25-30, che mette a confronto i due esperimenti scientifici: quello dell’Anonimo dei Dissoi logoi (relativista rispetto al contesto formativo), e quello di Psammetico (innatista). Sui rapporti tra le Argomentazioni in contrasto ed Erodoto si veda Mazzarino 1966, pp. 291-294, che sostiene la tesi dell’indipendenza tra i due testi. Per la tesi relativista dell’Anonimo, si confronti qualche accenno in Plat., Crat. 385d-e. Quanto all’inconsapevolezza del modo e da chi si apprende il linguaggio, è utile il confronto con Plat., Alcib. I 111a: «Stando con loro ho imparato a parlare Greco (τὸ ἑλληνίζειν)
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ma non posso dire chi fosse il mio insegnante (οὐκ ἂν ἔχοιμι εἰπεῖν ἐμαυτοῦ διδάσκαλον); posso solo attribuirne il merito a quelle stesse persone che, come dici, non sono insegnanti di professione». [6.13] … ne hai inizio, fine e parte centrale: Non si può che convenire con Rohde 1901, p. 329, che questa frase segna una qualche conclusione all’interno dei Dissoi logoi. Quasi sicuramente, tuttavia, non si tratta tanto di una conclusione generale, ma solo della conclusione della sezione dedicata all’insegnabilità di sapienza e alla virtù. Vero è, con Robinson 1979, p. 218, che anche quanto segue è integrabile nell’opera, anche se non va troppo ricercata la ‘unità’ di un testo che mostra pur sempre tracce di una qualche stratificazione. [6.13] … non mi soddisfano: Il testo di questa conclusione è tormentato: i mss. hanno ἀλλ’ ὄτι ἀποχρῶντί μοι τῆναι ταὶ ἀποδείξιες. Seguendo in pratica tale testo, Untersteiner 1967, III, ad loc., traduce: «ma le precedenti dimostrazioni mi bastano»; analogamente pure Kerferd 1988, p. 170. Ciò non ha molto senso. Meglio seguire, con Robinson 1979, ad loc., la correzione proposta da Diels: ἀλλ’ οὐκ. In questo modo si riprende la negazione appena prima introdotta (οὐ λέγω ὡς) e si lascia aperto lo spazio a un successivo dibattito. Così pure Becker – Scholz, ad loc.
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[7] Questa sezione, come pure le due successive, è senza titolo, ha forma antilogica ma non è sviluppata per argomenti contrastanti. Piuttosto, si discute intorno a un solo logos, cfr. Robinson 1979, p. 218, e alla tesi presentata sono mosse una serie di obiezioni. È posta a tema la questione dell’assegnazione per sorteggio (ἀπὸ κλάρω) delle magistrature. L’annoso argomento è sviluppato soprattutto intorno alla questione dell’utilità del sorteggio nelle sue applicazioni pratiche. Si tratta di un approccio molto specifico, e basterebbe sottolineare questo evidente passaggio – da un ambito filosofico a un ambito più immediatamente pratico o politico – per rilevare un indubbio scarto di prospettiva tra le sezioni precedenti e queste tre finali. La conclusione è che le procedure della democrazia risultano spesso paradossalmente in contrasto con quello che dovrebbe essere il vantaggio del popolo. Proprio per questo l’Anonimo non può essere considerato un antidemocratico, quanto piuttosto qualcuno che ha esperienza diretta dei difetti e dei pericoli del sistema democratico: l’elezione per sorteggio sarebbe di ciò un esempio. In generale sul rapporto tra Sofistica e regime democratico si veda Isnardi Parente 1977, pp. 19-27. Quanto alla specifica posizione dell’Anonimo rispetto al problema della democrazia e del ‘sorteggio’ delle cariche, cfr. Rossetti 1980, pp. 41-47. [7.1] … cariche pubbliche: Per quanto riguarda il principio del sorteggio per la distribuzione, in regime democratico, delle cariche pubbliche, cfr. Staveley 1972, pp. 54-57; sulle modalità, pp. 61-72. La posizione dell’Anonimo è chiara: dovrebbe essere adottato un criterio tale che consenta di evitare che governino quanti non sono all’altezza di tale compito. Nei successivi paragrafi (2-4) si susseguono due proposizioni interrogative retoriche mirate a mostrare l’assurdità di applicare il sorteggio nelle questioni tecniche; quindi si conclude deplorando l’eventualità che gli uomini si trovino ad affrontare compiti che non conoscono né che sono capaci di svolgere. Dupréel 1948, pp. 238-239, è del parere che questo tipo di argomentazioni sofistiche anticipi gli sviluppi successivi in Socrate e in Platone. Si ritrovano le tracce di ciò in Aristot., Rhet. 2 1939b 4-8, dove l’esempio del governante sorteggiato è accostato a quello dell’atleta sorteggiato a caso, non per le sue capacità (ὡς δέον τὸν λάχοντα, ἀλλὰ μὴ τὸν ἐπιστάμενον). [7.3] … il mestiere capitato per sorte: La polemica contro il sorteggio delle cariche pubbliche fu un tema obbligato della riflessione antidemocratica, ad esempio nelle considerazioni dell’ano-
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nima Costituzione degli Ateniesi «attribuita a Senofonte», ma anche in bocca al Socrate di Senofonte e di Platone (cfr. Athen. Pol. 30.3 e 50.2; Xenoph., Memor. 1.2.37; Plat., Gorg. 491a). Puntuale e documentata la nota di Untersteiner 1967, III, pp. 183-184. Da segnalare anche il rilievo di Rostagni 1922, pp. 175-176, che rammenta l’antica tradizione in base alla quale il precetto pitagorico raccomandante l’astinenza dalle fave era interpretato in chiave politica (cfr. Diog. Laert. 8.34): poiché con le fave si faceva il sorteggio (cfr. infra § 5: αἴ κα τύχῃ ὁ κύαμος «se nel sorteggio così piace alla fava», cioè «se venissero favoriti dal sorteggio»), la loro proibizione alludeva a un progetto di opposizione al sistema democratico. Rostagni ritroverebbe perciò confermata l’ispirazione pitagorica dei Dissoi. [7.5] … oppositori del popolo: È il classico problema della democrazia, alla quale evidentemente l’Anonimo tiene. Se si adotta il sorteggio senza alcuna contromisura, nulla può evitare che anche gli oppositori della democrazia (μισόδαμοι ἄνθρωποι) arrivino al governo e poi agiscano per distruggerla. Robinson 1979, p. 220, propende per un’interpretazione estensiva dei μισόδαμοι: all’interno di essi saranno da comprendere anche i sostenitori dell’oligarchia, come sembra suggerire il parallelo con Isocr., Areop. 23: οἱ ὀλιγαρχίας ἐπιθυμοῦντες. In ogni caso, occorre segnalare che solamente qualche decennio prima della tirannide dei Trenta divenne possibile ‘bocciare’ il candidato, anche se sorteggiato, al momento della docimasia (cfr. Rossetti 1980, pp. 45-46); perciò, solo se si sta alla datazione ‘alta’ dei Dissoi logoi, la preoccupazione dell’Anonimo è pienamente giustificata. [7.6] … altri sorveglino le leggi: Nella distribuzione dei diversi ruoli in base alle diverse competenze sono in evidenza il comando dell’esercito (στραταγέν) e la salvaguardia delle leggi (νομοϕυλακέν); da ultimo presumibilmente si allude agli altri impegni politici (καὶ τἆλλα […]). Il particolare accenno ai nomophylakes costituirebbe, per Untersteiner 1967, III, pp. 185-186, ancora una conferma della vicinanza ad Ippia. Tuttavia cfr. Aristot., Athen. Pol. 3.6; [4.4]; 8.4; 25.2; Pol. 3.1287a 21 ss: 4.1298b 29 ss; 6.1322b 39 ss. Sull’istituzione della nomophylakia, dopo De Sanctis 1913, pp. 3-14, sono importanti le precisazioni di Bearzot 2012, pp. 29-47. Sia De Sanctis sia Bearzot ritengono tale istituzione risalente al IV secolo, all’epoca di Demetrio Falereo. Tuttavia, in base a un frammento dello storico Filocoro – per la discussione del quale cfr. Banfi 2010, pp. 145-156 – si tratterebbe di una magistratura risalente all’Atene del V secolo, all’epoca del democratico Efialte. Se così fosse, l’accenno alla nomophylakia
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dei Dissoi logoi troverebbe un’adatta collocazione storiografica. Abolita, secondo De Sanctis, nel 403, sarebbe stata rinnovata in seguito con Focione e Dèmade solo nella seconda metà del IV secolo.
