La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione 8816400692, 9788816400696

Filosofia. Numero volumi 1.

229 58 14MB

Italian Pages 456 [455] Year 1983

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La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione
 8816400692, 9788816400696

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PAUL RICOEUR

LA METAFORA VIVA

di fronte e attraverso

Jaca Book

Paul Ricoeur

LA METAFORA VIVA Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione

titolo originale La métaphore vive



traduzione

Giuseppe Grampa © 1975 Editions du Seuil, Paris

© 1976 Editoriale Jaca Book, Milano

prima edizione italiana settembre 1981 prima ristampa dicembre 1986 copertina e grafica ufficio grafico Jaca Book

in copertina Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, particolare

ISBN 88-16-40069-2 per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book spa via A. Saffi 19, 20123 Milano, telefono 4982341

INDICE

Introduzione

i

Prefazione

1

1. 2. 3. 4. 5.

Primo studio Tra retorica e poetica: Aristotele Lo sdoppiamento della retorica e della poetica Il nucleo comune alla poetica e alla retorica: «l’epifora del nome» Un enigma: metafora e similitudine (eikón) Il luogo «retorico» della «lexis» Il luogo «poetico» della «lexis»

9 15

32 38 49

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Secondo studio Il declino della retorica: la tropologia Il «modello» retorico della tropologia Fontanier, il primato dell’idea e della parola Tropo e figura Metonimia, sineddoche, metafora La famiglia della metafora Metafora obbligata e metafora d’invenzione

64 68 72 77 82 85

1. 2. 3. 4.

Terzo studio La metafora e la semantica del discorso Il dibattito tra semantica e semiotica Semantica e retorica della metafora Grammatica logica e semantica Critica letteraria e semantica

91 105 115 120

Quarto studio La metafora e la semantica della parola 1. Monismo del segno e primato della parola

135

VII

Indice

2. 3. 4. 5.

Logica e linguistica della denominazione La metafora come «mutamento di senso» La metafora e i postulati saussuriani Il gioco del senso: tra la frase e la parola

138 147 160 167

1. 2. 3. 4.

Quinto studio La metafora e la nuova retorica Scarto e grado retorico zero Lo spazio della figura Scarto e riduzione di scarto Il funzionamento delle figure: l’analisi «semica»

179 184 191 198 208

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Sesto studio Il lavoro della somiglianza Sostituzione e somiglianza Il momento «iconico» della metafora Il processo alla somiglianza Difesa della somiglianza Psico-linguistica della metafora Icona e immagine

229 248 252 255 265 273

1. 2. 3, 4. 5.

Settimo studio Metafora e referenza I postulati della referenza Discorso contro la referenza Teoria della denotazione generalizzata Modello e metafora Verso il concetto di «verità metaforica»

285 292 301 315 324

1. 20 3. 4. 5=

Ottavo studio Metafora e discorso filosofico La metafora e l’equivocità dell’essere: Aristotele La metafora e «l’analogia entis»: Ponto-teologia Meta-forica e meta-fisica L’intersezione delle sfere di discorso Esplicitazione ontologica del postulatodella referenza

Bibliografia

337 340 359 372 391 401

419

Vili

INTRODUZIONE

Fin dal primo volume della sua Philosophic de la volonté nell’ormai lontano 1950, Paul Ricoeur andava disegnando l’esito della sua ricerca L Il punto d’arrivo doveva essere una Poetica della volontà. Il volume che viene ora presentato in edizione italiana è appunto il primo momento di costruzione di tale «poetica» 12. Il punto di partenza che riteniamo adeguato per comprendere que­ sta «poetica» è il fenomeno della polisemia. La metafora, infatti, e più ampiamente il linguaggio poetico, si rivelano come strategie privilegiate per rendere efficace la polisemia, superando le obiezioni che ad essa ven­ gono mosse. Già Stephen Ullmann ha ritenuto la polisemia il fenomeno centrale della metafora, la quale è appunto definita «nome con parecchi sensi», nome polisemico. Previa è, comunque, la chiarificazione di quale teoria del segno sia in gioco in tale recupero della polisemia. Vi è infatti una teoria del segno che dipende rigidamente da una teoria generale della interpreta­ zione e una teoria che invece dipende da una teoria della formalizza­ zione. Troviamo espressa questa duplicità nel termine stesso di «simbo­ lo»: simbolo così come l’intende la logica simbolica e simbolo come è inteso nella fenomenologia della religione, nella interpretazione dei sogni, 1 P. Ricoeur, Philosophic de la volante, i, Le volontaire et l’involontaire, Aubier, Paris 1950, p. 32. 2 II secondo momento di elaborazione della «poetica» sarà costituito dall’analisi del modulo narrativo. Si veda La fonction narrative, «Etudes tbéologiques et religieuses», 1979, 2, pp. 209-230.

IX

Introduzione nel linguaggio poetico. Nel primo caso il simbolo è un segno perfetta­ mente sostituibile e questo in forza della sua rigorosa univocità. Nel se­ condo caso il simbolo è eminentemente multivoco, portatore di una plurivocità che impedisce le sostituzioni meccaniche. Se guardiamo, retrospettivamente, al processo compiuto fin qui da Ricoeur, possiamo rileggerlo nei termini di una sempre più articolata e comprensiva teoria del segno, di quello simbolico e poetico.

Questa era l’intenzione fin dall’inizio. E infatti la prima tappa rigo­ rosamente fenomenologica della sua ricerca, era intesa come una astra­ zione rispetto alla «poetica»3. Si trattava di un primo passo, metodolo­ gicamente inevitabile, sulla via della «poetica della volontà». Su questo percorso, la riflessione filosofica incontra immediatamente il linguaggio •simbolico come forma espressiva privilegiata e insostituibile dell’uomo fallibile: «il linguaggio della confessione ha questo di particolare, che esso è da cima a fondo un linguaggio simbolico»4. Un primo momento dell’analisi del linguaggio simbolico e della sua struttura polisemica, porta a chiarezza la distinzione simbolo-segno. Il simbolo è un segno del tutto particolare. Non ogni segno è simbolo. Lo è soltanto il segno composto; non lo è il segno semplice. Elemento fon­ damentale è perciò l’architettura a doppio senso, la struttura in forza della quale un senso rinvia non già ad una cosa—sarebbe allora un segno semplice—bensì ad un altro senso. Sono simbolici solo i segni che hanno questa duplice valenza. Sulla base di un significato primario, letterale, si dice altro mediante un rinviò. Vi è quindi nel simbolo una duplice intenzionalità: «i segni simbolici sono opachi perché il senso primario letterale, palese, indica già analogicamente un senso secondo che non è dato altro che in lui»5. Perciò il simbolo è il processo stesso che dal senso primario conduce al senso latente: giungo al senso secondario solo portato dal senso primario. È per questa ragione, che attiene alla strut­ tura stessa del simbolo, che la duplicità di senso non deve essere lasciata cadere allorquando si interpreta il simbolo. È quel che invece avviene nel caso dell’allegoria. Qui l’interpretazione lascia cadere il senso alle­ gorico. Al contrario, nel caso del simbolo, è proprio la sua opacità, la sua architettura di doppio senso, il fatto che il senso primario, letterale, 3 4 pp. s

Le volontaire..., cit.y p. 33. Id.y Linitude et culpabilité, Aubier, Paris 1960; tr. it., Il Mulino, Bologna, 56-57. Ibid., p. 260.

X

Introduzione

indichi già in modo analogico un senso secondo che è dato solo nel senso primario, che mette in moto un processo ermeneutico. Ma è soprattutto in dialogo con Freud che il discorso sul simbolo e la decifrazione della sua logica si approfondiscono. Il linguaggio onirico richiede, infatti, una Traumdeutung, una interpretazione che conduca al­ l’altro che il linguaggio onirico indica entro e al di là di ciò che imme­ diatamente dice. Esige, in una parola, una interpretazione del doppio senso. Così la psicanalisi si rivela essere un luogo privilegiato dell’intel­ ligenza dei simboli. Il simbolo, a questo punto della ricerca, è una espressione linguistica a doppio senso che esige una interpretazione. La posizione ricoeuriana è significativamente lontana da quella di Ernst Cassirer: la differenza si gioca appunto sulla necessità di mantenere la distinzione tra espressioni univoche e espressioni multivoche, cioè tra segno e simbolo. Cassirer smarrisce questa distinzione perché definisce il «simbolo» come comune denominatore di tutti i modi di obbiettivare, di dare senso alla realtà. Contro Cassirer bisogna ribadire che non tutto è «simbolico», non ogni funzione significante è tale, ma solo appunto quella che ha una struttura a «doppio senso». Elemento determinante per circoscrivere il campo del simbolo è il lavoro ermeneutico: «Vi è del simbolico là dove l’espressione lingui­ stica, a causa del suo senso duplice o dei suoi sensi multipli, si presta ad un lavoro di interpretazione. A suscitare questo lavoro è una struttura intenzionale che non consiste nel rapporto del senso con la cosa, ma inuna architettura del senso, in un rapporto del senso con il senso, del senso secondario con quello primario, sia o no questo rapporto di ana­ logia oppure sia il senso primario che nasconde il senso secondario o lo rivela. È questa trama che rende possibile l’interpretazione, benché solo il movimento effettivo dell’interpretazione la renda manifesta»6. La sovrabbondanza del senso in rapporto all’espressione letterale, la plurivocità, mette in moto l’ermeneutica. Ciò dipende dal fatto che il simbolo non è costituito solo da ima struttura di tipo semantico, non è riducibile ad un segno e alla correlativa significazione, per usare la termi­ nologia di Ferdinand de Saussure, non è significante-significato, segnosenso; il simbolo è costituito da una struttura intenzionale di secondo grado. 6 là., De Vlnterpretatìon. Essai sur Freud, éd. du Seuil, Paris 1965; tr. it., II Saggiatore, Milano 1967, p. 30. XI

Introduzione Così la rilettura di Freud e della psicanalisi si raccoglie in una più matura teoria del simbolo, della sua sovradeterminazione, della sua am­ biguità e plurivocità. Notiamo solo che proprio in forza di tale architet­ tura di sovradeterminazione simbolica, sarà possibile saldare l’analisi re­ gressiva, archeologica e quella progressiva, teleologica: «la teleologia della coscienza deve apparire nella filigrana della stessa archeologia e il telos dell’avventura umana deve annunciarsi nell’interminabile esegesi dei miti e dei sotterranei segreti della nostra infanzia e della nostra na­ scita» 7. Se non vi fosse decifrazione della struttura del doppio senso non sarebbe possibile nascondere nell’atto stesso di mostrare. Così nel caso della psicanalisi ritroviamo una struttura di fondo che è presente anche nella simbolica del sacro e nel linguaggio religioso. Il sogno, la nevrosi e il mondo delle costruzioni fantasmatiche non sono casi eccentrici ri­ spetto alla logica del doppio senso. Ma è possibile conferire a questo processo polisemico fin qui descrit­ to, uno statuto linguistico preciso? È possibile superare le obiezioni che condannano la polisemia come patologia del linguaggio? Incombe sulla polisemia, come nome al quale corrispondono più sensi, il sospetto d’es­ sere linguaggio irrimediabilmente equivoco. Aristotele l’aveva ben espres­ so nel libro T della Metafisica *. a partire dalla logica dell’univocità se­ condo la quale ad un nome non può che corrispondere che un solo senso, la polisemia cadeva al di fuori del discorso coerente: «Non avere un de­ terminato significato equivale a non avere alcun significato, e se le parole non hanno alcun significato, allora non ha luogo neppure la possibilità di discorso e di comunicazione reciproca, e, in verità, non ha luogo nep­ pure la possibilità di un discorso con se stessi. Infatti, non si può pen­ sare nulla se non si pensa una determinata cosa; ma se si può pensare, allora si può anche dare un preciso nome a questo determinato oggetto die è pensato. Rimanga, dunque, stabilito, come si è detto all’inizio, che il nome esprime un determinato significato e uno solo» 8. Eppure, nella polisemia, lo stesso termine acquisisce un senso nuovo e continua a mantenere il vecchio. Se esiste la polisemia vuol dire che vecchia e nuova significazione sono proiettate sul medesimo piano di coe­ sistenza. Questa è la ricchezza della polisemia ma anche la possibilità di una vera e propria patologia del linguaggio che caricandosi di molteplici possibilità significative rischia di non significare più nulla. Il problema ? «

