Dalla paura alla parola. Emozioni e linguaggio 8857556018, 9788857556017

Le parole rappresentano la fantastica meraviglia che consente di scoprire mondi interni ed esterni, e sono i romanzi - o

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Table of contents :
Indice
Frontespizio
Prefazione di Franco Lo Piparo
Prologo
1. Nel continente. "Linguaggio ed emozioni"
1.1 Nel paese degli Acchiappa-citrulli
1.2 Nel villaggio di chi parla
1.3 Nel downtown del corpo
1.4 Nel giardino dove nasce e si sviluppa il linguaggio
2. Come mi muovo. Così dialogo
2.1 Patisco e mi muovo
2.2 Evolvo e allora dialogo
2.3 Come mi muovo così chiacchiero
2.4 Uso un vocabolario di movimenti, atti e azioni
3. Una vita emotiva, una vita di dialoghi
3.1 In campo le emozioni
3.2 Il terreno delle emozioni
3.3. L’habitat di emozioni e linguaggio
3.4 Emozioni e linguaggio nell’ambiente
4. Dialogare è fare e far fare
4.1 Dialogo: prendono vita oggetti, movimenti, atti e azioni
4.2 Dialogo: prendono vita i concetti
4.3 Dialogo: prendono vita le emozioni
4.4 Dialogo: i concetti vengono messi a terra
Bibliografia
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Dalla paura alla parola. Emozioni e linguaggio
 8857556018, 9788857556017

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MIMESIS / SEMIOTICA E FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

N. 25 Collana diretta da Felice Cimatti (Università della Calabria) e Claudia Stancati (Università della Calabria) COMITATO SCIENTIFICO Franco Lo Piparo (Università di Palermo) Katia Velmezova (Université de Lausanne) Patrick Seriot (Université de Lausanne) Claire Forel (Université de Genève) Stefano Cracolici (Durham University) Christian Puech (Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3) Daniele Gambarara (Università della Calabria) Francesca Piazza (Università di Palermo) Il testo contenuto in questo volume è stato valutato con il sistema double-blind peer review

Maria Grazia Turri

DALLA PAURA ALLA PAROLA Emozioni e linguaggio Prefazione di Franco Lo Piparo

MIMESIS

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Semiotica e filosofia del linguaggio, n. 25 Isbn: 9788857560564 © 2019 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383

Franco Lo Piparo

PREFAZIONE Il libro di Maria Grazia Turri che avete tra le mani ha come sottotitolo Emozioni e linguaggio. Vi introduco all’argomento e alla lettura con alcuni motti di spirito. ‘Motto di spirito’ è il calco del francese mot d’esprit che a sua volta è la traduzione della parola tedesca Witz usata da Freud. Il termine compare già nel titolo di uno dei testi fondanti della psicoanalisi: Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (1905). Sono contraria ai rapporti prima del matrimonio … … perché fanno arrivare tardi alla cerimonia. Cos’è una penisola? È il maschio dell’isola. Chi era Riccardo Cuor di Leone? Il primo caso di trapianto della storia. Due Witze analizzati da Freud: Nel mezzo di una discussione sulla vanità di un uomo politico uno dei presenti osserva: Sì, la vanità è uno dei suoi quattro talloni d’Achille. Un modo elegante per dire che il politico di cui si parla è un quadrupede. Sua Altezza Serenissima fa un viaggio attraverso i suoi Stati e nota tra la folla un uomo che gli assomiglia in modo straordinario. Per togliere dall’imbarazzo i presenti Sua Altezza fa venire al suo cospetto il suddito e gli chiede a voce alta: Vostra madre è stata a servizio a Palazzo, vero? Risposta del suddito: No, Altezza, ma c’è stato mio padre. Sua altezza e il povero suddito stanno dicendo l’uno all’altro cose terribili sulle loro rispettive madri: Tua madre è una gran … buona donna! Le stanno dicendo senza dirle. Il senso dell’interazione verbale lo afferriamo perché il non-detto emozionale si mostra nelle parole dette.

In tutti e cinque i casi ridiamo. La prima osservazione che viene da fare è che è impossibile sganciare il ridere dalle parole che provocano il riso. Noi ridiamo con le parole. La medesima considerazione si può estendere alla paura (chi non ricorda le trepidazioni e le ansie con cui ha ascoltato o letto alcuni racconti) o alle passioni politiche ed erotiche (è impossibile separarle dai discorsi in cui e con cui rappresentiamo i loro attori). Si potrebbe continuare. La conclusione è una costatazione che è impossibile confutare: l’emotività umana vive di parole e con parole. La tesi di Maria Grazia Turri è ancora più radicale: il linguaggio umano è radicato nella emotività. Come dire: ridiamo, piangiamo, gioiamo, nutriamo passioni politiche ed erotiche, e altro ancora, perché il riso, il pianto, la gioia, la passione ideologica, la sessualità, si formano e si praticano negli umani insieme con le parole. È un tema affascinante che le più importanti scuole linguistiche del Novecento (Saussure, strutturalismi, grammatiche generative) hanno trascurato o posto ai margini dei loro interessi. Il disinteresse non è casuale. Nasce da due postulati tra loro connessi: (1) il linguaggio nasce e si forma con l’esercizio della razionalità; (2) il corpo dei parlanti è inessenziale ai fini dell’attività del parlare. Dalla paura alla parola è anche un esame critico delle numerose ricerche che negli ultimi decenni sono state condotte fuori e/o contro i due postulati. Alle analisi di Turri aggiungerò una possibile spiegazione aristotelica del miscuglio inestricabile di parole ed emozioni. Aristotele non è molto citato da chi si occupa dell’argomento. Dopo il libro di Antonio Damasio Looking for Spinoza (2003) il filosofo anticartesiano di riferimento è in letteratura Spinoza. Turri, andando controcorrente, fa entrare spesso nella scena del dibattito il filosofo di Stagira e questo è anche uno dei meriti del libro. Una buona conoscenza della filosofia di Aristotele potrebbe essere utile ai contemporanei

scienziati della cognitività. Aristotele ci ha lasciato la prima e forse la più completa teoria di ciò che è un corpo. A uno dei libri dove se ne parla chi, nel primo secolo dopo Cristo, ha dato ordine alle sue opere ha attribuito un titolo fuorviante. Mi riferisco al De anima. Se si ha la pazienza di leggerlo senza pregiudizi si scopre che argomento del trattato sono i corpi. Il titolo avrebbe dovuto essere De corpore. Accenno per sommi capi a un aspetto che integra le analisi di Turri. Cosa distingue un corpo inanimato come il tavolo o la pietra dal corpo di un qualsiasi animale, umano e non umano? La aísthesis “sensazione”. Non però la aísthesis come percezione. La percezione intellettualistica la posseggono anche il termostato e i robot. Ciò che è proprio di un animale è la sensazione del piacere e del dolore. «Là dove c’è aísthesis c’è anche piacere e dolore» (DA1 414b 4). Gli animali si rapportano al mondo tramite il filtro del piacere e del dolore. È ciò che distingue la ricerca dell’acqua da parte di un assetato dalla ricerca che ne fa un robot chimico capace di identificare l’acqua in mezzo a mille altri liquidi: il primo deve alleviare il dolore della sete, il secondo deve risolvere un problema intellettuale. Sembra un’osservazione da poco, è invece l’avvio di uno svolgimento teorico da capogiro e straordinariamente attuale. Se ciò che muove il corpo di un animale è la ricerca del piacere e la fuga dal dolore, quel corpo è anche governato dal desiderio (órexis o epithumía nella lingua greca) del piacevole. «Se l’animale è dotato di aísthesis è anche animale che desidera (orektikón) (…); dove c’è aísthesis c’è anche piacere e dolore e dove c’è piacere e dolore c’è anche pulsione [epithumía] dal momento che il desiderio [órexis] è desiderio del piacevole» (DA 414b 1-6). Il nostro scienziato cognitivista del IV secolo a. C. non si ferma qui. Perché ci sia desiderio è necessario che l’animale che desidera sia capace di rappresentarsi la meta che desidera raggiungere e dalla

quale si attende che il suo desiderio venga appagato: «un animale non può desiderare senza immaginazione o rappresentazione mentale [áneu phantasías]» (DA 433b 28-29). Ecco la cellula somato-affettiva-cognitiva dell’animalità, umana e non umana: aísthesis-órexis-phantasía “piacere/doloredesiderio-rappresentazione mentale”. Che senso avrebbe porre il problema delle emozioni a un corpo che nasce in questo modo? La cellula aristotelica consente di fornire un punto di vista inedito al problema della coscienza. La coscienza non si aggiunge dall’esterno ma non può non essere contenuta nella cellula. Si può avere sensazione del piacere e del dolore senza esserne coscienti? Che diremmo di frasi come queste: Provo un grande piacere ma non lo so oppure Ho un fortissimo mal di denti ma non lo so. Sono frasi che descrivono delle impossibilità. Piacere e dolore si accompagnano sempre alla coscienza del piacere e del dolore. L’aísthesis del piacere e del dolore è quindi la modalità embrionale e aurorale della coscienza: «essi [i viventi] per il fatto che sentono o possono sentire sanno2 di vivere e di essere» (De generatione et corruptione, 318b 24-25). E gli animali umani? Il corpo umano aggiunge alla cellula aísthesis-órexis-phantasía un fattore nuovo assente nella affettività e cognitività degli altri animali: il logos: «l’uomo è l’unico animale [zoon] che ha logos [logon échei]» (Politica 1253a 910). Il logos non è la razionalità. Tutti gli animali hanno una loro specifica razionalità ma nessuno, salvo l’uomo, ha il logos. Se non avessero intelligenza non sopravviverebbero e non potrebbero affrontare i tanti problemi che incontrano nel loro specifico mondo. Il logos è il linguaggio e quella specifica razionalità e socialità (la polis) che si possono avere solo con l’uso delle parole. Il logos così inteso non è sganciato dalla cellula aísthesisórexis-phantasía. Ne è una continuazione e una complicazione. Con la comparsa del logos la aísthesis del piacere/dolore, il desiderio, la rappresentazione mentale in qualche modo si

linguisticizzano: « il sentire (aisthánesthai) è simile al semplice dire (phánai) e pensare (noeín). Quando persegue ciò che è piacevole e fugge ciò che è doloroso è come se dicesse sì (kataphása) o no (apophása): il provare piacere o dolore equivale infatti ad agire tramite la sensorialità in riferimento al bene e al male in quanto tali» (DA 431a 8-12). «Quello che nel ragionamento (en dianoía) sono il dire sì (katáphasis) e il dire no (apóphasis), nel desiderio sono il perseguire e il fuggire » (Ethica Nicomachea 1139a 2122). «La pulsione (epithumía) dice (légei): ‘debbo bere’; la sensazione (aísthesis) o il pensiero (nous) dicono (eípen): ‘questa è una bevanda’; allora subito si beve» (De motu animalium 701a 3233). Negli animali che parlano l’universo delle passioni viene filtrato dalle parole: desidero questo o quello ma non do seguito al mio desiderio perché Dio, la Patria, il Socialismo, la Morale, il medico, mia madre, eccetera, mi dicono di non farlo. Oppure: Dio, la Patria, eccetera, mi dicono che quel desiderio non va bene ma io non ne tengo conto. Il logos produce nuove bussole con cui le passioni debbono fare i conti: il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, il vero e il falso, ad esempio. Con la comparsa del logos le passioni sono irretite in ragionamenti verbali, non necessariamente dette in forma esplicita. È importante registrare che il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, il vero e il falso sono, nella prospettiva aristotelica, connesse non solo col logos ma anche con l’aísthesis: l’uomo è l’unico animale a possedere la «aísthesis del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, e di altre ancora» (Politica 1253a 16-18). L’uso del termine aísthesis (tradotto spesso in questo passo con ‘sentimento’) in riferimento alle coppie bene/male, giusto/ingiusto, vero/falso segnala che anche in questi casi più intellettualistici non è assente il coinvolgimento affettivo: «Coloro che co-sentono (sunaisthanómenoi) ciò che è bene per se

stesso ne traggono piacere (édontai)» (Ethica Nicomachea 1170b 4-5). Che il parlare e il ragionare con le parole siano in continuità con l’aísthesis, Aristotele lo dice in vari luoghi non sempre adeguatamente valorizzati dagli interpreti e dalle traduzioni: «Sembra che il pensare (noeîn) e il comprendere (phroneîn) siano una specie di sentire (aisthánesthai); in entrambi infatti l’anima discrimina (krínei) e conosce (gnorízei) qualcuna delle cose che sono e del resto gli antichi affermano che comprendere e sentire siano la stessa cosa» (DA 427a 19-26). «Il pensare (noeîn) è come il sentire (aisthánesthai)» (429a 13-14). Dovrebbe essere abbastanza per pensare Aristotele come contemporaneo dei moderni filosofi e scienziati che popolano Dalla paura alla parola. Un ultimo e conclusivo passaggio aristotelico molte volte citato da Maria Grazia Turri. È una potentissima definizione di animale umano, oscurata da pessime traduzioni, che da sola fa giustizia delle interpretazioni intellettualistiche e raziocinanti della filosofia aristotelica. Si trova nell’Ethica Nicomachea: l’uomo è contemporaneamente mente che desidera (orektikòs nous) e desiderio che ragiona (órexis dianoetiké). La definizione continua con una immagine geometrica che dà la chiave di come bisogna intendere la relazione tra emozioni e linguaggio: desiderio [órexis, epithumía] e ragionamento verbale [nous, diánoia, logos] sono come le parti concava e convessa di una linea curva: diversi nella definizione ma inseparabili in natura (1139b 4-5). Maria Grazia Turri conclude il suo viaggio teorico parafrasando Rousseau: «il linguaggio umano ha un gran debito verso le passioni». Vale aristotelicamente anche il contrario: le passioni umane hanno un gran debito verso il linguaggio. Passioni e linguaggio, nell’animale umano, sono inseparabili. Per rendere visivamente il nesso bidirezionale Aristotele ricorreva alle parti concava e convessa della linea curva. Noi possediamo una

immagine topologica altrettanto forte: il nodo Borromeo. La sua caratteristica è che ciascuno dei suoi anelli, pur restando autonomo, non è separabile dagli altri. Provate a staccarne uno solo e tutta la catena collassa: simul stabunt vel simul cadent. Diversamente accade in una normale catena di anelli come, ad esempio, la catena dei giochi olimpici. Aggiungete ai due anelli delle Passioni e del Linguaggio anche l’anello del Mondo specifico umano che si chiama Polis e ottenete l’immagine topologica della ricerca di Maria Grazia Turri:

L’immagine è anche un programma di ricerca. 1 D’ora in poi userò la sigla DA come abbreviazione di De anima. 2 Traduco con una certa libertà il verbo nomízousin: «pensano» nel senso di un pensare non teoretico ma operativo e irriflesso.

PROLOGO Credo di essere una persona che ha L’abito di piume, come recita il titolo di un romanzo di molti anni fa di Banana Yoshimoto, e penso che questa sia la ragione per cui le parole che vengono pronunciate me le ricordo per lungo tempo, anche se non sono indirizzate a me. Mi ricordo il tono della voce, i singoli vocaboli, la sequenza delle locuzioni. Vengo ferita o fortificata anche se chi parla non si rivolge a me. Le parole mi segnano. Ho iniziato a sette anni a divorare parole. Mettevo da parte le dieci lire, datemi da mamma e da nonna per i gelati di “gesso”, quelli con lo zucchero e il bianco d’uovo rappreso, ormai da tempo scomparsi. Con i risparmi così accumulati andavo dal giornalaio e compravo romanzi. Divoravo parole, senza alcun criterio. Inseguivo la gamma delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti che provavo e andavo alla ricerca di nuove dimensioni affettive. Mi immedesimavo nelle storie e nei personaggi. Le parole rappresentavano la fantastica meraviglia che mi consentiva di scoprire mondi interni e mondi esterni e così sono cresciuta nella convinzione che i romanzi, più che i saggi, siano il luogo in cui i comportamenti sono meglio analizzati, dove le sfumature fanno le differenze e costituiscono lo stile del personaggio, reale o fittizio. E tanto più un romanziere è raffinato nell’uso delle parole tanto più è in grado di esprimere la raffinatezza delle dimensioni affettive degli umani, in ogni tempo e a ogni latitudine. Così ho sviluppato un istintivo interesse per le espressioni affettive e per l’uso delle parole che ciascuno di noi fa. Ma mentre non ho avuto alcun timore a scrivere di emozioni, sono sempre stata molto cauta nello scrivere saggi che riguardassero la struttura linguistica. Ho sempre considerato “la filosofia del linguaggio” un ambito complicato, nel quale mi sento

strutturalmente molto impreparata, anche se qua e là qualche tentativo di affrontare tematiche attinenti ho provato a compierlo, sempre però schermata o dalla filosofia dell’economia o dall’ontologia sociale. È grazie alle ricerche in ambito neuroscientifico, soprattutto quelle degli ultimi sette anni, che ho trovato il coraggio di avanzare le tesi che illustro in questo libro, e che non potevano che tentare di connettere in modo strutturale emozioni e linguaggio. Prima di riassumere il fulcro dell’argomentazione del testo, mi sembra rilevante sottolineare che in alcuni ambiti accademici è finalmente emersa una riconsiderazione del valore e del ruolo delle emozioni. La valutazione negativa, che nella cultura occidentale ha per lungo tempo caratterizzato questo tratto umano, è stata causata anche dall’aver dimenticato sia fondamentali riflessioni aristoteliche, sia il dato che a partire dalla nascita della psicanalisi – la scienza dell’anima – il linguaggio è inestricabilmente legato alle emozioni, ed è finalizzato alla guarigione da una malattia, la cui causa è un vissuto emotivo negativo. Sigmund Freud considera le emozioni elementi fondanti della struttura delle personalità dell’individuo e un esempio lo si ha nel saggio La negazione (1925), dove questa rappresenta la modalità per prendere consapevolezza delle rimozioni. La negazione è appunto per questo una sorta di revoca della rimozione, cosicché processo riflessivo ed emozioni sono scissi e la scissione è sintomo di problematicità. E il tema della scissione, del doppio, percorre la letteratura freudiana e, appare evidente, che altro non è che un apologo sulla condizione umana, come ben testimonia lo scritto Il perturbante (1919). Il perturbante è infatti l’evocazione dell’altro, il richiamo all’ambivalenza irriducibile e costitutiva e che porta anche in sé la minaccia, il contraltare della vita, il suo doppio, cioè la morte.

Freud dà vita a una disciplina rigorosamente fondata sul linguaggio, ed è unicamente grazie a questo che è possibile rimuovere la rimozione, sanare la scissione e riprendere il dialogo con se stessi. Sono i saggi che hanno al centro Mosè – Mosè egizio (1934), Se Mosè era egizio (1937), L’uomo Mosè, il suo popolo e la religione monoteistica, (1939) – che saldano la dimensione emozionale individuale a quella comunitaria, perché il singolo e il popolo vivono e si tramandano il trauma emotivo ineliminabile dell’omicidio originario. L’emozione dalla quale guarire riguarda ciascuno e allo stesso tempo riguarda tutti, o meglio, visto che riguarda tutti riguarda anche il singolo. Ed è la parola dei profeti, di coloro che conducono, che può aiutare a guarire dal trauma emotivo. Un profeta come Abramo è un nomeus, un segno rappresentativo dell’aporia, un tópos della dimensione temporale, dell’evento, del sacrificio, della promessa, del debito, della colpa, del dono, dello scambio, della dispersione, della follia dionisiaca, della spettralità. Similmente lo psicanalista è un nomeus e incarna colui che aiuta e conduce il paziente a guarire. Nel primo caso la parola si ascolta, nel secondo si proferisce. Ma in entrambi i casi è una parola relazionale. Questo lavoro parte proprio da questi presupposti, cioè dall’inscindibile nesso fra emozioni e linguaggio, dove sia linguaggio che emozioni sono per natura logos-dialogue, e hanno una struttura relazionale e sociale. Mi pongo l’obiettivo di mostrare sia l’inseparabilità di queste due manifestazioni umane, sia che la peculiarità che ci contrassegna è proprio l’inscindibile interazione dinamica fra emozioni e linguaggio, tanto che la nostra abilità nel produrre artefatti è strettamente legata alla raffinatezza delle nostre emozioni e alla congiunta raffinatezza della struttura linguistica. Emozioni, linguaggio e cultura sono dati intrecciati in un

inviluppo inestricabile. Nel primo capitolo rifiuto la tesi che la struttura linguistica sia sorta per effetto di una monocausa e sostengo che piuttosto sia il risultato di più fattori, i quali hanno influito sui diversi aspetti che la caratterizzano e che ne contraddistinguono l’articolazione. Proferire locuzioni è sostanzialmente un gesto, ma è un gesto peculiare e molto raffinato, sempre carico di emotività, più o meno intensa. Nel secondo capitolo, partendo dal presupposto aristotelico che siamo contraddistinti dall’essere animali in moto e ancorandomi alla distinzione che i fisiologi propongono fra azioni, atti e movimenti, argomento che le emozioni sono dei movimenti. Questi movimenti rappresentano la precondizione per creare la possibilità di un’azione come quella del parlare e il parlare si è articolato a “imitazione” dei movimenti, degli atti e delle azioni che il corpo assume nella gestione dello spazio e la dimensione ritmica ne è la condizione caratterizzante. Inoltre, l’attivazione del parlare trova la sua ragione in movimenti interni, cioè nelle emozioni. La tesi è che proprio le emozioni sono state il trigger originario del linguaggio umano e rappresentano la spinta che ogni giorno ci fa aprire bocca o ci induce a non aprirla. E se parliamo, non possiamo sottovalutare che generiamo emozioni in altri, dando vita a un circolo senza fine. Nel terzo capitolo ricostruisco parte del gran ginepraio che sono state e sono le riflessioni intorno alle emozioni e la difficoltà di giungere a una loro definizione stringente. Nonostante questa complessità l’argomentazione che avanzo è che se le emozioni sono dei movimenti interni, di conseguenza non vi è alcuna possibilità di distinguere fra il movimento emotivo in sé e il percepire l’emozione, fra il sorgere dell’emozione e il sentirla, fra il sentirla e il comprendere di che tipo di emozione si tratti. Il tutto, ovviamente, all’interno di uno specifico contesto, il quale

concorre a definire l’insorgere, il sentire, il comprendere. Se per il linguaggio è maggiormente ovvio sostenere che è un’attività relazionale e quindi prettamente sociale, meno ovvio è sostenere che le dinamiche emotive si innestano unicamente e solamente per ragioni relazionali e sociali. Infine, nell’ultimo capitolo, ancorandomi alle ricerche che riconducono alle esperienze attestate il costituirsi dei concetti, attribuisco un ruolo chiave ai concetti emozionali nell’influenzare e nel determinare la formazione di qualsiasi concetto. Partendo dalle argomentazioni dei capitoli precedenti, che assegnano all’interazione dinamica fra corpo e ambiente la chiave per comprendere la nostra capacità di “astrazione”, ne deduco che anche la più sofisticata forma di astrazione è sostanzialmente data dal nostro corpo in attività ed è manifestazione di quel corpo-anima di cui parla Aristotele. Le nostre locuzioni sono atti e azioni che non possono che riflettere chi siamo e come siamo e sono atti e azioni che si riverberano sugli altri modificandoli, visto che noi siamo per gli altri l’ambiente con il quale il loro corpo-anima interagisce. C’è quindi una conclusione, mai esplicitata nel testo, ma che sottende l’elaborato. Se siamo il prodotto della relazione dinamica fra il nostro corpo e i diversi ambienti che esperiamo la responsabilità dell’esercizio della funzione linguistica è molto significativa. Se linguaggio ed emozioni sono attività sociali non può che essere rilevante, e nel contempo ingombrante, la responsabilità che portiamo nelle scelte dei contesti nei quali decidiamo di vivere, ma soprattutto nella scelta delle parole che proferiamo. Se nel caso dei contesti, potremmo trovarci nella condizione di non poter scegliere, nel caso delle parole possiamo imparare a decidere che cosa dire, quando dirlo e come dirlo. Attualmente tutti noi viviamo in un ambiente nel quale le parole assumono sovente un tratto barbarico, sia nella scelta delle parole in sé, sia nei toni con i quali vengono proferite. Ed

essendo le parole gesti, viviamo e conviviamo con molti gesti barbarici. In una società che esiste all’insegna del progresso, ricca di artefatti di ogni tipo, segno della nostra raffinata capacità di essere, mi sembra sia del tutto attuale quello che Freud scrive nell’ultimo saggio su Mosé: «viviamo in un tempo in cui il progresso ha stretto un patto con la barbarie». Le parole si presentano quindi proprio come Platone descrive il pharmakon. Le parole sono allo stesso tempo un rimedio e un veleno, al pari delle emozioni che sono il rimedio per sentirci vivi e vitali e allo stesso tempo, come pensava Charles Sanders Peirce, possono anche rappresentare il veleno della vita.

1. NEL CONTINENTE “LINGUAGGIO ED EMOZIONI” Tutto quello che dico del linguaggio lo presuppone, ma ciò non invalida quello che dico, ciò rivela soltanto che il linguaggio si raggiunge e comprende se stesso, mostra solo che non è un oggetto, che è capace di un recupero, che è accessibile dall’interno. Maurice Merleau-Ponty, La prosa del mondo

1.1 Nel paese degli Acchiappa-citrulli Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva come nome “Acchiappa-citrulli”. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre. In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina. – E il Campo dei miracoli dov’è? – domandò Pinocchio. – È qui a due passi. – Detto fatto traversarono la città, e, usciti fuori delle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giù, somigliava a tutti gli altri campi. – Eccoci giunti; – disse la Volpe al burattino – Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete d’oro. – Pinocchio obbedì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po’ di terra. – Ora poi – disse la Volpe – vai alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato. – Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lì per lì una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò: – C’è altro da fare?

– Nient’altro; – rispose la Volpe – Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti, e troverai l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. ― Il povero burattino, fuori di sé dalla contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo. – Noi non vogliamo regali; – risposero que’ due malanni – A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come pasque. – Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.

Nel 2007, allo scoppio della crisi economica, noi cittadini dei paesi occidentali ci siamo trovati nella condizione di Pinocchio, il quale credeva, da animista convinto, che le monete potessero crescere e moltiplicarsi come deliziose piantine. Poi, improvvisamente, ci siamo resi conto, come Pinocchio, che si trattava di un abbaglio e di un’illusione, durati più o meno cinquant’anni; anni durante i quali la crescita, misurata dal Prodotto Interno Lordo (PIL), era sembrata inarrestabile, nonostante qualche fase di breve stagnazione. Così nei confronti delle argomentazioni, dei discorsi, delle parole, e conseguentemente dei ragionamenti, degli economisti siamo tutti entrati nel paese degli Acchiappa-citrulli, così come ce lo descrive Collodi nel XVIII capitolo del suo celebre racconto. Eppure le questioni che affliggono la nostra società erano evidenti da ben prima del 2007; così come è palese che da quel momento è diventato necessario andare alla ricerca di teorie e modelli in grado di rispondere, con analisi e argomentazioni convincenti, a problematiche complesse che hanno radici profonde e articolate, visto che gli strumenti a disposizione hanno mostrato i loro difetti e le loro lacune e, seppur con fatica, si deve aprire un dialogo fra presupposti teorici differenti e navigare verso nuove categorie interpretative. Le carenze e le insufficienze manifestatesi derivano dal fatto che è stato per lungo tempo utilizzato un corpo dottrinale privo di ancoraggio alle dinamiche emotive – individuali, relazionali e collettive –, in un quadro economico e sociale in controtendenza soprattutto

agli andamenti registrati negli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale all’inizio degli anni Ottanta. Un corpo dottrinale che ha utilizzato argomentazioni ritenute “razionali” per giustificare piuttosto che spiegare i processi di finanziarizzazione, l’introduzione di nuove tecnologie che sostituiscono le attività svolte dagli esseri umani, il drastico impoverimento dei ceti medi Occidentali, la conseguente crescita delle diseguaglianze, il moltiplicarsi geometrico delle persone indigenti, l’alta disoccupazione e il congruente dilagare del rancore verso la politica, con un voto “contro” più che un voto “per”; un voto fondato esclusivamente sulla particolare condizione contingente individuale, sempre più priva di prospettive ideali e reali, e una condizione dei corpi intermedi in grande difficoltà nel rappresentare le istanze provenienti da una società fortemente frantumata e carica di incertezze. Parte della responsabilità è dovuta al fatto che la ‘scienza economica’, viene presentata e insegnata, per lo più, come un corpo dottrinale unico e coerente nel metodo, nei postulati – in gran parte formalizzati matematicamente –, nelle argomentazioni, nelle conclusioni. Pochi soggetti, primi fra questi gli studenti delle facoltà dove si insegnano tematiche economiche, sanno che bisognerebbe parlare di ‘scienze economiche’, cioè di una pluralità di differenti punti di vista, i quali danno vita a teorie e analisi spesso incompatibili; questo perché una specifica dottrina si è imposta come mainstream, l’economics1. Una dottrina insegnata non solo nelle università di tutto il mondo ma anche adottata dalle Istituzioni che governano e indirizzano i processi e che si presenta come una disciplina che parte da alcune credenze cardine – postulati o assiomi –. Pertanto, le scuole di economia credono in qualcosa e credono che qualcosa accada in base al loro credere in e le argomentazioni messe in campo dalla gran parte degli economisti sono volte a convalidare proprio il credere in.

La dottrina mainstream si fonda su un decalogo costituito da assiomi che si basano sul primato del mercato, quale meccanismo efficiente ed efficace e dove la razionalità rappresenta la guida dei comportamenti e delle scelte degli agenti economici, pur con i limiti a questa imposti dall’asimmetria informativa, da una volontà debole e dalla presenza di una configurazione emotiva. Ed è per queste ragioni che oggi l’economics adotta perlopiù un paradigma riconducibile a una razionalità definita come limitata, in quanto prende atto di questi limiti, ma non si discosta sostanzialmente dalla dottrina originaria poiché la razionalità rimane il parametro ideale (Turri 2014). L’economics è venuta configurandosi come la ‘scienza’ che studia il comportamento di tutti i componenti della società, al fine di comprendere come le proprie risorse scarse vengano prodotte, distribuite e utilizzate, partendo dal dato che i desideri umani paiono essere illimitati e i mezzi per soddisfarli limitati. I fattori determinanti del successo delle teorie mainstream sono i connotati peculiari di questo approccio: l’individualismo metodologico, cioè il singolo individuo, preso a se stante, diventa parametro unico dei contenuti e del metodo; l’uso del linguaggio immaginato come asettico; la matematizzazione, effetto delle scoperte in fisica della meccanica razionale supportate dapprima dal positivismo dell’Ottocento e poi dal positivismo logico; e, infine la presunzione di poter spiegare con certezza scientifica la realtà che ci circonda. Si è dato vita così a una narrazione, presentata come l’unica possibile, e questa unicità ha visto nella teoria dell’utilitarismo di Jeremy Bentham il suo fondamento antropologico. L’utilitarismo ha una storia articolata entro la quale è necessario distinguere fra la componente descrittiva, connessa alla pratica delle azioni, e la componente normativa (Bentham 1789; Mill 1861; Sen & Williams 1982; Lodovici 2004; Reichlin 2013). Con la disciplina

economica che si sviluppa verso la fine del XIX secolo, quella marginalista, prende avvio la parabola ascendente ed egemonica dell’utilitarismo inteso come razionalità pratica, tanto che il suo postulato – un soggetto egoista e razionale – tenderà progressivamente a conquistare tutti gli ambiti delle scienze umane e sociali e l’intera filosofia morale e politica, fino a giungere a un predominio pressoché incontrastato, che la Teoria dell’Azione Razionale ha definitivamente stigmatizzato (Harsanyi 1982; Harsanyi 1985; Frongia 2000). L’utilitarismo diventa così non solo il sistema teorico e ideologico dominante, ma l’immaginario stesso della modernità, lo specchio fedele dell’antropologia dell’essere umano moderno nella sua riduzione a homo oeconomicus. Un’antropologia dalla quale viene espulso il pathos, e quando non viene espulso è perché questo assume un connotato fortemente e unicamente negativo. Nel corso dell’ultimo secolo l’economics ha aspirato a essere considerata o paragonabile alla fisica o alle scienze matematiche, cioè alle cosiddette “scienze dure”. Ha teso a presentarsi come una disciplina che rigetta l’idea di appartenere alle “scienze dello spirito”, in quanto queste sono soggette alla storia e la storia è ricca di pathos; cosicché, l’economics procede e si presenta come se i fatti e i dati fossero neutri e per questo è diventata dominante, nel senso gramsciano del termine, cioè culturalmente egemone, tanto che non c’è dubbio che le logiche e le terminologie che sottostanno alla sua struttura argomentativa e narrativa l’hanno resa una disciplina così trionfante che ha condizionato in modo sostanziale larga parte della pratica e della teoria politica. Di conseguenza quest’ultima ha ancorato l’idea di democrazia deliberativa al concetto di mercato (Downs 1957). Come si evince da questi tratti sommari l’economics, in quanto “disciplina non dello spirito”, non contempla l’idea che le teorie siano profondamente influenzate dai contesti e dalle problematiche economiche caratterizzanti la società in uno

specifico periodo storico. Riconoscere la dipendenza dai concetti, nelle loro diverse articolazioni, e dai sistemi dottrinali, su di questi costruiti dalla dimensione storico-temporale, conduce ad ammettere l’esistenza di differenti punti di partenza, i quali inglobano la storia passata e lo sguardo sul presente, un presente costantemente in divenire, e quindi anche uno sguardo sul futuro. John M. Keynes nel 1926 sosteneva che “uno studio della storia del pensiero è premessa necessaria all’emancipazione della mente. Non so cosa renderebbe più conservatore un essere umano, se il non conoscere null’altro che il presente, oppure null’altro che il passato” (Keynes 1926, p. 84). Nei confronti dell’uso delle proprie argomentazioni il gesto della gran parte degli economisti è duplice e insieme contradditorio: da un lato, dichiarano che è strutturale alla disciplina il metodo scientifico, corrispondente alla received view dell’empirismo logico, e ne insegnano i precetti agli studenti; dall’altro, quando illustrano i risultati della ricerca dalle loro esposizioni emerge che avendo l’obiettivo di convincere della validità dei risultati ai quali sono pervenuti, adottano la tecnica del discorso più efficace alla finalità individuata, impiegando conseguentemente strumenti retorici di cui il pathos è un elemento cardine. La ‘scienza economica’ sembra pertanto, portata ad adottare soprattutto quello che Aristotele definisce il ragionamento apodittico, il quale ha la forma del sillogismo e deduce delle conclusioni da premesse “indiscutibili”, fondate su principi primi. Ed è questo il ragionamento che consente la più completa formalizzazione grazie a un linguaggio logico e all’impiego della matematica e, in questo senso, si può dire che gli economisti mainstream ritengono di utilizzare la logica moderna. Qui e non altrove si annida il problema, tanto che in molti paesi la responsabilità dei dicasteri economici è stata sempre più attribuita, sulla base di argomentazioni retoriche, a ‘tecnici’, i quali non appaiono affatto come ‘neutri’ rispetto al politico,

rivelandosi piuttosto portatori di una netta e chiara visione, argomentata come fosse oggettiva e neutrale rispetto alla realtà e ai postulati su cui poggia. Sono stati gli effetti sociali della crisi del 2007 che hanno sancito la crisi teorica dell’economics e del suo stesso insegnamento: Jean-Claude Trichet, l’ex Presidente della Banca Centrale Europea, e Olivier Blanchard, capo economista del FMI e uno dei più autorevoli esponenti della mainstream, hanno più volte sostenuto che sarebbe stato intellettualmente irresponsabile e politicamente poco saggio, pretendere che la crisi non avrebbe modificato le nostre visioni riguardo al modo in cui funziona l’economia e hanno ammesso che la teoria che ha sostenuto i piani di austerità imposti a mezza Europa è stata un danno per l’economia e l’occupazione, e che non funziona nemmeno per rimettere a posto i conti pubblici, ovvero per diminuire il famigerato rapporto fra debito pubblico e PIL, vero e proprio faro nella guida delle politiche economiche dei paesi occidentali. Di converso, non si può non riconoscere che alcuni nodi evidenziati fossero indiscutibilmente reali. Iniziare questo libro sul linguaggio con un’illustrazione sommaria dell’efficacia delle argomentazioni degli economisti trova la sua giustificazione non solo nel fatto che questo è un ambito disciplinare che frequento da tempo, ma anche dal dato che la dimensione economica pervade a ogni latitudine la vita individuale, relazione e sociale, compresa quella degli eremiti e di coloro che tentano di sottrarsi ai fenomeni “consumistici”, poiché il loro “no” è anch’esso linguaggio. Il linguaggio degli economisti mostra in modo paradigmatico come i termini linguistici siano strutturalmente sociali e pubblici. Proprio l’uso del linguaggio che si è fatto in questo ambito mette in evidenza la potenza che questo ha nel far fare e nel far essere tutti noi, visto che i termini linguistici non sono soltanto etichette che rimandano a un referente, ma sono

soprattutto strumenti per agire e articolare meglio il nostro pensiero e le nostre relazioni in funzione di nuovi comportamenti. L’efficacia dei “discorsi” economici, come ogni discorso, ha a che fare con la filogenetica e l’ontogenetica del linguaggio, con il ruolo cardine dei pathos e la loro evoluzione, o meglio, con il ruolo di trigger che i pathos hanno nell’articolazione del linguaggio; con l’intreccio fra la dimensione funzionale e quella strutturale del linguaggio; con la centralità della pragmatica e della semantica e il loro collimare. È questo insieme di questioni che ha consolidato il fatto che è stato, ed è, “vincente” il corpo teorico della mainstream e che il buon utilizzo degli strumenti della retorica e della narrativa l’ha resa una disciplina sofisticata e con una struttura di rules and regulations particolarmente stringente, ed è questo uso che ha fatto sì che l’economics sia divenuta dominante e quindi potente. John Maynard Keynes ha messo bene in luce la rilevanza e la pervasività della questione, quando ha sostenuto che le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all’infuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. … Sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia nel bene che nel male (Keynes 1936, p. 577).

L’insieme delle questioni legate al linguaggio costringe anche a spiegare se il processo biologico abbia dischiuso le possibilità all’homo sapiens di essere homo colloquēns, homo significans e homo symbolicus, o se è possibile sostenere che l’homo sapiens è tale proprio perché è homo colloquēns, homo significans e homo symbolicus, cioè se sia costitutivamente homo colloquēns, homo significans e homo symbolicus. Rispondere a un quesito così impegnativo chiama in causa gli aspetti filogenetici, ontogenetici, ontologici e metafisici del linguaggio2. In fondo si

tratta dell’antico dibattito posto da Platone nel Cratilo, e poi ripreso nel Sofista, fra innatismo e convenzionalismo del linguaggio, e che oggi ha preso la forma dicotomica naturalecostruttivista. Una dicotomia che in relazione agli stati affettivi vede contrapporsi la teoria categoriale a quella costruzionista. L’accezione di linguaggio a cui farò riferimento in questo testo è quella del senso comune: una facoltà, un’abilità vocale, che consente di utilizzare una o più lingue specifiche e di utilizzarle con modalità particolari. In specifico, farò riferimento all’insieme delle capacità, delle attitudini e delle competenzeconoscenze peculiari dell’essere umano, le quali trovano, a mio avviso, il loro fondamento sia nelle strutture che si sono evolute biologicamente e che consideriamo innate, sia in quelle che sono ascrivibili alla dimensione culturale e sociale (Herrenschmidt 2007). 1.2 Nel villaggio di chi parla Il linguaggio è indubbiamente un argomento molto complesso, e riconosco che per me è anche molto complicato. Nonostante questa mia valutazione non posso non partire dalla constatazione che siamo l’unica specie ad avere la capacità di trasformare i pensieri in vocalizzazioni e, attraverso queste, influenzarci reciprocamente e retroagire sui nostri comportamenti e sui nostri stessi pensieri. Pertanto, la comprensione di noi come specie transita senz’altro dalla comprensione di questa capacità. Non sappiamo con certezza quando il linguaggio è sorto, se 4 o 5 milioni di anni addietro, o prima, o con l’avvento del Cromagnon, cioè 125.000 anni fa; non sappiamo con evidenza se l’essere umano di Neanderthal parlasse e, se lo faceva, come lo faceva e se l’homo sapiens sia da sempre un essere dialogante. Comunque sia, è mia convinzione che gli aspetti filogenetici e quelli ontogenetici si intreccino in una dinamica non perfettamente districabile e lo dimostra il fatto che l’acquisizione

delle abilità linguistiche è una questione che non ha una risposta univocamente convincente. Non siamo in grado di spiegare compiutamente né il sorgere di una generica vocalizzazione, né tantomeno il passaggio da una generica vocalizzazione a un linguaggio complesso e articolato come quello che utilizziamo quotidianamente, né la sua comprensione o articolazione in lingue diverse; né sappiamo con esattezza come sia avvenuto che siamo diventati depositari di questa abilità in modo così sofisticato, né conosciamo compiutamente come la apprendiamo. Si possono però fare ipotesi plausibili e avanzare tesi verosimili, che non necessariamente implicano il fatto che acquisire una facoltà non sia disgiungibile dal comprendere la facoltà stessa e il suo funzionamento (Siegel 2016, p. 23), questo perché l’apprendere e il comprendere è sempre situato in un “qui” e in un “ora”. Certo è che il linguaggio è un’abilità costitutivamente in evoluzione, e di conseguenza, regolata, influenzata e trasformata dall’ambiente fisico, sociale, culturale e dall’esperienza personale, e per quanto riguarda le lingue è plausibile che queste siano un risultato storico e sociale e come tali nascono e muoiono, come del resto la storia sta lì a testimoniare. Indagare e indicare le diverse ipotesi avanzate sulla sua genesi è rilevante perché questo potrebbe consentire di chiarire meglio molti aspetti: a) il potere che il linguaggio esercita, visto che consente di mentire e di far emozionare; b) perché faciliti il muoversi in uno spazio intertemporale evocando il passato e presentificando il futuro e così permettendo agli esseri umani di agire non solo sul mondo presente ma anche sui mondi possibili; c) perché supporti l’esprimere pensieri e affetti e ne evochi in chi ascolta; d) faciliti la condivisione dei propri pensieri e delle proprie affezioni, delle proprie credenze e dei propri desideri; e) perché sia in grado di aprire la strada ad azioni di cooperazione a lungo termine e verso obiettivi futuri, i quali, assieme ai mezzi

necessari per raggiungerli, sono identificati e condivisi a loro volta attraverso il linguaggio; f) perché generi costanti novità all’interno del linguaggio stesso in termini di frasi e di singoli termini; g) perché produca azioni nel presente (“Apri la finestra”) e modifichi lo status delle condizioni individuali (“Lei è Dottore in…”) e relazionali (“Siete marito e moglie”). Pertanto, con le parole possiamo far fare atti e azioni come affermazioni, negazioni, ordini, domande, minacce, e questa è indubitabilmente la vera e propria primaria dimensione sociale del linguaggio, la sua dimensione prettamente performativa, tanto che correttamente si parla di “forza delle parole”. Nello stesso tempo le parole sono “spesso scivolose, vaghe, portatrici di significato assai personale: in modo particolare quelle astratte come “struttura”, “processo”, “concetto”, “rappresentazione”, “schema”, “frame”, “sintassi”, “semantica”, “analogia”, “prototipo”, “contesto”, “simbolo”, “regola”, “caratteristica”, “modello”, “maschera”, “immagine”, “significato” …” (Hofstadter 1995, p. 402). Fra le più accreditate teorie sul linguaggio per anni è stata centrale quella di Noam Chomsky, secondo il quale esiste una “scatola nera” nel nostro cervello, cioè un sistema in grado di acquisire il linguaggio e capace di accogliere input linguistici sin dai primi istanti di vita. Come è noto, per lo studioso americano il linguaggio è una facoltà innata e imparare una lingua fa parte di un processo naturale tipico della nostra specie e che si configura come la caratteristica prima che ci contraddistingue dagli altri mammiferi. Diversamente da Chomsky, Jerome Bruner (1986) ritiene che le due caratteristiche fondamentali nell’acquisizione del linguaggio siano la capacità cognitiva e il contesto. L’acquisizione della lingua madre è quindi collegata al processo di socializzazione e di inserimento nella cultura nella quale si è nati. Bruner difende l’idea che il bambino impari a usare il linguaggio

per comunicare quando si trova in un contesto in cui deve risolvere dei problemi, il che implica che il piccolo essere umano necessiti di due elementi per apprendere la propria lingua madre: il dispositivo di acquisizione linguistica teorizzato da Chomsky e la presenza di un ambiente di sostegno – costituito dai caregiver – che ne favorisca l’acquisizione. Una struttura di ausilio per l’apprendimento del linguaggio, che sarà per il piccolo umano il modello ritmico per le forme di comunicazione – lente, brevi, ripetitive e articolate – che gli permetteranno di cogliere il format delle componenti basiche del linguaggio. Quella di Bruner è una posizione antitetica a quella sostenuta da Jean Piaget (1923), il quale ha introdotto una teoria integrata che abbraccia genetica, sviluppo cognitivo e teoria della conoscenza, con una particolare attenzione al fatto che il sistema motorio, il sistema vitale per l’esistenza umana, è coinvolto nello sviluppo cognitivo. Secondo l’epistemologia genetica, così come fu concepita dallo psicologo francese, il contesto non è significativamente rilevante, né è in grado di influenzare lo sviluppo della capacità comunicativa, bensì questa è una capacità cognitiva innata, quindi universale, e il cucciolo umano sarebbe un creatore attivo e diretto delle proprie conoscenze e della costruzione del linguaggio; competenza che gli deriverebbe dalle verifiche e dai riscontri sulla struttura concettuale del mondo fisico e sociale, che nella fase pre-linguistica avverrebbe imitando e utilizzando gli artefatti come simboli. Il linguaggio per Piaget svolge sostanzialmente una funzione simbolica o rappresentazionale. Lev Semënovič Vygotskij (1934) ha ritenuto centrali nello sviluppo della struttura linguistica gli elementi culturali, e ha concentrato la propria ricerca sulle diverse influenze storiche, poiché a suo avviso è rilevante tener conto in primo luogo del contesto in cui esso si sviluppa e che, con il tempo, si trasforma. L’evoluzione del linguaggio e del pensiero sono da lui intesi come

il risultato di un processo sociale olistico che comprende in modo significativo le emozioni. Ancora diversa, ma tutta circoscritta alla dimensione socioculturale, è la posizione di Burrhus Skinner (1957), secondo il quale l’acquisizione del linguaggio avviene grazie a meccanismi di condizionamento: i bambini iniziano con il duplicare suoni e scimmiottare movimenti e in seguito associano singole parole ad artefatti, azioni e situazioni e sono in grado di discernere il linguaggio umano fin da prima della nascita, e nei primi mesi di vita usano il babbling, cioè l’emissione di vocalizzazioni abbastanza indefinite ma che hanno l’obiettivo di indirizzare il comportamento degli adulti e l’interazione con gli altri, poiché i caregiver forniscono maggiori informazioni quando le lallazioni sono frequenti e spesso sono informazioni su artefatti o azioni (Albert, Schwade & Goldstein 2018). Lo sviluppo della struttura linguistica sarebbe quindi determinata da stimoli esterni e le parole ne sarebbero una risposta. Il linguaggio prenderebbe vita grazie a un gioco di interazione fra caregiver e bambino, fra chi comunica e chi ascolta. Sin da queste brevi sintesi si evince il dato che, a partire dalle potenzialità genetico-biologiche per terminare con le modalità di apprendimento, alcuni concepiscono il linguaggio come una competenza solipsistica altri come una competenza relazionale, gli uni come parlare, gli altri come comunicare, o meglio dialogare. I secondi si avvalgono del fatto che l’essere umano parla in quanto è per natura zóon politikòn. Attualmente ci sono diverse teorie sull’origine della struttura linguistica, le cui denominazioni sono state sostanzialmente inventate un centinaio di anni fa da Max Müller (1866) e George Romanes (1889). L’insieme delle teorie che riconducono alla tassonomia di Müller e Romanes devono essere tenute in considerazione, poiché tutte fanno parte di una dimensione evolutiva-olistico-ambientale che non può sottovalutare

l’influenza dei suoni provenienti dalla natura come pioggia e venti, dei suoni animali, dei suoni umani e della musicalità in genere; della presenza di oggetti e la necessità di denominarli, richiamarli nel tempo e manipolarli; delle condizioni connesse all’alimentazione e alla difesa individuale e di gruppo all’interno di uno spazio; ma soprattutto non può essere sottovalutata la necessità comunicativa di specie, in particolare in relazione alla dimensione emozionale derivante dai contesti e dall’indispensabilità della cooperazione per sopravvivere. Infine, alcune di queste teorie legate all’insorgere e allo sviluppo parallelo del sistema connesso alla produzione e alla comprensione linguistica, anticipano il fatto che oggi è indispensabile fare riferimento, anche per quanto riguarda il linguaggio, alle ricerche che da alcuni anni si incentrano sul ruolo e la centralità del sistema motorio umano nei processi cognitivi. Elenco, in modo molto sintetico, le caratteristiche delle teorie che si rifanno a Müller e Romanes, con l’unico obiettivo di segnalare i punti focali sui quali gli studiosi si sono incentrati, consapevole che si possono proporre ulteriori tassonomie (Primo 2012). Per alcuni il linguaggio è stato inventato consapevolmente e ne sarebbe la controprova il fatto che questo avviene quotidianamente in ambito pubblicitario, cioè gli esseri umani assegnano, più o meno a caso, suoni ad artefatti; si tratta sostanzialmente una teoria dei suoni arbitrari. Per altri il linguaggio potrebbe avere avuto origine in aspetti magici e religiosi della vita con i quali avremmo iniziato a denominare gli animali, creando così una corrispondenza diretta fra suono e significato. Inoltre, il linguaggio si sarebbe sviluppato con canti ritmici durante i lavori atti ad accompagnare gesti, a loro volta, ritmici come tagliare, spezzare, percuotere, spremere. Altri ancora affermano che il linguaggio arriva dal gioco, dal

corteggiamento e da elementi emozionali. Questi teorici suggeriscono che le prime parole siano state lunghe e musicali, cioè l’essere umano cantava come un fringuello o a sua imitazione (Berwick 2011; Berwick et al. 2012; Berwick & Chomsky 2015, pp. 44-56). Una parte di studiosi connette le parole ai suoni ma circoscrive il fenomeno alle sole grida di carattere emotivo degli animali3, mentre altri partono invece dall’idea che il linguaggio serve per il contatto, sostanzialmente per affermare “sono io” oppure “sono con te” e queste affermazioni includerebbero le espressioni emozionali. Sul piano evolutivo la teoria più accreditata è quella onomatopeica, che connette le parole ai loro suoni, e che vede il motore nell’imitazione di suoni naturali – moo, choo-choo, crash, clang, buzz, bang, meow –, questo perché lo stesso Darwin sostiene che prima di un linguaggio articolato siano stati i suoni musicali ad aiutare la comunicazione in situazioni come il corteggiamento o la difesa del territorio4, in particolare ritiene che la lingua parlata arrivi dagli uccelli a causa del ruolo sessuale che il canto svolge. Una tesi che è suffragata dal dato che negli scimpanzé il tambureggiare ritmico, l’ansito, lo sbuffo sono utili per i contatti fra i membri del gruppo, sono scambi semi-musicali e la musica è un’attività pervasiva quanto le parole. Per altre teorie il linguaggio viene piuttosto dalle pratiche di gioco, da quelle culinarie e dalla risata. L’inizio sarebbe avvenuto con le sillabe più semplici connesse a oggetti particolarmente significanti come mamma e papà, le quali avrebbero incoraggiato i processi successivi. Si tratta di una teoria che poggia sul dato che in molte lingue il caregiver fondamentale ha un termine che incorpora le lettere “mm”, con vocali leggermente diverse fra lingua e lingua: in alcuni casi è la “a”, come in italiano (mamma), o in inglese (mummy, mum, mam, mammy, mother), o in francese (maman), o in ebraico moderno (ìma – ‫ ;)אמא‬in altre è la “e”, come in ebraico antico (em – ‫אמ‬ ֵ ) o in greco (meter”-(μήτηρ);

in altre ancora la “u” come in arabo (Uhm – ‫)ﻣﺄ‬, in semitico (‘umm), in accadico (Ūwum). Ūwum è un termine che significa uovo (in latino “ovum”) prossimo anche all’accadico “mû”, che significa acqua. Questi studiosi sottolineano che uovo e acqua sono simboli di vita, così come lo è la figura materna. Inoltre, un suono simile a “uhmm, uhmm” lo si può udire in relazione al gesto fisico del bimbo che si protende per una richiesta. Si tratta dell’emissione labiale con protusione delle labbra, infatti il suono gutturale che a fatica emette è “mmm”, il quale si rivela il più immediato e il più semplice nella relazione necessitata. Suono molto simile a quello emesso da un adulto che non riesce a parlare. George Romanes (1883) e Richard Paget (1930), influenzati da Darwin, hanno sostenuto che i movimenti del corpo precedono il linguaggio vocale e questo sarebbe strettamente connesso con i movimenti umani come riflesso e simbolo di azioni e gesti specifici. Di conseguenza, il linguaggio avrebbe avuto inizio come un’imitazione inconsapevole di alcuni movimenti come per esempio quelli della bocca, simili a quelli compiuti con le forbici, o a quelli della lingua che batte sul palato, simili a quelli effettuati mentre si suona la chitarra. Secondo questi due studiosi parlare, cioè articolare una sequenza di sillabe, rassomiglia, in termini di eventi muscolari sequenziali, a scheggiare una selce o a scagliare una lancia. In modo analogo, esperienze cinestesiche, come in alto e in basso, destra e sinistra, dentro e fuori, avrebbero man mano fornito la base fisica e concreta per lo sviluppo di simboli e metafore utilizzate nel linguaggio. Esisterebbe insomma uno stretto intreccio fra motricità, pensiero e linguaggio, sia dal punto di vista della storia naturale dell’essere umano, sia dal punto di vista ontogenetico, sia dal punto di vista del modo in cui la nostra mente funziona (Oliverio 2006). Il complesso delle ipotesi sull’origine del linguaggio evoca la

partizione molto nota ai filosofi, quella fra caso e necessità. Noam Chomsky, Tecumseh Fitch e Marc Hauser (2002; 2005) argomentano che nessun primate è in grado di adottare e comprendere le regole sintattiche del linguaggio umano e propongono di distinguere fra una facoltà linguistica generica e una specifica5. Quest’ultima sarebbe ascrivibile al solo genere umano e sarebbe la conseguenza di capacità come contare e annotare irregolarità e ricorrenze statistiche. Si tratta di funzioni fondamentali soprattutto per l’orientamento topografico. Queste ipotesi sono in netto contrasto con posizioni che prendono in seria considerazione, con un approccio sistemico e costruttivistico, gli aspetti normativi della struttura linguistica (Brandom 1994)6, dove linguaggio e contenuti concettuali trovano spiegazione unicamente nella pratica sociale, cioè nelle pratiche relazionali e collettive. Una tesi, quella del ruolo rilevante della dimensione ambientale e di contesto, che trova attualmente sostenitori provenienti da ambiti di studio molto diversi fra loro (Sormano 2013, p. 15; Borghi & Cimatti 2009) ma che abbracciano una posizione per molti versi antitetica al normativismo. Nel rapporto fra casualità e necessità Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, ma anche Chomsky, Fitch e Hauser, privilegiano la prima mentre Richard Dawkins e Daniel Dennett la seconda. Dawkins sostiene (1976; 1982; 1986) che tutto ciò che è pertinente alla biologia evoluzionistica si connette o è desunto dalla forza che avrebbe la selezione naturale nel plasmare la struttura dei singoli organismi e tutto ciò che avviene a livello di specie può essere spiegato con ciò che avviene a livello di organismo. Nel tempo Dawkins ha parzialmente corretto la propria visione sostenendo che esiste legittimità interpretativa anche in coloro che spiegano alcune strutture evolutive partendo dai geni e in coloro che le spiegano usando metodologie legate alla specie7. In Dennett – debitore delle sue ipotesi sul linguaggio

a Lev Vygotskij e Aleksandr Lurija – si unificano individualismo, riduzionismo e metodo deduttivo8 visto che applica all’intelligenza umana il principio biologico, in base al quale agenzie cognitive complesse – è il caso del linguaggio – possono essere scomposte e ricondotte a strutture via via più semplici. Per Dawkins e Dennett la lingua è uno strumento esterno, che una volta che ha preso possesso del cervello lo piega ai suoi fini condizionando, in positivo, lo sviluppo del giovane essere umano e questo consentirebbe di sormontare i limiti fisici che la natura ha imposto. Secondo questa posizione la mente diventa un attributo del linguaggio, perché da esso forgiata, tanto che il linguaggio istanzierebbe l’aspetto peculiare rispetto alle altre specie e attesterebbe così contestualmente la superiorità del genere umano. Si tratta di una posizione nettamente antropocentrica a cui è riconducibile l’aneddoto secondo il quale il cardinale di Polignac, probabilmente nel giardino del re a Parigi nel XVIII secolo, avrebbe detto a uno scimpanzé “Parla, e ti battezzo”. Una tesi ripresa da Friedrich Max Müller quando afferma che “Language is our Rubicon, and no brute will dare to cross it” (1866, p. 296). Al contrario delle tesi appena esposte, Terrence Deacon (1997) – basandosi sulla teoria evolutiva di James Mark Baldwin (1898), sulla tesi dell’assimilazione genetica di Conrad Waddington (1959; 1961) e sulla teoria semiotica di Charles Sanders Peirce (1903) – ha sostenuto che non c’è mai stato un tempo in cui l’essere umano fosse privo di linguaggio e ha messo in evidenza come sia possibile una genesi evolutiva del simbolismo linguistico. Secondo Deacon il linguaggio, in definitiva, nato per fini comunicativi, è qualcosa di diverso dai tipici sistemi di comunicazione animale (Deacon 1997, p. 310) proprio perché consente di pensare sui propri pensieri e sul proprio comportamento, ristrutturandoli e ripresentandoli di volta in volta in modo diverso e il pensare è concepito come una forma

“virtuale” di comportamento (Sheets-Johnstone 1999), tanto che i simboli linguistici non hanno una sede precisa (Deacon 1997, p. 287). Non c’è dubbio che quando pensiamo “afferriamo” un concetto, “seguiamo” un’intuizione, “vediamo” la soluzione a un problema, “scopriamo” una nuova idea. È il poter pensare il pensiero e il farlo con il linguaggio che è peculiare, tanto che oggi sappiamo che esiste una relazione fra pensiero e vocalizzazione (Magrassi et al. 2015), convalidata dal dato che alcune cellule neurali riproducono la traccia sonora delle parole che pensiamo anche senza che queste vengano emesse da un suono. Questo dimostrerebbe, come ha sostenuto Vygotskij (1934), che esiste una relazione molto stretta fra endofasia e “lingua”, pur rimanendo distinte le loro funzioni. Lontano da queste posizioni, ma di estremo interesse, sono le ipotesi di Julian Jaynes (1977), secondo il quale il linguaggio germoglierebbe per poter riprodurre gesti le cui finalità sono cruciali per la sopravvivenza e per poter creare, rigenerare, consolidare ed evolvere quella parte dell’attività umana che chiamiamo cultura. L’elemento culturale e sociale sarebbe la condizione del fiorire del linguaggio. A suo avviso questo può aver avuto un’accelerazione nella fase nella quale si è sviluppato il sistema agricolo. Il passaggio dalla sola caccia – dove la dimensione emozionale della paura è decisiva e sono decisive le vocalizzazioni a questa connesse – a processi come quelli richiesti dall’agricoltura avrebbe contestualmente modificato sia il sistema alimentare, influenzando di conseguenza la dentatura, sia le dimensioni emotive collegate al procacciamento del cibo e all’alimentazione, il che avrebbe consentito una maggiore amministrazione delle eccitazioni che avvengono nel sistema motorio durante i processi emotivi. È indubbio che la caccia richiede vigilanza e attenzione mentre l’agricoltura richiede un uso maggiore di artefatti e una trasformazione nel tempo e nello spazio delle informazioni necessarie per riprodurre l’attività

economica e trasferire conoscenza alle generazioni successive, cioè richiede ricorsività, anche linguistica. Entrambe le attività, caccia e agricoltura, sono congiunte dal movimento all’interno dello spazio e in questo senso ci sarebbe una questione di fondo che lega la cognizione spaziale9 alla human uniqueness, e cioè il fatto che l’evoluzione dei processi di integrazione di rotta, delle risposte orientate a configurazioni di riferimenti spaziali, della capacità di realizzazione di mappe e di adoperarle per comunicare farebbero parte della costellazione di fenomeni che portano all’espansione di un linguaggio complesso (Ferretti et al. 2013)10. In questo senso, lo sviluppo del linguaggio e la crescita della consapevolezza di sé, del proprio corpo nello spazio – propriocezione – sarebbero correlate, anche grazie al fatto che lo schema corporeo è una struttura che consiste in una conoscenza sempre disponibile della propria posizione rispetto all’ambiente. È questa che consente al corpo di agire situazionalmente grazie al fatto che le funzioni motorie permettono potenzialmente al corpo di muoversi nello spazio. Inoltre, l’individuo con appropriatezza muovendosi e agendo in un ambiente, nella sua dinamicità, oltre a modificare la relazione fra sensazioni percettive e cinestesiche opera una vera e propria trasformazione dell’ambiente perché vi fa comparire nuovi aspetti che diventano nuove potenzialità di azioni, e l’interazione con l’ambiente, attraverso il comportamento, è a sua volta guidata da specifiche strategie motorie (Rizzolatti & Luppino 2001). Lo spazio è un concetto legato ai soggetti e agli oggetti, ma non soggettivo (Sdoia, Couyoumdjian & Ferlazzo 2004), ed è equivalente alla concezione leibniziana dello spazio come coesistenza. Si tratta di quello spazio così come lo ha definito in via generale Merleau-Ponty: Lo spazio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che,

anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse, dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni (Merleau-Ponty 1945, p. 327).

Ai nostri fini è significativo rilevare che esiste un’analogia fra la capacità di pianificare la rotta e quella di progettare un discorso, in entrambi i casi bisogna individuare dove “si vuole andare a parare”, cioè è necessario averne individuato la finalità. Ciò che accomuna, in primo luogo, il camminare e il parlare è la strutturale dimensione teleologica. Si potrebbe parafrasare Merleau-Ponty e dire: Il linguaggio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose vengono evocate o descritte, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono espresse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse, dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni.