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[8] Anche questa sezione presenta problemi di dissimiglianza strutturale con le sezioni 1-6, e denota un ulteriore slittamento dalle modalità di trattazione tipiche del sofista-filosofo a quelle del sofista-retore: cfr. Robinson 1979, pp. 221-222 e 236. L’argomento posto a tema è relativo alla «compiutezza del sapere»; si tratta di una serie di riflessioni che Untersteiner 1967, III, pp. 186-188, ritiene ancora una volta centrali ai fini del riconoscimento della dipendenza da Ippia. Dupréel 1948, pp. 190-196, precisava meglio e, tenendo conto delle puntualizzazioni di Trieber 1892, pp. 210-248, allargava il discorso a tutti i Dissoi logoi. Questa sezione è l’ottava individuata dal Teichmüller (1884) ed è stata successivamente divisa dal Diels (1912) in due parti: la prima (tredici paragrafi) è dedicata alla capacità di argomentare; la seconda (sei paragrafi), all’importanza della memoria. Una sorta di preambolo generale enuncia anzitutto (§ 1) l’importanza, per il singolo individuo, di padroneggiare la tecnica dialettica e, in particolare, la brachilogia; quindi (§ 2) accenna al tema delle implicazioni morali che conseguono al retto sapere: esso consente di agire rettamente (ὀρθῶς) in ogni circostanza. A questo punto sono rapidamente evocate le diverse scienze particolari: retorica e dialettica (§§ 3-6); musica (§§ 8 e 11); diritto (§§ 9-10). Il § 7 affronta la relazione tra conoscenza del particolare e conoscenza generale. Il § 12 sottolinea l’importanza della conoscenza dei fatti in riferimento alla verità, mentre il conclusivo § 13 pone in relazione la capacità di argomentare con la conoscenza generale. Sul tema della conoscenza onnicomprensiva si può confrontare questa sezione con la presa di posizione favorevole di Eutidemo e Dionisodoro, in Plat., Euthyd. 293c-297d. All’opposto, critica è la posizione dello Straniero e di Teeteto in Soph. 232a-233b. Moreno Moreno 2015, p. 19, ritiene che la tesi esposta in questa sezione, non sia quella che l’Anonimo condivide; quella alternativa «que cada persona sabe de una cosa» (e cioè ancora una volta la tesi della ‘differenza’) non ci sarebbe pervenuta. [8.1] Ritengo che spetti: Dupréel 1948, p. 193, sottolinea che la prima frase della sezione 8 costituisce la sintesi tra il tentativo sofistico di studiare le tecniche adatte per gestire gli affari dell’uomo e la scienza dei fisici: «Nous trouvons ici l’énoncé d’une doctrine qui proclame l’unité et la solidarité de tout le savoir valable et
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des formes les plus variées de son expression». In questo senso Anassagora medesimo può benissimo rappresentare il prototipo del sofista. L’integrazione ‹τῶ δ᾽ αὐτῶ› di Robinson 1979 perfeziona quella proposta da Blass 1881 ‹τῶ αὐτῶ› e accolta poi da quasi tutti gli altri editori. Non solo è in perfetto parallelo con il τᾶς αὐτᾶς riferito all’‘arte’, ma serve a introdurre un concetto chiave: la stessa persona (cioè colui che è o vuole essere un bravo retore/sofista) deve organizzare la propria argomentazione sapendo porre se stessa nei due opposti campi della contesa dialettica. Deve, in pratica, prevedere le obiezioni e sapervi rispondere, in modo chiaro e preciso: vale a dire, concisamente (κατὰ βραχύ). [8.1] … trattare dialetticamente in breve un argomento: Robinson 1979, p. 223, segnala giustamente che la tecnica di τὸ κατὰ βραχύ διαλέγεσθαι (evidenziata in apertura e in chiusura della presente sezione) è in consonanza con la procedura abitualmente usata nei dialoghi socratici. Molto probabilmente occorre immaginare che nell’uso di tale tecnica fossero specializzati i sofisti per definizione; Socrate dice di Protagora: «È in grado di pronunciare discorsi estesi e ben fatti, come si è dimostrato ora, ma altresì è in grado, a domanda, di rispondere in breve (ἱκανὸς δὲ καὶ ἐρωτηθεὶς ἀποκρίνασθαι κατὰ βραχὺ) oppure, se è lui a porre la domanda, di saper aspettare e accettare la risposta», Plat., Protag. 329b. [8.4] … parlare su ogni argomento: Il tema dell’enciclopedismo nel sapere riconduce ancora a Ippia, cfr. Dupréel 1948, p. 373. A questa tesi di Dupréel e Untersteiner muove seri rilievi Robinson 1979, pp. 221-222 e 225-226, in particolare là dove rimarca che l’onniscienza/onnicompetenza di cui si parla al § 2 (ὁ περὶ ϕύσιος τῶν ἁπάντων εἰδώς) non ha immediatamente a che fare con l’enciclopedismo di stampo retorico cui alludono i §§ 4 e 12-13. Il testo è incerto: si segue Robinson 1979, ad loc.; cfr. anche Classen 2004, p. 117, che propone una variante di dettaglio: περὶ πάντων γὰρ. [8.5] … la tecnica propria di ogni tipo di discorso: L’esigenza che qui è espressa si inquadra perfettamente nel ruolo di specialisti del linguaggio attenti alla dimensione comunicativa che i sofisti ricoprirono; non tanto l’accento è posto sul dominio di un particolare sapere, quanto sul possesso perfetto di una strumentazione utile nella differenziazione delle circostanze e dei contesti. Riconoscere le distinte caratteristiche e tipologie del discorso si annuncia come esigenza e compito del sofista/retore; rimane che la prima formale teorizzazione e strutturazione sarà fatta da Aristotele, il
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quale per di più, privilegiando altri obiettivi, all’interno del suo sistema confinerà retorica e sofistica ai margini del campo della filosofia teoretica. Come sinteticamente ricorda Barthes 1985, p. 20, il primo libro della Retorica di Aristotele «è il libro dell’emittente del messaggio, il libro dell’oratore: vi si tratta principalmente della concezione delle argomentazioni, nella misura in cui dipendono dall’oratore, del suo adattarsi al pubblico, e questo secondo i tre generi riconosciuti del discorso (giudiziario, deliberativo, epidittico)». [8.5] … che concernono ogni tipo di realtà: Dopo l’interrogativa retorica del § 2, i §§ 3-5 debbono interpretarsi in modo consequenziale: così come la conoscenza della natura di ogni cosa serve ad agire correttamente περὶ πάντων (in ogni circostanza, § 2), allo stesso modo anche la conoscenza della tecnica argomentativa serve ad affrontare περὶ πάντων (ogni argomento, § 3). Infatti solo chi, per parlare con efficacia, avrà guadagnato un certo livello di conoscenza, sarà in grado di parlare ‹περὶ› πάντων (su ogni argomento, § 4). Costui deve possedere una competenza tecnica specifica πάντων μὲν γὰρ τῶν λόγων (per ogni tipo di argomentazione), dato che esistono argomentazioni diverse adatte περὶ πάντων τῶν ἐ‹όντων ἐντί› (a ogni tipo di realtà, § 5). La chiusa dell’argomentazione ha senso se si accoglie la restituzione del testo proposta da Orelli 1821, ad loc., che giustamente contrappone alla dimensione del linguaggio quella della realtà. [8.6] … conosca i fatti di cui vuol parlare: L’anello si chiude perfettamente con il medesimo accenno alla necessità della conoscenza realtà effettiva da cui si era