Ibid., p. 556. 1006 b. XII

Introduzione di una «disciplina» della molteplice significazione è già presente nelle unità di discorso più grandi. La plurivocità dei linguaggi onirico, mitico^ poetico, ha dato vita alla ermeneutica e all’esegesi. Il problema, lo abbia­ mo già visto, è al fondo già in nuce nella logica del simbolismo, della sua struttura. È cioè l’architettura di un senso primo sul quale è costruito un senso secondo. Se vogliamo distinguere le diverse stratificazioni che costituiscono le espressioni simboliche dobbiamo porre in atto un lavoro esegetico-ermeneutico, ma prima ancora dobbiamo rinvenire il tipo di organizzazione sistematica entro la quale è possibile arginare la ricchezza di senso della polisemia. Senza polisemia non avremmo la ricchezza del simbolo, neppure potrebbe costituirsi, ma senza sistema questa ricchezza rischierebbe l’incomunicabilità: il sistema permette di disciplinare la si­ gnificazione dei simboli, limitando e definendo. Se è vero che il poten­ ziale creativo è tutto sul versante semantico, è altrettanto vero che la logica strutturale consente di esprimere tale potenziale. Di qui il rimando insopprimibile di semantica e di strutturalismo. Solo tale rimando con­ sente alla polisemia di uscire dalla patologia per essere luogo di ulterio-

rità di senso. Una analisi che ritroviamo in Ferdinand de Saussure, successiva­ mente ripresa da Roman Jakobson, ci consente di individuare la radice comune alla patologia e alla funzionalità della polisemia. È una analisi che concerne il meccanismo della lingua; oggetto dell’analisi non sono più i segni bensì il modo in cui si combinano. A questo proposito Saus­ sure distingue due tipi di rapporto. Il primo è di tipo lineare, sintagma­ tico. I rapporti sintagmatici prevedono combinazioni tra tutti i termini presenti nella catena del discorso e collocati in un rapporto di continuità temporale. Il secondo tipo è quello paradigmatico. Viene in tal modo regolata la selezione di un termine presente in rapporto ai termini assenti che costituiscono con esso una sfera di somiglianza, un paradigma per operazioni di sostituzione. È l’asse dei gruppi di sostituzione che mette in gioco appunto relazioni di similarità. I fenomeni propri alla polisemia si realizzano a livello di questo asse di selezione e sostituzione. Riconoscere per il linguaggio questo tipo di funzionamento non sulla base di procedure di tipo lineare, vuol dire non solo riconoscere che l’approccio strutturale non sta rigidamente solo entro la logica delle opposizioni distinte all’interno di un sistema, ma anche che è possibile pensare problemi quali quelli posti dalla polisemia^ problemi nei quali la somiglianza prevale sulla differenza. Fin qui lo sta­ tuto linguistico della polisemia a livello della semantica lessicale. XIII

Introduzione

Abbiamo già notato come la stessa polisemia esiga, per esser comu­ nicabile, l’intervento regolatore della struttura. «La semantica strutturale tenta di rendere conto della ricchezza semantica delle parole con un me­ todo molto originale che consiste nel far corrispondere le varianti di senso a classi di contesti: le varianti di senso possono allora essere analizzate in un nucleo fisso—quello che è comune a tutti i contesti—e in varia­ bili contestuali» 9. La semantica strutturale affronta, con il rigore di uno strumento analitico, la teoria del contesto e la sua capacità di regolare la polisemia. È appunto la nozione di isotopia quella decisiva per designare rigo­ rosamente il luogo della polisemia. Per isotopia di un discorso si intende la stabilizzazione del discorso stesso ad un livello omogeneo di senso; per questo il simbolismo viene prodotto quando il contesto tollera o ■conserva insieme più isotopie. Il lavoro svolto dalla semantica struttu­ rale è appunto quello di restituire e ricostruire le relazioni che permet­ tono di dare conto della ricchezza semantica delle parole e ciò mediante la istituzione di un rapporto, di una correlazione tra le varianti di senso e le classi di contesto. Nel caso del discorso plurivoco, il contesto invece di filtrare una serie di sememi isotopi lascia passare differenti serie se­ mantiche appartenenti ad isotopie discordanti. La possibilità del simbo­ lismo viene così ad essere radicata in una funzione comune a tutte le parole, cioè la capacità che è propria dei lessemi di sviluppare variazioni contestuali. L’ambiguità calcolata, la plurivocità, è il prodotto di certi contesti, che stabiliscono una certa isotopia per lasciarne filtrare un’altra. Il contributo della semantica strutturale non riguarda solo la spiega­ zione dell’ambiguità calcolata frutto di certi contesti, riguarda altresì il discorso come luogo della plurivocità produttrice di un particolare effetto di senso. Tale passaggio non è il frutto della semplice estensione: una frase è irriducibile alla somma delle sue parti. Pur essendo costituita di parole non è una funzione derivata di queste stesse parole. Pur essendo fatta di segni, la frase non è riducibile a segno. Solo nel discorso, e non altrove, esiste plurivocità. La comprensione del fenomeno della plurivocità polisemica passa, allora, per un approccio bidimensionale al linguaggio: un approccio basato sui segni e uno sui 9 P. Ricoeur, Le problème du double-sens camme problème herméneutique et camme problème sémdntique, «Cahiers internationaux du symbolisme », 12, 1966, pp. 59-71, ripreso in Le conflit des interpretations t éd. du Seuil, Paris 1969; tr. it., Jaca Book, Milano 1977, pp. 89-90.

XIV

Introduzione segni in posizione di frase, sul discorso. A questa duplicità di approccia corrisponde l’altra, fondamentale, distinzione di semiologia e semantica. Il segno è appunto l’unità semiologica, la frase è l’unità semantica, la prima dà vita alla linguistica della «langue», la seconda a quella del di­ scorso. Questo spostamento di piani comporta uno spostamento di interro­ gazione. L’approccio linguistico si è efficacemente impegnato a sciogliere il nodo dell’ambiguità di senso presente nel discorso mediante il mecca­ nismo della polisemia e dell’isotopia. Ma è possibile arrestarsi qui o non bisogna piuttosto chiedersi: «A quale obiettivo risponde la ambiguità polisemica?». Vi sono due modi di porsi di fronte al fenomeno del simbolismo e darne conto: il primo è quello che percorre la costituzione del feno­ meno polisemie©, l’altro è quello che si chiede che cosa questo fenomeno vuol dire. Il primo piano è quello dell’analisi strutturale. Ma quésta ana­ lisi si rivela strutturalmente incapace di rispondere al nostro secondo in * terrogativo; quello appunto della espressività del linguaggio. Proprio l’emergenza di tale espressività si traduce nella impossibilità di ridurre il piano del discorso, il piano della manifestazione, di ciò che il linguag­ gio dice, al piano di immanenza. Ricoeur cita Greimas: « C’è forse un mistero del linguaggio ed è un problema per la filosofia, ma non c’è mistero nel linguaggio». E aggiun­ ge: «Credo che anche noi possiamo dire questo: non c’è mistero nel linguaggio: il simbolismo più poetico, più “sacro”, opera con le stesse" variabili semiche presenti nel termine più banale del dizionario. Ma c’è un mistero del linguaggio: il linguaggio dice, qualcosa, dice qualcosa del­ l’essere» 10il . E compito della filosofia sarà appunto quello di «riaprire ver­ so l’essere detto» quel discorso che la linguistica, per ragioni di metodo, riduce e rinchiude nella combinatoria dei segni.

Se si riconosce la pertinenza di tale interrogazione, bisognerà riaprire quel versante escluso dalla linguistica strutturale, quello della «parole», come evento di discorso. Ciò comporta il recupero dell’atto di parola e di discorso come produzione di nuovi enunciati, come evento, come in­ tenzione di dire qualcosa n. io Ibid., p. 92. il Ma non bisognerebbe fermarsi qui. L’enunciato non rappresenta l’ultima so­ glia della linguistica: da alcuni anni si è sviluppata una strategia linguistica che ha nel testo (text o discourse) il suo segno adeguato. È importante rilevare come que-

XV

Introduzione

Qui ci interessa sottolineare come sia proprio il fenomeno della poli­ semia quello che ci aiuta a superare il piano della linguistica strutturale, cioè lo studio del linguaggio attraverso la costituzione della sua forma. Solo se introduciamo una dialettica tra segno e suo; utilizzo in atto, tra struttura e avvenimento la polisemia diviene comprensibile. Poniamoci, infatti, in una prospettiva rigidamente strutturale, sincronica: la polise­ mia coincide con il fatto che un termine possiede molteplici significati. Ma ci sfugge così l’essenziale del fenomeno polisemie© che è dato ap­ punto dal processo di trasferimento del senso, il processo metaforico, processo di assegnazione del nome, processo di accumulo. Questo processo si fonda sulla proprietà della parola di acquisire nuove dimensioni di senso pur conservando le precedenti: «È tale pro­ cesso cumulativo, metaforico, quello che si proietta sulla superficie del sistema e prende il nome di polisemia» 12. Vi è un fattore di espansione, di sovraccarico, di accumulo che concentra molteplici valori di impiego, ma questo processo cumulativo viene ad essere proiettato sul sistema dei segni, così che il nuovo significato acquisito trovi all’interno del si­ stema quella limitazione in assenza della quale il sovraccarico impedi­ rebbe la stessa significazione. Evento e sistema qui si richiamano e si implicano reciprocamente. Senza il primo, senza la storia dell’uso di un termine, non avremmo quel materiale polisemico, quell’accumulo che trova poi nella mutua limita­ zione dei segni all’interno del sistema, la sua necessaria disciplina. Ma ancora, il caso della polisemia consente di ribadire la differenza tra si­ stemi semantici e sistemi semiologici. La polisemia impone il supera­ mento dei sistemi semiologici perché questi ultimi funzionano senza al­ cun riferimento alla storia, si reggono solo su opposizioni binarie tra unità distintive. Per questo non sono in grado di cogliere il processo di trasferimento di senso, di assegnazione del nome. Solo accedendo al piano semantico e quindi cogliendo l’equilibrio tra il processo di espansta tendenza della linguistica incontri lo stesso progetto ermeneutico che ha appun­ to nel testo il suo referente. Proprio perché il discorso è diventato testo, esso ha una base materiale e può così liberarsi dall’angustia della situazione dialògica. E con la fine del rapporto dialogico tra locutore e uditore inizia il lavoro ermeneutico, un conflitto nel quale si affrontano da un lato il testo e dall’altro il lettore. Il lavoro ermeneutico incomincia appunto con il testo. Per l’approccio linguistico cfr. La lin­ guistica del testo, a cura di Maria-Elisabeth Conte, Feltrinelli, Milano 1977. 12 P, Ricoeur, La structure, le mot, l’événement, «Esprit», mai 1967, pp. 801-821; ripreso in Le conflit..., cit.; tr. it., p. 107.

XVI

Introduzione sione e quello di limitazione si comprende come nuovi valori di signifi­ cazione si aprano un varco nei sensi già acquisiti e nuovi valori di im­ piego dei termini si manifestino entro una struttura data. «La polisemia regolata è l’ordine pancronico (sincronico e diacronico insieme) nella mi­ sura in cui una storia si proietta in stati di sistema; ne deriva che questi stati di sistema sono soltanto dei tagli istantanei nel processo del senso, nel processo della assegnazione dei nomi» B. In altri termini, è solo il contesto l’elemento che regola la ricchezza semantica. Univocità e plurivocità sono due possibili esiti dell’azione del contesto sulla potenziale polisemicità di tutte le nostre parole. Se il con­ testo conserva più isotopie, allora avremo il linguaggio simbolico. Invece di imporre l’univocità, impedendo alle molteplici dimensioni di senso di passare, il contesto rafforza diverse isotopie, diversi piani di riferimento, diverse topiche: così è la struttura stessa del discorso che fa sì che di­ verse dimensioni di senso si realizzino insieme. È quello che Ricoeur chiama «linguaggio in festa» 13 1415 .

L’enigma di un «linguaggio in festa», sta appunto nella sua sovra­ determinazione. Non è allora casuale che La metafora viva si concluda con una significativa ripresa: ormai è la poesia che «donne à penser» meglio, è la sua verità tensionale cioè la dialettica tra esperienza di ap­ partenenza e potere di distanziamento che la costituiscono. Ripresa di una formula giustamente emblematica: «le symbole donne à penser»,. donazione di una precedenza, appartenenza appunto ad una datità che non possiamo creare con gli strumenti della filosofia riflessiva chiusa nel Cogito e insieme iniziativa del pensare a partire da questa appartenen­ za l6. Ma come la poetica sarà linguaggio di questa ulteriorità di senso che già si annunciava nella ricchezza polisemica?