Nell’ottica presa in esame la nozione di spazio è a tutti gli effetti quella delineata da Aristotele, il quale connette il concetto di spazio al movimento e la percezione esterna e interna dello spazio dipende dalla posizione e dalla dimensione del nostro corpo e dai suoi movimenti. Il corpo nello spazio è lógos11 in quanto capacità potenziale di disegnare nello spazio la propria posizione, di narrare il proprio procedere. Attualmente nelle ricerche neuroscientifiche lo spazio si configura come una categoria frammentata in una miriade di mappe sensomotorie, definita come vocabolario d’atti (Berti & Frassinetti 2000): la dinamicità dei movimenti, degli atti e delle azioni si riflette nella dinamicità dello spazio stesso; dinamicità che consente una ridefinizione dei parametri di vicinanza e lontananza, che lungi dall’essere stabiliti da intervalli spaziali fissi, possono variare a seconda dell’atto o dell’azione in cui l’organismo è impegnato, e a seconda degli strumenti che esso in qualche maniera “incorpora” nel sistema motorio. L’utilizzo efficace di uno strumento ne determina una ri-codifica (bacchetta e puntatore)12 e quindi una incorporazione. È

probabile che gli oggetti che “incorporiamo” abbiano determinate caratteristiche percettive, per esempio, un rastrello o una forchetta sembrano una sorta di prolungamento del nostro braccio, un pulsante no, una bacchetta si, un puntatore no (Gaudiello et al. 2009). Pertanto, lo spazio oltre il quale non si può arrivare con parti specifiche del nostro corpo (testa, bracciomano, piede) si amplifica interagendo con oggetti portandoli a noi con un artefatto, come un cucchiaio o una forchetta. Il medesimo principio, cioè identiche potenzialità caratterizzano le locuzioni linguistiche, infatti richiediamo oggetti per mezzo di un termine, il nome attribuito all’oggetto, estendendo per questa via il nostro corpo. Oltre agli aspetti funzionali gli artefatti e i termini linguistici possiedono possibilità e vincoli simili a quelli del nostro corpo e per questo hanno la potenzialità di poterne diventare estensioni. Il contesto, con le sue specifiche istanze, avrà a sua volta un ruolo cruciale. Gli artefatti sono mezzi attraverso i quali si agisce sul mondo (Legrand 2006; Thomson & Stapleton 2009), così come lo sono i termini linguistici. In quest’ottica, alcuni artefatti (come per esempio il bastone o il rastrello, con cui avviciniamo a noi oggetti lontani) fungono da interfaccia fra noi e il mondo, configurandosi come mezzi con cui facciamo esperienza del mondo, piuttosto che come oggetti che percepiamo come esterni a noi13. In generale, gli oggetti, anche qualora siano poco adatti a esser incorporati (Liuzza, Cimatti & Borghi 2010) o quando ancora non sono stati incorporati, cioè appena abbiamo iniziato a farne uso (Clark 2008), ci ‘invitano’ comunque a interagire con essi (Borghi et al. 2011; Ferri et al. 2011; Sinigaglia & Costantini 2011). Una bottiglia collocata nello spazio effettivamente raggiungibile “inviterà” a interagire, cioè ad afferrarla, in misura maggiore di una bottiglia collocata in uno spazio non raggiungibile (Costantini et al. 2011; Ambrosini et al. 2011). Le parole, in quanto strumenti relazionali, è indubbio che

consentono un’estensione dello spazio peripersonale, così come lo consentono gli strumenti fisici (Borghi & Scorolli 2012). Si immagini di osservare degli oggetti nello spazio a noi vicino, lontano o nello spazio di confine e di denominarli per richiamarli. È indubbio che si tratti di una vera e propria estensione delle interazioni del nostro corpo. Lo spazio sussiste, pertanto, sia grazie all’interazione del soggetto con l’ambiente e quindi con ciò che lo arreda (oggetti naturali, oggetti sociali, artefatti, piante, animali, esseri umani, termini linguistici), sia grazie al movimento che il corpo compie in esso, in quanto il vicino e il lontano, cioè lo spazio peripersonale e quello extrapersonale sono definiti dalla posizione del corpo stesso, dai suoi movimenti e dalla relazione con ciò che lo arreda. Entra così in gioco nella spazializzazione dello spazio sia la dimensione sinestesica sia la contestualizzazione ambientale e sociale: il proprio corpo circoscrive il sopra e il sotto, il piccolo e il grande. E se il qui e il là sono definiti dalla posizione del corpo, sinistra e destra si articolano anche in base ai contesti, pertanto, il corpo è lógos e contestualmente dialogue. Il corpo, il quale vive sempre in uno spazio, funge da ponte e da fulcro fra due diverse fonti di costituenti, quella interna e quella esterna. Il nostro senso del corpo è plastico e può essere esteso oltre i confini biologici del corpo stesso (Thomson & Stapleton 2009), poiché tendiamo sia a proiettare configurazioni emozionali e affettive, sia sensazioni su oggetti esterni (Maravita & Iriki 2004); sia utilizziamo artefatti e parole per raggiungere oggetti determinando così un ampliamento del nostro spazio peripersonale. In entrambi i casi ridefiniamo lo spazio che separa quanto è raggiungibile senza spostarsi, da quanto è irraggiungibile. Il pregio di Jaynes è quello di aver intuito l’insieme di queste questioni legate alla struttura linguistica, ma il suo limite, dato il

topos del suo lavoro e il tempo nel quale è stato redatto, è quello di non addentrarsi nella spiegazione della genesi delle condizioni anatomiche e neurali che ne hanno consentito lo sviluppo e ne determinato la specificità. È però importante rilevare che, indicando nell’agricoltura il motore dell’articolazione del linguaggio, egli introduce implicitamente alcuni aspetti: la componente legata alla sopravvivenza fisica – il cibo –, l’uso di artefatti più ampi nella gamma rispetto alla caccia, la dimensione cooperativa, la specificità culturale collettiva che si esprime nel tempo – il legame generazionale – e nello spazio – la migrazione umana da un territorio a un altro. Inoltre, la sua intuizione consente di evidenziare che lo sforzo di collaborazione che l’agricoltura implica richiede la capacità di codificare conoscenze e di trasmetterle rapidamente ed efficacemente ad altri individui, nel presente e nel futuro; l’agricoltura, per poter ricavare cibo dai terreni, necessita infatti del trasferimento alle generazioni successive delle conoscenze e delle competenze acquisite. Questo passaggio ha probabilmente influito anche sulla manifestazione e sulla comunicazione delle emozioni, poiché queste durante la caccia rientravano entro un ventaglio sostanzialmente molto basic e non richiedevano un controllo particolarmente sofisticato del sistema motorio attivato dal loro insorgere, mentre con il passaggio all’agricoltura si è reso necessario un maggiore governo del sistema motorio, il che può aver implicato anche una diversa relazione con le configurazioni emozionali. È ovvio che l’agricoltura sia strettamente connessa al cibo, ma è significativo sottolineare che essa è anche collegata alla cottura e cucinare è una delle caratteristiche che definiscono gli esseri umani, come ha annotato James Boswell (1785). Ugualmente la cottura può aver svolto un ruolo rilevante nel rendere raffinata la vocalizzazione: il passaggio dal cibarsi con i soli cibi crudi ad aggiungere quelli cotti può aver progressivamente modificato non solo alcuni aspetti anatomici, inducendo una trasformazione

della dentatura, ma può aver generato mutamenti sia nella parte del sistema motorio che fa funzionare muscoli e ghiandole connesse all’alimentarsi, sia nei muscoli coinvolti nel parlare, i quali trovano il loro correlato neurale nella corteccia motoria primaria, che a sua volta coinvolge anche la corteccia prefrontale, nella quale è stato evidenziato un importante centro funzionale del linguaggio, l’area BA44 e BA45, nota come area di Broca14 e che qui denomineremo invece complesso di Broca (Hagoort 2005)15, implicato anche nella preparazione al movimento, agli atti e alle azioni grazie a quello che Stanislas Dehaene (2005) ha denominato neuronal recycling e ripreso in chiave ancora più rilevante da Michael Anderson (2010; 2014). Il maggior governo del sistema motorio, legato a una più sofisticata dinamica emotiva, ha consentito all’articolazione del linguaggio di diventare più raffinata e la raffinatezza è stata ragionevolmente potenziata anche dal passaggio dal cibo crudo a quello cotto, per la maggiore sensibilità della bocca che questo implica. È probabile quindi che al variare della dieta, in particolare grazie alla cottura, la sensibilità sensoriale di queste parti del corpo si sia raffinata e contestualmente abbia generato la possibilità di emettere suoni più articolati. Una delle ipotesi recenti entra ancora più nello specifico e tende ad avvalorare la tesi del linguista Charles Hockett (1985): il passaggio a diete composte da cibi più morbidi sembrerebbe aver favorito la pronuncia di consonanti labiodentali come la “f” e la “v”, grazie al riallineamento della dentatura ingenerato da questa variazione (Blasi et al. 2019). Comunque l’overbite potrebbe essere stata causata non da questo singolo fattore, bensì dall’interazione fra questa modifica comportamentale e altri fattori circoscritti spazialmente e culturalmente. La tesi cardine, prettamente speculativa, che verrà sostenuta in questo lavoro è che il sistema motorio sia centrale nelle modalità di funzionamento del linguaggio e che la maniera in cui

il suo funzionamento è strutturato abbia consentito al linguaggio di svilupparsi nel modo in cui noi lo pratichiamo; sostanzialmente i movimenti, gli atti e le azioni sono la precondizione per creare la possibilità di un’azione come quella del parlare. Il parlare potrebbe essersi articolato a “imitazione” dei movimenti, degli atti e delle azioni che il corpo assume nella gestione dello spazio e la dimensione ritmica ne potrebbe essere la condizione caratterizzante. Inoltre, l’attivazione del parlare trova la sua ragione in un movimento interno specifico, in una motivazione caratterizzante: la dimensione emozionale. Questa, con la sua molteplice, composita e complessa specificità, è assai credibile che sia stata il trigger del linguaggio umano, il quale è venuto strutturandosi grazie a un intreccio fra configurazione del sistema motorio e dinamica emotiva, determinando a sua volta aspetti che si sono evoluti in un ordito non facilmente districabile. Inoltre, è molto plausibile che siano stati gli uccelli il modello di imitazione-apprendimento delle articolazioni vocaliche, data la piacevole musicalità – un pathos positivo all’insegna di ritmi e melodie – dei loro suoni. Il linguaggio potrebbe essersi istanziato quindi grazie a competenze cognitive primarie multiple, e/o più generali, fattesi progressivamente più articolate e sofisticate, come parte di un conseguimento cognitivo più esteso, avvenuto per imitazione e ricorsività, all’interno di un organismo evolutosi per rispondere a composite e complesse finalità ambientali, che implicano la coevoluzione di individuo e ambiente all’interno di un processo dai caratteri enattivi e che ha fatto sì che il linguaggio si presenti sostanzialmente come un’attività creativa16. Centrali potrebbero essere state le competenze cognitive legate a movimenti, atti e azioni umane innestate da configurazioni emozionali, in un contesto ricco di oggetti e di suoni fra i quali i più rilevanti sono quelli a carattere musicale in quanto suscitatori di configurazioni emozionali. Del resto, movimenti,

atti e azioni che fanno riferimento alla produzione musicale sono afferenti al sistema uditivo così come lo è il sistema linguistico (Patel 2008). Pertanto, il nesso fra linguaggio e musica deve essere stato centrale nella genesi linguistica. Infine, all’interno delle diverse relazioni sociali dell’homo sapiens la relazione con il caregiver, in particolare la relazione mamma-cucciolo, è quella che ha certamente svolto un ruolo cruciale nell’emissione nelle prime fasi vocaliche, quelle articolate per attrarre l’attenzione in riferimento a oggetti necessitati e/o desiderati. Ognuno di questi aspetti per evolversi ha richiesto che gli apparati anatomici e cerebrali, del proferire e dell’udire parole, si siano sviluppati in modo contestuale, poiché non parliamo se non quando qualcuno ci ascolta, il che vale anche per il dialogo interno che, all’apparenza, è privo dell’emissioni di suoni. In relazione al linguaggio intersoggettività, interoggettività, propriocezione e risposte adattative si presentano, di conseguenza, come processi interconnessi, costantemente dinamici e ricchi di interrelazioni, come del resto si verifica per ogni altro aspetto inerente la vita attiva. 1.3 Nel downtown del corpo È assai probabile che il fenomeno linguistico sia il risultato di una coevoluzione fra strutture e funzioni, una posizione già descritta in modo articolato da Aristotele nel Libro secondo della Fisica, quando argomenta come la causa finale incorpori la causa efficiente. Pertanto, per spiegare l’insorgere e lo svilupparsi della facoltà del linguaggio farò riferimento alla teoria denominata saltazionismo, la quale si connette all’ipotesi di una evoluzione descrivibile anche tramite equilibri punteggiati (Gould & Eldredge 1972); una teoria caratterizzata dall’assenza di segni che la paleontologia sia in grado di rilevare per dimostrare un’evoluzione lenta e progressiva. Il saltazionismo – in questa sede rappresentato dall’ampliamento del cranio (encefalizzazione) – verrà qui ripreso e articolato in relazione al

sistema motorio e alle configurazioni emotive. L’assenza di ritrovamenti che attestino la progressione del processo di encefalizzazione sembrerebbero avvalorare infatti la tesi che anche per quanto riguarda l’homo sapiens l’evoluzione ha avuto dei salti e non siamo unicamente il prodotto di un processo lento e sequenziale, cosicché la realtà biologico-cognitivocomportamentale, sotto i nostri occhi, sarebbe dovuta alla compresenza di entrambe le dinamiche: il saltazionismo e l’evoluzione. Ne consegue che la comparsa del linguaggio sarebbe anche spiegabile grazie a una macromutazione non necessariamente adattativa e che avrebbe solo in un secondo momento assunto caratteri dati dalla necessità dell’adattamento. Questa prospettiva si può, in parte, connettere sia alla tesi di chi ha ritenuto, per un certo tempo, che la facoltà del linguaggio fosse riconducibile a uno specifico gene, FOXP217 (Lai et al. 2001; Marcus & Fisher 2003; Genet 2005; Benítez-Burraco 2007; Berwick & Chomsky 2015, pp. 44-88 e pp. 144-155), sia a chi sostiene che la facoltà del linguaggio sia ascrivibile alle interazioni fra più livelli genetici (Arshavsky 2009). Secondo questa linea di ricerca la facoltà del linguaggio, in quanto possibilità dell’emissione di suoni simili intraspecie, sarebbe condivisa con le altre specie animali, mentre gli aspetti genetici insieme all’acquisizione della capacità ricorsiva avrebbero consentito la formazione delle caratteristiche specifiche della specie umana e tale formazione sarebbe avvenuta per exaptation18 – un carattere formatosi per una determinata funzione, che diventa competente anche per altre e che in alcuni casi corrisponde alla creazione di una funzione nuova in strutture temporaneamente in disuso dal punto di vista evolutivo –, cioè l’encefalizzazione avrebbe provocato una riorganizzazione dei circuiti esistenti in funzione anche della capacità linguistica (Deacon 1992), in specifico centrale sarebbe l’abbassamento della laringe (Deacon 1997, p. 239).

Quello che differenzia la posizione assunta in questo lavoro dalla posizione di coloro che si rifanno alla sola dimensione genetica è il fatto che verrà sottolineato il carattere enattivo della dinamica evolutiva e l’assunzione che il processo epigenetico è costitutivo e co-costitutivo dei caratteri innati, trasmissibili e mutabili. Nella prospettiva abbracciata si farà riferimento agli studi che vanno sotto l’etichetta di embodied cognition (Gallese et al. 1996; Gallese & Lakoff 2005; Rizzolatti & Sinigaglia 2006), di grounded cognition (Barsalou 1999; Barsalou 2010), di situated cognition (Young et al. 1997; Gee 2010), ma soprattutto si cercherà di accreditare la validità della posizione che va sotto la denominazione di enactive cognition (Thompson 2011a), una posizione sostanzialmente olistica. Tutte quattro le posizioni partono dall’assunto che ciò che è centrale è il corpo umano, le sue competenze, le sue abilità19, ma ciascuna articola questa centralità in modo specifico. La finalità dell’embodied cognition, un termine inflazionato, è stata in primo luogo quella di scardinare la tesi che i processi cognitivi afferiscono unicamente a sistemi alti, cioè riflessivi. Così gli studiosi, e in specifico i neuroscienziati, che hanno dato vita a questa visione hanno iniziato ad analizzare i vincoli che connettono il corpo dell’individuo al “corpo del mondo”, partendo dal presupposto che le facoltà cognitive-elaborative dell’essere umano sono intrinsecamente fissate a meccanismi corporei che ne plasmano l’interazione con l’ambiente. Oggi possiamo dire che la battaglia è sostanzialmente stata vinta e che forse la denominazione stessa di embodied ha perso la valenza che assumeva originariamente e che è tempo di abbandonarla, tralasciando il termine o utilizzandolo per indicare un paradigma entro il quale si articolano posizioni non del tutto eterogenee. Nell’ottica embodied il linguaggio è letto come una capacità strettamente connessa a competenze come la percezione o

l’interazione con il mondo circostante tramite l’agire; competenze che sarebbero state convogliate anche dallo stesso linguaggio durante il percorso evolutivo. Cosicché il linguaggio opererebbe in modo multifunzionale influenzando molti processi cognitivi e retroagendo sulle stesse capacità percettive20, tanto che la funzione linguistica, se da un lato è vincolata dalle nostre capacità motorie e percettive, dall’altro influenza e ridefinisce le stesse capacità percettive e propriocettive (Papafragou et al. 2008). Una posizione coerente con le prospettive etologiche sulle cosiddette cecità cognitive (Pennisi 2003), cioè i vincoli con cui ogni specifica specie animale deve fare i conti sulla base della selezione ambientale (Mayr 1982). A partire da questi presupposti ha preso vita la grounded cognition che, come evoca la denominazione, nel comprendere i processi cognitivi pone il focus soprattutto sull’azione situata, sugli stati corporei e sulle rappresentazioni mentali e dà particolare rilievo agli aspetti percettivo-sensoriali più che al corpo in quanto tale (Barsalou 2008). Quest’ottica dipende dal fatto che per gli studiosi che si rifanno a questa posizione ogni singola rappresentazione riattiva stati motori, percettivi e introspettivi acquisiti durante l’esperienza. Secondo questa ottica, quando per esempio si verifica l’esperienza di accostarsi a una tazza da te, il cervello annota gli stati percettivi e li interpola con una rappresentazione multimodale immagazzinata nella memoria: per esempio il modo in cui si presenta la tazza da te, le percezioni interne ed esterne e le sensazioni che si provano quando la si tocca21. È in questo modo che si formerebbero i simboli percettivi, cioè le registrazioni delle attivazioni neurali che si verificano durante l’esperienza percettiva, operate dalle regioni sensomotorie del cervello. Si tratta di una posizione che tende ancora – sia nella terminologia con l’uso del termine rappresentazione22 (assai problematico), sia nella sostanza – a

creare una cesura fra mente, corpo e mondo in quanto non è in grado di spiegare come possa avvenire la prima “rappresentazione”, visto che non è ancora avvenuta una precedente “impronta” mnestica determinata da una precedente esperienza. La grounded cognition propone sostanzialmente l’idea secondo cui la cognizione umana è caratterizzata e condizionata dal collegamento fra il soggetto e il mondo esterno, un collegamento realizzato principalmente tramite il sistema sensomotorio, cioè il sistema di organizzazione corporeocerebrale che permette di avere una percezione del mondo esterno sulla base della quale agire in esso, tant’è che le sfaccettature di un oggetto (sopra, sotto, davanti, dietro, sinistra, destra) appaiono come appartenenti tutte al medesimo oggetto, e non a una serie di oggetti diversi, grazie alla percezione esterna e interna dei movimenti che il corpo implicitamente compie per percepire ed esaminare, quel determinato oggetto. Si tratta di una posizione che critica i modelli di cognizione disincarnata che intendono individuare le componenti formali, amodali, che organizzano i processi di pensiero umani per implementarle su strutture non necessariamente biologiche (Turing 1950), oppure unicamente connesse nella fase generativa a occorrenze collegate alla riflessione (Berwick & Chomsky 2015). Ma nonostante ciò ricade nella forma dualistica. In opposizione con la posizione defisicizzata, questi teorici argomentano che il complesso della cognizione umana si fonda sulla costruzione e conservazione di simulazioni modali (Prinz 2002), e a questa idea hanno contribuito numerose ricerche che dimostrano il coinvolgimento degli stati del corpo nella determinazione degli stati cognitivi (Lakoff & Johnson 1980; Barsalou et al. 2003; Smith 2005). In particolare, i movimenti, gli atti e le azioni svolgerebbero un ruolo decisivo nei processi di costruzione delle nostre rappresentazioni: il cervello umano, infatti, sarebbe in grado di acquisire gli stati esperienziali prodotti dall’interazione col

mondo esterno nelle varie modalità percettive, di integrarli e produrre una rappresentazione multimodale che verrebbe conservata nella memoria semantica. Le diverse modalità verrebbero successivamente evocate ogniqualvolta l’individuo abbia di nuovo a che fare con le esperienze archiviate, simulando così nel cervello le rappresentazioni percettive prodotte durante il primo immagazzinamento. L’idea è che nel cervello umano esista una sorta di homunculus a cui gli oggetti o parti del corpo già presentatesi ai sensi vengono ri-presentati, oppure che esista una schiera di agenti più elementari che svolgono ognuno una propria funzione in modo quasi indipendente fra loro. In quest’ultimo caso esisterebbero contemporaneamente diversi sistemi di coordinate, cosicché al concetto di rappresentazione di un oggetto o di parte del corpo la grounded cognition sostituirebbe quello di rappresentazioni, come se ogni rappresentazione servisse a una parte del cervello per svolgere la sua quota di comprensione del mondo, senza che sia necessario che tali rappresentazioni vengano successivamente unificate in una sola super-rappresentazione. Quest’ultima è una tesi che di per sé è ancora più fuorviante della precedente, in quanto non solo riproduce n volte il problema dell’homunculus, ma sovverte un principio cardine dell’evoluzione: quello economico. Per la grounded cognition il corpo, la ripresentificazione e la cognizione situata sono parte costitutiva della funzione linguistica. È indubbio che diverse ricerche hanno supportato alcune tesi legate a questa ottica: l’idea che i parlanti di una lingua si riferiscono, anche per i concetti astratti, a metafore “corporizzate” poiché questo sarebbe il modo con il quale gli esseri umani pensano (Lakoff & Johnson 1999; Boroditsky & Ramscar 2002; Gibbs 2006); e l’idea che anche aspetti più formali, come la sintassi e soprattutto la semantica del linguaggio naturale, siano connessi con costituenti dell’esperienza come lo spazio, le relazioni dimensionali e le forze

fisiche, ossia con la struttura del contesto situazionale (Kaschak & Glenberg 2000; Coulson 2001; Tomasello 2003; Kemmerer 2006). Le tesi avanzate dalla grounded cognition circa il linguaggio si rivelano particolarmente utili per comprendere come questo, tradizionalmente narrato unicamente come un sistema simbolico, riesca a descrivere la realtà esterna in quanto si ancora al mondo proprio per mezzo di apparati percettivi e motori, gli stessi che adoperiamo per metterci in relazione con l’ambiente in cui viviamo (Pulvermüller 2005). In sostanza il rapporto fra linguaggio e contesto-ambiente sarebbe il risultato dei dispositivi sensomotori e il linguaggio sarebbe parassitario di questi dispositivi. Il language grounding o il symbol grounding, di conseguenza, sarebbe il processo attraverso il quale parole ed espressioni del linguaggio vengono ancorate alla realtà per mezzo di schemi motori che danno vita a rappresentazioni, tanto che percezione e movimenti, atti e azioni non sarebbero semplicemente connessi alle nostre abilità mentali, ma ne sarebbero i costitutivi. In sostanza la cognizione umana sarebbe intrinsecamente connessa alla percezione tramite i movimenti, gli atti e le azioni, in un rapporto pluridirezionale che va dai movimenti, dagli atti e dalle azioni alla percezione e da questa alla cognizione rappresentazionale simbolica (Gallese 2003; Glenberg 2007). Si tratta di una tesi secondo la quale la mente è primariamente un sistema di simboli, strutturati categorialmente e concettualmente, abbinabili in modo vantaggioso, contraddistinti dal fatto di generare un coinvolgimento palese delle aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione di input percettivo-sensoriali e nella risoluzione di determinate e calzanti risposte motorie (Barsalou 2008). La concentrazione della grounded cognition sugli stati esterni e non sul corpo in sé, se ha il pregio di porre l’attenzione sugli

effetti dati dal contesto, ha però il difetto di sottovalutare la dimensione emotivo-affettiva e quindi il fatto, per esempio, per quanto riguarda il linguaggio, che l’intonazione vocalica, ritmica e melodica della comunicazione verbale può esercitare una risonanza emotivo-affettiva “di pelle” e quindi generare modifiche del sistema motorio, che a sua volta, reagendo, può produrre ricadute sulla dinamica emotiva (Wildgruber et al. 2005). Oltre all’embodied e alla grounded cognition esiste una terza posizione: la situated cognition e anche qui la denominazione è evocativa. La situated cognition assume gli elementi cardine della embodied e della grounded cognition ma si focalizza, sempre in relazione alla cognizione, sul radicamento corporeo nell’ambiente esterno, inteso sia in termini fisici che ambientali e/o sociali. Secondo gli studiosi che si rifanno a questa posizione il processo cognitivo avviene grazie alle informazioni percettive, ed essendo queste continue esse influenzano l’attività motoria e generano effetti che avvengono ovviamente sotto l’influenza dell’ambiente (Greeno 1994). Si tratta di una posizione che richiama l’interpretante dinamico così come descritto da Peirce (Calcaterra 2003), ed è una posizione molto vicina all’idea di “mente estesa”, exended mind di Andy Clark e David Chalmers (1998), secondo la quale la cognizione situata deve essere considerata il caposaldo della cognizione umana (Wilson 2002). È una posizione che si fonda sull’evoluzione e sull’osservazione che la sopravvivenza è dipesa dalla rapidità di adattamento e quindi della risposta alle condizioni ambientali. Il punto veramente debole di questa tesi è che esistono anche molte attività mentali off-line, come sognare a occhi aperti, fantasticare, immaginare o ricordare, che in questa visione non trovano spazio. L’ultima posizione è quella che verrà tenuta come quadro di riferimento in questo lavoro: l’enactive cognition. In base a questa

linea di ricerca gli stati cognitivi, che comprendono le diverse sfaccettature affettive, sono generati in un individuo perché questo è in relazione con l’ambiente attraverso l’attività corporea e il corpo è a sua volta il risultato dinamico dell’essere situato in un ambiente. Questo punto di vista prende avvio dall’embodied cognition e accetta alcuni aspetti messi in luce dalla grounded cognition e dalla situated cognition e mette al centro la tesi che il corpo e l’ambiente sono un corpo-ambiente e sono incarnati, e la percezione interna ed esterna è un atto o azione che a sua volta include la possibilità di agire tramite il corpo. Su queste basi l’enactive cognition elabora una fenomenologia della soggettività che individua nell’esperienza soggettiva situata e relazionale il fondamento dell’istituzione e della definizione di cognizione, dove la dimensione emotivo-affettiva svolge un ruolo cruciale. Si tratta di una posizione che fa riferimento a diverse discipline come la filosofia fenomenologica, la psicologia, la biologia e le neuroscienze (Varela, Thompson & Rosch 1991; Torrance 2005; Thompson 2007; Colombetti & Thompson 2008; Di Paolo, Rohde, & De Jaegher 2009; Thompson 2011a). L’enactive cognition mette al centro alcune questioni fra loro interconnesse: l’essere umano è una struttura autonoma, in grado di auto organizzarsi e auto costituirsi; è un essere capace di adattamento, cioè di reagire e rimodellarsi in base agli elementi esterni e quindi in grado di compiere atti e azioni che si strutturano durante un atto o un’azione situata e contestualmente incorporata, interagendo con l’ambiente (Merleau Ponty 1946, p. 25 e p. 91). Per l’enactive cognition il “mondo” si configura così come un’entità che compare dall’interazione adattiva che il corpo umano pone in essere in uno specifico contesto e dall’influenza che l’ambiente esercita sul corpo; pertanto, ambiente e corpo sono entità inseparabili coinvolte in un processo dinamico. Sarebbe l’esperienza consapevole a svolgere il compito cruciale della comprensione

dei meccanismi di funzionamento della mente (De Jaegher & Di Paolo 2007; Thompson 2007) e sarebbero soprattutto le configurazioni emotive ad agire nel modificare la relazione fra organismo e ambiente. L’enactive cognition sostiene che siamo, in quanto organismi umani, artefici di un contesto ambientale e sociale, poiché questo è sì un dato che ci ritroviamo come evoluzione biologica ma è anche opera e manipolazione degli esseri umani che ci hanno preceduto. La nostra relazione con l’ambiente, fattosi società, comporta un processo di adattamento che conduce a un risultato, un essere adattato, che nel processo di adattamento muta a sua volta. Creeremmo e rimodificheremmo l’ambientalesociale dinamicamente, nel quale noi stessi saremmo, a nostra volta, “creati” e “rimodificati” costantemente (Lewontin 1977). Il processo sarebbe l’adattamento e il risultato finale sarebbe la condizione di adattati. L’adattamento non può di conseguenza essere semplicemente il processo di graduale conformazione di un organismo all’ambiente, e insieme la specifica configurazione ambientale – la nicchia ecologica (Mayr 1982) – cui si va adattando l’organismo, poiché durante il processo i fattori sono essi stessi in costante mutamento. L’ambiente, la propria nicchia ecologica, esiste prima e anche nelle fasi in cui il processo di adattamento si dispiega, e ci sarà anche dopo. È semplicistico quindi ritenere che gli organismi definiscono le loro nicchie, perché in questo caso tutte le specie sarebbero già adattate, il che contrasta con il fatto che l’evoluzione, come dice la parola stessa, è un processo di adattamento in ininterrotto divenire, pertanto, le specie evolvono e quindi modificano morfologia, fisiologia, comportamento, al pari degli organismi. Il problema è comprendere come l’organismo o la specie possano in ogni momento essere sia adattati sia in fase di adattamento, ed è questo processo che ha condotto al concetto di exaptation (Gould & Vrba 1982).

La tradizionale concezione di adattamento comporta che la selezione modelli un carattere per un uso attuale, invece, l’exaptation prende in esame due altre possibili accezioni di adattamento: la prima fa riferimento a un carattere precedentemente modellato dalla selezione naturale per una specifica funzione di adattamento e questo carattere può essere cooptato per un nuovo uso; nella seconda accezione un carattere, la cui origine non può essere ascritta all’azione diretta della selezione naturale cioè a un non-adattamento, è cooptato per un uso attuale. Inoltre, esiste una struttura gerarchica nell’exaptation, ed è questa la strada da percorrere per fornire una spiegazione della peculiarità linguistica umana, sia in relazione alla connessione con la struttura ritmica del sistema motorio sia, in specifico, per quanto concerne la ricorsività dei caratteri del linguaggio. Si tratta di un’ipotesi speculativa che ha poco a che fare con la tesi che l’alterità del linguaggio umano, rispetto agli altri sistemi di comunicazione noti nel mondo animale, deriverebbe proprio dalla ricorsività linguistica, letta unicamente come ricorsività sintattica (Hauser, Chomsky & Fitch 2002). La prospettiva di coloro che fanno riferimento alla sintassi, oltre a soffrire dell’usuale solipsismo cognitivista, si espone a una verifica comparatistica nel mondo animale e i dati sembrano documentare invece che specie canore di uccelli – storni o fringuelli – mostrano, sia nella produzione delle vocalizzazioni che nella ricezione delle vocalizzazioni dei conspecifici, la capacità di produrre ed estrarre caratteristiche ricorsive23. Lo sviluppo di questa competenza è certamente dipendente dall’incontro con le vocalizzazioni degli altri individui della stessa specie, tanto che le evidenze neuroscientifiche hanno messo in luce che la lesione di una specifica area cerebrale, il nucleo laterale magnocellulare del nidopallido anteriore – una struttura motoria paragonabile ai nuclei della base dei primati

coinvolta sia nella produzione che nella percezione del canto –, impedisce ai fringuelli di discriminare le caratteristiche ricorsive del canto che ascoltano (Gleitman et al. 2005; Gentner et al. 2006; Abe & Watanabe 2011; Margoliash & Nusbaum 2009; Bloomfield et al. 2011). Come è intuibile la posizione enattiva include nell’ambientale il socio-culturale (De Jaegher & Di Paolo 2007), poiché le dinamiche di interazione fra due o più individui e fra individui e oggetti sono indubitabilmente in grado di modificare il contesto culturale e sociale. Individuo e realtà esterna-contesto-ambientesocietà danno forma a una struttura olistica che vive e si modifica e converte ininterrottamente e ineluttabilmente grazie alle interazioni intersoggettive e interoggettive. Ne consegue che le strutture cognitive affiorano dalle dinamiche sensomotorie ricorsive generate dalla relazione fra il corpo-persona e la realtà esterna-contesto-ambiente-società in cui l’individuo è gettato (O’Regan & Noe 2001a) e l’esperienza percettiva è definita sia dal processo che dal “prodotto” percettivo. Ne consegue che anche la conoscenza emerge dalla pratica di un cumulo di conoscenze precedenti che vengono a istanziarsi in azioni incorporate, adeguate e adattative in ogni specifica situazione (Colombetti 2013; Colombetti 2014). L’enactive cognition ritiene che per quanto riguarda il linguaggio gli esseri umani siano condizionati da come ciascuna lingua si struttura sulla base dell’esperienza e l’esperienza si struttura sulla base della lingua in un processo del tutto ricorsivo, e ogni lingua è tanto più articolata quanto è articolata la specifica esperienza: è ovvio che la parola “neve” abbia più sfumature in islandese, di quante ne ha nelle lingue del Mali o dell’Etiopia e che i suicidi siano tanto frequenti quanto più la parola dolore non trova espressione se riferita al dolore psichico (Turri 2012, p. 276). L’acquisizione individuale del linguaggio avrebbe di

conseguenza una base socio-pragmatica, fondata sulla capacità umana di cogliere le finalità comunicative all’interno del più complessivo fenomeno della comprensione dell’agire e di conseguenza l’apprendimento non può che avere una natura teleologica. Si tratta di un’acquisizione evolutiva che si dispiega attraverso la progressiva percezione, sensibilizzazione e acquisizione del significato pragmatico delle tracce espressive, comportamentali e verbali nelle circostanze rilevanti. La conoscenza e la padronanza del linguaggio fondano le proprie basi negli stati corporei, cioè nel sistema sensomotorio sia per quanto concerne le presentificazioni sia per quanto riguarda le dinamiche cognitive, comprese quelle affettive. E qui affiora un aspetto assai delicato sul piano filosofico, poiché il confine fra ontologia ed epistemologia tende a sfumare visto il nesso indissolubile fra azione e conoscenza, poiché la conoscenza si fonda sull’azione e nel contempo questa è funzionale ad agire per consentire una relazione fluida con il contesto. È indubbio che per l’enactive cognition l’intero corpo umano, con tutte le sue dinamiche articolazioni nel tempo – come dimostra lo sviluppo della capacità di scrivere e leggere (Wolf 2007) –, è stato coinvolto nello sviluppo del linguaggio, un corpo che non è nello spazio, bensì abita lo spazio. Un corpo concepito sia come Leib, ossia come corpo-soggetto preriflessivo, cioè come il corpo che ciascuno è, sia come Körper, ossia come corpooggetto, cioè il corpo che si possiede, il corpo in terza persona, il corpo per altri. “Io sono interamente corpo, e niente altro” (Nietzsche 1883, p. 37) scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra, profetizzando quella che cento anni dopo è stata chiamata embodied cognition. Un corpo gettato in un ambiente quale condizione necessaria alla nostra cognizione.

1.4 Nel giardino dove nasce e si sviluppa il linguaggio La metodologia di acquisizione del linguaggio è costituita con grande probabilità da un’imitazione ricorsiva scandita da un ritmo. Per quanto riguarda l’apprendimento e la dinamica imitativa, è bene prendere il via dalle tesi dell’antropologo Marcel Jousse, allievo di Marcel Mauss e forte utilizzatore delle argomentazioni da questi sviluppate sulle tecniche del corpo. Per Jousse la parola è un gesto che risponde a precise leggi ritmiche (Jousse 1925; Jousse 1930; Jousse 1974). L’elaborazione delle sue tesi si fondano sullo studio del ruolo del gesto e del ritmo nel processo relativo alle espressioni umane connesse con i processi mimetici, questi ultimi legati alla memoria e alla conoscenza. Per Jousse l’essere umano pensa con tutto il suo corpo e la legge che governa l’esistenza è il “il ritmo-mimismo”, un neologismo da lui coniato per indicare i gesti che dall’ambiente si accumulano come “mimemi” e vengono poi “rigiocati” dall’essere umano come azione e pensiero e che sono sempre scanditi da un ritmo. “Senza Mimaggio niente Anthropos”. Il mimismo è per Jousse la modalità attraverso la quale l’essere umano si relaziona all’altra/o da sé e lo fa proprio. Con il principio mimico si sviluppa il processo della conoscenza esperita, quel tipo di comprensione che nasce da un incontro ravvicinato interno. È Aristotele che ha affermato che l’essere umano è l’animale mimico per eccellenza ed è attraverso il mimare che ricava il bagaglio delle sue conoscenze e nel farlo prova piacere (Poetica 48b). Jousse aggiunge il fatto che “l’anthropos è il microcosmo che riflette come uno specchio e come un’eco il macrocosmo”, ma non solo, “l’anthropos è un animale interazionalmente mimatore” e nell’universo tutto è azione che agisce su altre azioni (Jousse 1974, pp. 16-17). È l’intero corpo che fa emergere la memoria e dagli organi affiorano le sensazioni, i colori, la luce, i suoni, i pensieri, i gesti, le parole e gli odori che accompagnavano lo svolgersi di quel momento vissuto e poi richiamato alla memoria (ivi, pp. 75-76), il che fa sì che il momento

dell’assorbimento dello stimolo sia seguito da una sua elaborazione che porta poi all’inevitabile necessità di esprimere lo stesso stimolo (ivi, p. 9). Vi è sempre un “agente che agisce un agito” (ivi, p. 44) e un’innumerevole quantità di interazioni concatenate di agenti che agiscono sugli agiti popola l’universo e l’individuo ha la caratteristica di assimilarle con tutti i suoi pori e di riproporle successivamente. Queste interazioni diventano consapevoli quando vengono afferrate dall’essere umano che le comprende mutandole nel gesto proposizionale. L’anthropos è caratterizzato dall’essere fabbricatore di strumenti e nel farlo non parte dal nulla ma combina o utilizza dei mimemi ricevuti: “l’uomo si fa pesce “in mimema” e fabbrica lo strumento acquatico che è il sottomarino; si fa uccello e fabbrica lo strumento aereo che è l’aeroplano” (ivi, pp. 61-62), e così via. L’antrophos è un interminabile complesso di gesti che prima di fabbricare attrezzi, i quali sono il naturale prolungamento dei suoi gesti, plasma il proprio gesto. Riproducendo in maniera fedele dentro di sé ciò che si svolge al di fuori di lui, l’anthropos gestualizza riproponendo in successione, come uno specchio vivo e cosciente, le fasi ritmiche di ogni interazione. Inoltre, “l’anthropos è un condensatore di energia vivente ed intelligente” (ivi, p. 143). Questa energia è movimentata dal ritmo: un mimema si innesca, esplode e svanisce innescando un altro mimema che, a sua volta, esplode e svanisce innescando un altro mimema e così via, all’infinito. Il ritmo umano è quindi considerato il ritorno di uno stesso fenomeno antropologico a intervalli biologicamente equivalenti. Ritmismo e mimismo sarebbero nell’essere umano in costante interdipendenza, poiché è il ritmo che cristallizza e distribuisce quanto il mimismo ha potuto accumulare come presa e conoscenza del reale, pertanto, la meccanica umana procede a fasi ritmiche di interazione. L’organismo è di conseguenza profondamente ritmizzato e ritmizzante “perché il ritmo trascina

tutto” (ivi, p. 146), anche se il ritmo biologico è diverso da quello metrico, in quanto quest’ultimo deriva dal primo: il nostro battito cardiaco, la nostra respirazione, come i nostri passi, in ogni tipo di andatura, si succedono a intervalli biologicamente equivalenti, ritmici. Jousse individua nel bilateralismo, e nel correlato bilanciamento, un’altra fondamentale legge antropologica che può essere colta già nella struttura stessa dell’individuo. Il bilanciamento produce equilibrio, ed è possibile riscontrarlo in tutte le azioni: nell’andatura ondeggiante, nel bambino che gioca, nella madre che culla suo figlio, nell’oscillazione delle braccia di una recluta, nel pensiero umano, visto che “pensare, nel suo significato etimologico, equivale a pesare, equilibrare” e quindi il bilateralismo è inteso come la “legge spontanea dell’equilibrio umano” (ivi, p. 306). L’intero sistema corporeo ottimizza meglio le sue risorse facendo lavorare alternativamente le due parti del corpo ed è questo “equilibrio dell’energia che si verifica in ogni specie di interazione” (ivi, p. 223). Cosicché per Jousse il parallelismo è la legge dell’organismo umano e ogni gesto espressivo tende a essere parallelizzato perché l’organismo umano è bilateralizzato, tanto che dividiamo lo spazio nel quale agiamo in avanti e dietro, destra e sinistra, alto e basso, visto che il centro di questo spazio è l’anthropos, il quale funge da spartiacque. Queste riflessioni di Jousse partono dall’osservazione che i bambini per aiutarsi nella ripetizione di una proposizione o di un verso si dondolano (balancement) e la vocalità è un gesto ritmomimico che trova una conferma e un’applicazione nei testi omerici, nel cui apprendimento a memoria egli rinviene uno schema ritmico costituito da due dondolamenti, gli stessi che caratterizzano lo stile biblico e ne deduce che il dondolamento è congenito. Una tesi che ritiene venga confermata anche dal termine greco mousiké nella sua primitiva accezione, cioè come

l’arte dei suoni, della poesia e della danza. Jousse osserva che è sulla mousikè che si innesta la matematica pitagorica, dal che ne ricava che la mousikè indica l’unione di logós, melodia e movimento e le vere potenze della natura sono rappresentate dall’armonia e dalla proporzione. Sottolinea anche che è con il principio dei giorni, i quali si susseguono con un dato ritmo, che cominciano sia i numeri che il computo dei numeri stessi, delle frasi, delle parole e delle lettere-cifre. Da antropologo sottolinea che si tratta dei costituenti che sono andati a formare presso i ‘sêferisti’ palestinesi il principio mnenonico e fa notare che nella Tôrâh tutto è pesato, tutto è contato, tutto è misurato. Il percorso joussiano parte dal mimismo per giungere al linguaggio umano. Il gesto interazionale mimetico trasposto sulle bocche umane diventa per Jousse il gesto proposizionale, la parola. Mimatore per natura, l’essere umano si fa specchio delle interazioni della realtà circostante, e fa loro eco e diventa un cinemimatore (mimica corporea), esprime cioè un linguaggio gestuale spontaneo, universale (ivi, p. 42). La logica del suo pensiero non può che condurlo a sostenere che l’origine di tutte le parole è onomatopeica, cioè mimismo-fonetica e che le parole rappresentano la dimensione economica, per antonomasia, dell’essere umano. L’economia energetica, a suo avviso, si insinua in tutti i meccanismi di espressione e di intercomunicazione per renderli più agevoli e meno dispendiosi di energia, di conseguenza ridurre al minimo gli sforzi è una costante che accompagna l’essere umano nella sua evoluzione. Una lingua è innanzitutto un sistema di mimemi sottesi alle diverse parole, le quali consentono di risparmiare energia rispetto agli altri gesti. Del resto, nei cuccioli umani è possibile osservare insieme alla tendenza spontanea di esprimersi con tutto il proprio corpo mimatore la tendenza a rigiocare con la bocca tutti i suoni della natura (ivi, pp. 124-126). Di conseguenza, il linguaggio vocale è in primo luogo mimica dei

suoni e dei movimenti orofacciali. Il punto di riferimento, anche in questo caso, è la prima infanzia, il momento della vita nel quale si apprende tramite le cantilene dondolanti della madre che favoriscono il sonno e questo accompagnamento corporeo appare essere la condizione per accentuare appunto le capacità mnemoniche (Bayer et al. 2011). Jousse fa anche riferimento alla tecnica di un gioco specifico, quella del suggerimento, dello “spifferare”, cioè dell’atto di dare l’imbeccata iniziale al compagno di scuola che non ricorda un verso o una proposizione e ne deduce che il linguaggio è in primo luogo gesto proposizionale, tanto che suggerito l’inizio si giunge in modo meccanico fino alla fine del processo. Questo atto unito al dondolamento costituirebbe un procedimento antropologico che egli rintraccia in vari ambienti etnici come legge mnemotecnica di concatenamento delle frasi, fra cui quello semitico, di cui sono ancora attuali le manifestazioni: è infatti sufficiente andare al Muro del Pianto a Gerusalemme o assistere a qualsiasi recitazione del Corano in una moschea per rendersi conto di quanto sia ancora presente la tecnica del dondolamento con la quale vengono mandati a memoria e poi riprodotti i versetti della Torah24 e del Corano. Il medesimo intreccio è alla base del fenomeno dell’ecolalia che si trova nei “tormentoni” di parole ripetute senza controllo e che come modello ha la relazione fra Narciso ed Eco (Turri 2012, pp. 32-35). L’originalità dell’approccio messa in atto dall’antropologo francese sarà successivamente rilevata da Roman Jakobson e Petr Bogatyrev con parole fortemente elogiative (Bogatyrev & Jakobson 1929, pp. 234-235) e molti degli aspetti descritti da Jousse sono stati riproposti in chiave evolutiva e neuroscientifica da Michael Corballis (2010), che ha rivitalizzato la tesi che “pronunciare parole è un gesto” e che vi è una connessione stretta fra ciò che avviene con la mano con ciò che avviene con la bocca.

Sul piano logico e sul piano della descrizione del funzionamento dei processi comunicativi non si vede per quale ragione il riconoscimento, il significato, di gesti orofacciali debba fare riferimento a un sistema neurale diverso da quello che concerne i movimenti, gli atti e le azioni manuali, visto che la dinamica evolutiva rispetta sempre il principio di economia ed eleganza (Changeux 1983; Changeux 2008). È indubbio all’osservazione che fin dalla più tenera età si può notare come un bambino tenti di farsi capire dalla madre mediante l’uso di gesti intransitivi maturati sulla base di precedenti gesti transitivi: se vuole un gioco che è a portata di mano lo afferra, ma nel caso in cui lo stesso sia posto in un luogo a lui irraggiungibile, la naturale pratica del bambino lo porta a protendere le braccia nel vuoto in direzione dell’oggetto desiderato, come se stesse tentando di raggiungerlo. In questo modo comunica la volontà di possedere il gioco e nel caso in cui la madre sia voltata il bambino accompagna i gesti con un suono del tipo “uhmm, uhmm”. La madre intervenendo e porgendogli il gioco stabilizza nel bambino l’uso di questo gesto intransitivo di carattere ostensivo, il che consente al bambino di valutarlo come efficace nel raggiungimento dell’obiettivo e di validarne così la possibilità della riproduzione. Quel che sappiamo sul piano scientifico è che esistono interazioni fra le aree prettamente linguistiche e quelle che si riferiscono al corpo e al contesto in cui esso opera25 e sono state identificate le popolazioni di neuroni che le abitano: i neuroni specchio (mirror neurons). I gesti orofacciali, che includono i suoni linguistici, non sono gesti originariamente arbitrari, al contrario derivano dalla ritualizzazione o dall’acquisizione del controllo motorio di espressioni emotive o di gesti ingestivi. La motivezza e l’arbitrarietà rappresentano i due poli di un continuum (Pollick & Waal 2007) e sono la base per tenere insieme emozioni e ipotesi gestuale.

Le ricerche sul sistema specchio hanno fatto emergere che emozioni, sensazioni, esecuzione di compiti e linguaggio vengono riflesse dall’individuo “passivo”: percepire i movimenti, gli atti e le azioni di un altro individuo attiva le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a compiere quei movimenti, quegli atti, quelle azioni. In questa prospettiva, il termine agire, inteso come attivazione in senso motorio, assume un’accezione assai più ampia di fare, poiché eseguire un compito è solo una delle sue declinazioni, al pari di emozionarsi, percepire, parlare, pensare, ricordare e immaginare, infatti quella fra agente e percettore è una risonanza somatica, poiché è motoria. Gli atti altrui vengono sostanzialmente imitati, riprodotti, dal sistema motorio del percettore. Una delle proprietà funzionali più importanti dei neuroni specchio è “capire” anticipatamente le finalità dei gesti e insieme stabilire la congruenza fra l’atto o l’azione osservate e quello eseguito in prima persona26; si “afferra” così l’intenzione e la finalità del comportamento altrui, si comprende l’intenzione, la finalità degli atti e delle azioni dell’agente e quindi anche del parlante. Il sistema specchio è inoltre in grado di selezionare sia il tipo di atto o azione, sia la sequenza dei movimenti che lo compongono, ed è un sistema che si attiva anche nel caso di atti mimati, cioè nelle pantomime, e quindi anche senza l’effettiva interazione fisica con l’oggetto, o nel caso di gesti intransitivi, cioè privi di un correlato oggettuale come quando per esempio si alza un braccio o lo si agita. Si parla di congruenza in senso stretto, cioè di esatta corrispondenza fra atto o azione eseguita e osservata quando questi neuroni si attivano sia durante la visione di un atto o un’azione motoria vista, sia durante la messa in opera in prima persona dello stesso atto o della stessa azione; mentre si parla di congruenza in senso lato quando non vi è esatta corrispondenza come nel caso in cui un neurone si attiva per un

solo tipo di atto motorio eseguito, per esempio l’afferrare, e per due diverse tipologie di atti o azioni motorie osservate, per esempio afferrare e tenere. L’ipotesi interpretativa suscitata da questa scoperta consente di affermare che movimenti, atti e azioni altrui possono essere riconosciuti da un osservatore in quanto l’agente e l’osservatore condividono il medesimo repertorio motorio. Il riconoscimento annovera quindi il vincolo che è dato dalla condivisione delle potenzialità motorie (Fogassi et al. 2005; Iacoboni et al. 2005; Bonini et al. 2010), perché se le potenzialità motorie sono differenti, anche solo nei gradi, la comprensione o è ridotta o è nulla. Controprova ne è che l’osservazione degli atti e delle azioni comunicative implica un differente tipo di messa in funzione che dipende dalla specie che compie l’atto o l’azione, tanto che il meccanismo specchio è efficiente per gli atti e le azioni comunicative dell’essere umano, mentre per azioni come l’abbaiare del cane questa risonanza manca, perché il latrato di un cane non appartiene al sistema motorio umano. Possiamo emulare il latrato ma non siamo in grado di compierlo correttamente. Invece, nel caso dell’emissione e della comprensione delle parole il programma motorio e la presentificazione neurale si attivano pressoché simultaneamente, in modo che le connessioni sinaptiche fra i neuroni di specifiche aree motorie e premotorie e quelle delle aree del linguaggio diventano più forti, corroborando così anche per questa via la tesi che postula un’origine gestuale del linguaggio più che un’origine meramente vocale. La ricerca intorno al sistema specchio è stata dalla sua origine a oggi molto articolata tanto che sono state identificate diverse tipologie di questa famiglia di neuroni: ingestivi, della bocca e comunicativi. A questi si sono aggiunti neuroni specchio con proprietà audiovisive, cioè neuroni attivi non solo quando si esegue o si osserva una determinata azione, ma anche quando si

sente unicamente il suono relativo all’azione stessa, senza poterla osservare (Kohler et al. 2002; Keysers et al. 2003): alcuni atti motori, come spezzare o manipolare degli oggetti oppure stappare una bottiglia, provocano un rumore e questi neuroni sono capaci di attivare la presentificazione motoria di un atto e di un’azione anche solo su base acustica (Ferrari & Fogassi 2004). Appare plausibile, quindi, che ciò che del sistema motorio viene evocato visivamente e ciò che di questo viene evocato acusticamente stia alla base della teoria motoria della percezione del linguaggio. Quello che differenzierebbe i tipi di “risonanza motoria” sarebbero solo le modalità sensoriali, le quali evocano nell’osservatore o nell’ascoltatore le presentificazioni motorie che egli utilizzerebbe per determinare gli stessi effetti e le potenzialità comprensive. L’ascoltatore percepisce e decodifica i suoni linguistici mappando l’input sul repertorio di comandi motori necessari per produrre quei suoni, che anche lui potenzialmente possiede. Inoltre, vi è anche una attivazione incrociata fra l’area visiva e l’area deputata al controllo dei muscoli della vocalizzazione, della fonazione e dell’articolazione, quindi una tendenza preesistente a mappare certe forme visive traducendole da certi suoni: per esempio “piccino piccino”, minimo, sono esempi di imitazione fisica dell’aspetto visivo della qualità e quantità indicate, come pure “largo” o “enorme” (Kohler et al. 2002; Keysers et al. 2003). La tesi che il linguaggio con le parole sia uno stadio del processo evolutivo di quello gestuale, quindi un suo prolungamento evolutivo, è dunque sostenuta dalle ricerche sui neuroni che si attivano durante l’esecuzione o l’osservazione di azioni transitive con la bocca, come l’ingestione (i neuroni specchio ingestivi) o la comunicazione (neuroni specchio comunicativi), i quali rispondono anche all’osservazione di azioni di tipo intransitivo, appartenenti al repertorio dei comportamenti comunicativi (Binkofski et al. 1999 a; Binkofski

et al. 1999 b; Ehrsson et al. 2000; Buccino et al. 2001; Aziz-Zadeh et al. 2002; Aziz-Zadeh et al. 2004; Molnar-Szakacs et al. 2005; Aziz-Zadeh et al. 2005; Iacoboni & Dapretto 2006). È possibile che proprio il sistema specchio abbia contribuito allo sviluppo della comunicazione fra individui, dapprima come comunicazione gestuale e successivamente come linguaggio (Rizzolatti & Arbib 1998; Gentilucci & Corballis 2006). È infatti ipotizzabile che una iniziale comunicazione costituita da “protosegni” gestuali, di matrice pantomimica, abbia successivamente iniziato a evolversi in un linguaggio di matrice vocale a cui la gestualità è, nel corso del tempo, divenuta accessoria (Gentilucci & Corballis 2006). Il sistema specchio sarebbe intervenuto creando una piattaforma comunicativa fra gesto e linguaggio; gesto e linguaggio sarebbero espressione, pertanto, di un unico sistema di comunicazione (Kendon 2004; McNeill 1996), di cui il gesto sarebbe la base strutturale. Tale comunicazione “motoria” sarebbe quindi avvenuta tramite movimenti sia manuali che orofacciali, come accade in alcune scimmie prossime all’essere umano. Con l’evoluzione e con la stretta relazione che si sarebbe creata fra movimenti oro-facciali e gesti, l’informazione e la comunicazione con un altro individuo sarebbe poi stata veicolata collegando alla via gestuale una vocalizzazione finalizzata, strutturata e ricorsiva come è ricorsivo il sistema motorio; dal protolinguaggio al linguaggio (Ruhlen 1994; Bickerton 2009). Tale forma di comunicazione sarebbe ulteriormente evoluta e, l’insieme di gesti e vocalizzazioni, sarebbe stata, con la maturazione del complesso di Broca, progressivamente sostituita dalle parole, a tal punto da far diventare il gesto accessorio nell’emissione di suoni (Rizzolatti & Arbib 1998; Gentilucci & Corballis 2006; Zlatev 2008; Corballis 2009; Corballis 2010a; Corballis 2016; Corballis 2017). A convalida è ciò che avviene a livello fono-articolatorio: l’ascolto di fonemi induce un’attivazione dei circuiti neurali

coinvolti nella loro esecuzione (Fadiga et al. 2002; Toni et al. 2008), tanto che quando ascoltiamo parole e frasi dette da altri il nostro sistema motorio entra in risonanza e innesca quella parte del sistema che ci serve per produrre quelle stesse parole e frasi e che comporta anche un’attivazione correlata alla semantica, tanto che l’ascolto di parole genera la messa in funzione dei muscoli della lingua maggiore di quella avviata dell’ascolto di pseudoparole (Fadiga et al. 2002). Inoltre, i termini che richiedono un forte uso della lingua (‘birra’ verso ‘baffo’) innescano nell’ascoltatore un coinvolgimento più alto: tanto più intenso è il coinvolgimento motorio dell’emittente tanto più rilevante è il grado di attivazione del destinatario (Di Pellegrino et al. 1992). Secondo questa interpretazione, l’esercizio e l’allenamento linguistico migliorerebbero le prestazioni perché la pratica aumenterebbe il vocabolario d’atti e d’azioni di un parlante ma anche di un ascoltatore, permettendo a quest’ultimo così di anticipare l’esito delle locuzioni vocalizzate. Quello che determinerebbe la percezione del linguaggio sarebbe quindi l’articolazione necessaria a produrre il suono. Di conseguenza, non esisterebbero singoli suoni, ma catene di movimenti articolatori che producono suoni diversi a seconda delle diverse parti della bocca coinvolte nel movimento. In questo modo, è possibile spiegare l’apparente velocità con la quale percepiamo il linguaggio perché quello che percepiamo non sono i 10-15 suoni al secondo, ma i diversi movimenti eseguiti dalla bocca di chi sta parlando, che in realtà sono molti meno dei suoni. Esattamente come avviene per i meccanismi sottostanti la comprensione dell’azione, l’attivazione del nostro sistema fonatorio ci permette di percepire e di prevedere i suoni linguistici dell’altra/o. I circuiti neuronali alla base della produzione e della comprensione del linguaggio devono di conseguenza essere reinterpretati tenendo soprattutto conto dei meccanismi che

regolano la percezione (D’Ausilio et al. 2012). Si tratta di meccanismi di risonanza motoria a livello fonologico: l’ascoltare e l’osservare espressioni boccali, prodotte durante il parlare, aumentano l’ampiezza dei potenziali motori registrati dai muscoli delle labbra di chi guarda e ascolta (Watkins et al. 2003), pertanto, la comprensione di queste azioni comunicative sembra essere accompagnata dalla riproduzione motoria delle stesse azioni comunicative. Quello che amplifica il risultato di questi studi è che non soltanto la percezione del linguaggio, ma anche il monologo interiore, attiva il sistema motorio con le modalità ora descritte (Mc Guigan & Dollins 1989; Aziz-Zadeh et al. 2005). Un aspetto molto interessante e cruciale è che i neuroni specchio comunicativi si attivano non solo durante l’esecuzione, l’osservazione e l’imitazione di espressioni orofacciali ma ugualmente durante azioni della mano (Buccino et al. 2001; Fogassi & Ferrari 2007; Gallese 2008b), come nel caso del lipsmacking, cioè della protrusione o dello schioccare delle labbra. Gesto che per gli scimpanzé indica intenzioni affiliative (Fadiga et al. 2002; Watkins et al. 2003). Il lipsmacking è un gesto comunicativo con alto valore emotivo, non molto diverso dall’usanza che fino a un tempo non lontano ha visto gruppi di donne “spidocchiarsi” reciprocamente fra i capelli (Ferrari et al. 2003). Inoltre, la relazione fra gesti comunicativi puri e gesti comunicativi vocali sarebbe accreditata dal fatto che il sistema comunicativo si è evoluto dal sistema ingestivo controllato dalle aree motorie ventrali (MacNeilage 1998).

Il fatto che l’ingerire e il comunicare rimandino a un substrato neurale comune appare particolarmente significativo, soprattutto alla luce di alcuni studi di carattere ecologico ed evolutivo condotti su primati non umani. Atti comunicativi quali lo schioccare delle labbra (lipsmacking) o la protusione delle stesse

sarebbero evoluti da un repertorio di movimenti originariamente associati all’ingerire e legati alla pratica del grooming, ossia alla pulizia e allo spulciamento reciproco della pelliccia. […] Lo schioccare delle labbra in assenza di grooming apparirebbe così come una sorta di ritualizzazione di un atto motorio che trasforma le funzioni comportamentali connesse all’ingerire in funzioni comunicative. E lo stesso vale per gesti quali la protusione delle labbra o della lingua (Rizzolatti & Sinigaglia 2006, pp.89-90). Si tratta di una continuità ontogenetica del gesto, fra forme prelinguistiche e forme linguistiche (Capirci et al. 2005; Stefanini et al. 2009; Congestrì et al. 2010; Pettenati et al. 2010), e da qui deriverebbe il dato che la comunicazione intenzionale inizia mediante vocalizzazione e gesti deittici come l’indicalità. Del resto, ogni comunicazione vocale è accompagnata da gesti, espressioni diverse dello stesso sistema che contestualmente ne rafforzano la componente semantica (Kendon 2004; McNeill 2000; McNeill 2005; Gagliardi 2014). Nella competenza comunicativa globale, che non è fatta solo da grammatica e sintassi ma anche da intonazioni ed espressioni, il cervello si comporta come organo unitario, gestendo quindi il compito complessivo della comunicazione con l’interezza delle sue funzioni. Esiste di conseguenza una stretta correlazione fra la produzione linguistica e l’esecuzione-osservazione di gesti delle braccia e delle mani, e differenti azioni influenzano il movimento delle labbra e le formanti della voce dell’osservatore: l’osservazione dell’afferrare oggetti con la mano influenza la prima formante, che è collegata con l’apertura della bocca, mentre l’osservazione del portare oggetti alla bocca influenza la seconda formante dello spettro vocale, collegata alla posizione

della lingua (Gentilucci et al. 2001; Gentilucci et al. 2004), tanto che termini come “ciao” o “alt” e i corrispondenti gesti comunicativi del braccio si influenzano reciprocamente quando sono emessi simultaneamente (Bernardis & Gentilucci 2006). Ciò significa che le parole pronunciate e i gesti corrispondenti sono codificati da un unico sistema di comunicazione all’interno della corteccia premotoria – area BA44 della corteccia premotoria nel complesso di Broca – come un segnale singolo (Aziz-Zadeh et al. 2005). Pertanto, il significato di un enunciato sembra fondato sul modello dei gesti e sul risultato atteso dei gesti: l’acquisizione delle strutture sintattiche di sostantivi e verbi provvederebbe alla comprensione, e il gesto costituirebbe una componente della produzione linguistica. I fenomeni linguistici non risiedano però interamente nei sistemi deputati agli atti e alle azioni, ma entrano in gioco anche i sistemi percettivi nella loro globalità e soprattutto entrano in gioco i sistemi emotivo-affettivi, i quali concorrono in modo determinante alla comprensione delle locuzioni (Haruno et al. 2003; Glenberg & Gallese 201127). Il linguaggio avrebbe quindi una spiegazione ontogenetica e una filogenetica. Ontogeneticamente a partire dai neuroni specchio, in specifico quelli ingestivi, attivati da azioni di tipo comunicativo che possono rendere conto dell’evoluzione. Nelle lingue specifiche i neuroni specchio consentono l’imitazione sensoriale-percettiva della cultura di appartenenza, comprese le emozioni, tanto che le parole assumono una coloritura emotiva specifica a seconda della latitudine, cosicché le configurazioni emotive non solo denotano il contenuto di una frase, così come denotano una situazione o uno stato, ma la connotano anche. I neuroni specchio hanno con grande probabilità svolto un ruolo importante nello sviluppo di un vocabolario comune, consentendo l’assimilazione attraverso l’osservazione e l’imitazione (Miller & Dollard 1941), la quale rappresenta un

elemento fondamentale per lo sviluppo ontogenetico del linguaggio (Brandi 2005). Infatti, gli “scimmiottamenti” hanno l’importante funzione di far apprendere; in questo caso di imitare vocalizzazioni viste e di correlarle con i suoni uditi. Inoltre, le espressioni del volto sono sempre sincronizzate con le parole e possono operare all’unisono nel definire un piano di analisi semantica dei messaggi e sono la fonte principale della comunicazione emotivo-affettiva, tanto che l’uso di movimenti comunicativi del volto fra individui, in particolare l’esterocezione delle emozioni, può essere funzionale a tessere o a scoraggiare le relazioni e questo aspetto può essere stato determinante nell’evoluzione del linguaggio umano. Storicamente, l’imitazione è spesso stata proposta come un meccanismo o “il” meccanismo centrale di mediazione culturale per spiegare, da un lato, le origini e i processi di trasmissione, dall’altro la stabilizzazione dei fenomeni culturali, sia nelle specie animali, sia in popolazioni umane con specifiche tradizioni comportamentali, o a fronte di fenomeni di massa come i processi e le modalità di consumo. È stata generalmente considerata come una “facoltà speciale”, una sorta di meccanismo costruttivo, generatore d’apprendimento di competenze complesse e progressive, ed è stata concepita sia come una copia di singoli movimenti, atti o azioni sia come riproduzione dei processi, ed è generalmente ritenuta una facoltà strettamente connessa a compiti che coinvolgono il corpo. Konrad Lorenz ha dato vita a una scienza affascinante come l’etologia e il suo studio sulle taccole rimane nella storia di quella disciplina. La modalità imitativa da lui descritta al momento appare lungimirante e nel contempo riduttiva rispetto all’articolazione che questo termine assume in relazione ai neuroni specchio, infatti polisemico è l’uso del termine imitazione. I termini “imitazione” e “mimica”, così come il più colto

“mimesi”, derivano dal greco mimesis, introdotto da Platone nel terzo libro de La Repubblica e ampiamente utilizzato da Aristotele, in particolare nella Poetica, testo nel quale emerge la capacità di fornire autonomia sia al processo mimetico inteso come attività ed esperienza estetica fondamentale, sia al mŷthos come suo prodotto. La mimesi è letta, in primo luogo, come atto creativo. Nell’uso comune il termine imitazione ha sì un significato tecnico legato alle arti plastico-estetiche, cioè alla questione dell’arte come imitazione della realtà, ma soprattutto è un termine utilizzato correntemente nel linguaggio di tutti i giorni quando si fa riferimento alla riproduzione di oggetti fisici e quando parliamo di imitazione di oggetti non c’è ombra di dubbio che l’atto imitativo è consapevole e necessita della conoscenza sia dell’oggetto finale che si desidera realizzare, con tutti i suoi particolari, sia del processo da attuare per realizzarlo. Il termine “imitare” è indubbiamente utilizzabile al posto di “mimare”, non si dà l’inverso, cioè non siamo in grado di dire, se non modificandone la semantica che “Rachele mima la torta di Sarah e produce una torta”. In quest’ultimo caso immediatamente pensiamo che Rachele non stia facendo qualcosa di reale ma qualcosa di fittizio; fa qualcosa, ma non produce un oggetto fisico. Possiamo invece dire che Rachele imita il sorriso di Sarah e produce un sorriso. Pertanto, il termine con l’accezione maggiormente ampia è il termine “imitazione”, poiché include sia il processo imitativo sia ogni singolo atto o azione, e all’interno degli atti e delle azioni include sia l’imitazione di oggetti sia la mimica dei soggetti. Infatti, il termine “mimica” ha un utilizzo corrente molto più ristretto e viene in genere adoperato come termine tecnico nella critica teatrale e cinematografica per esprimere gli atti espressivi che chiamano in causa il sistema motorio, con particolare riferimento alla mimica corporea e soprattutto a quella facciale. La differenziazione fra i termini “imitazione” e “mimica” è di

conseguenza una delle prime cose che i mimi imparano a conoscere durante la loro formazione poiché il termine “mimica” fa riferimento costante e irrinunciabile alla fisicità, a un atto o a un’azione, l’atto o l’azione mimica, consapevole o inconsapevole e indica l’assunzione della postura speculare a chi sta di fronte: si mimano gesti come in una “danza” non verbale (Benjamin 1955, p. 71)28. I gesti mimici in un certo modo assomigliano a ciò a cui si riferiscono, e per questo sono iconici. L’iconicità della comunicazione mimica è, da un lato, un limite alla quantità di informazioni trasmissibili, poiché non tutte le cose sono rappresentabili con i gesti, ma dall’altro disegna un vantaggio, poiché i gesti mimici sono intuitivamente comprensibili, assomigliano all’oggetto a cui si riferiscono, e non è quindi necessario che gli interlocutori condividano una lingua né che abbiano un apparato fonatorio funzionante (Place 2000). Il corpo è quindi veicolo e attore della mimica e non c’è mimica senza corpo: una mimica astratta, dietro la quale non vi sia un corpo agente, almeno come ricordo, è un’assurdità. E ciò che distingue la mimica dal fisionomico è che la prima fa riferimento al fenotipo e la seconda al genotipo (Johannsen 1911). Quest’ultimo è una sorta di spartito-musica che si trasmette da una generazione all’altra; mentre il fenotipo è l’effettiva e specifica esecuzione del brano. Nella consuetudine l’imitazione non la si associa alla strutturazione dei pensieri e alle emozioni, non si valuta come plausibile che si imitino modi di ragionare, ma piuttosto che si imitino i contenuti del ragionamento, tanto meno si ritiene che le emozioni si apprendano per imitazione sia come processo sia come contenuto emozionale. Mentre vedremo che non è così. L’imitazione reciproca è di fatto un atto comunicativo per lo più inconsapevole, una sincronizzazione dei corpi, dei singoli movimenti, degli atti, delle azioni, che suscita senso di intimità e gradimento, nella persona imitata.

Aristotele nella Poetica sottolinea che: “l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali) […]. Tutti traggono piacere dalle imitazioni […]. Noi siamo naturalmente in possesso della capacità di imitare” (Poetica 48b). E così il filosofo stagirita anticipa la distinzione che molti studiosi evoluzionisti attuano fra emulazione, la capacità di copiare che hanno i bambini o gli animali, e la vera e propria imitazione, in quanto facoltà appartenente unicamente alla specie umana adulta, cioè la capacità di copiare il processo nei dettagli e di riprodurre un oggetto sin nei minimi particolari. Nel caso dei bambini l’emulazione è facilmente riscontrabile per esempio quando l’adulto protude la lingua e a sua volta il bambino protude la sua, difatti diversi gesti facciali vengono copiati dai bambini, anche dopo solo poche ore dalla nascita (Meltzoff 2002). Ma anche l’emulazione differisce fra i piccoli umani e i primati: nel confronto fra l’imitazione nei bambini da uno a tre anni e quella di diverse specie di scimmie si è quantificato che in media in un gesto ripetuto, la precisione in questi primati rispetto all’essere umano è circa il 40 per cento inferiore (Whiten & Custance 1996). Fra i gesti emulati può essere ovviamente incluso, in quanto gesto fra i gesti, il linguaggio, di cui un esempio significativo è il caso dei delfini, che riproducono prestissimo i fischi dei propri consimili e i suoni umani, e utilizzano l’emulazione per interagire e riconoscere i membri del branco, così come le antropomorfe che non hanno sviluppato una vocalità sofisticata e che hanno una scarsa capacità di riprodurre i gesti vocali umani ma sono in grado di emulare in modo autonomo la vocalità umana (Hauser 1996). Ne consegue che si può facilmente emulare ma non imitare. L’emulazione è una forma di copiatura, di riscrittura, di un comportamento, mentre l’imitazione è la ricopiatura di una

struttura organizzativa del comportamento, e la comprensione analitica del processo è più raffinata nell’imitazione che nell’emulazione. Quindi per imitare è necessario che l’organismo abbia la capacità di costruire strutture gerarchiche di movimenti, atti e azioni, con una competenza più generale di comprenderne le conseguenze. Per imitare è necessario che gli obiettivi stessi siano familiari o siano identificabili. Inoltre, l’emulazione nella fase di apprendimento include la capacità osservazionale circa le proprietà degli oggetti e dei potenziali rapporti fra di loro e la capacità di riproduzione tecnica e teleologica. Nella fase dell’esecuzione vengono copiate le attenzioni ai luoghi e agli oggetti e di volta in volta i comportamenti vengono adattati alle situazioni e quindi l’effetto imitativo originario nei dettagli viene meno (Romanes 1883). Come sappiamo per via esperienziale diretta o indiretta i gesti sono migliorabili e potremmo anche sostenere che sono flessibili, e tale flessibilità è data dall’adeguamento a un contesto, nel quale avvengono tre capacità fra loro strettamente connesse: percezione interna ed esterna, imitazione e apprendimento dei gesti stessi. Apprendimento per osservazione di sequenze motorie e imitazione delle stesse non sono però la medesima cosa. Nonostante entrambi i processi chiamino in causa simili, ma non identici, circuiti cerebrali, l’apprendimento per osservazione e l’imitazione di movimenti, atti e azioni si differenziano per l’istanza cognitiva che rispettivamente richiedono. A conferma della diversità fra apprendimento e imitazione, ci sono chiare evidenze scientifiche. Infatti, durante compiti di imitazione è quasi del tutto assente la partecipazione del cervelletto, area indispensabile per l’apprendimento. È ovvio che “imitando e imitando” qualcosa alla fine si impara, ma i tempi di acquisizione sono più lunghi rispetto all’osservazione di azioni eseguite con un certo criterio.