partiti, cfr. § 2: ὁ περὶ ϕύσιος / πράσσεν. Per questo, di fronte a una lacuna di fatto insanabile, l’integrazione di Diels 1903, accolta da tutti gli altri successivi editori, appare convincente. La soluzione di Diels peraltro suppone che l’estensione della lacuna sia limitata: nei manoscritti si riscontra invece un’estensione significativa di quattro righe (circa 40-50 parole, secondo Robinson 1979, p. 230). Non è perciò decidibile se περὶ ὅτων κτλ vada interpretato a chiusura di quanto detto prima (cioè: «Bisogna infine che chi si propone di parlare efficacemente conosca i fatti») oppure sia l’avvio di una nuova proposizione. In ogni caso, la conoscenza adeguata di ciò di cui si parla diviene, secondo l’Anonimo, il lasciapassare migliore per l’attività politica e per una proposta di etica sociale. Sull’obiettivo politico, ma soprattutto pedagogico, dell’arte sofistica non esistono ormai dubbi; alla conclusione della sua ampia ricerca sui sofisti Levi 1966, p. 311, scriveva: «… i sofisti intendevano l’areté di cui si professavano maestri non come quell’abilità pratica che permette
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di ottenere successo nella vita, e specialmente nell’azione politica, ma come virtù, nel significato etico della parola, sicché il fine che si proponevano risiedeva nella formazione morale e sociale degli uomini». [8.7] … se conoscerà tutto questo: Il testo è tormentato. Seguendo la lettura di Robinson 1979, ad loc., il pensiero dell’Anonimo appare nettamente proiettato nella direzione di una attività pedagogica che, facendo leva su di una competenza tecnica affidabile, mira a esiti politici inevitabili. È, in pratica, un’autentica lezione di metodo: la conoscenza di una specifica parte che porti all’acquisizione di abilità di base comporta la possibilità di riuscita in qualsiasi altra occasione. La lettura di Untersteiner 1967, III, ad loc., risulta tradursi in un testo italiano davvero poco comprensibile: «Chi conosce tali due esperienze [= quelle che hanno a che fare con il bene e quelle che hanno a che fare con il male], saprà anche quelle che da queste sono diverse: infatti s’intenderà di tutto. Le esperienze che appartengono a tutti sono appunto identiche, ‹ed egli›, se è necessario, farà quello che deve di fronte a ciò che è identico». Becker – Scholz 2004, ad loc., adottano lo stesso testo di Untersteiner (con l’impegnativa integrazione ‹ὁ› del Diels), ma anche la loro interpretazione risulta confusa e forzata: «Wer aber dies (sc. den Gegensatz von “Gut” und “Schlecht”) weiß, wird auch das von diesen (beiden) Verschiedene (sc. das “Weder-Gute-nochSchlechte”) wissen. Er wird also über alles ein Wissen besitzen; denn jene (drei Unterscheidungs- und Ordnungsmöglichkeiten) sind in allen Bereichen dieselben. ‹Wer› (um die drei genannten Ordnungsmöglichkeiten weiß), der wird im Blick auf dieselben angemessen handeln, wenn es erforderlich ist». [8.8] … suonare il flauto: Anche in questo caso il testo di Robinson – che segue da vicino i mss. – permette di dare un significato a questi paragrafi; non sembra aver alcun esito utile l’intervento di Diels – Kranz seguito da Untersteiner e Becker – Scholz, che, ad loc., interpretano: «E se sa suonare il flauto (καὶ μὲν ἐπίσταται αὐλέν), sarà sempre in grado di suonare il flauto, se dovrà fare ciò». [8.9] … e tutto ciò che da esso si differenzia: Il testo lacunoso è variamente aggiustato: la proposta di Robinson 1979, pp. 233-234, καὶ τὰ ‹ἄλλα αὐτῶ ? ἕ›τερα, mira a evidenziare che un concetto o un’affermazione particolari (quale, ad esempio, un certo fatto considerato ‘giusto’) sarà del tutto perspicuo solo all’interno di un contesto che preveda la conoscenza sia del suo contrario sia dei concetti o affermazioni da esso diversi ma pur sempre correlati.
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[8.12] … chi conosce la verità dei fatti: Il richiamo alla verità dei fatti costituisce il punto qualificante della presente sezione e, almeno a livello di propaganda, della strategia sofistica in generale. Qui, alla possibilità di due discorsi opposti rispetto ai fatti reali (come sosteneva Protagora, cfr. Diog. Laert. 9.51: δύο λόγους εἶναι περὶ παντὸς πράγματος ἀντικειμένος) si affianca la verità dei fatti reali (τῶν πραγμάτων ἡ ἀλήθεια). Come giustamente rilevava Levi 1940, p. 297, non è da sottovalutare anche la differenza tra l’approccio dell’Anonimo e quello di Protagora: «There is a great gulf between the objectivism, both verbal and real, of the Dissoi logoi and the subjectivism of Protagoras, which for the natural world excludes the possibility of the false, as it holds all opinions true, while for the antithesis of the Dissoi logoi the false exists as well as the true, though they are both identical». Significativamente in Platone, Soph. 234c, si ritrova un richiamo all’arte (sofistica) di chi sa presentare le cose tenendosi lontano «dalla verità dei fatti», ἔτι πόρρω τῶν πραγμάτων τῆς ἀληθείας. Platone, per parte sua, ha ben presente il problema della ricerca della verità di ciò che esiste (Phaed. 99e: σκοπεῖν τῶν ὄντων τὴν ἀλήθειαν; Men. 89b: ἡ ἀλήθεια ἡμῖν τῶν ὄντων ἐστὶν ἐν τῇ ψυχῇ). [8.13] … brevi domande e risposte: Che questo fosse uno dei tratti qualificanti l’arte di Protagora, Socrate lo dice con chiarezza: «Ho udito che tu sei capace personalmente, ed in grado di insegnarlo ad altri, di parlare sul medesimo argomento sia, se lo vuoi, in esteso (μακρὰ λέγειν) – ma in modo che mai manchi l’argomento – sia anche in breve (βραχέα), al punto che nessuno sa farlo più brevemente di te (οὕτως ὥστε μηδένα σοῦ ἐν βραχυτέροις εἰπεῖν) … Ma tu, come si dice e tu stesso dichiari, sei in grado di reggere una conversazione pubblica sia nel modo sintetico sia nel modo articolato (καὶ ἐν μακρολογίᾳ καὶ ἐν βραχυλογίᾳ). Infatti sei un saggio!», Protag. 334e-335c. Quanto al rispondere a domanda, cfr. Plat., Gorg. 449b (κατὰ βραχὺ τὸ ἐρωτώμενον ἀποκρίνεσθαι); Protag. 329b (ἐρωτηθεὶς ἀποκρίνασθαι κατὰ βραχὺ). [8.13] … deve sapere ogni cosa: La conclusione della sezione rievoca uno degli aspetti più appariscenti del sapere sofistico: la sua pronta traducibilità a livello operativo. Eppure è chiara la delicatezza del problema: non è assolutamente detto che la competenza tecnica, per cui si è in grado di affrontare qualsiasi argomento e di dare risposte a tutto, abbia alle spalle una scienza reale e non illusoria cui far riferimento. L’eristica insomma non è riconosciuta come sapienza filoso-
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fica. Da confrontare la posizione di Protagora: DK 80A20 (LM 31D27) = Sen., ep. 88.43; DK 80A20 = Clem. Al., Strom. 6.65.1; DK 80B6b e 80A21 (LM 31D28) = Aristot., Rhet. 2.24 1402a 24-28; DK 80B6 (LM 31D18) = Cic., Brut. 12.46; DK 80B5 (LM 31R1a, b) = Diog. Laert. 3.37 e 57; e quella di Gorgia: DK 82A1a (LM 32D11a) = Philostr., Vit. Soph. 1.482; DK 82B14 (LM 32D4) = Aristot., Soph. el. 34.183b 36-184a).