Una formula aristotelica aiuterà a cogliere il nesso tra multivocità e predicazione: «Il verbo, dice Aristotele, è espressione caratteristica di ciò che si dice di qualcos’altro» 17. Così l’interpretazione è intesa come il dire qualcosa di qualcosa. A partire da questa definizione aristotelica che a prima vista sembrerebbe estranea all’ermeneutica perché collocata in. una logica di senso univoco, possiamo però giungere al nostro problema,. 13 « 15 16 17

Ibid., p. 108. Ibid., p. 109. p. 417. Finitudine e colpa, cit., p. 625. Dell’Interpretazione, 3, 16 b 10.

XVII

Introduzione

Infatti, se l’uomo interpreta la realtà dicendo qualcosa di qualcosa, ciò vuol dire che le autentiche significazioni sono indirette. Raggiungo le cose solo se attribuisco un senso ad un senso. L’affermazione aristote­ lica del Peri Ermeneias e l’altra della Metafisica secondo la quale l’essere non è suscettibile di una definizione univoca perché si predica in molti modi, permettono di sostenere che solo aprendo un varco nella teoria puramente logica e ontologica dell’univocità è possibile fondare una teo­ ria dell’interpretazione come logica dei sensi molteplici. L’istituzione del nesso tra multivocità e predicazione permette di dar vita ad una teoria della metafora non più considerata come un semplice artificio di sostituzione o di nominazione, come figura retorica che con­ sidera la sostituzione di un termine usuale con un altro figurato sulla base della somiglianza o dell’analogia. La teoria della metafora viva si fonda sull’intera frase e non su una parola soltanto. La metafora consiste nella tensione tra termine singolo e frase, non è semplice fenomeno di sostituzione bensì nuova predicazione che tocca e altera tutti i termini di una frase. In questo sta la dimensione creativa e immaginativa della metafora viva, cioè la capacità di spezzare le precedenti categorie per crearne di nuove. Il discorso metaforico ha il potere di ridescrivere il reale, aprendo inedite dimensioni di esso: è la funzione propria del lin­ guaggio poetico. Ma questo linguaggio poetico ha una sua referenza? È vero che il linguaggio poetico è eminentemente poietico, cioè in grado di fare emer­ gere aspetti della realtà che il linguaggio ordinario non sa esprimere? È linguaggio euristico che consente di dilatare la nostra comprensione del reale? Oppure è più vicino al vero Paul Valéry quando assimila la poesia alla danza, la quale non ha alcuna mèta alla quale andare, «qui n’a qu’elle méme pour but» 18, poiché la sua finalità è interna allo stesso movimento? Ben diversa è invece la logica della marcia, del cammino teso verso un traguardo da raggiungere. Non v’è dubbio che la risposta a questi interrogativi sia decisiva per la sorte di quei linguaggi che variamente si connettono al fenomeno della polisemia e quindi al registro simbolico e poetico. Se la risposta dovesse essere negativa, nel senso di escludere una referenza, il linguaggio del­ l’esperienza religiosa, per esempio, dovrebbe essere confinato nella sfera dell’individualità ineffabile senza poter mai attingere e dire l’evento di salvezza. Sarebbe così pregiudicata in partenza la possibilità di una teo38

Paul Valéry, L’dme et la danse, Gallimard, Paris 1944, p. 147. XVIII

Introduzione logia, di un logos appunto della rivelazione di Dio. E accanto alla sorte che condannerebbe il linguaggio dell’esperienza religiosa al silenzio, resterebbe confermato il progetto di cancellazione della polisemia ad opera dei linguaggi univoci e sempre più formalizzati. Le persuasione che il simbolismo poetico sia una patologia del linguaggio e una forma di impossibile comunicazione troverebbe in tale eclissi della referenza la sua più certa conferma. Di qui l’importanza, la necessità di una teoria della referenza poetica perché il linguaggio poetico sia il lin­ guaggio di spessore ontologico. Certo, questo problema non si pone se si resta nell’ambito rigoroso della semiologia, cioè della problematica del senso. Senso inteso non già come un obbiettivo di natura extra-linguistica, bensì come un fenomeno che non fuoriesce dalla chiusura del discorso, fenomeno perfettamente immanente e che coincide con il potere integrativo esercitato sulle unità di livello inferiore da parte di quelle di livello superiore. Bene ha espres­ so questa logica Roland Barthes a proposito della referenza narrativa: «Un racconto non deve mostrare nulla, non deve imitare. La passione che esercita una influenza su di noi non è quella di una visione, ma quella del significato, ossia di un più alto ordine di relazioni che sviluppa la propria serie di emozioni, speranze, minacce e trionfi. Ciò che avviene nei racconti dal punto di vista referenziale è effettivamente nulla. Ciò che accade è solo linguaggio, l’avventura del linguaggio, il cui avvento continua ad essere celebrato» 19. In una prospettiva semiologica il senso esclude la referenza. E tale esclusione è corretta sul piano del metodo, in conformità con l’ipotesi che regola lo strutturalismo: quella di una fondamentale omologia di tutte le unità linguistiche. Ma se riconosciamo che sul piano del suo funzio­ namento il linguaggio non si basa solo sui segni ma anche sulle frasi,, dobbiamo riconoscere che proprio la frase impone il ricupero della re­ ferenza e la sua non riducibilità al senso. Eppure sembra che il linguaggio poetico si configuri proprio come cancellazione della referenza. La poesia, si potrebbe dire, non si occupa di nulla, tranne che del linguaggio, analogamente a quanto Roland Bar­ thes ha affermato a proposito del modulo narrativo. È una tendenza questa ad approfondire la dicotomia tra segni e cose,. 19 Roland Barthes, Introduction à l’analyse structural des récits, in Numero spe­ cial, L"analyse structured# du récit, «Communications», Paris 1966, pp. 1-27; tr. it.,, in L’analisi del racconto, Milano 1969. ,

XIX

Introduzione

che ritroviamo nella sua forma radicale in Anatomy of Criticism di Nortrop Frye20. Due movimenti, uno centrifugo e uno centripeto, discrimi­ nano da un lato discorso informativo o didattico e dall’altro discorso letterario o poetico. È centrifugo (outward dice Frye) quel discorso che porta appunto verso le cose; è centripeto (inward) il movimento delle parole verso le parole, dei segni verso più ampie configurazioni che dan­ no vita appunto alle opere poetiche e letterarie in genere. Coerentemen­ te, il simbolo per Frye è inteso come ciò che sta al posto di..., come se­ gno per..., nel caso del discorso informativo. Invece nel caso del discorso letterario, il simbolo non ha portata referenziale, ma semplicemente una funzione connettiva delle diverse parti al tutto che è il discorso. La strut­ tura poetica è self-contained, cioè una struttura che si fonda esclusivamente sui suoi rapporti interni. Per questo, mentre il discorso informa­ tivo e didattico contiene una prospettiva di verità, il poeta non fa mai affermazioni. Mentre il discorso metafisico e quello teologico portano su affermazioni, la poesia, secondo Frye, ignorando la realtà, si limiterebbe a costruire un mythos. Si può dire che le relazioni verbali interne arri­ vano ad assorbire le potenzialità di significazione esterna del segno. Una posizione che non condividiamo. Possiamo trovare una analogia, secondo Frye, tra il procedimento matematico e quello poetico: entrambi lavorano su «ipotesi», rispetto alla funzione meramente descrittiva. È a questa nozione di «ipotetico» che Ricoeur conferisce particolare importanza. Infatti, se è vero che nel caso del linguaggio poetico la referenza non può essere ridotta a quella descrittiva del linguaggio didattico, tale sospensione non è comunque la cancellazione di ogni referenza. Non potrebbe darsi semplicemente una eclissi del modulo descrittivo per rendere possibile il modulo ipotetico? E questo proprio perché le immagini poetiche non affermano e non ne­ gano, esse evocano quello che Frye ancora chiama un mood, uno stato d’animo, cioè un modo d’essere che non deve essere considerato solo in termini psicologici. È forse possibile accostare a questa analisi di Frye l’affermazione di Susan Langer per la quale leggere un poema vuol dire avere una esperienza di vita virtuale. Ipotetico e virtuale indicano ap­ punto la sospensione della referenza reale come condizione obbligata per passare ad un altro modo d’essere nel mondo, per passare ad altro mondo rispetto a quello «dato» proprio della logica estensiva e descrittiva. Com­ pito della poesia sarebbe allora quello di suscitare, di evocare appunto, 30

Princeton University Press 1957; tr. it., Einaudi, Torino 1969.

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nella forma dell’ipotetico e del virtuale, un mondo che corrisponda a queste possibilità. Ma come questa momentanea eclissi della referenza descrittiva è con * dizione per passare ad una referenza ri-descrittiva? Più precisamente co­ me il funzionamento della metafora consente di comprendere la nuova referenza poetica la quale non è rinuncia alla referenza sifflpliciter, ma solo a quella descrittiva? È il terzo momento: la metafora come disci­ plina della polisemia e referenza poetica ad una ulteriorità rispetto al mondo delle oggettivazioni date. Per poter trovare nel funzionamento della metafora l’accesso a que­ sta duplice referenza, cioè alla sospensione di quella ostensivo-descrittiva e apertura di una referenza ipotetica, mimetica del reale, occorre supe­ rare il piano di considerazione puramente retorico della metafora. Si tratta di percorrere la retorica della metafora e la semantica per approdare ad una ermeneutica. Questo tragitto scandisce gli otto studi che compon­ gono il presente volume. Quando ci poniamo sul piano della retorica, la metafora è una delle figure concernenti l’uso di termini in un senso deviato rispetto al loro uso letterale, proprio. Siamo così, con una tradizione retorica immutata fino al secolo scorso, in una teoria degli scarti, delle alterazioni di senso che toccano le parole prese isolatamente. Ciò che importa qui sottoli­ neare come caratteristico del livello retorico è appunto la considerazione del tarmine preso isolatamente. La teoria dei tropi è infatti quella che si occupa della modificazione dell’uso ordinario di un termine. Una teoria die si esaurisce nella minuziosa catalogazione dei diversi possibili rap­ porti tra l’idea che sta dietro l’uso ordinario di un termine e la nuova idea connessa con l’uso traslato, retorico dello stesso termine. Soggiace a questo trattamento retorico la persuasione secondo la quale ad ogni ter­ mine corrisponde una idea. Entro la teoria dei tropi la metafora è quella figura che presenta una idea sotto il segno di un’altra più incisiva o più nota che ha con la prima solo una certa conformità o analogia. Abbiamo detto di un tragitto dalla retorica alla semantica. Si tratta, infatti, di uscire dal piano retorico, cioè dalla considerazione della me­ tafora come fenomeno che tocca la parola per collocarsi a livello della frase 0 dell’enunciato. Diversamente non è possibile dare conto dèlia nuova informazione rappresentata dalla metafora. La teoria retorica sta essenzialmente in una considerazione ornamentale e non autenticamente rivelativa. La sostituzione del termine consueto con uno insolito può spiegare appunto la funzione ornamentale e di riempimento di una la­