L’apprendimento di movimenti, atti e azioni per osservazione è di fatto un processo cognitivo di acquisizione di nuove informazioni e/o il perfezionamento delle stesse. Processo di tutt’altra natura è l’imitazione di movimenti, atti e azioni, infatti i movimenti, gli atti e le azioni osservate vengono immediatamente riproposte. Mentre nell’apprendimento per osservazione, il movimento, l’atto o l’azione osservata per essere appresa, immagazzinata, elaborata e recuperata, deve essere necessariamente capita, nell’imitazione di un movimento, di un atto o di un’azione, tale requisito non è indispensabile; possiamo infatti ripetere un gesto di cui non comprendiamo il significato. Se l’intento dell’osservazione è quello dell’acquisizione di una sequenza di atti motori, allora entrano in gioco anche i circuiti cerebrali sottostanti l’apprendimento29, e in questo modo l’azione non è semplicemente osservata, ma anche appresa. In letteratura ci sono moltissime evidenze che documentano come l’imitazione di movimenti, atti e azioni sia presente fin dalle prime ore di vita, suggerendo di conseguenza che tale processo sia innato, cioè che diveniamo naturalmente dotati durante lo sviluppo del feto di tale competenza. Infatti, dopo 42 minuti essere stati partoriti i neonati mostrano l’abilità di emulare le smorfie e i movimenti facciali che vengono effettuati davanti al loro volto da un adulto in posizione faccia a faccia, quali la protrusione della lingua, l’apertura della bocca, la protrusione delle labbra (Meltzoff & Moore 1977). Anche coppie di gemelli nel ventre materno mostrano chiari segni di imitazione reciproca (Meltzoff & Borton 1979). La capacità e il controllo motorio in questi primi momenti di vita non consentono però ai neonati di ricalcare le movenze con precisione, poiché prevalentemente i movimenti sono movimenti riflessi, anche se è fuor di dubbio che dispongono i muscoli della bocca in modo del tutto identificabile con la modalità imitativa. Inoltre, le ecografie relative alla vita

intrauterina consentono di osservare che quando il feto porta il dito alla bocca quasi sempre si attivano anche movimenti anticipatori della bocca, che non si verificano mai quando il feto porta le mani sul viso; il che condurrebbe a dire che si attivano assai precocemente le catene motorie che conducono a gesti imitativi complessi (Meltzoff 2002; Meltzoff 2007; Meltzoff 2009), propedeutici al futuro linguaggio. L’imitazione è a fondamento del controllo motorio e il controllo motorio è il motore trainante delle modifiche strutturali degli organi della fonazione. Se il suono è un gesto, affinché si sviluppi una qualunque capacità di emettere vocalizzazioni volontarie, occorre che vi sia prima una capacità di controllo motorio sugli organi deputati all’emissione sonora. Il cucciolo umano “sente” propriocettivamente e mette in corrispondenza con l’esperienza soggettiva l’esperienza intersoggettiva. La mente del neonato sarebbe fin dalla nascita organizzata in forma dialogica: la percezione interna ed esterna del sé corporeo sarebbe operativamente accoppiata a quella di altri e la costante complementarietà lo renderebbe capace di una percezione partecipante dei movimenti dell’altra/o e, quindi, di coordinazione intersoggettiva. Il rispecchiamento sarebbe immediato, ossia non mediato da alcuna elaborazione intellettiva o simbolica e l’imitazione neonatale costituirebbe la prova più convincente della capacità di mirroring. I neonati sono anche in grado di imitare attivamente alcune azioni dell’adulto se questi, dopo aver attratto affettuosamente l’attenzione del neonato stesso, genera in modo ripetuto movimenti, atti o azioni interessanti e contingenti con i segni di attenzione del piccolo (Ramachandran 2000; Meltzoff 2002; Bråten 2004; Goldman 2005; Trevarthen & Stuart 2005; Bråten & Trevarthen 2007). Infatti, neonati di poche ore non solo possono imitare la protrusione della lingua, ma dopo due o tre minuti tendono ad allungarla deliberatamente, come volessero generare una

risposta nell’adulto attento. Questa predisposizione per il mirroring avviene anche fra adulti: due soggetti che tentano di sincronizzare il tamburellare delle loro dita su una scrivania si sincronizzano con maggior precisione senza utilizzare un metronomo rispetto a quando questo è in uso. Ne consegue che gli esseri umani si adattano alla reciproca performance, in un processo di co-adattamento più di quanto siano dipendenti da strumenti finalizzati a specifiche funzioni. In pratica due esseri umani interagiscono fra loro, ma non con il metronomo, e ciò comporta una maggior spinta alla coordinazione dei movimenti che serve a facilitare le interazioni sociali. Inoltre, fra due oggetti con sistema motorio e la presenza di uno privo di sistema motorio assiologicamente prevale la prima relazione (Bråten & Gallese 2004). La percezione mostra di essere in grado di indurre gesti, e quindi di favorire apprendimenti motori, per via di similarità e questo senza dubbio può aver contribuito anche alla capacità di acquisizione del linguaggio. Inoltre, l’apprendimento può essere possibile utilizzando una sorta di stratagemma, ossia dividendo le singole fasi dell’azione: si dovrebbero prima scomporre le parole in sillabe, poi acquisire le sillabe, ricomporle di nuovo in parole e capire come organizzare la frase. In questo tipo di acquisizione, sicuramente più lenta, l’osservazione dell’azione, il mirroring, accelera però il processo di acquisizione30. Infine, esiste la questione della simpateticità, cioè la modalità in atto quando una persona guarda una scena in cui è profondamente immersa. In questo caso può accadere che svolga gesti legati alla scena e tali da sembrare indotti da essa. La simpateticità è un meccanismo diverso dal processo imitativo per alcune ragioni: è una dimensione sincinetica, ovvero avviene contestualmente ai gesti che accompagna. I movimenti simpatetici avvengono senza il concorso della volontà dello spettatore e, nonostante il loro carattere involontario, i gesti

simpatetici appaiono fortemente dipendenti dalla scena osservata (Knuf, Aschersleben & Prinz 2001). Infine, nei gesti sincroni diversi ascoltatori esposti a suoni ritmici tendono a portare avanti gesti in accordo col ritmo, e a trovare difficile sopprimerli. Gli stessi atti o azioni da imitare possono essere anche immaginate (phantasmata) e le immagini mentali possono essere categorizzate in “esterne” – quando immaginiamo una certa scena o un certo oggetto o la frase che qualcuno ha pronunciato o potrebbe pronunciare – e in “interne” – quando presentifichiamo mentalmente l’esecuzione di un determinato atto o azione, sia che riguardino tutto il corpo, sia che ineriscano a parti di esso e quindi anche ad atti o azioni linguistiche (Jeannerod 2006). Quando presentifichiamo mentalmente una specifica sequenza di atti locutori eseguiamo atti o azioni motorie generate da un’imitazione e tali evidenze suggeriscono che l’esperienza motoria è un fattore di primaria importanza nel miglioramento delle prestazioni linguistiche. Il miglioramento viene ottenuto anche tramite l’immaginazione. Immaginare di parlare produce infatti gli stessi meccanismi di plasticità corticale di quelli determinati da un continuo esercizio fisico finalizzato a una competizione sportiva. In genere, dopo avere individuato la sequenza motoria da eseguire, la si immagina accostando, se occorre, la ripetizione reale. Il medesimo processo avviene grazie alla ripetizione delle frasi nella nostra testa. Del resto, i circuiti cerebrali che si attivano quando si osserva qualcuno parlare sono gli stessi che entrano in gioco quando quella stessa azione viene realmente eseguita e sono in parte sovrapposti con quelli che si attivano quando l’azione viene immaginata (Roland et al. 1980). Ben prima della scoperta fatta dal gruppo di Parma relativa ai neuroni specchio è stata ipotizzata da Alvin Liberman (1957) una teoria motoria dell’origine e della percezione del linguaggio parlato. A suo avviso doveva esserci, oltre al sistema uditivo, un

altro modo grazie al quale l’essere umano percepisce le parole. Liberman presumeva che i costituenti ultimi del linguaggio parlato non fossero i suoni, ma i gesti articolatori, che si sarebbero evoluti appositamente al servizio del linguaggio e compresi per “risonanza motoria”. Questa tesi fu considerata eccessivamente teoretica e insufficiente per mancanza di evidenze sperimentali. Liberman cercò di capire come fosse possibile percepire i segmenti fonetici del linguaggio – consonanti e vocali – dal momento che l’orecchio umano ha una capacità di risoluzione temporale limitata. Oggi sappiamo che quando il nostro orecchio è pronto a percepire il secondo segmento della sequenza linguistica il primo è già passato (Craighero 2010)31 e che il sistema motorio è anche alla base sia della fonetica, cioè delle specifiche articolazioni acustiche, i fonemi, sia dalla fonologia, cioè delle categorie astratte di movimenti utilizzati per frazionare lo spazio dei gesti. Le unità minime del parlato non sono infatti foni o fonemi, bensì gesti articolatori (Browman & Goldstein 1986; Browman & Goldstein 1989; Browman & Goldstein 1990; Browman & Goldstein 1992; Browman & Goldstein 1995). L’approccio gestuale consente dunque di considerare ridondante la distinzione tradizionale fra fonetica e fonologia, fra il piano dell’esecuzione e il piano della programmazione. L’unità minima della produzione e l’unità minima della percezione coincidono in quanto in entrambi i casi il gesto è motorio. Gli studi sui neuroni specchio, come abbiamo visto hanno portato a evidenza, da un lato, che la comunicazione verbale potrebbe essersi evoluta nello stesso modo e a partire dalla comunicazione gestuale (Arbib 2005) e che la percezione del linguaggio è resa possibile dall’attivazione nel parlante e nell’ascoltatore delle medesime riproduzioni motorie rilevanti fonologicamente32, riabilitando così sia le tesi sul mimismo di Jousse sia l’idea della “risonanza motoria” di Liberman.

La gran parte dei filosofi, con la lodevole eccezione di Marcel Merleau-Ponty, non ha mai preso in esame in modo analitico la relazione fra gestualità ed emissione vocale e fra linguaggio pantomimico e linguaggio vocale e ha scarsamente analizzato i cosiddetti linguaggi di segni alternativi. Si tratta di segni elaborati da emittenti e riceventi per comunicare in circostanze particolari o in periodi in cui il parlare è proibito od ostacolato da determinate condizioni, sono in genere verbali, ma non vocali, come per esempio i linguaggi dei segni degli Indiani del Nordamerica e del Sudamerica o quelli degli Aborigeni australiani. Rientrano in questa tipologia anche i sistemi di comunicazione monastici praticati dove vige la regola del silenzio oppure certi linguaggi di segni professionali o artistici come quelli del teatro di pantomima o di alcune varietà di balletto, i gesti nel baseball, quando un ricevitore vuole tenere il battitore all’oscuro sul tipo di lancio successivo, o i gesti dei criminali che intendono nascondere certi messaggi ai testimoni, oppure il “linguaggio muto” utilizzato dai bambini o adolescenti che quasi tutti noi abbiamo imparato in giovane età. Del resto, ci sono culture della vocalità e culture del silenzio, come quelle che coinvolgono popolazioni giapponesi, lapponi, apache, navajo. Indubbiamente la comunicazione faccia a faccia è una comunicazione multimodale, costituita da linguaggio con le parole, da elementi paralinguistici (tono), da linguaggio senza parole (prossemica, cinesica, aptica); sostanzialmente una comunicazione legata ad aspetti anatomo-fisiologici e idiosincratici, relativi agli stati affettivi e alle disposizioni interpersonali a questi collegate. Si tratta di comunicazioni che vengono inviate sia nella modalità uditivo-vocale quanto in quella visivo-cinesica e che influenzano e sono a loro volta influenzate dalla fisiognomica e dalla patognomica. Per ipotizzare una realistica origine della facoltà del linguaggio, l’insieme e l’interagire dei fattori fin qui descritti può

rivelarsi la chiave interpretativa, ma il ruolo svolto dalle configurazioni emotive potrebbe essere invece la chiave che esplica non solo l’insorgere ma anche la raffinata struttura del sistema linguistico umano. La rilevazione di mutamenti fisiologici legati alle emozioni non è stata tradizionalmente connessa direttamente alle singole parole e men che meno alle singole lettere (Balconi 2008, pp. 137-142) bensì al solo tono della voce33; oppure ci si è o soffermati sulle parolacce espresse in momenti di rabbia notando che certi insulti hanno come dominante la lettera “effe” che consente la fuoriuscita dell’aria dal corpo, o prestando attenzione a termini evocativi o simbolici. Invece, c’è una relazione fra fonetica e configurazioni emotive, in specifico fra modificazioni del volto, in particolare di parti della bocca, e dimensioni emozionali, la qual cosa consente di intrecciare i risultati sul meccanismo specchio e lo studio delle caratteristiche articolatorie del parlato emotivo, dato che non esiste comunicazione che non incorpori in sé emotività o affettività, compresa la comunicazione che vorrebbe mostrare indifferenza. Sono stati Paul Ekman e Wallace Friesen (1978, 2002) che hanno provato a mostrare che le configurazioni labiali emotive si possono non tanto individuare nella differenza fra movimenti labiali espressivi e la produzione articolatoria linguistica o nella presenza o assenza di specifiche unità di azione, ma piuttosto in gradazioni diverse di intensità di attivazione e nelle associazioni di più unità. A questo si aggiunge il dato che le conoscenze che non sono veicolate esplicitamente dà segnali fisicamente percepibili possono essere recuperate dall’ascoltatore nel contesto fisico, linguistico o intellettivo, che consente di discriminare qualitativamente gli stati affettivi. Nessuna formulazione, nessun incaponimento espressivo tramite il linguaggio è comunque in grado di esaurire la percezione interna delle emozioni, dei sentimenti vissuti, degli

stati d’animo, degli stati affettivi in genere (Denton 2005). Il film Lo specchio di Andrej Tarkovskij ha avuto il grande pregio di celebrare l’impossibilità della parola di esprimere la complessità dei pensieri, delle emozioni, dei sentimenti e degli stati d’animo, mettendo a nudo il fatto che è impossibile comunicare compiutamente i vissuti. Il linguaggio ha di conseguenza un limite intrinseco. 1 La codifica dei postulati e delle credenze dell’economics la si può sostanzialmente datare intorno al 1870, quando uscirono quasi contemporaneamente i volumi di William Jevons (1871) in Inghilterra, di Carl Menger (1871) in Austria e di Leon Walras (1874) in Francia. In dieci anni la nuova teoria prese il sopravvento grazie all’enunciazione di Carl Menger, il quale ne definì l’oggetto: l’allocazione dei mezzi scarsi volta a provvedere alla sussistenza umana. Sarà Lionel Robbins, ribadendo sostanzialmente la medesima tesi, a sostenere che l’economia è “la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi” (Robbins 1932, p. 20). 2 È difficile e complesso stabilire con precisione una dinamica filogenetica e ontogenetica connessa all’homo sapiens, poiché il cespuglio degli ominini è prospero e rigoglioso di equilibri punteggiati e di fenomeni exattivi. 3 Una tesi particolarmente osteggiata da coloro che ritengono che il linguaggio umano non nasce unicamente come imitazione dei sistemi di comunicazione animale, soprattutto perché la sua creatività non ne troverebbe spiegazione. 4 I dati recenti dimostrano che l’apprendimento vocale, disgiunto dal significato del suono, quindi dalle altre componenti del linguaggio, si è evoluto in modo indipendente in tre tipi di mammiferi (i cetacei, i pinnipedi, i pipistrelli) e in diverse specie di uccelli; quindi una stessa abilità segue percorsi evolutivi simili ma indipendenti in specie diverse. 5 Nel linguaggio ci sarebbe un nocciolo duro non riconducibile ad altri domini animali, la cosiddetta funzione linguistica in senso stretto, in cui il principio di recorsività ne costituirebbe il fulcro. Tesi che si fonda sulla distinzione fra la facoltà del linguaggio in senso lato (FLB – Faculty on Language in the Broad Sense) e facoltà del linguaggio in senso stretto (FLN – Faculty on Language in the Narrow Sense). Mentre il primo è visto come un sistema computazionale che “lavora” per un verso con il sistema sensorimotorio e, per altro verso, con un sistema concettuale-intenzionale; il secondo rappresenterebbe, invece, il dispositivo combinatorio e ricorsivo capace di generare espressioni sempre più complesse, partendo da singole

unità lessicali. 6 Robert Brandom sviluppa una tesi che interseca il razionalismo di Gottlob Frege, il pragmatismo di Wilfrid Sellars e l’antropologismo di Ludwig Wittgenstein, e svela una considerevole diffidenza nei confronti delle teorie legate al riferimento diretto espresse da Saul Kripke, Hilary Putnam e David Kaplan e dà uno spazio rilevantissimo alla critica del concetto di “rappresentazione”. Per Brandom la struttura normativa della pratica sociale non è costituita da “stati intenzionali”, dalla biologia, ma da “stati normativi”, bensì dalla cultura. Sulla scia di Peter Strawson, Brandom cerca di dare corpo a una epistemologia descrittiva del linguaggio. 7 È il caso degli equilibri punteggiati, cioè la tesi connessa all’assenza di fossili nelle catene evolutive animali. Il riferimento, in questa seconda linea interpretativa, è anche alla teoria dei Pennacchi di San Marco, cioè ai tratti biologici che non sono prodotti diretti della selezione naturale, come nel caso del mento sul volto o dell’abbassamento della laringe. Di conseguenza non tutti gli aspetti delle entità biologiche sono generati dall’azione evolutiva, ma possono essere condizionate dalle forme preesistenti. 8 Gould ed Eldredge hanno definito questa posizione riduzionismo genetico, secondo la quale l’essere umano sarebbe geneticamente un “io” egoista e culturalmente un “noi” solidale, grazie all’esistenza, secondo le elaborazioni di Dawkins, dei memi, una sorta di “mattoncini” culturali equivalenti dei geni, che allocandosi nella mente consentirebbero di andare contro l’egoismo delle particelle cromosomiche. 9 In senso ampio la cognizione include linguaggio, attenzione, concentrazione, percezione, simbolizzazione, categorizzazione, contestualizzazione, associazione, immaginazione, memoria, rievocazione, logica, inferenza e significato. 10 L’origine della cartografia andrebbe ricercata proprio nello sviluppo del linguaggio nel suo senso più ampio. Le linee diagonali che s’intersecano sul blocchetto di ocra rossa di Blombos Bay, incise da una donna sudafricana o dal suo compagno 75000 anni fa, potrebbero rappresentare un primo tentativo di scomporre lo spazio amorfo e incognito in una serie di subunità spaziali discrete, memorizzabili, descrivibili e quindi dominabili e comunicabili. 11 Il significato di lógos originariamente indicava enumerazione o catalogo, solo successivamente i filosofi peripatetici vi attribuiscono diversi significati, dal linguaggio al discorso orale, al ragionamento mentale, ai rapporti che intercorrono fra grandezza in proporzione. Aristotele infatti attribuiva agli Antichi l’idea di lógos come rapporto e i numeri e i loro rapporti offrivano per i Pitagorici la chiave per la conoscenza della natura e delle sue manifestazioni. Le grandezze che non hanno lógos e sono incommensurabili come avviene per le diagonali e i lati del pentagono regolare sono alógos. Il lógos è istanziato nella sua stessa radice “lg”, che ha prodotto in greco il verbo

légo, che significa in primo luogo “mettere insieme, legare, raccogliere” e poi “parlare e dire” poiché parlare è discorso, cioè legare e quindi mettere insieme le parole. Da questo ha preso origine il verbo loghízomai, calcolare e il suo sostantivo calcolo, cioè la modalità per legare e mettere insieme i numeri. In tutti i casi si tratta di dimensioni relazionali con l’altra/o. 12 Addestrando delle scimmie a raggiungere un oggetto lontano tramite un rastrello, si è registrato un ampliamento del campo recettivo visivo dei neuroni che codificano lo schema della mano, tale da includere lo spazio raggiungibile attraverso il rastrello. Evidenze su umani, ottenute con diversi paradigmi, confermano che l’utilizzo attivo di uno strumento può modificare la presentificazione spaziale di un individuo e del suo schema corporeo; questo non accade se si tiene semplicemente con la mano lo strumento, o lo si usa per indicare piuttosto che per afferrare l’oggetto (Farnè, Iriki & Ladavas 2005). Non è detto che tutti gli strumenti che utilizziamo possano però essere ‘incorporati’ diventando estensioni del nostro corpo. 13 Occorre sottolineare che rispetto agli artefatti, pur incorporandoli, rimaniamo comunque consapevoli della loro ‘estraneità’: l’identificazione del sé dipende infatti in larga misura dall’integrazione di elementi multisensoriali propriocettivi. 14 Si tratta di un’area caratteristica del cervello umano, benché una porzione corticale omologa sia stata individuata nei primati, cioè la porzione caudale della corteccia premotoria ventrale identificata in F5 (Fadiga et al. 1995). 15 Elia Zanin e Marco Viola (2016) hanno evidenziato una serie di criticità nel poter considerare “l’area di Broca” un genere naturale. La nozione di genere naturale è stata sviluppata da Richard Boyd (1991) per spiegare la pluralità e la disomogeneità delle categorie utilizzate sia da discipline diverse sia all’interno degli stessi ambiti scientifici. 16 È Wilhelm von Humboldt (1836-40) che ha cercato di spiegare la creatività infinita del linguaggio. Egli vede nella lingua “un prodotto storico” che il parlante eredita e, a sua volta, rielabora. La lingua sarebbe enérgeia, “creazione continua” e individuale, espressione e fatto estetico. 17 In realtà come è stato notato (Moro 2010, p. 272) è improprio considerarlo un gene del linguaggio, piuttosto è un master genes, un gene controllore, in grado di controllare unicamente aspetti periferici del linguaggio, come quelli che calibrano il meccanismo della coordinazione orofacciale per la pronuncia dei suoni. 18 Una simile ipotesi è avanzata anche da Stanislas Dehaene quando ricostruisce il fatto che le piccolissime ossa che si trovano nella parte più interna dell’orecchio sembravano essere state “magnificamente concepite per ampliare i segnali uditivi, … [ma] in realtà derivano dall’ossatura della mascella” (Dehaene 2007, p. 169). 19 È curioso che l’ancoraggio del linguaggio al corpo sia, per esempio,

centrale per i popoli tuareg dell’Hoggar, tanto che per loro uno scritto inizia con una “testa” e finisce con i “piedi”; che in molte lingue indoeuropee si sia chiamata “testa” una suddivisione importante dello scritto (l’andare a capo), in greco kephálaion, in latino caput e capitolum e che tuttora poniamo le note a piè di pagina e firmiamo in calce, dal latino calx, “calcagno”; che il bastoncino su cui erano arrotolati i volumina greci e latini abbia costituito l’“ombelico”, dal greco omphalós, dal latino umbilicus; che alla struttura della lettera appartengano i “bracci”, le “gambe”, le “pance”, l’“orecchio”, il “collo”; che i caratteri mobili si compongano di parti come il “fusto”, ovvero la parte parallelepipeda del carattere, l’“occhio”, la superficie stampante del rilievo, la “faccia anteriore”, la quale corrisponde alla superficie frontale del fusto, la “faccia posteriore” a quella opposta, la “spalla”, ovvero la faccia superiore del fusto, il “piede” o base del fusto e il “corpo”, cioè lo spessore del fusto nel senso dell’altezza dell’occhio. In generale, anche le stesse lettere dell’alfabeto latino possono essere ridotte alle proporzioni del corpo umano e, come è noto, Leonardo da Vinci costruisce le proporzioni della testa in un quadrato. Nel quadrato e nel cerchio si trovano i rapporti della figura umana per intero e il quadrato è anche il modulo nel quale vengono costruite le lettere dell’alfabeto, a partire dalla “A” che è un essere umano a gambe divaricate. Leonardo prende poi in rassegna tutte le lettere alfabetiche descrivendole nei dettagli e paragonandole a corpi in movimento. 20 La funzione linguistica, se da un lato è vincolata nella sua realizzazione dal basso cioè dalle nostre capacità motorie e percettive, dall’altro influenza e ridefinisce, almeno durante compiti di attenzione visiva le stesse capacità percettive (Papafragou et al. 2008). 21 Sul tatto, in italiano, sono utili i lavori di Marco Mazzeo (2003) e Claudio Pogliano (2015). 22 I filosofi si sono separati sui modi di intendere la rappresentazione. Per molti si tratta di strutture astratte, codificate nella mente, che indicano eventi o individui nel mondo grazie alla somiglianza che presentano con essi, si tratta di immagini mentali che a loro volta richiedono un’interpretazione, che altro non è che una rappresentazione, dal che la regressione all’infinito. Proprio per queste difficoltà altri filosofi hanno ritenuto di identificare le rappresentazioni con le proposizioni. Anche in questo caso si tratta di entità astratte, che mettono in correlazione diversi concetti. La difficoltà di questa visione sta nello spiegare in che modo si attivano tali proposizioni, visto che esse non hanno quel carattere di analogia con apparati percettivi che invece presentano le immagini mentali. Tanto che a partire dal linguaggio si è cercato di tenere insieme rappresentazione linguistica e rappresentazione mentale come corrispettivo, dove il linguaggio “rappresenta” la line che contraddistingue i processi mentali, compresi quelli percettivi. 23 Esiste una similitudine fra fasi di apprendimento nel canto di usignoli e fringuelli e bambini.

24 Oliver Sacks narra di un suo paziente affetto da discinesia il quale ricorda involontariamente delle cantilene ebraiche che gli consentono di dare significato ai movimenti involontari di tutto il corpo, e lo fa a imitazione del rabbino in cui il processo è inverso, poiché va dai gesti alle parole e non dalle parole ai gesti, dall’acustica ad atti silenziosi. 25 Per rendersi conto delle interazioni fra strutture linguistiche e strutture motorie è sufficiente fare questo semplicissimo esperimento. Chiedete a un amico di parlare e ripetete ciò che sta dicendo mentre lui parla, come se foste il suo “specchio”. A questo punto, mentre parlate, cominciate a tamburellare col dito medio della mano destra seguendo un ritmo regolare; provate ora, sempre mentre state parlando, col dito medio della mano sinistra. Per la maggior parte delle persone è più difficile tamburellare col dito medio della mano destra in quanto si verifica una competizione fra risorse linguistiche e motorie. La stessa situazione si verifica quando un sordomuto imita il linguaggio dei segni di un’altra persona mentre tamburella con la mano destra. 26 La congruenza fra i due atti – osservato ed eseguito – non è sempre perfetta. 27 L’action-based language consiste nell’idea che il significato dell’enunciato è fondato sull’azione e sul risultato atteso dell’azione. 28 Quel che capita perlopiù involontariamente è amplificato in coloro che hanno la capacità di imitare volontariamente, tanto che nei bravi imitatori, durante le performance, si attivano aree del cervello legate alla percezione visiva e a circuiti motori che rendono la voce imitata simile all’originale. Nelle persone incapaci di imitare, a ogni tentativo corrisponde, invece, una attivazione delle sole aree del linguaggio che normalmente tutti adoperiamo per parlare. Questa differenza è segno che solo gli imitatori sono capaci di mettere in gioco tutta una serie di processi neurali che hanno a che fare con l’osservazione e la riproduzione di mosse e atteggiamenti del volto e del corpo della persona imitata. In altre parole, i mimici non si limitano solo a giocare col linguaggio, ma “entrano” letteralmente nel personaggio, ed è questa capacità di immedesimazione che determina la fedeltà ai suoni imitati. 29 L’apprendimento anche in virtù dei meccanismi chimici e di plasticità neuronale che comporta, appartiene a un processo cognitivo più ampio, ossia quello mnesico in cui le informazioni (in questo caso, sequenze motorie) devono prima essere acquisite e immagazzinate e successivamente elaborate, così da essere richiamate/riutilizzate (eseguite) al momento opportuno. L’apprendimento per osservazione di atti o azioni, essendo una forma di acquisizione, determina comportamenti motori che possono essere migliorati con la pratica e l’esercizio e quindi, questo apprendimento segue una serie di tappe che ripercorrono quelle che si verificano durante un apprendimento senza osservazione. In genere, quando impariamo un compito motorio, transitiamo da una fase di acquisizione consapevole a una in cui i movimenti

diventano automatici. 30 Questo approccio riabilitativo ha assunto la denominazione di mirror therapy ed è stato utilizzato per la prima volta dal neurologo indiano Vilayanur S. Ramachandran, che se ne è servito, in via dei tutto sperimentale, per la riabilitazione del dolore da arto fantasma. 31 Liberman capì con una serie di esperimenti che non dovevano essere solo le caratteristiche acustiche a influenzare la percezione della parola, ma anche il modo in cui la nostra bocca si atteggia per produrre quella frequenza. Infatti, percepiamo per esempio come diversa la stessa frequenza a seconda che venga seguita da [i] o da [a] perché prima della vocale [i] dobbiamo serrare le labbra (occlusione labiale) e prima della vocale [a] dobbiamo portare a stretto contatto la parte posteriore della lingua con il palato. 32 La struttura fonologica è una codifica della successione di suoni linguistici. I suoni linguistici sono codificati nel cervello in termini di specificazioni più primitive del suono unitario, i tratti distintivi. Questi sono una presentificazione astratta dei gesti articolatori (Liberman & Mattingly 1985). 33 Alcuni studi connessi a queste cellule risultano fondamentali per la comprensione del tono e del ritmo del pronunciamento delle parole; ne deriva che i neuroni specchio risultano fondamentali nella comprensione dei termini che evocano emozioni (Arbib 2005; Balconi 2008, pp. 137-142).

2. COME MI MUOVO COSÌ DIALOGO Acta, non verba. Motto La coscienza è possibile solo attraverso il cambiamento, il cambiamento è possibile solo con il movimento. Aldous Huxley, L’arte di vedere Mi muovo, quindi sono. Haruki Murakami, 1Q84

2.1 Patisco e mi muovo Secondo Noam Chomsky la razionalità linguistica è lo specchio, il riflesso, che la mente umana è “buona” (Chomsky 1968) e in grado di argomentazioni vere (Frege 1879), che ambiscono a fondarsi sull’aristotelico zoon logon echon. Il paradigma tradizionale con il quale gran parte della filosofia ha guardato al linguaggio è costruito su una dicotomia che vede da un lato il lógos, in quanto emblema della razionalità, e dall’altro il dialogue (Lüdtke 2015), carico di una dinamica emotiva ricca di pathos e di figure collegate al mithos e alla retorica. La narrazione messa in scena da questa dicotomia è quella che al lógos corrisponde un linguaggio vero, obiettivo, logico, razionale, proposizionale, referenziale; mentre al dialogue corrisponde un linguaggio falso, espressivo, immaginativo, unilaterale, soggettivo. La mente starebbe dal lato del lógos; il corpo si posizionerebbe dal lato del dialogue; da un versante la componente nobile e pura dell’essere umano, dall’altro la sua

componente compromissoria e contaminata; da un lato l’astratto, dall’altro il concreto. Due poli che ricalcano l’immagine dicotomica che vede contrapporsi a una dimensione esterna identificabile e circoscrivibile, una dimensione interna viscerale e incontenibile, opponendo così l’individuale al relazionale, la ragione al dialogo, il pronunciare parole alla conversazione (Berwick & Chomsky 2015). Anche il pensare è stato inteso come un’attività solipsistica e non come una dimensione relazionale-dialogica, nonostante già Platone avesse sottolineato che il pensare è parlare dentro di sé e che quindi si tratta di un’attività dialogica. A confermare l’ottica platonica le attuali ricerche che documentano come parlare a se stessi sia a tutti gli effetti un dialogo (Raichle & Snyder 2007)1, e che parlare a se stessi sia anche una modalità che facilita il passare da un compito a un altro, oltre che consentire una gestione migliore dell’attenzione ai contesti e favorire l’autocontrollo e l’automotivazione. Questo perché quello con se stessi è un dialogo nel quale le persone si fanno un controcanto o si confermano. Una dicotomia, quella fra lógos e dialogue, che ha poco o nulla a che fare con il quotidiano comportamento umano, il quale è costituito da complesse azioni esterne volte a una specifica finalità (esecuzioni di compiti come afferrare un bicchiere, accarezzare la mano di un’altra persona, proferire linguaggio privato o linguaggio pubblico) e atti e azioni interne (emozioni, sensazioni come piacere e dolore, linguaggio interiore), edificate su un amalgama sinergico di movimenti, atti e azioni motorie fra loro strettamente connesse e che ha messo in luce il ruolo cognitivo della corporeità nel suo complesso e del movimento in specifico, e i collegamenti fra questi aspetti e i meccanismi percettivi, emotivi e riflessivi. Un orientamento già elaborato da Donald Hebb (1949) e che ha un illustre predecessore in Aristotele, il quale riteneva che la percezione sensibile

consistesse in un kineisthai, in un “essere mosso” (Etica nicomachea X,4). Aristotele è stato il primo a descrivere i gesti dei muscoli e del movimento delle articolazioni durante lo spostamento del corpo o di sue parti, e lo ha fatto analizzando qualitativamente i gesti degli animali. È lo studio del De motu animalium che fa da collettore fra l’analisi dei gesti e il ruolo che attribuisce al nous umano, all’interno di un contesto teorico in cui sono centrali i concetti di dynamis ed enérgheia, possibilità e atto (De Anima 417a21-417b2). Entrambi sono connessi al corpo e all’“anima”. Per Aristotele il corpo è un’entità caratterizzata da quello che è in grado di fare in modo specifico (De anima 413a 2). Per esempio, noi umani non siamo in grado di abbaiare. L’abbaiare non appartiene al nostro corpo e quindi abbiamo un corpo altro da quello dell’animale cane. L’anima è per Aristotele “la principale attività inscritta nel corredo costitutivo di un corpo naturale dotato di organi” (De anima 412b 4-6; traduzione in Lo Piparo 2018, p. 177)2. Oggi diremmo che l’anima è la funzione propria (Millikan 1989, cap. 2.3) di un corpo con sistema motorio. L’oggetto della riflessione del De anima è quindi l’agire proprio del corpo delle piante, degli animali, degli esseri umani e l’agire proprio è sempre in vista di una finalità. Potremmo dire che l’“anima” fa sì che il corpo abbia una forma costitutiva teleologica. L’anima e il corpo sono un tutt’uno, inscindibili e istanziati nel corpo-anima, in un corpo animato. Senza ombra di dubbio il filosofo stagirita colloca all’apice della cognizione umana, cioè della sua anima propria, la vita teoretica, ma al contempo le radici del nous non possono, a suo avviso, che affondare nei fenomeni naturali, ed è nei gesti e nel mutamento che la vita teoretica trova le sue fondamenta. Per Aristotele l’analisi dell’automovimento consente di comprendere il rapporto fra gesti e comportamenti, ed è

l’automovimento che è in grado di mostrare che la relazione fra questi due aspetti è di per sé cognizione, ed è tale in una modalità specifica: la forma cognitiva è data dal fatto che gli automovimenti hanno fine in se stessi e questa finalità può essere posta come fondamento della capacità di animali ed esseri umani di interagire con l’ambiente. Quel che è visto come cruciale è che il fine coincide con l’attività stessa e fra le attività non si trova quindi unicamente la riflessione, ma in generale tutte le energheiai che risultano dalle capacità naturali degli animali e degli esseri umani, in quanto queste costituiscono, ciascuna al proprio livello, un aspetto dell’essere in vita, una telei¯osis. Pertanto, la nozione di vita è quella di attività. Aristotele ritiene che ogni aspetto e livello di manifestazione della vita può e deve essere analizzato diacronicamente e cinesicamente, sia avendo come riferimento l’atto imperfetto, cioè quello che manifesta un’inadeguata interazione con l’ambiente circostante, sia nella prospettiva dell’atto perfetto, il quale torna ogni istante su se stesso come sul proprio fine. Come l’attività umana del costruire la casa è completa quando ha prodotto ciò verso cui è diretta, il suo fine, così ogni gesto ha luogo nel tempo ed è in relazione a un fine determinato. Un primo elemento decisivo per comprendere la peculiarità dei gesti – e quindi dei processi di natura diacronica – sembra essere proprio la relazione col fine, dato che un gesto può essere considerato compiuto solo quando è finito, mentre un’enérgheia è compiuta proprio in quanto attività. Quest’aspetto contiene un’ulteriore peculiarità delle kin¯eseis3, in quanto un gesto può essere considerato compiuto sia se preso nel suo complesso, guardando cioè all’intero lasso di tempo in cui sono iscritte le sue parti costitutive, sia in quell’ultimo istante del processo in cui l’insieme dei momenti è raccolto nell’opera compiuta. In entrambi i casi resta però il fatto che la perfezione o completamento del processo, il suo fine, è esterno al gesto,

rendendolo strutturalmente disposto ad altro. Aristotele crea in questo modo le basi per la distinzione fra movimenti, atti e azioni, divenuta rilevante in fisiologia, e per l’analisi della composizione modulare dei movimenti e degli atti che confluiscono nelle azioni. Tutti gli animali, compresi gli umani, si muovono e sono mossi in vista di qualcosa, così che questo è il termine di ogni loro gesto: l’in vista di cui (De motu animalium 6, 700b11-6), tanto che il moto, a un primo livello, ha origine da appetito, pensiero, fantasia, scelta e deliberazione (De motu animalium 6, 700b17-8). Ed è dal modo intrinseco del gesto che dipende la definizione delle singole specie. In altri termini, dato che i viventi rientrano nel novero degli enti mossi, la realizzazione delle capacità che definiscono il loro modo di essere non può essere recepita come un qualsiasi gesto casuale o forzoso – come l’essere mossi da qualcosa o da qualcuno – ma deve essere intesa come una forma di entelécheia, che, come segnala in un suo lavoro Franco Lo Piparo, è la contrazione di en télos échein, cioè “avere la propria realtà nel fine da raggiungere” (Lo Piparo 2018, p. 177). Se quindi, nel caso dei viventi, il rapporto con il contesto fornisce le condizioni di possibilità per realizzare le attività che qualificano il modo d’essere specifico per ciascun vivente, il fine della relazione verso l’esterno è posto nelle attività che tale relazione permette di suscitare, e quindi nei diversi modi con cui un essere animato manifesta di essere in vita rispetto alle sue specifiche potenzialità di interazione. Si tratta di una relazione che avviene però nei limiti dei tratti peculiari dell’habitat nel quale avviene l’interazione. Ne deriva che il gesto implica costitutivamente il cambiamento del vivente e dell’ambiente di riferimento, in quanto gli animali sono in grado di organizzare la propria interazione con il contesto, di differire le affezioni che ne derivano, accogliendole, almeno entro certi limiti, come degli stimoli che offrono loro la possibilità di attualizzare le proprie

capacità, facendosi così soggetti di gesti che hanno inizio per fattori dati dall’esterno. I viventi possono estrinsecare la propria natura e realizzare le proprie capacità solo mediando attivamente gli stimoli che provengono dall’esterno, orientando così la propria interazione con i contesti in modo tale da conseguire dei fini determinati, necessari e funzionali. Pertanto, la dimensione del gesto e l’autonomia funzionale identifica lo specifico animale, fra questi quello umano, implicando l’interazione con l’ambiente, il che fa sì che le singole attività dei viventi siano possibili grazie all’incontro di due condizioni: il principio interno del movimento-cambiamento del vivente e quanto perviene dall’esterno. L’azione dei viventi animati prende così la forma di una costante mediazione fra l’individuo e l’habitat circostante, fra un principio interno del gesto e gli stimoli che provengono dall’esterno, dalle percezioni-sensazioni, da specifici pathémata. Ne consegue che gli animali e gli esseri umani sono parte integrante del complessivo continuum cinetico dell’universo. Con questo insieme di argomentazioni il filosofo stagirita avanza una tesi del tutto congruente con quello che viene definito processo di adattamento (Lewontin 1977; Lewontin & Levins 1980) ed evoca, ante litteram, sia il concetto di nicchia ecologica, sia l’ottica enattiva. La tesi di fondo di Aristotele è che fra la dimensione biologica e quella noetica sussista un comune denominatore, un legame intrinseco e un’isomorfia, a partire dalla forma che assumono movimenti, atti e azioni. Infatti, per Aristotele l’essere umano è nous orektikós, mente che desidera, e órexis dianoetiké, desiderio che riflette (Etica nicomachea VII, 3, 1147 a-b). Per Aristotele è impossibile separare il nous dal corpo (De anima III, 47), cosicché la cognizione non può essere esercitata senza l’ausilio di un apporto corporeo, anche perché fra le attività dei viventi animati sussiste una fondamentale isomorfia e ogni

attività dei viventi può essere piacevole, ovvero aver luogo in quella forma di compiuta attualità che va identificata nell’attività stessa e in un fine estrinseco. La nozione di “piacere” è inoltre in strettissima connessione con quella di enérgheia e a essere piacevole è la vita, e in primo luogo quella forma di vita maggiormente appropriata alla singola specie vivente. E la vita è attività. La specifica attività è determinata dalla disposizione acquisita (De Anima III, 4; Fisica VII, 3), la quale interviene sulle capacità naturali come esito finale di un reiterato esercizio di movimenti, atti e azioni. La vita – vitalità – è quindi il risultato dell’interazione qualificata di un individuo con l’ambiente circostante, ma ha significativamente luogo sempre e unicamente nella forma di un automantenimento dell’individuo e della preservazione della specie cui appartiene. La forma cognitiva può essere ritrovata almeno in nuce in ciascun livello dell’interazione, anche se raggiunge la sua massima intensità nel caso della riflessione. Fra gli aspetti legati al movimento e alla relazione con l’ambiente Aristotele annovera le emozioni, le quali sono cognizione, in quanto queste sono mosse dalle percezioni esterne e interne e sono in grado di dare vita a presentificazioni, giudizi e convinzioni. Le emozioni, poiché hanno carattere valutativo, sono intenzionalmente rivolte alla relazione fra animale o essere umano e ambiente e sono suscitate e generate dal “mondo” e per questa ragione sono l’esempio paradigmatico delle affezioni, dei pathémata comuni al corpo-anima. Sono tali sia perché il coinvolgimento dei processi corporei nelle emozioni è particolarmente evidente e di conseguenza rappresentano un oggetto d’indagine appropriato dal punto di vista argomentativo, sia perché sono artefici di processi complessi che inglobano vari costituenti come percezione, phantasia o hypolepsis, desiderio, piacere e/o dolore e per questa ragione muovono gli enti (De anima I, 1, 403a3-b19): “i pathémata sono ciò in base a cui,

mutando, [gli esseri umani] differiscono rispetto ai giudizi e a cui seguono dolore e piacere, come per esempio l’ira, la pietà, la paura e tutte le altre a esse simili e anche quelle contrarie” (Retorica 1378a 20-23). Per Aristotele anche il richiamo al legame che potrebbe vincolare le emozioni o il pensiero alla phantasia si inscrive nell’orizzonte del movimento e del cambiamento, e questo perché la stessa phantasia viene considerata come una particolare prestazione della percezione, in quanto subordinata a una pregressa attività dell’aisth¯esis (De anima III, 3; De Anima I, 2)4. Se percezione e phantasia hanno in comune il fatto di generare alterazioni sensibili e quindi automovimento o movimento, è la sola phantasia che mette però in relazione il passato con il futuro, istanziandosi nel presente, infatti è in grado di mettere in relazione i tre tempi (passato, presente e futuro) come solo il linguaggio è anche in grado di fare. Oltre alla aisthêtikê, posseduta anche dagli animali, nell’essere umano esiste una phantasía loghistikê. Secondo Aristotele la separazione fra lógos e órexis è impossibile, in quanto è data unicamente la compresenza, come accade fra convessità e concavità nella linea curva, due aspetti descrittivi che fanno riferimento a un’unica entità. Lo stesso lógos è luogo di compresenza fra ragione e facoltà linguistica, tanto che entrambe strutturano la capacità metacognitiva delle presentificazioni mentali: i percepiti (aisthêmata) e i phantásmata. Termini come sýmbolon, seméion, lógos e katá synthêkên indicano che la peculiarità dell’essere umano è il linguaggio, in specifico la sua capacità argomentativa che può indirizzare le modalità e la tipologia delle azioni. Linguaggio e comportamento – esterno (percezione e azione) e interno (emozioni e sensazioni) – sono strettamente connessi in una relazione biunivoca. A questo si aggiunge nell’essere umano il fatto di poter e saper scegliere, grazie alla valutazione

argomentativa, la quale dirige il desiderio e la volontà verso una finalità meditata, cosicché il comportamento etico si radica nella stessa capacità linguistica. E se il fine dell’essere umano, per Aristotele, come è noto, è l’eudaimonía, per raggiungerla è necessario il linguaggio, in quanto mezzo fondamentale della vita sociale nella pólis e del bene collettivo. La compresenza di pólis – in quanto paradigma della vita sociale e collettiva –, eudaimonía e linguaggio è strutturale, e nessuno dei tre termini può essere posto come istanziatore primario. Per Aristotele le affezioni (pathémata) dell’anima, cioè dell’attività propria inscritta nel corpo umano, e della voce appartengono allo stesso genere naturale (De Interpretatione 16a 3-8) e la soluzione dell’enigma di questa peculiare univoca appartenenza sta nel significato del termine sýmbolon. Il sýmbolon è infatti depositario di una forza che lo spinge a recuperare il suo contrario, come nel caso di caldo-freddo e umido-secco, mentre i pathémata indicano delle trasformazioni, dei cambiamenti, di un genere inerenti a un sostrato: da brutto a bello, da buono a cattivo, da bianco a nero, da amaro a dolce. E questo perché in ogni modificazione è compresente un’attività, pertanto, i pathémata sono attività dell’anima, e quindi operazioni logico-cognitive, ed è per questo che per Aristotele le affezioni dell’anima e della voce si generano reciprocamente in maniera circolare. Il lógos è dunque prodotto da due tipi di attività, mentale e articolatoria, collocate in una relazione simbolica e unitaria. Ciò spiega la ragione per cui si rende fattibile generare discorsi erronei e mescolare prágmata e parole, visto che un discorso scorretto genera idee scorrette e visioni della realtà che differiscono dalla realtà stessa. Il linguaggio verbale per il filosofo stagirita ha il compito precipuo di esprimere le affezioni dell’anima, che possono essere espresse non solo vocalmente ma anche con segni grafici. Mentre prágmata e pathémata sono invariabili e comuni a tutti gli esseri

umani, quel che varia è la loro espressione linguistica e grafica e solo così è possibile spiegare la differenza fra linguaggio e lingue specifiche. Inoltre, prágmata e pathémata sono similari e non sono l’uno causa dell’altro (De Interpretatione 16a 9-17). Di conseguenza non esiste una frattura fra linguaggio interiore e linguaggio esteriore, tanto che il discorso verbale si ripercuote anche interiormente. Inoltre, il linguaggio è il luogo in cui si sviluppa il metalinguaggio, dal che la constatazione che esso assume la forma del suo stesso autointerrogarsi e nel contempo è strumento per conoscersi. Dal punto di vista del vivente l’atto principiato da un aisth¯eton o da un no¯eton costituisce la realizzazione di una capacità naturale, inscritta nel corredo fisiologico e nella psyché. In altri termini, i viventi sono caratterizzati da una disposizione ontologica che ammette il movimento e l’attività nel novero delle loro più appropriate manifestazioni. Una precisa classe di no¯eta ha la propria più compiuta esistenza proprio nell’atto del riflettere, che si trova così contemporaneamente a essere oggetto della riflessione, il pensiero, e atto di riflettere sul pensiero, cioè un pensato. Infine, quando Aristotele tratta del linguaggio, e utilizza l’analogia con la moneta, mostra che il linguaggio non è frutto di un contratto, di una convenzione, poiché proprio il riferimento alla moneta come mezzo di scambio (Etica nicomachea V, 5, 1133a 32) rappresenta la prova che entrambi – linguaggio e moneta – sono prodotti connaturati alla tendenza umana allo scambio, alla socialità intrinseca alla specie (Lo Piparo 2003). Se il linguaggio fosse l’arbitraria attribuzione di uno specifico significato a uno specifico segno esso sarebbe il frutto di un processo generativo eteropoietico prodotto da una téchne e non un processo autopoietico generato per natura (phýsis). Il linguaggio è quindi per natura lógos-dialogue, il linguaggio è un

gesto relazionale e/o sociale. Le argomentazioni aristoteliche tracciate rappresentano il solco di questo lavoro. 2.2 Evolvo e allora dialogo Gli aspetti filogenetici e ontogenetici connessi al “sorgere” e allo sviluppo del linguaggio sono intrinsecamente correlati, anche se è necessario tentare di descrivere, ove è possibile, gli elementi di cui siamo a conoscenza associati a ciascun costituente. Per poter parlare e comprendere il parlato, nel modo in cui lo facciamo, è stato necessario sviluppare adeguati aspetti sia motori che intellettivi, e le conoscenze a nostra disposizione mostrano la strutturale interdipendenza di queste due componenti del corpo umano ed evidenziano l’interazione del corpo con l’ambiente di riferimento, il quale retroagisce sia sul sistema motorio che sull’encefalo. Sul piano filogenetico il passaggio dalla vocalizzazione generica alla capacità di parlare è legato a un processo che ha dato come esito lo spostamento verso l’alto nell’evoluzione ominide, durante il quale la corteccia cerebrale avrebbe assunto progressivamente il controllo di questa regione (Deacon 1997), anche grazie alla sua espansione, favorendo così la nascita e lo sviluppo del linguaggio articolato, cioè costituito dal controllo del tratto vocale e da una fonazione chiara e intelligibile (Arsuaga 1999; Tartabini & Giusti 2006). Presumibilmente, l’aumento dell’indice di encefalizzazione, che potrebbe essere stato anche un prodotto della masticazione mutata, ha implicato un incremento della articolazione cerebrale, ponendo le basi per l’apparizione di abilità cognitive complesse. Infatti, se il cervello aumenta più di quanto sia necessario, per controllare le nuove zone derivate dall’aumento corporeo, vi sono nell’encefalo dei neuroni sovrannumerari, “liberi” di organizzarsi in schemi maggiormente multiformi, e che quindi possono indirizzarsi

verso nuovi compiti, cosa che potrebbe essere successa proprio nel caso dell’abilità linguistica. L’aumento che è avvenuto dell’encefalo non dovrebbe inoltre essere estraneo alle condizioni climatiche come gli ambienti ricchi d’acqua marina, questo perché il suo sviluppo dipende dall’accumulo dell’acido docosaesaenoico (DHA)5, un grasso omega-3 o PUFA n-3, che è limitatamente presente nella catena alimentare nei prodotti agricoli di terra e negli animali di terra, ma assai disponibile nel pesce e nelle alghe. Un ulteriore contributo allo sviluppo di questa abilità può essere ricondotto al consumo di energia: un cervello delle dimensioni di quello umano è particolarmente energivoro, tanto che la nostra massa cerebrale costituisce solo il 2% del peso corporeo ma consuma il 20% del fabbisogno giornaliero di energia, dato in massima parte dagli alimenti ricchi di proteine. Un modo per risparmiare energia nel resto del corpo e consentire l’encefalizzazione potrebbe essere stata la riduzione della lunghezza dell’intestino (Aiello & Wheeler 1995), il che potrebbe aver migliorato le tecniche per l’approvvigionamento del cibo. Una dieta erbivora basata sulla raccolta di cereali richiede infatti capacità di ragionamento, abilità nel problem solving e trasferimento di informazioni e quindi cooperazione, mentre la caccia o lo scavenging – cibarsi del resto degli animali uccisi dai predatori – richiede soprattutto abilità sociali immediate e non capacità di immaginare eventi futuri. L’agricoltura, aggiungendosi alla caccia, ha senza dubbio determinato nuove e nel contempo sinergiche capacità motorie e intellettive mettendo in risalto le notevoli possibilità di un cervello plastico come quello umano. L’aumento dell’encefalo è stato marcato soprattutto per la corteccia cerebrale, per il rapporto fra materia grigia e materia bianca (Rilling & Insel 1999), per i lobi cerebrali frontali, importanti per la memoria a breve termine e la pianificazione.

Inoltre, i lobi frontali sono diventati più corrugati o circonvoluti rispetto ad altre parti del cervello umano e questo corrugamento è il modo in cui il cervello riesce a disporre di una superficie maggiore in un piccolo spazio, come avviene con un foglio di carta che deve essere accartocciato per poter entrare in una scatolina (Deacon 1997; Corballis 2002; Corballis 2003). Rispetto al linguaggio questa doppia mutazione deve aver influito sulla produzione e sulla comprensione di enunciati lunghi rispetto alla fase dell’emissione e della comprensione di vocalizzazioni elementari. Non meno significativi rispetto all’intreccio fra sistema motorio e mutamento cerebrale sono gli aspetti legati alla dimensione ambientale. Le ricerche attuali hanno mostrato che un’esposizione agli stimoli esterni dalla nascita o dallo svezzamento, o addirittura solo durante l’età avanzata, produce effetti straordinari sia sulla struttura che sulla funzionalità cerebrale e quindi non possiamo stupirci di quello che può essere già avvenuto e che ha modificato il modo di rapportarci alla nostra dinamica nicchia ecologica. In seguito all’arricchimento ambientale, si è per esempio osservato un aumento dello spessore corticale e del peso del cervello nonché un aumento delle ramificazioni dei dendriti e un incremento del numero di spine dendritiche; tutti parametri sensibili a una maggiore ricezione neuronale e quindi, un loro aumento esprime una maggiore attività sinaptica non solo in fasce di neuroni ma anche nei singoli neuroni. Se l’arricchimento ambientale attuale determina fenomeni di neurogenesi, cioè genera nuovi neuroni e aumenta la dimensione del cervello, non si comprende come ciò non possa essere avvenuto anche in passato. Proprio la plasticità cerebrale o neuroplasticità, cioè la capacità del Sistema Nervoso Centrale (SNC) di andare incontro a modificazioni strutturali, come per esempio un aumento o una riduzione del numero di connessioni neuronali o delle ramificazioni dendritiche

(neotenia)6, è potenzialmente la ragione principale del cambiamento strutturale degli ominini (Gould 1977). Questo cambiamento è indubbiamente anche il frutto di una co-evoluzione fra sistema encefalico e sistema motorio. Il ruolo di quest’ultimo è oltretutto rilevante per quanto riguarda le modifiche che l’encefalo affronta lungo l’arco della vita degli individui; modifiche date dalle diverse plasticità cerebrali costantemente in atto, a dimostrazione che l’interazione fra sistema cerebrale e sistema motorio non è agevolmente districabile. Le ricerche intorno alle plasticità cerebrali hanno mostrato che queste comportano variazioni sia nelle connessioni, sia nella composizione molecolare delle cellule, sia modificazioni della morfologia della cellula, sia variazioni del numero di cellule7. Si ha, di conseguenza, plasticità sinaptica e anche del singolo neurone. La stessa connessione sinaptica è sia una modificazione molecolare che strutturale; quest’ultima ha variazioni considerevoli durante lo sviluppo e un po’ più limitate in un sistema nervoso adulto. Grazie alle ricerche connesse alle capacità dell’encefalo di modificarsi per effetto della memoria cellulare, sappiamo che la varietà delle relazioni culturali e sociali costituisce l’arricchimento per la “mente” umana, poiché una maggiore sollecitazione, che equivale a una maggiore attività, consente il formarsi di un numero più consistente di sinapsi e di collegamenti fra le sinapsi stesse, oltre che una modifica nella morfologia dei neuroni. Un altro risvolto concreto dell’effetto di esperienze complesse riguarda l’aumento dei livelli di alcune sostanze neurotrofiche che sono benefiche e protettive per il Sistema Nervoso Centrale (SNC). Esperienze di vita complesse agiscono quindi su molecole essenziali per la plasticità in maniera del tutto fisiologica e naturale. Ne risulta che tanto più il cervello è “sottoposto” a stimolazioni di ambienti arricchiti, variegati, diversificati

durante l’apprendimento e lungo il corso di tutta la vita, tanto più la capacità di comprendere, discernere e agire sarà ampia, duttile, resiliente. L’esperienza, dunque, gioca un ruolo chiave nel modellare la struttura e la funzione del Sistema Nervoso. Sostanzialmente vale la regola “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, cioè con chi, con che cosa, in quale contesto e il modo in cui entriamo in contatto con persone e oggetti determinano, su una base filogenetica, il nostro stile (Turri 2012, pp. 161 e 336). Quella fra struttura e funzione non è di conseguenza da intendere come una relazione “uno a uno” bensì come una dinamica “uno a molti” e viceversa, tanto più che se si deve immaginare il funzionamento cerebrale la metafora che lo istanzia meglio è quella di network (Pessoa 2013). Per esempio, un tennista avrà una configurazione in corteccia del braccio destro più estesa rispetto al sinistro (se è destrimane), così come un pianista avrà una configurazione più estesa delle mani rispetto a quella che avrebbe un corridore, e un taxista avrà uno sviluppo maggiore delle aree legate all’orientamento spaziale rispetto a un normale guidatore che percorre la strada casa-ufficio, ma questo non significa che altre aree non siano a loro volta modificate dall’esperienza specifica ripetuta e consolidata. Vale anche l’inverso: se in un paziente con una mano amputata non venisse attuata una pratica riabilitativa si verificherebbe la scomparsa nella corteccia dell’area di configurazione della mano e anche altre aree ne verrebbero influenzate. In questo processo è coinvolto anche il sistema motorio, cioè l’attività motoria modula i meccanismi di proliferazione neuronale: ogni volta che si contrae e si rilascia un muscolo vengono prodotte sostanze chimiche che, oltrepassando la barriera ematoencefalica, stimolano la produzione di fattori neurotrofici, i quali contribuirebbero alla nascita di nuovi neuroni (Colcombe et al. 2006). Inoltre, prima della scoperta dei neuroni specchio, era noto

che se la mano si muove per afferrare una penna, si attiva un circuito motorio che dalla corteccia cerebrale arriva fino al midollo spinale e da lì sull’effettore. Non eravamo però in grado di ipotizzare che se si osserva qualcun’altra/o afferrare la penna, il circuito motorio dell’osservatore si attiva ugualmente, anche senza mettere in atto il gesto. E ancora, nessuno poteva pensare che questi particolari neuroni risiedessero anche in aree corticali considerate non motorie, come la corteccia parietale posteriore, un’area classicamente deputata all’integrazione delle informazioni sensoriali (Rizzolatti et al. 1996). La scoperta dei neuroni specchio ha quindi convalidato, a livello motorio e non motorio, che la possibile modificazione plastica cerebrale dipendente da qualsiasi esperienza relazionale, di cui il linguaggio è un elemento chiave. Sul piano anatomico oltre alla stazione eretta, alla riduzione del volto – ha permesso il definitivo riassetto del tratto fonatorio, il quale ha consentito la produzione di tutti i suoni che rendono articolato e comprensibile il linguaggio umano –, alla modifica della dentatura – probabilmente masticare cibo cotto può aver reso meno sporgente la dentatura e ridotto i canini – è stata centrale la comparsa della laringe – parte superiore della trachea –, poiché la struttura che produce i suoni è questa, ed è comparsa con l’evoluzione del polmone, il quale ha subito alcune trasformazioni fino alla produzione di vibrazioni acustiche. Quella della laringe è un’evoluzione che l’ha trasformata dall’essere una fascia muscolare a una struttura che impedisce funzionalmente il passaggio di alcunché e ha avuto come base di partenza il sistema brachiomanuale supportante quello orofacciale, da qui il suo abbassamento. Secondo alcuni paleoantropologi perché ciò si istanziasse sarebbe stata importante anche la modifica di alcune ossa, in particolare l’osso ioide. Nell’essere umano questo osso sarebbe passato da una posizione più craniale – presente negli scimpanzé e nei neonati

umani, cioè in chi ha la necessità di potersi alimentare e respirare contemporaneamente – a una posizione più caudale, dilatando in senso supero-inferiormente la faringe, a beneficio di una emissione vocale più fine e complessa. Su quest’osso infatti si articolano molti muscoli importanti del palato e della mandibola, della lingua, della laringe, della faringe e dell’epiglottide, quindi muscoli fondamentali e indispensabili per la fonazione (Deacon 1992). L’apparato fonatorio dell’homo sapiens è così caratterizzato dalla bassa posizione della laringe e dell’epiglottide nella gola, rispetto alla lingua e al palato molle. Questo abbassamento della laringe avrebbe permesso la formazione di una camera faringea molto estesa al di sopra delle corde vocali, grazie alla quale diventa possibile modulare un’amplissima gamma di suoni. Quello che ha coinvolto la laringe sarebbe, di conseguenza, un processo ascrivibile ai fenomeni denominati Pennacchi di San Marco (spandrel), cioè quei tratti che poggiano su strutture preesistenti e ne sono la diretta conseguenza, per cui il suo sviluppo funzionale risulterebbe come una conseguenza biomeccanica e fisiologica di un’alterazione strutturale, cioè il passaggio da una posizione non completamente eretta a una eretta, il bipedalismo, in particolare per quanto inerisce al capo8. Il bipedalismo ha in qualche modo ridotto le funzioni dei piedi che non possono quindi più essere utilizzati come mani, il che ha generato alcuni fastidi come l’eccessivo utilizzo della colonna vertebrale e l’artrosi alle ginocchia, ma ha liberato braccia e mani per i gesti, riducendo anche l’area cerebrale corrispondente. Negli homo sapiens la colonna vertebrale penetra infatti nel cranio tramite una fessura situata nel retro denominata foramen magnum e questa fessura è rispetto ai primati spostata in basso e in avanti e la testa è inclinata all’indietro in modo da rimanere stabili sulla colonna vertebrale, il che ha condotto a una mandibola ridotta, a un allungamento del tratto vocale e alla laringe posta più in basso, ed è in questo senso che la laringe è

uno spandrel. Si sono potuti generare così suoni più profondi avendo un tratto vocale più lungo, forse per farci sembrare più imponenti di quel che siamo (Corballis 2002, p. 194). Esiste inoltre una relazione fra la dimensione del labirinto osseo e il bipedalismo, che non ha a che fare con l’udito bensì con l’equilibrio (Spoor, Wood & Zonneveld 1994; Spoor, Stringer & Zonneveld 1998; Spoor et al. 2003), come aveva ipotizzato Jousse. È indubbio che negli esseri umani la posizione verticale della testa fa sì che il tratto vocale sia incurvato verso il basso di novanta gradi nel punto in cui si incontrano la cavità orale e la cavità faringea, mentre nelle scimmie il tratto vocale declina dolcemente e di conseguenza negli esseri umani la laringe e la lingua si trovano più in basso, ed è possibile chiudere la cavità nasale, il che consente sia l’articolazione di suoni simili alle vocali più gravi (Savage-Rumbaugh, Shanker & Taylor 2001), sia un parlare fluido e senza sforzo, soprattutto se la parte toracica del corpo è in posizione verticale. I muscoli mandibolari e palatali sono resistenti all’affaticamento e questo permette indubbiamente alla nostra specie di parlare per diverso tempo senza stancarsi (Kent 2004a; Kent 2004b): memorabili i discorsi di Fidel Castro lunghi nove ore fatti in piedi. Di converso, se un parlante prova a pronunciare un discorso piegato in due, con le mani che toccano terra, lo sforzo è oltremodo intensissimo ed è precluso dopo poco tempo il proferire parole compiute, ed è altrettanto complicato parlare a lungo se artificialmente si insacca il capo dentro alle spalle. Supini nel letto è possibile parlare perché la laringe è distesa, ma anche in questo caso una lunghissima conversazione non è fattibile poiché il grado di stanchezza interviene molto rapidamente. Analogamente il respiro muta nel caso questo avvenga mentre si parla, infatti se si svuotano i polmoni e si continua a parlare lo si può fare per un tempo limitato perché diventa oltremodo faticoso, ci si deve sforzare e il controllo del respiro è

complesso poiché sono coinvolti diversi schemi motori – memorie muscolari intorno a cui si accumulano le memorie ulteriori – sulla base del volume d’aria insito nei polmoni, in specifico i muscoli del torace e dell’addome. Il solo respiro richiede unicamente i movimenti del diaframma innervati dal nervo vago, mentre nel parlare l’innervamento dei muscoli avviene tramite i nervi spinali della regione toracica che affiorano dalla colonna vertebrale. Il respiro rispetto al parlare appare quindi come un esempio di exaptation in quanto l’area toracica è assai più ampia negli esseri umani che negli altri primati. Anatomicamente non sono rilevanti soltanto le modificazioni avvenute nell’arco di migliaia di anni nell’apparato orolaringeo, ma anche l’alternanza dei movimenti di chiusura e apertura della bocca sono significativi poiché sembrano essere alla base della genesi del meccanismo di produzione delle sillabe. Un’ipotesi confermata dagli studi sulla dinamica emotiva rispetto ad alcuni suoni fonetici connessi alle emozioni (Balconi 2008). Ulteriormente, nel tempo e contestualmente, si sono istanziati i corpi cellulari dei neuroni motori, dei motoneuroni9, che innervano i muscoli del capo e del collo, che attualmente sono i nuclei motori e misti di alcuni nervi cranici. Alcuni di questi sono stati progressivamente coinvolti nel linguaggio, come il trigemino che controlla i muscoli delle articolazioni della faccia e della bocca, il vago che controlla i muscoli della laringe e della faringe nonché l’emissione della parola, l’ipoglosso che controlla i muscoli intriseci della lingua. La pressione evolutiva volta a una maggiore complessità combinatoria dell’emissione del suono e la relativa opportunità anatomica sono state così gli elementi che avrebbero portano il linguaggio dalla sua origine brachio-manuale all’emissione dell’effetto acustico. D’altro canto, i gesti manuali si sono via via dovuti compenetrare con la vocalizzazione, mentre questa ha

gradualmente acquisito una parziale autonomia. È quindi probabilissimo che il linguaggio si sia originato da gesti manuali e non da quelli del volto poiché i primi consentono di inserire anche un terzo elemento nella conversazione – un altro individuo o un altro oggetto – attraverso la possibilità di indicare. Nel passaggio dalle pantomime ai proto-segni intenzionali sarebbe di conseguenza avvenuta una riorganizzazione del controllo dell’emissione sonora da parte delle aree corticali. Si tratta di uno stadio che ha come fattore scatenante il bipedalismo. Questo tipo di relazione potrebbe essere emersa con l’homo habilis (Leakey, Tobias & Napier 1964; Tobias & Koenigswald 1964; Tobias 1965), nel quale è avvenuto un ingrandimento delle aree frontali e temporo-frontali, sintomo probabile di un maggior sviluppo del sistema specchio. Il doversi procacciare il cibo localizzato nell’acqua, come fiumi e rive del mare oltre ad aver favorito l’accumulo di acido docosaesaenoico, che ha contribuito all’ingrandimento dell’encefalo (Leakey et al. 2001; Grine, Fleagle & Leakey 2009), può aver anche coadiuvato lo sviluppo di aree connesse all’uso delle mani, poiché il procacciamento implicava il lancio del cibo ad altri meno abili (Calvin 1997; Calvin 1998a; Calvin 1998b; Calvin 2002). Quello descritto è infatti un gesto effettuato solitamente con il braccio e la mano destra, il che può aver supportato lo sviluppo di circuiti cerebrali nell’emisfero opposto in modo tale che la coordinazione ne potesse essere avvantaggiata. Dall’uso delle mani si può arrivare al linguaggio seguendo questo sentiero. Infatti, il bipedalismo è una posizione fisica oltremodo indispensabile per dare vita a sistemi come l’agricoltura e la raccolta, il che convaliderebbe in parte la tesi di Jaynes, senza però che l’una sia necessariamente causa dell’altra, potrebbe infatti essere avvenuta una dinamica co-emergenziale, alla quale ha concorso anche l’intreccio fra governo della mano e governo della vocalizzazione. Se si dispongono nel terreno in

modo regolare semi o piantine l’articolazione della mano deve mettere in campo un comportamento fine e delicato, come fine e delicata è l’articolazione vocalica umana. Questa comunanza di finezza e delicatezza potrebbe essere ascritta al fatto che la mano è governata dall’area BA44 – sia che la mano sia la sinistra o la destra (Sekiyama et al. 2000) –, e sempre l’area BA44, insieme all’area BA45, presiede la formulazione del linguaggio vocale. Infine, come esiste una presentificazione sensoriale della superficie corporea, con vaste aree dedicate alle labbra e alla lingua, esiste un corrispettivo motorio dotato di un’estensione simile sempre al livello delle labbra e della lingua e questo rappresenta il maggior numero di microcircuiti corticali preposti alla ricezione degli input percettivi e al raffinato controllo dei movimenti delle labbra e della lingua quando mangiamo e beviamo. Un fattore utile sia per l’andatura bipede sia per il linguaggio, in particolare per gli effetti fonetici alla base della possibilità di organizzare temporalmente le sequenze di movimenti, è il ritmo, il quale relaziona fattori uditivi e fattori motori. Il bipedalismo non ha avuto solo conseguenze meccaniche sull’emissione dei suoni, come l’abbassamento della laringe, ma anche funzionali, attraverso lo sviluppo delle capacità ritmiche, implicando così il controllo degli aspetti fonetici e sintattici del linguaggio (Tettamanti & Weniger 2006; Bahlmann, Schubotz & Friederici 2008). Èmile Benveniste indica in Platone il momento decisivo dell’acquisizione del significato di ritmo: “La “disposizione” (senso proprio della parola) per Platone è costituita da una sequenza ordinata di movimenti lenti e rapidi. […] Ed è l’ordine nel movimento, l’intero processo dell’armonioso assetto degli atteggiamenti del corpo combinato con un metro, che si chiama ormai rhythmós. Si potrà allora parlare del “ritmo” di una danza, di un’andatura, di un canto, di una dizione, di un lavoro, di tutto

quanto suppone un’attività continua scomposta dal metro in tempi alternativi. La nozione di ritmo è ormai stabilita” (Benveniste 1966, p. 398), e il ritmo è sostanzialmente un principio regolatore trattandosi della successione di fenomeni simili che si ripetono (Ceriani 2003, p. 43). Ma ciò che il ritmo mette intensamente in gioco è la dinamica dei rapporti fra percezione e azione (Piaget 1927), poiché in quanto esseri umani siamo coordinati e coordiniamo noi stessi in base a forme ritmico-musicali, che cadenzano, sia pure con differenze occasionali, il tempo della nostra vita di relazione e queste forme sono immerse nei nostri corpi biologici visto che il ritmo ha il suo modello nel dinamismo dei movimenti corporei, che si sostanzia anche nel ritmo dei pensieri. Il ritmo è un fenomeno pressoché universale degli organismi, anche se non lo è il raccordo ritmico, molto più discontinuo. Il fenomeno che coinvolge il nostro corpo in modo sincronico con uno stimolo ritmico esterno è denominato entrainment. Nella lingua parlata l’entrainment è indispensabile in quanto vi è una vera e propria musicalità comunicativa fra gli esseri umani e questo dà forma alle relazioni e alla coesione sociale, visto che la capacità di vivere insieme è la capacità di tenere il tempo insieme (McNeill 1996). Il ritmo è strettamente connesso alla musica, ma lo studio comparativo del ritmo parlato e del ritmo musicale è scarsamente analizzato, anche se i ricercatori hanno constatato da diverso tempo legami nei due ambiti (Selkirk 1984; Handel 1989), come nel caso dei bambini che hanno difficoltà linguistiche, i quali riscontrano difficoltà anche nel processamento della sintassi musicale. Vi sarebbe, pertanto, una stretta correlazione fra il sistema di processamento della musica e il sistema di processamento del linguaggio (Patel 2008)10. Il ritmo denota periodicità, cioè ricorsività di un modello che si reitera regolarmente nel tempo. Infatti, il tempo

dell’organismo è scandito dal tic tac della pendola, è un “tenere il ritmo”, è un “andare a tempo” o “fuori tempo”: tutte espressioni che si rifanno al movimento degli organismi. Come ciascuna danza ha il suo ritmo, così ogni organismo danza una danza e ha il suo ritmo specifico, che scandisce il suo tempo individuale. Benché la periodicità sia un fattore rilevante del ritmo, è bene separare i due concetti dal momento che tutti i modelli periodici sono ritmici, ma non tutti i modelli ritmici sono periodici, visto che la periodicità è una fra le molte tipologie di organizzazione ritmica, e questa distinzione è rilevante nella comprensione sia del ritmo del discorso sia del ritmo musicale. È indubbio che il tempo espressivo in musica abbia una relazione molto stretta con la struttura prosodica del discorso, dato che il discorso e la musica implicano, entrambi, la schematizzazione della strutturata temporale, accentuativa e di fraseggio del suono. Come un brano musicale eseguito da artisti differenti ha diversi modelli di tempo espressivo analogamente una stessa locuzione proferita da individui differenti ha modelli temporali costituiti da sillabe e fonemi dissimili. Rilevante è poi il dato che come nel parlato anche in musica il ritmo configura la possibilità della prevedibilità. Il ritmo ha, quindi, un valore adattativo, cioè consente la configurazione di uno schema di aspettative temporali, il quale svolge un compito rilevante nella percezione del parlato e dei suoni musicali. Nel discorso sappiamo che è tale la capacità previsiva che l’interlocutore anticipa la propria risposta alcuni secondi prima che l’altra/o componente del dialogo abbia terminato la frase. Inoltre, le suspense in ambito letterario e in ambito musicale attivano le stesse aree cerebrali coinvolgendo i sistemi limbico e paralimbico. La musica è infatti in grado di generare sequenze attese provocando uno stato di tensione simile a quello innescato dall’intreccio narrativo e dall’attivazione di script (microsceneggiature) nella vita quotidiana (Koelsch 2012).