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[9] Accortamente i recenti editori, da Diels 1912 in poi, suddividono ulteriormente il testo tràdito isolando anche questa breve (in quanto mutila) nona sezione che ha una sua netta autonomia tematica e strutturale. È affrontato il tema dell’«utilità della memoria» e contemporaneamente sono esposte (§§ 2-4) tre elementari istruzioni di mnemotecnica: a) fissare l’attenzione su punti precisi; b) ascoltare e ripetere più volte ciò che si è udito; c) associare ciò che si è udito a concetti o nomi conosciuti. Non è presente alcun accenno di costruzione argomentativa antilogica o dialogica; sembra trattarsi esclusivamente di qualche appunto riepilogativo predisposto dal maestro (o preso da un alunno). L’eco di Ippia è presente se si fa riferimento a Plat., Hipp. Min. 368d, dove Socrate loda la mnemotecnica, arte nella quale il sofista si ritiene particolarmente brillante: καἰτοι τό γε μνημονικὸν ἐπελαθόμην σου, ὡς ἔοικε, τέχνημα, ἐν ᾧ σὺ οἴει λαμπρότατος εἶναι. Sulle caratteristiche della mnemotecnica in questione, oltre a Untersteiner 1967b, pp. 152-153 n. 89a, e la bibliografia specifica lì suggerita, cfr. anche Blum 1961, pp. 48-49, che segnala l’importanza di questo accenno alla mnemotecnica comune sia all’Ippia di Platone sia all’Anonimo dei Dissoi logoi. Secondo Moreno Moreno 2015, p. 20, mancherebbe la parte di introduzione alle due tesi alternative e il frammento pervenuto «pertenecería a la exposicíon de la tesis segunda y al comienzo de su defensa». [9.1] … per la filosofia e per la saggezza: Appare particolarmente interessante la coppia φιλοσοφίαν τε καὶ σοφίαν che immediatamente evoca la riflessione socratica. Tuttavia Robinson 1979, p. 238, prudentemente intenderebbe φιλοσοφία come «general education» (cfr. sez. 1.1: τῶν φιλοσοφούντων) e σοφία come «practical wisdom». Ciò è del tutto corretto se si riporta la datazione dei Dissoi logoi alla metà del quinto secolo. [9.2] … unità dell’oggetto appreso: Il complemento oggetto σύνολον ὃ ἔμαθες va mantenuto nel luogo dove si trova nei manoscritti; non è necessario trasferirlo dopo παρεγένετο come fa Diels 1903, seguito da Untersteiner 1967, ad loc., intendendo allora, § 2: «Se tu fisserai la tua attenzione, la tua mente non appena passa attraverso ciò percepirà meglio»; § 3: «Con l’ascoltare e il ripetere frequentemente i medesimi concetti penetra nella memoria tutto il complesso delle nozioni, che si sono imparate».
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Questo secondo paragrafo è riportato nei manoscritti come segue: ἔστι δὲ τοῦτο, ἐὰν προσέχῃς τὸν νοῦν· διὰ τούτων παρελθοῦσα γνῶμα μᾶλλον αἰσθησεῖται σύνολον, ὃ ἔμαθες, «Così stanno le cose, se tu fisserai l’attenzione: passando attraverso ciò la mente meglio percepirà l’intero che hai imparato». Così stampa Fabricius 1718 e, con una piccola variazione (προσέχης), aveva stampato anche Stephanus 1570. Miglioramenti significativi si devono a Orelli 1821 (che corregge διὰ τούτω e ἁ γνώμα) e a Schanz 1884 (γὰρ ἐλθοῦσα al posto di παρελθοῦσα), ottenendo così il testo proposto da Robinson 1979, p. 140, approvato da Classen 2004, p. 121, e qui accolto. Becker – Scholz 2004, p. 90, inseriscono prima di ἐὰν anche il numerale ‹πρᾶτον› proposto da Diels 1903, ad loc., in rapporto ai successivi δεύτερον … τρίτον … [9.3] … In secondo luogo bisogna riflettere: Si segue l’economica correzione di Robinson 1979, ad loc., che consente di evitare la più impegnativa integrazione ‹πρᾶτον› al paragrafo precedente. Secondo Diels – Kranz, Untersteiner 1967, III, e Becker – Scholz 2004, ad loc., l’esito sarebbe: ἔστι δὲ τοῦτο ‹πρᾶτον› … δεύτερον δὲ μελετᾶν ... «Questo è il primo ‹vantaggio› … il secondo consiste nel meditare …». Oppure, inserendo una virgola prima di ‹πρᾶτον›: «Questa la situazione: in primo luogo … in secondo luogo …». [9.5] … Questo almeno con i nomi: Già in 5.11-12 l’Anonimo si era impegnato in un’analisi linguistica: allora si era trattato di sottolineare le variazioni di significato arrecate al singolo lessema dalla variazione della posizione dell’accento; qui l’attenzione è all’etimologia. Si osservi che, in quest’ultimo caso, sono presi ad esempio solo nomi propri. Non in contrasto con la datazione ‘alta’ è la citazione di Pirilampe, se con questo nome si rinvia all’amico di Pericle, patrigno di Platone (cfr. Trieber 1892, p. 215 n. 1). [9.6] … Per i fatti: La distinzione/opposizione tra τὤνυμα e τὸ πρᾶγμα si è ritrovata in altre parti dei Dissoi logoi, cfr. 1.11; 2.1; 3.13; 4.6; 5.1; 5.6. Certo un altro piccolo segnale di unità del trattato. Cfr. già Robinson 1979, pp. 77-81. [9.6] … ‘viltà’ ad Epeo: Come annotano i manoscritti che riportano questa parte dei Dissoi logoi, il testo si interrompe a questo punto: ἐλλιπὲς οὕτω καὶ τὸ ἀντίγραφον ὡς ὁρᾶτε P3 / σημείωσαι ὅτι τὸ ἐπίλοιπον οὐχ εὑρέθη, gli altri manoscritti. Quanto
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COMMENTO
agli esempi, se sono chiari i richiami di Ares ed Achille all’eroismo e quello di Efesto alla metallurgia, resta problematico quello di Epeo alla vigliaccheria: a meno che – come suggerisce Robinson 1979, p. 240 – non si voglia interpretare quale atto di vigliaccheria la conquista di Troia tramite il trucco del cavallo di legno escogitato appunto da Epeo.