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cuna semantica. Ma così la metafora resta esclusa da una vera e propria euristica. Per dare conto del meccanismo della sostituzione e non limitarsi sem­ plicemente a rilevare lo scarto tra i due termini, occorre situarsi a livello dell’intera frase, altrimenti non è possibile cogliere la trasgressione ca­ tegoriale che è in atto nella predicazione metaforica. Restare al livello di una retorica della sostituzione significa non po­ ter cogliere l’intervento che la metafora compie sulla stessa classificazione modificando il confine dei generi e delle specie. E l’apertura verso una nuova informazione che ci viene dalla metafora è proprio il frutto di questo intervento destrutturante, che disarticola le descrizioni precedenti, acquisite. II passaggio al piano del discorso, dell’enunciazione discorsiva, è ope­ ra soprattutto della linguistica anglosassone: non più il termine bensì la proporzione. Enunciati metaforici, tensione tra tenor e vehicle, ovvero tra focus e frame, torsione metaforica, violazione della pertinenza seman­ tica, ecc... formule diverse per indicare un comune approccio ben distante dalla teoria retorica della sostituzione. Accomuna queste diverse teorie semantiche la tesi secondo la quale la predicazione metaforica non av­ viene tra un termine presente e uno assente bensì tra tutti i termini co­ presenti del messaggio. La regola secondo la quale la predicazione non può avvenire che tra un soggetto e un predicato appartenenti a generi compatibili, viene violata dalla predicazione metaforica la quale, per dirlo con Jean Cohen, è vera e propria impertinenza semantica che comporta una torsione del senso dei termini i quali assumendo una nuova signifi­ cazione riducono lo scarto semantico. E Gilbert Ryle arriva a parlare, per la metafora, di category-mistake, cioè di un vero e proprio errore calcolato, nel senso di una predicazione erronea perché compiuta nei ter­ mini che convengono ad altro soggetto. L’approccio semantico permette così di comprendere come la meta­ fora sappia instaurare una nuova pertinenza significante tenendo insieme termini che, presi letteralmente, non stanno insieme. È possibile misu­ rare, ancora una volta, la distanza rispetto alla teoria tradizionale che vede nel parlare metaforico un parlare per immagini. È Max Black ad os­ servare che le buone metafore non sono quelle che semplicemente regi­ strano una somiglianza ma la instaurano mediante la creazione appunto di una pertinenza inedita. Dobbiamo ormai parlare solo di predicazione metaforica, di applica­ zione di valori semantici altri rispetto a quelli che sono codificati nel

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lessico. Per questo Black parla di «sistema dei luoghi comuni associati» e Beardsley di «gamma potenziale di connotazioni». Più precisamente, la predicazione metaforica lavora non sulla denotazione cioè non sui valori registrati nel lessico, bensì sulle connotazioni cioè sulle significazioni se­ condarie che non appartengono tanto al nucleo d’informazione della pa­ rola quanto piuttosto alla sua frangia. È in questo patrimonio di conno­ tazioni, irriducibili alla denominazione, che si attinge ogniqualvolta si opera la predicazione metaforica. Una predicazione che applica questi va­ lori translessicali al soggetto principale, a guisa di filtro, cioè facendo na­ scere aspetti nuovi nel soggetto principale. Così è legittimo parlare, a proposito della metafora, di nuove informazioni. Questo vale soprattutto per le metafore d’uso, quelle che si costruiscono a partire dal patrimonio delle significazioni già registrate nell’uso. Eppure vi sono metafore nelle quali si danno significazioni emergenti, metafore nelle quali vengono in­ staurate delle connotazioni potenziali. L’enigma della predicazione meta­ forica è questa innovazione semantica. C’è dunque un potere della predicazione metaforica di ridescrivere l’esperienza, di ristrutturare la realtà: ma per poter cogliere tale potere occorre, ancora una volta, mutare il livello dell’analisi. Da una retorica della parola, ad una semantica della frase, infine ad una ermeneutica del­ l’opera. Solo ponendosi a livello dell’intero poema risulta la capacità del­ la metafora di fare apparire un mondo. Perché non vi è piena significa­ zione della metafora se non all’interno dell’opera? La lezione aristote­ lica risulta, in proposito, decisiva. La teoria aristotelica della metafora ha la sua condizione di possibi­ lità all’interno del mythos della tragedia. Il «senso» della tragedia è as­ sicurato dai diversi procedimenti di invenzione e costruzione che sono al­ trettanti strumenti che costituiscono quella finzione euristica che è ap­ punto il poema tragico. È per imitare in una maniera poetica le azioni umane che vengono scritte le composizioni tragiche. Nella definizione aristotelica noi abbiamo i due termini cruciali: quello di poiesis e di mi­ *, mesis l’innovazione semantica e la referenza si spiegano appunto in ter­ mini di poiesis e di mimesis. Attraverso i vari modi della lexis, e in par­ ticolare la metafora, l’opera tragica persegue l’obiettivo di una descri­ zione poietica del reale. Non allora una semplice reduplicazione della realtà, non una referenza puramente descrittiva: una vera apertura ine­ dita di mondo. Vi è quindi un nesso obbiettivo tra l’innovazione meta­ forica e il carattere di imitazione creatrice che è proprio del poema tra­ gico. Come la predicazione metaforica interviene sul linguaggio per por­

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tarlo al di là delle sue possibilità ordinarie, così il poema tende alla ri­ descrizione poetica delle azioni umane: la referenza non estensiva del poema trova nella predicazione metaforica un veicolo coerente. Le crea­ zioni metaforiche sarebbero davvero puri artifici ornamentali se non aves­ sero, entro la totalità dell’opera poetica, la funzione di lasciar affiorare un nuovo modo d’essere. L’intervento congiunto di mimesis e poiesis consente, in tal modo, di comprendere come possa darsi vera referenza pure in presenza di procedure, come la metafora, die di loro natura «stra­ volgono» la referenza immediata e estensiva. Certo, condizione perché questa referenza venga ricuperata è il su­ peramento della confusione tra funzione mimetica e funzione meramente ripetitiva. La mimesis della realtà altro non sarebbe che una copia sbia­ dita di una realtà che sarebbe, per contro, ben nota e definita. In realtà questo concetto di mimesis come copia neppure rispetta, come s’è visto, l’intenzione della 'Poetica aristotelica alla quale solitamente si fa risalire la responsabilità di avere introdotto questa lettura della mimesis come copia della realtà. Dobbiamo invece parlare di «imitazione creatrice». Il mythos e in esso la lexis e in quest’ultima la metafora, è rifacimento, imita mediante la metamorfosi poetica. Una seconda condizione perché la referenza venga pienamente ricu­ perata. Occorre evitare, interpretando la «diversità» del linguaggio poe­ tico, di scivolare dal piano linguistico a quello psicologico. È ciò che av­ viene quando si assimila denotazione con funzione conoscitiva e conno­ tazione con funzione emotiva. Una consolidata tendenza interpretativa attribuisce al linguaggio poetico una funzione eminentemente espressiva di emozioni e quindi riconosce a tale linguaggio la capacità di provocare stati emozionali analoghi. Se si accedesse a tale interpretazione di tipo psicologico, l’intero lavoro ermeneutico post-diltheiano e post-bultmanniano ne sarebbe minato alle fondamenta: saremmo risospinti nella anti­ nomia tra spiegare e comprendere, nella divaricazione insanabile tra le scienze dello spirito e quelle della natura, arretreremmo rispetto a quella «soglia oggettiva» dell’ermeneutica che è stata la faticosa conquista del­ le ricerche di questi ultimi decenni. Accettare d’esser rinchiusi nell’alternativa: conoscere/sentire, è de­ cisione gravida di conseguenze. Vuol dire accogliere il pregiudizio intel­ lettualistico soggiacente al nostro rapporto soggetto/oggetto, quando ac­ cettiamo il concetto di realtà proprio del positivismo logico confinando in una sfera puramente soggettiva i fenomeni emozionali e in una sfera oggettiva quelli cognitivi. Vuol dire dover scegliere tra un’ermeneutica

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Introduzione rigidamente scientifico-oggettiva e una ermeneutica risolta nell’appropria­ zione esistenziale o psicologica. Il linguaggio metaforico, poetico, linguaggio in festa non manca di una sua referenza, certo distante da quella meramente ostensiva, anzi possibile solo dopo Fedissi di quest’ultima. Il linguaggio poetico dice la realtà, ma proprio perché dice «altrimenti» rivela una realtà «altra». Il metaforico è, così, invito a «pensare di più», pensare di più la referenza metaforica e cioè quella metamorfosi del reale che è detta appunto nella predicazione metaforica. Se il linguaggio è l’essere-detto della realtà, quale realtà è detta nella metafora e in genere nel linguaggio poetico? Non dovrà essere una me­ tamorfosi di realtà, la referenza propria ad un linguaggio di metamor­ fosi? La referenza di un linguaggio in festa sarà una proposizione di mon­ do nel segno ludico21. Anche nel gioco, infatti, si crea una metamor­ fosi; il gioco non è forse sospensione dell’ordinario per dare vita ad ima rappresentazione, ad ima mimesis del reale? Come nel gioco così nella metamorfosi poetica la realtà diviene veramente tale e cioè qualcosa che, sospesa l’immediatezza data, comporta un orizzonte futuro di possibili. Per questo Aristotele osa dire: «La poesia è qualche cosa di più filoso­ fico e di più elevato della storia: la poesia tende piuttosto a rappresen­ tare l’universale, la storia il particolare»22. Se questa nuova referenza deve essere intesa nel segno della mimesis, cioè della ridescrizione, della metamorfosi, vuol dire che essa non tocca il mondo come complesso di oggetti manipolabili. Non è allora un rap­ porto col mondo in termini di controllo e dominio così delle cose come dei segni linguistici. È un rapporto che con Husserl possiamo indicare come Lebenswelt e con Heidegger come in der Welt-Sein *, «è proprio 21 Per questo tema del «ludico poetico», come capace di dare una nuova e spe­ cifica informazione intorno alla realtà, cfr. J. M., Lotman, La struttura del testo poe* fico, Mursia, Milano 1972. Si veda anche il capitolo dedicato a «Il proprio del lin­ guaggio poetico» in M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano 21980: «Ci sembra quindi affermazione non esaustiva quella per cui il lin­ guaggio poetico comunica solo se stesso; essa è valida unicamente in quanto il linguaggio poetico risulta autonomo rispetto ai referenti, cioè a livello di una se­ mantica prima o semantica della lingua. Ma in effetti il testo poetico emette un messaggio che cambia la struttura grammaticale della visione dei suoi lettori di fronte alla realtà» (p. 109). 22 Poetica 1451 b 5.

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questa emergenza del terreno primordiale della nostra esistenza, dell’oriz­ zonte originario del nostro esserci, che costituisce la funzione rivelante, funzione coestensiva alla funzione poetica stessa» * È di questa propo­ sizione di mondo che il testo dispiega dinanzi a me che l’ermeneutica sara ormai la decifrazione. È una rivelazione di mondo quella disvelata dalle variazioni immaginative del linguaggio.

Giuseppe Grampa

23 P. Ricoeur, Hermenéutique de Videe de Revelation, in AA.VV., La Révélation Bruxelles 1977, pp. 40-41.

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PREFAZIONE

Gli studi raccolti in questo volume sono il frutto di un seminario te­ nuto all’Università di Toronto nell’autunno 1971 sotto gli auspici del Di­ partimento di letteratura comparata. A questo proposito, desidero espri­ mere il mio più vivo ringraziamento al professor Cyrus Hamlin che mi ha ospitato a Toronto. Queste ricerche sono poi progredite attraverso i corsi tenuti all’Università di Lovanio e a quella di Parigi-x, nell’ambito del mio seminario di ricerche fenomenologiche, e infine all’Università di Chicago, alla cattedra John Nuveen.

Ciascuno di questi studi sviluppa un punto di vista determinato e rappresenta un discorso in sé completo. Al tempo stesso è un momento di un itinerario unico che inizia con la teoria classica, attraversa la semio­ tica e la semantica, per arrivare, alla fine, all’ermeneutica. La progres­ sione da una disciplina all’altra segue quella delle corrispondenti entità linguistiche: la parola, la frase e infine il discorso. La retorica della metafora assume la parola come unità di referenza. La metafora, per conseguenza, è catalogata tra le figure del discorso e definito come tropo di somiglianza; in quanto figura, essa consiste in un trasferimento e in una estensione del senso delle parole; la sua spiega? zione dipende da una teoria della sostituzione.

A questo primo livello corrispondono i primi due studi. Il primo Studio—«Tra retorica e poetica»—è dedicato ad Aristotele. Dobbiamo a lui, infatti, la definizione della metafora passata poi nella

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Prefazione storia dal pensiero occidentale, sulla base di una semantica che assume la parola o il nome come unità di base. Inoltre, la sua analisi si colloca all’incrocio di due discipline—la retorica e la poetica—che hanno scopi distinti: la «persuasione» nel discorso parlato e la mimesis delle azioni umane nella poesia tragica. Il senso di tale distinzione resterà sospeso fino al settimo Studio nel quale si definirà la funzione euristica del discor­ so poetico. Il secondo Studio—«Il declino della retorica»—è dedicato alle ul­ time opere sulla retorica nell’area europea e francese in particolare. L’ope­ ra di Pierre Fontanier, Les Figures du discours, viene presa come base di discussione. La dimostrazione verte su due punti principali. Si vuole, in primo luogo, dimostrare che la retorica culmina nella classificazione e nella tassonomia, nella misura in cui essa si concentra sulle figure dello scarto— o tropi—attraverso i quali il significato di una parola è trasfe­ rito rispetto al suo uso codificato. D’altro lato, vogliamo mostrare che, se un punto di vista tassonomico è adeguato ad una statica delle figure, esso è ìnadeguato a dar conto della produzione del significato, di cui lo scarto, a livello della parola, è soltanto l’effetto.