Nella musica, così come nel linguaggio, è significativo il ruolo della melodia – una sequenza organizzata di altezze –, la quale subisce un’evoluzione, tanto che all’interno di essa si possono inserire melodie diverse, così come nel linguaggio si possono inserire frasi subordinate nelle frasi principali. La melodia convoglia una ricca varietà di informazioni verso l’ascoltatore, che includono aspetti affettivi, sintattici, pragmatici. La dimensione affettiva è così tanto rilevante che la musica è una delle più efficaci tecnologie dell’umore. Sia nella musica che nel linguaggio la melodia veicola suoni che trasmettono significati e relazioni significanti (Bolinger 1985, p. 28) e le ricerche neuropsicologiche mostrano che gli aspetti melodici nel discorso e nella musica sono elaborati in modo sovrapposto nel cervello (Juslin & Laukka 2003). In particolare, nel discorso e in musica emozioni come rabbia, paura, gioia, tristezza, tenerezza si sovrappongono (ibidem). Inoltre, i temi musicali possono avere un nesso con una specifica emozione e i relativi movimenti fisici: i temi musicali lenti per esempio prendono forza per la somiglianza con la tristezza (Clynes 1977; Damasio 2003). Nel discorso l’intonazione linguistica trasmette anche informazioni sintattiche, pragmatiche ed enfatiche, così come la musica. Il ritmo linguistico è il risultato di una varietà di fenomeni di interazioni fonologiche – vocali, consonanti, sillabe – e non un principio organizzativo, a differenza della musica. Il ritmo è piuttosto nel linguaggio un processo di ordinamento temporale (Thaut 2005), necessario per l’organizzazione in sequenze di movimenti, che utilizza le connessioni fra sistemi uditivi e motori per influenzare il controllo dei gesti; la struttura temporale del ritmo uditivo funge da modello per la configurazione del controllo dei gesti ed è in questo modo che il ritmo crea predicibilità e anticipazione. Per riconoscere la

rilevanza del ritmo per gli aspetti ora descritti è sufficiente fare riferimento al modo in cui memorizziamo i numeri telefonici: chi lo fa a due a due non riconosce il numero se proferito tramite un numero per volta. Dato il legame indissolubile fra gesto e suono, è evidente che sia rilevante il controllo motorio come condizione necessaria per l’utilizzo dell’apparato fonatorio (Mithen 2005)11 e per il controllo della fonazione (Sacks 2007, p. 274). Gli organi coinvolti in questa sofisticata dinamica di controllo dei gesti articolatori legati alla vocalizzazione sono molti: movimenti delle labbra; denti; mandibola; corde vocali; apice, dorso e radice della lingua, cioè parte molle della lingua e corpo della lingua; palato molle e velo palatino; laringe. Proprio il ritmo è il fondamento della tesi che originariamente emettessimo suoni simili a quelli dei fringuelli, poiché questi possiedono il senso del ritmo e possiedono la medesima “struttura ritmica” degli esseri umani, infatti gli esseri umani o gli uccelli parlano o cantano senza significativi intoppi. Se ne può dedurre che è il ritmo che consente di generare il linguaggio così come lo esperiamo, in quanto è grazie a questo che si sostanzia la possibilità di generare nuove frasi, o parti di esse, utilizzando frammenti di parole. Per generare il linguaggio sono necessari tre vettori: parole, ritmo e un “collante”. Lo sviluppo delle abilità ritmiche ha influito anche positivamente sulle capacità di imitazione vocale perché la capacità umana di seguire e creare il ritmo è un aspetto della capacità più generale di mimare (Donald 1991). Il ritmo non sarebbe, di conseguenza, un sottoprodotto, un effetto collaterale dell’imitazione vocalica (Patel 2008), bensì la connessione fra imitazione vocale e ritmo avrebbe una base neurale e dipenderebbe dallo sviluppo che analogamente i gangli basali delle specie che possiedono l’imitazione vocale hanno avuto (Jarvis & Mello 2000). È rilevante sottolineare che l’imitazione

gestuale richiede un minor coordinamento dell’imitazione vocale poiché questa implica anche l’udito. Il ritmo è infine fondamentale non solo perché permette la sincronizzazione fra stimoli uditivi esterni e sequenze motorie individuali, ma soprattutto perché permette a gruppi di individui di sincronizzarsi insieme (Sacks 2007). Per quanto concerne il significato, quello linguistico e quello musicale appaiono, a prima vista, come incommensurabili, infatti se si limita il termine “significato” al solo riferimento semantico, la musica e il linguaggio possiedono scarni elementi in comune. Se invece ci si riferisce alle emozioni il significato assume un’accezione commensurabile. Quando proferiamo parole mettiamo in movimento più o meno cento muscoli, generando fonemi con una frequenza media di dieci o quindici al secondo (Levelt 1993; Levelt 2000) e per arrivare a questa dimensione molto sofisticata di comunicazione è stato necessario il pieno controllo muscolare di più elementi, perché i suoni vengono emessi durante l’espirazione, grazie a diversi organi connessi con il processo della respirazione: i polmoni che, come mantici, producono un flusso d’aria e lo immettono nei bronchi e nella trachea; la laringe, in cui si trovano le corde vocali, che vibrando producono le vocali e danno sonorità alle consonanti; la cavità orale, cioè la bocca, dove vari organi restringono o interrompono il flusso d’aria generando le consonanti; la lingua, che vibrando, permette di articolare consonanti come “l” o “r”, che accostandosi al velo palatino (o palato molle, la parte posteriore del palato che termina con una specie di linguetta, l’ugola) e al palato duro (la parte anteriore) consente di articolare rispettivamente le consonanti palatali come la “c” di ceci o la “g” di getto, e che appoggiandosi ai denti genera le consonanti dentali come “d” o “t”; le labbra, che accostandosi o chiudendosi, conferiscono segnale labiale a suoni come “b” o “m” e per la complessa

muscolatura di pronunciare la “l” e la “n”; la cavità nasale, che conferisce suono nasale a vocali e consonanti (Brandi & Salvadori 2004). La vocalizzazione dipende inoltre da strutture dell’encefalo ricche di recettori ormonali che sono in relazione con due aree cerebrali molto rilevanti: l’amigdala, significativa per quanto concerne le emozioni, e l’ippocampo, centrale nei processi mnestici. Analizzare l’attività motoria legata al parlare, ma non solo, non implica unicamente analizzare il gesto ma innanzitutto effettuare una valutazione del ruolo svolto dalle componenti emozionali e motivazionali, dagli stati attentivi e dagli aspetti mnestici, elementi fra loro strettamente intrecciati e in grado di condizionare i processi di apprendimento. 2.3 Come mi muovo così chiacchiero Alcune aree del complesso di Broca non solo presiedono l’articolazione vocalica e la combinazione di fonemi in parole, ma controllano anche i muscoli della vocalizzazione, i quali sovrintendono i movimenti di alto livello della bocca e gli organi fondamentali che rendono accessibile il linguaggio umano e insieme governano il controllo della faccia, delle mani e delle braccia, e per questa via l’afferramento degli oggetti. Anche questa corrispondenza a livello encefalico ha corroborato la tesi dell’origine gestuale dello sviluppo del linguaggio e della robusta relazione fra parola e azione, ma in particolare ha solidificato l’ipotesi che l’emergenza della proto-semantica possa derivare dalla capacità di raffigurare la presentificazione pragmatica di un oggetto, cioè di mimarlo, e di tramutare oggetti in strumenti (Caruana 2012; Leemhuis & Pazzaglia 2017). Non solo la produzione vocalica ma anche la percezione e la comprensione degli stimoli verbali dipendono da circuiti motori e l’area deputata a questo compito è l’area di Wernicke. Il complesso di Broca e l’area di Wernicke sono congiunte fra loro per mezzo di fibre nervose che costituiscono il cosiddetto

“fascicolo arcuato” e che permettono il transito delle informazioni basilari per l’emanazione di un linguaggio chiaro e comprensibile12. Si tratta di un complesso di aree corticali fisicamente vicine e in stretta connessione neurale, che agiscono e cooperano sia fra loro che con il resto dell’encefalo. Il complesso di Broca e l’area di Wernicke sono infatti accomunate dall’avere connessioni a lungo raggio verso altre parti della corteccia cerebrale, in modo da mettere la lingua parlata al servizio di tutti i sistemi sensoriali e motori del cervello, tramite l’attivazione contemporanea di diverse aree della corteccia premotoria, somatosensoriale, parietale inferiore, temporale superiore, frontale. Proprio come i lobi frontali sono collegati alle aree visive nella corteccia occipitale, quelle prefrontali sono connesse a parti lontane della corteccia, comprese le aree collegate al pronunciamento delle parole. Le frasi che si istanziano nell’area di Wernicke vengono, per così dire, trasportate al complesso di Broca per mezzo di queste fibre e il complesso di Broca è a sua volta coinvolto nella percezione e nella comprensione degli stimoli verbali, visto che si attiva oltre che per la produzione linguistica e per l’esecuzione e l’osservazione di atti e azioni, anche per la comprensione di atti e azioni, poiché l’ascolto di parole determina una risonanza fonologica e semantica del sistema motorio, cioè l’ascolto di parole fa venire in mente l’azione di pronunciarle (Fadiga et al. 2002). Il complesso di Broca è il luogo in cui si elabora la sequenza delle parole che viene a sua volta inviata alla corteccia motoria per la pronuncia e il riscontro, ed è il luogo che esercita indubbiamente un’egemonia funzionale visto che predispone non solo gli atti e le azioni vocaliche ma anche la loro percezione, benché la loro effettiva esecuzione dipenda dalla corteccia motoria (Nishitani & Hari 2000; Corballis 2002, pp. 65-66). La connessione con l’area di Wernicke mette in luce che il linguaggio prevede la cooperazione fra pronunciante e

ascoltatore e che di conseguenza è il frutto di gesti cooperativi, il che implica la necessità di comprendere intenzioni e finalità del parlato, non solo proprie ma soprattutto altrui. La comunicazione mimica gestuale potrebbe indubbiamente aver preparato la strada all’emergenza del linguaggio parlato, se prendiamo atto che le parole possono essere intese come gesti vocali. Questo non solo spiegherebbe la relazione fra F5 presente nei primati e il complesso di Broca, ma anche perché un bambino quando comincia ad articolare le parole tende contemporaneamente a indicare con il dito, e spiegherebbe anche perché quando parliamo gesticoliamo. La comunicazione gestuale e la capacità di controllare le concatenazioni di movimenti costituirebbero quindi una condizione necessaria – e cronologicamente precedente – per l’emergenza della parola, dal momento che il linguaggio parlato implica proprio il controllo completo di alcune funzioni motorie che articolandosi nello spazio utilizzano la visione: le indagini sulla comunicazione gestuale confermano infatti che le aree cerebrali del linguaggio sono estese e variabili come quelle della visione. Esiste una stretta e selettiva relazione fra la vocalizzazione, il movimento della bocca e quello della mano (Gentilucci et al. 2001): aprire la bocca contestualmente all’afferramento di un oggetto fa sì che la bocca venga aperta in maniera direttamente proporzionale alla grandezza dell’oggetto e afferrare qualcosa con la bocca fa sì che si apra contemporaneamente la mano in modo, anche in questo caso, proporzionale. Inoltre, l’esecuzione e l’osservazione del gesto dell’afferrare con le mani sono collegate all’attivazione di particolari movimenti della bocca che risultano dai cambiamenti che interessano l’area compresa fra i denti e la glottide. Questo aspetto induce a dedurre che i segnali comunicativi all’inizio potrebbero essere stati associati ad alcuni movimenti degli organi della masticazione e in seguito cooptati per la vocalità; tale influenza è infatti reciproca e persiste anche

quando il movimento della mano è osservato in un altro individuo (Gentilucci & Campione 2011; Gentilucci 2003; Gentilucci et al. 2004a; Gentilucci et al. 2004b). Appunto per questo, il meccanismo di controllo fra mano e bocca – sincinesia – può aver ulteriormente favorito, nel corso dell’evoluzione, il passaggio da una comunicazione gestuale a una comunicazione verbale (Gentilucci & Corballis 2006), poiché esiste indubitabilmente un legame fra la produzione del linguaggio, in senso di fonazione e articolazione, e i gesti (Fadiga et al. 2002; Wilson et al. 2004)13. Pertanto, il linguaggio avrebbe avuto nella sua formulazione una genesi visivo-manuale e una comprensione uditivo-visiva14; il linguaggio sarebbe stato, ed è, più un “passa parola” che un “circola la voce” (Critchley 1939; Critchley 1975; Hewes 1973; Amstrong 1999; Armstrong & Wilcox 2007). Gli studi sul sistema motorio, e per primi quelli neuroanatomici, hanno permesso di tracciare delle chiare connessioni fra strutture cerebrali come la corteccia frontale motoria e la corteccia parietale posteriore (Rizzolatti & Luppino 2001). Queste connessioni avrebbero consentito la formazione di circuiti parieto-frontali e uno di questi circuiti supporta le informazioni visive riguardanti oggetti che inducono atti e azioni specifiche di prensione, cosicché la prensione sarebbe visivamente indirizzata. Questa relazione soggetto-oggetto è stata riassunta nel concetto di affordance (Hurley 1998; Jacob & Jeannerod 2003), introdotto dallo psicologo James J. Gibson (1950; 1966). Un concetto che indica la diversa strategia di presa, una presa calibrata di volta in volta dalla relazione biunivoca oggetto-soggetto in un atto di vicarianza (Berthoz 2013, p. 17) visto che le affordance sono “possibilità d’azione” offerte dagli oggetti in un contesto. Nella prensione degli oggetti è coinvolta nei primati l’area corticale motoria F5 e il corrisponde complesso di Broca presente

nell’encefalo umano. In questa area risiedono specifici neuroni, denominati canonici (Rizzolatti & Fadiga 1998; Grezes et al. 2003; Rizzolatti & Sinigaglia 2006). Si tratta di neuroni visuomotori che si attivano alla presentazione di oggetti 3D. Ogni volta che un oggetto viene percepito, le sue caratteristiche fisiche vengono automaticamente riflesse in un potenziale motorio gestuale poiché si attiva immediatamente la selezione delle proprietà fisiche che permettono di interagire con esso (De Felice 2013). Inoltre, sempre nell’area F5, il cui corrispettivo umano è il complesso di Broca, sono presenti i neuroni specchio, che oltre a scaricare durante i movimenti attivi, si attivano anche quando si osserva un’altra/o compiere movimenti significativi con le mani o mentre si parla (Di Pellegrino et al.1992; Rizzolatti et al. 1996)15. F5 e il complesso di Broca indicano un affollamento di neuroni che per la vicinanza pongono molti interrogativi circa la relazione fra gesti, oggetti e linguaggio. La comunicazione mimica gestuale fa sì che il cervello si adatti a gestire combinazioni di movimenti (Gärdenfors 2007) ed è questo che prepara e accompagna il sistema cerebrale al linguaggio parlato (Donald 1991; Donald 2001). La stretta correlazione fra gesto e parola, fra sequenze motorie e controllo vocalico, sarebbe dovuta al fatto che ciò che all’inizio si è evoluto nell’area corticale preposta al controllo motorio, per esempio, nell’uso degli artefatti-strumenti, è stato poi assimilato e adattato al complesso di Broca affinché potesse essere utilizzato per la costruzione della sintassi nel linguaggio articolato (Ramachandran 2003; Tartabini & Giusti 2006). La diversa modalità di percepire oggetti senza sistema motorio e con sistema motorio non può che condurre alla considerazione che quando si parla di percezione come facoltà, questa non può essere ritenuta unica, bensì almeno duplice, e quindi è necessario usare il termine al plurale, cioè è adeguato adottare il termine percezioni e non percezione. Inoltre, è

rilevante scomporre la percezione in percezione esterna data dai sensi e percezione interna data dal senso del tatto “interno” che consente di percepire per esempio il dolore di parti del corpo proprio (Searle 2004). Non c’è ombra di dubbio che lo sviluppo del linguaggio è riconducibile a una riutilizzazione di aree cerebrali con funzioni legate ai gesti e di aree che si sono specializzate in nuove funzioni, in questo caso quelle linguistiche (Jackendoff 2002). L’abilità linguistica sembra di conseguenza collegata con funzioni cognitive filogeneticamente più antiche, soprattutto con la capacità di pianificare, organizzare e compiere concatenazioni di movimenti (Gärdenfors 2007); ed è probabile che sia questo riutilizzo che ha consentito all’homo sapiens un buon livello di astrazioni e generalizzazioni, una buona capacità previsionale, consolidata da una logica controfattuale in grado di esaminare mentalmente diverse possibilità alternative (Tartabini & Giusti 2006). Il linguaggio rende infatti possibile la cooperazione su obiettivi futuri e fa sì che si possano stabilire obiettivi isolati, distanti nel tempo e nello spazio o persino inesistenti. In altri termini, in un essere umano dotato di immaginazione e logica controfattuali, è il linguaggio che, muovendosi fra presente, passato e futuro, prefigura possibilità diverse e consente di strutturare scenari alternativi, come risulta evidente in primo luogo dai verbi nelle lingue flessive (ibidem). Al tempo stesso, il linguaggio proprio per come è affiorato ha favorito l’emergenza di un linguaggio analogico e metaforico con caratteristiche peculiari. È l’abilità pratica di combinare i movimenti manuali che sarebbe stata sfruttata per superare i limiti dell’iconicità dei gesti, creando prima con le parole e poi con le locuzioni presentificazioni di oggetti non direttamente riscontrabili nell’ambiente circostante, eliminando così il vincolo del qui e ora (Von Glasersfeld 1977). Il vocabolario verbale è molto più ricco di quello gestuale e la

bocca è un canale più agile e veloce della mano, che viene resa libera per altre occupazioni, non essendo più reclutata come unico mezzo comunicativo. Inoltre, la parola permette la comunicazione anche in assenza di un contatto visivo fra i due interlocutori, e la comunicazione diviene possibile anche al buio, condizione che è invece necessaria nel linguaggio gestuale. Se è vero che grande attenzione è stata data allo sviluppo anatomico connesso alla produzione linguistica, è altrettanto accertato che minore attenzione è stata destinata all’evoluzione anatomica connessa all’udire e al distinguere suoni e parole, eppure anche l’udire appartiene al lógos e l’udire stesso è un leghein, pertanto, come i greci argomentavano, l’udire autentico dei mortali è in un certo senso lo stesso lógos. Nella nostra quotidianità sappiamo come sia superfluo parlare senza che un’altra persona si trovi nelle condizioni di sentire e comprendere e quindi non parliamo, bensì chiacchieriamo. L’abilità di impiegare vocalizzazioni per indicare oggetti, processi e qualità richiede necessariamente che il ricevente delle vocalizzazioni sia in grado di discernerle e condividere una conoscenza comune delle entità del mondo esterno a cui esse si riferiscono, il che comporta sia un adeguato apparato di percezione e distinzione dei suoni, sia strutture cerebrali in grado di riconoscere e comprendere i suoni. Si tratta allora di dare risposte circa lo sviluppo connesso alla sua comprensione, sia in termini anatomici che cerebrali e ai processi di coevoluzione fra aree che presiedono la generazione del linguaggio e le aree che presiedono la sua comprensione. L’idea è che siano, produzione e comprensione, fenomeni non asimmetrici (Primo 2012) e che la comprensione si sia evoluta contestualmente alla produzione, pertanto, non può che trattarsi di una coevoluzione per far emergere la “possibilità” del dialogue. Una coevoluzione che ha fatto sì che i processi di comprensione implichino un surplus di informazione rispetto all’informazione

veicolata dalla espressione proferita dal parlante. Se assai complessa e controversa è la spiegazione sull’insorgenza, lo sviluppo e l’adattamento delle aree cerebrali in grado di far essere e proferire il linguaggio e di far essere quello umano nel modo in cui è; ancor più complessa e controversa è la spiegazione circa l’apparato anatomico e cerebrale legato al processo uditivo. L’area identificata a presiedere questo compito è quella di Wernicke – unitamente all’area 39 –, la quale si trova in prossimità dell’area ricevente uditiva, cosa che spiega il suo coinvolgimento diretto nell’interpretazione dei suoni della lingua parlata. Quest’area si trova presso il solco laterale – scissura di Silvio –, ovvero la zona di contatto fra il lobo temporale e il lobo parietale e comprende la circonvoluzione temporale superiore, che circonda la corteccia uditiva e il lobo parietale inferiore16. Quest’area presiede l’identificazione dei suoni verbali e, più in generale, la comprensione del linguaggio. I suoni verbali connessi al movimento attivano aree motorie corrispondenti e in questi casi è particolarmente attivo il giro fusiforme, coinvolto quando i gesti si riferiscono a verbi ma anche nella percezione delle emozioni che stiamo esprimendo e nel riconoscimento dei volti (Newman et al. 2015). È rilevante anche il dato che i neuroni si connettono tramite onde del tutto simili alle onde sonore emesse dalla voce. Non è quindi un caso che nella vocalizzazione l’informazione acustica venga conservata nel cervello durante la percezione del suono, tanto che l’attività elettrica dei neuroni della corteccia uditiva – Brodman 41 (primaria), 44 e 22 (secondaria) – è in parte isomorfa alla forma d’onda del suono che essi si trovano ad analizzare sulla base del segnale fornito dal nervo acustico dopo i complessi passaggi dell’orecchio (Moro 2015, p. 297). In sostanza le onde definiscono un andamento caratteristico, una melodia specifica del suono. Altrettanto significativo è il fatto che i neuroni, con lo scambio elettrico, sembrano ripercorrere la modalità

comunicativa del linguaggio (Cohen 2014) e in specifico i neuroni della corteccia uditiva conservano l’informazione acustica dei suoni delle espressioni linguistiche e le informazioni sono organizzate secondo gli schemi dei tratti fonetici che costituiscono gli elementi primitivi delle teorie linguistiche nel dominio fonologico (Giraud & Poeppel 2012; Bouchard et al. 2013; Mesgarani et al. 2014). Le informazioni acustiche conservate permettono la ricostruzione, seppur imprecisa, di strutture sillabiche e parole semplici a partire dall’analisi della corteccia uditiva (Pasley et al. 2012). In altri termini, nelle reti del nostro cervello viaggiano in forma d’onda elettrica essenzialmente le stesse informazioni che in forma di compressione d’aria costituiscono il suono. L’informazione acustica incredibilmente si conserva anche nel complesso di Broca (Kubanek et al. 2013) – coinvolto altresì nell’elaborazione sintattica – grazie alla presenza del fascicolo arcuato (Petrides 2013). Queste connessioni riescono a promuovere al contempo sia le funzioni sensoriali collegate al sapore, sia l’apprendimento necessario a mettere in relazione le percezioni con l’apparato neurale del linguaggio (Shepard 2012) e questo perché l’ingestione del cibo e la percezione degli odori retronasali coinvolti nel sapore sono entrambe attività che si svolgono all’interno della bocca, lo stesso orifizio che usiamo per la produzione del linguaggio. In questo senso, quindi, cibo e linguaggio non sono dirimpettai, bensì coinquilini. A favore di uno stretto legame fra olfatto e linguaggio sta lo straordinario vocabolario a disposizione degli umani per descrivere i sapori. Parlando si agisce e spesso agendo si parla (Hegel 1825-26, p. 152): quando dei soggetti ascoltano frasi con verbi di azione come “apri la finestra” o “prendi il bicchiere”, “mangia la pesca”, “sali lo scalino”, rispettivamente eseguiti con la mano, la bocca e il piede, si attivano regioni motorie della corteccia cerebrale che

si riferiscono alle diverse parti del corpo implicate nelle frasi pronunciate e ascoltate (Tettamanti et al. 2005). Durante l’ascolto di verbi che indicano azioni eseguite con gli arti inferiori (camminare) piuttosto che con il volto (parlare) si attivano, nel primo caso, le aree frontali prossime a quelle della presentificazione somatotopica della gamba, mentre nel secondo caso, le aree poste più inferiormente, prossime alle aree di presentificazione somatotopica di bocca e volto (Pulvermüller et al. 2001), le quali si attivano più precocemente delle prime (Pulvermüller et al. 2004; Pulvermüller 2005), poiché i tempi di reazione sono più veloci. I diversi significati possono quindi attivare aree cerebrali connesse con la presentificazione dei loro effettori: gesti compiuti da muscoli della mano o del piede sono modulati dalla presentificazione di frasi che si riferiscono relativamente a gesti eseguiti con la mano e a gesti eseguiti con il piede, così come gesti eseguiti dalla bocca sono attivati da frasi che si riferiscono ad attività della bocca. Si tratta di processi specifici per effettore utilizzato e che possono assumere sia un carattere di tipo inibitorio sia un carattere eccitatorio (Glenberg & Kaschak 2002; Buccino et al. 2005; Boulenger et al. 2007). In sostanza, quando si odono delle locuzioni che fanno riferimento ad atti o azioni si attivano proprio le aree cerebrali che vengono impiegate quando si eseguono proprio quegli atti e quelle azioni, cioè la risonanza è diretta. A intensificare l’esperienza derivante dal linguaggio è il dato che non ci sono grandi differenze fra osservare e ascoltare un atto o un’azione espressa in una specifica lingua, visto che in entrambi i casi sono coinvolti i neuroni specchio, e dato che il sistema linguistico è strettamente legato al sistema sensomotorio anche i processi di scrittura e di lettura, e non solo il parlare, sono coinvolti nel riconoscimento semantico delle frasi e quindi in grado di attivare aree cerebrali connesse con la presentificazione dei loro effettori. Centrale per il linguaggio è dunque il sistema motorio e per gli

studiosi che si occupano dei suoi substrati neurali movimento, atto e azione sono termini non equivalenti. Il movimento sarebbe l’esito della messa in funzione di una circoscritta area muscolare che genera il trasferimento nello spazio di una o più articolazioni, come il movimento circolare di un polso o la flessione di un dito. L’intero sistema motorio appare come il risultato del processo evolutivo di almeno tre tipologie differenti di movimenti e ciascuna tipologia implica strutture dissimili del sistema nervoso17 e degli attinenti segmenti corporei, con livelli di organizzazione e integrazione caratterizzanti. La prima tipologia sono i movimenti riflessi, presenti sin dalla nascita e che rappresentano risposte motorie generalizzate, grazie alle quali avviene la coordinazione di parti del corpo; una seconda tipologia sono i movimenti di maturazione, la cui esistenza dimostra che per trasformare delle capacità in abilità occorre che maturino le precondizioni fisiche per poter compiere un movimento; la terza tipologia sono i movimenti appresi, come ruotare una maniglia per aprire una porta. I movimenti riflessi, sono a loro volta scomponibili in immediati e non immediati. I primi – si pensi alla estensione della gamba quando il martelletto del neurologo percuote il ginocchio – incarnano una risposta rapida e stereotipata a un determinato stimolo intercettato da un recettore in grado di trasportare l’informazione dentro il Sistema Nervoso Centrale (SNC). Si tratta di comportamenti motori molto semplici, che non possono essere controllati dai centri corticali e quindi vengono effettuati senza controllo volontario, di attività ritmiche e di gesti per lo più organizzati a livello del midollo spinale e del tronco, assai poco o per nulla flessibili perché la catena di latenza – l’intervallo di tempo fra l’attivazione dello stimolo e la comparsa del comportamento motorio – è molto breve, poiché le sinapsi innescate sono poche. La seconda tipologia di gesti riflessi sono

quelli non immediati, i quali hanno questa denominazione perché siamo in grado sia di controllarli che di inibirli. È infatti indubbio che se tocchiamo – percepiamo – involontariamente un oggetto tagliente o molto caldo o molto freddo ritraiamo con un riflesso immediato la mano, ma se l’oggetto in questione è per noi prezioso o il cibo è stato preparato per una cena importante ci si lascerà leggermente ferire o leggermente “scottare” pur di salvare i due tipi di oggetti, cioè non facciamo rompere l’oggetto prezioso e non lasciamo che la pentola o il piatto di terracotta vada in terra. L’atto sarebbe invece l’esito di più movimenti, attuati sinergicamente e con una modalità fluente, che implica più articolazioni. A differenza del movimento l’atto è caratterizzato da una finalità, tant’è che per impugnare una forchetta bisogna flettere alcune dita della mano finché non la si afferra. L’azione, infine, è una sequenza programmata di atti contraddistinta da una finalità ampia. Una distinzione quella fra movimenti, atti e azioni che è stata avanzata dal neurofisiologo Nicholai Bernstein (1967; 1996), il quale aveva argomentato che le azioni sono composte da elementari componenti motori che possono essere organizzati in sequenze complesse, combinate, ricombinate, ricorsive e per lo più differenziate, grazie all’abilità di accedere ripetutamente agli elementari componenti motori precedentemente appresi, mantenendo nel contempo un buon grado di variabilità adattiva per venire incontro ai mutevoli e imprevedibili cambiamenti derivanti dal contesto e dall’ambiente, in modo da raggiungere una specifica finalità. Per chiarire la distinzione fra movimento, atto e azione propongo due esempi. Durante una partita di football un tiro con la testa del pallone verso la porta di rete è l’azione, la rincorsa lungo il campo, il salto in alto, la testa che tocca il pallone, la direzione dello sguardo sono alcuni atti motori che compongono

l’azione; la posizione della testa, dei piedi, il caricamento del peso del giocatore sul corpo e la lunghezza dei passi sono i movimenti che compongono gli atti. Una medesima scomposizione è applicabile nel caso di un tuffo carpiato, la cui denominazione contraddistingue i tre aspetti che lo caratterizzano: il tronco del corpo è flesso in avanti a formare un angolo con le gambe tese o in avvitamento, cioè un movimento del corpo che preso a sé non è il tuffo, il quale è invece il risultato finale e quindi l’azione; mentre la rincorsa, la fase aerea del salto sul trampolino, la flessione delle gambe a squadra rispetto al tronco, l’improvvisa apertura e la direzione dello sguardo sono alcuni degli atti motori che compongono il tuffo; la posizione dei piedi e delle braccia, il peso del corpo, la lunghezza dei passi, i salti sulla piattaforma sono invece i movimenti alla base dei singoli atti motori che consentono il tuffo. Da questa disamina risulta che gli atti e le azioni sono gesti imperniati sull’intenzionalità – il tendere verso, cioè l’essere una freccia puntata su un obiettivo –, che hanno quindi una finalità, sono pianificati e attivano, e sono a loro volta attivati, da specifiche aree della corteccia cerebrale; questi gesti vengono denominati volontari e sono per lo più organizzati a livello corticale e nella maggior parte dei casi vengono appresi e quasi sempre sono migliorabili con l’esercizio. Per questa ragione possiamo evocare l’idea di una flessibilità cognitiva relativamente a questi gesti. Ai nostri fini è interessante rilevare che parlare, come camminare o masticare, è un gesto per lo più volontario nella fase iniziale e finale, si tratta, come per camminare o masticare, di un’attività ritmica, organizzata a livello del midollo spinale e del tronco dell’encefalo. I due casi descritti rendono manifesto che i termini “movimento” e “attività motoria” non possano avere il medesimo significato, nonostante spesso siano utilizzati in maniera commutabile o sinonimica: il movimento è lo spostamento di

una o più articolazioni, l’attività motoria è un comportamento più generale che può includere sia un solo movimento, sia uno o più atti motori, sia una o più azioni; inoltre, l’attività motoria, che implica l’intenzionalità18 e la finalità, è pianificata e volontaria, quindi “controllata”, ed è attivata da specifiche aree della corteccia cerebrale, diverse e aggiuntive a quelle che presiedono il solo movimento. Movimento e attività motoria hanno in comune il fatto che ambedue afferiscono al Sistema Nervoso Centrale (SNC). L’area frontale motoria – dove sono generati intenzioni, piani e progetti e dove avviene il processo decisionale – è interconnessa non solo con l’area legata alle percezioni (Damasio 1999) ma anche con alcune aree cerebrali – gli strati profondi dei collicoli cerebrali, i circuiti sottostanti del grigio periacqueduttale mesencefalico – che elaborano una mappa del corpo e uno schema motorio. La mappa motoria è cruciale perché la coerenza motoria deve precedere e indirizzare la guida sensoriale, garantendo uno stabile riferimento al campo percettivo e inoltre consentire l’installarsi delle informazioni generate dai circuiti provenienti dalle aree che presiedono le motivazioni e le emozioni (Panksepp 1998). Quando l’essere umano attiva un processo che implica l’allungamento di un braccio, l’apertura di una mano e poi la sua chiusura, in uno specifico modo, lo fa per afferrare un oggetto. Questo processo avviene perché nella corteccia parietale posteriore si attivano i neuroni specchio, che scaricano in base all’intenzione dell’atto o dell’azione (Rizzolatti & Sinigaglia 2006) e lo fanno in base alla finalità. Di questo siamo certi e altrettanto lo siamo del fatto che all’interno del lobo frontale si trova una corteccia filogeneticamente più antica, il giro del cingolo, appartenente al sistema limbico, la quale è coinvolta negli aspetti emotivi e motivazionali che modulano i processi alla base dell’intenzione dell’azione e dei singoli atti e che svolge un ruolo

di controllo – insieme alla corteccia prefrontale dorso-laterale – durante l’esecuzione di comportamenti complessi, come quelli della mano e del parlare, e un ruolo di selezione, confronto e giudizio – insieme alla corteccia prefrontale ventro-mediale – delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno (Mandolesi 2012). Tutto ciò rivela che per parlare è necessario uno stimolo emozionale-motivazionale e che l’uso dei gesti a fini comunicativi è soprattutto una conseguenza del controllo dei gesti motori connessi alle emozioni (Turner 2000). Il nostro cervello percepisce, imita, apprende, pianifica, comanda ed esegue un complesso di gesti che di volta in volta possono includere movimenti, atti, azioni, fra cui emerge il parlare19. Si tratta di un’esecuzione composta da un amalgama ordinata in sequenze differenti ma non casuali, governate da una specifica “grammatica motoria”, propria di un sistema motorio organizzato intorno a una gerarchia anatomo-funzionale, che spazia dalla generazione di intenzioni e finalità all’implementazione dei parametri del controllo motorio, alla ricorsività delle azioni. Cosicché i movimenti non sono un puro meccanismo, un mezzo per ottenere qualcosa, poiché gli atti e le azioni motorie, di cui sono componenti, esercitano un ruolo importante nella formazione della cognizione. Movimenti, atti, azioni, e i relativi schemi motori, sviluppano la logica cognitiva, sottendendo nessi importanti quali il prima e il dopo, il presente – lo stato del corpo – e il futuro – l’intenzionalità e la finalità; aspetti che rappresentano in modo plastico una delle peculiarità del linguaggio – la presentificazione di mondi possibili –, una peculiarità che, come è stato segnalato, è in comune con la phantasia. Nel caso degli schemi motori, si tratta non dei mondi ma dei modi possibili del corpo. È l’atto di percepire e poi la phantasia che potenzialmente sono in grado di codificare i dati sensoriali in termini motori e di rendere così fattibile quella corrispondenza biunivoca di atti e

azioni che portano con sé la finalità e quindi l’intenzionalità, e che stanno a fondamento dell’istantanea identificazione del significato dei gesti altri, ovviamente attuati in uno specifico contesto. Sappiamo, e constatiamo, che lo sviluppo della motricità avviene a poco a poco dopo la nascita e attraverso fasi ben precise (Oliverio 2006). I gesti motori col passare dei giorni, delle settimane e dei mesi diventano più coordinati e fondati su un succedersi di atti e azioni che derivano da memorie che codificano concatenazioni di movimenti capaci di rispondere a situazioni specifiche e dunque ricche di significato. Queste concatenazioni, che rassomigliano a delle “parti” che vengono riprodotte a memoria, al punto che sono state definite col termine di “copioni” (script), si incrementano grazie a complesse sequenze muscolari, indirizzate soprattutto a imitare le espressioni facciali dell’adulto. I movimenti muscolari, per effetto soprattutto della metodologia mimica, rappresentano un nucleo iniziale di schemi motori che viene modificato dalle successive esperienze. Queste stesse memorie “corporee” – procedurali – implicano una sequenza di processi che formano il punto di partenza delle ulteriori acquisizioni linguistiche, anch’esse basate su sequenze motorie non dissimili dall’organizzazione dei gesti delle mani e che sono funzionali a generare una successione coordinata di suoni significativi. Nei neonati si manifesta inoltre la “sincronia interattiva”, un fenomeno che si istanzia nella produzione di una sequenza di micromovimenti in risposta al linguaggio degli altri, adulti e non; una sorta di “danza” attivata dalla voce e dal ritmo della lingua. Si tratta delle “melodie cinetiche” di Alexander Lurija (1974). Ciò testimonia che il parlare implica una dimensione intersoggettiva e l’intenzionalità reciproca non ha nulla di riflessivo o di “teorico”, bensì si fonda sull’involontaria valutazione delle modalità gestuali che in base al patrimonio

motorio risultano di volta in volta maggiormente conciliabili con il contesto osservato. Le “melodie cinetiche” sono una manifestazione specifica che non si esprime in presenza di altre tipologie di suoni e che testimonia il dato che il linguaggio nella sua essenza è ancorato e istanziato nel corpo e la “mente” appare come un inestricabile intreccio di movimenti, atti e azioni. I gesti dell’embrione, e quelli sempre più precisi del lattante, sono i mattoni costitutivi del comportamento motorio e di un derivato numero di attività “sequenziali”, linguaggio compreso (Bownds 1999), che prendono forma “definitiva” e ancora progressiva nell’adulto, tanto che si manifestano in classi di percezioni, comportamenti e convenzioni linguistiche abbastanza universali. Per esempio, in termini spaziali lo script “verticalità”, si evidenzia nell’esperienza dell’alzarsi, del salire, dell’arrampicarsi, il che dà corpo a concetti concreti e a strutture metaforiche come “sale la tensione”, “salgono i prezzi” “crolla il valore delle azioni”, “raggiungere il vertice”, “essere giù” quando si esprime depressione. La logica motoria appare come strutturata sulla sequenza di movimenti, atti e azioni concatenate e progressivamente la corteccia motoria – dove sono i neuroni che controllano i muscoli – e quella pre-motoria – dove sono i neuroni che pianificano i movimenti muscolari – hanno sviluppato una abilità sequenziale che ha fatto sì che il complesso di Broca, che controlla la motricità del linguaggio, dia vita a quelle sequenze di sillabe che sono alla base della parola e che, coadiuvando l’area F44 e l’area 6, elabori la progettazione degli enunciati, e che, insieme all’area F45 e all’insula, controlli l’attività coordinata delle strutture fonatorie. Il quadro descritto evidenzia che il sistema motorio non afferisce, come è stato usuale ritenere per lungo tempo da fisiologi e neurologici, solo alla corteccia cerebrale ma anche ad aree tradizionalmente ritenute cognitive; l’insieme di

movimenti, atti e azioni è infatti mediato anche dalle regioni corticali, sottocorticali e spinali (Graziano 2006) e quindi non unicamente e non necessariamente solo da aree motorie. Processi considerati usualmente di ordine superiore e attribuiti al sistema intellettivo – percezioni, riconoscimento di movimenti, atti e azioni altrui, imitazione, forme di comunicazione gestuale o vocale – rimandano al sistema motorio e trovano in esso il proprio substrato neurale primario. Il sistema motorio innesca questi processi sia quando gli atti o le azioni sono compiute in prima persona sia quando atti e azioni sono osservate, come nel caso in cui un soggetto beva un bicchiere di birra e un’altra/o lo osservi. Mentre il primo lo osserva, lo percepisce, il suo sistema motorio comprende il significato del gesto del secondo perché lo riproduce all’istante. Fra le aree motorie occupano un posto importante i cosiddetti gangli della base (nucleo striato, accumbens) che controllano le attività cognitive come le memorie spaziali, l’esecuzione di azioni motorie in un determinato contesto e le componenti motivazionali dell’apprendimento. Corteccia e gangli della base sono strettamente allacciati fra di loro e controllano sia gli aspetti motivazionali di un movimento (la preparazione all’azione), sia gli aspetti contestuali (l’esecuzione del movimento), sia lo stato di esecuzione, anche attraverso la partecipazione del cervelletto. Gangli della base e cervelletto sono due componenti cerebrali che intervengono anche nel linguaggio. Il tradizionale schema che vedeva una sequenza causale, con delle priorità ben definite, e così schematizzabile: percezione → cognizione → movimento non è più proponibile. Questo schema poteva risultare convincente finché del sistema motorio si aveva un’immagine estremamente semplificata, generalmente circoscritta a compiti puramente esecutivi del movimento, privi di valenza percettiva o

cognitiva. Quasi in modo unanime filosofi e fisiologi hanno ritenuto che i fenomeni percettivi e quelli motori fossero controllati e attivati da aree cerebrali nettamente distinte. Lo stesso rigido confine fra processi percettivi, cognitivi e motori si è invece rivelato in gran parte fittizio. Oggi, sappiamo che tale sistema è formato da un mosaico di aree frontali e parietali – fra cui la corteccia parietale posteriore – strettamente connesse con le aree visive, uditive, tattili, e dotate di proprietà funzionali molto più complesse di quanto ci si potesse aspettare: non solo le percezioni appaiono immerse nella dinamica dell’azione, ma il cervello che agisce è innanzitutto un cervello che comprende, cosicché movimento e cognizione convergono (Turri 2011, p. 81). La corteccia parietale posteriore, è particolarmente rilevante per il tema qui affrontato perché possiede la capacità di connettere le informazioni sensoriali – percezioni e sensazioni – a quelle motorie, elaborate in altre parti del cervello, di direzionare l’attenzione20 – attività svolta anche da quella frontale – dipendente dalle motivazioni e, aspetto assai rilevante, di tenere conto dello stato emozionale che si ha in un dato momento e che rende l’essere umano più o meno predisposto a una specifica azione; stato emozionale che a sua volta influenza le motivazioni e per questa via l’attenzione (Rizzolatti & Luppino 2001). Il sistema motorio, nella vecchia concezione di esecutore dei movimenti, non offriva una spiegazione convincente circa le fasi iniziali del processo, quelle per cui le informazioni sensoriali, le finalità, le intenzioni individuali e le intenzioni sociali possono essere tradotte in mirati eventi motori. Già Ludwig Wittgenstein (1953), utilizzando la vista come esempio paradigmatico della percezione, aveva messo in discussione questa concezione della percezione e quindi del sistema motorio, ritenendo che il vedere come non sia qualcosa di intermedio fra il vedere e il pensare, ma

piuttosto una locuzione che esprime una comparazione: percepire e avere cognizione non erano per lui due modalità distinte. Questa posizione di Wittgenstein è confermata sia dall’esistenza di neuroni interni ai circuiti cognitivo-motori che si attivano anche in assenza di un movimento del soggetto ma alla sola percezione di un’azione compiuta da altri soggetti, e sia dal fatto che questi circuiti neurali sottostanno ai processi cerebrali caratterizzati dalla previsione e comprensione di un atto o di un’azione. Nelle ultime tre decadi la ricerca neuroscientifica ha indubbiamente gettato le basi per comprendere a fondo il modo in cui il cervello elabora e controlla le presentificazioni di movimenti, atti e azioni, portando anche a un superamento della tricotomia fra processi motori, percettivi e cognitivi e delle dicotomie classiche fra processi motori e percettivi, fra processi motori e cognitivi, fra processi percettivi e cognitivi. Il sistema motorio non è quindi più considerato periferico e isolato dal resto delle attività cerebrali, bensì il suo funzionamento è letto come una sorta di ragnatela: il risultato dell’interazione di aree cerebrali in grado di contribuire allo scambio e alla comunicazione fra informazioni derivanti dai sensi e connesse ai gesti – informazioni sensomotorie – dalle quali dipendono l’individuazione, la localizzazione degli oggetti con sistema motorio (esseri umani, animali, piante) o senza sistema motorio (pietra, forchetta, mela) e l’attuazione dei movimenti richiesti dagli atti e dalle azioni compiute nella nostra esperienza quotidiana. Le ricerche in campo neuroscientifico mostrano ormai con evidenza che l’intero organismo è presieduto dal sistema motorio, e che questo è coinvolto nella determinazione dei diversi processi cognitivi. L’organismo è infatti un organismo cognitivo che interagisce sin dai momenti prenatali con l’ambiente fisico, affettivo e intellettivo. Ne consegue che esiste

un nodo gordiano fra movimento, percezioni e cognizione, cosicché anche la conoscenza è inestricabilmente legata alla nostra esperienza motoria e sensomotoria. Non può esserci cognizione, senza movimento, senza pianificazione degli atti e delle azioni e previsione dei loro esiti. Questo cambio di prospettiva non può infatti non aver coinvolto il linguaggio. Un cambio di prospettiva che soprattutto la cultura occidentale è costretta a compiere perché, per esempio, nel pensiero cinese non esiste una distinzione fra mente e corpo, non esiste un mondo di segni distinto dal mondo delle cose, e coerentemente, le parole non sono semplici segni e le denominazioni hanno origine nelle “forme” delle cose stesse e assumono specifiche denominazioni anche grazie all’ambiente, denotando così un aspetto della natura sociale del linguaggio (Borzacchini 2005, pp. 432-436). La centralità e la complessità del sistema motorio sono confortate anche dal fatto che quando questo sistema agisce in modo “intensivo”, cioè è sottoposto a un energico e prolungato sforzo fisico, esso costituisce un ostacolo che manda “in blocco” tutti gli altri sistemi, da quello percettivo, a quello dell’attenzione e delle attività intellettive (Maffei 2018). Infatti, il sistema motorio in condizioni di particolare tensione e attenzione riduce il flusso delle informazioni, alterando il buon funzionamento delle percezioni e il dispiegarsi generale delle idee. Viceversa, quando siamo in una situazione di rilassamento, di non stanchezza e di tranquillità, anche la nostra mente è in grado di percepire le sensazioni con maggior lucidità e di ragionare in modo più articolato e fluente. Un ulteriore aspetto che documenta la complessità del sistema motorio è la modalità con cui si verifica la programmazione della risposta al contesto e ai singoli oggetti che lo popolano, risposta che si modula sulle finalità: si tratta di una dimensione teleologicamente enattiva, sia nel sistema motorio

stesso sia fra sistema motorio e “mondo esterno”, tanto che cogliamo immediatamente la congruità dei gesti altrui rispetto al contesto – tazza afferrata per bere o per rigovernare –, così come cogliamo la congruità del “parlato” rispetto a un contesto. Fra i gesti, non solo l’atto ma soprattutto l’azione sembra essere il paradigma della capacità di svolgere un compito complesso e sofisticato, da parte di un sistema considerato come un tutto, facendo appello ad abilità di parti di questo stesso sistema indirizzate a svolgere compiti più semplici. Pertanto, per il sistema motorio è richiamabile il concetto di funzione propria (Millikan 1989), benché questo sia stato elaborato in relazione agli oggetti e non ai gesti e tantomeno al gesto del parlare. La concezione della funzione propria mette in risalto la non accettabile separazione fra funzione e fine e la necessità di non relegare il concetto di funzione a una spiegazione analitica, separandolo dall’oggetto di cui è funzione. Funzione e conferimento di intenzionalità sarebbero necessariamente connesse. La necessità di riagganciare la nozione di funzione a quella di fine risalta dalle considerazioni circa il fatto che la funzione è descritta in termini di capacità o disposizione in un contesto (Cummins 1975). Anche la nozione di contesto è rilevante e lo è sia per l’ontologia descrittiva che per la filosofia del linguaggio, in primo luogo per il ruolo insostituibile che questo ha nella comprensione degli indicali, e in seconda istanza perché quando proferiamo un enunciato eseguiamo un atto linguistico che ha luogo in un contesto e che viene valutato tenendo conto di tale contesto in quanto esso ne condiziona l’enunciazione, la comprensione e l’interpretazione. Senza sapere chi parla, quando e dove parla, indicali come “io” “tu”, “oggi”, “l’altro ieri”, “qui”, “ora” (Benveniste 1966, p. 312; Pisanty & Pellerey 2004), i dimostrativi come “questo” o “quello” e descrizioni dimostrative come “questa città”, “quel libro” non possono essere comprese; infatti senza un

contesto di riferimento non si può sapere a che cosa si riferiscano. L’uso della lingua non è di conseguenza per nulla una téchne. Viviamo nella lingua come in un elemento, così come i pesci vivono nell’acqua (Gadamer 1990, p. 89). La definizione di funzione propria, implicando il riferimento a un fine determinato (Romano 2006), attraverso un’eziologia di carattere contestuale, non si riduce alla considerazione di quanto in via astratta, generica, è in grado di fare il sistema motorio; bensì, date le potenzialità e i vincoli del sistema motorio umano, il riferimento al contesto è ciò che consente di attuare un’attribuzione funzionale anche in assenza di una specifica capacità individuata come funzione. Già Aristotele nel Libro secondo della Fisica argomentava come la causa finale incorpori la causa efficiente; tesi successivamente fatta propria da MerleauPonty (1945, pp. 369-70). Per Aristotele e Mereau-Ponty il corpo in sé ha la funzione propria della propria sopravvivenza e della sopravvivenza della specie, e delle funzioni proprie specifiche, grazie a un’architettura funzionale gerarchica. La bontà del corpo umano va misurata in termini della sua adeguatezza rispetto al fine proprio dell’essere umano:

poiché ogni strumento è in vista di un fine, e ognuna delle parti del corpo è in vista di un fine, è manifesto che il corpo nel suo insieme è costituito in vista di una funzione complessa. In effetti non è il segare a essere in funzione della sega, ma la sega in funzione del segare: segare è un certo impiego di uno strumento. Così anche il corpo è in qualche modo finalizzato all’anima, e ognuna delle parti è finalizzata alla funzione alla quale è destinata per natura (De partibus animalium 645b). E se, valutato rispetto a tal fine il corpo dell’essere umano risulta il mezzo più adeguato.

Più in particolare, nell’analisi aristotelica vi sono due livelli di strumentalità del corpo rispetto al fine dell’essere umano. Una strumentalità diretta in cui una certa caratteristica del corpo è direttamente strumentale al fine dell’essere umano: si tratta di caratteristiche che incidono sulla totalità del corpo come l’interazione fra i sensi21 e la pelle umana. Una strumentalità indiretta, in cui una certa caratteristica del corpo è indirettamente strumentale al fine dell’essere umano in quanto direttamente strumentale a una particolare funzione dello stesso corpo: si tratta di caratteristiche che riguardano parti del corpo, come la mano che afferra il cibo necessario all’alimentazione22. La matrice biologica della posizione aristotelica è incontrovertibile e coerente con quella di Jacques Monod quando sosteneva che i viventi sono sistemi “teleonomici”, cioè sistemi la cui struttura è indirizzata a una finalità e per questo la struttura ha una funzione (Monod 1970). È indubbio che il parlare abbia una funzione propria e sia una capacità o disposizione in un contesto, altrimenti sarebbe un parlare “fuori luogo”, un parlare “impropriamente”. 2.4 Uso un vocabolario di movimenti, atti e azioni L’esperienza evidenzia che l’udito è il senso che mette in relazione il feto con il mondo esterno e lo mette in contatto con ciò che può essere percepito (suoni e linguaggio strutturato) e con un mondo emozionale fatto di fonemi, timbri, toni. Il feto percepisce i suoni tattilmente e ode le impressioni tattili. La psicologa cognitivista Elisabeth Spelke ha condotto esperimenti su bambini, con l’obiettivo di comprendere i caratteri innati della competenza e della conoscenza; da tali esperimenti emerge che il linguaggio si fonderebbe su un sistema preesistente di interazioni, cioè di movimenti, atti e azioni, con il mondo tridimensionale e i suoi oggetti. Le sue ricerche suggeriscono che i bambini sanno riflettere ancor prima di saper emettere suoni riconoscibili come linguaggio orale e sono in

grado di identificare determinati concetti che gli adulti, invece, non distinguono spontaneamente, tanto che i bambini, una volta cresciuti, a seconda della lingua appresa, sono portati a favorire alcuni concetti rispetto ad altri, la qual cosa attesterebbe che il condizionamento culturale è in grado di modificare il livello cognitivo (Spelke 1994). I suoi esperimenti sulla percezione visiva e tattile degli oggetti, sulla manipolazione degli stessi e sulle conoscenze rispetto al moto degli oggetti dimostrerebbero anche che percezioni, azione, ragionamento e linguaggio hanno uno sviluppo interattivo e sincronico durante tutta l’infanzia, poiché sembrano fare riferimento a principi similari. Appunto per questo, lo sviluppo embodied e intellective procederebbero in modo continuativo, dinamico e interrelato (Spelke & Hespos 2002). Nei lavori di Spelke il canale visivo svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo e le abilità cognitive si evolverebbero nei primi anni di vita attraverso un confronto attivo con il mondo spaziale, materiale e sociale. Una convalida è data dagli studi legati ai bambini non vedenti dalla nascita, i quali dimostrano che la lentezza nello sviluppo dell’attività manuale e della coordinazione udito-mano è dovuta alla mancanza di “guida visiva” nei movimenti e nella locomozione, ritardando così lo sviluppo percettivo e motorio, nonché linguistico, nella maggior parte di questi bambini. Anche l’acquisizione della permanenza oggettuale sarebbe coinvolta in questo ritardo (Calligaris 1996). Ne deriverebbe che esplorazione, locomozione, permanenza oggettuale e articolazione del linguaggio sarebbero strettamente interdipendenti, in quanto cercare al buio e spostarsi implicherebbero una certa presentificazione mentale degli oggetti, così come i movimenti e le acquisizioni locomotorie favorirebbero lo sviluppo della costanza dell’oggetto, la ricerca degli oggetti stessi e il linguaggio (Perez-Pereira & Contiramsden 2002; Celani 2005). Quindi, per

l’apprendimento sarebbe significativo il coinvolgimento in una sorta di bagno sensoriale dove gesti, posture ed emozioni rendano motivanti e significative le acquisizioni. Secondo Spelke anche il linguaggio non verrebbe acquisito per semplice ripetizione o attraverso un freddo meccanismo di tentativi ed errori. La capacità di comprendere e di esprimersi per mezzo della parola si acquisirebbe in realtà al seguito di altre funzioni e la cosiddetta “sincronia interattiva” ne sarebbe il primo segno. Come già descritto, i bambini di poche settimane di vita producono col corpo una serie di micromovimenti in risposta al linguaggio umano e la “danza” attivata dalla voce non comparirebbe quando il bambino sente altri suoni, il che, da un lato, depone a favore di una sensibilità innata alla voce umana e dall’altro indica come il linguaggio non sia un fatto puramente mentale o astratto, ma coinvolga in primis il corpo (Spelke 1994; Spelke & Hespos 2001; Hespos & Spelke 2004; Hespos & Spelke 2007), tanto che colui che parla, anche in età adulta, accompagna il linguaggio con dei micromovimenti mimici che rendono le sue verbalizzazioni significativamente “calde”, tali da motivare l’ascoltatore a partecipare alla “danza”. Il linguaggio, dunque, deve essere considerato nel contesto più generale del corpo e in relazione con altri corpi. I gesti innati dell’embrione e quelli sempre più perfezionati del lattante sono i mattoni costitutivi del comportamento motorio e di un conseguente numero di attività “sequenziali”, fra queste il linguaggio vocale emesso e udito (Cuccio et al. 2014). È possibile pensare gli atti e le azioni percettive, fra cui il parlare, in analogia con la descrizione dei movimenti, degli atti e delle azioni attuate dal sistema motorio (Mussa-Ivaldi & Bizzi 2000): un’azione percettiva è un’unità fondata su una finalità e composta da atti percettivi discreti, anch’essi in relazione a una finalità, a loro volta costituiti da specifici movimenti. L’atto percettivo può essere infatti composto a sua volta da percezioni

diverse, che concorrono all’adempimento dell’atto percettivo nella sua interezza, ma queste non sono né sufficienti a esaurirne la descrizione, perché non ne specificano l’obiettivo, né necessarie, perché le modalità di attuazione possono variare. Anche in questo caso il concetto chiave è quello di funzione o finalità. In altri termini: le singole percezioni non sono sufficienti a rendere conto degli atti e delle azioni, che si organizzano in relazione a una funzione o finalità. Quello degli atti e delle azioni percettive insieme alle funzioni percettive sarebbe dunque un possibile sistema per classificare e descrivere la percezione, in grado di tenere conto della complessità delle relazioni che i sistemi percettivi mettono in campo negli effettivi contesti dell’azione. Esistono vincoli del sistema motorio che agiscono sulla percezione e sulle riproduzioni interne del movimento, dell’atto e dell’azione (Viviani & Monoud 1990; de’Sperati & Stucchi 1995; de’Sperati & Viviani 1997). L’idea di limiti motori alla percezione, dati dall’arredo del mondo, è del resto implicita nelle ipotesi legate alle funzioni del sistema specchio, in quanto questo favorisce la comprensione degli atti altrui e delle azioni – percepite dai sensi – attraverso il riferimento alle proprie. Il riconoscimento e la congruenza, fra azione osservata e azione eseguita, degli eventi motori – identificazione dell’azione, differenziazione da altre azioni – sarebbero infatti mediati dalla conoscenza dei propri atti e dalle proprie azioni e i neuroni specchio funzionerebbero come mezzo per estendere agli atti e alle azioni degli altri le conoscenze sulle proprie, nonostante la consapevolezza non sia necessariamente implicata in queste funzioni (Rizzolatti 1994). La percezione, pertanto, è un processo evolutivo, poiché è percezione di qualcosa in un dato tempo e in un dato spazio. Percepire è un fare, si tratta di un vero e proprio gesto, infatti percepire è una sequenza programmata di movimenti, atti e

azioni contraddistinta da una finalità ampia (Craighero 2010): “la percezione è un modo di agire [...]. È qualcosa che facciamo” (Noë 2004, p. 1). Movimenti, atti e azioni e percezione si costituiscono reciprocamente e sono un modo per esplorare l’ambiente. Appunto per questo, la percezione va compresa nel contesto dell’interazione continua dell’organismo col mondo e si avvale della conoscenza implicita che l’organismo possiede di come la percezione muta in funzione dello spostamento e delle aspettative su come il mondo percepito cambia in relazione al movimento (O’Regan & Noë 2001a, p. 939). La percezione consiste nella messa in pratica di conoscenze implicite e pragmatiche. Si tratta di un processo dinamico (Metzger 1941), che non coglie le singole qualità in modo istantaneo, ma lo fa in forza di uno sviluppo che si distende nel tempo, come risultato dell’interazione fra organismo e contesto. Il contesto è quindi di per sé carico di significati e le rilevazioni che avvengono in esso e su di esso assumono un valore semantico colto dall’atto percettivo. La percezione si struttura, appunto per questo, in base a ciò che l’ambiente significa. Ed è il sistema motorio, e la sua capacità percettiva e sensoriale che definisce lo spazio; è l’oggetto che consente di percepire la scansione del prima e del dopo, del vicino e lontano, del qui e del là, del sopra e del sotto, del piccolo e del grande. La percezione è di conseguenza una relazione a tre elementi: contesto, oggetto, soggetto, poiché ciò che affiora dal funzionamento generale del sistema, o dei sistemi percettivi, è che la percezione è sempre un cogliere un insieme all’interno di un processo spaziale e temporale. I fenomeni percettivi sono di conseguenza processi inferenziali, cioè forme di ragionamento a tutti gli effetti (Peirce 1903; Edelman 2006), come dimostra la tripartizione proposta da Peirce in relazione ai segni: gli indici sono infatti mediati da una connessione fisica o temporale di qualche natura fra segno e

oggetto, le icone sono mediate da una similarità fra segno e oggetto, i simboli sono mediati da una connessione formale o semplicemente convenzionale, prescindendo dalle caratteristiche fisiche del segno o dell’oggetto. Passività e semiosi si succedono in modo continuo, quindi è illusorio credere di poter rintracciare l’istante esatto in cui l’una si trasforma nell’altra. La percezione è perciò sempre un’azione che nasce dal rapporto attivo fra soggetto, oggetto e contesto e in essa risiede il cuore dell’esperienza come momento di unione fra individuale e generale (Peirce 1903). Non vi può dunque essere una separazione fra i processi cognitivi maggiormente “basici”, quali la percezione o la gestualità (Noë 2004), e i processi cognitivi “alti”, come il linguaggio. Al contrario, le aree deputate al linguaggio non possono essere indipendenti e non possono essere amodali. Infatti, aree classicamente considerate come puramente motorie e aree deputate classicamente all’elaborazione del linguaggio svolgono anche funzioni rispettivamente motorie e linguistiche (Rizzolatti & Arbib 1998; Binkofski & Buccino 2004; Pulvermüller 2005; Dove 2010; Pecher et al. 2011; Kiefer & Pulvermüller 2012; Tomasino & Rumiati 2013; Borghi & Binkofski 2014; Dove 2016; Reilly et al. 2016; Borghi et al. 2017). Sistema motorio, percezioni e parlato sembrano condividere lo stesso schema operativo. Eseguire un movimento, un atto, un’azione chiama in causa non solo processi neurali che coinvolgono neuroni motori, i motoneuroni, ma anche circuiti cerebrali preposti alla costante ricezione e processamento delle informazioni sensoriali esterne (percezioni) e interne (percezioni, sensazioni ed emozioni), la cui elaborazione da parte del Sistema Nervoso Centrale (SNC) consente di pianificare, eseguire e, in alcuni casi, correggere o inibire i singoli movimenti, atti e azioni23. Nel sistema motorio i messaggi si muovono dal SNC in direzione della periferia

dislocando energia fisica, effettori, con una modalità inversa da quella che regola l’informazione del sistema sensoriale, recettori. Gli studi sui rapporti fra aree cerebrali e linguaggio individuano in modo sempre più articolato che questo aspetto deriva dalle percezioni di oggetti e di gesti, sia che queste percezioni siano immediate sia che siano archiviate nella memoria. Pertanto, le aree della corteccia cerebrale che elaborano le informazioni sensoriali e controllano i movimenti sono anche coinvolte in diversi aspetti delle memorie linguistiche: per esempio, pronunciare parole che indicano un colore (rosso, blu, giallo) attiva quelle aree della corteccia temporale ventrale che sono riservate alla percezione dei colori, e pronunciare parole relative ai movimenti (camminare, afferrare, stringere) attiva aree situate anteriormente a quelle coinvolte nella percezione dei movimenti nonché le aree motorie della corteccia frontale, mentre il denominare o leggere dei nomi di oggetti manipolabili attiva aree corticali pre-motorie (Chao & Martin 2000; Martin & Chao 2001; Noppeney 2008). In questo processo sono rilevanti anche elementi derivati da specifici ambienti linguistici: un esperimento ha dimostrato che i bambini coreani sotto i 18 mesi sono assai più legati a gesti di movimento perché la loro lingua poggia sulla funzione verbale, mentre i bambini inglesi sono condizionati dal fatto che i soggetti delle frasi non possono essere omessi e quindi tendono a giocare per lungo tempo maggiormente in modo stanziale con oggetti (Stern 2004). Altri esperimenti hanno avvalorato la tesi dell’influenza ambientale e hanno mostrato che il linguaggio condiziona gli attributi qualitativi degli oggetti a seconda che questi abbiano una declinazione al maschile o al femminile, come ponte che è femminile in tedesco (die Brücke) e maschile in spagnolo (el puente); così come il linguaggio modella la percezione dei colori e suggestiona la relazione con lo spazio più o meno egocentrico con i suoi riferimenti geografici fissi connessi

con i punti cardinali (ibidem). Aspetti del tutto congruenti con i fenomeni sinestesici e sincinesici. Dall’insieme di questi riscontri possiamo dedurre che il linguaggio modella ed è a sua volta modellato e che separare in modo netto aspetti biologico-cognitivi da aspetti derivanti da specifiche culture non è produttivo per chi tenta di dare conto della complessità di questa disposizione umana e dell’uso che ne facciamo. Il linguaggio vocale tradizionalmente è illustrato a partire dalla fonetica e dalla fonologia. La prima si occupa dei dettagli acustici e della loro articolazione, la cui unità di base è il singolo fonema: per esempio nella lingua italiana esistono due suoni, foni, relativi al grafema, segno, “s”, uno per indicare la variante sorda (seta) l’altro per indicare quella sonora (esborso). La seconda, la fonologia, tratteggia le categorie astratte di suoni utilizzati in ogni lingua per frazionare lo spazio dei suoni stessi. A queste due discipline è necessario aggiungerne altre: la morfologia, la quale indaga i morfemi, cioè le specifiche unità di significato contenute nelle parole, e le regole di formazione delle stesse24; la grammatica che descrive le singole componenti di una lingua; la sintassi che verte sulla concatenazione strutturata delle parole e delle regole che producono una frase e rappresenta quindi l’insieme delle strutture schematiche ricorsive per mezzo delle quali le parole vengono combinate in proposizioni e le proposizioni in periodi, visto che, a partire da un numero già alto di parole, è possibile comporre un numero pressoché infinito di enunciati; la semantica che si incentra sul significato dei componenti linguistici e sull’organizzazione concettuale che ne consegue; la pragmatica che focalizza la propria attenzione sull’uso che del linguaggio ne fanno i parlanti25; la prosodia, cioè l’intonazione melodica delle singole parole o della loro sequenza o il corretto posizionamento delle accentuazioni che servono a rendere esplicito il contesto situazionale in cui si svolge un atto o

un’azione linguistica, tanto che il tono incide sulla valutazione del parlante, infatti, la voce grave del maschio lo rende più seducente e lo fa percepire come più aggressivo e il parlante lento sembra più vecchio e quello più veloce appare più sicuro di sé (Klofstad 2017). La prosodia può derivare dal canto, infatti l’intonazione differisce nello stesso enunciato. Come abbiamo visto il sistema motorio è strutturato gerarchicamente e gode sia di una morfologia, la quale indaga i singoli movimenti, cioè le specifiche unità di significato contenute nei gesti e le regole di formazione dei gesti; sia di una grammatica che descrive le singole componenti di un gesto; sia di una sintassi che soddisfa le due proprietà richieste per la presentificazione motoria finalizzata a un obiettivo, la quale è governata dalla semantica dei movimenti, degli atti e delle azioni. Le raffigurazioni della finalità possono sia essere riattivate come singola unità quando richiesto e sia avere le singole componenti riattivate in sequenza o ri-composte in modo da facilitare l’acquisizione di nuove modalità di comportamento. Dal che se ne deduce che il sistema motorio ha una proprietà cardine: la ricorsività, il che fa sì che esso si configuri con le stesse strutture con le quali si struttura il linguaggio. Tuttavia, mentre la ricorsività linguistica esprime strutture annidate, i comportamenti motori ripetitivi rappresentano – nella loro forma più semplice – strutture sequenziali. In ogni caso, è opportuno sottolineare che la ricorsività nel sistema motorio può essere trovata almeno in due livelli: nella gestione della ridondanza dei gradi di libertà a livelli subcorticali e nella progettazione e nell’uso di strumenti per costruirne altri al livello più alto della presentificazione motoria finalizzata a uno scopo (Fadiga et al. 2006). La ricorsività, specifica dei gesti e del linguaggio, è indubbiamente possibile se si attuano operazioni di secondo ordine su oggetti e gesti (Potì 1997). Imparare la ricorsività delle

possibili combinazioni di oggetti e azioni espresse da locuzioni come “il cane dorme”, “l’arancia cade” può essere l’origine del protolinguaggio che poi sarebbe confluito nella grammatica. Se ogni oggetto fosse associabile a una singola azione e ogni azione a un singolo oggetto sarebbe economico imparare l’elenco degli oggetti e l’elenco delle azioni e poi effettuare l’associazione. Invece per ogni oggetto e azione che compongono gli eventi elementari le combinazioni non sono predefinibili e quindi il linguaggio è generativo perché è ricorsivo. La ricorsività accomuna anche linguaggio e musica: le gerarchie delle relazioni sintattiche nelle due circostanze sono ricorsive, tanto che c’è una sovrapposizione fra sintassi linguistica e sintassi musicale (Maess et al. 2001); in entrambi i casi è coinvolto sia il complesso di Broca (Tillmann et al. 2003; Koelsch & Siebel 2005; Tillmann 2005) che l’area di Wernicke (Levitin & Menon 2003; Brown et al. 2006) e questo nonostante il linguaggio abbia categorie grammaticali proprie come nomi e verbi e funzioni proprie come soggetti, oggetto diretto e indiretto che la musica non ha26. Di conseguenza, il sistema motorio potrebbe essere considerato come una struttura gerarchica diretta a una finalità semanticamente individuata, capace di concatenare semplici movimenti e atti motori. Questa struttura, nonché le regole che collegano i singoli elementi motori, potrebbero essere l’anticipazione dell’organizzazione sintattica del linguaggio. Inoltre, la variabilità adattiva – che consente il raggiungimento di uno scopo a prescindere dal modo in cui la pianificazione motoria è realizzata –, la coarticolazione e la ricorsività motoria sono tutte caratteristiche che mostrano una chiara analogia con il sistema linguistico. La fabbricazione di strumenti, cioè la stessa organizzazione dell’azione, potrebbe aver fornito lo sviluppo della capacità di

ricorsività, poi mutuata dal linguaggio, sia per quanto concerne il processo che per quanto riguarda il prodotto finale. La fabbricazione di strumenti e il loro uso ampliano infatti la complessità della pianificazione d’azione e proiettano le azioni in una dimensione temporale diversa da quella presente. Ciò è particolarmente riscontrabile nel caso di strumenti fabbricati per costruirne altri, con nuove funzioni, il che costringe il cervello a rinviare l’obiettivo finale seguendo una complessa, nonché flessibile, gerarchia di sotto-programmi o di sotto-obiettivi. D’altro canto, l’ampliamento spazio-temporale dei gradi di libertà può aver offerto al cervello un primo esempio di ricorsività nel governo degli atti e delle azioni. È evidente che certe particolarità basilari del sistema motorio sono narrabili come una proto-sintassi, anche se l’aspetto critico consiste nel transito da una descrizione seriale a una gerarchica. La prima rimanda indubbiamente a un’organizzata riproduzione di momenti ordinati temporalmente, ma visto che il comportamento umano non può essere descritto da dispositivi unicamente seriali diventa cruciale la seconda, la quale offre sia la fondamentale facoltà di astrazione della finalità, sia la facoltà di programmare e prevedere le implicazioni e le risultanze di ogni singolo atto o azione. Infatti, la finalità di un atto o di un’azione può essere utilizzata per anticipare l’intera struttura ad albero a questa connessa e di conseguenza prevedere quale specifico movimento o atto subordinati all’azione stiano per essere attuati. Oltre a ciò, la configurazione gerarchica consente la presentificazione di azioni, atti e movimenti per addurre variazioni adattative apportate dalle informazioni derivanti dal contesto e dall’ambiente specifico nel quale l’essere umano è inserito quando intende conseguire una peculiare finalità. Questa dinamica è tanto più rilevante nel caso di muscoli che necessitano di un controllo motorio altamente sofisticato, come per esempio quelli delle mani o quelli che presiedono il parlare