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1968
1969 1979 1979 1995 1996 2004 2006 2007 2010 2013 2016
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INDICE ANALITICO
a posteriori, 115-118, 120, 121 Abdera, 36, 38 accento, 73, 105, 123, 127, 139, 145 accumulazione, 95 Achei, 49 aggiunta, 16, 40, 73, 123, 127, 129 allievo, 4n, 5, 10, 17-19, 28, 79, 96, 117, 118, 132, 133 amante, 53, 102, 111 amico, ix, 3n, 20, 23n, 53, 61, 77, 102, 103, 109, 110, 114, 145 antidemocratico, 135 antilogia, viii, 13n, 15 e n, 25n, 28, 114, 125, 129, 135, 144 arcaicità, 15n archetipo, 31n aretè, 10n, 140 argilla, 57 Argo, 3, 10, 49, 98, 132 armatore, 47 artigiano, 9 assennato, viii, 26, 71, 125 Atene, viii, 4n, 6, 7, 18, 19, 29, 38, 98, 105, 136, 148 Ateniesi, 1-3, 5, 6, 10, 25, 49, 98, 124, 136 atletica, 47, 98 barbaro, 5, 10, 11, 49, 63, 111 becchino, 47 bene, viii, 13, 14, 25, 26, 47, 49, 51, 53, 87, 95-97, 99-101, 129, 132, 141 bere, 47, 51, 61, 71, 100
bianco, 59 Bisanzio, 12 brachylogia, 99, 138 buoi, 59 cadavere, 55 cantiere, 47, 97 cariche pubbliche, viii, 11, 26, 27, 81, 135 catene, 61 cavallo, 55, 59, 71, 81, 91, 146 Centauri, 3, 10, 49 Ceo, 38 Cipro, 71, 124 citaredo, 77, 81 condizionale, 14 confutazione, 18, 96 conoscenza, 11, 24, 42, 85, 87, 91, 118, 132, 138, 140, 141 contrapposizione, 2, 13-15, 34n, 133 contrapposto, 13, 23, 24, 35, 39, 95, 97, 102, 104 contrasto, viii, 11, 37, 38, 47, 53, 61, 67, 95, 96, 101, 117, 120, 123, 132, 133, 135, 145 corrispondentista, 118, 121 costituzione, 22, 30, 35, 37n, 104, 136 costume, 5, 10, 102, 103 crema, 53 Crotone, 20 e n Dei, 3, 10, 49 Delfi, 63, 111
Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
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INDICE ANALITICO
democratico, 6, 135, 136 democrazia, 6, 118, 135, 136 διαλέξεις, 24, 25, 27, 96 dialettico/a, viii, 3n, 107, 115, 120, 125, 131, 138, 139 dialetto, viii e n, 1 e n, 11, 12 e n, 16-19, 25, 38, 41 e n, 42 e n dialogo, ix, 3n, 4 e n, 11, 18, 23n, 25, 39, 109, 110, 124, 125, 131, 132, 139 differenza, 14, 27n, 40n, 71, 73, 98-100, 103, 108, 118, 120-125, 130, 138, 142 disposizione, 2, 30, 32, 79, 118, 133 disputa, v, 24, 25, 27 domanda, viii, 26, 73, 89, 99, 139, 142 dorico, viii e n, 1 e n, 5, 11, 12 e n, 1619, 25, 38 e n, 41 e n, 42 e n, 96, 101, 126 dormire, 71 dossografo, 24 Egitto, 57 ἐγώ, viii, 11, 15 e n, 16, 19, 46, 48, 58 e n, 60, 62, 66, 72, 76, 82, 105 Egospotami, 5 Elide, 38 eristico, 28, 142 esperimento, 18n, 39, 101, 104, 129, 133 falsità, viii, 25, 26, 110, 115-118, 121, 122 famiglia, 21, 31n, 32, 34 e n, 35, 39, 61, 113 figlio/i, 3-10, 55, 77, 111, 116, 132 filare, 57 filosofia, 15n, 19n, 38 e n, 47, 91, 95-97, 101, 115, 140, 144 flauto, 81, 87, 141 folle, viii, 26, 71, 125 fratello, 9 genitori, 49, 55, 61, 99, 103, 108, 110, 111, 113, 133 Giganti, 3, 10, 49
giudizio, 23, 39n, 69, 95, 96, 100, 104, 105, 118, 121, 122 giuramento, 61, 110 giusto, viii, 25, 26, 61, 63, 65, 73, 87, 108-114, 117, 125, 141 gorgiano, 18, 19, 96, 104, 106, 112, 113, 125, 129 Greci, viiin, 5, 7, 10, 49, 102 Grecia, 11, 14, 18 e n, 47, 55, 57, 63, 77, 79, 105, 111 guerra, 2-7, 10-12, 38n, 47, 49, 63, 81, 98, 111 identico, 57, 67, 69, 101, 105, 115, 118120, 124-126, 141, 142 identità, 14, 23, 27, 65, 73, 101, 108, 113, 117, 119, 120, 122-126 imperfetto, 9, 10 e n, 19n, 132 incipit, 26 ingannare, 61, 63, 109, 110, 112 ingiusto, viii, 25, 26, 61, 65, 108-114, 117 iniziato, 11, 16, 18, 19, 29, 38, 67, 96, 117, 118 insegnabilità, viii, 9, 28, 129-131, 134 integrazione, vii, 26, 40, 41, 109, 113, 119, 125, 128, 139-141, 145 ipotesi, v, viii, 1-3, 8-13, 17n, 19, 25, 29, 31n, 37, 38, 111, 113, 115, 117, 129, 130, 132, 133 Joni, 55 Jonia, 55 καιρός, 56, 95, 97, 101, 102, 104, 105, 110, 111, 113, 125, 126, 128 kalokagathia, 105 Lampsaco, 3 e n, 6 Lapiti, 3, 10, 49 legge, 83, 87, 112, 136 Leontini, 38 Libia, 71, 124 Lidia, 57
INDICE ANALITICO
logico/a, viii, 1, 10, 13, 14, 20, 99, 100, 106, 107, 115, 120, 125 lotta, 3, 49, 98 Macedonia, 55 Magna Grecia, 18-20, 132 makrologia, 99 malato, 47, 51, 100 malattia, 47, 51 male, viii, 13, 14, 25, 26, 47, 49, 51, 61, 95-97, 99, 101, 110, 132, 141 mangiare, 47, 51, 71, 100 marito, 53, 57, 102, 111 Massageti, 55 matrimonio, 55 medicina, 61 medico, 20, 47 memoria, 13n, 26, 27, 41, 91, 138, 144 mendicante, 51 mentire, 61, 63, 109, 110 mentitore, 67, 115, 120 Micale, 5, 6 Mileto, 6 mina, 71 mnemotecnica, viii, 144, 149 moglie, 53, 57, 102 morte, 47, 55, 61, 65, 111, 113 mucchio, 57, 59 mulo, 55 natura, viii, 79, 85, 104, 116, 130, 131, 140 necessità, viii e n, 87, 99, 140 negazione, 13, 134 nero, 59 νίκα, 5, 7n, 10, 46, 48 e n nomophylakia, 136 nudo, 55 obiezione, viii, 4, 7, 8, 10, 135, 139 oggettivismo, 114, 115, 142 Olimpia, 63, 111 palestra, 53 paradossale, 24, 49, 98, 99
155