Il punto di vista semantico e il punto di vista retorico cominciano a differenziarsi soltanto quando la metafora viene collocata nell’ambito della frase e trattata come un caso di predicazione impertinente e non di denominazione deviante. A questo secondo livello di considerazioni appartengono i tre studi seguenti: Il terzo Studio—«La metafora e la semantica del discorso»—con­ tiene il momento decisivo dell’analisi. Lo si può, quindi, considerare lo studio-chiave. Esso situa, provvisoriamente, in rapporto di opposizione irriducibile, la teoria della metafora-enunciato e la teoria della metaforaparola. L’alternativa viene preparata attraverso la distinzione ricavata da Emile Benveniste, tra una semantica nella quale la frase è la portatrice del significato completo minimale e una semiotica per la quale la parola è un segno nel codice lessicale. A tale distinzione tra semantica e semio­ tica si fa corrispondere l’opposizione tra una teoria della tensione e una teoria della sostituzione, la prima che si applicherebbe alla produzione della metafora all’interno della frase presa come un tutto, la seconda concernente l’effetto di senso a livello della parola isolata. In tale ambito vengono presi in esame gli importanti contributi di autori di lìngua in­ glese, Ivor Armstrong Richards, Max Black, Monroe Beardsley. Si vuol 2

Prefazione

mostrare, da un lato, che i punti di vista in apparenza divergenti di que­ sti diversi autori, («filosofia della retorica», «grammatica logica», «este­ tica») possono essere posti sotto il segno della semantica della frase in­ trodotta all’inizio dello studio. Si cerca, inoltre, di delimitare il proble­ ma della creazione di senso attestato dalla metafora di invenzione. Il sesto e il settimo Studio nascono da questa problematica dell’innovazio­

ne semantica. Se vengono rapportati alla questione individuata alla fine del terzo Studio, il quarto e il quinto Studio possono sembrare una sorta di arre­ tramento. Ma il loro obiettivo essenziale è quello di integrare la se­ mantica della parola, che sembrava poter essere eliminata dallo studio precedente, alla semantica della frase. Effettivamente, la definizione della metafora come trasposizione del nome non è sbagliata. Essa consente di identificare la metafora e di classificarla tra i tropi. Ma soprattutto, tale definizione, che è quella di tutta la storia della retorica, non può es­ sere eliminata, perché la parola resta portatrice dell’effetto del senso me­ taforico. A tale proposito, bisogna ricordare che è proprio la parola quella che, nel discorso, assicura la funzione dell’identità semantica: è proprio tale identità che viene alterata dalla metafora. Bisogna perciò mostrare come la metafora, prodotta al livello dell’enunciato inteso come un tutto, si «focalizzi» sulla parola. Nel quarto Studio—«La metafora e la semantica della parola»—la di­ mostrazione si limita ai lavori situati nel solco della linguistica saussuriana, in particolare quelli di Stephen Ullmann. Pur restando sulla soglia dello strutturalismo vero e proprio, mostriamo come una linguistica che non distingue tra semantica della parola e semantica della frase, deve limitarsi ad assegnare i fenomeni di cambiamento di senso alla storia degli usi della lingua. Il quinto Studio—«La metafora e la nuova retorica»—porta avanti la medesima dimostrazione nell’ambito dello strutturalismo francese. Que­ sti, infatti, merita una analisi distinta, in ragione della «nuova retorica» che produce e che estende alle figure del discorso le regole di segmenta­ zione, di identificazione e di combinazione già applicate con successo alle entità fonologiche e lessicali. La discussione è avviata mediante un esame dettagliato delle nozioni di «scarto» e di «livello retorico zero», mediante un confronto tra le nozioni di «scarto» e di «figura», e infine mediante una analisi del concetto di «riduzione di scarto». Tale lunga preparazione ha funzione introduttiva rispetto all’esame della nuova re­ torica propriamente detta; si considera con la massima attenzione il suo

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Prefazione tentativo di ricostruire sistematicamente l’insieme delle figure sulla base delle operazioni che governano gli atomi di senso di livello infralinguistico. La dimostrazione mira essenzialmente a dire che l’innegabile sotti­ gliezza della nuova retorica si esaurisce interamente in un ambito teorico che misconosce la specificità della metafora-enunciato e si limita a con­ fermare il primato della metafora-parola. Tento, comunque, di mostrare che la nuova retorica rinvia, proprio a partire dai suol limiti, ad una teo­ ria della metafora-enunciato che essa non è in grado di elaborare sulla base del proprio sistema di pensiero.

Il passaggio dal livello semantico a quello ermeneutico è oggetto del sesto Studio—«Il lavoro della somiglianza»— die riprende il problema lasciato in sospeso alla fine del terzo Studio, quello dell’innovazione se­ mantica, ovvero della creazione di ima nuova pertinenza semantica. È proprio per risolvere questo problema che viene ripresa la nozione di somiglianza. Bisogna cominciare col rifiutare la tesi, ancora sostenuta da Roman Jakobson, secondo la quale la sorte della somiglianza è indissolubilmente legata a quella di,una teoria della sostituzione. Ci si sforza di far vedere come il gioco della somiglianza è ugualmente necessario all’interno di una teoria della tensione. In effetti, è proprio al lavoro della somiglianza che deve esser rapportata l’innovazione semantica in forza della quale una «prossimità» inedita tra due idee viene colta nonostante la loro «distan­ za» logica. Diceva Aristotele che «il saper trovare belle metafore signifi­ ca saper vedere e cogliere la somiglianza delle cose tra loro». Così la so­ miglianza deve essere, a sua volta, compresa come una tensione tra l’iden­ tità e la differenza all’interno della operazione predicativa messa in mo­ vimento dall’innovazione semantica. Una tale analisi del lavoro della so­ miglianza comporta, a sua volta, la reinterpretazione delle nozioni di «im­ maginazione produttiva» e di «funzione iconica». Bisogna smettere di ve­ dere nell’immaginazione una funzione legata all’immagine, nell’accezione quasi sensoriale del termine; essa consiste piuttosto nel «vedere come...», per riprendere una espressione di Wittgenstein; tale capacità è un aspetto dell’operazione propriamente semantica che consiste nel percepire il si­ mile nel dissimile. Il passaggio al punto di vista ermeneutico corrisponde al cambiamen­ to di livello: dalla frase al discorso propriamente detto (poema, racconto, saggio, ecc.). Una nuova problematica emerge in rapporto a questo nuovo 4

Prefazione

punto di vista: esso riguarda più la forma della metafora in quanto fi­ gura del discorso centrato sulla parola; e neppure soltanto il senso della metafora in quanto pone in essere una nuova pertinenza semantica; ben­ sì la referenza dell’enunciato metaforico in quanto è potere di «ridescri­ vere» la realtà. Tale transizione dalla semantica all’ermeneutica, trova la sua’ fondamentale giustificazione nella connessione, all’interno di ogni discorso, tra il senso, che ne è l’organizzazione interna, e la referenza, che è la capacità di riferirsi ad una realtà esterna al linguaggio. La meta­ fora si presenta, allora, come una strategia di discorso che, preservan­ do e sviluppando la capacità creatrice del linguaggio, preserva e sviluppa la capacità euristica della finzione. Ma la possibilità che il discorso metaforico dica qualcosa sulla realtà, si scontra con la costituzione apparente del discorso poetico, che sembra essenzialmente non referenziale e centrata su se stessa. A tale concezione non referenziale del discorso poetico, noi opponiamo l’idea che la so­ spensione della referenza letterale è la condizione perché venga liberata una capacità di referenza di secondo grado, cioè la referenza poetica. Non bisogna, dunque, limitarsi a parlare di doppio senso, ma di «refe­ renza sdoppiata», per usare una espressione di Jakobson. Noi fondiamo questa teoria della referenza metaforica su una teoria generalizzata della denotazione che è vicina a quella di Nelson Goodman in Languages of Art, e giustifichiamo il concetto di «ridescrizione me­ diante la finzione» sulla base della parentela fissata da Max Black in Models and Metaphors, tra il funzionamento della metafora nelle arti e . quello dei modelli nelle scienze. Tale parentela a livello euristico rap­ presenta il più solido argomento di una ermeneutica della metafora (set­ timo Studio). Arriviamo così al tema più importante di tutta l’opera: la metafora è il processo retorico in forza del quale il discorso libera la capacità, propria a certe finzioni, di ridescrivere la realtà. Connettendo, in que­ sto modo, finzióne e ridescrizione,, restituiamo tutta la sua pienezza di senso alla intuizione di Aristotele, nella . Poetica, cioè diela poièsis del linguaggio procedendola .connessione .tra mythos e mimesis. Da tale congiunzione tra finzione e ridescrizione ricaviamo la con­ clusione che il «luogo» della metafora, il suo luogo più intimo e radicale, non è il nome, né la frase e nemmeno il discorso, bensì la copula del ver­ bo essere. L’ «è» metaforico significa, ad un tempo, «non è» ed «è come». Se le cose stanno così, è fondato il nostro parlare di verità me­ taforica, ma dando un senso «tensionale» al termine «verità».

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Prefazione

Questa incursione nella problematica della realtà e della verità esige che venga fatta emergere la filosofia implicita nella teoria della refe­ renza metaforica. A tale esigenza risponde l’ottavo e ultimo Studio: «La metafora e il discorso filosofico». Questo studio è, essenzialmente, una difesa della pluralità dei modi di discorso e una difesa dell’indipendenza del discorso filosofico in rap­ porto alle proposizioni di senso e di referenza del discorso poetico. Nes­ suna filosofia procede direttamente dalla poetica: basta a dimostrarlo il caso, apparentemente sfavorevole, dell’analogia aristotelica e medievale. Nessuna filosofia procede dalla poetica per via indiretta, sia pure sotto la veste della metafora «morta» nella quale potrebbe concludersi la col­ lusione denunciata da Heidegger tra meta-fisica e meta-forica. Il discorso che cerca di operare la ripresa dell’ontologia implicita nell’enunciato me­ taforico è tutt’altro. In tal senso, fondare quella che è stata chiamata verità metaforica, vuol dire, al tempo stesso, limitare il discorso poetico. È in questo modo che tale discorso viene ad essere giustificato all’interno della sua area. Questo il tracciato dell’opera. Essa non mira a sostituire alla reto­ rica la semantica e a quest’ultima l’efmeneutica, cancellando così l’una con l’altra; mira piuttosto a fornire la legittimazione di ognuno di questi punti di vista entro i limiti della disciplina corrispondente e a fondare la connessione sistematica dei punti di vista seguendo la progressione che va dalla parola alla frase e dalla frase al discorso. Il volume è relativamente lungo perché si fa carico di analizzare le metodologie proprie ad ognuno di questi punti di vista, di svolgere le analisi conseguenti e di confrontare, ogni volta, i limiti di una teoria con quelli del punto di vista corrispondente. A questo proposito si noterà che l’opera non svolge e non critica se non quelle teorie che, ad un tem­ po, portano un punto di vista al suo grado di espressione più alto e con­ tribuiscono al progresso della tesi nel suo complesso. Non si troverà, perciò, in quest’opera alcun rifiuto clamoroso, tutt’al più la dimostra­ zione del carattere unilaterale di dottrine che si dichiarano esclusive. Per ciò che riguarda la loro origine, vi sono qui posizioni proprie alla lettera­ tura di lingua inglese, oltre a quella di lingua francese. Questa situazio­ ne esprime la duplice dipendenza delle mie ricerche e della mia attività accademica in questi ultimi anni. Mi auguro che questo possa contribuire a ridurre la carenza di informazioni che perdura tra gli specialisti di queste due aree linguistiche e culturali. Mi riservo di correggere l’ap­ parente ingiustizia fatta agli autori di lingua tedesca, con un’opera at­ 6

Prefazione tualmente in cantiere, che riprenderà il problema dell’ermeneutica in tut­ ta la sua ampiezza.