(Oller 2000). Cerebralmente a questa sofisticazione corrisponde una raffigurazione più estesa, come avviene infatti nel complesso di Broca, che come sappiamo presiede sia il controllo del movimento della mano, che ha una struttura anatomica molto complessa – trentanove muscoli, estrinseci e intrinseci, che agiscono su diciotto giunti e che hanno ventitré gradi di libertà dal punto di vista cinematico –, sia la vocalizzazione. Il complesso di Broca consente infatti di effettuare movimenti precisi o fini, come inserire un filo dentro la cruna di un ago e il controllo dei movimenti di bocca, laringe e faringe legati al linguaggio vocale, il che permette di pronunciare elementi fonetici sofisticati come “t”, “th”, “s”, “sc”, “sch”. Inoltre, medesimi fonemi possono variare fisicamente da parola a parola per via della coarticolazione, tanto che la “d” può modificarsi nel muoversi delle labbra perché queste si predispongono in modo diverso a seconda della vocale che segue la “d” (dama o dosso); così per la “m” (mamma o mostro) o per la “c” (causa o cubo). Le lettere che precedono e quelle che seguono modificano quindi la fisionomica del parlato, frutto della capacità di riutilizzo e riorganizzativa. A partire da poche decine di elementi base di tipo fonetico, il linguaggio umano dispone di una produttività pressoché infinita grazie a un vocabolario di atti e azioni. Questa potenza espressiva risiede nella disgiunzione del primo livello combinatorio, quello dei fonemi, cioè dalla semantica. Questo fa sì che, quando si tratta di associare i segni ai significati, non si hanno più a disposizione qualche decina di suoni diversi, ma decine di migliaia di suoni articolabili diversamente. Come abbiamo visto la struttura linguistica trova nel sistema motorio la ragione principe del suo funzionamento. A sua volta il sistema motorio viene modellato dal linguaggio e con esso facciamo esperienza. Fra il sistema motorio e il linguaggio si genera una “ricorsività aggrovigliata”, come quella istanziata da

Douglas Hofstadter nel libro Gödel, Escher, Bach, basata cioè sulla seguente congettura: “Potrebbero esistere sistemi ricorsivi sufficientemente complessi da possedere la forza necessaria per sfuggire a ogni schema prefissato” (Hofstadter 1979, p. 165). Quello fra sistema motorio e linguaggio è sostanzialmente un processo enattivo, di conseguenza spiegabile in termini di plasticità cerebrale. Scrive Oliver Sacks, citando Joseph Church “Il linguaggio apre nuovi orientamenti e nuove possibilità di imparare e di agire, di dominare e trasformare le esperienze paraverbali […]. Il linguaggio non è solo una funzioni tra altre funzioni…ma una caratteristica che pervade l’intero individuo, facendone un organismo verbale del quale tutte le esperienze, le azioni e le idee sono ora alterate in funzione dell’esperienza verbalizzata, o simbolica” (Sacks 1989, p. 77). È possibile quindi pensare gli atti linguistici in analogia con la descrizione degli atti e delle azioni motorie: un’azione linguistica sarebbe un’unità basata su una finalità e composta da atti linguistici discreti, anch’essi in relazione a una finalità. L’atto linguistico può essere composto a sua volta da termini diversi, che concorrono al suo adempimento, ma non sono né sufficienti a esaurirne la descrizione, perché non ne specificano la finalità, né necessari, perché le modalità di attuazione possono variare. Il concetto chiave, come nel caso del movimento, è quello di funzione o finalità, poiché le singole parole non sono sufficienti a rendere conto degli atti linguistici, i quali si organizzano in relazione a una funzione o finalità. Quello che afferisce agli atti linguistici e alle funzioni linguistiche sarebbe dunque un possibile sistema per classificare e descrivere il linguaggio, sistema capace di tenere conto della complessità delle relazioni che i sistemi linguistici mettono in campo negli effettivi contesti dell’azione linguistica. Il fatto che nell’essere umano anche le aree del linguaggio siano attive nell’osservazione di gesti compiuti con oggetti e

azioni (Rizzolatti & Arbib 1998) fa ipotizzare inoltre che la grammatica prelinguistica degli atti e delle azioni motorie – dell’osservazione e non solo dell’esecuzione – e il sistema di accoppiamento azione-riconoscimento siano il modello processuale dello sviluppo del linguaggio. Il dato che il complesso di Broca abbia un ruolo chiave nel linguaggio e sia una zona cerebrale particolarmente ricca di neuroni specchio rappresenta il tassello che consente di sostenere che i gesti hanno sintassi simile a quella del linguaggio parlato e della lingua dei segni. Del resto, le lingue parlate e le lingue dei segni condividono i costituenti fondamentali del linguaggio umano, cioè la fonologia, la morfologia, la sintassi, la semantica. Non si può neppure tralasciare il fatto che i neuroni specchio indicano un modo in cui l’informazione sensoriale è tradotta in movimento, e suggeriscono l’esistenza di un vocabolario in cui sono rappresentati gesti distali e prossimali. L’accesso a questo vocabolario di gesti motori non è solo motorio, ma raggiungibile anche attraverso stimoli somatosensoriali, non solo visivi o uditivi ma anche tattili come gli stimoli superficiali, articolari e profondi, fra cui lo spostamento d’aria generato dalle parole. Di conseguenza una descrizione del parlato in termini di gesti articolatori offre strutture che sono in grado di cogliere proprietà sia fisiche che fonologiche, infatti la fonologia articolatoria descrive strutture motorie che consistono in una sequenza di gesti e nella esposizione di come questi sono temporalmente sincronizzati l’uno con all’altro (Browman & Goldstein 2000). Ciascun gesto è un sistema neuro-motore dinamico che incanala l’organizzazione di una sequenza di movimenti articolatori che concorrono alla composizione di una peculiare conformazione del tratto vocale. Per esempio, un gesto di chiusura labiale richiede il contributo coordinato del labbro superiore, del labbro inferiore e della mandibola, unitamente a circa quindici muscoli. Inoltre, gesti individuali intenzionali, con

la loro presenza o assenza, possono essere impiegati per identificare, od osteggiare, specifici enunciati. Di converso, i gesti inintenzionali sono associati ad atti e azioni – gesti diadici – più che a oggetti – gesti triadici – e sono iconici piuttosto che simbolici, come del resto è il gesto dello sguardo. La metafora mente-computer ha teso a ridurre la semantica alla sintassi, quest’ultima intesa come un’informazione veicolata dalla composizione delle parole, ma le parole sono composte in funzione del significato come avviene per i movimenti in funzione di atti e azioni27. Lo convalidano le prime categorizzazioni dei bambini che derivano da riflessioni semantiche e per loro la semantica prevale sulla sintassi nella comprensione di frasi nuove (Tomasello 2007)28. L’emergenza della struttura sintattica trova probabilmente la sua origine nella crescente complessità delle esigenze comunicative che è andata aumentando con forza sempre maggiore dal momento che abbiamo iniziato a utilizzare parole o a utilizzarle con maggiore frequenza (Lussana 1988). L’aumento della complessità sociale deve aver richiesto un adattamento delle forme comunicative e la sintassi consente una gamma di messaggi molto più vasta di quella fornita dalla semplice somma dei significati delle parole stesse29 e permette di fare inferenze, porre relazioni, inventare e soprattutto mentire. Il vero e il falso hanno infatti a che fare unicamente con il linguaggio, per mentire è necessario dire. 1 Pensare a “nulla” o a se stessi, essere fra le nuvole, sognare a occhi aperti, ricordare eventi passati o pianificare progetti futuri rientrano nel “mindwandering” o letteralmente la mente che vaga. Non sono una condizione del cervello a riposo ma una condizione denominata default mode network (DMN), che contraddistingue le attività mentali coinvolte nei processi di pensiero introspettivi. Se una persona è impegnata in compiti esterni il DMN non è in funzione. Anche lo stato emotivo risulta influenzato dall’attivazione del mind-wandering, il quale precede lo stato emotivo negativo. Lo stato d’animo negativo riduce la quantità di impegno attenzionale al compito e può farlo aumentando il focus su preoccupazioni personali.

2 La ricerca sull’anima si incentra su due attività – il movimento e la conoscenza – e sulle loro rispettive condizioni di possibilità. L’anima non è una ‘cosa’, ma è invece considerata da Aristotele come un processo e un’attività, come un principio interno del movimento. L’anima si articola dunque nelle capacità naturali, le quali permettono di differire e mediare l’azione materiale dell’agente esterno in favore di un’interazione complessa, centripeta e autodeterminata. 3 La distinzione fra enérgheia a e kin¯esis ricorre spesso nel corpus aristotelico. Si vedano in particolare Metafisica IX, 6, 1048b18 ss.; Ethica Nicomachea I, 8, 1098b8 ss. e Ethica Nicomachea VII, 12, 1153a7 ss. (Mulhern 1968). 4 Per Aristotele la phantasia non può essere considerata in senso stretto una facoltà, in quanto non identifica un’attività isolata e distinta dall’aisth¯esis, né è dotata di un oggetto a sé stante, diverso dai sensibili, piuttosto risulta essere l’ultimo risultato di un’alterazione somatica mediata dalla percezione, una percezione di cui si conserva l’impronta dello stimolo ormai impresso nell’organo di senso e, infatti, consente di riferirsi a oggetti sensibili dislocati nella memoria del passato, li ripresenta, il che dischiude la strada a comportamenti finalizzati più complessi (Retorica I, 11; De motu animalium 6-8). 5 Si tratta di un acido che influisce anche sulla qualità dello sperma e che oggi sappiano essere correlato, se a bassi livelli, con diverse forme di Alzheimer. 6 Nei primati, compreso l’essere umano, il lobo frontale è funzionalmente e anatomicamente abbastanza complesso il cui correlato neuronale dipende moltissimo dall’esperienza del soggetto, tanto che la maturazione cerebrale delle aree prefrontali avviene nell’essere umano intorno ai vent’anni e rappresenta circa un terzo di tutto il cervello, suggerendo che è la corteccia filogeneticamente più nuova, sede dei più alti processi cognitivi. 7 Una parte del cervello vicino alla zona ventricolare e all’ippocampo ha la capacità di generare nuovi neuroni. Tale evidenza, dimostrata per la prima volta dal ricercatore Joseph Altman, è stata una vera rivoluzione scientifica. Gli attuali studi sui meccanismi che caratterizzano tale fenomeno, detto anche neurogenesi, sono molto complessi e, anche se non sono del tutto chiari i meccanismi che lo regolano, sembra che oltre a fattori puramente genetici giochi un ruolo chiave l’interazione tra determinati stili di vita e specifiche molecole chimiche. 8 Alla teoria degli spandrel è stata offerta un’alternativa e cioè che il linguaggio sia emerso con una dinamica ascrivile al triangolo di Kanizsa (Moro 2010, pp. 277-278), cioè la percezione andrebbe sempre oltre allo stimolo dato, noi andremmo quindi più in là della mera realtà fattuale. 9 I motoneuroni convogliano l’informazione motoria che può provenire da punti diversi del SNC, i quali non sono delimitati esclusivamente

all’ambito corticale, tanto che un comando motorio non è per nulla sinonimico di una pianificazione motoria o di presentificazione del movimento, dell’atto e dell’azione. 10 Linguaggio e musica hanno un’origine e uno sviluppo filogenetico comune e la capacità ritmica ha migliorato l’andatura bipede controllandone i movimenti, ma le analisi al riguardo non sono attualmente uno dei cardini delle ricerche comparative, nonostante controllare un movimento significhi ottimizzare l’esecuzione di un’azione diretta a una finalità. 11 Significativo il dato che coordinare e sincronizzare la percezione del ritmo delle pulsazioni è di aiuto a coloro che hanno disturbi neuromotori. 12 Il complesso di Broca, l’area di Wernicke e il fascicolo arcuato sono in generale nell’emisfero sinistro, ma tuttavia è possibile trovarle, in alcuni mancini, anche nell’emisfero destro. 13 L’idea che il linguaggio verbale abbia una base gestuale è accolta da tempo anche da alcuni linguisti, come Liberman, Cooper, Shankweiler, Studdert-Kennedy, ancor prima che la teoria motoria del linguaggio fosse supportata in letteratura da numerose evidenze scientifiche (Liberman & Mattingly 1985). 14 Stimoli uditivi attivano anche la corteccia visiva primaria (Pockett et al. 2013), la quale risponde anche a stimoli tattili (Nordmark et al. 2012). 15 La localizzazione delle aree cerebrali attive durante l’osservazione di movimenti di prensione (differenti dalle aree attivate dall’osservazione di oggetti non manipolati) indica l’attivazione di due aree dell’emisfero sinistro, una localizzata nella corteccia del solco temporale superiore e una nella parte caudale del giro frontale inferiore, regione tradizionalmente demandata al linguaggio. 16 In coloro che comunicano con gesti – i non udenti – sono attive le stesse aree sopra, sotto e dietro la scissura di Silvio dell’emisfero cerebrale sinistro, dove si genera e viene compreso il linguaggio vocale. Attivi in questo tipo di comunicazione gestuale sono l’opercolo frontale e temporale, le aree frontali e prefrontali e il cervelletto, come nel linguaggio parlato. 17 È molto probabile che sistema motorio e sistema nervoso siano il risultato di una coevoluzione. Lo sviluppo del sistema nervoso è dipeso da una complessa interazione fra movimenti cellulari e segnali di induzione. 18 In un esperimento connesso al meccanismo specchio (Iacoboni 2008) sono state studiate le aree coinvolte nella comprensione dell’intenzione confrontando tre diverse condizioni: 1. contesto (i soggetti osservavano un tavolo come appariva prima e dopo la colazione); 2. atto (veniva mostrata una mano che afferrava una tazza con presa di forza o con presa di precisione, in assenza di contesto); 3. intenzione (i due tipi di presa apparivano nell’ambito del contesto “prima del tè” e “dopo il tè”, come se indicassero rispettivamente l’azione di “prendere la tazza per bere” e quella di “prendere la tazza per rimetterla a posto”).

19 L’emisfero sinistro non è specializzato per il controllo della produzione del linguaggio di per sé, ma per il controllo dei movimenti fini dei quali la produzione linguistica rappresenta solamente una componente. Infatti, le lesioni che causano afasia producono anche disturbi motori. Esiste una correlazione fra i deficit delle abilità linguistiche prodotti da una lesione e i disturbi dei movimenti orali volontari non linguistici. Le lesioni frontali causano dei disturbi nella capacità di produrre sia singoli suoni linguistici, sia singoli movimenti facciali; mentre le lesioni temporali e parietali causano disturbi nella produzione di sequenze di suoni linguistici, così come di sequenze di movimenti facciali. I soggetti con disturbi della lettura hanno anche difficoltà a effettuare un test nel quale si richiede di tamburellare con le dita (Wolff et al. 1990a; Wolff et al. 1990b). 20 Sono gli studi di Gerald Edelman che hanno messo l’accento sull’importanza del sistema motorio per l’organizzazione della consapevolezza dell’attenzione. 21 L’interazione fra i sensi è così evidente che i Dogon del Mali affermano che c’è un nesso fra odori e suoni, poiché entrambi viaggiano nell’aria e nel loro linguaggio gli odori si “ascoltano”. La sinestesia (dal greco συν – insieme – e αισθησίσ – percezione) di per sé minaccia la stessa visione di una mente modulare. L’interazione fra i sensi o i sensi specifici svolgono un ruolo primario rispetto al sistema emozionale, sia in modo consapevole che inconsapevole, come i feromoni nelle relazioni d’attrazione con i conspecifici percepiti con l’olfatto e il gusto. 22 Le caratteristiche principali in cui, secondo Aristotele, si ha una strumentalità diretta del corpo al fine proprio dell’essere umano sono tre: la stazione eretta, la proporzione tra parte superiore e parte inferiore, la morfologia della mano. La stazione eretta è direttamente strumentale al pensiero e ripete esattamente l’ordine dell’universo; anche la proporzione fra parte superiore e parte inferiore del corpo è direttamente strumentale al pensiero. 23 I muscoli che cooperano insieme per l’esecuzione di un movimento si dicono agonisti, mentre quelli che facilitano il movimento generato dagli agonisti si chiamano sinergici. Al contrario, sono antagonisti quei muscoli che contrastano il movimento (Mandolesi 2012, p. 52, nota 4). 24 L’assemblaggio dei morfemi indica il significato di una parola: ad esempio sgomitare ha un prefissso “s” e suffisso “are”, che decorano il termine da cui si parte, cioè gomito. La morfologia poi si suddivide in flessina e derivazionale. La prima fa riferimento ai cambiamenti delle singole parole che non ne modificano però il significato o la categoria sintattica di attinenza: “donna”-“donne”; la seconda esamina quando la variazione modifica sia il significato che la categoria: “scia”-“sciatore” o “scritta”-“scritturare”. 25 Questa è la classica tripartizione proposta da Charles Morris (1946). Secondo Paul Grice (1975), quando un individuo utilizza un enunciato per

comunicare qualcosa, non sta semplicemente codificando in suoni un messaggio presente nella sua testa, e che dovrà essere poi decodificato dall’ascoltatore, ma sta facendo qualcosa di più complesso: l’enunciato che viene proferito dal parlante è uno strumento che il parlante usa per manifestare l’intenzione di comunicare qualcosa; ciò che l’interlocutore dovrà quindi fare sarà riconoscere l’intenzione comunicativa e non semplicemente decodificare un messaggio. 26 La connessione fra musica e linguaggio è anche dimostrata dal dato che nei musicisti professionisti addestrati sin da piccoli le aree coinvolte nei vari aspetti dell’esecuzione musicale, compresa la capacità di leggere la musica, confinano molto strettamente con aree coinvolte nel linguaggio e queste aree si trovano nell’emisfero sinistro e ne comprendono una che si trova in prossimità del complesso di Broca (Corballis 2002) e la sintassi musicale è direttamente processata dal complesso di Broca (Maess et al. 2001). 27 Un simile ragionamento è estendibile alla grammatica: ogni unità grammaticale è dotata di significato, così come lo sono i nomi, i verbi e le relazioni grammaticali, come soggetto, oggetto, complemento (Langacker 1988). La grammatica consiste di modelli o “schemi di costruzione” che realizzano combinazioni di parole in espressioni più complesse (frasi, proposizioni), si tratta di un “collegamento diretto”, dove una struttura viene usata come base per apprenderne un’altra. 28 Bambini a cui è stato chiesto di rappresentare alcune frasi attraverso l’uso di giocattoli si appellavano più alla plausibilità semantica che alla struttura sintattica. L’esperimento mostrava comunque una differenza fra parlanti inglesi e italiani: infatti, la plausibilità semantica ha la precedenza soprattutto nelle lingue, come l’italiano, in cui l’ordine delle parole all’interno della frase è variabile. Quindi, di fronte alla frase “il cucchiaio calcia il cavallo”, i bambini italiani tendono maggiormente ad attribuire a “cavallo” la funzione di soggetto rispetto ai loro coetanei inglesi. L’apprendimento è, dunque, uno scambio dinamico con l’ambiente, e progredisce attraverso un costante esercizio di costruzione, messa in discussione e riconfigurazione dei propri schemi di conoscenza. 29 Uno dei grandi vantaggi comunicativi della sintassi è quello di rendere il messaggio meno ambiguo.

3. UNA VITA EMOTIVA, UNA VITA DI DIALOGHI Se tutte le emozioni erano modi della sostanza, in ogni passione, per quanto infima potesse apparire, doveva esserci del raziocinio. Isaac B. Singer, Keyla la rossa

3.1 In campo le emozioni Le emozioni sono il fondamento della nostra vita psichica, una sorta di incessante accompagnamento musicale della nostra mente, un inarrestabile mormorio delle più universali delle melodie; melodie che non si spengono neppure nel sonno. Le emozioni sono impresse nelle pagine della nostra vita, sono connaturate alla nostra esistenza, ci accompagnano dalla nascita all’ultimo abbraccio, quello della morte. Le emotività sono le modalità primarie con cui attribuiamo significato al nostro ambiente e alle nostre relazioni e rappresentano la precondizione per le relazioni sociali, sono una spinta all’intersoggettività e dispositivi per l’adattamento sociale (Gallese 2008a; Barone & Bacchini 2009; Lüdtke 2015; Panksepp 2015). Non percepiamo il mondo da una posizione neutrale e distaccata; ogni individuo esperisce la realtà in modo diverso, in primo luogo emotivamente, e l’esperienza soggettiva emotiva ha un’influenza fondamentale sulla comprensione di questa stessa realtà (Thompson 2007). L’esperienza soggettiva emotiva e il corpo che consente di farla sono aspetti correlati e centrali per la cognizione individuale, sociale, ambientale, tanto che, a seconda della nostra condizione emotiva – la quale ingloba i nostri

bisogni, le nostre credenze e i nostri desideri –, gli oggetti circostanti possono sembrare attrattivi, interessanti, significativi o minacciosi e detestabili. D’altro canto, ogniqualvolta ascoltiamo un ragionamento viene spontaneo l’interrogativo su quali siano le ragioni che spingono quella specifica persona a formulare con quelle modalità e con quei contenuti il ragionamento o, nel caso di un racconto, perché stia narrando quell’evento e lo stia facendo in quel modo. Identifichiamo, molto spontaneamente, che entrambe le tipologie di discorso hanno sempre come substrato un qualche elemento emotivo, una ragione di fondo e quel fondo è intriso di emotività. Riconosciamo di essere esseri umani perché ci emozioniamo, tant’è che consideriamo “disumani” gli individui che non si emozionano di fronte alla sofferenza, e sulla base delle emozioni ci rapportiamo l’un l’altro, anche e soprattutto sul piano linguistico, e non dovremmo stupirci che “le emozioni possono essere considerate come vissuti esperienziali fortemente connessi con la dimensione motivazionale della nostra esperienza” (Minestroni 2010, p. 336). Aristotele al riguardo ha una posizione molto precisa, già richiamata: l’essere umano è nous orektikós, mente che desidera, e órexis dianoetiké, desiderio che riflette. Il filosofo stagirita è il primo a utilizzare in modo filosofico il termine proàiresis (Etica Nicomachea 1112a 11-13), dove àiresis chiama in causa la simpatia per qualcosa piuttosto che per qualcos’altro. La proàiresis aristotelica è soprattutto un processo che conduce al conseguimento di un fine (Etica Eudemonia 227a 2-5, Etica Nicomachea 1113a 10-14, Etica Nicomachea 1111b 22; Chamberlain 1984), cosicché desiderio e motivazione appartengono a una medesima famiglia. Aristotele utilizza le emozioni come esempio cardine delle affezioni comuni all’anima, cioè di ciò che di specifico il corpo

può fare in potenza (De anima I.1, 403a 3-b19), e questo perché la forma e la materia non sono determinabili l’una disgiuntamente dall’altra, ma istituiscono un’unità inestricabile. Aristotele definisce i pathémata comuni all’anima-corpo in termini di inseparabilità di forma e materia, distinguendo l’inseparabilità di questi pathémata da quella propria degli enti matematici (De Anima 403b 17-19). Questa distinzione è tracciata anche in Fisica II.2, un capitolo che ha, in parte, gli stessi obiettivi di De Anima (I.1.403a 3-b19): precisare la relazione forma-materia propria degli enti naturali, distinguendo l’oggetto della fisica da quello della matematica, della fisica non aristotelica e della filosofia prima. Il principale e più forte argomento a favore dell’ipotesi che le emozioni, gli altri pathémata dell’anima-corpo e, più in generale, gli enti naturali siano unità psico-fisiche inestricabili è dato, per il filosofo stagirita, dalla differenza fra enti naturali ed enti matematici. L’anima e il corpo, pur essendo separati dal punto di vista della rispettiva definizione, formano un’unità all’interno di un pathos o di un ente naturale, l’unità corpoanima. I pathémata sono afflizioni per quel sinolo che è composto da ciò che siamo in grado di fare in specifico e dall’attività inscritta nel nostro corredo costitutivo. Nella filosofia di Aristotele non c’è un termine che corrisponda in modo puntuale al nostro ‘emozioni’, poiché, per esempio rabbia, paura, gioia, stupore, odio, disgusto sono chiamate da Aristotele pathémata e il termine pathos è da lui applicato a molte cose che non sono per noi ‘emozioni’: per esempio alla percezione, al pensiero, nonché ad alcuni tipi di proprietà. Nella Retorica dove il focus sono i pathémata emotivi (Retorica I.10.1369a 4, II.1.1378a3, 1388b 32-33) le liste dei pathémata includono elementi che non sono emozioni, come il desiderio irrazionale o la brama, l’epithymia (Etica nicomachea II.4.1105b 21-23; Moto degli animali 8.702a 2-4). Pathos è un termine collegato al verbo pasko, il cui significato

è ascrivibile ai termini ‘patire’, ‘subire’, ‘essere affetti’. Un pathos è quindi prima di tutto un patire o meglio il processo che comprende un patire oppure l’effetto terminale del patire o di un processo che implica un patire. Lo stesso Aristotele, elencando i diversi significati di pathos (Metafisica Δ 21; De anima I.1.403a38), segnala che pathos può indicare la qualità secondo cui una cosa può alterarsi, può cambiare, può mutare per volontà non propria e il processo di alterazione è tanto più rilevante quanto più è dannoso, doloroso, e i danni che produce sono particolarmente patemici se danno luogo a grandi sciagure e/o profondi dolori (De anima I.1.403a11-15 e 403b15-16; Etica nicomachea II.4.1105b 21-23, 1106 a4-5; Retorica I.2.1356a 1,14). In questa prospettiva, le emozioni sono semplicemente pathémata. Più precisamente, in quanto includono piacere e/o dolore, sono pathémata biologicamente basilari, legati al perseguire e all’evitare, e di conseguenza connessi alla stessa sopravvivenza (De anima III.7.431a 8-11). In quanto pathémata, le emozioni, insieme alla percezione, alla brama e anche al pensiero, sono innanzitutto passioni: processi passivi, o che includono una componente passiva, innescati dall’interazione con il mondo esterno, o da un phantasmata in assenza di un evento o oggetto esterno (Retorica I.10.1369 a4, II.1.1378a 3,1; 388b32-33; Etica nicomachea N II.4.1105b21-23; Moto degli animali 8.702a 2-4). Questo indica che per Aristotele l’idea cardine di emozione è quella di un effetto generato da qualcosa che da fuori agisce sull’individuo e solo successivamente implica alterazioni comuni al corpo-anima e le emozioni hanno per lui una relazione con il movimento in quanto l’arrabbiarsi è “un certo movimento di un tale corpo o parte o potenza [causato] da questo e in vista di questo” (De anima 403a26-27). Le emozioni, i pathémata dell’anima, non sono “combinazioni di anima e corpo” ma unità inestricabili di anima e corpo, sono

corpo-anima, un corpo animato, e nei pathémata è presente il mutamento – il movimento –, poiché la gelosia e l’ira sono pathémata che sono generati e derivano intrinsecamente dalla valutazione dei contesti e quindi delle relazioni. Dunque, è questa caratteristica propria delle emozioni che, a suo avviso, ci consente di operare nel mondo, di prendercene cura e di mutarlo. L’emozione è senza interruzione, è un movimento interpretativo di coinvolgimento, un’attribuzione di senso al mondo, che ci rende sempre legalmente e moralmente responsabili di ciò che sentiamo. Una tesi ampiamente argomentata nella Retorica. Nell’uso comune ‘emozione’ è un vocabolo che evoca tanto intensità quanto transitorietà e temporaneità; una sorta di “eccitazione” che si dissolve rapidamente per lasciare posto a volte a un’altra emozione (dalla gelosia alla rabbia per esempio), o a specifici e corrispondenti sentimenti, cioè alla consapevolezza prolungata dell’emozione correlata alla percezione di ciò che accade nel nostro corpo, o a stati d’animo, cioè ad alterazioni timiche prolungate nel tempo (Damasio 1999). Il termine emozione non è un genere naturale poiché anche nella letteratura scientifica la parola è utilizzata per indicare una pluralità di alterazioni umorali con gradi di complessità e durata differenti come la paura, il timore, il terrore, la rabbia, la gelosia, la vergogna, l’ansia o l’angoscia (Griffiths 1997). Gli psicologi Beverley Fehr e James Russell, correttamente, hanno sostenuto che “tutti sanno cos’è un’emozione, finché non si chiede loro di definirla. Allora sembra che nessuno più lo sappia” (Fehr & Russell 1984, p. 464) e propongono nel loro lavoro una tassonomia di 20 categorie di emozioni. Precedentemente, in un articolo del 1981, pubblicato sulla rivista Motivation and Emotion, Paul R. Kleinginna e Anne M. Kleinginna avevano preso in esame ben 92 definizioni di emozione, alle quali hanno anche aggiunto 9 descrizioni scettiche fornite da studiosi del settore, traendone la conclusione che il concetto di emozione

non può essere utilizzato a fini scientifici vista l’assenza di concordia rispetto ai requisiti definitori. Insomma, “emozione” è un termine ombrello che sovente include “troppo” e che rischia per questa ragione di non “dire” nulla. Per cercare di configurarlo può essere utile attingere all’etimologia. La disamina etimologica fa emergere infatti aspetti a cui è possibile ancorarsi. Il termine emozione viene introdotto nel vocabolario italiano a partire dal Settecento e deriva dal latino emotus, motio, -onis moto, movimento o impulso e di conseguenza “pulsione”, qualcosa che non ha intenzionalità; in francese il termine émotion deriva da émouvoir dal latino emuovere, composto dalla particella e, che rafforza la parola alla quale è unita, e dal verbo movère, ovvero agitare, muovere, commuovere, eccitare ma anche smuovere, mettere in movimento; in tedesco la parola Gemütsbewegung, implica alla lettera il “moto dell’animo” e ha origine dalla congiunzione fra Gemüt, animo, indole, natura, temperamento e Bewegung, movimento. Tutte e tre le lingue rivelano nell’etimo la vicinanza con il movimento e con il termine motivazione. Quest’ultimo deriva dal sostantivo latino motus, traducibile come moto, mutamento, nonché passione, emozione. Entrambi i termini, motivazione ed emozione, perciò, sono strettamente collegati al concetto di movimento, poi estesosi all’accezione di “agitazione dell’animo” e di “commozione”. Il dizionario Zingarelli indica due significati per motivazione: “1. Formulazione dei motivi che hanno indotto a compiere un atto o ne hanno determinato il contenuto. 2. (psicol.) Complesso dei fattori interni propri della natura o dello stato di un organismo, che determinano in parte le sue azioni nella direzione e nell’intensità, e che si differenziano dagli stimoli esterni”. Sempre lo stesso dizionario per “motivo” indica ciò “che muove o è atto a muovere”. La motivazione è quindi una spinta, un processo, che attiva

un movimento finalizzato a un obiettivo, entro un contesto ambientale. Il meccanismo motivazionale si esplica nel continuo interagire del sistema motorio con l’intero organismo del vivente, tanto che la motivazione è di per sé una categoria riconducibile alla funzione. È grazie al fatto che qualcosa diventa rilevante per i soggetti che questi assegnano ad alcune caratteristiche all’ambiente circostante un significato ed è qui che prendono vita le motivazioni, poiché l’ambiente non è il semplice prodotto delle azioni dei soggetti, ma esso stesso fornisce un senso e una rilevanza alla loro condotta e alla loro attività. Alexander Pfänder nel testo Motivi e motivazioni (1911) tratta la tematica in relazione all’atto del volere, cioè alle decisioni e alle scelte, in quanto processi della vita della persona e costitutivi della volontà. Quest’ultima fondante, con il suo corollario decisionale, dell’essenza dell’essere umano. Pfänder qualifica come “orecchio interiore” la disposizione del soggetto a indirizzare l’attenzione verso qualcosa o qualcuno. Edith Stein riprenderà i termini motivi e motivazioni, ma in un’accezione husserliana, sviluppando la tesi della motivazione come orientamento all’azione e lo fa perché quella di Pfänder è una visione statica e qualitativa della motivazione, mentre quella di Stein si rivela invece una visione dinamica che coniuga il mondo interno – pathos dell’animo – e il mondo esterno – percezioni – del soggetto, cosicché nella sfera dei vissuti intenzionali è sempre compresa sia la motivazione implicita che quella esplicita. Stein fornisce per questa via una spiegazione del perché dell’agire, un perché dinamico che connette azioni ad azioni, in cui la motivazione svolge il compito sia di orientarle, sia di connetterle fra loro (Stein 1922, pp. 72-3). Margareth Gilbert (1990) per descrivere la caratteristica fondante della motivazione comune mette in campo una delle

attività ordinarie, la passeggiata insieme, ma la dinamica è trasferibile per analogia al dialogare – al parlare fra sé e sé e al colloquiare –. Per Gilbert due persone che fanno una camminata insieme fondano un corpo unico – come durante una conversazione – in cui vi è un sapere comune di obiettivi, obblighi e autorizzazioni. Anche Lincoln Ryave e James Schenkein (1974) hanno suggerito alcune valutazioni circa il fenomeno del “passeggiare”, inteso come doing walking. Ne è emerso che il doing walking è contraddistinto essenzialmente da un difficoltà navigazionale derivata dal contesto: i pedoni evitano la collisione, e ciò grazie alla loro abilità di distinguere fra chi “va a spasso da solo” e chi “passeggia insieme”. Come si evita la collisione camminando così si evita il conflitto nel dialogare e questa è un’abilità nel comprendere chi sta davvero dialogando o parla per parlare a se stesso. In entrambi i casi si tratta dello svolgimento di attività congiunte all’osservazione e al riconoscimento delle attività altrui: chi “va a spasso da solo” sa che se incontra una coppia che “passeggia insieme” deve aggirare l’ostacolo per evitare una collisione e che chi “passeggia insieme” si aspetta che chi “va a spasso da solo” si sposti. Anche Hanne De Jaegher e Ezequiel Di Paolo utilizzano nei loro scritti l’esempio della camminata (2007): quando due persone si vengono incontro, camminando in direzione opposta in uno stretto corridoio, devono decidere a un certo punto se spostarsi a destra o a sinistra per continuare il proprio cammino. Potrebbe tuttavia succedere che le due persone si muovano simmetricamente, ritrovandosi quindi di nuovo una di fronte all’altra. A questo punto, a causa dello spazio limitato del corridoio, è probabile che i due si muovano ancora in modo speculare, bloccandosi ancora una volta la strada. L’obiettivo iniziale dei due individui è di passarsi accanto e di continuare sulla propria strada, ma possono tuttavia emergere involontariamente delle dinamiche di coordinazione che

prolungano l’interazione. Tale processo d’interazione prende quindi vita propria, superando le intenzioni dei singoli individui. Durante questo momento d’incontro, può addirittura accadere che gli obiettivi dei singoli cambino e che decidano di continuare l’interazione (per esempio, iniziando una conversazione), dal che si producono nuovi significati e nuove motivazioni. Una dinamica simile avviene nei dialoghi. Potremmo dire che l’essere umano parla perché cammina, parla perché percorre il mondo, parla perché emigra e parla come cammina. Per motivazione si intende quindi uno stato interno che attiva, dirige verso un fine e mantiene nel tempo il comportamento di un individuo per raggiungerlo, sostanzialmente la proàiresis aristotelica: un moto verso un’azione. La motivazione fornisce all’organismo una ragione per agire o re-agire, è una spinta motoria, una sorta di driver per l’organismo. In linea generale si tratta di un motivo, una ragione, un lógos, un significato per vivere, che appare all’individuo medesimo che agisce, oppure all’osservatore, come il fondamento di un atteggiamento o di un comportamento. La motivazione conduce a un agire, assunto nel significato di un orientamento del proprio comportamento che sia intelligibile in base alla finalità. Il meccanismo motivazionale si esplica come un continuo interagire del biofisiologico con l’ambientale e la motivazione svolge fondamentalmente due uffici: innescare e indirizzare condotte specifiche. Nel primo caso si tratta della costituente energetica – enérgheia –, mentre per quanto concerne l’indirizzo – dynamis – il nesso è con la costituente direzionale di orientamento. Motivazione è comunque un concetto molto ampio che viene suddiviso in tre filoni principali: l’orientamento motivazionale, la motivazione estrinseca o motivo – che non sempre è pienamente consapevole al soggetto – e la motivazione

intrinseca, quella che il soggetto dichiara verbalmente (Pfänder 1911). La correlazione fra emozione e motivazione è indubbiamente evidenziata dal fatto di avere in comune aspetti etimologici – il linguaggio nonostante si presti a forti ambiguità sovente è rivelatore –, ma questa correlazione diventa dirimente visto che è corroborata dal fatto che entrambe sono, in gran parte, regolate dalle medesime strutture celebrali o da strutture cerebrali contigue. Inoltre, i sistemi cerebrali coinvolti nei processi emotivi e motivazionali sono notevolmente sviluppati sia per quanto riguarda le dimensioni sia per la quantità delle interconnessioni. La motivazione permette di indagare il perché certi comportamenti vengono attivati in direzione di una finalità, lo studio delle emozioni indaga invece il come un organismo reagisce ai mutamenti provocati dal proprio o altrui comportamento a seconda del raggiungimento o meno delle finalità1. Inoltre, le motivazioni differiscono dalle emozioni in quanto le prime sorgono come risposta a stimoli, soprattutto esterni e riguardano il presente e il futuro, mentre le seconde sono invece generate da uno stimolo esterno, o da un ricordo interno, o da una fantasia sul futuro e sono sollecitate dalla variazione di un parametro omeostatico fondamentale. Entrambe hanno in comune una componente motoria e il fatto di essere o generare movimenti, atti, azioni e re-azioni. Le emozioni hanno un oggetto motivazionale e un contenuto motivazionale2: il movimento, l’atto o l’azione non-oggettivante sono composti da un movimento, da un atto o da un’azione oggettivante, quindi da una materia e da una qualità che possiamo chiamare dossica, sulla quale si innesta una nuova qualità di movimenti, atti o azioni, specificamente timiche, che vertono sulla materia del vissuto. Nella gioia si manifesta, contemporaneamente, un piacere sensibile riferito a essa;

analogamente, nella tristezza si dà contemporaneamente una sensazione di dolore e così via. Le emozioni sono motivazionali a pieno titolo, e quindi posseggono una motivazione specifica, cioè una direzione oggettuale peculiare, e conseguentemente un’oggettualità propria, riducibile a quella manifestata negli atti e nelle azioni oggettivanti fondanti. Antonio Damasio considera le emozioni come dei meccanismi omeodinamici che operano a livello corporeo, i cui effetti a livello consapevole sono i sentimenti:

1. Un’emozione propriamente detta […] è un insieme complesso di risposte chimiche e neurali che costituiscono una configurazione caratteristica. 2. Le risposte sono automaticamente prodotte da un cervello normale quando esso rileva uno stimolo emozionalmente adeguato, ossia l’oggetto o l’evento la cui presenza, reale o evocata dalla mente, scatena l’emozione. 3. Il cervello è predisposto dall’evoluzione a rispondere a determinati stimoli, emozionalmente adeguati, con specifici repertori di azioni. L’elenco di tali stimoli non è però limitato a quelli prescritti dall’evoluzione, ma ne comprende molti altri, appresi nell’arco di una intera vita di esperienze. 4. Il risultato immediato di tali risposte è una temporanea modificazione nello stato del corpo, come pure delle strutture cerebrali che formano le mappe corporee e costituiscono la base del pensiero. 5. Il risultato ultimo delle risposte, direttamente o indirettamente, è la collocazione dell’organismo in un contesto adatto alla sopravvivenza e al benessere (Damasio 1999, p. 71). Per Damasio “le emozioni sono azioni o movimenti relativamente pubblici, visibili ad altri – quando accadono – giacché si manifestano nel volto, nella voce o in comportamenti

specifici” (Damasio 1996, p. 50). Prima di lui anche Bertrand Russell (1959) aveva considerato le emozioni – insieme a passioni e desideri – generatrici di possibili azioni, anche riflessive come il decidere3. Le emozioni sembrano essere un “qualcosa” volto a un fine, cioè un “qualcosa” che ha un carattere teleologico che si manifesta all’interno di una dinamica intersoggettiva e interoggettiva (Dewey 1894; Dewey 1895; Dewey 1896; Mead 1934; Mead 2001). L’emozione è una chiara manifestazione di esterocezione e nessuno di noi può impedire il sopravvenire di un’emozione anche quando ne andiamo alla ricerca – scegliere di vedere un film horror o leggere una barzelletta –. Le emozioni sono “cose che ci capitano” e che non possono venire generate “a comando”. Le emozioni non sono mosse da alcuna intenzionalità pur essendo una componente essenziale dell’identità di un individuo. I neurofisiologi concordano circa il fatto che le emozioni sono stati che regolamentano il cervello e che si generano all’interno del corpo e sembrano in primo luogo svolgere il compito di unificare gli stimoli esterni e interni del soggetto, in modo da definire la coerenza intrinseca della percezione di sé e della adeguatezza al contesto, così come il soggetto lo interpreta, insomma le emozioni fornirebbero una serie di informazioni, avrebbero una loro razionalità e condizionerebbero i comportamenti. In questa ottica sono i nostri comportamenti che possono rivelarci una risposta emotiva non adeguata al contesto. Gli stimoli esterni che possono generare emozioni sono molteplici e la loro dinamica è complessa. Per esempio, nel caso della percezione degli odori, e quindi anche dei sapori4, la corteccia olfattiva dà vita a percorsi multipli che connettono direttamente le cosiddette regioni limbiche del cervello, filogeneticamente antiche e coinvolte nella mediazione sia delle

emozioni che dei ricordi. Fra queste, come è noto, le strutture più importanti sono l’ippocampo, un nodo di coordinamento centrale per singoli ricordi episodici, e l’amigdala, che insieme alla corteccia orbitofrontale è coinvolta nell’apprendimento del rafforzamento associativo degli stimoli. Inoltre, il sistema celebrale del sapore, strettamente connesso a quello olfattivo, coinvolge, oltre alle cinque modalità sensoriali, anche i sistemi motori e le strutture preposte all’affettività e alla memoria. Le regioni limbiche del cervello, infatti, sono connesse alla corteccia orbitofrontale, che raccoglie i dati provenienti dalle varie aree celebrali permettendoci così di assaporare i ricordi e le emozioni associati a un cibo (Shepard 2012). Proprio il legame con strutture celebrali quali l’amigdala e l’ippocampo fa sì che la percezione dei sapori sia sempre pervasa di affettività e quindi difficilmente comparabile e difficilmente dimenticabile. Questo esempio ci rivela che siamo dotati di un cervello emotivo che ci consente di rivivere momenti passati, così come farebbe una macchina del tempo. La vita quotidiana è quindi disseminata di “madeleines”5 capaci di farci per esempio ricordare un’esperienza o una persona della nostra infanzia e il ricordo ci emoziona. Charles Darwin aveva osservato che le emozioni hanno due funzioni per tutti gli animali: aumentano le probabilità di sopravvivenza individuale attraverso reazioni appropriate a situazioni di emergenza che si verificano nell’ambiente (mediante la fuga, per esempio) e agiscono come segnali attraverso comportamenti di esibizione di vario tipo (Darwin 1872; Enquist 1985). La sua idea è sostanzialmente che le emozioni si possano concepire come schemi adattativi di base, identificabili a tutti i livelli filogenetici, i quali affrontano problemi essenziali di sopravvivenza. Le emozioni sarebbero quegli adattamenti comportamentali evolutivi ultraconservativi che hanno avuto successo nell’accrescere le probabilità di sopravvivenza degli organismi e si sarebbero conseguentemente

conservate in forme funzionalmente equivalenti attraverso tutti i livelli filogenetici (Plutchik 1962; Plutchik 1970; Plutchik 1980a; Plutchik 1980b). Darwin notò sia che alcune espressioni emozionali compaiono in forma simile in molti animali (per esempio l’aumento apparente di dimensioni durante la collera o le interazioni agonistiche, dovuto all’erezione dei peli o delle penne, ai cambiamenti di postura o al rigonfiamento di sacche d’aria), sia che compaiono nei lattanti nella stessa forma che negli adulti (sorridere e aggrottare le ciglia, per esempio), sia che si mostrano in forme identiche nei bambini nati ciechi e in quelli con vista normale (fare il broncio e ridere), sia che compaiono in forma simile in gruppi umani ampiamente diversificati (Darwin 1872; Ekman & Friesen 1971; EiblEibesfeldt 1972). È assai probabile che si provi un’emozione quando un evento provoca, o è probabile che provochi, il raggiungimento o la compromissione di un obiettivo significativo per la sopravvivenza o rispetto alle proprie credenze e desideri. L’intensità dell’emozione è tanto più vigorosa quanto più l’obiettivo ha un alto valore adattivo e la pluralità di obiettivi consente di avere pluralità ontologiche contestuali. In questo senso le emozioni non solo sono dei precursori, ma anche dei potenti fattori, della comunicazione umana, infatti ci sono le emozioni alla base dei gesti comunicativi sia non vocali che vocali (Primo 2012). In questa ottica sarebbero il risultato del processo evolutivo avente una finalità soprattutto adattativa perché stabiliscono un valore aggiunto alla sopravvivenza, e si attivano in situazioni in cui si rende necessaria una risposta a stimoli esterni o interni, anche se si tratta di ricordi o di fantasie. La paura, la rabbia o il disgusto per esempio ci procurano risposte riflesse e inintenzionali rispetto a situazioni potenzialmente pericolose per la sopravvivenza, e tali riscontri sono adattivi unicamente se si realizzano velocemente.

Si tratta di stati interni che inducono ad atti o azioni, o meglio sono tendenze verso atti e azioni o stati preparatori ad atti o azioni, e questo fa sì che il movimento o i movimenti interni che hanno il loro corrispettivo nelle manifestazioni esterocettive facciano parte dell’emozione stessa (Panksepp 2005, p. 65; Caruana et al. 2011; Caruana & Gallese 2011; Caruana & Gallese 2012; Jezzini et al. 2012; Jezzini et al. 2015; Gallese & Caruana 2016). Per svelare l’essenza o i tratti necessari delle emozioni bisogna del resto analizzarne le finalità, ossia ciò a cui ciascuna emozione tende (Kenny 1963). Emozioni e movimenti sono essenzialmente un Giano bifronte. Le emozioni sono movimenti, poiché sono privi di intenzionalità, che inducono atti e azioni e generano re-azioni, sono disposizioni all’agire (Kandel 2012, p. 323). L’emozione è un movimento in sé che prepara ad atti o ad azioni in sé ed è un movimento di comprensione, cioè mentre si re-agisce si comprende o visto che si comprende si re-agisce. Per esempio, la paura attiva la fuga, la rabbia l’aggressione. Il comportamento emotivo dell’emittente e del ricevente coevolvono reciprocamente e l’espressione emotiva di un individuo costituisce un’affordance, una possibilità d’azione, in grado di evocare risposte negli altri: per esempio l’emozione della rabbia è in grado di generare paura o la manifestazione dello stress genera preoccupazione e induce atteggiamenti di supporto (Dimberg & Öhman 1996). Nelle relazioni intersoggettive, sociali e collettive/cooperative/collaborative le emozioni sono di forte ausilio agli individui che si riconoscono in obiettivi comuni e in quelli sovradeterminati dal gruppo, definendo meglio appartenenza e identificazione. Inoltre, le emozioni aiutano o costringono a negoziare i ruoli all’interno del gruppo sociale e svolgono un compito fondamentale nell’identità culturale, come stabilire comportamenti manifesti conformisti, le cui emozioni

corrispondenti possono per esempio essere la vergogna o l’imbarazzo. La spiegazione del perché dell’esistenza delle emozioni, della loro effettiva funzionalità e urgenza, è riconducibile a poche ragioni: comunicare gli stati interni a se stessi e in subordine ad altri; promuovere risposte adeguate alle situazioni di emergenza; promuovere la competenza esplorativa dell’ambiente; radicare l’apprendimento nella stessa dinamica vitale (Pfänder 1911); monitorare il perseguimento di obiettivi la cui assiologia determina, come si è detto, l’intensità dell’emozione. Misurano il grado di coinvolgimento in una data situazione (engagement), consentono di cogliere il significato, e dunque di utilizzare, degli oggetti (enactment) e indubbiamente permettono di comprendere gli stati motivazionali che sottendono le azioni altrui (attunement). Sono movimenti che motivano e potenzialmente generano movimenti, atti e azioni (Plutchik 1980a; Sheet-Johnstone 1999) di natura intersoggettiva e interoggettiva, pertanto, sono strategiche proprio negli ambienti vissuti da conspecifici (Mead 1934), anche grazie al fatto che sono un dialogo dinamico e coordinato di risposte tendenti all’azione (Frijda 1986; Frijda & Zammuner 1992; Frijda & Parrott 2011), in forza del fatto che sono una forma di comunicazione prelinguistica (Mead 1934). Le emozioni sono parte integrante sia della percezione che dell’azione; implicano attività pre-motorie corrispondenti alla preparazione di azioni e sorreggono la dinamica dell’azione motoria. Inoltre, ogni specifico episodio emozionale prende forma non da programmi controllati dal singolo individuo, pianificati in modo meccanico, ma da una configurazione data dalle dinamiche ambientali, sociali e culturali. Cosicché le emozioni sono sì incanalate da una storia filogenetica e da uno sviluppo ontogenetico, ma le influenze che derivano dallo specifico ambiente, che ne determina le motivazioni, le rimodella

nelle manifestazioni e nella configurazione specifica, in un processo dato dall’interazione fra fattori cerebrali, corporei e ambientali. Sia il contesto in cui un’emozione viene indotta sia l’intensità dell’emozione stessa sono fattori importanti ai fini del suo potenziale valore in un’occasione specifica (Panksepp 1998, pp. 18-22). Anche il fenomeno della consapevolezza è basato sull’emozione e sulla motivazione. Come gli altri sistemi operativo-emozionali (ibidem). Le emozioni contengono aspetti che si possono collocare a livelli diversi: viscerale, il che implica modificazioni del milieu interno, reazioni simpatiche e parasimpatiche; pragmatico, il che comporta espressioni del viso o posture del corpo; riflessivo, la qual cosa racchiude raffigurazioni. La presenza di un’emozione si accompagna a esperienze soggettive registrate da cambiamenti fisiologici che si sostanziano nelle risposte periferiche regolate dal sistema nervoso autonomo, da reazioni ormonali ed elettrocorticali; e da comportamenti espressivi come le espressioni del volto, la postura e i movimenti del corpo, le emissioni vocali. Alcune modifiche fisiologiche che si verificano durante la fase di eccitazione delle emozioni possono essere misurate – per esempio è possibile registrare le variazioni della pressione arteriosa o del ritmo respiratorio o del ritmo cardiaco – e costituiscono un indice di queste, inoltre è possibile correlarle con gli effetti di alcuni stimoli emotivi. Ogni emozione ha un contenuto emotivo, ha un archetipo (type), come la paura di essere aggrediti, di cadere o di ammalarsi, infatti si prova paura per qualcosa; e un esemplare (token), come la paura di cadere dalla scala, di essere aggrediti dal proprio partner o di ammalarsi di cancro, cioè si prova quella specifica paura. Si comprende l’emozione altrui perché se ne comprende l’archetipo, si riproduce nel proprio corpo, nel proprio sistema motorio, l’archetipo e con il proprio corpo si trasforma

l’archetipo in esemplare, e questo perché il nostro sistema motorio rispecchia il sistema motorio altrui, cioè comprende il perché di quella specifica emozione. Pertanto, le emozioni non si sottraggono alla visione dinamica dei movimenti perché sono esse stesse movimenti, sono un modo di agire del corpo, sono segni che di volta in volta mutano ma che nello stesso tempo si presentano come identici. 3.2 Il terreno delle emozioni Anche nel caso delle emozioni sono coinvolti i neuroni specchio. Il sistema motorio riproduce inconsapevolmente i movimenti, gli atti e le azioni del sistema motorio di un altro/a, il che ci consente di comprendere le “condizioni” dell’altro/a e così imitiamo anche le emozioni e abbiamo la possibilità di comprenderle per via motoria. Visto che il sistema specchio attiva e garantisce la riproduzione e la copiatura dei movimenti, degli atti e delle azioni e comprende, in primo luogo, le finalità di movimenti, atti e azioni e visto che il sistema specchio si attiva alle manifestazioni emotive questo significa che le emozioni rientrano nella categoria dei movimenti che hanno finalità e noi quando le comprendiamo siamo nella condizione di comprendere la finalità, il perché, delle loro specifiche manifestazioni. Inoltre, i neuroni specchio sono attivati dall’immaginazione proiettiva di eventi che possono generare emozioni, come immaginare di perdere il lavoro o del denaro o una persona cara, o di fare un viaggio in un luogo a lungo desiderato; ma sono anche attivati quando si ricordano volontariamente, o sopraggiungono inaspettatamente alla memoria, quegli stessi eventi nel caso siano avvenuti nel passato e quindi consentono di rivivere nel proprio sistema motorio le emozioni vissute precedentemente. Questo aspetto è rilevante in quanto Eric Kandel (2006) ha dimostrato che la memoria è fortemente regolata dalle emozioni e che i ricordi non sono immagazzinati

nell’encefalo ma nell’intero organismo psicomotorio, dal che si deduce che alle emozioni spetta un compito evoluzionistico fondamentale, quello di selezionare i ricordi e di aiutarci a decidere che cosa occorre ricordare e cosa invece è opportuno dimenticare. Kandel mostra che non solo il ricordo in sé ma anche la prestazione della memoria è influenzata dalle emozioni, dagli stati affettivi e dagli stati d’animo e questo perché la nostra memoria non è un semplice archivio di esperienze ma piuttosto un’articolata rete di connessioni fra oggetti, azioni ed eventi. La riproduzione di quello che si percepisce come stato emotivo proprio o altrui si inscrive inesorabilmente nel nostro patrimonio mnestico. Infine, sappiamo che nel caso in cui il movimento, l’atto o l’azione motoria facciano già parte delle competenze motorie del soggetto che percepisce, come aver già esperito il disgusto, avviene un’attivazione dei neuroni specchio ancora più marcata di quella che avviene le prime volte in cui si percepisce una specifica emozione. Questo perché ciò che è percepito risulta essere familiare e quindi saldamente inscritto nel patrimonio motorio del percipiente, tanto che i neuroni specchio si attivano anche in relazione a gesti intransitivi di qualunque tipo o per gesti mimati o per gesti comunicativi orofacciali, e si attivano particolarmente in relazione al volto che è l’area del corpo più espressiva per quanto concerne gli stati emotivi. In quest’ultimo caso si attivano i neuroni specchio situati nella corteccia premotoria, che, consentendo di comprendere le espressioni del volto di un soggetto, e quindi di interpretarne le emozioni, fanno sì che possiamo “riviverle” e imitarle. Quando percepiamo che qualcuno manifesta un’emozione la riproduciamo dentro di noi e quindi “la proviamo”. Più scientificamente si è dimostrato che l’osservazione delle espressioni facciali attiva le stesse strutture cerebrali – corteccia premotoria ventrale, insula e amigdala – sottostanti la produzione attiva delle medesime espressioni

facciali (Wicker et al. 2003; Carr et al. 2003). I neuroni specchio hanno assunto questa denominazione proprio perché presidiano, come si è descritto, il processo imitativo. Quando si parla di imitazione appare abbastanza intuitivo pensare allo svolgimento di compiti come salire su una scala o aprire un cassetto o impugnare i bastoncini cinesi per mangiare, o a processi che regolano atti e azioni complesse come danzare o tuffarsi; ma non è immediato ritenere che la gamma delle emozioni che proviamo e la loro intensità siano anche il risultato di un processo imitativo, di un rispecchiamento con altri, e che esperiamo più intensamente certe emozioni piuttosto che altre perché abbiamo copiato quelle percepite come provate con maggiore reiterazione dalle persone che abbiamo frequentato più assiduamente e da quelle con le quali abbiamo avuto o abbiamo più intensi legami affettivi, insomma che la nostra acquisizione identificativa e conoscitiva delle emozioni derivi dall’ambiente sociale e culturale nel quale siamo immessi. I bambini mostrano sin dalla nascita delle motivazioni e degli scopi strutturati e coerenti per interagire con gli altri soggetti e con gli oggetti, in primo luogo sul piano emozionale e affettivo (Meltzoff 2002; Bråten 2004), tanto che il sorriso e il pianto sono forme utili per descrivere le condizioni in cui le proprietà dell’ambiente – richieste e aspettative – sono adatte alle caratteristiche degli individui. E a seconda di come il caregiver risponde alla manifestazione del sorriso o del pianto la dimensione emozionale subisce un’intensificazione o un indebolimento. Una dinamica che perdura per l’intera esistenza. Il risultato più interessante degli studi sull’osservazione di stati emotivi è che quando proviamo un’emozione, per esempio di disgusto, e quando osserviamo l’espressione disgustata di un altro/a, c’è una sovrapposizione delle aree attivate nelle due condizioni (Wicker et al. 2003) e sul piano motorio contraiamo i muscoli facciali e del diaframma. La stessa cosa accade se per

esempio proviamo dolore o sappiamo che un altro/a sta provando lo stesso dolore (Singer et al. 2004). Anche in questo caso si attivano aree corticali simili. In genere queste aree comprendono la corteccia del cingolo, che è sempre stata inclusa nei circuiti emozionali, e la corteccia dell’insula (Damasio 1999, p. 132), già ritenuta importante in relazione agli stati affettivi. In aggiunta si sa che l’insula può controllare numerose reazioni visceromotorie, quali l’accelerazione cardiaca, il ritmo pressorio, le dinamiche dell’apparato gastroenterico. Per comprendere ciò che provano emotivamente gli altri attiviamo le stesse aree cerebrali che si attivano quando siamo noi a provare quelle stesse emozioni; anche in questo caso la presentificazione su cui mappiamo il comportamento altrui è motoria, o meglio visceromotoria, quindi, la conoscenza di tipo motorio viene utilizzata per interpretare le emozioni altrui. In sintesi, le emozioni e il comportamento motorio sono indissolubilmente legati, sono il Giano bifronte di cui si è parlato in precedenza. Inoltre, ci sono più percorsi neurali dalle aree cerebrali sede delle emozioni verso le aree che hanno a che fare con l’imprinting, la rievocazione, la riflessione e il comportamento (Barrett 2017), e il ruolo dell’intero corpo nel creare esperienze emotive è ben documentato (Pert 1997; Damasio 2003; Barrett 2017). Tuttavia, è solo di recente che il coinvolgimento del corpo nelle emozioni è stato utilizzato per stabilire la connessione fra imprinting, rievocazione, riflessione e corpo. Per esempio, negli esperimenti in cui, in un modo o nell’altro, sono stati disabilitati i muscoli facciali, che sono noti per svolgere un ruolo importante nelle emozioni, processi come l’imprinting e la rievocazione delle emozioni e dei loro contesti, sono significativamente compromessi (Niedenthal 2007). Esiste, per di più, una intrinseca relazione fra emozione, dinamiche cognitive e corpo tanto che se il corpo è compromesso

in modo da diminuire il suo ruolo nelle emozioni, la cognizione ne risente (Niedenthal et al. 2012; Niedenthal & Brauer 2012; Korb et al. 2014; Carr et al. 2014; Rychlowska et al. 2014a; Rychlowska et al. 2014b). Le emozioni, contrariamente alla saggezza convenzionale e a molta filosofia, che reputano che le emozioni siano irrazionali e che interferiscano con la razionalità dei processi “superiori”, pare invece che migliorino l’appropriatezza del comportamento di una persona, migliorando la creazione di alternative comportamentali e indicando la scelta della migliore linea d’azione in ogni situazione (Damasio 1999). È Antonio Damasio che ha tratteggiato una vera e propria fisiologia dell’emozione, individuando i diversi stadi che caratterizzano i fenomeni emozionali. Il processo emotivo a suo avviso inizia con lo stadio della presentazione, quando, cioè, lo stimolo è recepito dai siti di elaborazione sensoriale. Dalle aree sensoriali, i segnali neurali si trasferirebbero a specifici siti di induzione delle emozioni, quali l’amigdala, la corteccia prefrontale ventromediale e il cingolo (Damasio 1999b, p. 78). In seguito, si attiverebbero i siti di esecuzione nell’ipotalamo, nel prosencefalo basale e in alcuni nuclei del tegmento mesencefalico, che stimolando il rilascio di una serie di sostanze chimiche nel sangue produrrebbero l’invio di segnali neurali responsabili del cambiamento temporaneo della configurazione corporea. Il processo si concluderebbe con quell’insieme di posture del corpo, espressioni facciali, vocalizzazioni che rendono manifeste le emozioni. Quando proviamo disgusto, per esempio, contraiamo i muscoli facciali e del diaframma e questi stati corporei sono, senza interposizione, registrati dal cervello, il quale ridefinisce la sua mappa neurale, la sua topografia, al fine di monitorare e regolare il corpo. Per Antonio Damasio, Gerald Edelman, Joseph LeDoux e Jaak Panksepp le emozioni sono un cambiamento fisiologico registrato dal sistema motorio e ciascuna di esse è individuata in

un set specifico e coerente di risposte esperienziali, espressive e comportamentali. Una posizione compatibile con la tesi di Alan Sroufe (1996), secondo il quale le emozioni esistono sin dalla nascita sottoforma di precursori, cioè di manifestazioni in potenza. L’intensità, la predisposizione a certe emozioni e la loro manifestazione sarebbero indotte dai geni ma muterebbero lungo tutto l’arco della vita in base all’esperienza e alle modificazioni fisiologiche, come nel caso del pruning sinaptico della sostanza grigia e bianca che svolge un compito fondamentale nell’adolescenza, periodo nel quale si è in presenza di una forte attivazione delle componenti emozionali. Le dinamiche emotive sono state ben descritte dapprima da William James e da Carl Lange, tanto che è consuetudine parlare di James-Lange theory of emotion, e poi da Nico Frjida e Richard Lazarus. James focalizza l’attenzione sulle manifestazioni fisiche delle emozioni, mentre Lange6 considera l’emozione la manifestazione di un cambiamento psicologico, Frijda si concentra invece sul significato e sul valore che l’individuo attribuisce alle circostanze ambientali-esperienziali che generano la risposta emotiva, Lazarus introduce il concetto di coping, inteso sia come risposta urgente che non comporta consapevolezza, sia come reazione riflessiva-valutativa dei propri e altrui comportamenti e delle relative conseguenze. Frjida e Lazarus sono sostenitori di una teoria intellettivo-riflessiva nella quale la componente culturale e sociale assume un ruolo cardine. È James che con la sua teoria ha ribaltato l’idea del senso comune che considera i cambiamenti fisiologici dell’attivazione emozionale come una conseguenza, o al massimo una concomitanza, del vissuto emotivo. “La mia tesi”, scrive James, “è che i cambiamenti corporei seguono direttamente la percezione del fatto eccitatorio, e che il sentimento dei cambiamenti stessi al loro manifestarsi è l’emozione” (James 1884, p. 191). James

sostiene che l’atto motorio o l’azione motoria precedono la percezione consapevole: “noi ci sentiamo tristi perché piangiamo, arrabbiati perché aggrediamo, pieni di paura perché tremiamo, e non piangiamo, aggrediamo o tremiamo perché siamo tristi, arrabbiati o impauriti” (ivi, p.190). James inverte la sequenza causale del senso comune, affermando che le reazioni fisiche precedono sempre le emozioni perché “senza gli stati corporali che seguono la percezione, questa sarebbe puramente cognitiva nella forma, pallida, incolore, priva di calore emotivo” (ibidem). A suo avviso le risposte fisiologiche che accompagnano gli stati emotivi non sono dissimili, poiché sono regolate da un medesimo meccanismo, ovvero dal sistema nervoso simpatico7. All’inizio del Novecento, la James-Lange theory of emotion è sottoposta a duri attacchi da parte di molti fisiologi, il più severo dei quali è Walter Cannon, il quale pur formulando obiezioni che verranno confutate, molti anni dopo, dalle ricerche di Damasio ed Edelman, sviluppa tesi che avvieranno la ricerca sulla biologia delle emozioni, intesa principalmente come indagine volta a localizzare le strutture anatomo-funzionali, soprattutto cerebrali, implicate in questi fenomeni. Cannon sviluppa la tesi che la risposta emotiva sia interna al corpo stesso. Si tratta, in entrambi i casi e ciascuno con le loro ipotesi, di contributi sostanziali alla nascita della scienza cognitiva, che negli anni Cinquanta fa propri alcuni assunti del razionalismo classico concentrando la riflessione, in primo luogo, sui processi alti di pensiero, linguaggio e ragionamento perché l’assunto era che le capacità intellettuali fossero del tutto indipendenti dalle emozioni. Forte della metafora del calcolatore il risultato dell’ortodossia cognitivista è stato quello di mettere “l’anima nel freezer”. Un’espressione che prendo a prestito da Joseph LeDoux, stigmatizzata nel titolo di un capitolo del libro Il cervello emotivo (1996). Per quasi cinquant’anni il tentativo di espellere le emozioni dallo studio della mente ha dato l’illusione di poter

studiare la ragione umana in autonomia da tutto il resto. L’idea che le nostre emozioni rappresentino un elemento negativo per la singola personalità e nelle relazioni sociali, ha una storia molto lunga e articolata (Plamper 2012). La razionalità umana è stata deputata, per molto tempo, a unico rimedio per l’essere umano dominato da paure, odi, disgusti, rabbie, gioie. L’idea cardine è stata che le emozioni impediscano di per sé di pensare e soprattutto di pensare in modo “buono”, “saggio” e “utile” per se stessi e per gli altri. In misura ancora più marcata le emozioni sono state viste come una forza che impedisce il comportamento etico o morale. La storia del pensiero occidentale si è caratterizzata per una visione per lo più negativa del ruolo delle emozioni, ben delineata dallo schema mitologico, costruito come una scala che andava dal basso verso l’alto, come testimoniano le feste delle grandi Dionisiache o Dionisiache cittadine, dove negli ultimi tre giorni si rappresentavano commedie e tragedie, le falloforie. L’essere umano era raffigurato come una via di mezzo fra un animale e un dio, un sincretismo di bassi istinti emotivi e un olimpo di comportamenti equilibrati pieni di senso e di ragione. L’essere umano nella parte animalesca era sangue e sperma, in preda a un eccesso di vitalità e in assenza di un dio. Il passaggio da animale a persona sulla base della facoltà razionale viene sancito anche e soprattutto da Boezio, che definisce nel De duabus naturis et una persona Christi lo statuto di persona come naturae rationalis individua substantia. La teologia cristiana ha così relegato le emozioni e i sentimenti a un ordine inferiore rispetto al lógos, inteso come ragione, poiché questi sarebbero legati ai peccati e alle tentazioni, le quali impediscono all’essere umano di entrare nel regno di Dio. L’essere umano per essere persona deve dunque esercitare sulla propria animalità la razionalità e si vede costretto per essere tale a dominare un conflitto fra una parte di sé e un’altra parte di sé. Si viene a