paradosso/paradossalità, 100, 104, 109, 113, 114, 120, 121 pazzo, 73, 123, 125 pecora, 59 pedagogico, 18 e n, 140, 141 Peloponneso, 3-6, 12n, 38n, 98, 111 per assurdo, 95, 101, 108, 113, 119, 120, 123, 125 Persiani, 3, 5, 7, 10, 11, 49, 103, 111 persiano, 18n, 79 piacere, 47, 51, 59, 65, 100, 106-108, 112, 114 pitagorico, 17-20, 29 e n, 38, 39, 96, 104, 136 Platea, 5, 6 popolo, 55, 57, 59, 83, 103, 135, 136 πρᾶγμα, 48, 52n, 56, 64, 68 e n, 70, 84, 86, 90, 96, 99, 102, 116, 123, 124, 142, 145 prigioniero, 61, 111 prostituzione, 57 pugilato, 49 ragionamento, 14, 16, 23, 51, 59, 65, 71, 75, 79, 111, 113, 115, 130 relativismo/relatività, viii, 2, 15n, 39n, 97, 117, 149 relazione, 1, 14, 18, 28, 99, 105, 121, 123, 124, 138 retorico/a, viii, 1, 11, 13, 18n, 19, 24, 38-40, 101, 104, 106, 107, 117, 125, 131, 135, 138-140 ricordo, 26, 91 sacrilegio, 108 saggezza, 9, 71, 77, 91, 123, 129, 131133, 144 sano, 47, 100 sapienza, viii, 9, 18, 25-27, 77, 115, 123, 129, 130, 134, 142 Scetticismo, 23 scettico, 21, 23n, 39 schiavitù, 103 schiavo, 55, 61
156
INDICE ANALITICO
scultore, 3, 5, 7, 8, 132 scuola, 3, 11, 17 e n, 18 e n, 19, 28, 29, 38 Sicilia, 38 e n, 55 sofista, viin, 1, 9 e n, 15n, 17 e n, 23, 28, 29, 36, 77, 79, 105, 115, 126, 129133, 138-140, 144 sofistico, viii, 1, 11, 14, 15, 18-20, 28, 29, 35-39, 96-98, 104, 115, 127, 130, 131, 133, 135, 138, 140, 142 sorella, 55 sorteggio, viii, 6, 11, 26, 27, 81, 135, 136 sottrazione, 73, 123, 127 spada, 61 Sparta, 7, 55, 59, 98 Spartani, 2, 3, 5, 10, 49, 98, 111 stemma, 21 e n, 22 e n, 31 e n, 32, 34, 35 stemmatico, v, vii, 21, 22 e n, 30, 39, 41 struttura, 2, 13 e n, 24, 28, 105, 123, 124, 129 subarchetipo, 21, 31n, 39, 40 talento, 71, 133 Tanagra, 3, 5, 6, 98 Taranto, viii, 18-20, 38 e n tatuaggio, 55, 103 Tebe, 3, 10, 49, 98 tecnica, viii, 15, 85, 97, 106, 115, 125, 130, 131, 135, 138-142 tempio, 67, 111
terminus, 3 e n, 4, 12 teschio, 55 Tessaglia, 55 Tracia, 55 tradizione, v, 1-3, 11, 12, 14, 15n, 19n, 20-22, 30 e n, 31, 33, 34, 37, 41n, 55, 103, 118, 136 traduzione, v, vii, 14, 35-37, 101, 102, 104, 119 tragedia, 98, 106, 112 tragico, 63 tribunale, 67, 117, 118 Troia, 10, 49, 146 Troiani, 49 trucco, 59, 146 turpe, viii, 10, 16, 25, 26, 53, 55, 57, 59, 99, 101-106, 109, 113 unità, 5, 15, 26, 28, 30, 91, 127, 132, 134, 144, 145 vantaggio, 41, 77, 110, 131, 135, 145 verità, viii, 25, 26, 59, 65, 67, 69, 85, 87, 101, 106, 108, 109, 112, 115-119, 121, 122, 126, 138, 142 viltà, 91, 145 virtù, 9, 25-28, 35, 77, 105, 123, 129-134, 141 vittoria, 3, 5 e n, 7, 10, 47, 49, 98 vocalismo, 18n, 38n
INDICE DEI PASSI CITATI
Apollonio 3.6-7: 111 Aristotele Athen. Pol. 3.6: 136; 4.4: 136; 8.4: 136; 25.2: 136; 30.3: 136; 50.2: 136 Cat. cap. 1: 119; 4a 23-b 13: 115, 116 EN 1110a 1-10: 111; 1134a 16: 112 Gen. et corr. 2.9-10: 119 Metaph. 1004b 1-3: 116; 4.4: 115, 116; 1027b 25-27: 116; 1104b 17-22: 115; 1151b 33: 117 Phys. 2.7: 119; 5.1-2: 119 Poet. cap. 9: 107 Pol. 1287a 21 ss.: 136; 1298b 29 ss.: 136; 1322b 39 ss.: 136 Rhet. 1355b 15-20: 107; 1402a 24-28: 96, 143; 1939b 4-8: 135 Soph. el. 166b 37: 128; 166b 37 ss.: 128; 166b 37-167a 4: 114; 169b 10: 128; 180a 34-b 7: 114; 183b 36-184a: 143 Top. 178b 25-28: 115
[Aristot.] De. Mel. Xen. Gorg. 979a 12-14: 100 Cicerone Brut. 12.46: 15n, 96, 143 Clemente Alessandrino Strom. 6.65: 15n; 6.65.1: viiin, 96, 143 Deichgräber fr. 281: 23n Diogene Laerzio 2.16-17: 3; 2.20: 128; 2.108: 120; 2.122-123: 25; 3.37: 15n, 96, 143; 3.57: 15n, 96, 143; 8.34: 136; 9.51: 23n, 96, 142; 9.106: 23n Elio Aristide or. 46.311-2: 131 Empedocle fr. 8.1 DK: 15n; fr. 17.1 DK: 15n; fr. 17.16 DK: 15n; fr. 35 DK: 15n; fr. 38.1 DK: 15n Eraclito fr. 50: 97; fr. 51: 97; fr. 53: 97; fr. 61: 97; fr. 67 DK: 97
Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
158
INDICE DEI PASSI CITATI
Erodoto 1.29: 130; 1.93.12-18: 103; 1.216: 103; 1.216.2: 103; 2.2: 18n, 133; 2.35: 103; 3.31: 103; 3.38: 104; 3.38.3-4: 103; 4.26: 103; 4.6566: 103; 4.95: 130; 5.6.2: 103; 5.36: 111; 7.101.3: 107; 7.152: 104; 68: 103; 88: 103 Eschilo fr. 601 Mette (= fr. 3 Aesch. 301302 Radt): 62, 112 Euripide Antiope fr. 189 Nauck 2 / Kannicht: 96; fr. 206 Nauck 2 / Kannicht: 116 Orest. 416: 111 Filostrato Vit. Soph. 1.482: 143 FragVors 29A29: 103; 80A20: 15n, 96, 143; 80A21: 96, 143; 80B5: 96; 80B6: 96, 143; 80B6b: 96, 143; 82A1a: 143; 82B5a: 103; 82B11a19: 110; 82B14: 143; 82B23: 106, 112; II, p. 405: 33; 90, II, p. 405 n.1: 4 Giamblico Vita Pyth. 36.267: 132 Gorgia Autodifesa di Palamede DK 82B11a, 18-19: 102; DK 82B11a, 19: 110 De Mel. Xen. et Gorg. 6.23: 130 Encomio di Elena 8-10: 106; 10: 107
Il non essere o la Natura 84: 116 IEG fr. 2 West: 62, 112 Ippia
DK 86B6: 130; DK 86C2: 133