Questi studi sono dedicati a pensatori ai quali mi sento vicino per affinità di pensiero o che mi hanno accolto nelle università nelle quali questi studi sono stati elaborati: Vianney Décarie, università di Montreal; Gerard .Genette, Ecole pratique des hautes études di Parigi; Cyrus Ham­ lin, università di Toronto; Emile Benveniste, Collège de France; Algir­ das Julien Greimas, Ecole pratique des hautes etudes di Parigi; Mikel Dufrenne, università di Parigi; Mircea Eliade, università di Chicago;. Jean Ladrière, università di Lovanio.

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Primo studio TRA RETORICA E POETICA: ARISTOTELE

aVianney Décarie

1. Lo sdoppiamento della retorica e della poetica Il paradosso storico rappresentato dal problema della metafora è die ci giunge attraverso una disciplina morta intorno alla metà del xix secolo, allorquando essa scomparve dal cursus studiorum. Questo legame della metafora con una disciplina morta è fonte di notevole perplessità; il ri­ torno contemporaneo alla metafora non è forse la vana ambizione di far rinascere la retorica dalle sue ceneri? Se il progetto non è del tutto insensato, può esser utile rifarsi, in primo luogo, a colui che ha pensato filosoficamente la retorica, cioè Aristotele. Dalla sua lettura noi riceviamo, all’inizio del nostro lavoro, taluni sa­ lutari avvertimenti. Già il semplice esame dell’indice della Retorica d’Aristotele attesta che abbiamo ricevuto la teoria delle figure non solo da una disciplina morta ma da una disciplina che è anche amputata. La retorica di Aristo­ tele copre tre campi: una teoria dell’argomentazione che ne costituisce l’asse principale e che fornisce, al tempo stesso, il nodo della sua articolazione con la logica dimostrativa e con la filosofia (questa teoria del­ l’argomentazione copre, da sola, i due terzi dell’intero trattato)—una teoria dell’elocuzione—e una teoria della composizione del discorso. Gli

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Tra retorica e poetica: Aristotele

ultimi trattati di retorica ci darebbero, per usare una felice espressione di Gerard Genette, «una retorica ristretta» \ ristretta dapprima alla teoria dell’elocuzione e poi a quella dei tropi. La storia della retorica è come la storia di una disciplina che si accorcia. Una delle cause della morte della retorica sta proprio nell’averla ridotta ad una delle sue parti, in tal modo la retorica smarriva il nexus che la connetteva alla filosofia attraverso la dialettica; una volta smarrito tale nesso, la retorica di­ ventava una disciplina incerta e futile. La retorica venne a morire quan­ do il gusto per la classificazione delle figure soppiantò il senso filoso­ fico che animava il vasto impero retorico, ne teneva insieme le parti e collegava il tutto dNorganon e alla filosofia prima. Questo sentimento di una perdita irrimediabile cresce se si conside­ ra il fatto che il vasto programma aristotelico rappresentava, a sua volta, se non una riduzione, quanto meno la razionalizzazione di una disci­ plina che a Siracusa, suo luogo d’origine, s’era proposta la redazione di tutti gli usi della parola detta in pubblico2. C’era retorica perché c’era eloquenza pubblica. L’osservazione non si ferma qui: dapprima la parola fu un’arma destinata ad influenzare il popolo, di fronte al tribunale, nell’assemblea pubblica, o ancora con l’elogio e il panegirico: un’arma chiamata ad attribuire la vittoria in quelle lotte nelle quali il discorso provoca la decisione. Nietzsche ha scritto: «L’eloquenza è repubblicana». L’antica definizione arrivata a noi dai Siciliani—«La retorica è opera­ trice (o signora) di persuasione»—peithous dèmiourgos3—ci ricorda che la retorica è stata aggiunta come una «tecnica» all’eloquenza naturale, ma che questa tecnica affonda in una capacità creativa spontanea; tra tutti i trattati didattici scritti in Sicilia e poi in Grecia, quando Gorgia 2 G. Genette, «Rhétorique restreinte», in Communications, 16, éd. du Seuil, Paris 1970. 2 Riguardo alla nascita della retorica, cfr. E. M. Cope, An Introduction to Ari­ stotle’s Rhetoric, Macmillan, London and Cambridge 1867, t. I, pp. 1-4; Chaignet, La Rhétorique et son histoire, E. Bouillon et E. Vieweg, 1888, pp. 1-69; O. Navar­ re, Essai sur la Rhétorique grecque avant Aristote, Paris 1900; G. Kennedy, The Art of Persuasion in Greece, Princeton and London 1963; R. Barthes, «L’ancienne rhétorique», in Communications, 16, pp. 175-76 (tr. it. La retorica antica, Bompia­

ni, Milano 1973). 3 Socrate attribuisce questa formula a Gorgia nel discorso che lo vede opposto al maestro ateniese della retorica (Gorgia, 453tf). Ma essa sì trova in germe già in Corace, allievo di Empedocle, autore del primo trattato didattico—technè—di arte oratoria, seguito da Tisia di Siracusa. L’espressione stessa implica 1 idea di un ope­

razione magistrale, sovrana (Chaignet, op. cit,, p. 5).

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Lo sdoppiamento della retorica e della poetica si fu stabilito ad Atene, la retorica fu questa techné che rende il discorso consapevole di se stesso e fa della persuasione uno scopo distinto da conseguire mediante il ricorso ad una strategia specifica. Prima della tassonomia delle figure si ebbe, quindi, la grande reto­ rica di Aristotele; ma prima di questa si ebbe l’uso selvaggio della pa­ rola e l’ambizione di captare, mediante una tecnica speciale, la sua pe­ ricolosa potenza. La retorica di Aristotele è già una disciplina addome­ sticata, solidamente legata alla filosofia mediante la teoria dell’argomen­ tazione che la retorica, al suo declino, ha lasciato cadere. La retorica dei Greci non aveva soltanto un programma singolar­ mente più vasto di quello dei moderni; essa derivava dal suo rapporto con la filosofia tutte le ambiguità del suo statuto. L’origine «selvaggia» della retorica spiega a sufficienza il carattere propriamente drammatico di questo scambio. Il corpus aristotelico ci presenta solamente uno dei possibili equilibri, tra opposte tensioni, quello che corrisponde allo stato di una disciplina che non è più soltanto un’arma sulla piazza, ma che non è ancora una semplice botanica delle figure. La retorica è senza dubbio antica quanto la filosofia; si dice che Em­ pedocle l’abbia «inventata» 4. In tal senso ne è la nemica e l’alleata più vecchia. La nemica più vecchia: è sempre possibile che l’arte di «ben dire» si emancipi dalla preoccupazione di «dir vero»; la tecnica fondata sulla conoscenza delle cause che generano gli effetti della per­ suasione conferisce un potere formidabile a colui che la possiede per­ fettamente: il potere di disporre delle parole senza le cose; e di disporre degli uomini perché si dispone delle parole. Forse dovremo cercar di capire che la possibilità di questa scissione accompagna tutta la storia del discorso umano. Prima ancora di diventare futile, la retorica è stata pericolosa. Per questo Platone la condannava5: ritiene infatti che la re­ torica è nei confronti della giustizia—virtù politica per eccellenza—quel 4 Diogene Laerzio, vm, 57: Aristotele nel Sofista riferisce che «Empedocle fu il primo a scoprire (eurein) la retorica», citato da Chaignet, op. cit., p. 3, nota L 5 II Protagora, il Gorgia e il Fedro scandiscono la condanna senza appello della retorica da parte di Platone: «Ma non ci permetteremo di disturbare Tisia e Gorgia? I quali videro che la verosimiglianza è molto più pregiata della verità, e che, con la forza delle parole, fanno apparire piccole le cose grandi e grandi le cose piccole, nuove le cose vecchie e viceversa, e scoprirono il modo di parlare conciso o con interminabile lunghezza su ogni questione?» (Fedro, 2Gla-b, Georgia, 449a-458c), In ultima analisi, la «vera retorica» è la dialettica stessa, cioè la filosofia (Fedro, 271c).

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che la sofistica è per la legislazione; e che ambedue sono per l’anima quello che rispetto al corpo, sono la cucina rispetto alla medicina e la cosmesi rispetto alla ginnastica—vale a dire arti dell’illusione e dell’in­ ganno 67 . Tale condanna della retorica, in quanto appartenente al mondo della menzogna, dello pseudo, non dovrà esser persa di vista. Anche la metafora avrà i suoi nemici i quali, con una interpretazione che possiamo dire «cosmetica» o «culinaria», vedranno in essa soltanto un ornamento o un semplice diletto. Qualsiasi condanna della metafora come sofisma par­ tecipa della condanna inflitta alla sofistica medesima. Ma la filosofia non è mai stata in grado di distruggere la retorica e nemmeno di assorbirla. Gli stessi luoghi nei quali l’eloquenza dispiega i suoi artifici—il tribunale, l’assemblea, l’arena—sono luoghi che la filoso­ fia non ha prodotto e che neppure può proporsi di distruggere. Il suo di­ scorso non è che uno tra molti e la pretesa veritativa che tale discorso ac­ campa l’esclude dalla sfera del potere. Essa non è quindi in grado, con le sue forze, di smantellare il nesso tra discorso e potere. Resta aperta una possibilità: delimitare gli usi legittimi della parola ef­ ficace, tirare ima linea che separi l’uso dall’abuso, istituire in termini filo­ sofici, il legame tra la sfera di validità della retorica e quella in cui regna la filosofia. La retorica di Aristotele rappresenta il più celebre tentativo di istituzionalizzazione della retorica à partire dalla filosofia. L’interrogativo che mette in movimento tale tentativo è questo: che cosa vuol dire persuadere? In che cosa la persuasione si distingue dalla adulazione, dalla seduzione, dalla minaccia, cioè dalle forme più sottili di violenza? Che significa influire mediante il discorso? Porre questi interro­ gativi, vuol dire decidere che non è possibile tecnicizzare le arti del discor­ so senza sottoporle ad una riflessione filosofica radicale la quale delimit» il concetto di «ciò che è persuasivo» (to pithanon)1. 6 «Per non fare un troppo lungo discorso, voglio dirti, usando il linguaggio dei cultori di geometria—oramai dovresti seguirmi—che il saper vestire sta alla ginnastica come la sofistica sta alla legislazione, e che la culinaria sta alla medicina come la retorica sta all’amministrazione della giustizia» (Gorgia, 465b-c). Il nome genèrico di queste pseudo-arti—culinaria, saper vestire, retorica, sofìstica—è «adula­ zioni» (kolakeia, ibid., 4(3b). L’argomento di fondo, di cui la polemica mostra il negativo, è che esiste un corrispettivo per l’anima di quel modo d’essere che noi chiamiamo «salute» per il corpo; è questa omologia di due «terapie» che regola quella delle due coppie di arti autentiche, ginnastica e medicina da una parte, am* ministratone della giustizia e legislazione dall’altra (Gorgia, 464c). 7 «...Vedere i mezzi di persuasione che vi sono intorno a ciascuno argomento»

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Lo sdoppiamento della retorica e della poetica Ora la logica fornisce una soluzione di riserva, sulla base di una delle più antiche intuizioni della retorica; quest’ultima, infatti, aveva fin dalle origini, riconosciuto nel termine to eikos8—il verosimile—un titolo al quale poteva fare appello l’uso pubblico della parola. Il genere di prova che conviene all’eloquenza non è quello della necessità ma della verosimi­ glianza; poiché le cose umane sulle quali tribunali e assemblee decidono, non sono suscettibili di quel tipo di necessità, di rigore intellettuale che è invece esigito dalla geometria e dalla filosofia prima. In luogo di denun­ ciare la doxa—l’opinione, come inferiore episteme—cioè alla scienza, la filosofia può proporsi l’elaborazione di una teoria del verosimile, la qua­ le armerebbe la retorica contro i suoi abusi, dissociandola dalla sofistica e dall’eristica. Il grande merito di Aristotele è stato quello di elaborare questo legame tra il concetto retorico di persuasione e il concetto logico di verosimile, e di costruire su questo rapporto l’intero edificio di una re­ torica filosofica9. Il testo che noi oggi leggiamo sotto il titolo di Retorica è dunque quel trattato in cui rinveniamo l’equilibrio tra due movimenti contrari, quello che porta la retorica ad emanciparsi dalla filosofia, se non a sostituirvisi, e (Retorica, i, 1355£ 10). ...È proprio della retorica scoprire ciò che è persuasivo (to pithanon) e ciò che è solo apparentemente persuasivo, come nella dialettica si sco­ pre il sillogismo e il sillogismo apparente» (i, 1355& 15); «Definiamo dunque la re­ torica come la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persua­ dere» (i, 13556 25); «La retorica sembra poter scoprire ciò che persuade intorno a qualsiasi argomento dato» (i, 13556 32). 1 Nella Retorica (n, 24, 9, 1402 25-26). Possiamo tener da conto questa eccezione in previsione di una critica moderna dell’idea di sostituzione. In conclusione, l’idea aristotelica di allotrios tende ad avvicinare tre idee distinte: l’idea di scarto in rapporto all’uso ordinario; l’idea di presa a prestito da un ambito d’origine; l’idea di sostituzione di una pa­ rola ordinaria assente ma disponibile. Per contro, l’opposizione, ben nota nella tradizione successiva, tra senso figurato e senso proprio non vi sembrerebbe implicata. È l’idea di sostituzione quella che sembra la più carica di conseguenze; effettivamente, se il termine metaforico è un ter­ mine sostituito, l’informazione fornita dalla metafora è nulla, potendo far ricorso, se esiste, al termine assente; e se l’informazione è nulla al­ lora la metafora ha semplicemente un valore ornamentale e decorativo. Queste due conseguenze proprie ad una teoria puramente sostitutiva, caratterizzano l’uso della metafora nella retorica classica. Il loro rifiuto accompagnerà quello del concetto di sostituzione, a sua volta legato al concetto di un trasferimento di senso che tocca i nomi.