configurare in tal modo una dualità, una scissione, fra la parte animale (la componente sensitiva ed emotiva) e la parte umana (la facoltà della razionalità). È Descartes che nel trattato sulle Passioni dell’anima convalida una supremazia assiologica della razionalità sulle emozioni, benché le passioni per lui siano assai più dell’emozione, visto che per quanto inerisce il corpo esse includono le percezioni. E l’intera storia teorica del positivismo assevera ulteriormente questa posizione, tant’è che la natura metafisica della razionalità ne diviene il cardine. Così come il sentire è essenzialmente percezione di qualità valoriali, positive o negative, delle cose e relazione con le qualità assiologiche ed etiche. La percezione carente, la miopia, l’idiozia o l’ottusità sono alla base delle risposte assiologiche inadeguate e quindi delle risposte eticamente inidonee. Si apre così la questione dell’educazione al sentire, poiché sentire è tendere all’ascolto, è relazione. Il sentire costituisce il modo di evidenza o di riempimento intuitivo caratteristico di certi giudizi, i giudizi di valore. Pertanto, in questa ottica, l’essere umano assume il valore di persona precisamente perché e se mantiene piena padronanza sulla propria natura animale e ha una natura animale per poter misurare su di essa il proprio statuto assoluto di persona. Cosicché l’essere umano sarebbe dotato di un’area sana governata da ragione e morale e un’altra insana e irrazionale affidata all’istinto e alle passioni. Ovviamente quest’ultime assumerebbero caratteri distruttivi e autodistruttivi. Si sono sprecate così le immagini letterarie, pittoriche e teoretiche dove una passione cieca o una sfrenata ambizione inducono a rappresentare l’individuo, che ne è preda, sopraffatto a tal punto dall’emozione da non essere responsabile dei propri atti. In balia delle emozioni anche il senso etico e il senso morale sarebbero venuti meno. E così il nesso fra emozioni, razionalità e morale è diventato serrato e inestricabile. E si chiude con

un’etichettatura marcata, quella al femminile: l’uomo è più razionale della donna, la donna è preda delle emozioni e quindi è anche moralmente più bieca. Il dominio di un genere sull’altro si è anche fondato su questa relazione prima, quella fra emozioni e razionalità e ha caratterizzato per secoli una parte consistente della storia del pensiero e delle pratiche sociali. Questo spiega perché a lungo le teorie filosofiche e le ricerche psicologiche sul cervello si siano concentrate quasi esclusivamente sugli aspetti della mindfulness, in quanto più nobili e centrali per la “nobiltà” degli individui. Non stupisce quindi che “la sfera estetica della mente, i suoi desideri, i suoi piaceri e dolori, e le sue emozioni, sono stati così ignorati da tutte queste ricerche” (James 1884, pp. 198). Pochi anni dopo queste considerazioni amareggiate di James, Charles S. Peirce scriveva che le emozioni sono “il veleno biologico” e “il tratto criminale del sangue” (Peirce 1898, p. 235). Se è vero che si attribuisce a Platone la visione negativa delle emozioni è altrettanto vero che egli ritiene non sufficiente la sola ragione per giungere alla conoscenza. Nel Fedro descrive la gerarchia delle funzioni psichiche tramite una celebre allegoria equestre, che paragona l’anima a una biga alata, a un carro guidato da un auriga e trainato da due cavalli, uno nero e uno bianco: il primo, irrequieto e violento, rappresenta la parte passionale dell’anima, l’epithymìa, che ostacola l’ascesa del carro; l’altra, più docile, rappresenta invece la parte emotiva, il thymòs. Per raggiungere la pianura della verità, il luogo dell’epistème, l’auriga, ovvero la parte razionale dell’anima, deve imbrigliare e domare i cavalli. Ma sebbene il cavallo bianco debba essere padroneggiato dall’auriga, le sue ali sono indispensabili per giungere alle porte della sapienza: la sola ragione non basta per capire, necessita dell’aiuto delle emozioni. Proseguendo su questa strada Aristotele, da acutissimo osservatore della realtà quale era, argomenta che l’emozione è un effetto congiunto del sentire

e del pensare, tant’è che nel De anima definisce l’emozione come il principio motore dell’esperienza umana (De anima II, 5), e sostiene che a suo avviso “il pensiero da solo non muove niente” (Metafisica 433a 21-26). Soltanto nell’Ottocento le emozioni sono diventate oggetto di studio sistematico da parte della psicologia e della biologia. Una sorta di rivoluzione copernicana per le emozioni, non più viste negativamente: così come il Sole e gli altri pianeti non orbitano attorno alla Terra, le ricerche sulla mente umana iniziano a diventare non solo più ratio-centriche. Jean-Baptiste de Lamarck è il primo studioso che evidenzia il ruolo adattativo delle emozioni, seguito da Darwin. Studiando i fenomeni comportamentali e fisici legati alle emozioni, Darwin osserva che le emozioni provocano delle espressioni fisiche, soprattutto facciali, molto simili, a prescindere dalle differenze culturali, e persino nei casi di cecità e nei bambini. Ciò motiva la tesi che “le principali azioni espressive mostrate dall’uomo e dagli animali inferiori sono innate o ereditarie, cioè non sono state imparate dall’individuo” (Darwin 1872, p. 130). Egli ritiene che le espressioni emotive siano involontarie e, sebbene queste espressioni possano essere controllate intenzionalmente, sappiamo tutti quanto sia facile riconoscere un sorriso spontaneo da uno forzato. Per Darwin la mimica ha negli atti volontari la sua genesi bio-etologica, il che spiegherebbe la capacità innata che ciascun essere umano ha di comprendere naturalmente l’espressione delle emozioni dei conspecifici e degli animali. Anche Edith Stein ha evidenziato come le emozioni siano rilevabili da alterazioni fisiologiche: “per una gioia il cuore si ferma, per un dolore il cuore si stringe, per una trepida attesa batte forte e il respiro diviene affannoso” (Stein 1917, p. 137). Theodor Piderit va oltre e sostiene che i movimenti muscolari mimici determinati dagli stati d’animo non si riferiscono unicamente a soggetti o eventi allo stato presente reale, ma

fanno riferimento in parte anche a oggetti immaginari, a impressioni percettive immaginarie nel ricordo o nella proiezione futura e che quindi avvengono nella condizione del “come se” (Piderit 1867). È indubbio che espressioni del volto, posture del corpo, prossemica e cinesica sono rivelatrici delle emozioni, le quali generano variazioni di comportamento, e producono modificazioni nei tratti fonetici e prosodici e le differenze crosslinguistiche relative. L’osservazione e le ricerche, in particolare di Paul Ekman, Wallace Friesen (Ekman & Friesen 1971; Ekman & Friesen 1978; Ekman, Friesen & Hager 2002) e Carroll Izard (1991) hanno evidenziato che ogni emozione ha, per sua natura, una tendenza alla manifestazione corporale che investe sia la pelle, sia la fisionomica e non solo facciale, sia la vocalità, sia le stesse parole e le loro singole componenti. Ekman ha inoltre indicato alcune specifiche caratteristiche di emozioni come gioia, sorpresa, disgusto, paura, odio, rabbia, definite come emozioni di base. Esistono disparate teorie e molti approcci alle emozioni di base che hanno dato vita e tassonomie difformi che includono fra le emozioni stati timici non del tutto congruenti (Galati 1993; Tracy & Randles 2011). I sostenitori dell’esistenza di emozioni basilari condividono alcuni assunti significativi di matrice darwiniana ancorati al principio evoluzionistico, pertanto le emozioni sarebbero state vagliate grazie a una dinamica adattativa e in base a questa si sarebbero sviluppate e si sarebbero sviluppate proprio queste emozioni e non altre, in virtù delle condizioni di contesto, cioè in base alla specifica nicchia ecologica degli ominini. Le emozioni avrebbero avuto nel tempo il compito di regolare con alcuni meccanismi preordinati l’interazione con l’ambiente circostante e provvedere a risposte efficaci, sia strumentali che comunicative, rispetto a situazioni rilevanti per la

sopravvivenza. Di conseguenza, le emozioni di base avrebbero espressioni universali, attivazione spontanea, rapida insorgenza, breve durata, diversità negli indici fisiologici, valutabilità automatica (Tomkins 1962; Plutchik 1980a; Izard 1994; Levenson 1994; Panksepp 1998; Ekman 1999). I vari stati emotivi corrisponderebbero a differenti patterns di modificazioni, quest’ultime sarebbero sincronizzate nel tempo e potenzialmente infinite. Alla base di queste emozioni vi sarebbero programmi neuromotori innati che fanno sì che le espressioni delle diverse emozioni siano le stesse nelle diverse culture; dal momento, però, che è possibile un certo grado di controllo volontario su di esse, le emozioni possono essere variamente modulate – intensificate o inibite, neutralizzate o mascherate – secondo regole prescritte culturalmente. Accanto alle emozioni di base vi sarebbero altri tipi di emozioni. La tesi della separazione fra emozioni di base ed emozioni “non di base” ha trovato un sostenitore anche nel filosofo Paul E. Griffiths, che come abbiamo ricordato ha messo in evidenza il vernacolare mondo concettuale delle emozioni e il fatto che in psicologia si è assistito a un’esplosione di “carte nautiche” legate alle emozioni. È lo stesso Griffiths a sottolineare che il termine del linguaggio ordinario “emotion” non si riferisce a un genere naturale, quindi i fenomeni che il senso comune definisce “emozioni” non appartengono a un dominio omogeneo (Griffiths 1997). Griffith argomenta che nell’essere umano vi sono due strutture emozionali analoghe, ma non omologhe, costituite dalle emozioni di base che sarebbero in comune con gli animali e dalle emozioni di alto livello cognitivo, che sarebbero unicamente umane. Se così fosse vorrebbe dire che dovrebbe esistere una netta separazione fra aree cerebrali deputate all’implementazione di emozioni di base e aree deputate all’implementazione di emozioni di alto livello cognitivo, il che

sembra essere scarsamente plausibile alla luce delle attuali conoscenze sul cervello. Molti studiosi hanno contrastato sia la tesi dell’esistenza delle emozioni di base, sia la tesi di una possibile classificazione delle emozioni e anche l’ipotesi che la accompagna, cioè che le emozioni “non di base”, come gelosia o vergogna, siano formate da componenti di quelle di base. Le tesi avanzate da Ekman, e poi riprese da Damasio e LeDoux, rispetto alla separazione fra emozioni di base ed emozioni “non di base” e l’idea che le seconde siano una mescolanza delle prime, e la teoria del cervello trino di Paul MacLean, di cui parleremo successivamente, mostrano alcune debolezze intrinseche, poiché è impraticabile la strada secondo la quale le emozioni “non di base” siano una mescolanza di quelle di base, visto che le ricerche attuali mettono in evidenza che la complessità dell’interazione fra aree diverse rende impercorribile questa chiave interpretativa, tanto più che a ogni emozione specifica si attivano network cerebrali che in parte si sovrappongono ma che anche si differenziano (Caruana & Viola 2018). Alcuni dei critici ritengono che le emozioni possono essere considerate episodi di sincronizzazione temporanea dei cinque maggiori sistemi di funzionamento dell’organismo: la regolazione fisiologica, la motivazione, l’azione, la cognizione e la consapevolezza (Scherer 2005; Ochsner 2013). In opposizione alle tesi fisiologiche-comportamentali, soprattutto di Ekman e Friesen, hanno avuto uno sviluppo le teorie cognitiviste dell’emozione, in particolare quelle proposte da Stanley Schachter, Nico Frjida e Richard Lazarus, i quali sostengono che le emozioni sarebbero soltanto in parte basate sulle modifiche indotte dall’attivazione del sistema simpatico, ma in gran parte sarebbero invece legate a meccanismi cognitivi, cioè all’interpretazione di una specifica situazione da parte dell’individuo. Gli studiosi di ispirazione cognitivista

sottolineano la capacità delle emozioni di modulare l’attività razionale, per esempio bloccando l’esecuzione di piani in corso riorientandoli sulla base di nuove priorità. Un sostegno alle loro tesi è venuto dai lavori di Madga Arnold (1960), che ha definito l’emozione come la tendenza che proviamo ad avvicinarci a oggetti e a situazioni che valutiamo vantaggiosi e ad allontanarci da quelli che valutiamo dannosi. Uno stimolo emotivo, perciò, sarebbe un processo di valutazione a livello inconsapevole8. A suo avviso non è necessaria una risposta fisica per suscitare un’emozione, bensì sarebbe sufficiente la tendenza a re-agire. Inoltre, le emozioni si distinguerebbero le une dalle altre perché i processi di valutazione darebbero luogo ad azioni differenti. Gli stati emotivi sarebbero quindi connessi esclusivamente al contesto sociale e culturale in cui gli individui sono immersi. Questa ipotesi interpretativa ha successivamente trovato in Margaret Mead (1964) un punto di riferimento. Circa il ruolo valutativo, Amelie Rorty (1980) ha distinto la causa apparente di una emozione dalla sua causa reale: nel primo caso si tratta di uno stimolo immediatamente disponibile e percepito consapevolmente, nel secondo caso di uno stimolo da ricercare nella storia causale conservata nella nostra memoria. Questo vuol dire che la causa di uno stato emotivo potrebbe discostarsi dalle ragioni che servono per spiegarlo a posteriori a noi e agli altri. L’interpretazione formulata dalla psicologa statunitense ha dato il via a una serie di teorie sulla valutazione. Le sue ricerche hanno evidenziato che le reazioni emotive possono formarsi inconsapevolmente, senza che intervengano le facoltà riflessive. Anche Richard Lazarus propone una teoria connessa al ruolo valutativo delle emozioni: prima di provare un’emozione, valutiamo gli eventi in modo inconsapevole e quindi rapido. Lo psicologo classifica le valutazioni cognitive in processi cognitivi caldi e processi cognitivi freddi: i primi si originano molto

velocemente e provocano una risposta emotiva istantanea, mentre i secondi sono più lenti e non generano nessuna emozione (Lazarus 1991). Una posizione diversa e più articolata è quella espressa da Joseph LeDoux, il quale ha indagato le vie neuronali sottostanti le emozioni attraverso numerosi studi anatomici e fisiologici arrivando a quattro principali conclusioni: l’emozione non è un fenomeno unitario ma comprende elementi di valutazione, espressione e sensazione. La valutazione della rilevanza emozionale di uno stimolo sarebbe in gran parte inconsapevole e riconducibile all’amigdala; i meccanismi che valutano la rilevanza di uno stimolo sarebbero filogeneticamente antichi e diffusi in tutto il regno animale; i meccanismi neuronali soggiacenti l’esperienza emotiva sarebbero filogeneticamente recenti e connessi allo sviluppo del linguaggio e dei processi cognitivi a esso collegati. 3.3. L’habitat di emozioni e linguaggio Le ricerche legate alle aree cerebrali che presidiano le dinamiche emotive si sono articolate per lungo tempo sulla base dell’idea che il cervello sia suddiviso in aree fortemente specializzate, non solo fra la parte sinistra e destra ma anche all’interno di ciascun emisfero. A una facoltà o a una competenza avrebbe dovuto corrispondere uno specifico “organo” situato in un punto determinato dell’encefalo e quell’organo avrebbe dovuto presidiare e quindi essere competente di una specifica funzione. Polifunzionalità e plasticità, nelle sue diverse accezioni non sono mai state prese in considerazione e il modello originario di lettura del funzionamento cerebrale è stato quello degli organi come cuore, fegato, reni e polmoni. Come è noto, bersaglio principale dell’insieme delle argomentazioni di Damasio è Descartes, il cui guaio principale sarebbe quello di aver ridotto la mente umana agli aspetti intellettivi, incolpando gli stati affettivi di deviare le facoltà

dell’intelletto. Per Damasio non c’è alcuna differenza fra mente e corpo, come ben aveva argomentato Baruch Spinoza (1677, p. 67). Quando in filosofia, in psicologia, nelle neuroscienze o in biologia evolutiva si fa riferimento alle emozioni le concezioni come abbiamo visto si sprecano e questa difficoltà ha dato ampio spazio alle posizioni costruzioniste, cioè a quei teorici che attribuiscono ai soli contesti sociali e culturali la concettualizzazione di fenomeni affettivi e le emozioni sarebbero quindi unicamente etichette concettuali che attribuiamo a stati interni. Etichette generate dai luoghi e dal tempo storico in cui ciascuno vive. Si tratta di posizioni contigue a quelle bersaglio di Damasio. Non c’è ombra di dubbio che la manifestazione emotiva sia condizionata dalle componenti culturali come sostengono Michelle Rosaldo (1984), Rom Harré (1986), Catherine Lutz (Lutz & White 1986), Andrew Ortony, Terence Turner (Ortony & Turner 1990), Lila Abu-Lughod (Lutz & Abu-Lughod 1990) e Bernard Rimé (2009). Attualmente sono diventate significative le obiezioni di Lisa Feldman Barrett che, nei suoi acribici ma anche per alcuni aspetti sprezzanti lavori, punta l’accento sulla decostruzione delle tesi evoluzionistiche e cerca di dimostrare che le emozioni non hanno in comune né un’essenza né un meccanismo sottostante. Feldman Barrett arricchisce però la sua riflessione anche con una componente costruens (Barrett 2006; Barrett 2017) dove al centro ci sono le dinamiche sociali e culturali e le emozioni sono la concettualizzazione degli stati affettivi generati da queste dinamiche. Dinamiche sociali e culturali che però non sono negate neppure da Ekman. Inoltre, la manifestazione delle emozioni è sempre di natura relazionale o sociale fra conspecifici (Dumouchel 2008); si attivano infatti all’interno di un contesto sociale, anche immaginato, e costituiscono un atto di

riconfigurazione di rapporti pragmatici e del tutto indipendenti dai processi concettuali (Hutto 2006; Griffiths & Scarantino 2009). Relegare le emozioni, come fa Feldman Barrett, alla sola dimensione concettuale generata dall’influenza dei contesti culturali e sociali non spiega né il loro attivarsi, né il modo in cui si attivano, né le funzioni che queste svolgono. Walter Cannon è il primo che ha ipotizzato una teoria neuronale delle emozioni e lo ha fatto sulla base delle ricerche in laboratorio di Philip Bard (1929, p. 97). La sua tesi si fondava sull’ipotesi che le emozioni avessero il proprio radicamento nell’ipotalamo. Gli esperimenti sugli animali all’epoca mostravano infatti che le lesioni in questa struttura celebrale generano reazioni emotive soltanto in presenza di sollecitazioni particolarmente intense. La teoria di Bard e Cannon gravava su un presupposto: i messaggi sensoriali sono trasmessi alle aree specializzate del talamo da recettori esterni, e le aree specializzate a loro volta avrebbero elaborato dei segnali che sarebbero stati inviati alla neocorteccia. Appunto per questo, alcune regioni talamiche, su questa ipotesi, trasferirebbero questi segnali non alla corteccia, bensì all’ipotalamo, generando così le risposte autonome e comportamentali collegabili alle emozioni. Sarebbero le fibre nervose che partono dall’ipotalamo che attiverebbero poi la corteccia, generando le esperienze emotive consapevoli, cioè i sentimenti, per dirla nella terminologia di Damasio. Cannon pensava che le risposte emotive non fossero causate dalle esperienze consapevoli, ma che entrambe avvenissero simultaneamente. Prendendo spunto dalle ricerche di Cannon, James Papez (1937) ha successivamente elaborato una delle teorie più influenti circa le emozioni. Anche Papez attribuisce un ruolo determinante all’ipotalamo nella regolazione delle risposte fisiche collegate alle emozioni e nella coordinazione dell’esperienza emotiva. Allontanandosi dalla tesi cardine di

Canon, Papez amplia le aree connettibili alle dinamiche emotive: l’ipotalamo non è più il dominus incontrastato del processo emotivo. A suo avviso i segnali sensoriali percorrono una duplice strada, le vie talamiche sarebbero duali: in un canale scorrerebbe il flusso dei sentimenti e in un altro canale scorrerebbe il flusso dei pensieri. Il flusso dei sentimenti avverrebbe grazie al passaggio dei segnali sensoriali dal talamo ai corpi mammillari dell’ipotalamo, dove si originerebbero gli stati emotivi, mentre il flusso dei pensieri con i propri segnali sensoriali in entrata sarebbero trasferiti lungo vie che li fanno transitare dal talamo per arrivare alle aree laterali della neocorteccia, dove le sensazioni diventerebbero percezioni, pensieri e ricordi. Secondo Papez, le esperienze emotive nascerebbero nella corteccia cingolata, quando questa accoglie informazioni trasmesse dal flusso dei sentimenti o dal flusso dei pensieri: nel primo caso i segnali fluiscono dalle aree sensoriali del talamo verso i corpi mammillari, poi verso il talamo anteriore e la corteccia cingolata; nel secondo caso i segnali sarebbero elaborati dalle aree corticali implicate nella percezione e nella memoria e poi inviati alla corteccia cingolata. Quella di Papez è una chiara visione dicotomica, infatti separa le dimensioni non cognitive da quelle cognitive, tanto che la sua ipotesi è sostanzialmente fondata sulla dualità emozioneconsapevolezza, con una priorità temporale e logica di sentimenti e pensieri. Le ipotesi di Papez sono state il trigger per quello che per molto tempo è diventato il cuore degli studi sui sistemi celebrali collegabili alle emozioni: la teoria visceral-limbica di Paul MacLean (1949). Secondo questo neuroscienziato statunitense, il cervello dell’odorato, ovvero il rinencefalo, assolverebbe un ruolo centrale nelle emozioni. Le regioni rinencefaliche genererebbero le reazioni autonome, come il cambiamento della respirazione, della frequenza cardiaca e di altre funzioni viscerali, pertanto,

verrebbe escluso il ruolo delle stimolazioni della neocorteccia. Queste regioni, che MacLean denomina come cervello viscerale, disciplinerebbero i comportamenti istintivi e gli impulsi sostanziali per la sopravvivenza: queste funzioni primigenie precederebbero le capacità superiori quali il pensiero e il ragionamento, sviluppatesi successivamente con il formarsi della neocorteccia. Sulla base di queste ipotesi, gli stimoli emotivi genererebbero risposte nelle viscere, i cui messaggi verrebbero trasmessi al cervello configurandosi come impulsi nervosi e integrati con le sensazioni provenienti dal mondo esterno. Le esperienze e le espressioni emotive scaturirebbero di conseguenza dall’associazione e dalla correlazione dei messaggi interni ed esterni all’organismo, un compito assolto dagli analizzatori celebrali situati nel cervello viscerale, specificatamente nell’ippocampo. L’aspetto particolarmente interessante è che MacLean parla di una vera e propria tastiera emotiva prodotta dalle cellule piramidali ippocampali, le quali sarebbero in grado di suonare le varie tonalità delle emozioni che proviamo. Si tratta di un passaggio cruciale perché per la prima volta si prende in considerazione l’intensità emotiva e non l’emozione tout court. Inoltre, MacLean sostiene che queste note emotive sfuggano all’intelletto a causa delle differenze strutturali fra il cervello viscerale e il cervello pensante, dove risiederebbe il sistema del linguaggio. Perciò, il linguaggio sarebbe un’attività superiore, indipendente dal sistema emotivo, di natura prettamente riflessiva. MacLean denomina il cervello viscerale “sistema limbico” (1952, p. 407), adottando il termine già utilizzato da Broca (1878) per descrivere la corteccia mediale, poi rinominata rinencefalo. L’idea è quella che il sistema limbico sia costituito da un insieme di strutture con uno sviluppo neurale filogeneticamente antico. Sarebbero queste strutture che presidierebbero le funzioni viscerali come cibarsi, difendersi, lottare e riprodursi e i

comportamenti affettivi. Successivamente, quasi venti anni dopo, MacLean estende le ipotesi relative al sistema limbico, proponendo l’idea che il cervello sia tripartito, il che comporterebbe il fatto che il proencefalo avrebbe attraversato ben tre stadi di evoluzione: in prima istanza quello dei rettili, che successivamente si sarebbe evoluto in quello dei paleo-mammiferi e che nell’ultimo stadio si sarebbe configurato come il cervello dei neo-mammiferi. Il cervello rettiliano sarebbe conseguentemente la regione celebrale più antica dal punto di vista evolutivo, la quale preordinerebbe i comportamenti istintivi, pre-cognitivi, indispensabili nei momenti in cui è necessaria una velocità di esecuzione molto rapida. Il cervello paleomammaliano, corrisponderebbe in sostanza al sistema limbico presente non solo negli esseri umani, contrariamente al cervello neomammaliano, costituito sostanzialmente dalla neocorteccia, presente unicamente negli esseri umani, la quale sarebbe adibita alla regolazione delle funzioni mentali superiori, come il pensiero, il ragionamento, la pianificazione e, ovviamente, il linguaggio. MacLean propone quindi una teoria evolutiva gerarchica, con una scala nella quale gli aspetti cognitivi sarebbero propri solo del cervello umano. Un modello che ha condizionato psicologia, biologia evoluzionistica, le prime ricerche neuroscientifiche e la filosofia, sia i filosofi della mente che i filosofi del linguaggio. È innegabile che la tesi di un “cervello viscerale” come fondamento evolutivo, al quale attribuire tutte le nefandezze dei comportamenti umani, ha prosperato, alimentando una visione fortemente antropocentrica e questo giustifica la sua lunga vitalità e la forza teoretica esercitata su discipline molto diverse. Le tesi di MacLean si fondano sostanzialmente sull’idea che il cervello sia tripartito e che ciascuna regione abbia una specifica funzione e che il sistema limbico sia implicato solo nelle capacità emotive primitive, senza nessun coinvolgimento nei processi

cognitivi superiori. Sono state alcune ricerche in ambito neuroscientifico che ne hanno messo in dubbio i caposaldi: “Il caso di H. M. ha fornito le prime armi contro la teoria del sistema limbico dell’emozione, suggerendo che alcune sue regioni potessero invece essere implicate sia nelle funzioni cognitive, come la memoria, che nell’emozione” (LeDoux 1996, p. 222). Attualmente, siamo in grado di comprendere più chiaramente il funzionamento delle componenti emotive nel cervello grazie soprattutto alle ricerche di LeDoux, di Damasio e di Edelman. Certo è che le dinamiche emotive si sono rivelate complesse, articolate e multiformi. I loro esperimenti hanno mostrato la centralità dell’amigdala, che agisce come una sorvegliante. Si tratta di un’area a forma di “mandorla” coinvolta nell’elaborazione dei meccanismi che attivano la motivazione, sotto forma di preferenza e di desiderio, e nell’orchestrare la nostra vita emotiva, infatti coordina gli stati emotivi con le risposte vegetative e ormonali. In collaborazione con altre strutture, quali la corteccia prefrontale, l’amigdala media anche l’influenza delle emozioni sui processi cognitivi, compresa la generazione di sensazioni consapevoli (Dumouchel 1999). Grazie alle ricerche di LeDoux e Damasio sappiamo che nelle regioni limbiche del cervello possiamo individuare oltre all’amigdala, coinvolta nelle emozioni, nelle motivazioni e nei desideri, diverse altre formazioni celebrali: l’ippocampo, che svolge funzioni legate all’apprendimento e alla memoria; l’ipotalamo, dove si trovano i centri che regolano il senso di fame e di sazietà. La strada che ha condotto a questo risultato è lunga e articolata e vede posizioni che ancorano le emozioni proprio a questi processi primari (Denton 2005). In particolare, il lavoro di LeDoux ha chiarito la presenza nel cervello di strutture sottocorticali, depositarie della capacità innata di reagire

inconsapevolmente a determinati stimoli qualificandoli emotivamente. L’interazione fra tali strutture e l’ippocampo, sede delle memorie personali implicite, farebbe sì che ogni emozione abbia una propria storia all’interno dell’esperienza del singolo individuo. Non meno rilevante sarebbe l’interazione fra i sistemi emozionali e la corteccia prefrontale, la cui porzione mediale, soprattutto a destra, elabora inconsapevolmente le emozioni, e la cui porzione laterale partecipa a produrre l’affiorare dell’emozione a livello consapevole. Dagli studi di LeDoux emerge anche che il giro frontale inferiore destro controllerebbe la produzione della prosodia e della pragmatica; infatti pazienti con lesioni di quest’area cerebrale, detta anche area di Ross, perdono la capacità di esprimere attraverso l’intonazione e la melodia il contenuto affettivo delle loro idee e fanno un uso inappropriato della pragmatica. Infine, il giro temporale postero-superiore destro, unitamente alle aree associative speculari all’emisfero sinistro, controllerebbe la comprensione delle funzioni di cui sopra, infatti, lesioni di tali aree rendono il paziente emotivamente “sordo” e spesso esistono problemi anche con l’interpretazione del contesto sociale della parola, per esempio nelle barzellette (LeDoux 1996, pp. 163-71). Dagli studi di Edelman emerge che il talamo svolge il compito di trasmettitore delle informazioni sugli stimoli esterni all’amigdala sia direttamente sia indirettamente tramite la corteccia, la quale impedisce una reazione inadatta. L’amigdala, che insieme al cervelletto è coinvolta in alcune forme implicite di memoria, agisce invece esaminando in modo approssimativo e rapido i segnali sensoriali e attribuisce a tali segnali un particolare significato. Edelman sottolinea una collocazione posteriore di percorsi, dagli input sensoriali al talamo e da lì la diffusione di assoni per raggiungere le differenti aree della corteccia. Dopodiché le sue ricerche hanno messo in luce che il talamo, che riceve un importante stimolo dalla ganglia di base,

ha un potere maggiore nell’influenzare la consapevolezza e l’attenzione – data la sua complessità e l’ampia gamma di processi che si dirigono verso l’alto – rispetto al potere esercitato dalla connessione fra sistema limbico e sistema frontale. In sintesi, quello che emerge è che il sistema motorio influenza l’attenzione, cioè il sistema motorio è strutturato motivazionalmente ed emotivamente. Dimostrazione è che quando passeggiamo, portiamo un bicchiere d’acqua alle labbra, disegniamo una figura, guidiamo la macchina o leggiamo questa pagina noi abbiamo bisogno di dirigere la nostra attenzione verso la parte dell’ambiente con la quale interagiamo e questa interazione è emotiva. Nei processi emotivi entra anche in gioco l’ippocampo, come messo in luce da LeDoux, poiché è questa area che memorizza le informazioni ricevute da altre aree cerebrali e le riepiloga in un’unica configurazione sottoforma di stimoli sensoriali esterni. A riprova del fatto che i circuiti emotivi sono strettamente connessi alle funzioni cognitive superiori sta quindi il dato che l’amigdala e l’ippocampo sono le strutture maggiormente implicate nei processi mnemonici, responsabili, rispettivamente, della memoria emotiva e della memoria dichiarativa, o esplicita. Più nello specifico, la memoria dichiarativa si riferisce alla conoscenza di fatti che possono essere acquisiti in un unico tentativo e che sono direttamente consapevoli e poi descrivibili con le parole. D’altro canto, la memoria emotiva è un costitutivo della memoria implicita, connessa alla realizzazione di un compito accessibile e valutabile unicamente tramite l’esecuzione di un atto o di un’azione. Pertanto, le emozioni arricchiscono i processi mnemonici, tanto che i ricordi più vividi e dettagliati sono proprio quelli che custodiscono eventi con una forte impronta emotiva. La nostra vita è sostanzialmente una storia scritta in primo luogo dal sistema motorio e nel sistema motorio, la cui voce

narrante sono segni tracciati sul e nel nostro corpo dalle emozioni. Se da un lato la nostra pelle è una sorta di mappa, disegnata sia dal passare del tempo sia dalle emozioni espresse sul volto, dall’altro le tracce disseminate dai ricordi non sono visibili a occhio nudo, bensì vanno ricercate nelle modificazioni morfologiche delle sinapsi delle cellule nervose. E se è vero che la memoria costruisce la nostra identità, allora possiamo anche sostenere che le emozioni costituiscono la nostra identità rappresentando l’enérgheia e la dynamis della nostra memoria e dei nostri comportamenti, tant’è che ci rendono ciò che siamo, perché costituiscono una firma d’autore, che ci fa avere un particolare sguardo sul mondo e sulle esperienze vissute. Un compito importante, in relazione alle emozioni, lo svolgono anche i neurotrasmettitori e ciascuna regione può essere più o meno ricca di specifici neurotrasmettitori. Per esempio, il nucleo caudato è una parte del corpo striato e lo striato partecipa alla pianificazione, inizializzazione ed esecuzione dei movimenti, alla motivazione, alla programmazione e all’anticipazione della ricompensa, alla formazione delle abitudini, nel dare giudizi di valore su ciò che è positivo o negativo e nel processo decisionale. Il corpo striato contiene centri di informazione che connettono aree collocate al di sopra di esso, nella neocorteccia, con regioni poste al di sotto di esso, che governano le emozioni e l’umore. È un dispositivo di apprendimento, che raccoglie informazioni da altre regioni del cervello così da imparare a scegliere velocemente quale comportamento adottare. Molta della nostra vita emotiva è ricca, ma dobbiamo prendere delle decisioni che a volte si sentono nello stomaco. Le emozioni spesso rispetto alle decisioni devono condensarsi in un semplice sì o no. Una delle funzioni del corpo striato è la formazione delle abitudini motorie ed è per questo che contiene una elevata

concentrazione di dopamina, un neurotrasmettitore legato al piacere e ai sistemi decisionali. La maggior parte dei neuroni che sintetizzano la dopamina è situata nel mesencefalo, nella formazione neuronale chiamata substantia nigra, perciò lontano dai livelli superiori dell’attività celebrale. Tuttavia, gli assoni di questi neuroni si diramano in diverse regioni del cervello, fra le quali lo striato che, come già osservato, è implicato nelle abitudini motorie e ora è stato dimostrato che lo è anche nei processi emotivi connessi alle decisioni (Smith & Graybiel 2016). Il giro del cingolo è risultato essere la regione celebrale attivata in maniera più costante dagli stimoli caratterizzati da una forte qualità emotiva (Schepard 2012) e i neurotrasmettitori sono un ulteriore componente che mette in luce la stretta relazione fra emozioni e motivazione, come nel caso della dopamina, infatti quando si parla di motivazione, di desiderio, di partecipazione questa è attiva; per esempio i neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale sono implicati nell’incentivo, nel rafforzamento e negli aspetti motivazionali. Altri stati emotivi sono riconducibili all’adrenalina, alla noradrenalina, al testosterone, al cortisolo, all’ossitocina, alla dopamina e alla serotonina. 3.4 Emozioni e linguaggio nell’ambiente Se da una parte gli studiosi dell’emozione si sono tenuti lontani dall’approccio incarnato alla cognizione, dall’altra i sostenitori dell’embodied cognition hanno a loro volta trattato per lungo tempo la cognizione come un processo “freddo” e non emotivo. Negli ultimi anni è in atto un processo, attivato dai risultati di molte ricerche, che sta costringendo a ridefinire molti concetticardine della disciplina, come per esempio quelli di cognizione, emozione, percezione. Per esempio, sta iniziando a divenire centrale il collegamento fra motivazione ed emozione mettendo in risalto le potenzialità che hanno le emozioni di modificare la

relazione fra organismo e ambiente e si sta prendendo atto che le emozioni sono simultaneamente motorie, cognitive e valutative e che implementano significato e comprensione sottoforma di significati corporei (Hurley 1998; O’Regan & Noë 2001b; Noë 2004; Colombetti 2014; Hufendiek 2016). Questo è l’esito di ricerche che hanno unito i risultati provenienti da discipline differenti come fisiologia, biologiaevolutiva, neuroscienze, psicologia, filosofia della mente e fenomenologia, dalle quali emerge che il corpo non è semplicemente un’altra entità fisica, un Körper, ma è piuttosto un corpo vissuto soggettivamente, un Leib. Esperire la propria corporeità significa essere un soggetto corporeo di esperienza, un corpo vissuto. Il frutto di questa attività interdisciplinare ha messo in evidenza che la cognizione “emerge” dalle interazioni reciproche fra cervello, corpo e ambiente (Thelen & Smith 1994; Kelso 1995; Port & van Gelder 1995; Thelen et al. 2001; Beer 2003). Secondo questa ottica la mente umana è incarnata nell’intero organismo ed è situata nel mondo, e dunque non è riducibile a strutture all’interno dell’encefalo, visto che l’esperienza e il significato che da questa deriva sono il risultato delle costanti interrelazioni fra cervello, corpo e mondo. Interrelazioni che si istanziano in specifiche modalità corporee durature e intrecciate come l’interazione sensomotoria. Omeostasi, interrelazione intersoggettiva e interoggettiva sono termini rintracciabili nella gran parte degli studi che si occupano di cognizione (Thompson & Varela 2001). La capacità autoregolativa dell’organismo, l’omeostasi, è risultata evidente soprattutto nel caso delle emozioni e delle sensazioni (Damasio 1999) e le emozioni sempre più risultano coinvolte in tutti i processi che vedono come attore l’entità cervello-corpo-mondo. La nostra configurazione corporea e le nostre attitudini sensomotorie sono il cemento della nostra capacità di

comprendere gli altri, e viceversa, e di comprendere gli artefatti (Thompson 2001; Thompson 2007) e il cervello umano è decisivo per tutte queste capacità, ma è anche a sua volta modellato e organizzato nel corso della sua esistenza dall’utilizzo di tali capacità. La percezione, come abbiamo visto, è un processo tanto sensoriale quanto motorio e a livello neurale, processi percettivi e motori sono largamente sovrapposti (Rizzolatti et al. 1996; Prinz 1997). La percezione non è qualcosa in cui il soggetto è passivo, qualcosa che accade “dentro di noi”; essa è piuttosto qualcosa che noi facciamo, è un atto o un’azione. Percepire inoltre richiede una conoscenza tacita e pratica di come la stimolazione sensoriale muta con il variare dei movimenti, degli atti e delle azioni che l’individuo compie (O’Regan & Noë 2001b; Craighero 2010). Come si è evidenziato la correlazione adattativa fra organismo e ambiente condiziona di conseguenza il modo in cui si guarda all’interrelazione intersoggettiva e interoggettiva. Già MerleauPonty sottolineava il carattere performativo, interoggettivo e intersoggettivo dell’atto percettivo (1945), che è considerato quindi come un atto configurante piuttosto che come riconoscimento meccanico di una realtà esterna già organizzata. Il mondo si presenta a noi così come esso è e vi è una perfetta coincidenza fra la realtà fisica e la realtà percettiva o fenomenica, ma questa realtà è contestuale e ambientale. In questa prospettiva mondo e ambiente non sono sinonimi. Il mondo è uno spazio-tempo abitato sia da oggetti e dall’interazione degli oggetti fra di loro, l’interoggettività, sia dei significati che gli oggetti assumono per i soggetti; significati che i soggetti di volta in volta attribuiscono al singolo oggetto in quanto tale e significati che l’oggetto assume dall’interazione sociale di ciascun individuo con altri individui. È centrale anche l’interazione fra soggetti, l’intersoggettività, e i significati che emergono dalle relazioni fra soggetti. I diversi significati

vengono attribuiti nel tempo in un processo interpretativo ininterrotto e quindi rivisto da parte del soggetto. Nel mondo si intrecciano così piano ontologico, piano epistemologico ed ermeneutica. L’individuo è sempre in relazione con altri individui, con il mondo circostante, reale o fantastico: può essere in presenza di altri soggetti o in assenza di essi, ma questi sono presenti nei suoi pensieri, cosicché il processo cognitivo è azione, intervento, movimento e lo stesso “pensare” è fare. Fare sé e fare il mondo intorno a sé, implica un processo dinamico che riconfigura senza sosta l’intera struttura dell’individuo, in cui corpo e mente sono un tutt’uno e allo stesso medesimo istante riconfigura la relazione dell’individuo con il mondo circostante, presente o assente. Intersoggettività, interoggettività, interdipendenza, interazione, co-responsabilità, con-costitutivo sono parole chiave, ma in primo luogo lo sono i loro prefissi inter-, co-, con– perché rappresentano l’unica chiave di lettura possibile che descrive come siamo e come funzioniamo. Riconoscere la natura radicalmente prospettica dell’accesso che abbiamo alla nostra mente non significa accettare, come invece è stato fatto senza grandi variazioni, da Paolo di Tarso in poi, che tale atto introspettivo connoti e denoti l’accesso a un mondo interno di fatti privati, caratterizzato da uno statuto metafisico ed epistemologico distinto da quello pubblico e materiale della corporeità, anche linguistica. L’oggettività non è raggiungibile partendo, come gli empiristi vorrebbero, da un soggettivo che non la contiene e dal primato del dato esterno oggettivo, e tanto meno si può parlare di primato della soggettività o di soggetto come fondamento della conoscenza, come ha fatto una parte consistente della filosofia, specialmente da Descartes in poi. In realtà il pensiero esercita fin dall’inizio della vita il suo potere di connettersi con il mondo reale e con i soggetti e gli oggetti che lo arredano e manifesta un’oggettività

fondata sull’intersoggettività, sull’interoggettività, e sulla relazione fra queste, sostanzialmente sulle relazioni complesse fra gli oggetti e i soggetti che popolano il mondo. La natura delle proprietà dell’ambiente circostante viene stabilita su basi intenzionali, nel qui e ora, mediante l’intersoggettività e l’interoggettività e nella relazione fra soggetti e oggetti in una visione che comporta un processo e quindi il cambiamento incessante. L’esperienza è, sì, sempre esperienza in prima persona, ma è il prodotto dell’esperienza relazionale con gli oggetti e i soggetti che popolano il mondo e il risultato di una cognizione incarnata nel corso storico, come direbbe Vico, il quale aveva ben compreso che questa è il prodotto di una costruzione mnestica non solo individuale ma anche sociale. L’interazione descritta è la cognizione, e al medesimo tempo è l’esperienza affettiva con gli oggetti che abitano il mondo. Come abbiamo visto la percezione stessa è un’azione, in quanto è un’attività esplorativa dell’organismo nell’ambiente, il che fa sì che le strutture cognitive emergono da dinamiche sensomotorie nell’interazione fra organismo e ambiente. La percezione è una dimensione cognitiva, in quanto incarnata e legata intrinsecamente a un corpo, ed è sempre impregnata di affettività (Spinoza 1677, p. 55), cioè non è mai avulsa dal coinvolgimento emozionale e sentimentale, poiché non si può essere indifferenti rispetto alla propria esperienza, e l’affettività è la “capacità di essere individualmente influenzato, di essere “toccato” in modo significativo” (Colombetti 2009, pp. 1-2). Si tratta di una prospettiva o un punto di vista grazie al quale il mondo assume significato e quindi tutti i sistemi viventi sono “generatori di significato” (ivi, p. 15), in virtù della loro natura autonoma e adattiva, per cui l’organismo affettivo è un organismo che valuta il mondo con cui è in relazione e lo percepisce come dotato di significato. L’affettività nella

prospettiva enattivista, come per Aristotele, è una dimensione molto ampia e costitutiva della vita dell’organismo e il “comportamento o condotta in relazione a significati e norme che il sistema stesso conferisce sulla base della sua autonomia” è la cognizione (ivi, p. 18). Ne consegue che cognizione e affettività sono strettamente avvinghiate. Di conseguenza gli episodi emozionali possono essere considerati “forme specifiche di auto-organizzazione o vincoli di secondo ordine – forme emozionali – che raggruppano o sincronizzano vari processi (neurali, muscolari, etc.) in configurazioni o schemi altamente integrati” (ivi, p. 69). L’approccio enattivista agli aspetti affettivi e in particolare alle emozioni accoglie diverse varianti (Varela, Thompson & Rosch 1991; Colombetti 2013; Fuchs 2018). Ciò che accomuna le diverse posizioni è per esempio l’idea che le forme emozionali comprendono vari processi che coinvolgono l’organismo nel suo complesso e non presuppongono dei singoli programmi che le attivino, bensì, come si è detto, emergono dall’autorganizzazione dell’organismo. Le forme emozionali inoltre sono plastiche e dipendenti dal contesto e sono il prodotto di una continua interazione fra corpo, cervello e ambiente. Questo non significa che il processo emotivo messo in atto da queste dinamiche, dipendenti da enérgheia e dynamis, non rivelino anche dei caratteri di stabilità. In presenza di vincoli evolutivi e ambientali, che limitano le possibili variazioni degli episodi emozionali, e data l’autorganizzazione dei processi e il carattere adattivo dell’organismo nei confronti dell’ambiente, è lapalissiano che “gli episodi emozionali sono schemi dell’organismo e come tali non contengono altri episodi emozionali come parti” (ivi, p. 72). Tali processi seguono degli specifici pattern di valutazione dello stimolo. Per esempio, uno stimolo può essere valutato per la sua novità, piacevolezza intrinseca, utilità e così via (Scherer

1984). Il vissuto emotivo passa così attraverso una serie di interazioni con altri elementi cognitivi. Per effetto di queste interazioni il sistema cognitivo nel suo complesso, e quindi comprese le emozioni stesse, opta per etichette verbali in grado di definire i riferimenti emotivi. È anche possibile che avvenga un processo complementare nella direzione inversa e cioè un processo che va dall’etichetta lessicale emotiva allo stato cognitivo generale. Si va dalla parola all’emozione e dall’emozione alla parola, con un processo incessantemente ricorsivo (ibidem). Questo è spiegabile perché il sistema celebrale umano del linguaggio presuppone la collaborazione e la coordinazione di una pluralità di strutture celebrali, che interpretano e valutano degli stimoli attivi, generati dai movimenti della lingua e della bocca al momento del pronunciamento. Tuttavia, non sono solamente tali movimenti a rendere possibile il proferire parole, bensì anche il fatto che qualcosa ci deve muovere per indurci a parlare, infatti entra in scena l’amigdala, cioè la struttura connessa alle motivazioni e alle emozioni. Queste ultime sono movimenti fra movimenti che generano enérgheia e dynamis, e quindi generano atti e azioni, e fra questi gli atti o le azioni linguistiche (Niemeier & Dirven 1997; D’Ausilio, Maffongelli & Fadiga 2013). Emozioni e facoltà linguistica si sono coevoluti con una priorità esistenziale delle spinte emotive (McGilchrist 2012; Jablonka, Ginsburg & Dor 2012). I gradienti emotivi sono un elemento della coevoluzione che condiziona sia il paralinguistico (tono) sia i sinonimi e le sfumature fra parole apparentemente sinonimiche (timore, paura, terrore). Non esiste formulazione linguistica che non sia mossa da stati affettivi e non sia impregnata da processi affettivi, aspetto reso maggiormente evidente nelle componenti paraverbali, ma è indubbio che la voce può avere un effetto sull’espressione emotiva, così come lo ha una specifica parola.

Sia i gesti finalizzati alla produzione di manufatti sia il linguaggio vocale sono fattori che hanno aiutato il controllo dell’intensità delle emozioni così come sono stati di ausilio nel definire la gamma delle emozioni esprimibili. In entrambi i casi entra infatti in gioco la dimensione relazionale: la comunicazione con altri esseri umani e il trasferimento di informazioni. Cambiamenti corporei ed emozioni sono, come abbiamo detto, un Giano bifronte, ma i gesti corporei possono influenzare la qualità e l’intensità delle emozioni. La gestualità complessa e articolata emerge anche, come abbiamo visto, dall’acquisizione del controllo delle emozioni e della loro espressione. Già Étienne Bonnot de Condillac (1746, pp. 209-217) pensava che all’origine del linguaggio ci fossero processi emotivi gestuali. Minore è il controllo motorio, più alta sarà l’intensità e la varietà delle emozioni. Senza emozioni le nostre facoltà più complesse quali il ragionamento – come dimostra il caso Eliot –, il linguaggio, la vita sociale in sé risulterebbero fortemente compromesse. Le emozioni rappresentano il fattore che sorregge infatti la coesione sociale, da sempre. Alle sfide poste dall’ambiente l’organismo ha risposto con l’acquisizione del controllo emotivo, il che ha condotto alla sostituzione dei soli gesti corporei con una sofisticata vocalizzazione. E in questo è, e rimane, centrale la comunicazione, il dialogo. La comunicazione ha sfruttato capacità preesistenti di espressione gestuale quali quelle delle antropomorfe come i gesti manuali, la postura del corpo, la contrazione dei muscoli facciali, i movimenti della mandibola, lo schiocco delle labbra, secondo un processo di ritualizzazione (de Wall 2003). Il distacco dalle antropomorfe sarebbe avvenuto di conseguenza tramite “il coinvolgimento del lato emozionale e motivazionale dell’esperienza” (Tomasello 2009, p. 78). Le emozioni essendo a fondamento della socialità e dell’identità devono essere insorte ed evolute prima del

linguaggio visto che rappresentano una condizione essenziale per il suo avvento (Turner 2000) e sono un primo sistema comunicativo sul quale si innestano altri processi (Watt-Smith 2015), anche se la loro comunicazione è dovuta a più elementi, alcuni strettamente connessi con le dimensioni sociali e culturali: il temperamento individuale – “sangue freddo” o “sangue caldo” –, la valenza – le emozioni positive sono forse più manifestate di quelle negative –, l’intensità dell’emozione – un’emozione intensa tenderà a essere espressa più facilmente, anche se un’eccessiva intensità potrà addirittura inibirne la manifestazione –, le “regole di esibizione” definite dalle culture di appartenenza, la valutazione sociale – invidia e vergogna per loro natura tendono a essere nascoste, perché chi le prova è soggetto in genere a sanzione sociale –, il destinatario dell’emozione – esprimere disprezzo a chi disprezziamo può essere più difficile che parlarne con una terza persona. L’aspetto emotivo del linguaggio è evidente nel caso del lessico emotivo espresso da termini come accidenti, mannaggia, accipicchia, caspita, dirindindina, uffah, oohh, bleah, aiuto. Queste espressioni rappresentano un vero e proprio “parlato emotivo”, che incarna l’emozione di chi parla, poiché questa viene provata nel momento dell’enunciazione ed espressa anche dal tono con il quale le parole vengono pronunciate (Mithen 2005). In realtà, come i verbi performativi e le interiezioni, le parole del lessico emotivo esprimono un’emozione e non solo la riportano ma la menzionano9. Il linguaggio ha a fondamento plurime dimensioni: percezioni, sistema motorio ed emozione, e questo spiega il suo ancoraggio al mondo. Il linguaggio è una tecnologia delle emozioni, dei sentimenti e degli stati d’animo, consola, intrattiene, consente di sfogarsi. Parlare allenta la tensione psichica, è una catarsi, nel senso utilizzato da Aristotele nella Poetica.

Come si è già evidenziato l’imitazione del volto è un passo prima dell’imitazione vocale e questo richiede un sistema specchio raffinato (Studdert-Kennedy 1998; Studdert-Kennedy 2000a; Studdert-Kennedy 2000b; Ferretti & Primo 2008), quello costituito dai neuroni specchio eco, che arrivano da quelli gestuali e che sono presenti solo negli esseri umani. Unici neuroni in grado di imitare le vocalizzazioni (Rizzolatti & Craighero 2004; Rizzolatti, Fogassi & Gallese 2006). Con l’acquisizione e il controllo separato degli organi della fonazione, e dunque la possibilità di emettere suoni più complessi per quantità di organi impiegati, e di combinarli insieme, i gesti avrebbero perso progressivamente la loro connotazione emotiva. Sotto la spinta ad aumentare il lessico, piuttosto che sintonizzarsi sulla ripetizione di espressioni del volto, le comunità dei primi homo sapiens si sarebbero gradualmente sintonizzate con la produzione di suoni finalizzati, in modo da aumentare i gradi di cooperazione e quindi di socialità. La punta avanzata di questo processo sono le metafore, unità linguistiche olistiche. Espressioni che nascono da espressioni emotive, dall’imitazione, dalle pantomime (Wray 2002). Espressioni che riportano “a terra” i concetti. C’è un mito che narra questo processo ed è quello di Narciso, che si intreccia al mito di Eco, dato l’amore che questa manifesta per lui. I due hanno comportamenti speculari: Narciso vede la sua figura replicata (specchiata, imitata) nell’acqua e si innamora, ed Eco replica (specchia, imita) le ultime parole di Narciso perché lo ama. Entrambi “riflettono” l’altro con il movimento di parti del corpo: gli occhi e la bocca. Tanto che l’amore non corrisposto di Narciso per Eco modifica il corpo di Eco: “I pensieri la tengono desta e la fanno deperire in modo pietoso, la pelle si raggrinzisce per la magrezza e tutti gli umori del corpo si disperdono nell’aria. Non rimangono che la voce e le ossa”. E l’amore frustrato di Narciso per se stesso modifica a sua

volta progressivamente il suo stesso corpo, fino alla modificazione estrema, che è la morte: “E ormai non ha più il suo colorito, rosa misto a candore, non ha più vigore e forze né ciò che prima tanto piaceva a vedersi, e il corpo non è più quello di cui un giorno si era innamorata Eco” (Ovidio, Metamorfosi 49193). Il corpo di entrambi viene inesorabilmente modellato dalle emozioni e dai sentimenti e le manifestazioni d’amore sono un riflettersi nell’altro, un copiare l’altro, benché sia il solo amore di Narciso una proiezione di sé su se stesso tanto che non dà alcun peso ai rispecchiamenti di Eco, rispecchiamenti gestuali e vocali, motivati dalla dimensione emotiva. Il mancato riconoscimento del rispecchiamento emotivo conduce alla morte di entrambi. È sufficiente che un soggetto della relazione sia “sordo”, in quanto atimico, perché prenda corpo il sonno eterno. L’imitazione è un “punto di svolta” nell’evoluzione degli umani ed è all’origine della cultura, del linguaggio, della musica e dell’arte (Blackmore 2007, p. 1).

Riguardo all’origine del linguaggio articolato […] non posso dubitare che il linguaggio debba la sua origine all’imitazione e alla modificazione dei vari suoni naturali, delle voci di altri animali e della grida istintive dell’uomo, aiutato dai segni e dai gesti […] Perciò è probabile che l’imitazione dei suoni musicali con suoni articolati possa aver dato origine a parole esprimenti varie e complesse emozioni […] Se i volatili danno segnali distinti di pericolo quando sono in terra, o quando sono in cielo per mettere in guardia i falchi, non potrebbero alcuni animali insolitamente saggi, simili alle scimmie, aver imitato il brontolio di un animale da preda, ed aver così comunicato ai compagni la natura del pericolo incombente? Questo

sarebbe stato un primo passo nella formulazione del linguaggio (Darwin 1871, p. 83). Le urla emesse da un conspecifico hanno permesso in primo luogo di mettere in atto risposte utili alla propria sopravvivenza e anche di riutilizzare quelle informazioni per avvertire altri individui del pericolo o per fingere un pericolo in modo da allontanare altri conspecifici. Il suono è infatti un veicolo prioritario nell’espressione delle emozioni e la musica è il suono emotivo per antonomasia. Le vocalizzazioni degli uccelli e in altre specie, sono per lo più emotive, e servono per indicare un’aggressione, a mettere in guardia da un pericolo, a pubblicizzare il vigore sessuale e a mantenere strutture gerarchiche (Corballis 2002, p. 3). Fra i processi imitativi che hanno contribuito alla nascita del linguaggio la probabilità che la musica abbia svolto un ruolo importante è quindi alta. 1 Per esempio, la dimensione motivazionale dell’intersoggettività, specificatamente la forma avanzata di intersoggettività umana, cioè la cooperazione, crea una motivazione emergente basata sul bisogno di comunicare e di “leggere” le emozioni che sottendono ai gesti altrui. 2 La distinzione, quella fra atto (azione, gesto) e oggetto, prende avvio dalle tesi di Edmund Husserl (1894), quando questi prende le distanze da Franz Brentano, e matura nel contesto di un confronto con un altro allievo di Brentano, Kazimierz Twardowski (1894), il quale a sua volta aveva marcato la differenza fra contenuto e oggetto di una rappresentazione. Mettendo in luce i limiti di una teoria del contenuto come immagine mediatrice rispetto alla coscienza, Husserl definisce ulteriormente i contorni del concetto di contenuto, il quale non deve per nulla essere confuso con un’immagine; essa infatti, in quanto raffigurazione di qualcosa, rimanda sempre a qualcosa d’altro; il contenuto non raffigura l’oggetto, ma ne presenta un aspetto, precisamente l’aspetto secondo cui si manifesta alla coscienza, non in senso logico o psicologico ma in senso ontologico. La teoria del contenuto è una conquista rilevante che deve essere annoverata al pensiero fenomenologico perché inserisce un nesso fra la libertà del punto di vista e il darsi stesso dell’oggetto, senza cadere né nel relativismo soggettivistico, né in una prospettiva fenomenica. 3 La storia di Eliot, raccontata da Antonio Damasio ne L’errore di Cartesio (1994), è la testimonianza che un cervello che non prova emozioni non riesce

neppure a decidere, tanto che la vita di questo paziente va a rotoli sul piano lavorativo e affettivo a seguito dell’asportazione di un tumore al cervello che ha leso parte del tessuto della corteccia orbito-frontale coinvolta nella risposta emotiva. Eliot per ogni decisione, a partire dalle più semplici, come scegliere se usare una penna blu o nera, inizia sempre a fare un elenco dettagliato dei pro e dei contro delle diverse alternative, si perde nei meandri dell’analisi “razionale” e fuoriesce dal circuito delle relazioni. 4 David Le Breton ha sostenuto che “i sapori sono le lettere di un alfabeto infinito in cui si esprimono le innumerevoli percezioni gustative, diverse a seconda dei gruppi sociali e degli individui” (Le Breton 2006, p. 354). 5 Il fenomeno per cui una circostanza casuale fa riemergere improvvisamente un ricordo rimasto a lungo sepolto è conosciuto come sindrome di Proust, dal celebre passaggio de Alla ricerca del tempo perduto, in cui il sapore di una madeleine fa rievocare nella mente dell’autore un episodio dell’infanzia a Combray. Questo effetto non è propriamente un esempio di memoria involontaria, in quanto il nostro cervello attiva dei meccanismi cognitivi in grado di creare una immagine unificata del sapore. 6 Significativi per la teoria gli studi dei fisiologi Angelo Mosso e Paolo Mantegazza come messo in evidenza in (Dellantonio & Pastore 2017). 7 Il sistema nervoso autonomo, che regola le attività involontarie dei nostri organi, è composto da due componenti: il sistema simpatico, che interviene nelle situazioni di emergenza, e il sistema parasimpatico, che contrasta l’azione del primo, cercando di conservare le risorse dell’organismo e riportando quest’ultimo alla condizione di omeostasi. 8 Secondo Madga Arnold, la valutazione (appraisal) è un bilancio mentale dei vantaggi e dei danni potenziali che una situazione potrebbe determinare. 9 È importante che vengano rispettate due condizioni: l’emozione menzionata deve essere riferita al parlante (è “parlato emotivo” mi vergogno di quello che ho fatto ma non lui si vergogna di quello che ha fatto); la parola deve essere pronunciata in presenza dello stato emotivo che descrive, cioè nel momento stesso in cui il parlante sta provando l’emozione menzionata (è “parlato emotivo” sono arrabbiato, oppure ho paura, ma non ero arrabbiato o avevo paura).

4. DIALOGARE È FARE E FAR FARE “Il filosofo” fino all’ultima pagina … non può essere completamente sicuro di non dover ricominciare di nuovo, forse proprio dall’inizio. … Thomas Kuhn, La tensione essenziale

4.1 Dialogo: prendono vita oggetti, movimenti, atti e azioni Il primo racconto occidentale sulle origini del mondo è quello della Torah, ed è un racconto in cui la realtà viene creata, per un fine, pronunciando parole; il gesto della creazione avviene grazie al linguaggio (Genesi, 1,1-2,2):

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. […] Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo”. […] Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgono in un solo luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. […] E Dio disse: “La terra procura germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo frutto con il seme,

secondo la propria specie”. […] Dio disse: “Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre”. […] Dio disse: “Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento al cielo”. Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie”. […] Dio disse: “La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie”. E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la specie. […] E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”. […] Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Parlare è fare, parlare dà vita alle cose, l’anima-corpo dà vita utilizzando il linguaggio e il mondo per effetto del linguaggio non solo è creato ma la creazione è il significato stesso della vita: semantica e pragmatica confluiscono per effetto di una dinamica inscindibile (La Mantia 2012). Il linguaggio serve per dare vita ed evocare oggetti, atti e azioni ed è oggetto, atto e azione esso stesso, tanto che correttamente si parla di “forza delle parole”. Il linguaggio modella ed è esso stesso modellato. Già Platone sottolineava all’inizio del Cratilo questo aspetto: denominare è un atto o un’azione, il dire è gesticolare. Cosicché il linguaggio mostra tutta la sua forza e potenza nel modellare gli individui, tanto che

il picco massimo di questa forza è il giuramento, considerato il sacramento del linguaggio in quanto questo prevede il pronunciamento del termine “io” e la consapevolezza di chi lo pronuncia. “Io prometto”, “io giuro”, “io dichiaro” sono i performativi per antonomasia e fanno sì che siano proferiti in prima persona e il locutore coincide con l’atto della parola e rappresenta in questo atto costitutivo la veridizione, e la veridizione è possibile unicamente grazie al linguaggio (Metafisica, Γ, 1011b, 26-27), così come solo grazie al linguaggio è possibile mentire. Non si dà il formarsi di una competenza linguistica vera e propria, sganciata dalle singole occasioni pragmaticosemantiche, perché questa altrimenti sarebbe il frutto di un processo di astrazione induttivo che prescinde da finalità e usi concreti. Parlare e ascoltare sono attività cariche di intenzionalità e di finalità. L’intenzione comunicativa è una componente della più complessiva intenzione di perseguire qualche obiettivo ed è organizzata gerarchicamente, in quanto è possibile individuare, in primo luogo, una finalità generale, quale quella catturata dalla tradizionale nozione di atto illocutivo, e una finalità specifica come un atto di richiesta o un comando. Per esempio, per ottenere una pesca si può utilizzare un enunciato che si configura come un atto illocutivo di richiesta, che però, va riempito con un contenuto particolare: la richiesta è sempre richiesta di qualcosa: “per favore mi passi una pesca?”. L’obiettivo di assicurarsi una pesca può contenere di conseguenza come proprio sottoobiettivo quello di attuare un atto di domanda, e poiché questo atto deve configurarsi specificamente come la richiesta di una pesca, ciò comporta a sua volta sotto-obiettivi aggiuntivi, che concernono fra l’altro il rinvenimento del materiale linguistico adeguato a trasmettere quel determinato contenuto, cioè entrare in possesso di una pesca.