Ippocrate de diaet. 24: 112 Isocrate Areop. 23: 136 Helen. 1: 96 Laks – Most 9D46: 97; 9D48: 97; 9D49: 97; 9D64: 97; 9D78: 97; 19D7: 124; 20D12a-b: 104; 31D11: 133; 31D18: 96, 143; 31D23: 127; 31D24: 127; 31D25: 127; 31D27: 15n, 96, 143; 31D28: 143; 31D38: 96; 32D4: 143; 32D11a: 143; 32D25: 102; 32D25, 19: 110; 32D30a-b: 103; 32D35: 106, 112; 36D22: 130; R1a, R1b: 96, 143 Lisia Orat. 16 11n; 25: 11n; 26: 11n; 31: 11n Parmenide fr. 2.1 DK.: 15n; fr. 7.50 DK: 15n; fr. B 6 DK: 124 Platone Alcib. I 111a: 133 Crat. 384b: 127; 385d-e: 133; 391b-c: 126; 409b: 132; 409b 6: 3n; 416d-421d: 126; 417b: 126;
INDICE DEI PASSI CITATI
418a: 126; 418 c: 126; 419a-b: 126; 432a: 127
Crit. 49a-e: 109 Euthyd. 273d-274a: 132; 277e: 127; 283c284b: 124; 286e-287d: 121; 293c-297d: 138 Gorg. 449b: 142; 474c-479e: 109; 491a: 136; 501e-503a: 107 Hipp. Maior 285d: 127 Hipp. Minor 368d: 127, 144 Men. 89b: 142; 89d: 129; 95c: 133 Parm. 126a-b: 132 Phaed. 61d: 17; 99e: 142; 100d: 118; 105c: 118 Phaedr. 267c: 99 Protag. 312b-313c: 132; 316d: 131; 317c: 131; 319a: 28; 328c: 3, 6, 9, 132; 329b: 99, 139, 142; 334e-335c: 99, 142; 338e-339A: 99 Resp. 332d-335e: 109; 607c: 107 Soph. 232a-233b: 138; 234c: 142 Theaet. 146d-147b: 17, 25; 152d: 124; 155bc: 124; 170e-171c: 121; 180d: 25; 201b-c: 118 [Platone] Su ciò che è giusto = de iust. 373b-d: 109; 373d: 109; 374d: 110; 375a: 110, 125 Plutarco Mor. 348c = de gloria Athen. 5: 106, 112
159
Sept. sap. convivium 148c-d: 112 P rotagora (riportati anche sotto FragVors) DK 80A20: 143; DK 80A27: 127; DK 80A28: 127, DK 80A29: 127; DK 80B3: 133; DK 80B5: 143; DK 80B6: 143; DK 80B6b: 143; 80A21: 143 Seneca ep. 88.43: 15n, 96, 143 Senofonte Inst. Cyri 1.6.26-35: 109 Memor. 1.2.37: 136; 4.2.14-18: 110 Sesto Empirico adv. Eth. 64-67: 127; 66: 128 adv. log. 1.65: 100 Lineamenti Pirr. 1.8: 23 Simplicio Phys. 1108, 18: 103 Strabone 1.1.10: 107; 1.11.513: 103 TrGr F II adesp. fr. 26 Kannicht / Snell: 56, 104 TrGr F III Aesch. 301-302 Radt (= 601 Mette): 62, 112 Tucidide 1.21.1: 107; 1.22.4: 107; 1.121: 111; 1.143: 111
INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Achille, 91, 146 Agamennone, 111 Alcmeone, 20 e n, 63, 111 Anassagora, 3 e n, 9-11, 77, 131, 132, 139 Anassagorei, 3 e n, 9 e n, 10 e n, 76 Anfiarao, 111 Antifonte, 1, 14, 39n, 97 Apollonio, 111 Archelao, 3 Archita, 12n, 20 Ares, 91, 146 Aristotele, 1, 13n, 15n, 20, 96, 107, 111, 112, 114-116, 119, 123, 125, 128, 135, 136, 139, 140, 143 Bailey D. T. J., 23n, 119, 120, 148 Banfi A., 136, 148 Barnes J., 97, 148 Barthes R., 140, 148 Baumlin J. S., 150, 151 Bearzot C., 136, 148 Becker A., vii, 3 e n, 4 e n, 10n, 14 e n, 16n, 17n, 22n, 25n, 26 e n, 27, 29, 37 e n, 38-42, 45, 97, 101, 102, 105, 106, 113, 121-123, 126, 133, 134, 141, 145, 148 Bergk T., 17 e n, 28, 148, 151 Blass F., 17 e n, 22, 41 e n, 102, 105, 113, 127, 139, 149 Blum H., 144, 149 Bonazzi M., vii, 36, 101, 148 Bourriot F., 105, 149
Branchida, 111 Burnet J., 4n, 149 Burnyeat M. F., 1n, 149 Caligola, 12n Callia, 6, 7, 14 Cambiano G., 9 e n, 132, 149 Capizzi A., 4n, 149 Castagnoli L., 15n, 120, 149 Caston V., 149, 150 Cattanei E., 149 Charone, 6 Christ W., 8n, 149 Cicerone, 15n, 96, 143 Ciro, 109 Classen C. J., vii, 16n, 22n, 37 e n, 40, 41, 99, 100, 102, 105, 106, 113, 121, 126, 133, 139, 145, 149 Clemente Alessandrino, viiin, 15n, 96, 143 Cleobuline, 63, 112 Clitennestra, 111 Cobet C. G., 149 Conley T., 11, 12 e n, 149 Creso, 111 Crisippo, 91 Damaste, 6 Dario I di Persia, 109 Decleva Caizzi F., 36, 147 Deichgräber T., 23n Dèmade, 137 De Maio R., 34n, 149
Stefano Maso, Dissoi Logoi. Edizione criticamente rivista, introduzione, traduzione, commento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018 ISBN (stampa) 978-88-9359-225-3 (e-book) 978-88-9359-226-0 – www.storiaeletteratura.it
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Demetrio Falereo, 136 De Sanctis G., 136, 137, 149 Diels H., vii, 3n, 4, 17n, 20, 22-24, 2628, 30-38, 40-42, 45, 99, 100, 102, 106, 109, 112, 113, 119, 121, 125, 126, 128, 130, 133, 134, 138, 140, 141, 144, 145, 147, 149, 151, 152 Diogene Laerzio, 3, 15n, 23-25, 33n, 96, 120, 128, 136, 142, 143 Dioniso di Mileto, 6 Dionisodoro, 132, 138 Dumont J.-P., 24n, 36, 148 Dupréel E., 125, 127, 129, 135, 138, 139, 149 Ecateo, 6, 111 Efesto, 91, 146 Efialte, 136 Egisto, 111 Elena, 106, 107 Elio Aristide, 130 Ellanico, 103 Empedocle, 15n Enesidemo, 23n Epeo, 91, 145, 146 Epicarmo, 41n Eraclito, 14, 97 Eratostene, 107 Erifile, 111 Ermogene, 126 Erodoto, 6, 10, 18 e n, 39, 98, 103, 104, 107, 111, 130, 133 Eschilo, 3, 11, 62, 63, 98, 112 Eteocle, 98 Eubulide, 104, 120 Euclide, 28, 121 Eumetis, 112 Euripide, 96, 111, 116 Eustacchi F., 95, 104, 149 Eutidemo, 110, 132, 138 Evagora I, 124 Fabricius J. A., 11n, 12n, 17n, 23n, 34, 35n, 126, 145, 147