IV aspetto: Insieme all’idea di epifora che salvaguarda l’unità di senso della metafora, contrariamente al criterio di classificazione che sarà prevalente nelle tassonomie successive, una tipologia della metafora viene abbozzata nel seguito della definizione *, il passaggio va dal genere 34 Abbiamo già segnalato questo uso della metafora come transfert di denomi­ nazione nel caso di un genere «anonimo», o di una cosa priva di nome. Gli esempi abbondano (Pirica, v: la definizione dell’aumento e della diminuzione; lo stesso per la phora). Il problema è trattato esplicitamente nel capitolo sull’ambiguità nelle Confutazioni sofistiche (cap. x, 165a 10-15): essendo le cose in numero illimitato, e le parole e i discorsi {logoi) in numero limitato, le stesse parole e gli stessi discorsi avranno necessariamente più di un significato.

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alla specie, dalla specie al genere, dalla specie alla specie, o anche se­ condo l’analogia (o proporzione). Vengono così abbozzate una enume­ razione e uno smembramento dell’ambito dell’epifora, operazioni que­ ste che condurranno la retorica successiva a dare il nome di metafora solo ad una figura appartenente alla quarta specie definita da Aristotele^ quella soltanto che fa esplicito riferimento alla somiglianza: il quarto termine si comporta nei confronti del secondo così come (pmoiòs ekheì * 1457& 20) il secondo nei confronti del primo; la vecchiaia è con la vita nello stesso rapporto che la sera col giorno. Più avanti affronteremo il problema di sapere se l’idea di una identità o di una similitudine tra due rapporti esaurisca quella di somiglianza e se il passaggio dal genere alla specie, ecc., non si fondi ugualmente sulla somiglianza (vedi in questo volume «Sesto studio», par. 4). Quel che, per il momento ci interessa è il rapporto tra classificazione embrionale e il concetto di trasposizione che costituisce l’unità di senso del genere «metaforico». Dobbiamo notare due fatti: il primo è che i poli entro i quali opera la trasposizione sono poli logici. La metafora arriva all’interno di un ordine già costituito per generi e speci e in un gioco di relazioni già regolato: subordinazione, coordinazione, proporzionalità o uguaglian­ za di rapporti. Il secondo fatto è che la metafora consiste nella viola­ zione di questo ordine e di questo gioco: dare al genere il nome della specie, al quarto termine del rapporto proporzionale il nome del se­ condo e viceversa, vuol dire, ad un tempo, riconoscere e trasgredire la struttura logica del linguaggio (1457& 6-20). Vanti—sopra menzio­ nato—non indica soltanto la sostituzione di una parola con un’altra, ma anche il sovvertimento della classificazione nel caso in cui non si tratti soltanto di nascondere la povertà del vocabolario. Aristotele non ha, a sua volta, sfruttato l’idea di una trasgressione categoriale che taluni moderni avvicinerebbero al concetto di category-mistake usato da Gilbert Ryle25. E questo perché Aristotele è certamente più inte­ ressato, nella linea della sua Poetica, all’incremento semantico reso pos­ sibile dal transfert dei nomi, che al costo dell’operazione in termini logici. Ma il processo inverso non è meno interessante da studiare. L’idea di trasgressione categoriale, a ben vedere, ci riserva non poche sorprese. 25 G. Ryle, The Concept of Mind, Hutchinson’s University Library, London 1950, pp. 16s, 33, 77-79, 152, 168, 206; tr. it. Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino 1955.

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Il nucleo comune alla poetica e alla retorica: «l’epifora del nome»

Propongo tre ipotesi interpretative: in primo luogo essa invita a considerare in ogni metafora non solo la parola o il nome il cui senso è spostato, ma la coppia di termini, o la coppia di rapporti entro i quali si effettua la trasposizione: dal genere alla specie, dalla specie al genere, dalla specie alla specie, dal secondo termine al quarto termine di un rapporto di proporzionalità e viceversa. Questa notazione porta lon­ tano: come diranno gli autori anglosassoni, occorrono sempre due idee per fare una metafora. Se c’è sempre una certa confusione nella meta­ fora, se si prende una cosa per l’altra, una sorta di errore calcolato, allora il fenomeno metaforico è di natura discorsiva. Per poter modi­ ficare una sola parola, la metafora deve sommuovere un’intera trama per mezzo di una attribuzione insolita. L’idea di trasgressione categoriale permette, al tempo stesso, di arricchire quella di scarto che è implicita nel processo di trasposizione. Lo scarto, che sembrava d’ordine pura­ mente lessicale, è ora legato ad una sorta di devianza che minaccia la classificazione. Resta ancora da analizzare il rapporto tra i due aspetti del fenomeno: tra lo scarto logico e la produzione di senso che Aristotele chiama epifora. A questo problema sarà possibile rispondere in maniera adeguata solo dopo aver riconosciuto alla metafora il carattere di enuncia­ to. Gli aspetti nominali potranno, allora, esser pienamente ricondotti alla struttura discorsiva (vedi in questo volume «Quarto studio», par. 5). Co­ me meglio vedremo più avanti, Aristotele stesso invitava a prendere que­ sta strada, quando, nella Retorica, accosta la metafora alla similitudine {eikóri) die è apparentemente discorsiva. Una seconda linea di riflessione sembra indicata dall’idea di trasgres­ sione categoriale, intesa come scarto nei confronti di un ordine logico già costituito, cóme disordine introdotto nella classificazione. Tale tra­ sgressione ci interessa solo perché produce senso: come dice la Retorica, attraverso la metafora il poeta «realizza un apprendimento e una conoscenza attraverso il genere (in, 10, 1410Z> 13). Ne possiamo ricavare una suggestione: non dobbiamo, allora, dire che la metafora distrugge un ordine solo per costruirne un altro? che il sovvertimento categoriale è soltanto il rovescio di una logica dell’invenzione? L’accostamento, operato da Max Black tra modello e metafora 26, ovvero tra un concetto epistemo­ logico ed un concetto poetico, ci consentirà di sfruttare a fondo questa idea che va esattamente nel senso opposto rispetto alla riduzione della 26 M. Black, Models and Metaphors, Cornell University Press, Ithaca 1962. Riguardo a modello e ridescrizione, vedi in questo volume «Primo studio», par. 5.

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Tra retorica e poetica: Aristotele metafora a semplice «ornamento». Se si porta a fondo questa suggestione, bisogna dire che la metafora fornisce una informazione, per il fatto che essa «ri-descrive» la realtà. Il sovvertimento categoriale sarà, allora, la fase intermedia di decostruzione, tra descrizione e ridescrizione. Studie­ remo più innanzi questa funzione euristica della metafora. Ma tale funzio­ ne non può esser evidenziata se prima non si riconosce il carattere di enunciato della metafora e insieme la sua appartenenza all’ordine del di­ scorso e dell’opera. Una terza ipotesi, più azzardata, si delinea all’orizzonte della prece­ dente. Se la metafora dipende da un’euristica del pensiero, non possiamo allora supporre che il procedimento che devia e trasferisce un certo ordi­ ne logico, una certa gerarchia concettuale, una certa classificazione, è il medesimo dal quale procede qualsiasi classificazione? Certamente, noi non conosciamo nessun altro funzionamento del linguaggio che non sia quello nel quale un ordine è già costituito; la metafora genera un ordi­ ne nuovo soltanto producendo certi scarti nell’ordine esistente; e non pos­ siamo immaginare che l’ordine nasca così come si modifica? All’origine del pensiero logico, alla radice di qualsiasi classificazione non è forse operan­ te, come dice Gadamer27, una «metaforica»? Questa ipotesi si spinge più lontano, rispetto alle precedenti, che presuppongono, per il funzionamen­ to della metafora, un linguaggio già costituito. La nozione di scarto è le­ gata a questo presupposto: ma anche l’opposizione, introdotta dallo stes­ so Aristotele, tra un linguaggio «corrente» ed un linguaggio «insolito» o «raro»; e, a maggior ragione, l’opposizione introdotta successivamente tra «proprio» e «figurato». L’idea di una metaforica presente fin dal­ l’inizio, manda in frantumi l’opposizione tra proprio e figurato, tra co­ mune e insolito, tra ordine e trasgressione. Essa suggerisce l’idea che l’or­ dine stesso procede dalla costituzione metaforica dei campi semantici a partire dai quali si danno generi e speci. Una ipotesi siffatta va al di là dell’analisi aristotelica? Sì, se prendia­ mo come unità di misura la definizione esplicita della metafora mediante l’epifora del nome e se si prende come criterio dell’epifora la opposizio­ ne manifesta tra uso corrente e uso insolito. No, se si tien conto di tutto quello che, nell’analisi aristotelica, si situa al di fuori di questa defini­ zione esplicita e di questo criterio esplicito. Una notazione di Aristotele, che ho tenuto da parte fino ad ora, sembrerebbe autorizzare la nostra ipo27 H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, J. C. B. Mohr, Tiibingen 1960, 21965, 31973; tr.it. Verità e metodo, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.

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Il nucleo comune alla poetica e alla retorica: «l’epifora del nome» tesi arrischiata: «Dunque, sapersi valere convenientemente di ciascuno dei sopra detti modi di espressione come anche dei nomi composti e delle parole forestiere [o rare], è senza dubbio cosa di gran pregio; di molto maggior pregio è che il poeta sia abile a trovare metafore [lette­ ralmente: sia metaforico—to metaphorikon eina'i}. È la sola cosa questa che non si può apprendere da altri, ed è segno di una naturale disposi­ zione di ingegno (euphyas) *, infatti il saper trovare belle metafore [alla lettera: ben metaforizzare —eu metapherein] significa saper vedere e cogliere la somiglianza delle cose fra loro» (to to homoion theorem) (Poe­ tica, 1459a 4-8). Notiamo in questo testo: a) la metafora diventa verbo: «metaforiz­ zare»; emerge così il problema d’uso (khrésthai, a 5); il processo prevale sul risultato; b) col problema dell’uso viene quello dell’utilizzo «conve­ niente» (prepontós khrésthai) *. si tratta di «ben metaforizzare», di «va­ lersi in maniera conveniente» dei procedimenti della lexis *, al tempo stesso viene designato colui die mette in atto questo uso: è lui che è chiamato a questa «cosa di molto maggior pregio», a «essere metaforico»; è lui che può imparare o meno; c) ora, non si impara a ben metaforizzare; è un dono del genio, ovvero della natura (euphyias te sèmeion estin): sia­ mo qui al livello dell’invenzione, cioè di quell’euristica che abbiamo detto trasgredire un ordine, solo per poterne creare un altro, un’euristica che decostruisce per ridescrivere. Tutta la moderna teoria dell’invenzione conferma che non vi sono regole per inventare. Non ci sono regole per fare delle buone ipotesi: ve ne sono soltanto per convalidarle28; d) ma perché non si impara a «essere metaforici»? Perché «ben metaforizzare», vuol dire «cogliere la somiglianza». La notazione può sorprenderci. Fin qui non s’è mai parlato di somiglianza, se non in modo indiretto attraverso la quarta specie di metafora, la metafora per analogia, quella che si tro­ va in una identità o in una similitudine di due rapporti. Non dobbiamo allora supporre che la somiglianza è all’opera nella quarta specie di me­ tafora, come il principio positivo di cui la trasgressione categoriale era il negativo? Per poter dare al genere il nome della specie, e viceversa, non occorre, forse, che ciò che è simile li accosti? La metafora, meglio il me­ taforizzare, ovvero la dinamica della metafora, si baserebbe, allora, sul­ l’appercezione del simile. Siamo quasi arrivati alla nostra ipotesi estrema: 28 E. D. Hirsch, 'Validity in interpretation, Yale University Press, New Haven and London 1967, 1969; tr. it. Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, Il Mulino* Bologna 1973.