L’inserimento di finalità particolari su finalità più generali sembra implicare, per i sistemi cognitivi che lo formulano, uno specifico tipo di complessità, che si impone tanto dal punto di vista di chi formula l’enunciato quanto da quello di chi lo ascolta: quest’ultimo in particolare deve identificare correttamente la funzione svolta dalle singole espressioni linguistiche dentro l’obiettivo complessivo dell’atto illocutivo. Colui che ode deve intendere per comprendere. Il parlante, inoltre, può dover mediare fra finalità comunicative diverse, come l’essere aiutati dal colui che ode – passare effettivamente la pesca –, e inoltre il parlante e l’ascoltatore devono di norma tenere conto ciascuno delle finalità dell’altro/a, non necessariamente convergenti. Per una comunicazione che raggiunga le finalità generali e specifiche deve quindi essere messo in campo il principio di cooperazione, così come illustrato da Paul Grice (1975). Il pronunciare parole è un vero e proprio gesto, e in quanto tale “contiene il proprio senso allo stesso modo in cui il gesto contiene il suo” (Merleau-Ponty 1945, p. 254) e il significato concettuale “si forma per prelevamento su un significato gestuale che, a sua volta, è immanente alla parola” (ivi, p. 250). In questo orizzonte, il pensare non è un aspetto privato e asettico né la sua dimensione intima è rintracciabile in un altrove, al contrario esso “non esiste fuori del mondo e delle parole” (ivi, p. 254), cosicché parlare non è un aspetto del pensare bensì è un insieme di “gesti unitari e complessivi col mondo” (MerleauPonty 1969, p. 12). Il linguaggio e la sfera della percezione visiva partecipano per Merleau-Ponty dello stesso processo di costituzione del mondo a partire da una comune attività di costruzione di un significato che eccede il significante e che lo trascende. In entrambi i casi si tratta di strutture intersoggettive, sistemi funzionali che nascono dalle relazioni fra esseri umani e fra questi e il mondo in cui si è stati gettati, fra relazioni e prassi, per lo più appartenenti a una sfera preriflessiva, corporale,

motoria. Il linguaggio è dialogo impregnato di significato con un mondo costituito da relazioni, intersoggettive e interoggettive. Il linguaggio è una modalità principe per creare e rafforzare legami e fra le modalità per istanziare o rafforzare i legami c’è il parlare di sé e il parlare a sé. Parlare di sé è un comportamento naturale e spontaneo che risponde a esigenze relazionali e sociali, poiché gli individui mettendo in comune quelle che sono le proprie emozioni, le rispettive visioni del mondo e della realtà, il flusso dei sogni e dei pensieri, narrando i vissuti personali presenti e passati, tendono a cercare quelli che sono campi affini, creando al tempo stesso una reciprocità con la finalità di saldare legami piacevoli e solidi, tanto che quando questo avviene il meccanismo cerebrale coinvolto è quello della ricompensa o gratificazione1 (Tamir & Mitchell 2012). Il medesimo meccanismo che si attiva rispetto a cibo, sesso e denaro. Essere degli esseri sociali è pertanto gratificante. Merleau-Ponty abbraccia la ripartizione fra linguaggio parlante – espressione prima – e linguaggio parlato – espressione seconda – (Merleau-Ponty 1945, p. 207; Merleau-Ponty 1969, pp. 17-22). Quest’ultimo rimanda al bagaglio linguistico acquisito, nonché al rapporto dei segni e delle significazioni, mentre il primo è il linguaggio nel momento in cui procede alla realizzazione di un pensiero, al tempo in cui si fa realizzazione di senso, ed è rilevante nel momento in cui si occupa della natura della produzione e della recezione delle espressioni derivate dalle percezioni, dagli atti, dalle azioni, dalle intenzionalità. Linguaggio parlato e linguaggio parlante trovano la loro inscindibilità nel soggetto dialogante, in quanto incarnazione del parlato nel parlante. Quella di Merleau-Ponty è una distinzione centrale per comprendere appieno il ruolo delle emozioni in relazione al linguaggio, poiché il parlato rivela lo stato del parlante e il parlante si attiva (parla e parla in un certo modo, con un certo ritmo e con un certo tono) e attiva un parlato (cosa dice,

quali termini utilizza e in quale sequenza) pregno delle motivazioni innescate dalle emozioni, e i gesti del parlante e il suo parlato rispecchiano stati emotivi. Il parlante e il parlato si fondano negli stati corporei, cioè trovano fondamento nel sistema sensorio-motorio (Gallese & Lakoff 2005). Mentre può essere intuitivo riconoscere che il gesto “emissione di parole” e la comprensione del gesto “emissione di parole” siano attività legate al corpo nel suo complesso, cioè al Leib, ossia al corpo come corpo-soggetto e al Körper, ossia al corpo come corpo-oggetto, il corpo per altri, meno intuitivo è il dato che anche il parlato abbia a fondamento oggetti, atti e azioni che hanno una connessione con il corpo e con gli stati emotivi. In realtà abbiamo un Leib-Körper che vive in un contesto fatto anche di parlato e che fa sì che il parlato sia un parlato corporale connotato dagli stati emotivi. Il parlato è in gran parte costituito da concetti, cioè da presentificazioni mentali che supportano la competenza semantica lessicale. La capacità di interagire con ciò che ci circonda è basata su quella di categorizzare oggetti, atti, azioni ed eventi, mantenere in memoria l’informazione su di essi e farne uso per finalità generali o specifiche. I concetti ci dicono come agire, dato che inseriscono automaticamente informazioni per il sistema motorio e questo dà vita a risposte legate al contesto e tempestive rispetto al riferimento. La memoria semantica è un sistema dinamico che possiede i caratteri dell’universalità, ovvero la capacità di essere condivisa per larga parte dalla maggioranza dei membri di una determinata comunità culturale in uno specifico periodo storico, e permette l’astrazione, il processo che sta alla base della capacità peculiare dell’essere umano di compiere la generalizzazione, acquisire elementi e informazioni da un nuovo membro di una categoria fino a stabilire nuove correlazioni semantiche in una diversa categoria (Antonucci & Reilly 2008). Inoltre, la memoria

semantica possiede la caratteristica dell’automaticità, grazie alla quale non è possibile per esempio per un soggetto impedire il riconoscimento di un determinato animale come un cane o un gatto. Questi diversi aspetti consentono che il contenuto semantico sia elaborato sia per il rapido riconoscimento degli oggetti, degli atti e delle azioni, sia delle parole con cui ci si trova a interagire, sia per la generazione spontanea di parole. Inoltre, movimenti, atti o azioni, compresa la percezione, l’emissione di suoni e l’ascolto imprimono nel sistema motorio una traccia mnestica, cosicché ogniqualvolta si pronuncia una lettera, una parola, una frase semanticamente compresa si imprime nel sistema motorio una traccia mnestica. Un effetto così studiato che sappiamo persino che specifiche consonanti o vocali sono in grado di evocare stati d’animo altrui (Balconi 2008) perché impressi nel nostro sistema motorio. La memoria presentifica in quanto “ri-presenta” un’esperienza nelle sue coordinate sensoriali, cui sono associati determinati pattern neurali. Una modalità che trova il suo relato con quanto affermato da Spinoza nel corollario alla prima (I) dimostrazione della proposizione XVII dell’Etica, libro II: “La Mente potrà tuttavia contemplare come se fossero presenti i corpi esterni dai quali il Corpo umano è stato affetto una volta, sebbene non esistano, né siano presenti” (Spinoza 1677). Tanto che “[La Memoria] non è altro che una certa concatenazione di idee che implicano la natura delle cose che sono al di fuori del Corpo umano, concatenazione che nella Mente avviene secondo l’ordine e la concatenazione delle affezioni del Corpo umano” (Spinoza 1677). Certamente i concetti fanno parte degli aspetti cognitivi della mente umana e sono funzionali a un compito adattativo poiché sono in grado di connettere le esperienze passate con l’interazione attualizzata con il mondo, ed è in questo senso che si può parlare di una loro funzione economica visto che con un

termine si possono indicare molteplici entità passate, presenti e future. La formulazione dei concetti fa riferimento alla relazione con domini specifici connessi, da un lato a ciò che popola il mondo – artefatti, oggetti naturali, esseri umani, animali, piante e altro ancora –, dall’altra alle modalità legate alla conoscenza in generale e a criteri assiologici. Quando si parla di oggetto si pongono in modo correlato alcune questioni di base: la definizione del concetto di oggetto, il suo status e la sua natura; l’identità e le differenze fra oggetti, la correlazione con la sua componente configurativa, tassica e funzionale, che a sua volta è apparentemente suddivisibile in dimensione funzionale e dimensione significante dell’oggetto, a seconda del contesto in cui esso è inserito. Si può parlare anche di ruolo sociale degli oggetti, poiché l’oggetto è performativo e dà vita a uno specifico contesto e arreda il mondo, tant’è che non è indifferente che esso ci sia o non ci sia. Secondo Elisabeth Spelke il concetto di oggetto si formerebbe intorno ai 3 mesi e guiderebbe poi l’intera esistenza. I bambini nascerebbero con conoscenze dominio-specifiche sugli oggetti del mondo fisico, che sono gli stessi che costituiscono il nucleo del pensiero maturo dell’adulto, e tali principi innati fungerebbero da base per il successivo apprendimento, dirigendo l’attenzione del bambino sugli aspetti più rilevanti dell’ambiente (Spelke 1994). Gli esperimenti di Spelke non dimostrano che il bambino possegga una competenza degli oggetti in sé, ma che questo sia piuttosto dotato di un apparato equipaggiato a relazionarsi in vista della comprensione e della manipolazione del mondo fisico, sia sul piano emozionale che su quello percettivo. L’ambiente e l’esperienza svolgerebbero il ruolo di inneschi e al contempo di strutture di arricchimento (Markson & Spelke 2006). Gli oggetti hanno una loro fattività, intesa come un rapporto

fra la funzionalità operativa e la funzionalità comunicativa, la prima prettamente ontologica, legata quindi all’esistenza dell’oggetto e all’uso che di esso se ne fa, la seconda connessa all’epistemologia, cioè al modo di conoscere, con i relativi problemi e stratificazioni che la conoscenza porta con sé. È l’integrazione fra forma e funzione che definisce l’esito dell’oggetto per ragioni sia funzionali che estetiche: lo tengo o lo butto, lo uso o non lo uso, lo rimiro o non lo rimiro. La giusta combinazione fra forma e funzione produce il successo di un oggetto, ma la durata di questo successo dipende dal tipo di oggetto, dalla sua nicchia d’uso e dal momento culturale. I designer sanno che la maggior parte degli oggetti assume una forma-tipo, e proprio sulla forma-tipo lavorano. E questo spiega anche l’evoluzione da una forma-tipo a un’altra, come nel caso delle prime automobili che assomigliavano alle carrozze di cavalli, degli aeroplani che evocano gli uccelli, degli apribottiglie che perlopiù riproducono la forma della bottiglia da vino. Particolari contesti culturali esercitano varie influenze sulla natura della forma-tipo, come nel caso delle rubinetterie inglesi, pervicacemente ancorate a due rubinetti e refrattarie al miscelatore, la qual cosa appare incomprensibile per la mentalità americana. Il contesto storico-culturale influenza anche la maniera in cui un certo colore e una certa conformazione rientrano nella forma-tipo, per esempio per diverso tempo il nero è stato inutilizzabile nel packaging degli alimenti, ora significa prodotto di “alta qualità” e impreziosisce il contenuto. La scoperta dei neuroni canonici presenti nell’area corticale motoria F5 e nel corrisponde complesso di Broca ha riproposto con solide basi la modalità percettiva degli oggetti, in specifico degli artefatti, riconducibile alla nozione di affordance avanzata da Gibson. Si tratta di neuroni che hanno proprietà funzionali visuo-motorie, sia visive che motorie, e presiedono il circuito necessario per “afferrare” un artefatto, a prescindere dalla

materia con cui l’oggetto è fatto. Si attivano infatti unicamente quando è potenzialmente possibile l’interazione fra l’arto “mano” e l’oggetto, tanto che sono inattivi con le ombre o se gli artefatti sono “distanti” dal corpo. Gibson coglie un aspetto sostanziale della percezione: gli artefatti non sono semplici ammassi di proprietà ma sono punti focali d’azione virtuale. L’osservatore può prestare o no attenzione agli artefatti, ma essi incorporano alla percezione significati intrinseci dati dalle affordance e che rimangono invariati e li rendono di conseguenza portatori di valori definiti. Il soggetto coglie le diverse proprietà degli artefatti, superando così nei fatti la dicotomia fra vedere e vedere come, dove “vedere come” è anche un vedere tramite come se (Borutti 2006). I significati sorgono dalla relazione e dall’integrazione con l’ambiente (Siegel 2016, p. 227) nel quale il soggetto è un oggetto esattamente come gli altri oggetti, ma è un oggetto fra oggetti con sue proprietà specifiche, che lo rendono capace appunto di cogliere i significati e che a sua volta genera affordance e significati per altri soggetti. Gibson ha identificato che la percezione visiva di un artefatto comporta l’immediata e automatica selezione delle proprietà intrinseche – forma e funzione –, recuperate nell’assetto ottico dell’ambiente e tali proprietà non sono proprietà fisiche astratte bensì consentono di interagire con l’artefatto, e incarnano delle possibilità operative che l’artefatto fornisce all’organismo che lo percepisce. Ciò che l’ambiente offre al soggetto da percepire rappresenta per il soggetto delle opportunità motorie, come per esempio una pesca sul tavolo che “invita” a essere afferrata e mangiata, oppure la percezione di sedie, sgabelli, poltrone e chaises-longues che offrono l’opportunità all’organismo di “potersi sedere”. La percezione “afferra” l’affordance dell’artefatto, cioè comprende a che cosa questo serve mentre “afferra” che cosa potenzialmente si può “fare” con esso. Per

esempio, se desidero mangiare una pesca (gesto), devo prima localizzare un oggetto rotondo giallo-rosso all’interno del portafrutta, riconoscere in esso la pesca (processi percettivi che chiamano in causa anche concetti semantici di tipo mnesico) e poi afferrarla (atto motorio), il tutto all’interno di una dimensione ambientale (Gerrits & Schouten 2004). Le affordance si trovano allo stato potenziale e i sistemi percettivi selezionano quelli utili alla sopravvivenza all’interno della “nicchia” ambientale di pertinenza. Al mutare delle necessità degli individui le affordance degli oggetti non mutano, muta la potenziale o fattuale interazione con essi. L’affordance è quell’insieme di atti e azioni che un oggetto tende a indurre a compiere su di esso e con esso, atti e azioni che promanano da come esso appare e che consentono all’utilizzatore di dedurne le funzionalità o i meccanismi di funzionamento all’interno di un contesto (ibidem). Quella di affordance è una nozione che esprime la relazione fra individuo e oggetti posti in un contesto; pertanto, l’affordance non è una proprietà dell’oggetto né una facoltà del soggetto, ma una dinamica di interazione dove funzione e fine coincidono e che indica quelle particolari caratteristiche che possono attivare in modo automatico atti e azioni, senza la mediazione di uno specifico sistema semantico, essendo esse stesse semantiche. Le affordance non sono quindi caratteristiche soggettive, ma aspetti che superano la dicotomia soggettivo-oggettivo e le relazioni fra oggetto-soggetto e oggetto-oggetto sono invarianti per effettuare gesti. Il concetto di affordance è centrale per l’idea di una identificazione fra percezione, atti e azioni, contro ogni separazione temporale fra presentificazione percettiva e atti motori (Massironi 1998). Le affordance sono centrali nel guidare le azioni con gli oggetti, sia quando le azioni potenziali sono utili, sia quando non lo sono e trovano la loro radice categoriale nelle

interazioni visuomotorie con gli oggetti. Si tratta quindi di un riconoscimento “pragmatico”, che è incentrato su quelle proprietà fisiche degli oggetti, inseriti in un contesto, che servono per agire su di essi, a cui si aggiunge un riconoscimento “pittorico” (Franklin & Davies 2004), infatti l’affordance coglie anche le proprietà emozionali espressive degli oggetti. La scoperta dei neuroni canonici, e il concetto di affordance a questi correlati, ha reso evidente che la percezione si struttura in base a ciò che l’ambiente fa significare e alla storia esperienziale del soggetto percipiente, il quale è predisposto fisiologicamente, con il proprio sistema motorio, a cogliere significati che l’ambiente ha lì, solo da “cogliere”. Il concetto di affordance fa sì che la stessa rigida distinzione fra processi percettivi, motori e cognitivi sfumi quando ci si riferisce al significato degli oggetti, degli atti e delle azioni: non solo la percezione si interpola con la dinamica dell’atto e dell’azione, ma un corpo-anima che agisce è anche, e in primo luogo, un corpo-anima che comprende, visto che “afferra” l’affordance dell’oggetto, cioè comprende a che cosa serve mentre “afferra” che cosa potenzialmente può “fare” con esso. L’attività cerebrale codifica direttamente, nella percezione stessa dell’oggetto, gli atti e le azioni motorie necessarie per il raggiungimento e l’afferramento contestualmente alla decodifica dell’affordance dell’oggetto. Inoltre, il soggetto rimappa le nuove potenzialità di azione offerte dalla nuova unità corpo-oggetto-contesto2. L’affordance comporta di conseguenza l’accesso diretto sia all’oggetto che al concetto di oggetto, poiché afferrare adeguatamente una pesca significa insieme “capire” che si tratta di una pesca, così come afferrare adeguatamente una forchetta significa insieme “capire” che si tratta di una forchetta. Siamo di fronte a riconoscimenti “pragmatici”, incentrati su quelle proprietà fisiche degli oggetti inseriti in un ambiente e che

servono per agire su di essi. Il concetto di affordance non va ridotto però alle semplici proprietà fisiche e visivamente percepibili degli oggetti in sé, ma è intrinsecamente relazionale, in quanto implica che sussista una complementarietà fra l’ambiente e gli oggetti che ne fanno parte (Gibson 1979). La conoscenza, il sapere, il riconoscere il significato sono indubbiamente situati (Merleau-Ponty 1945), come è stato stigmatizzato nella locuzione Ask Not What’s Inside the Head, but what the Head’s Inside of (Christopher 1992), che riassume efficacemente il pensiero gibsoniano. La conoscenza, il sapere e il riconoscere il significato sono dinamiche enattive, cioè il significato di un oggetto è sempre relativo a uno specifico atto e a una specifica azione che tramite esso si intende compiere in uno specifico tempo e luogo (Varela & Shear 1999). Il significato di un oggetto sta nella sua potenziale manipolabilità, cioè nel modo in cui il sé-corporeo può utilizzarlo in vista del proprio interesse e progetto (Heidegger 1927), sempre scansionato da una dinamica affettivo-emotiva che incarna il perché, cioè la finalità che determina il come. Secondo Gibson, più alta è l’affordance più l’utilizzo dell’oggetto è automatico e intuitivo, come per esempio nel caso del cucchiaio, della forchetta, del coltello. Di converso, le maniglie delle porte, che dovrebbero indicare in modo intuitivo se queste vadano aperte tirandole, spingendole o facendole scorrere, hanno sovente una bassa affordance, la qual cosa spesso viene ulteriormente resa controintuitiva dalla presenza di dispositivi elettronici. Così è per i rubinetti di molti lavabi nei locali pubblici: spesso non è chiaro se bisogna schiacciare con il piede un bottone perché l’acqua defluisca dal rubinetto o se l’acqua si attiva mettendo le mani al di sotto del rubinetto, o altro ancora. Il modo di utilizzare il cucchiaio o la forchetta o il coltello è sicuramente funzionale a un uso efficace dello strumento, ma è

anche frutto di precise convenzioni. Queste possono quindi condizionare la modalità d’interazione soggetto-oggetto. Se le affordance relative all’afferramento di oggetti emergono a partire dalla relazione fra il corpo degli organismi e le caratteristiche degli oggetti in contesti dati, trova diversi riscontri il fatto che le affordance relative alla funzione degli oggetti presentino delle differenze, in particolare nei contesti in cui sono presenti più soggetti, a partire dal fatto che esistono affordance legate agli artefatti specificamente dirette all’interazione fra individui: per esempio, un regalo invita a cooperare (Kaufmann & Clemènt 2007). Le affordance degli oggetti sono quindi anche modulate dal tipo di relazioni sociali in cui l’oggetto è inserito. È fuor di dubbio che la presenza di altri soggetti influenzi l’intenzione nell’interagire con gli oggetti visto che la cinematica del movimento subisce delle variazioni (Becchio et al. 2010), come quando si offre del cibo a un’altra persona (Ferri et al. 2012), in quanto per farlo occorre non soltanto compiere un’azione diretta a un obiettivo, ma è necessario anche tenere conto delle intenzioni e degli obiettivi altrui. Per di più un oggetto fuori dalla nostra portata non evoca le affordance caratterizzanti a meno che esso non sia afferrabile da un’altra persona. L’affordance degli oggetti è quindi modulata dal tipo di relazione sociale in cui l’oggetto è inserito e la velocità di afferramento è più rapida se esso è vicino a una persona sconosciuta mentre è significativamente più lenta se di fronte si ha un amico (Gianelli, Scorolli & Borghi 2013). Un oggetto fuori dalla nostra portata non evoca le tipiche affordance a meno che esso non sia afferrabile da un’altra persona (Costantini, Committeri & Sinigaglia 2011). Poiché usiamo gli oggetti anche per relazionarci agli altri, la presenza di un osservatore e la percezione del suo atteggiamento nei nostri confronti modifica la percezione dell’oggetto stesso

(Ferri et al. 2011) e anche l’attitudine degli altri nei confronti delle nostre azioni, rivelata per esempio dal tipo di emozione sul volto, modifica la cinematica del movimento (Ferri et al. 2010), tanto che l’accuratezza del movimento aumenta quando si osserva il volto di una persona felice piuttosto che di una persona disgustata o triste. Possiamo quindi dire che la presenza di altri e la loro attitudine nei nostri confronti genera affordance che inglobano nella loro determinazione la relazione fra oggetti e soggetti e fra soggetti e soggetti (Loveland 1991; Ferri et al. 2011), il che ci induce a rappresentarci diversamente gli oggetti in virtù del fatto che li usiamo per rapportarci con altri. Al fine di evitare costosi conflitti sociali, la manipolazione quotidiana di oggetti richiede tuttavia di tenere conto anche di relazioni sociali più complesse come la rapida identificazione del proprietario di un oggetto, un senso di proprietà informale e transitoria che, seppur limitato nei suoi effetti spaziali e temporali, influenza profondamente il nostro comportamento sociale (Tummolini & Castelfranchi 2011). Visto che il possesso fisico di un oggetto è accessibile ai sensi e facilmente memorizzabile è stato proposto che, in contesti in cui la proprietà di un oggetto sia ambigua, un’euristica del “primo possesso” potrebbe guidare le inferenze e i giudizi di proprietà in adulti (Friedman 2008) e anche in bambini molto piccoli (Friedman & Neary 2008). Evidenze recenti hanno dimostrato che già all’età di 36 mesi i bambini fanno riferimento a diversi indici fisici di relazione agente-oggetto per determinare la proprietà di un oggetto (Friedman 2008; Kanngiesser et al. 2010; Rossano et al. 2011; Friedman et al. 2013). L’adozione spontanea di un’euristica astratta è potenzialmente parte di un modulo innato di ragionamento su un dominio specifico ed evoluzionisticamente saliente come quello della proprietà (Stake 2004; Friedman & Neary 2008). L’esplicita attribuzione di proprietà sugli oggetti influenza anche il sistema sensomotorio. Sapere per esempio che

una tazza è di proprietà dello sperimentatore inibisce – si tratta di una dinamica emotiva e quindi valutativa – la percezione spontanea delle affordance di afferrabilità e influenza la cinematica dei movimenti di manipolazione (Constable, Kritikos & Bayliss 2011). Il solo fatto di sapere che un oggetto come una tazza sia di qualcuno specifico induce una diversa percezione del suo valore oggettivo (Kahneman, Knetsch & Thaler 1990), ne modifica la piacevolezza soggettiva (Beggan 1992) e ne facilita il recupero dalla memoria (Cunningham, Van den Bos & Turk 2011); esiste una rete di regioni cerebrali che risponde selettivamente a oggetti posseduti dal soggetto rispetto a oggetti analoghi che sono proprietà di altri (Turk et al. 2011). Inoltre, quando entrano in gioco le dimensioni emozionali varia la risposta motoria, cioè quando l’oggetto ha valenza positiva, si tende a eseguire un movimento di avvicinamento, mentre se l’oggetto ha valenza negativa si attua un movimento di allontanamento, pertanto, la risposta motoria varia in funzione del potenziale destinatario (Chen & Bargh 1999). Quando la presenza di un’altra persona è reale, si modifica la cinematica del movimento, per esempio aumenta l’accuratezza nel modo di afferrare un oggetto (Gianelli et al. 2013). Per quanto riguarda le affordance degli oggetti, la presenza di un altro/a induce a comportarsi diversamente con le proprietà valutative degli oggetti – bello/brutto – e con quelle relative alla loro afferrabilità. Con le proprietà di tipo valutativo tendiamo ad attrarre oggetti gradevoli; in contrasto, con le proprietà relate all’afferramento siamo più rapidi nell’allontanare da noi oggetti connotati negativamente, per esempio oggetti appuntiti o ruvidi. Il comportamento motorio è quindi modulato dal contesto sociale in cui le azioni percepite avvengono. Usiamo artefatti e parole nella nostra quotidianità e il modo in cui li utilizziamo è oggetto di molte ricerche che si pongono come obiettivo proprio verificare le possibili analogie nell’uso.

Ricerche che sono utili anche per comprendere con maggiore accuratezza la natura e alcune specificità del parlato, nella consapevolezza che le parole possono far riferimento agli oggetti anche in loro assenza e che le parole hanno una valenza comunicativa e sociale che gli strumenti solitamente non hanno. Anche se gli artefatti possono in certi casi essere utilizzati in modo ostensivo. Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche (1953), metteva in luce che le funzioni delle parole sono diverse e molteplici, come le funzioni di diversi utensili, poiché ci sostengono nella nostra relazione con il mondo, e introduce la nozione di uso proprio per non rimanere ingabbiato né nel mentalismo né nel comportamentismo (Cimatti 2004; Cimatti 2008). Questa nozione serve a Wittgenstein per spostare il punto di vista sul linguaggio, che così diventa un modo di agire nel mondo. La tesi sull’analogia parole-utensili è stata più volte ripresa e con diverse articolazioni (Clark 1997; Farne, Iriki & Ladavas 2005; Clark 2006; Clark 2008; Tylèn et al. 2010; Mirolli & Parisi 2011; Scorolli et al. 2011a; Borghi et al. 2011). Partiamo dal fatto che come una pesca collocata nello spazio effettivamente raggiungibile “invita” a interagire, cioè ad afferrarla così il denominare la pesca dovrebbe invitare a interagire con essa (Costantini et al. 2011; Ambrosini et al. 2011). Nello stesso modo potremmo ritenere che le parole, in quanto strumenti relazionali, al pari di certi artefatti, se pronunciate ricodifichino lo spazio peripersonale visto che se osserviamo oggetti nello spazio a noi vicino o lontano li possiamo denominare per richiamarli, tanto che sin da piccoli ci abituiamo a usare parole per invocare l’aiuto di qualcuno, per esempio per porgerci degli oggetti. Proprio come con gli utensili, usare le parole ci dovrebbe quindi portare a percepire più vicino quanto è distante, determinando così un’estensione del nostro spazio peripersonale e in effetti le parole ‘avvicinano’ ciò che era

lontano, ma solo nel caso in cui i due strumenti (parola – rastrello) usati durante l’addestramento risultino efficaci e quindi di aiuto nello svolgere il compito stabilito. Ne possiamo dedurre che le parole risultano identiche agli artefatti unicamente se attivano relazioni sociali ben finalizzate (Borghi & Cimatti 2009; Borghi & Cimatti 2010; Scorolli et al. 2011b). Inoltre, se il mio spazio peripersonale si estende quando con uno strumento raggiungo un oggetto, nel momento in cui chiedo aiuto a un altro/a, tramite la parola, dovrei avere esperienza di un’estensione dello spazio non solo in virtù della parola ma anche del contributo dell’altro, e in effetti è così (Gianelli, Scorolli & Borghi 2013). Su questa base è stato anche confermato che l’uso della parola risulta più efficace quando invochiamo la collaborazione di un altro/a in modo esplicito, per esempio dicendogli “per piacere passami la pesca” piuttosto che semplicemente “pesca”. Per di più, l’eventuale estensione del nostro spazio di azione dovuta alla parola è modulata dalle caratteristiche dell’altro/a, ovvero si realizza soprattutto quando l’altro/a dimostra un atteggiamento positivo e ha un’attitudine cooperativa nei nostri confronti. Le parole, similmente agli strumenti, sono in grado di estendere i confini del nostro corpo, rendendo più vicino quello che è lontano, ma lo fanno a certe condizioni connesse alle dinamiche sociali e alle finalità (Scorolli et al. 2014). È chiaro che la percezione di situazioni visive apparentemente irrilevanti per il compito influenzano in modo significativo le valutazioni e le correlazioni che i soggetti presentificano e il contesto modifica la percezione degli oggetti e dei soggetti e le parole svolgono un ruolo significativo in questa modifica. Inoltre, la percezione visiva della vicinanza spaziale a un oggetto influenza la comprensione di frasi che richiamano la proprietà dell’oggetto (Scorolli, Borghi & Tummolini 2018). La comprensione è più rapida quando il possessore, espresso dalla

locuzione, coincide con il soggetto più vicino all’oggetto e i giudizi dei partecipanti alla conversazione sono più celeri quando c’è correlazione fra colui che individua per primo l’oggetto e il proprietario come descritto dalla frase; ma questo avviene solo in condizioni di competizione. Sul piano linguistico sia la percezione della prossimità spaziale a uno degli attori presenti nella scena che la priorità temporale con cui si vede scoprire un oggetto facilitano l’identificazione delle frasi sensate quando lo status di proprietà riportato nella frase corrisponde alla scena vista precedentemente. Appunto per questo, il concetto astratto di proprietà potrebbe essere in parte ancorato alle esperienze percettive pregresse. Per di più, la presenza di un’autorità – ma non di un pari – interferisce con la rappresentazione spontanea del proprietario come attore vicino all’oggetto (Borghi et al. 2017). Un aspetto che assume un ulteriore sfaccettatura visto che gli stereotipi di genere possono facilitare l’attribuzione di oggetti culturalmente connotati, dato che in caso di ambiguità, le femmine tendono ad attribuire più rapidamente la proprietà dell’oggetto ai maschi (Malcolm et al. 2014). È evidente che le parole si confermano un prodotto pubblico, collettivo e sociale (Tollefsen 2006). Sono infatti strumenti peculiari, non solo perché fanno parte del mondo “etereo” della cognizione, ma anche perché, pur essendo originate dal soggetto, sono al contempo portatrici della dimensione sociale e pubblica, chiamando in causa immediatamente l’altro/a, quindi il suo spazio – definito non tanto dal suo corpo ma dalle potenzialità di quel corpo – e gli effetti dei sui atti e delle sue azioni (Steffensen 2009). Un meccanismo di simulazione analogo a quello che attiviamo quando osserviamo oggetti o quando osserviamo altri agire avviene anche durante la produzione del linguaggio, sia quando parliamo con altri sia quando scriviamo (D’Ausilio et al. 2009; Pickering & Garrod 2013), sia quando ascoltiamo o

leggiamo (Caligiore et al. 2010; Borghi 2012; Caligiore et al. 2013; Scorolli 2014). L’assunto sottostante è che siano le affordance degli oggetti cui le parole rimandano, e non le parole, a vincolare il modo in cui le idee possono essere combinate, e quindi a influenzare la comprensione sia delle parole stesse che di strutture linguistiche più complesse, come le frasi (Glenberg & Robertson 2000; Borghi 2004). Tant’è che la cinematica dell’afferramento di un oggetto differisce a seconda che si leggano verbi relativi alla semplice interazione con oggetti, come “prendere” o relativi all’interazione con oggetti e con altri, come “porgere” (Gianelli, Marzocchi & Borghi 2017; Gianelli & Gentilucci 2018). Se formuliamo locuzioni come “l’oggetto è bello/brutto/liscio/appuntito, portalo a te/dallo a un’altra/un’amica/una nemica” entra in gioco il tempo. Siamo molto più veloci quando leggiamo frasi relative all’attrarre verso di noi oggetti connotati positivamente, mentre con oggetti connotati negativamente tendiamo a parlare più lentamente. Analogamente, quando simuliamo di avvicinare a noi o a un amico un oggetto parliamo più velocemente di quando formuliamo locuzioni che implicano l’avvicinare l’oggetto a una persona non amica (Borghi, Gianelli & Lugli 2011; Deschamps et al. 2016). La relazione emotiva con l’oggetto modifica gli effetti delle parole sul nostro sistema motorio. Molti di questi comportamenti è possibile farli risalire al dato che l’occhio umano si è evoluto in modo da consentirci di seguire non la testa, ma la direzione dello sguardo altrui (Tomasello et al. 2007) e questo fa pensare che la dimensione sociale abbia un ruolo preminente nel nostro modo di osservare oggetti e che lo sguardo – reale o presunto – degli altri/e ci guidi nel farlo. A questo è però necessario aggiungere che il ruolo attribuito alla sola vista non è in grado di spiegare esaustivamente molti fenomeni sociali. Infatti, anche stimoli olfattivi e uditivi ci

guidano nel percepire e nell’agire con gli oggetti (Aglioti & Pazzaglia 2011). Le ricerche intorno all’analogia fra artefatti e parole mettono in luce che la comprensione del linguaggio è sensibile alla relazione fra linguaggio, affordance e collocazione spaziale degli oggetti rispetto al nostro corpo (Costantini et al. 2010), alla presenza fisica di altri, alla loro presenza psichica e alla nostra dimensione “affettiva” con gli altri e con gli oggetti. Inoltre, manifestiamo una nostra specifica sensibilità alle connotazioni emotive delle parole. Si tratta tuttavia di una relazione flessibile e dipendente dal contesto (Chen & Bargh 1999). Esiste di conseguenza uno stretto rapporto fra linguaggio, percezione, azione e processi emozionali dove la rilevanza comunicativa è quella dialogica (Galantucci & Sebanz 2009). La nozione di affordance è stata recuperata negli ultimi anni (Churchland, Ramachandran & Sejnowski 1994; Hurley 1998; Jacob & Jeannerod 2003; Noë 2004) dopo essere stata trascurata, o meglio snobbata, per lungo tempo, e a questa modalità di concepire la percezione è stato dato il nome di approccio ecologico (Gibson 1950), strutturalmente antitetico alla teoria costruttivista (Deni 2002). Le affordance sono il prodotto emergente di una relazione mutevole e dinamica fra oggetti, organismi e ambiente. Si tratta di presentificazioni in una relazione triadica che riguarda interazioni specifiche come l’afferramento o il manipolamento (Ellis & Tucker 2000; Yoon, Humphreys & Riddoch 2010; Pezzulo et al. 2010; Borghi et al. 2012)3. Il termine oggetto è stato utilizzato sin qui come un termine ombrello, sotto il quale sono stati indicati variegati costituenti. Gli oggetti sono stati classificati in modo assai diversificato, ma da tempo propongo una tassonomia che è strettamente connessa proprio al sistema motorio e agli elementi dati dalla dimensione culturale e sociale.

Secondo la logica descritta gli oggetti sono inventariabili in oggetti-soggetti (soggetti) e in oggetti fisici – a loro volta distinguibili in naturali (montagne, fiumi, laghi di dimensioni mesoscopiche; stelle, galassie di dimensioni macroscopiche; virus, neuroni, quark di dimensioni microscopiche) e socializzabili, cioè gli artefatti (tavoli, sedie, forchette, rastrelli) e in oggetti sociali (promesse, moneta, computer, automobili, Lape, opere d’arte, istituzioni), che necessitano di ulteriori scomposizioni, poiché la tipologia degli oggetti creati dall’esseri umani è particolarmente variegata e risponde a genesi e bisogni articolati (Turri 2011). La primaria distinzione è quella fra soggetti e oggetti, dove il criterio è dato dal possedere o meno un sistema motorio. Ciò che caratterizza i soggetti è il fatto che posseggano un sistema motorio di cui gli oggetti-artefatti, sono privi. Se per gli oggetti fisici si può parlare di funzione propria, e questa dipende dall’oggetto stesso, dalla storia del soggetto e dal contesto, per cui a uno stesso oggetto possono corrispondere affordance diverse e queste possono essere plurime perché sono plurime le funzioni proprie dello stesso oggetto; così si può parlare di funzione propria degli oggetti con sistema motorio, e anche questa dipende dal contesto in cui l’oggetto è inserito, tanto che uno stesso individuo è di volta in volta socialmente esecutore di compiti lavorativi e portatore di funzioni proprie. Un individuo che svolge più lavori può essere cameriere, facchino, insegnante, ma in un contesto diverso essere consumatore, amante, padre o madre, figlia o figlio e così via; tutte funzioni proprie della vita sociale, determinate dalla vita di relazione. Non possiamo intendere la funzione propria degli oggetti con sistema motorio alla stregua del concetto di affordance degli oggetti privi di sistema motorio, perché ne impoveriremmo l’accezione, dal momento che non si tratta di una relazione analoga a quella fra un essere umano e un oggetto, in quanto

sono chiamati in causa due o più soggetti che si relazionano. È accettabile però adottare e introdurre il concetto di affordance, benché si debba parlare di affordance sociale per le funzioni proprie svolte da ciascun individuo in contesti specifici e non di affordance tout court. Un oggetto con sistema motorio svolge funzioni proprie intersoggettive, sociali e collettive a seconda del contesto in cui è inserito e queste affordance sono governate dalle emozioni che si istanziano nelle motivazioni. E a connettere un oggetto a un fine, ad assegnare quindi una funzione, è uno stato intenzionale sorretto da una motivazione e generato da un’emozione (ivi, pp. 23 e 28; Hufendiek 2017). Anche per le parole possiamo parlare di affordance, le quali sono strettamente connesse alle affordance degli oggetti e dei soggetti. Se la domanda per gli oggetti, con o senza sistema motorio, è a che cosa è utile e in quale modo lo è quello specifico oggetto e in quale modo si deve “prendere” perché assolva la sua funzione, così la domanda legata al linguaggio è a che cosa è utile quel termine e in che modo lo si deve dire perché sia efficacie. Per lungo tempo un limite grave delle teorie embodied è stato quello di trascurare l’esperienza linguistica, nei suoi aspetti percettivi, sensitivi, emotivi, plastici e sociali. Pian piano questo limite sta sfumando e alcuni studiosi hanno iniziato a riconoscere la portata dell’esperienza linguistica4 e il suo peso nell’organizzazione percettiva, sensoriale, emozionale in chiave sensomotoria, senza per questo spingersi fino alla ‘mereological fallacy’ (Bennett-Hacker 2003)5. Ciò che è stato trascurato è il dato che le parole sono fenomeni fisici, prodotti da un sistema fonatorio ed elaborati da un sistema acustico o da un sistema visivo, e sono fenomeni generati e fortemente connotati dalle dinamiche emotive.

4.2 Dialogo: prendono vita i concetti Le parole ampliano la nostra cognizione: possono consolidare la nostra memoria quando sono espresse in una poesia o in un pettegolezzo; ci aiutano nel categorizzare stati affettivi, oggetti, eventi e comportamenti; ci sono di ausilio nelle competenze motorie come quando dobbiamo imparare un nuovo sport, come per esempio nuotare, e ci consentono di farlo con maggiore scrupolosità e perizia (Clark 1998; Clark 2008). E le parole proferite sono per la gran parte concetti. La struttura dei processi percettivi e motori è strettamente coinvolta nella determinazione dei concetti e si tratta di processi non astratti, non amodali, non arbitrari. Inoltre, si tratta di processi dinamici che variano a seconda del contesto ambientale, degli scopi e delle motivazioni connessi agli oggetti, ai movimenti, agli atti e alle azioni e vengono strutturandosi a seconda dei contesti e di specifiche situazioni. In quest’ottica, i concetti sono l’ausilio indispensabile per cogliere le affordance degli oggetti (con sistema motorio e senza sistema motorio), le quali consentono di interagire con essi nel modo più appropriato. I concetti, non hanno nulla che corrisponda all’astratto, sono ontologicamente fondati, non esistono prima delle cose, degli atti e delle azioni, ante rem, ma esistono nelle cose, negli atti e nelle azioni, cioè in re (Murphy 2002). Le ricerche in campo neuroscientifico mostrano ormai con evidenza che l’intero organismo presieduto dal sistema motorio, e quindi non solo l’encefalo e/o il sistema nervoso, è coinvolto nella loro determinazione; si tratta di un organismo che interagisce anche in momenti prenatali con l’ambiente fisico, affettivo, intellettivo, sociale e culturale. Ne consegue che esiste un nodo gordiano fra percepire, fare e pensare, cosicché anche la conoscenza è legata alla nostra esperienza sensomotoria. È stato osservato che quando sentiamo parlare di un oggetto si riattivano le stesse aree cerebrali coinvolte nella percezione di tale oggetto (Rizzolatti & Sinigaglia 2006; Gallese 2008a) e il medesimo fenomeno avviene quando sentiamo parlare di un atto o di un’azione (Stephens, Silbert & Hasson 2010). Neuroni

canonici e neuroni specchio svolgono un ruolo significativo anche per quanto concerne i concetti. I neuroni specchio rendono conto di come percezione e movimento possono incrociarsi. E questo è rilevante per meglio comprendere certe attività percettive e cognitive, incarnate non solo nel senso on-line, dove la relazione fra percezione e azione è diretta, ma anche off-line, in cui sussistono figurazioni, immagini mentali e presentificazioni interne, sulle due vie o modalità della visione: una, la via del “cosa”, tesa al riconoscimento e categorizzazione degli oggetti percepiti, l’altra, la via del “dove” o “come”, tesa a guidare direttamente azioni come il raggiungimento dell’oggetto, indipendentemente dal suo riconoscimento. Vie che si intersecano in una dimensione modale (Bottiroli 2013). Vi sono casi in cui la cognizione serve l’azione più “a distanza”, preparando presentificazioni del mondo, elaborando strategie per compiti che non sono immediati ma differiti nel tempo e nello spazio. Allo stesso modo, l’azione può servire la percezione in modo meno diretto da quello postulato dalle descrizioni on-line, e questo in compiti che non si limitano a quelli spaziali. Si tratta in questo caso di un’attività cognitiva che si svolge appunto off-line rispetto a compiti motori e percettivi immediati, ma sempre a contatto col corpo grazie al ruolo giocato dall’immaginazione mentale di azioni percettivomotorie. L’implicazione dell’imitazione sensomotoria di situazioni esterne nella cognizione si concilia infatti con gli studi sperimentali condotti sull’immaginazione mentale (Parsons et al. 1995): non solo l’immaginazione coinvolge presentificazioni analogiche che conservano le proprietà spaziali e funzionali del mondo esterno, ma esiste una stretta connessione fra immaginazione, percezione e movimento. Le immagini mentali possono essere categorizzate in “esterne”, e riguardano l’immaginazione di una certa scena o un certo oggetto, e in “interne” quando si riferiscono alla presentificazione mentale

dell’esecuzione di un determinato atto o azione (Jeannerod 2006). L’immaginazione motoria condivide lo stesso substrato neuronale della comprensione, presentificazione e osservazione dell’azione6. È ragionevole pensare che l’immaginazione di un’azione richieda le stesse caratteristiche temporali corrispondenti alla reale esecuzione. In altre parole, eseguire un atto o un’azione comporterebbe lo stesso tempo che immaginarla: la stessa “cronometria mentale”7. Come è noto i neuroni specchio percepiscono e mentre percepiscono riproducono nel sistema motorio degli individui, pertanto, anche i neuroni specchio consentono di superare la tradizionale dicotomia fra una parte del cervello che fa le cose e una che sa che cosa significano i movimenti, gli atti e le azioni. Di conseguenza, viene meno la distinzione fra azione e semantica dell’azione stessa e non è possibile ridurre la percezione alla raffigurazione di una cosa, indipendente da qualsiasi dove e da qualunque come (Rizzolatti & Sinigaglia 2006, p. 96, nota 12; Rizzolatti & Sinigaglia 2008). Inoltre, ricordo che esistono specifici neuroni specchio, quelli eco, che si attivano nel riconoscimento vocalico e quindi nei dialoghi (Buccino et al. 2005). Sappiamo che affinché si verifichi dialogo è necessario che sia nel parlante che nell’ascoltatore si attivino le medesime riproduzioni motorie rilevanti fonologicamente, pertanto, le parole riguardanti oggetti, movimenti, atti, azioni, entità, eventi, stati affettivi in genere, concetti potrebbero essere definiti da legami semantici fra elementi linguistici e programmi motori. L’ipotesi sorge dall’osservazione che nell’infanzia le parole s’imparano in un contesto connaturato da bisogni, desideri, giochi, attività o racconti durante i quali si eseguono gesti, compresi il pronunciamento delle parole legate a oggetti, gesti e concetti. Un bambino compie un gesto e contemporaneamente colui che lo sta accudendo utilizza la parola che si riferisce

all’oggetto desiderato, a un compito o a un’emozione e così il bambino acquisisce il linguaggio. Se definiamo la comunicazione gestuale come la capacità di emettere e riconoscere gesti significativi, è più che plausibile che il sistema dei neuroni specchio possa fungere da base neuronale per le competenze comunicative (Fogassi & Ferrari 2004; Gentilucci & Corballis 2006; Rizzolatti & Sinigaglia 2006). In uno scambio comunicativo, composto di produzione e ricezione, si presuppone che ci sia una sorta di vocabolario condiviso fra gli attori della comunicazione, un “requisito di parità” a cui attingere per comprendere i significati (Arbib 2005; Rizzolatti & Sinigaglia 2006). Se, come è stato provato, i neuroni specchio fanno da substrato neurale ai dialoghi, è evidente che la produzione e la comprensione condividono lo stesso vocabolario acustico-motorio e queste due capacità di conseguenza sono intimamente connesse (Liberman & Mattingly 1985). L’ipotesi che entrambe facciano capo al medesimo substrato corticale risulta vantaggiosa sia in termini economici sia in termini di tempo impiegato nel processo di comprensione del parlante e del parlato da parte del ricevente. Comprendere il parlare del parlante e comprendere, l’“afferrare”, il significato delle parole non è la stessa cosa, ma il parlare del parlante e il parlato sono inseparabili. “Nella lingua un concetto è una qualità della sostanza fonica, così come una determinata sonorità è una qualità del concetto. [Il significante, costituendo l’aspetto materiale del significato, non può che possederne gli stessi tratti distintivi e questa] consustanzialità del significante e del significato assicura l’unità strutturale del segno linguistico” (Benveniste 1939, p. 64). Quello che in questi ultimi anni è emerso è che per quanto riguarda gli oggetti “artefatti” (rastello, strumenti musicali, mezzi di trasporto) la loro denominazione attiva la corteccia premotoria ventrale sinistra ma anche le aree temporali (Chao &

Martin 2000), mentre è emerso un ruolo del lobo temporale sinistro per quanto concerne la categoria “entità biologica”, divisa a sua volta in “oggetti animati” (animali) e “inanimati” (vegetali), quindi con una distinzione a seconda delle sottocategorie, che nel primo caso interesserebbe le aree temporali sinistre più anteriori, mentre nel secondo le categorie “frutta” e “verdura” interesserebbero le porzioni media e posteriore del giro fusiforme sinistro (Capitani et al. 2003; Capitani et al. 2009; Scott et al. 2000). Però non esiste un’associazione rilevata fra una categoria semantica e la modalità di accesso della conoscenza stessa (visiva, tattile, uditiva), non vi sarebbe quindi, una correlazione fra tipo specifico di categoria semantica e modalità di conoscenza. I due domini – esseri viventi e oggetti inanimati – differiscono fra loro relativamente al grado con cui le caratteristiche condivise e distintive di un oggetto sono correlate. Mentre gli esseri viventi tendono ad avere caratteristiche molto condivise, altamente correlate (“ha gli occhi”, “ha il naso”, “ha la bocca”), le loro caratteristiche peculiari sono debolmente correlate con quelle di un altro oggetto. Gli oggetti non-viventi, invece, tendono ad avere molte caratteristiche specifiche, distintive, che sono strettamente correlate con le altre caratteristiche di un oggetto non vivente, grazie in particolare a un legame di tipo funzionale (“ha una lama” e “utilizzato per tagliare”). La distinzione fra i due domini sarebbe l’esito di un adattamento evolutivo che avrebbe portato alla selezione di quelle categorie utili per la sopravvivenza (Laiacona, Capitani & Caramazza 2003). L’aspetto interessante è che le aree attivate durante l’osservazione o la denominazione di oggetti sono contigue a quelle attive durante l’utilizzo degli oggetti stessi (Martin 2007). Intuitivamente, è particolarmente persuasiva l’idea che la comprensione di parole connesse a categorie di oggetti concreti

come lo sono cucchiai, forchette, coltelli, tavoli, chitarre, cani, pesche comportino la riattivazione delle aree cerebrali normalmente attive quando percepiamo visivamente quegli oggetti. Per esempio, nel caso del termine chitarra è plausibile che si riattivano le aree che si attivano quando percepiamo uditivamente il suono emesso dalle sue corde o quando, ancora, agiamo su di essa per suonarla. Sostanzialmente comprenderemmo la parola ‘chitarra’ grazie al fatto che il nostro cervello ripresenta le esperienze sensomotorie che abbiamo avuto delle chitarre. Nello specifico, si è osservato che quando si comprende una parola, il nostro cervello attiva le stesse aree cerebrali che sono attive quando si percepisce l’oggetto cui quella parola si riferisce. Ad esempio, quando sentiamo pronunciare o leggiamo la parola “tavolo”, “cane” o “gatto” si attivano nel nostro cervello le medesime aree che si attivano quanto percepiamo questi differenti tipi di oggetti e nel caso dei due animali citati i loro movimenti tipici, le loro fattezze, le loro caratteristiche, recuperandole dalla nostra memoria a lungo termine (Scorolli & Borghi 2013). Secondo l’immagine standard del linguaggio, all’interno delle lingue è possibile operare una distinzione fra termini concreti e termini astratti: si considerano concreti quei termini il cui significato si determina sulla base di proprietà osservabili del mondo esterno, mentre sono astratte le parole il cui significato si costruisce inferenzialmente sulla base di altre (Cruse 2000, p. 52). Per alcuni astratto e concreto descrivono due poli opposti, per altri due poli di un continuo: una parola è tanto più concreta quanto più diretto è il legame che intrattiene con l’osservazione e viceversa. Le teorie circa i concetti astratti, apparentemente più complessi di quelli concreti, sono molteplici ed è difficile ricostruirne sinteticamente una panoramica generale (Pecher,

Boot & Van Dantzig 2011; Borghi & Binkofski 2014). Una posizione radicale è quella di coloro che sostengono che tanto i concetti astratti quanto quelli concreti sono rappresentati in maniera puramente linguistica. I concetti sarebbero pure associazioni verbali (Landauer & Dumais 1997; Burgess 1998). In questo caso l’astratto è concepito, in linea con la concezione classica, come un costrutto realizzato su base linguistica. Comunque, la maggior parte delle teorie sui concetti astratti non riescono a rendere conto tanto del radicamento percettivo quanto della costruzione linguistica. Alcune posizioni di mediazione concedono che i concetti astratti non siano tutti equivalenti, ma che alcuni di questi siano più fortemente o direttamente legati alla percezione – interna o esterna che sia –, mentre altri sarebbero composti in maniera preponderante da informazioni linguistiche. In realtà, se i concetti astratti non fossero, nemmeno indirettamente, radicati in alcuna forma di percezione, sarebbe difficile spiegare come possano essere davvero compresi e applicati a situazioni concrete. Attualmente alcune ricerche che hanno messo in luce che le parole concrete le “capiamo” con un coinvolgimento maggiore della mano e quelle astratte con il coinvolgimento determinante della lingua e delle labbra. Cioè, per certi concetti – linguaggio, ontologia, metafisica, epistemologia, ermeneutica, grammatica, sintassi, semantica, pragmatica, logica, analitica, dialettica, proprietà, intero, infinito, primo, secondo, nota, musicale, ritmo, melodia, classico e altri infiniti termini – nel nostro cervello entra in funzione il sistema motorio della bocca, dove il ruolo della socialità e in specifico della conversazione faciliterebbe l’acquisizione di concetti astratti complessi. Il peso delle caratteristiche semantiche sensoriali percettive svolgerebbe quindi un ruolo anche per coloro che ritengono che i termini concreti e astratti si diversifichino in base alle modalità di acquisizione (Macoir 2009)

e la percezione diventa anche per loro la chiave per l’acquisizione dei primi, mentre i secondi verrebbero acquisiti su base unicamente verbale. Il che implica, in questa ottica, erroneamente, che il verbale non racchiuda elementi percettivi, negando così a monte la natura del suono. Questi studiosi tendono a sottovalutare il dato che in entrambi i casi abbiamo a che fare con esperienze corporee, le prime più legate alle azioni dirette del corpo sul mondo, le seconde ai gesti vocali, ossia alle azioni del parlante. L’idea che sottende alle argomentazioni sui concetti è quello di somiglianza di famiglia, elaborato da Wittgenstein, il quale confuta l’idea che ogni concetto sia caratterizzato da un insieme di proprietà necessarie e sufficienti a definirne l’appartenenza, o che un concetto abbia una sua “essenza logica”. Ogni concetto è sostanzialmente “una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e incrociano a vicenda” (Wittgenstein 1953, oss. 66). Alcuni ricercatori hanno preso molto sul serio il ruolo della percezione e suggeriscono un punto di vista radicale per cui tanto i concetti astratti quanto quelli concreti sono presentificati in maniera concreta, per esempio tramite il ricordo di plurime situazioni che esemplificano un concetto specifico (Barsalou 1999; Barsalou & Wiemer-Hasting 2005). Si tratta di teorie che tengono maggiormente conto degli aspetti corporei della cognizione, sebbene la maggior parte delle posizioni che sostengono che tutti i concetti sono concreti attribuisca comunque un ruolo all’informazione linguistica in riferimento ai concetti astratti (Borghi et al. 2017). La questione verte su cosa si intende per “informazione linguistica”. Nel caso in cui si faccia riferimento a categorizzazioni o a concetti concreti come “coltello” è ovvio che sia sufficiente aver visto più di un esemplare e quindi si è in grado di fare riferimento all’esperienza concreta (Fernandino & Iacoboni 2010; Turri 2011;

Fernandino et al. 2015). Per esempio, la caratteristica astratta che definisce un “coltello” non è altro che la sua definizione pragmatica di “affilatezza” e questo consente l’inserimento del coltello nel concetto di “affilatezza” o nel concetto sovraordinato di “utensili da taglio”, permettendo di accogliere all’interno del medesimo concetto anche altre istanze specifiche come “vetro rotto” o “lametta da barba”. Tutto avviene attraverso una relazione puramente funzionale-pragmatica ancorata al significato. Infatti, per definire una “sedia” come tale, non occorre la presenza di una particolare proprietà, ma occorre meramente che ricorrano alcuni dei tratti concreti che tipicamente caratterizzano le sedie. Invece, per concetti come “uguaglianza”, “fraternità”, “libertà” è indubbiamente necessario il contributo che deriva dalle spiegazioni acquisite nello scambio conversazionale con altri o tramite letture che ne descrivano praticamente e astrattamente il concetto (Borghi 2015; Borghi et al. 2018; Villani et al. 2019), coinvolgendo il sistema motorio legato alla produzione linguistica e in particolare la bocca (Barca et al. 2002; Della Rosa et al. 2011). La qual cosa sembra valere anche per i concetti legati alle emozioni (Ghio et al. 2013), più di quanto avvenga con i concetti concreti per i quali non è richiesta una risposta verbale (Borghi et al. 2018) ma piuttosto un’interazione con la mano più che con la bocca (Granito, Scorolli & Borghi 2015; Borghi & Zarcone 2016)8. L’attivazione della bocca con i concetti astratti può dipendere non solo da una delle modalità di acquisizione del concetto, la verbalizzazione, ma anche per l’alta complessità dei termini astratti, i quali hanno la necessità di essere spiegati e dobbiamo anche rispiegarli a noi stessi per il loro significato e lo facciamo tramite il linguaggio interno non vocalizzato. Il concetto astratto “libertà” è infatti complesso e aggrega esperienze molto diverse fra loro e spesso molto soggettive – uscire dalla prigione, fare quello che si vuole, dire o scrivere

quello che si pensa, andare dove si vuole, camminare nei boschi – e richiede il contributo di altri, i quali forniscono spiegazioni al parlante e ai quali il parlante pone domande. L’acquisizione di un concetto astratto avviene certamente tramite l’esperienza concreta dello scambio e della comprensione di parole e frasi – non è escluso che vi possa giocare anche un ruolo l’esperienza situazionale –, e di conseguenza quando pensiamo a un concetto astratto rievochiamo l’esperienza linguistica, sia legata all’apprendimento di questo concetto, sia alla necessità di rivolgersi ad altri per comprenderne il significato. In entrambi i casi attiviamo il sistema motorio legato alla bocca. Nel contempo siamo anche in grado di esemplificare l’esperienza o le esperienze correlate al concetto. Come sappiamo, il complesso di Broca presidia l’emissione con la bocca delle parole e il funzionamento della mano e dei movimenti fini – fini sono anche i concetti astratti –, il che comproverebbe il dato che esiste una stretta relazione fra la dimensione concreta e quella astratta, tanto che per fare degli esempi ho dovuto ricorrere a esperienze concrete, fra cui quella dello scambio di informazioni con altri e quindi esperienze prettamente sociali e che implicano il sistema motorio (Vygotskij 1931-33/1984; Vygotskij 1934, pp. 134-135). L’organizzazione e la presentificazione delle parole concrete potrebbe essere di tipo prevalentemente “categoriale”, mentre i concetti astratti potrebbero generarsi ed essere compresi in relazione e in associazione ad altri stimoli “contestuali” (Warrington & Crutch 2004; Crutch & Warrington 2005a, Crutch & Warrington 2005b) oltre che alle informazioni linguistiche. I concetti astratti, legati alle metafore, hanno messo in luce, e lo hanno fatto in misura significativa, che il ruolo del sistema sensomotorio non è limitato alla riattivazione di conoscenze esistenti ma ha anche una funzione generativa, che consente di allargare i repertori individuali di concetti, immagini e nozioni,

grazie all’esplorazione attiva dell’ambiente. I concetti, di conseguenza, significano non per via di un atto intellettivo di astrazione, ma in quanto risposta all’ambiente e alla situazione (Leung et al. 2012). Quindi, si può supporre che sia le parole concrete che quelle astratte attivino il sistema sensoriale e motorio, anche se il circuito motorio cui le parole concrete e astratte fanno riferimento è diverso, poiché i termini astratti differiscono da quelli concreti perché attivano in misura maggiore altri termini, oltre che esperienze sensorimotorie non linguistiche o linguistiche. Per esempio, quando pronunciamo o comprendiamo parole astratte come “libertà”, lo facciamo facendo ricorso sia all’associazione del termine con immagini di situazioni ed eventi specifici, sia a definizioni che rimandano ad altre parole (Prinz 2002; Gallese 2008b). Non vi è dubbio che anche i concetti astratti sono ancorati all’apporto di diversi tipi di esperienze sensomotorie, linguistiche e non linguistiche (Hofstadter & Sander 2013, p. 312). In questa direzione è possibile spiegare la ragione per cui i bambini acquisiscono prima le parole concrete di quelle astratte (McGheeBidlack 1991), e apprendono le parole prima tramite modalità percettiva – per esempio, la parola “pesca” viene pronunciata in presenza di una pesca – che tramite modalità linguistica – per esempio, la parola “democrazia” viene illustrata tramite definizioni (Wauters et al. 2003). In secondo luogo, si spiega perché negli adulti le aree dell’emisfero sinistro, fra cui soprattutto il complesso di Broca, si attivano più con le parole astratte che con quelle concrete (Sabsevitzet et al. 2005) e perché le parole astratte si appoggino più di quelle concrete su associazioni semantiche (Crutch & Warrington 2005b). Una nutrita serie di evidenze sperimentali suggerisce lo stretto collegamento fra sistema dei neuroni specchio e semantica del linguaggio, parole e frasi. Pertanto, la

comprensione linguistica avverrebbe perché le informazioni di tipo acustico vengono confrontate con quelle parti del nostro sistema percettivo e motorio che consentono di produrre l’identico materiale verbale (Gallese & Lakoff 2005; Gallese, Migone & Eagle 2006). I concetti astratti non sarebbero altro che il frutto di un processo di progressiva metaforizzazione di contenuti esperienziali concreti. Per esempio, quando si ascolta una parola come “rotondo” o “rosso” si attivano le aree temporali inferiori, vicine alla corteccia visiva, mentre ai termini “tartufo” o “cannella” si attivano quelle olfattive, e ancora per azioni come “porgere” o “calciare” o per espressioni come “afferrare un concetto”, si attivano le aree motorie e premotorie corrispondenti alle azioni nominate: le gambe per camminare e le mani per afferrare (Pulvermüller 2005; Pulvermüller 2008; Pulvermüller 2012; Pulvermüller 2013). In particolare, per quanto attiene ai verbi di azione è rilevante l’intreccio fra semantica, pragmatica, percezione e sistema motorio (Stephens, Silbert & Hasson 2010). Quando sentiamo o leggiamo la parola ‘galoppare’ si attivano le aree motorie del nostro cervello funzionanti quando riconosciamo l’azione del galoppare, ossia quando vediamo un cavallo che galoppa. Ancora, quando sentiamo o leggiamo la parola ‘camminare’ si attivano le aree motorie, e i neuroni specchio corrispondenti, che sono funzionanti quando noi camminiamo o quando vediamo altre persone che camminano. Questa interpretazione spiegherebbe anche i meccanismi neuronali alla base della categorizzazione percettiva di fronte a gesti nuovi o potenzialmente diversificati. In questo caso i neuroni presenti in F5 consulterebbero il vocabolario d’atti e di azioni e “pronuncerebbero” la strategia motoria più efficace, per esempio per afferrare un cibo. Vi sono infatti neuroni che rispondono quando un pezzetto di cibo viene afferrato con la mano destra, con la sinistra o con la bocca, cioè con tre parti

corporee molto diverse fra loro. Dal che se ne è dedotto che il cervello contiene il concetto generale di “afferramento”, indipendentemente dal modo in cui esso viene effettivamente eseguito. Questo vale sia che si afferri, si manipoli, si spezzetti, si trattenga. Si tratta di neuroni che presentificano le finalità e quindi è necessario riconoscere ai neuroni motori di essere depositari di alcune abilità tradizionalmente attribuite a facoltà cognitive “superiori”, cioè la categorizzazione. Quando immaginiamo di compiere un’azione o un atto motorio, senza però realmente eseguirli, si attivano proprio le aree premotorie (Roland et al. 1980), seguendo uno dei principi basi della biologia, cioè l’economicità della struttura dell’organismo: è molto più economico infatti codificare le finalità che non le combinazioni di movimenti, e questo perché le finalità sono in numero limitato, mentre le combinazioni di singoli movimenti sono potenzialmente infinite. È indubbio quindi che il sistema motorio rappresenta la nostra conoscenza in “prima persona” anche sul piano della struttura linguistica. Una simile organizzazione funzionale ci consente inoltre di interagire con l’ambiente sfruttando al meglio le potenzialità che questo ci offre. Per tutto ciò, ne consegue che nel nostro sistema motorio cerebrale esiste davvero un vocabolario di atti e azioni motorie specifico per ciascun atto e ciascun atto o azione in cui le parole sono rappresentate da popolazioni di neuroni 9. I neuroni specchio risultano inoltre fondamentali per la comprensione semantica sia nel senso specifico del termine sia nel significato connesso al tono e al ritmo del loro pronunciamento; cosicché queste cellule sono fondamentali anche nella comprensione dei termini che evocano emozioni, come nel caso di rabbia e tristezza, veicolate tramite la vocalità o tramite la percezione di alterazioni motorie del corpo “non

vocalizzante”10. La centralità della semantica fa sì che non esista una struttura grammaticale astratta priva di significato, è il significato a determinare la struttura grammaticale. Ogni elemento grammaticale è dotato di significato (Langacker 1991; Langacker 1998; Langacker 2008) e la significazione è una co-costruzione di significati in interazione (De Jaegher & Di Paolo 2007; De Jaegher & Froese 2009; De Jaegher, Di Paolo & Gallagher 2010; Di Paolo, Cuffari & De Jaegher 2018) e non una dinamica individuale. La grammatica risiede invece nelle connessioni neurali fra i concetti e la loro espressione tramite fonologia. Cioè, la grammatica è costituita dalle connessioni fra gli schemi concettuali e gli schemi fonologici. La struttura grammaticale gerarchica è così la struttura concettuale, mentre la struttura grammaticale lineare è fonologica. La semantica della grammatica è pertanto costituita da ingranaggi circuitistrutturati utilizzati nel sistema sensoriale-motorio. Le reti neurali relative alla grammatica si sono sviluppate in aree deputate ai circuiti relativi ad azioni coordinate e complesse (Pulvermüller & Fadiga 2010), evidenziando così il legame fra aree motorie e aree linguistiche connesse alla grammatica; e per quanto riguarda la fonologia, esiste una letteratura consolidata e ripresa di recente sulle relazioni fra aspetti fonologici e i significati (Flumini, Ranzini & Borghi 2014). Inoltre, le categorie sintattiche e morfologiche non nascono già come sintattiche e morfologiche, bensì invece come lessicali, e quindi pienamente incarnate (Heine & Kuteva 2002). La sintassi è sostanzialmente una specializzazione e formalizzazione dei gesti corporei (Bergen & Wheeler 2010; Candidi et al. 2010; Zwaan, Taylor & De Boer 2010). In tale ottica il linguaggio non sarebbe un sistema amodale, ma una facoltà cognitiva con struttura percettivo-motoria, che ripesca dalle esperienze percettivo-motorie passate il significato

stesso delle parole e nel contempo il parlante darebbe vita a esperienze percettivo-motorie nuove. Per definire il significato di una parola, o quantomeno per accedere a esso, è necessaria una riattivazione percettivomotoria poiché la comprensione di una parola avviene attraverso la riattivazione della presentificazione percettivo-motoria delle parole, all’interno di uno specifico contesto (Gallese 2007, Gallese 2008, Glenberg & Gallese 2011; Glenberg & Gallese 2012; Marino et al. 2012). Inoltre, credenze, desideri, finalità e intenzioni che l’ascoltatore attribuisce al parlante hanno un ruolo nel determinare il significato inteso. Il punto di vista, lo stato del parlante e le proprietà del reale che intende enfatizzare sono elementi interconnessi. L’estensione delle percezioni, degli atti e delle azioni umane ha permesso, e permette, di costruire alberi semantici via via sempre più astratti: per esempio la frase “ciliegie sugli alberi” fa sorgere nell’ascoltatore, o nel lettore, una scena strutturata gerarchicamente, poiché si avvale materialmente di una enumerazione sotto forma di elenco di tre concetti successivi: ciliegie, sopra, alberi (Arnheim 1969, p. 290), così come avviene per bicchiere – acqua – sete – pranzo (Deacon 1997, p. 292). Questa costruzione ad albero è resa possibile dal fatto che il linguaggio verbale possiede a sua volta proprietà a suo modo strutturanti, in grado di organizzare significati che derivano da percetti, e solo successivamente, attraverso processi associativi, questi percetti sono ancorabili a configurazioni linguistiche. Inoltre, il significato del parlato non è fisso, ma flessibile e dinamico e quindi non funziona come un dizionario, ma è enciclopedico, comprende una gamma vasta di conoscenze e credenze. Immaginare di comprendere il significato di un termine, o di un’espressione linguistica, senza tenere conto dell’intera conoscenza enciclopedica connessa a quello specifico termine o espressione è impossibile (Fillmore 2006). Per esempio,

i verbi “vendere”, “comprare”, “spendere” richiamano il medesimo frame in cui si reperiscono “venditore”, “acquirente”, “dare soldi”; e una espressione più articolata come “vendere qualcosa a qualcuno”, dipende dalla comprensione sia del frame descritto sia delle relazioni all’interno del frame fra soggetti, e gli specifici significati e il significato relazionale sono tali se sono condivisi, se ne è riconosciuta l’intenzionalità e la finalità (Tomasello 2009). Il termine frame è stato utilizzato con diverse sfumature di significato. Per esempio, per Marvin Minsky un frame è una struttura che rappresenta alcuni tipi di situazioni stereotipate (Minsky 1974), come andare a una festa di compleanno o al ristorante, e i frame sono particolarmente utili nella generazione di aspettative e di inferenze. Si tratta sostanzialmente dell’elaborazione del concetto di “schema”. Quando uno schema è costituito da una sequenza temporale di eventi, legati fra loro da un rapporto di causa-effetto, ci si trova di fronte a una struttura diversa che è definita script (Shank & Abelson 1977). Gli script sono un complesso di elementi in grado di descrivere un’appropriata successione di eventi in un contesto particolare e sono fondamentali per la generazione d’inferenze durante la comunicazione quotidiana e particolarmente utili nella comprensione dei testi. Consentono infatti di ricostruire il legame logico fra gli eventi descritti quando la narrazione tralascia alcuni passaggi e forniscono all’inizio di una narrazione gli elementi per individuare il genere del testo, produrre aspettative, inferenze e deduzioni. Gli script sono però muti rispetto al presentarsi di situazioni del tutto nuove. Per quanto concerne i concetti astratti si tratta comunque di chiarire meglio come avvenga la formazione e la presentificazione di termini astratti come ‘dogma’, ‘giustizia’, ‘falsità’, ‘onnipotenza’, ‘funzione’, ‘conseguentemente’, ‘emancipare’, i quali non corrispondono a oggetti concreti

immediatamente percepibili, ma che appaiono come molto differenti fra loro (Kousta et al. 2011, p. 26; Ponari et al. 2017). I concetti hanno bisogno di essere classificati perché non sono tassonomicamente omologabili. Ci sono concetti astratti che sono per esempio concetti prettamente sociali (promessa, moneta), altri che sono istituzionali (Governo, Parlamento), o matematici (numero, teorema), o emozionali (Crutch et al. 2013; Roversi, Borghi & Tummolini 2013; Ghio et al. 2013, Ghio et al. 2016). I concetti astratti differiscono fra di loro (Villani et al. 2019) e la valenza emozionale facilita l’acquisizione dei concetti astratti nell’età scolare (Vigliocco et al. 2013; Ponari et al. 2017). E gli stessi concetti emozionali hanno uno stato ambiguo (Altarriba & Bauer 2004; Kousta, Vinson & Vigliocco 2009; Borghi & Binkofski 2014) e si tratta di indagare quali siano gli elementi che li riconducono a stati percettivi (Simmons & Barsalou 2003; Gallese & Lakoff 2005; Prinz 2005; Kemmerer & Eggleston 2010; Borghi & Pecher 2011; Kiefer & Pulvermüller 2012; Faschilli 2014)11. 4.3 Dialogo: prendono vita le emozioni I concetti emozionali sono stati considerati o una sottocategoria o alla stregua dei concetti astratti (Kousta et al. 2011), ma i concetti emozionali rispondono in parte a un altro ordine concettuale (Altarriba, Bauer & Benvenuto 1999; Altarriba & Bauer 2004; Setti & Caramelli 2005) e con buona probabilità hanno differenti rappresentazioni neurali (Skipper & Olson 2014). Lo sviluppo sia dei concetti astratti che di quelli emozionali sembra essere condizionato dal ciuccio. Perché porre l’attenzione nelle ricerche neuroscientifiche, legate alla struttura linguistica e alla dimensione concettuale, proprio su questo oggetto? La risposta sta nel fatto che una delle prime tappe dello sviluppo dell’individuo è la percezione di sé come oggetto

distinto da altri oggetti, animati o inanimati, e, attualmente, si ritiene che questo processo si istanzi fra la sesta e l’ottava settimana di gestazione. Proprio le osservazioni all’interno del ventre materno indicano che possa trattarsi di una dinamica che inizia ben prima della nascita. La percezione di sé è rivelata soprattutto dal fatto che, a partire dalla fine del primo trimestre di gestazione – undicesima e dodicesima settimana –, il feto mostra movimenti di suzione e deglutizione e nelle due settimane successive inserisce le dita e il pollice in bocca, tanto che i movimenti di suzione e deglutizione del liquido amniotico sono visibili in quasi tutti i feti nella quindicesima settimana. Infine, i movimenti antero-posteriori e di avvolgimento della lingua si specializzano fra la diciottesima e la ventunesima settimana, e i movimenti di suzione, delle labbra e della lingua si coordinano meglio con la deglutizione fra la ventiquattresima e la ventottesima settimana e intorno proprio alla ventottesima settimana questi movimenti si coordinano anche con i movimenti respiratori. La suzione è quindi un’azione presente sin dalle prime settimane di vita e progressivamente si interpola con altri comportamenti. Questa rilevante fase, che ha ovviamente al centro il corpo proprio, è frutto della progressiva dinamica esperienziale che il soggetto fa a livello motorio e sensoriale, scoprendo per questa via il rapporto con il mondo esterno e, probabilmente, con il mondo interno. Un rapporto che può presentarsi come piacevole o come non piacevole (doloroso). E se, a fondamento dei meccanismi di apprendimento sembra realistico che stiano le dimensioni sensitive – per dirla con la formulazione aristotelica il piacere e il dolore –, a caposaldo della vitalità sta l’individuazione e il soddisfacimento dei bisogni e del loro derivato, i desideri. È necessario di conseguenza determinare quali siano i segnali di quando bisogni e desideri nel bambino

sono appagati, e se lo sono del tutto o anche solo parzialmente. Il soddisfacimento del bisogno, o del desiderio, è stato concettualizzato con il termine piacere e il principio del piacere è stato considerato come primum movens della vita psichica, fin dalle origini della psicanalisi. Rispetto ai bisogni e ai desideri, data la natura relazione dell’essere umano, sono centrali le risposte che i caregiver mettono in atto, poiché i loro riscontri condizionano lo sviluppo psicomotorio del soggetto. Tanto che, una risposta non tempestiva e adeguata all’appagamento immediato del piacere porta il bambino ad attuare le iniziali strategie per ricercarlo. Ed è in questo senso che, proprio nelle prime settimane di vita, si manifesta la possibilità di denotare modalità di autoconsolazione, autonome dal mondo esterno. Inoltre, per accentuare richieste legate a bisogni e desideri, alla suzione già presente nel feto, si aggiunge il pianto, utile per indicare la necessità non solo di bisogni e desideri, considerati primari come il cibo e il bere, ma anche l’esigenza del gioco. In questa dinamica diventa centrale l’uso del ciuccio, un oggetto che viene proposto e utilizzato dai caregiver. La differenza fra la suzione originaria tramite il dito e quella tramite il ciuccio è sostanziale, poiché nel primo caso si tratta di una parte del corpo adattabile alla muscolatura della bocca essendo essa stessa ricca di muscolatura, mentre nel secondo caso si tratta di un oggetto, sì morbido, ma sostanzialmente privo di plasticità. È questo aspetto che introduce la sua possibile relazione con la struttura linguistica. Come sappiamo, nell’interazione con lo sguardo dei caregiver, il cucciolo d’uomo reagisce con gorgheggi e sorrisi, dando vita così a un primo abbozzo di dialogo, e l’attenzione ai movimenti delle labbra dell’interlocutore e la conseguente imitazione della mimica facciale sono peculiari per gli sviluppi emotivi successivi. Inoltre, anche il pianto è centrale nella comunicazione, il che

implica avere una buona respirazione e modulare il fiato per poter poi parlare. In entrambi i casi è cruciale sviluppare una raffinata motricità dei muscoli facciali, che il ciuccio, data la rigidità che lo caratterizza, impedisce, impedendo conseguentemente anche il processo emulativo e imitativo dell’adulto. L’insieme di questi comportamenti, se inibiti, non consentono di fare una ricca e molteplice esperienza nella produzione di suoni, dai gorgheggi alla lallazione, ai primi suoni onomatopeici. In tutte queste esperienze, il ciuccio diventa un ingombrante ostacolo a una variegata esercitazione dei muscoli oro-boccofacciali, obbligando a uno stesso movimento ripetitivo e impedendo un uso completo e articolato della lingua, riducendo di conseguenza l’uso della voce e una libera interazione con l’interlocutore. Il ciucco limita e condiziona, in primo luogo, la produzione, la riproduzione e la risposta emotiva. Aspetto accentuato dal fatto che l’utilizzo o meno di questo oggetto dipende soprattutto dal modo in cui il caregiver interpreta i bisogni del bambino. Seno e ciuccio – il dito è una scelta autonoma – vengono, infatti, offerti al bambino in base all’interpretazione del suo comportamento e dei suoi bisogni, assumendo quindi diversi significati all’interno delle relazioni di accudimento, fatte di richieste e risposte reciproche. Le ricerche neuroscientifiche hanno, come in parte era immaginabile, evidenziato che il ciuccio riduce l’esperienza sociale e la percezione delle situazioni emozionali, in particolare l’espressione del sorriso per via dei muscoli facciali coinvolti (Foroni & Semin 2009; Niedenthal et al. 2012; Rychlowska et al. 2014). Sembra invece che il dito pollice non inibisca nel lungo periodo le medesime competenze (Niedenthal et al. 2012). Quella del ciuccio è quindi una questione connessa con la dimensione sensomotoria (Kiefer & Pulvermüller 2012) e con le questioni linguistiche e sociali, ed entrambe hanno un

importante ruolo nell’acquisizione e nello sviluppo dei concetti (Borghi et al. 2017; Pexman 2017; Ponari et al. 2017). Ne consegue, che il ciuccio renderebbe più complesso acquisire i concetti tramite la bocca visto che impedisce la mimetica completa del gesto linguistico e quindi influisce sia sui concetti astratti sia su quelli emozionali (Kousta et al. 2011; Newcombe et al. 2012; Vigliocco et al. 2013; Siakaluk, Knol & Pexman 2014; Barca, Mazzuca & Borghi 2017), e così i due tipi di concetti in riferimento al ciuccio sembrano comunque correlati. Inoltre, il ciuccio rende effettivamente più difficile manifestare e riconoscere le emozioni tramite la dimensione mimetica delle espressioni facciali (Niedenthal et al. 2012). Sarebbe comunque l’introspezione con il suo dialogo interno la modalità in grado di generare il recupero del ruolo della bocca nel sistema motorio, in modo da creare le competenze connesse alla formulazione e al riconoscimento dei concetti emozionali e dei concetti astratti (Borghi & Zarcone 2016). I concetti emozionali non attivano comunque solo la bocca ma anche la mano, l’arto che utilizza maggiormente il tatto (Moseley et al. 2012), infatti i concetti emozionali attivano le regioni limbiche coinvolgendo la corteccia precentrale che attiva bocca e mano, parole a questi due effettori legate (Dreyer et al. 2015). Le emozioni sono intimamente legate agli stati corporei nel senso che avere un’emozione li modifica. Infatti, determinano cambiamenti nel battito cardiaco, nella frequenza respiratoria, nella temperatura corporea, nella tensione muscolare, nelle espressioni facciali. Importanti teorie nel panorama recente hanno sostenuto una prospettiva percettiva suggerendo che almeno alcune emozioni di base vengono riconosciute e tipizzate per via diretta sulla scorta delle percezioni corrispondenti generate dai cambiamenti corporei (Craig 2002; Craig 2003; Damasio 1999b; Prinz 2006).