Fedro, 99 Fermani A., 149 Filocoro, 136 Filolao, 17 Filostrato, 143 Focione, 137 Foucault M., 102, 149 Franco C., viin, ix, 8n, 37, 148 Friedländer P., 149 Gale Th., 147 Gardella M., 15n, 114, 149 Gerth B., 10n, 150 Giamblico, 20n, 132 Giannantoni G., vii, 8n, 35, 148, 149 Gomperz H., 8n, 13n, 15n, 28, 121, 127, 130, 149 Gomperz Th., 8n, 149 Gorgia, 1, 14, 19, 20, 37-39, 100, 102104, 106, 107, 109, 110, 112, 116, 122, 129, 130, 143 Graham D. W., 36, 42, 148-150 Gruppe O., 12n, 150 Guthrie W. K. C., 19n, 29, 96, 124, 129, 150 Hageladas, 4-7 Harris W. V., 131, 150 Huffman C., 20n, 150, 152 Ippaso, 20 e n Ippia, 1, 19 e n, 28, 38, 96, 119, 127, 129, 130, 133, 136, 138, 139, 144 Ippocrate, 112 Isnardi Parente M., 104, 135, 150 Isocrate, 96, 105, 136 Kannicht R., 56, 96, 104, 116, 149 Kent Sprague R., 36, 148 Kerferd G. B., 129, 134, 150 Kinneavy J. L., 104, 150 Kneale M., 119, 150 Kneale W., 119, 150 Koen G., 17n, 28, 29n, 150
INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Kranz W., vii, 3n, 4, 17n, 20, 22, 24 e n, 28 e n, 30, 35-37, 40-42, 45, 99, 102, 106, 109, 112, 113, 121, 126, 130, 133, 141, 145, 147, 149-152 Kühner R., 10n, 150 Laks A., vii, 10n, 17n, 20n, 22n, 35n, 36, 37 e n, 40 e n, 41 e n, 42, 45, 101, 103, 112, 113, 121, 126, 148 Levi A., 28 e n, 117, 127, 140, 142, 150 Levine Gera D., 18n, 104, 133, 150 Lisia, 11n Luria S., 19n, 150 Maier H., 127, 150 Manuwald B., 4n, 150 Marco Aurelio, 23n Martínez Fernandez I., 15n Mau I., 21 e n, 30, 148 Mazzarino S., viii, 4-11, 18n, 97, 98, 118, 132, 133, 150 Meibom M., 17n, 147, 150 Mette, 112 Migliori M., 36, 149 Μίλτας, 17 e n, 66n Μίµας, 17 e n, 66n, 118 Miralles C., 131, 150 Moreno Moreno D., viiin, ix, 9n, 13 e n, 15n, 19n, 20n, 28n, 29, 96, 116, 118, 132, 138, 144, 150 Most G., vii, 10n, 17n, 20n, 22n, 35-37, 40-42, 45, 101, 103, 112, 113, 121, 126, 148 Mullach F. W., 17 e n, 28, 29n, 35n, 41, 102, 106, 147 Μύστας, 66 Musti D., 20n, 150 Mutschmann H., 21 e n, 22 e n, 30-34, 39, 45, 147, 150 Natali C., ix, 13n Nauck A., 96, 116 Neopitagorici, 17n Nestle W., 8n, 28, 151, 152
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North J., 17n, 25-27, 35n, 103, 123, 126, 147, 150 Orelli J. C. von, 12n, 17n, 35n, 121, 140, 145, 147 Oreste, 63, 111 Palamede, 110 Paralo, 3, 4, 7, 9 Parmenide, 15n, 124 Pericle, 3, 4 e n, 7, 9, 105, 145 Pinjuh J.-M., 119, 151 Pio IV, 34n Pirilampe, 91, 145 Pitagora, 3, 9-11, 77, 131, 132 Pitagorici, 9, 10n, 20, 76 Platone, 1, 3-9, 11, 12, 14, 15, 17 e n, 18, 20, 25, 28, 39 e n, 99, 105, 107, 109, 118, 119, 121, 124-127, 129, 131-133, 135, 136, 138, 139, 142, 144, 145 Plutarco, 23n, 106, 112 Pohlenz M., 28, 119, 151 Policleto, 3-10, 77, 132 Polinice, 98 Polito M., 148, 151 Pontani F., ix Poulakos J., 104, 151 Prodico, 38, 127 Protagora, viii e n, 1, 4n, 14, 15 e n, 20, 23, 29, 36-38, 96, 97, 99, 124, 127, 129, 131, 133, 139, 142, 143 Psammetico, 18n, 133 Pseudo-Aristotele, 100 Pseudo-Platone, 109, 110 Radt S., 62, 112, 151 Ramelli I., 36 Reale G., 36, 148 Robinson T. M., vii, viii, 4, 6-12, 17-19, 21n, 22 e n, 29-32, 34-42, 45, 97-107, 109, 111-113, 118, 121, 122, 124130, 132-136, 138-141, 144-146, 148 Rohde E., 134, 151
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Roochnik D., 129, 130, 151 Rossetti L., 6n, 15n, 28n, 29, 38n, 121, 135, 136, 151 Rostagni A., 18n, 19 e n, 29, 104, 118, 136, 151 Santippo, 3, 4, 7, 9 Schanz M., 22, 41, 99, 145, 151 Schiappa E., 15n, 151 Schmid W., 123, 151 Scholz P., vii, 3 e n, 4 e n, 10n, 14n, 16n, 17n, 22n, 25-27, 29, 37-42, 45, 97, 101, 102, 105, 106, 113, 121-123, 126, 133, 134, 141, 145, 148 Schulze W., 99, 151 Segal Ch., 106, 151 Seneca, 15n, 96, 143 Senofane, 18n Senofonte, 109, 110, 136 Sesto di Cheronea, 11n, 23n Sesto Empirico, 12, 21-24, 30n, 32n, 33, 39, 100, 127, 128 Settis S., 150, 151 Sichirollo L., 125, 151 Σιµµίας, 17, 66n Σίµων, 17, 25, 66n Simplicio, 103 Sincello G., 3n Sipiora Ph., 150, 151 Socrate, 3, 7, 28, 36, 39, 99, 107, 109, 110, 116, 118, 129, 132, 135, 136, 139, 142, 144 Solana Dueso J., 29, 36, 148 Stählin O., 123, 151 Staveley E. S., 11n, 135, 151 Stephanus H., 17 e n, 25-27, 32 e n, 33n, 34, 46n, 96, 102, 118, 123, 129, 145, 147
Strabone, 103, 107 Straniero, 138 Talamo C., 151 Taylor A. E., 13n, 28, 104, 151 Taylor C. C., 4n, 151 Teeteto, 138 Teichmüller G., 17, 25-27, 35n, 129, 138, 147 Thiersch F. W., 151 Timpanaro Cardini M., 35, 147 Trabattoni F., 36, 148 Tribulato O., ix, 41n Trieber C., vii, 8n, 12n, 22 e n, 28n, 29n, 31, 32, 34 e n, 138, 145, 152 Tucidide, 4, 5, 10, 11 e n, 39, 107, 111 Untersteiner M., viii, 4 e n, 6-8, 10n, 19 e n, 24n, 28 e n, 36, 40 e n, 41n, 96, 99, 102-104, 106, 109, 112, 113, 121, 122, 124, 125, 127-130, 132-134, 136, 138, 139, 141, 144, 145, 147, 152 Valckenaer L. C., 28, 29n, 152 Varis M. de, 17n, 34 e n, 39, 41, 45, 99 Weber E., vii, viiin, 17n, 22 e n, 30-34, 40-42, 102, 105, 113, 127, 147 West M. L., 112, 152 Wilamowitz-Moellendorff U., 9n, 17n, 32, 102, 126, 152 Xantho, 6 Zeller E., 15n, 28, 152 Zeppi S., 97, 152 Zeuxis, 23n Zhmud L., 20n, 152