Dal punto di vista di queste teorie, l’informazione corporea risulta dunque essenziale non solo rispetto alla categorizzazione di termini che denotano stati corporei di carattere fisico, ma anche emozioni (Dellantonio & Pastore 2017, cap. 5). Questa particolarità delle emozioni è evidenziata anche da diversi studi sul linguaggio che mostrano come i termini emotivi costituiscano una classe terminologica a se stante che non è assimilabile né ai termini osservativi, concreti, né a quelli astratti, inferenziali. La peculiarità di questi termini sembra risiedere nel fatto che – pur non essendo ritenuti concreti – mantengono un forte legame con la percezione; un legame tuttavia che è significativamente più debole rispetto a quello riscontrato nei termini che denotano stati interni di carattere più propriamente fisico come “dolore”, “fame”, “prurito”, “equilibrio” (Altarriba, Bauer & Benvenuto 1999; Altarriba & Bauer 2004; Wiemer-Hastings & Xu 2005; Kousta, Vinson & Vigliocco 2009; Dellantonio et al. 2014). Questo legame con la percezione suggerisce che l’informazione corporea e le percezioni che da questa derivano siano rilevanti rispetto alla categorizzazione delle emozioni. Molti dei concetti astratti di uso comune – si pensi a “giustizia”, “verità”, “amicizia”, “democrazia”, “libertà”, “morale”, “fratellanza” – si caratterizzano per una componente emotiva o quantomeno per una valenza emotiva, nel senso che il loro contenuto include un’emozione – l’amicizia include l’affetto verso l’amico – oppure va insieme a essa – la giustizia si caratterizza per un’essenza emotiva dalla natura positiva, infatti le emozioni giocano un ruolo rilevante nella elaborazione dei concetti astratti (Yao, Zhu & Chen 2013; Moffat et al. 2015; Troche et al. 2017) più di quanto non lo siano per i concetti concreti (Kousta, Vinson & Vigliocco 2009; Kousta et al. 2011; Vigliocco et al. 2013; Vigliocco et al. 2014). In particolare, la differenza fra astratto e concreto sembra essere un problema

correlato alla quantità dei componenti che compongono i concetti: tutti i concetti sarebbero composti da un amalgama di informazione linguistica, informazione affettiva e informazione sensomotoria esterna. Le differenze fra concetti sarebbero di conseguenza da accollare al fatto che ciascuno si compone di questi fattori in proporzioni differenti: nei concetti concreti sarebbe preponderante l’informazione sensomotoria esterna, mentre in quelli astratti sarebbe preponderante l’informazione emotiva (Vigliocco et al. 2009, p. 223; Kousta et al. 2011, p. 14). L’idea più convincente, a mio avviso, è che i concetti emotivi non siano speciali o anomali rispetto ad altri, ma siano in continuità con un’idea di concreto: le emozioni avrebbero un fondamento percettivo più o meno diretto nelle percezioni corporee e farebbero perno su informazioni derivate dal corpo (Borghi & Binkofski 2014, pp. 9-11). Se si considerano le ricerche sulla categorizzazione emerge come il rapporto fra concetti e percezione sia stato analizzato primariamente, se non unicamente, in relazione alla vista. Nella tradizione filosofica occidentale è prevalsa, da Platone in poi, passando anche per Filone d’Alessandria (De vita contemplativa), l’idea che la vista fosse il senso per eccellenza, giacché la distanza implicata al vedere è sembrata la strada verso l’oggettivazione e la conoscenza obiettiva delle cose. Origene, Gregorio di Nissa, Agostino e Bonaventura sono i massimi sostenitori nella tradizione cristiana del primato della vista come senso spirituale per antonomasia. Una voce fuori dal coro è quella di Aristotele, che manifesta molta incertezza circa il fatto di attribuire il primato al senso della vista, tanto che in alcuni passi del De anima sembra avanzare la tesi che il tatto possa rappresentare il senso per antonomasia o al quale ricondurre altri sensi12, e la perplessità probabilmente prendeva consistenza con l’emergere delle riflessioni che egli svolge sul ruolo della mano nella capacità di

generare e di qualificare la produzione tecnico-culturale di una società. Come Aristotele anche George Berkeley (1709), in un quadro teorico assai diverso, avanza l’ipotesi che il tatto educhi la vista. In un classico esperimento degli anni Sessanta, e in altri successivi, si è tentato di studiare una situazione di conflitto fra tatto e vista allo scopo di verificare in che misura il tatto tende a correggere le sensazioni visive ed è emerso che in molte condizioni è il tatto a insegnare alla vista e non viceversa (Sinai, Ooi, & He 1998). Adolf von Hildebrand sosteneva che un infante sviluppa la capacità percettiva visiva attraverso la motilità degli arti e attraverso l’occhio, che a sua volta è mobile (Hildebrand 1893, p. 104). La ragione del primato della visione è anche da rintracciarsi nel fatto che essa, più di altre modalità sensoriali, configura molte proprietà delle istanze nel mondo esterno e le configura all’istante e in maniera del tutto organizzata riportandone le basilari, incluso il loro posizionamento nello spazio esterno al percipiente (Lycan 2000). Di conseguenza, comunemente, si ritiene che la vista veicoli le proprietà “concrete” del mondo esterno: quelle di carattere spaziale, osservabili, che sono oggettive proprio in quanto intersoggettivamente verificabili. Per questo, la vista è stata designata a essere il senso che stabilisce se i termini che descrivono oggetti, eventi, proprietà, movimenti, atti o azioni debbano ritenersi concreti o meno. Il tatto è indubbiamente il senso della percezione corporea per antonomasia, mentre la vista rappresenta insieme all’udito il senso più sollecitato nel rapporto con il mondo. Nella fisiologia classica il tatto viene spesso annoverato fra i cosiddetti “sensi minori”; si tratta tuttavia di una erronea semplificazione. In realtà esso svolge una funzione importantissima nella percezione dell’ambiente esterno e nella coordinazione dei movimenti. Contrariamente a ciò che si pensa,

è il “primo” dei nostri sensi da tutti i punti di vista: biologicamente (è il primo a essersi evoluto ed è presente anche negli organismi monocellulari), cronologicamente (è il senso che si sviluppa prima, durante lo sviluppo embrionale, ed è l’ultimo a scomparire nell’invecchiamento, praticamente persiste fino al sopraggiungere della morte), affettivamente (il tocco della madre rassicura il neonato e questa “sicurezza” che deriva dall’essere “toccati” persiste per tutta la vita), tanto che le carezze e i massaggi sono le forme più consolidate per placare stati di ansia e di tensione e l’abbraccio è la forma vitale dell’affetto trasmesso, ed è così fondamentale che non si riesce a immaginarsene privi, tanto che la fine della vita è metaforicamente un “abbraccio con la morte”. L’atto d’amore nella sessualità è un atto che prevede l’espressione massima del tatto e del contatto, anche in termini di dimensione della superficie coinvolta. La conoscenza tattile è diretta e ci permette di confermare che ciò che vediamo esiste davvero lì dove lo vediamo ed è fatto nel modo in cui lo vediamo. Il tatto è, pertanto, la modalità sensoriale che veicola il nostro senso della realtà: che ci permette di formare l’idea che esista una realtà indipendente da noi (Ratcliffe 2009). Quando parliamo di tatto intendiamo soprattutto la percezione aptica, ossia quella che deriva dal contatto degli oggetti con la pelle. Se il tatto fosse stato indicato come il senso prioritario, la storia delle riflessioni sulle modalità percettive sarebbe stata assai diversa in quanto toccare un oggetto non richiede alcuna idea di rappresentazione, nessuna fotografia a cui la realtà debba corrispondere. Infatti, nessuna rappresentazione è mai stata invocata per il toccare e il sentire il morbido o il ruvido, o il grado di morbidezza o ruvidezza. Il senso del tatto agisce in modo diretto ed è inequivocabilmente connesso al movimento del corpo o a parti del corpo; è chiaramente un senso che regola l’interazione fra corpo e ambiente, fra il corpo e gli oggetti che lo

popolano. Per assaporare devo avere in bocca qualcosa, un oggetto, per sentire un rumore deve esserci un oggetto o più oggetti che lo producono, per sentire un odore devono esserci almeno dei microscopici corpuscoli, magari non visibili a occhio nudo, ma deve esserci qualcosa, e infine la propriocezione è un senso che è strettamente connesso con un oggetto speciale, il proprio corpo, tanto che i neuroni che elaborano il senso della direzione e dello spazio sono presenti sin dalla nascita (Wills et al. 2010). L’esperienza soggettiva di essere toccati in una parte del proprio corpo determina l’attivazione dello stesso circuito neurale attivato dall’osservazione del corpo di qualcun altro quando viene toccato in una parte corporea equivalente (Keysers et al. 2004). Una stessa regione corticale è quindi attivata sia quando esperiamo in prima persona una sensazione tattile localizzata in una parte del nostro corpo, sia quando siamo testimoni di un’analoga stimolazione sensoriale esperita da qualcun altro. Inoltre, il contatto fra due superfici del mondo esterno è, in linea di principio, qualcosa di molto astratto se unicamente mappato da un punto di vista visivo. Mappare questo stesso evento invece sul correlato della nostra esperienza tattile corporea evoca contestualmente un significato esperienziale personale molto preciso, connesso a cosa si prova a essere toccati e questo vale anche per quando siamo noi stessi a toccarci o veniamo sfiorati da un altro individuo o da oggetti, per esempio come libri o fiori. Questa triplice modalità di attivazione della stessa regione corticale suggerisce che la nostra capacità di riconoscere e comprendere direttamente a livello esperienziale le esperienze tattili altrui, così come la nozione più astratta “contatto”, è mediata da un meccanismo di riproduzione motoria, quindi da un processo incarnato. Il concetto “toccare” è quindi parte del corpo stesso.

Un prius degli oggetti, con o senza sistema motorio, e delle qualità in essi incorporate definiscono ciò che siamo in termini percettivi: per esempio tenere in mano una tazza di caffè caldo o freddo influenza il giudizio che una persona esprime rispetto a un suo consimile, tanto che coloro che hanno in mano un caffè caldo descrivono le persone con le quali si relazionano come maggiormente calorose, generose, socievoli, gentili, premurose, contente, mentre coloro che hanno in mano un caffè freddo forniscono descrizioni opposte (Williams & Bargh 2008); così le persone che ricordano un periodo in cui si sono sentite estromesse da un ambiente avvertono una temperatura della stanza più bassa di quelle che rimembrano un’esperienza sociale lieta (Zhong & Leonardelli 2008). È anche stata rinvenuta una relazione fra peso e importanza, quando alla richiesta di stimare il valore di diverse valute straniere o di giudicare la città di Amsterdam e il suo sindaco corrispondevano cartelle contenenti questionari di pesi differenti: gli individui che hanno compilato i questionari inseriti nelle cartelle più pesanti hanno attribuito un peso maggiore, allusivamente parlando, alle valute straniere, e hanno risposto in maniera più attenta e ponderata in merito al giudizio sul sindaco (Jostmann, Lakens & Schubert 2009). Inoltre, si è riscontrato che una sedia dura fa sembrare un compito da eseguire più difficile (Ackerman, Nocera & Bargh 2010); così come l’esperimento della griglia termica di John Locke, recentemente riproposto (Kammers, de Vignemont & Haggard 2010); ha dimostrato che i primi controllori dell’affidabilità delle nostre percezioni siamo noi stessi e che la propriocezione svolge un compito fondamentale nel consolidare l’idea che siamo proprio noi quelli che hanno un dito freddo o caldo in modo giustificato o ingiustificato, e che siamo noi stessi che toccandoci alleviamo un nostro dolore, e lo facciamo tastando parti del nostro corpo come se fossero quelle di un altro/a, pertanto noi oggettiviamo noi stessi in base allo schema

motorio del nostro stesso corpo. Il tatto è un senso che non è attivo quindi solo in relazione alla pressione con gli oggetti, ma ricomprende anche la percezione termica, il dolore, il prurito o il formicolio cutaneo. In generale, il tatto è rivolto non solo verso l’esterno, quando utilizzato per esplorare l’ambiente, ma anche verso l’interno, quando serve per acquisire consapevolezza del nostro corpo e dei suoi confini (Fulkerson 2011; Fulkerson 2012; Fulkerson 2014a; Fulkerson 2014b; Fulkerson 2014c). Da questo punto di vista, il tatto è un elemento fondamentale, fra l’altro, per la costituzione della nostra esperienza propriocettiva, ossia per la consapevolezza circa posizione, postura e movimenti del corpo (O’Shaughnessy 1998; Ratcliffe 2008). L’esperienza tattile è rivolta a un tempo verso l’esterno e verso l’interno e funge da mediazione fra corpo e mondo. Pensiamo al caso di una persona che sollevi un pesante mobile: lo sforzo muscolare e la resistenza è una esperienza primariamente propriocettiva, quindi interna, e tuttavia è il tatto a informarci che la propriocezione dello sforzo e della tensione muscolare è dovuta al mobile. Se ci trovassimo per esempio nella condizione di essere svenuti o in anestesia totale, non saremmo in grado di sapere che l’esperienza propriocettiva dello sforzo è dovuta al peso del mobile. Le percezioni interne relative al nostro corpo, di cui le emozioni sono un aspetto significativo, sono dunque prettamente tattili (Heller-Roazen 2007). Il corpo percepisce se stesso e di conseguenza percepisce i malesseri interni (attacco da infarto, mal di testa, mal di pancia, male al fegato), ma a oggi queste percezioni non hanno trovato una denominazione specifica, possiamo generalmente ricondurle al tatto perché per essere da questo discriminate come percezioni specifiche è necessario che visto che i sensi sono basati su informazioni sensoriali numerose quanto i recettori che le trasportano, è necessaria la prova che arrivino alla corteccia e

vengano elaborate, e questo tipo di ricerche per ora non ha trovato spazio. In questa ottica, seppur ancora molto generale, i concreti percettibili sono due – esterno e interno – i quali sfumano progressivamente l’uno nell’altro passando da informazioni percettive mediate dai diversi sensi, fra cui il tatto “esterno”, a informazioni percettive mediate dal senso del tatto “interno”. Ciò che queste caratteristiche del tatto ci permettono di capire a proposito di fenomeni come quello della categorizzazione e della comprensione linguistica sono le radici del nostro senso di concretezza: cosa significhi dal punto di vista della percezione che un concetto è concreto. Comunemente la concretezza non è definita in relazione a una specifica modalità sensoriale: qualcosa è concreto se può essere percepito attraverso i sensi. Per esempio, il buco è visibile ma non è tangibile. Ha una sua natura metafisica ma è privo di ontologia e di concretezza. L’idea di concretezza legata al tatto consente di dare conto anche degli stati interni del corpo. È necessario distinguere infatti fra due modi diversi della concretezza veicolati rispettivamente, da una parte, dai sensi esterni e, da un’altra, dalla percezione del nostro corpo e dei cambiamenti che avvengono al suo interno. Parole quali “dolore”, “piacere”, “sete”, “ansia”, “timore” sembrano essere astratte unicamente perché ricondotte a stati corporei che non possiamo osservare attraverso i sensi esterni. Il senso di pesantezza alla testa che ci colpisce dopo una giornata di lavoro intenso o il sentirsi assonnati, perché si è dormito solo due ore la notte precedente, o il senso del vomito per il disgusto di quello che stiamo osservando e ascoltando sul nostro PC non sono nulla di materiale che esiste nel mondo esterno indipendentemente da noi, ma sono comunque qualcosa di cui abbiamo esperienza diretta per via percettiva. Potremmo quindi supporre che conosciamo il significato di parole come

“dolore”, perché facciamo esperienza – percepiamo – del dolore e siamo in grado di identificarlo, ossia di categorizzarlo, visto che tutti i dolori hanno qualcosa che li accomuna. Termini come quelli prima indicati non minacciano l’intersoggettività del linguaggio per il solo fatto, per esempio, che l’esperienza del dolore è in prima persona. Solo la prima persona può conoscere il proprio dolore in quanto questo è interno e inaccessibile da parte di terzi, ma il fatto che il dolore sia un’esperienza di tutti fa sì che la parola “dolore” non perda di intersoggettività (Dellantonio & Job 2017). Nel caso di stati interni, riferimento e percezione diventano in qualche modo una e la medesima cosa, rendendo sì complesso identificare quali sono le proprietà percettive analitiche su cui fa leva l’identificazione oggettuale ma queste non si rivelano come proprietà non percettivamente esperibili. La conoscenza e la classificazione di stati interni del nostro corpo si basa su qualcosa che sappiamo perché la esperiamo, nonostante muti l’intensità. Si pensi per esempio alle diverse soglie del dolore fra individui. D’altra parte, la ricerca neurofisiologica ha evidenziato come esistano dei sistemi di percezione specifici della condizione fisiologica del corpo e del movimento (intercetto, propriocettivo e nocicettivo) che ci restituiscono informazioni dettagliate circa tutti i nostri stati interni (Balog 2009). Da questo punto di vista, l’ipotesi più plausibile è che i concetti relativi a stati interni si basino – come i concetti relativi a oggetti osservabili – su informazioni percettive connesse ai nostri stati corporei. Sappiamo di avere sete o paura perché proviamo sete o paura e siamo in grado di categorizzare le sensazioni che proviamo distinguendole in modo puntuale e specifico, distinguiamo infatti la sete dalla paura. Molti dei nostri concetti astratti sono indubitabilmente radicati sull’esperienza interna relativa ai nostri stati corporei, anzi spesso noi usiamo le medesime parole per indicare stati o

sensazioni corporee e concetti astratti, cioè utilizziamo metafore che hanno il compito di ricondurre a stati concreti esperiti o esperibili concetti più astratti. Si pensi all’uso astratto di termini come equilibrio, pressione, calore, orientamento, tensione e al fatto che li usiamo in locuzioni come “è necessario trovare un equilibrio fra le forze politiche”; “ci sono state pressioni sulla dirigenza”; “l’accalorarsi della discussione”; “l’orientamento di Matilde in questo ambito”; “la tensione fra Matilde e Pablo”. Termini che descrivono stati interni di carattere corporeo, noti tramite la propriocezione, l’interocezione e la nocicezione, vengono utilizzati in un senso astratto che tuttavia è chiaramente mutuato dall’uso concreto delle parole corrispondenti (Johnson 1987; Lakoff & Johnson 1999). Le metafore riportano così a terra i concetti. Sono concreti quindi non solo i concetti che denotano qualcosa di percepibile tramite i sensi esterni, ma sono come concreti anche i concetti legati alla percezione interna e all’informazione percettiva di carattere corporeo. Si tratta ovviamente di due tipi di concretezza diversi fra loro, l’uno legato alla percezione di istanze del mondo esterno le cui proprietà sono oggettive e intersoggettivamente osservabili, l’altro connesso agli stati interni e alle sensazioni corporee, le cui proprietà sono soggettive e qualitative ma altrettanto intersoggetive. La percezione legata agli stati interni del corpo e alle emozioni è più simile a quella veicolata dai sensi soggettivi come olfatto e gusto e si pone in continuità con essa. In virtù di questa continuità la concretezza oggettiva e interoggettivante gradualmente trasmigra a una dimensione soggettiva, intersoggettiva e qualitativa che può dipendere dal tipo e dall’intensità dell’emozione. E come gli oggetti sono necessariamente sempre collocati in un ambiente, così le emozioni sono sempre attivate dal contesto nel quale il soggetto è gettato. In entrambi i casi la concretezza è una concretezza

“situata”. Se ne può dedurre che l’esperienza linguistica è modale, embodied e concreta, fatta di oggetti, atti, azioni, emozioni, parole pronunciate a voce alta e parole inespresse, ed è sempre un’esperienza social-culturale: “Le menti non sono congegni disincarnati per il ragionamento logico” (Clark 1997, p. XIX) e il “mentale” ha una fondazione nel corpo e una matrice organizzativa radicata nella vita corporea (Sheets-Johnstone 1999), che è sempre vita relazionale e sociale, oltre che culturale. Pertanto, per il linguaggio è centrale il concetto di Umwelt, di ambiente (von Uexküll 1934), poiché parole e frasi sono sempre contestualizzate. Tale è il ruolo dell’ambiente che per esempio i Maya dello Yucatec tendono a parlare delle cose nei termini della materia di cui sono costituite, quindi una “candela” è “cera lunga e sottile”, mentre i parlanti inglesi preferiscono fare un’associazione per forma (Lucy & Gaskins 2001) e questo perché per i Maya dello Yucatec, la somiglianza si trova nella materia e non nella forma, proprio perché nella loro lingua, diversamente da quanto accade in italiano o in inglese, predomina un sistema di categorizzazione per materia e non per forma. L’approccio enattivo è quello che ha maggiormente messo in risalto il ruolo della cognizione sociale e di come le interazioni sociali permettano la co-costruzione partecipativa del significato, caratterizzato di conseguenza sia dalla contingenza che dall’imprevedibilità (De Jaegher & Di Paolo 2007; Gergen 2009; Fuchs & De Jaegher 2009; De Jaegher & Froese 2009). Il soggetto genera significati a partire da esperienze e azioni nel mondo e sul mondo. Azioni incorporate e adeguate alla situazione, sempre nuova e sempre dinamica, e questo è anche possibile grazie al dato che la semantica veicolata dalle parole trattiene la traccia dell’esperienza sensomotoria alla quale le parole stesse si riferiscono (Zambarbieri 2006).

L’importanza dell’esperienza ambientale apre la questione degli effetti delle lingue sulla cognizione, tema già presente in Aristotele (Retorica III), Vico (Scienza nuova), Humboldt (Über das vergleichende Sprachstudium), e negli studi antropologici di Franz Boas (1911), uno studioso portato in auge dalla ripresa delle ipotesi di Sapir-Whorf, messe in scena dal film Arrival13. Quel che risulta significativo è che ciascuna lingua impone dei frame che condizionano, in un modo o in un altro, il modo di categorizzare (Fillmore 2006; Evola 2010) e di esperire l’esperienza che ricorsivamente si riflette nuovamente sul linguaggio. L’idea che le lingue permeino la nostra attività cognitiva si sposa perfettamente con i dati che dimostrano gli effetti delle lingue sulla cognizione, effetti che, non a caso, sono particolarmente marcati nei domini astratti, dove i colori, lo spazio, la materia, la forma e il tempo ne sono esempi paradigmatici (Boroditsky 2001; Liuzza, Cimatti & Borghi 2010). Per esempio, per quanto riguarda la distinzione di colori simili fra loro si è visto che questa può essere influenzata da come la lingua ne organizza i nomi, compresa la concordanza di genere fra nomi e aggettivi (Boroditsky, Schmidt & Phillips 2003). Il significato delle parole non emerge, non compare unicamente dalla riattivazione dell’esperienza con i referenti, siano essi oggetti o atti e azioni, ma anche dalla relazione fra parole, in termini più tecnici dalla co-occorrenza statistica delle parole in corpora (Andrews, Frank & Vigliocco 2014). Le parole non sono pertanto isolate ma sono utilizzate in contesti e come abbiamo visto i contesti giocano un ruolo cruciale del definire il significato, in specifico per i concetti astratti, e la frase stessa è un contesto per la singola parola (Liuzza, Cimatti & Borghi 2010; Pecher et al. 2011; Granito, Scorolli & Borghi 2015). Nel dialogo il contenuto semantico di specifiche parole può indicare stati emotivi o stati d’animo, tanto più che è noto come l’intonazione sonora e ritmica della comunicazione verbale

possano esercitare una risonanza emotivo-affettiva “di pelle” ben prima della comprensione dei singoli termini ascoltati o pronunciati, il che moltiplica l’effetto emotivo del dialogo. Nel dialogo, nella reazione del parlante e dell’ascoltatore, “vediamo emozioni. Non vediamo contorsioni facciali per poi inferire che sta provando gioia, dolore, noia” (Wittgenstein 1949-1951). Possiamo aggiungere che non solo vediamo emozioni ma, quando parliamo o ascoltiamo, sentiamo emozioni e sentiamo la loro intensità. L’espressione “la rabbia è solo temperatura”, cioè la persona che si arrabbia è una persona con il “sangue caldo”, può essere considerata una metafora indicativa di una relazione causa ed effetto fra emozione e reazione fisiologica (Kövecses 2000). Il che ha fatto pensare che le emozioni avessero domini concettuali con struttura propria, invece è possibile assimilare il dominio concettuale delle emozioni a quello delle percezioni fisiche (Ortony 1988). Inoltre, esistono delle interiezioni tipicamente emotive, che sono a tutti gli effetti assimilabili a domini concettuali emotivi. Per esempio, molte interiezioni italiane esprimono un buon numero di emozioni positive e negative: il disgusto con bleah, la noia con uffa, la sorpresa con tòh! o no!, la soddisfazione o il sollievo con òoh!, il disappunto con beh?, l’indignazione con ohibò, il disprezzo con puàh. Le espressioni linguistiche possono quindi esprimere non solo le emozioni in sé ma possono anche esprimere diversi gradi di intensità emotiva, per esempio iuhù, evviva, hurrà esprimono una gioia intensa, esultanza mentre dispiacere, disperazione, raccapriccio possono essere espressi con ahimè o no! Il contenuto emotivo dell’interiezione molto spesso è comunicato anche dall’intonazione con cui l’interiezione è pronunciata, intensificando per questa via la percezione interna del concetto emotivo (Pittam & Scherer 1993; Johnstone & Scherer 2000; Magno Caldognetto 2002; Magno Caldognetto,

Cavicchio & Cosi 2008). Tutti gli elementi della cognizione, a partire dalle decisioni iniziali che determinano a quali aspetti dell’ambiente prestiamo attenzione anche prima che i nostri sensi coinvolgano l’ambiente nella percezione, sono mediati, influenzati o addirittura attivati dalle emozioni (Johnson 2007; Colombetti & Thompson 2008; Colombetti 2014). Lo stato affettivo dell’organismo guida costantemente ogni aspetto delle attività “superiori” a partire da ciò a cui esso presta attenzione nell’ambiente. Le emozioni sono, pertanto, una forma di cognizione (Duncan & Barrett 2007) e sono nel contempo un giudizio con un contenuto concettuale (Hufendiek 2017) e le emozioni attivano le affordance rispetto sia agli oggetti con sistema motorio che senza sistema motorio (Hufendiek 2014; Hufendiek 2015; Hufendiek 2018). Un’affordance è una proprietà che non è unicamente connessa agli esseri umani come organismi ma è anche connessa alle nostre abilità per reagire e interagire a specifiche proprietà. Non solo noi vediamo qualcosa che percepiamo come pericoloso, ma vediamo in molti casi anche l’emozione mancata, cioè percepiamo che quel qualcosa che poteva essere pericoloso, ma non lo è, è un pericolo scampato. La paura è quindi in relazione con l’“essere pericoloso”, e quindi quel qualcosa, che è potenzialmente pericoloso, è un qualcosa che può essere evitato (Hufendiek 2017). Le emozioni possono essere ascritte a una modalità di interazione fra chi le prova e le percepisce all’interno e chi le nota e le percepisce dall’esterno come affordance, cioè come ciò che l’ambiente offre al soggetto da percepire. Il riconoscimento dell’emozione appare come pragmatico e semantico insieme, e implica un modo specifico di reagire così da coglierne le proprietà relazionali (ibidem). L’inscindibilità fra dimensioni affettivo-emozionali e

cognizione, fra dimensioni affettivo-emozionali e comportamento e fra cognizione e comportamento, e il ruolo basilare svolto dall’ambiente e dalle circostanze nel mediare sia la cognizione che il comportamento rendono questi tre elementi inseparabili quando si presentano nell’organismo. Ma sono le emozioni che svolgono un ruolo primario nell’influenzare o persino nel dare inizio alla cognizione e al comportamento e il sistema sensomotorio fornisce il giusto tipo di struttura per rappresentare sia i concetti sensomotori che quelli apparentemente più astratti. Possiamo quindi concludere che “i concetti senza emozioni sono ciechi e le emozioni senza concetti sono vuote” (Turri 2012, p. 140). 4.4 Dialogo: i concetti vengono messi a terra La comprensione del parlato è una comprensione che è anche ampliata dalla relazione con i gesti: il pronunciare non-parole o singole vocali o parole di significato compiuto come “grande” o “piccolo” e accompagnarle con gesti grandi o piccoli sia con una che con due mani, ha mostrato che solo in quest’ultimo caso le dimensioni del gesto compiuto contribuiscono a modulare la formante in modo direttamente proporzionale, confermando un’influenza reciproca, proprio sul piano semantico, fra gesto e parola (Gentilucci et al. 2012)14. La relazione fra linguaggio e gesto sul piano articolatorio e fonologico è quindi il presupposto perché tale relazione sia presente anche su un piano semantico, ossia in termini di contenuto del linguaggio stesso, o piuttosto che il piano articolatorio e fonologico è al servizio della semantica, della produzione di significati. In questo senso è emblematica la relazione con lo spazio. In alcune lingue come l’italiano o l’inglese, ma non in altre come il coreano, esiste una distinzione codificata fra contenimento e supporto, cioè tra ciò che è posto dentro un contenitore (“la pesca nel portafrutta,” “il foglio nella busta”) e ciò che è posto sopra una

superficie (“la pesca sul tavolo,” “il libro sul scaffale”). In coreano invece esiste una distinzione linguistica relativa al grado di contatto/adesione più o meno stretti fra due oggetti (Boroditsky 2001). I rapporti spaziali si manifestino anche nel modo di pensare di parlanti nativi adulti coreani o inglesi: i primi hanno mostrato tempi di reazione più rapidi rispetto a quelli degli inglesi quando veniva loro chiesto di scegliere l’immagine che rispetto alle altre fosse “dissimile” relativamente al parametro di contatto/adesione (McDonough, Choi & Mandler 2003), aspetto che non si verifica nei bambini prescolari di entrambe le nazionalità (Choi & Bowerman 1991; Choi & Gopnik 1995; Levinson 1996; Boroditsky 2001; Levinson 2003). Lo spazio, in relazione al linguaggio, agisce all’interno di una specifica condizione ambientale connessa alla propriocezione, al corpo proprio: alla lettura di frasi per le quali si deve decidere se hanno senso logico e che possono implicare un movimento verso il soggetto, per esempio “Pablo ti porta la pesca”, oppure possono implicare un movimento di allontanamento dal soggetto “Tu porti la pesca a Pablo”, si ha una risposta più rapida se il movimento che si deve compiere con la mano corrisponde al movimento implicitamente descritto nelle frasi che si leggono, e negli esperimenti effettuati il risultato è condizionato dal fatto che il bottone della pulsantiera può essere posto più vicino oppure più lontano dal soggetto coinvolto, il che spinge a muovere la mano verso il proprio corpo o lontano dal proprio corpo. Nel caso in cui si legga la locuzione “Tu porti la pesca a Pablo” e per premere il bottone corretto si debba spostare la mano in avanti, allontanandola dal proprio corpo – che è lo stesso movimento che si fa per portare/consegnare la pesca – si è riscontrato che si impiega meno tempo rispetto a quando si deve premere il bottone più vicino. Pertanto, quando si legge e si comprende una frase, questo avviene presentificando l’azione descritta nella frase stessa (Kaschak & Glenberg 2000; Scorolli

2014). Dopo aver letto una frase descrivente un atto o un’azione, i soggetti sono più veloci nel riconoscere un’immagine in cui è rappresentato quel determinato atto o quella determinata azione rispetto a immagini che rappresentano atti o azioni differenti (Zwaan et al. 2002) e sono più rapidi nel compiere movimenti coerenti con quell’atto o quell’azione rispetto a movimenti che non lo sono (Glenberg & Kashak 2002). Questo aspetto è rilevante anche nella lettura, poiché i lettori elaborano presentificazioni mentali attivando le stesse regioni del cervello che sono coinvolte quando esperiscono le medesime situazioni nella vita reale (Speer et al. 2009; Zwaan et al. 2010). Ne consegue che esiste un’interazione significativa fra la direzione del movimento in una data situazione e la direzione di movimento veicolata dalla locuzione, tanto che quando la direzione del movimento indicata nella locuzione non è congruente con la direzione del movimento da eseguire vi è un’interferenza. Quando una locuzione legata ai gesti è compresa, essa viene trasformata in un modello d’azione, ed è proprio questa trasformazione che può interferire con la risposta. Si avrebbe così una spiegazione del perché l’interferenza non riguarda le locuzioni relative a un trasferimento astratto: per queste locuzioni il gesto richiesto per effettuare il trasferimento – parlare, fischiare, dialogare – non contrasta direttamente con l’esecuzione del gesto necessario per la risposta, come muovere un braccio e/o una mano (Glenberg & Kaschack 2002). Più in specifico quando si ascoltano frasi collegate all’azione della mano aumentano i potenziali motori dei muscoli della mano (Fadiga et al. 1995; Buccino et al. 2001), così come si attivano i circuiti neurali dei muscoli del piede quando si ascoltano frasi collegate ad atti o ad azioni del piede. Inoltre, la lettura silenziosa di parole che si riferiscono a movimenti della faccia, del braccio o della gamba (per esempio leccare, raccogliere, calciare) conduce all’attivazione di differenti settori

delle aree motorie e premotorie che controllano gli atti motori del corpo congruenti con il significato referenziale delle parole di atti o azioni lette (Hauk et al. 2004; Tettamanti et al. 2005). Questo mostra chiaramente che l’azione contribuisce alla comprensione della frase. Ma più sorprendente ancora è stato scoprire che la relazione fra la direzione del movimento della frase e la direzione della risposta valeva anche con gli enunciati astratti come “Matilde ti ha raccontato una storia” vs “tu hai raccontato una storia a Matilde”. Questi risultati estendono il ruolo della presentificazione dell’azione alla comprensione di enunciati che descrivono situazioni astratte. La comprensione dei gesti sembra quindi risiedere nel sistema che amalgama due gesti, quello dell’osservare e dell’eseguire, anche quando i gesti sono descritti mediante il linguaggio, in particolare se si pensa che i gesti vengono riconosciuti anche tramite i rumori. Oltre a ciò, vi è interferenza fra stimoli visivi consistenti in barre orizzontali che si muovono verso l’alto o il basso e la direzione implicita veicolata da frasi come “il fumo salì al cielo” o “la neve cadde a terra”. L’interferenza è dovuta al fatto che le immagini sono difficilmente integrabili con la presentificazione che ci formiamo mentre comprendiamo i testi, proprio perché sono molto stilizzate e astratte (Kaschak et al. 2005). Questo tipo di risultati consente di aggiungere un nuovo tassello nella comprensione circa l’uso e la comprensione stessa delle metafore linguistiche, dove la connessione fra paralinguistico e linguistico diventa cruciale. Per lungo tempo il paralinguistico è stato considerato o come un aspetto della comunicazione separato dal linguistico o come una forma di accompagnamento e o di supporto all’enfasi del linguistico. Quello che emerge è una struttura intensamente intrecciata, un network di interazioni fra paralinguistico e linguistico. Questo network è ulteriormente implementato dal fatto che

frasi a contenuto astratto ma che implicano un movimento metaforico (“Tu deleghi le responsabilità a Matilde”) attivano il sistema motorio in maniera comparabile a frasi che denotano un trasferimento fisico (“Tu dai le carte a Matilde”) (Glenberg et al. 2008)15. Quando qualcuno racconta qualcosa che emoziona ed evoca, per esempio, paura o disgusto sovente utilizza l’espressione: “mi fa venire i brividi”; altrettanto frequente è proferire o udire l’estrinsecazione “è una questione di pelle”, quando ci si riferisce alla piacevolezza o alla repulsione verso qualcuno e non si sa esprimere bene le ragioni dell’una o dell’altra sensazione; comune è asserire che “il formaggio è piccante”, nonostante piccante significhi pungente, mentre materialmente il formaggio è morbido e non aguzzo. Si tratta, ovviamente, di metafore. La metafora consente di declinare il rapporto fra percezione e linguaggio con diversi sistemi: termini riferiti a una modalità percettiva utilizzati per descriverne un’altra; somiglianze connesse all’architettura percettiva e concettuale, le quali mediano il rapporto fra mondo interno ed esterno e che dipendono dalla conoscenza che abbiamo di questi due mondi (Ortony 1993; Cacciari 1995; Eco 1997; Massironi 2000); basi percettive delle espressioni di somiglianza e analisi delle caratteristiche fisiche degli stimoli, come per esempio luminanza e intensità; stimoli che consentono l’uso sinestesico del linguaggio e l’identificazione delle modalità percettive che più frequentemente di altre offrono la propria architettura, anche concettuale, ad altre; regole della costruzione e dell’interpretazione in una varietà di domini, specialmente visivi e pittorici (Koffka 1935, p. 7; Metzger 1941; Werner 1963; Gibson 1979, p. 129; Bozzi 1990, p. 100), come l’arte, la pubblicità, la progettazione di interfacce. Le metafore generano emozioni (Fonagy 1979), e non si tratta solo di “vibrazioni emotive occasionali, ma piuttosto del

contributo delle emozioni all’attività cognitiva sul versante della percezione” (Massironi 2000, p. 112). Le risposte affettive, a stimoli essenzialmente relativi al colore e alla forma fanno sì che generalmente i colori scuri e saturi siano fisiognomicamente più forti, cioè considerati più dominanti e attivanti, di quelli chiari e poco saturi che sono invece considerati più piacevoli. Le variazioni del colore lungo dimensioni visive come la luminosità e la saturazione sono generalmente più salienti e significativi nell’evocare risposte affettive di variazioni nella tinta. Le metafore sono al contempo uno sviluppo e un punto di connessione fra linguaggio senza parole, linguaggio con le parole, simbolismo e sistema motorio: “le stesse strutture nervose che presiedono all’organizzazione dell’esecuzione motoria delle azioni svolgono un ruolo anche nella comprensione semantica delle espressioni linguistiche che le descrivono” (Gallese, Migone & Morris 2006, p. 554). Sono un perfetto trait d’union fra gesti e linguaggio, permettono di “vedere” connessioni e somiglianze: nuove metafore palesano nuove relazioni. Che la metafora sia uno dei luoghi più rivelativi della complessità di rapporti fra percezione e linguaggio era già ben noto nella Grecia classica: Aristotele sosteneva infatti che la potenza conoscitiva della metafora stava proprio nel suo “far vedere”, nel mostrarci somiglianze prima inosservate, nel suscitare “meraviglia” (Manetti 2013, pp. 126-165). Il valore esplicativo delle metafore può irraggiarsi nelle forme più vaste e compatte di significanza proprie dei testi, che rinviano agli esseri umani l’immagine della loro natura discorsiva, cioè il loro essere costituiti da una materia polimorfa, intrinsecamente plurale e dinamica, pullulante di imprecisioni e di indeterminatezze, irrispettosa del principio di non contraddizione, dispersa nell’incertezza e nella casualità, e purtuttavia flessibile, versatile, adattabile, mobilissima nel

rintracciare un senso perfino nella violazione delle norme, disponibile al confronto e allo scontro dei significati, capace di instaurare e modificare rapporti, creatrice di mondi possibili. La capacità di categorizzazione della metafora (Beck 1978; Beck 1987) e l’assetto concettuale del mondo, entrambi fondati sull’esperienza percettiva, hanno fatto sì che si parli di embodiment della conoscenza metaforica (Lakoff & Turner 1989; Violi 2003; Feldman 2006; Lakoff 2009)16. La metafora è quindi uno strumento linguistico che mostra l’organizzazione del mondo e insieme lo organizza, ne è una raffigurazione e insieme un rapporto. È una modalità attiva, pragmatica e mentre è pragmatica è al contempo semantica, visto che mentre faccio comprendo e comprendere è un fare, pertanto, la semantica è incorporata nella pragmatica, visto che siamo soggetti votati all’azione ma il senso e il significato dirigono, quindi è anche la pragmatica che è incorporata nella semantica tanto che si potrebbe parlare di embodied semantic (Sweetser 1990). La ragione della diffusione delle metafore e della relativa semplicità con cui vengono prodotte e comprese risiede nella naturale inclinazione a utilizzare la struttura di un dominio noto per acquisire conoscenza a proposito di un dominio meno noto, dal concreto all’astratto si potrebbe dire. Si tratta di un meccanismo conoscitivo efficace ed economico per dare una coerenza e un’organizzazione alle nostre conoscenze e alla nostra comunicazione. George Lakoff nella sua analisi ha preso in considerazione, sì, le metafore più chiaramente riconoscibili, in base alla comune definizione di questo tropo, che generalmente si adoperano nelle conversazioni riguardanti l’amore, e dove sono riconoscibili sia un oggetto – topic – sia un oggetto – vehicle, ma anche tutti quei modi di dire che fanno riferimento in qualche maniera alla dimensione del viaggio perché proprio in relazione al fenomeno

amoroso se ne riscontrano molti, come per esempio “un percorso costituito da ostacoli e vie”, che comunemente non sarebbero etichettati come metafore, ma piuttosto come semplice parlare figurato. Lakoff ne ha concluso che le metafore concettuali sono una vera e propria modalità di pensiero. Attraverso la metafora, cioè attraverso la mappatura di un dominio concettuale nei termini di un altro, i concetti prendono una forma che prima non avevano, esattamente la forma dei domini17 fonte o sorgente (il viaggio), che supportano il significato letterale di un’espressione, organizzato essenzialmente in immagini schema o schemata18 – che non può essere descritta con l’immagine del “magazzino” – e frame, che corrispondono ai modi in cui le esperienze vengono immagazzinate all’interno del cervello e ciò dipende dal processo di coinvolgimento corporeo, tanto che si realizza una corrispondenza, o mapping, fra un dominio semantico e un altro dominio semantico (Lakoff & Johnson 1989, p. 52). Gli schema influenzano e modificano le impressioni derivate dalla percezione di nuove esperienze sulla base delle esperienze esperite precedentemente, che sono immagazzinate con caratteristiche di fluidità, dinamicità, modificabilità e sono di conseguenza in continuo divenire. Gli schemi non sono sempre in attività ma si attivano, o meglio vengono richiamati, nel momento in cui facciamo qualcosa che è pertinente con lo schema (Bartlett 1932, p. 201). L’attivazione può derivare da uno stimolo percettivo esterno o interno (l’emozione), i quali favoriscono il legame fra memoria e cognizione, fra la nostra capacità di astrarre, ricordare vecchie esperienze e usarle per interpretare le nuove. Gli schemi hanno anche la caratteristica di dover essere condivisi, socialmente e culturalmente per poter essere compresi e interpretati. La metafora concettuale è una corrispondenza – intesa nel senso matematico – fra un dominio concettuale, che supporta il significato traslato di un’espressione, e cioè quello a cui la frase si

riferisce effettivamente (target), visto nei termini di un altro dominio (source). Inoltre, concetti astratti più complessi possono ricorrere a diverse metafore concettuali per rappresentare le varie sfaccettature di uno stesso concetto, e lo stesso dominio può essere utilizzato per diversi target o source. Pertanto, la coerenza della significazione viene costruita attraverso elementi strutturali basati sull’esperienza. È Carl Bühler che per primo mette in luce che ogni composizione linguistica è, in un qualche grado, metaforica, e che quindi quella metaforica non è una manifestazione linguistica speciale; in secondo luogo, definisce la metafora come un fenomeno cognitivo e non meramente linguistico (Bühler 1934) che implica un “mixing” di sfere (schema). Quasi nulla sfugge alla metaforizzazione incessante delle nostre esistenze: le attività vengono concepite come sostanze (“Non avevo più molto fiato alla fine…”), gli stati come contenitori (“Ormai è fuori gioco”), eventi e azioni come oggetti (“Sei andato alla partita?”), ma soprattutto esiste una marcata tendenza alla personificazione, cioè a vedere il non-umano come umano, a fisicalizzare l’astratto per meglio dargli un senso (“La sua religione gli impone di non bere”) (Lakoff & Johnson 1989, pp. 148 ss.; Cienki & Müller 2008, pp. 483-501). La teoria neuronale della metafora ha tratto impulso dagli studi sull’acquisizione della competenza metaforica nei bambini, là dove si è constatato che essi attraversano inizialmente tre fasi: prima identificano il dominio d’origine come unica fonte d’informazione, poi correlano il dominio d’origine a quello di destinazione, infine ricorrono a un uso sorprendentemente disinvolto del linguaggio metaforico già nell’adolescenza (Gopnik 2009, p. 69). La metafora non coinvolge unicamente la messa in campo di due domini, ma genera una sorta di mescolanza (blending) fra i domini in questione. Di conseguenza i domini concettuali hanno

un carattere parziale poiché il materiale concettuale vagliato dalla sorgente e dal bersaglio risulta di volta in volta diversamente amalgamato per formare una nuova costruzione metaforica (Croft & Cruse 2008) ed è sempre il dominio target che definisce quali tratti del dominio sorgente devono essere mantenuti e quali possono essere rifiutati. Del dominio sorgente vengono riversate sul dominio target oltre alle caratteristiche ontologiche anche tutte le caratteristiche epistemiche: per esempio tutte le nostre conoscenze e i valori che leghiamo al viaggio come la scoperta, la conoscenza, la crescita che vengono ripresentati sull’amore, con una modalità unidirezionale, senza la quale sarebbe errato parlare di riversamento. Si tratta di un movimento non simmetrico e non reversibile dalla sorgente al target. Tutte le singole realizzazioni sono attinenti alla metafora generale “gli eventi sono azioni”, la quale fornisce una costruzione di massima che può essere farcita da metafore particolari, e per questo è definita metafora di livello generico (Lakoff & Turner 1989, p. 80). Dal momento che moltissimi concetti non chiaramente delineati nella nostra esperienza, come le emozioni, le idee o il tempo, hanno la necessità di essere colti per mezzo di altri concetti, che possiamo comprendere in termini più chiari tramite riferimenti al corpo – orientamenti spaziali, relazioni con oggetti, atti e azioni – prendono vita le metafore. Le metafore infatti mettono a terra molti concetti, il che comporta un movimento, un cambiamento di ambito, dal percetto al concetto. Già per Aristotele la metafora si ricava dalla sfera del movimento; la phora è una sorta di cambiamento, il cambiamento secondo il luogo (Fisica III, 201a 15). Di conseguenza una metafora cognitiva riguarda la concettualizzazione di un termine attraverso un referente noto, radicato nella corporalità, nella percezione di oggetti fra cui il

proprio stesso corpo. L’embodiment costituisce, pertanto e al tempo stesso, lo strumento e il vincolo attraverso cui comprendiamo e interpretiamo le nostre esperienze, comprese quelle linguistiche. Tale base, fondata sulla percezione, vincola di fatto il set dei domini eleggibili come adatti a concettualizzare e la realtà linguistica si presenta di conseguenza come meta-forica e insieme meta-fisica. Una realtà dove il sistema motorio svolge un compito cardine nel rendere efficace questa figura linguistica, poiché tanto più esso rimane sollecitato tanto più la metafora è efficace sul piano sensitivo. Tant’è che nei diversi contesti culturali quando una metafora entra in disuso la comprensione motoria è a questo declino correlata (Cuccio, Carapezza & Gallese 2013), Tanto più la dimensione linguistica è meta-fisica, tanto più è meta-forica. Maggiore è il livello di astrazione, più strati di metafore sono richiesti per esprimerlo, perché si tratta dell’applicazione di un dominio della conoscenza a un altro ambito e che a sua volta consente nuove percezioni e conoscenze: un processo con passaggi di livello piramidali. È attraverso tale costruzione che nel linguaggio quotidiano, possiamo dire che “i tavoli hanno le gambe”, “le montagne hanno i piedi”, “le macchine bevono”, “le persone sono di ferro, di ghiaccio, d’oro”, “le idee nascono e muoiono”. Le metafore sono meccanismi cognitivi che consentono di conoscere il nuovo attraverso il noto, il generale attraverso il particolare, il simile nel dissimile, il noto nell’ignoto. Aree assai estese della nostra esperienza vengono comprese sin dall’inizio su base metaforica. Altri tipi di metafore servono per riferirsi, quantificare, individuare il nostro modo di considerare eventi, necessità, attività, emozioni acquisendo dalla nostra esperienza degli oggetti fisici e delle sostanze la base per sviluppare metafore di entità e sostanza, riguardano quindi aspetti e caratteristiche di eventi e situazioni: “questa situazione ha diverse sfaccettature”,

“voglio darti un consiglio”, “il tuo discorso non mi tange”. Le metafore di orientamento, o metafore spaziali, costituiscono modelli di comprensione del mondo in termini di relazioni topologiche del tipo su-giù, dentro-fuori, davantidietro, e sfruttano il dominio dello spazio per concettualizzare altri domini. Questi orientamenti metaforici riguardano aree concettuali primarie della nostra cultura e non sono arbitrari o convenzionali, bensì nascono sempre dalla nostra esperienza fisica, al punto che ci è quasi impossibile pensare alcuni concetti privandoli del loro intrinseco, coerente, unitario tasso di figuralità spaziale (Sacks 1990, p. 148). Per esempio, contento è su, triste è giù; conscio è su, inconscio è giù; salute è su, malattia è giù; più è su, meno è giù; una condizione sociale elevata è su, bassa è giù; buono è su, cattivo è giù (Lakoff & Johnson 1989, pp. 80 ss.). In Occidente l’orientamento avanti/dietro è utilizzato nella concettualizzazione del tempo: “ho molti anni davanti a me”, “mi lascio alle spalle un anno difficile”; l’orientamento alto/basso, invece, per esprimere giudizi di negatività e positività legati all’umore – “mi sento a terra”, “ho il morale alle stelle” – o al successo – “è proprio caduto in basso”, “ha raggiunto le vette del successo”. Le metafore concettuali sottostanti sono “il futuro è avanti, il passato è dietro” e “su è positivo, giù è negativo”. Le metafore di orientamento sono quelle che meglio mettono in evidenza il profondo legame con il corpo e l’importanza dell’esperienza fisica nella definizione del nostro sistema concettuale. Concepire il tempo in termini spaziali sembrerebbe anch’essa una metafora universale, per cui si potrebbe interpretare il tempo come se fosse “collegato” su una retta o un cerchio, con il passato su un punto precedente del presente e il futuro su un punto successivo. I parlanti della lingua aymara nel Sudamerica concepiscono il tempo in termini spaziali, ma con una metafora peculiare di questa comunità linguistica, ovvero il passato sta

davanti al presente e il futuro dietro (Sweetser & Núñez 2006). È notevole che anche nella gestualità, parlando di un evento passato i parlanti tendono a portare avanti la mano, e al contrario il futuro potrebbe essere espresso facendo un gesto con la mano che tende verso dietro, verso la spalla. Quindi il tempo è universalmente concepito in termini di spazio, cioè lo scorrere del tempo è movimento nello spazio, come ben ha indicato Aristotele. Nel nostro sistema concettuale, chi osserva è fisso mentre il tempo passa, nel secondo invece il tempo è fisso mentre chi osserva si muove. Può essere di grande rilievo sapere se nel contesto culturale in cui operiamo il tempo è concepito come qualcosa di dinamico che si muove verso di noi (come quando diciamo “questo accadrà nelle settimane seguenti”) oppure come qualcosa di statico verso il quale siamo noi a procedere (come quando diciamo “il futuro che abbiamo davanti a noi”). La metafora è motivata, inoltre, dal fatto che eventi futuri non sono conosciuti, e poiché conoscere è vedere, quello che è passato è stato già visto e di conseguenza la metafora concettuale può tradursi anche in altre espressioni non linguistiche o multimodali, come nella gestualità. Indubbiamente la metafora comporta una comprensione dell’intenzionalità comunicativa tramite inferenze di caratteristiche che vanno ben al di là del significato letterale e questo è in linea con l’idea del legame semantico fra percezione, azione e formulazioni linguistiche. Gli studi sulla metafora hanno messo in luce la necessità di una consonanza intenzionale per la comprensione del linguaggio, così come aveva evidenziato Paul Grice (1975). Zoltán Kövecses (2002, pp. 29-40) ha proposto una classificazione delle metafore, ancora poco indagata, secondo quattro criteri: l’uso nella quotidianità (convenzionalità), lo scopo concettuale (funzionalità), il suo fondamento empirico o

esperienziale (natura) e il suo grado di specificità (generalità). L’obiettivo sarebbe quello di individuare metafore cross culturali a proposito di un dominio comune come quello delle emozioni (Kövecses 2000b; Kövecses 2003). Questo perché alcune metafore concettuali sono presenti solo in alcune culture, come la metafora “il tempo è denaro”, che prevale nelle società industrializzate dell’Occidente, a causa di situazioni non presenti in altre società. Come la metafora linguistica, anche quella visiva può presentarsi in forme diverse, anche se con meno variazioni. Anche gli effetti e i risultati dell’uso di metafore visive sono cognitivamente paragonabili a quelli ottenuti dalle metafore linguistiche. Le metafore consentono di vedere (letteralmente) qualcosa in termini di un’altra, creare similarità, esprimere concetti nuovi o astratti attraverso il supporto di concetti noti e concreti, arricchire, modificare e cambiare la nostra conoscenza del mondo. Sulla base di queste similarità è possibile immaginare che le metafore visive possano costituire un supporto e un’integrazione all’analisi della metafora linguistica. Senza mai dimenticare le specificità di ogni medium, si tratta però di riconoscere la comune base cognitiva dei due fenomeni. Come è ormai immaginabile durante la processazione di espressioni metaforiche si attivano aree cerebrali differenti a seconda che entrino in gioco verbi (riferibili ad atti o azioni) o sostantivi (riferibili a oggetti o enti statici), in prossimità di aree coinvolte nelle funzioni sensoriali e motorie (Simmons & Barsalou 2003). Cosicché nel leggere la frase “dare un calcio all’abitudine”, la metafora calcio comporta l’attivazione di aree neuronali sovrapposte o adiacenti alla zona motoria deputata al controllo del movimento della gamba (Chen, Page & Chatterjee 2008). In realtà, se oggi siamo certi che l’elaborazione di verbi letterali recluta aree motorie corrispondenti alle azioni collegate alle mani, ai piedi e alla bocca, ciò sembra non avvenire nel caso

di astrazioni metaforiche derivate da questi verbi (Aziz-Zadeh & Damasio 2008; Raposo et al. 2009). Concludo con il dato che i significati del linguaggio risiedono nelle svariate modalità d’uso nei diversi ambiti della vita quotidiana, di conseguenza il significato di una parola varia in relazione alla sua origine, all’uso che se ne fa e al contesto in cui è inserita; i suoi significati sono “giochi linguistici” stabiliti e condivisi da una comunità. Il linguaggio è una “forma di vita” nel senso che vive e si trasforma in un contesto di abitudini, simboli e credenze umane. Tutti aspetti permeati da emozioni, da stati affettivi. Come ogni altra forma di vita, i molteplici modi d’uso del linguaggio, non sono dati una volta per tutte, ma cambiano continuamente, come mutano gli stati emozionali-affettivi: nuovi tipi di linguaggio o nuovi giochi linguistici si affermano, mentre altri invecchiano e vengono dimenticati, per via delle diverse forme di vita in cui siamo gettati, ognuna delle quali rivela una certa forma di linguaggio, un linguaggio che è generato e muta sulla base delle ininterrotte emozioni che danno vita e contenuto all’esperienza. E ogni forma di linguaggio umano, a qualunque latitudine e in qualunque tempo, parafrasando Rousseau, ha un gran debito verso le passioni. 1 Si attivano il nucleo accumbens e l’area ventrale tegmentale, collegate fra loro a formare una parte del sistema dopaminergico mesolimbico. 2 Per esempio, le dita hanno delle specifiche caratteristiche geometriche e biomeccaniche che permettono una serie di azioni fra cui la presa di precisione; utilizzare una presa presente nel repertorio motorio di base, in interazione con nuovi strumenti come per esempio un coltello, permette l’estensione di questo repertorio, rendendo possibile il raggiungimento di scopi completamente nuovi e offrendo, quindi, un ampliamento delle possibilità di azione umana. 3 Una delle ipotesi formulate è che le affordance legate alla manipolazione siano rappresentate nel sistema dorsale (o dorso-dorsale), laddove le affordance legate alla funzione abbiano una rappresentazione più ventrale (nel sistema ventrale o dorso-ventrale) (Caligiore et al. 2010). In linea con

questa ipotesi, studi neuropsicologici hanno fornito evidenze di doppie dissociazioni tra manipolazione e funzione. È probabile, che mentre osserviamo gli oggetti si svolga una competizione fra manipolazione e funzione (Jax & Buxbaum 2010), le quali si attiverebbero in parallelo; tale competizione sarebbe vinta in funzione del contesto e degli obiettivi di chi interagisce con l’oggetto. 4 Per esempio, la teoria Language and Situated Simulation – LASS – lo fa relegando il linguaggio a un ruolo marginale, di superficie, non riconoscendo appieno il valore dell’esperienza linguistica. 5 Esplorare la complessa relazione fra l’esperienza fenomenologica e le sue radici biologiche è stato correttamente visto come un rischio, poiché può condurre a un riduzionismo. Contro questo rischio si sono espressi studiosi impegnati proprio nelle ricerche legate al sistema specchio (Gallese & Wojciehowski 2011, p. 12) opponendosi all’idea che una singola parte di un organismo vivente, nel nostro caso al sistema nervoso, abbia caratteristiche proprie dell’intero organismo. Oltretutto una visione riduzionistica non fa tesoro del ruolo svolto dall’ambiente. 6 Un gruppo di ricercatori coreani ha condotto, tramite risonanza magnetica funzionale (fRMI), un interessante esperimento di immaginazione motoria su giovani arcieri professionisti e su persone che non avevano mai praticato il tiro con l’arco. Il dato interessante che è emerso è che quando il compito di immaginazione veniva svolto dai non-arcieri vi era una maggiore attivazione della aree corticali premotorie, supplementari motorie, di altre aree frontali, del cervelletto e dei nuclei della base. Quando invece il compito veniva immaginato dagli arcieri, sorprendentemente si attivava in maniera più significativa l’area motoria supplementare che entra soprattutto in gioco nella pianificazione del movimento e degli atteggiamenti posturali. Inoltre, il fatto che nei nonarcieri, a differenza degli arcieri, si attivi la struttura indispensabile per l’apprendimento di nuove sequenze motorie (il cervelletto), fa supporre che l’acquisizione di nuovi compiti motori possa essere favorita anche dalla sola immaginazione degli stessi. 7 Il neurobiologo americano Jean Decety nel 1998 ha confrontato la durata reale e mentale di un compito di deambulazione a occhi chiusi in cui si richiedeva di percorrere un percorso sempre più lungo. I partecipanti, quando immaginavano di eseguire il compito, aumentavano i loro tempi di deambulazione in relazione alla lunghezza del percorso, esattamente come avviene realmente. Se invece dovevano eseguirlo portando un peso, i tempi di immaginazione del percorso erano significativamente maggiori rispetto alla durata effettiva suggerendo che, quando si esegue un compito di cronometria mentale, anziché basarsi su strategie di valutazione del tempo, ci si immagina proprio nell’atto di eseguirlo. Inoltre, si è visto che addirittura un allenamento immaginario di un semplice movimento, come può essere la flessione e l’estensione di un dito della mano, determinava un incremento di

forza dei muscoli che agiscono sulla corrispondente articolazione. Il mental motor imagery può essere considerato come un vero e proprio allenamento mentale, definito anche “allenamento ideomotorio”. 8 La stessa ricerca ha messo in luce che i bambini che avevano fatto uso del ciuccio oltre i 3 anni, rispondevano meno velocemente ai concetti astratti rispetto ai bambini che ne avevano interrotto l’uso prima. Pertanto, risulterebbe che limitare la mobilità oro-facciale durante l’acquisizione di competenze linguistiche e sociali, rallenta selettivamente l’elaborazione dei concetti astratti. Aspetto che vedremo più analiticamente in seguito. 9 I neuroni registrati in F5 si attivavano durante la presa di un oggetto eseguito in un certo modo, Quello che viene rappresentato in F5 non è il movimento della mano o della bocca, bensì gli specifici atti motori effettuati con la mano e con la bocca. Se invece, lo stesso movimento (e quindi la stessa flessione del dito indice), viene eseguito per grattarsi, si attivava un altro neurone di F5. In più, è stato evidenziato che alcuni di questi neuroni “scopo del movimento-specifici” codificavano atti motori prossimali (come muovere la mano verso la bocca per inserire la nocciolina), mentre altri quelli più distali (afferrare con la mano un oggetto). Inoltre, si è scoperto che quest’ultima classe di neuroni è altamente selettiva per il modo in cui viene effettuato il movimento. Per esempio, considerando sempre l’atto motorio di afferrare un oggetto, alcuni neuroni si attivavano solo se la scimmia prendeva un oggetto con tutta la mano, altri solo se lo faceva opponendo il pollice e l’indice (Rizzolatti et al. 1996; Gallese et al. 1996). Sono state individuate sei classi distinte di neuroni: “Grasping-with-the-hand-and-themouth”, “Grasping-with-the-hand”, “Holding”, “Tearing”, “Reaching”, “Bringing-to-the-mouth-or-to-the-body”. Inoltre, sono stati individuati tre tipi di presa: “Precision grip”, “Finger grip”, “Whole hand prehension”. 10 È stato di conseguenza naturale domandarsi dove siano localizzate le diverse parti del sistema semantico e una prima risposta ha individuato la regione temporale superiore posteriore sinistra, all’interno della quale sono particolarmente coinvolte la corteccia frontale anteriore, la corteccia inferiore sinistra e il lobo temporale anteriore, soprattutto il sinistro, ma anche le porzioni anteriori di entrambi i lobi temporali. 11 In condizioni di produzione e comprensione del linguaggio è stato riscontrato anche un importante complesso di risposte pupillari: per compiti lessicali che prevedono la generazione di termini a contenuto astratto piuttosto che concreto si verifica per i primi un aumento del diametro pupillare rispetto a quello che si verifica per i secondi, così come il fenomeno si ripete nel caso di frasi con un grado di complessità significativo. Infine, il tempo impiegato a fissare un oggetto nominato è strettamente legato al tempo necessario al suo riconoscimento e alla riattivazione del nome (Zambarbieri 2006). 12 Per Aristotele il gusto è “una specie di tatto”, e visto che il cibo viene

“toccato” fisicamente dal soggetto che lo ingerisce, l’oggetto-cibo è conosciuto con particolare precisione e intensità. 13 Edward Sapir individua e valuta il condizionamento sociale a cui sono sottoposti la genesi, lo sviluppo e la funzione del linguaggio, si appella all’oggettività del reale e riconosce che il linguaggio in qualche modo lo rispecchia, pur costituendosi in un’entità culturale e cognitiva forte, vincolante. 14 Le aree coinvolte in compiti lessico-semantici di riconoscimento di un verbo d’azione talvolta sono differenti rispetto a quelle coinvolte in compiti di immaginazione del verbo stesso, poiché solo nel secondo caso si attiva la corteccia motoria primaria. Pertanto, c’è una differenza fra presentificazione e immaginazione e la differenza può essere imputabile alla relazione più marcata dei gesti stessi. Inoltre, il contesto nel quale un verbo è utilizzato può modulare l’attivazione della corteccia motoria. Questa flessibilità permetterebbe di ipotizzare che, quando il contesto rende improbabile l’interpretazione “motoria” di un verbo d’azione la corteccia motoria non viene attivata. 15 Si veda anche Buccino et al. 2005. Molti gli studi sul tema. 16 Robert S. Feldman distingue varie tipologie di circuiti (quelli che stanno alla base di processi quali la creazione di schemi, quelli che danno luogo a metafore anche molto elaborate o alla costruzione di arcature frasali lunghe e complesse), mentre all’interno di ciascun circuito funzionerebbe un sottogruppo di neuroni detto nodo gestaltico, in grado di regolare l’attivazione o l’inibizione di altri gruppi neuronali; una tesi che deriva dall’assunto che uno specifico neurone può funzionare in diversi nodi o gruppi; all’interno del gruppo neurale, i singoli neuroni si attivano in gradi e tempi diversi e ciascun significato è un concetto fisico. Le metafore agiscono come le reti neuronali, e queste ultime non sono altro che ricettacoli di metafore potenziali, per cui non è esagerato affermare che la metafora rappresenta la matrice primaria della plasticità del cervello ed è plausibile che abbia partecipato attivamente alla storia evolutiva della mente (Feldman 2006, pp. 118-98). 17 Con dominio si intende tutto ciò che concerne la struttura di un concetto, di un oggetto, di un’esperienza. In particolare, fanno parte del dominio sia proprietà ontologiche (elementi costitutivi del dominio) che proprietà epistemiche (l’intera conoscenza, il sistema di valori associati al dominio). 18 È stato Henry Head che trattando di movimento, postura e percezione dello spazio ha utilizzato per la prima volta il termine schemata, descrivendolo come un magazzino di sensazioni passate, e che formano dei modelli organizzati (Head 1920). È probabilmente di Carl Bühler il primo uso del termine schema in ambito linguistico e sintattico, per indicare qualcosa che media fra il pensiero e le parole, fra la conoscenza della forma di una frase e le relazioni che le parti della frase hanno fra loro.

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Frontespizio Prefazione di Franco Lo Piparo Prologo 1. Nel continente. "Linguaggio ed emozioni" 1.1 Nel paese degli Acchiappa-citrulli 1.2 Nel villaggio di chi parla 1.3 Nel downtown del corpo 1.4 Nel giardino dove nasce e si sviluppa il linguaggio 2. Come mi muovo. Così dialogo 2.1 Patisco e mi muovo 2.2 Evolvo e allora dialogo 2.3 Come mi muovo così chiacchiero 2.4 Uso un vocabolario di movimenti, atti e azioni 3. Una vita emotiva, una vita di dialoghi 3.1 In campo le emozioni 3.2 Il terreno delle emozioni 3.3. L’habitat di emozioni e linguaggio 3.4 Emozioni e linguaggio nell’ambiente 4. Dialogare è fare e far fare 4.1 Dialogo: prendono vita oggetti, movimenti, atti e azioni 4.2 Dialogo: prendono vita i concetti 4.3 Dialogo: prendono vita le emozioni 4.4 Dialogo: i concetti vengono messi a terra Bibliografia

3 5 14 20 20 28 46 59 91 91 101 117 140 159 159 176 191 201 214 214 237 253 272 290