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Tra retorica e poetica: Aristotele la «metaforica» che trasgredisce l’ordine categoriale è, al tempo stesso, quella che lo produce. Ma. che l’invenzione propria di questa metaforica fondamentale sia quella della somiglianza, esige ùna speciale dimostra­ zione che non potrà essere data che più avanti2930 .

3. Un enigma: metafora e similitudine (eikòri) La Retorica ci pone un piccolo enigma; perché questo trattato che afferma di non voler nulla aggiungere alla definizione della metafora data dalla Poetica, istituisce, nel iv capitolo, un parallelo che non ha cor­ rispondente in quest’ultimo trattato, tra metafora e similitudine (ei~ kan)3** ? L’enigma è insignificante se ci si limita alle questioni puramente storiche concernenti l’ordine di priorità e di dipendenza all’interno del corpus aristotelico. Al contrario, l’enigma è ricco d’insegnamenti per una ricerca come la nostra, attenta a raccogliere tutti gli indizi di una interpretazione della metafora in termini di discorso, contro la definizione esplicita in termini di nome e di denominazione. L’aspetto essenziale del­ la similitudine è, in effetti, il suo carattere discorsivo: «si lanciò come un leone». Per potere fare una similitudine occorrono due termini, ambedue presenti nel discorso: «come un leone» non basta a fare similitudine; di­ ciamo, anticipando la terminologia di Ivor Armstrong Richard, che occor­ re un tenor *. Achille si lancia—e un vehicle *, come un leone (vedi di que­ sto volume «Terzo studio», par. 2). La presenza implicita di questo mo­ mento discorsivo è stata vista nella nozione di epifora ( la trasposizione da un polo all’altro); essa è altresì operante nel passaggio categoriale (dare al genere il nome della specie, ecc.) e nel passaggio secondo l’analogia (rim­ piazzare il quarto termine della proposizione con il secondo). Quando i moderni diranno che far metafora è vedere due cose in una sola, saranno fedeli a questo aspetto che la similitudine rende manifesto e che invece la definizione della metafora mediante l’epifora del nome poteva celare; se, formalmente, la metafora è uno scarto in rapporto all’uso corrente delle 29 Riprenderemo Finterpretazione e la discussione della teorica aristotelica sul lavoro della somiglianza, da un punto di vista meno storico e più sistematico, nel Settimo studio. 30 L’opera di McCall, Ancient Rhetorical Theories..., cit., dedica un intero capi­ tolo dell’io» in Aristotele, pp. 24-53. Cfr. anche E. M. Cope, An Introduction..., cit., pp. 290-292.

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Un enigma: metafora e similitudine (eikòn) parole, da un punto di vista dinamico, essa procede da un accostamento tra la cosa da indicare e la cosa estranea dalla quale si prende a prestito il nome. La similitudine esplicita questo accostamento che è soggiacente e allo scarto e al prender a prestito. Ci si obietterà che l’intenzione esplicita di Aristotele non è, qui, quella di spiegare la metafora attraverso la similitudine, ma piuttosto la similitudine attraverso la metafora. Ben sei volte, in effetti, Aristotele rileva la subordinazione della similitudine alla metafora31. Questo aspet­ to è ancor più interessante per il fatto che la tradizione successiva non se­ guirà Aristotele su questo punto32. Tale subordinazione avviene attra­ verso diversi percorsi convergenti. Innanzitutto l’ambito complessivo della similitudine viene smem­ brato: una parte, sotto il nome di «parabola», è connessa alla teoria della «prova», che occupa il Libro i della Retorica; si tratta della spiegazione mediante l’esempio, che si suddivide, a sua volta, in esempio storico e esempio fittizio33; l’altra parte, sotto il titolo di eikòn, è connessa alla teoria della lexis e collocata nell’ambito che dipende dalla metafora. 31 McCall, op. cit., p. 51, cita ni: 4, 1406a 20; 4, 1406£ 25-26; 4, *1407 14-15; 10, 1410Z, 17-18; 11, 1412A 34-35; 11, *1413 15-16. 32 Mentre E. M. Cope individuava una perfetta reciprocità fra la definizione che fa del simile una extended metaphor e quella di Cicerone e di Quintiliano che fan­ no della metafora una contracted simile {op. cit., p. 299). McCall {op. cit., p. 51) insiste sul «rovesciamento» operato dalla tradizione ulteriore; il caso di Quintiliano {ibid., cap. vii, pp. 178-239) è particolarmente significativo; egli scrive: In totum autem metaphora brevior est *similitudo . «la metafora è in complesso una forma accorciata di similitudine», De Institutione Oratoria Libri Duodecim, vili, p. 6, 8-9. McCall osserva che l’espressione è più forte che se Quintiliano si fosse limitato a dire brevior est quam similitudo, o brevior est similitudo. In effetti, questa espressio­ ne avrebbe «messo metafora e similitudo sullo stesso piano» {op. cit., p. 230). È vero che questa lettura è contestata da Le Guern, Sémantique de la métaphore et de la metonimie, p. 54, nota 1, che invoca l’edizione del 1527 che porta brevior quam similitudo. Se così fosse, «la spiegazione classica della metafora troverebbe la sua origine in una corruzione del testo di Quintiliano» (ibid.). La costanza della tradizione postaristotelica dà poco credito a questa ipotesi. Riprenderemo la discus­ sione riguardante Ì rapporti tra metafora e similitudine esaminando i lavori di Le Guern (vedi in questo volume «Sesto studio», par. 1). 33 II Paradeigma, lo si è visto sopra (cfr. nota 1 di questo «Primo studio»), è distinto dsIPentbyméma come una induzione verosimile da una deduzione vero­ simile. Il paradeigma si suddivide in esempio effettivo (o storico) ed in esempio fittizio. È quest’ultimo che si suddivide ancora in parabole e logoi (per esempio le favole di Esopo), Retorica, n, 20 * 1393 28-31. L’opposizione maggiore è, in ultima analisi, tra l’esempio storico a cui si riduce il paradeigma, e il parallelo 33

Tra retorica e poetica: Aristotele Successivamente, è il rapporto privilegiato tra similitudine e metafora proporzionale che garantisce l’inserimento della similitudine nel campo della metafora: «Anche le similitudini, che hanno sempre buon effetto sono, come abbiamo detto precedentemente (cfr. 1406 b 20 e 1410 b 18-19) una sorta di metafora. Esse infatti si riferiscono sempre a due cose [alla lettera: esse sono dette a partire da due], come la metafora proporzionale. Ad esempio, diciamo che lo scudo è la coppa di Ares e che l’arco è una pborminx senza corde» (in, 11, 1412& 34—1413# 2). La metafora proporzionale, in effetti, procede alla denominazione del quarto termine mediante il secondo, sopprimendo la similitudine comples­ sa che esiste, non tra le cose stesse, ma tra le loro relazioni binarie; in questo senso la metafora di proporzione non è semplice, come quando chiamiamo Achille un leone; la semplicità della similitudine, in contra­ sto con la complessità della proporzione a quattro termini, non è dunque la semplicità di una parola, bensì quella di una relazione a due termini quella medesima alla quale arriva la metafora proporzionale: «Lo scudo è la coppa di Ares». In tal modo, la metafora di analogia tende a iden­ tificarsi eSVeikón', il primato della metafora sull’end» è allora, se non ca­ povolto, quanto meno «modificato» (ibid.). Ma è proprio perché Yeikón «dice sempre a partire da due» 35, come la metafora di analogia, che il rapporto può esser così facilmente invertito. illustrativo, che costituisce l’essenziale della parabole. L’unità tra esempio storico e paragone fittizio è puramente epistemologica: sono due forme di persuasione o di prova. A questo riguardo, cfr. McCall, op. cit., pp. 24-29. 34 Questo aggettivo baploun (semplice) crea diverse difficoltà di interpretazione e anche di traduzione; chiamare la similitudine semplice, mentre si dichiara per altro verso che essa si «dice a partire da due» sembra contraddittorio. Senza dubbio bisogna comprendere che la similitudine è «semplice» in rapporto alla metafora proporzionale che è composta da due rapporti e quattro termini, mentre la simi­ litudine non comporta che un rapporto e due termini; McCall (pp. 46-47) discute le interpretazioni di Cope e di Roberts. Per parte mia, non vedo contraddizione a chiamare semplice Fespressione «uno scudo è una coppa» in cui mancano i ter­ mini Ares e Dioniso. Questo non le impedisce di essere composta da due termini. 35 E. M. Cope (The Rhetoric of Aristotle, Commentary, vol. hi, ad hi, 10, 11) traduce: Similes... are composed of (or expressed in) two terms, just like the proportional metaphors (p. 137). E commenta: The difference between a simile and a metaphor is—besides a greater detail of the former, the simile being a me­ taphor writ large—that it always distinctly expresses the two terms that are being compared, bringing them into apparent contrast-, the metaphor, on the other hand, substituting by transfer the one notion for the other of the two compared, iden­ tifies them as it were in one image, and expresses both in a single word, leaving

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Un enigma: metafora e similitudine (eikón) Infine l’analisi grammaticale della similitudine prova la sua dipendenza nei confronti della metafora; differiscono soltanto per la presen­ za o l’assenza di un termine di paragone: in tutte le citazioni dalla Re­ torica ni, 4, la particella «come» (hós); nella citazione di Omero, pe­ raltro imprecisa, il verbo di comparazione «è simile» o un aggettivo di comparazione «simile», ecc.36. Agli occhi di Aristotele, l’assenza del ter­ mine di paragone nella metafora, non implica affatto che la metafora sia una similitudine abbreviata, come si dirà da Quintiliano in poi, ma, al contrario che la similitudine è una metafora sviluppata. La similitudine dice «questo è come quello»; la metafora dice: «questo è quello». Non soltanto la metafora proporzionale ma ogni metafora è una similitudine implicita nella misura in cui la similitudine è una metafora sviluppata. La subordinazione esplicita della similitudine rispetto alla metafora, è possibile soltanto perché la metafora presenta in cortocircuito la pola­ rità dei termini della similitudine; quando la poesia dice di Achille: «si lanciò come un leone», si tratta di una similitudine; se dice «il leone si lanciò», si tratta di una metafora; «per il fatto che entrambi sono co­ raggiosi, il poeta definì metaforicamente (alla lettera: trasferendo) Achille un leone (in, 4, 1406& 23). Non si potrebbe indicare in modo migliore che elemento comune alla metafora e alla similitudine è l’assimilazione the comparison between the objet illustrated and the analogous notion which throws a new light upon it, to suggest itself from the manifest correspondance to the hearer (pp. 137-138). McCall, al contrario, traduce involves two relation (p. 45) anche in ragione dell’accostamento con la metafora proporzionale. Egli rimanda a Retorica, ni, 4, 1407;? 15-18 che insiste sulla reversibilità della meta­ fora proporzionale; se si può chiamare il quarto termine col nome del secondo, si deve poter fare Finverso: per esempio, se la coppa è lo scudo di Dioniso, lo scudo può essere chiamato, correttamente, la coppa di Ares. 36 Lo stesso di in, 10: l’esempio preso a prestito da Pericle ha espressamente le caratteristiche della similitudine (houtòs... hósper); l’esempio preso da Leprine, invece, presenta Fabbreviazione metaforica: «Leprine disse degli Spartani che essi non potevano permettere che la Grecia divenisse priva di un occhio» ( 1411zr 2-5); si vedano anche gli esempi di in, 11, 1413# 2-13. È d’altronde vero che le citazioni di Aristotele sono generalmente inesatte; fra quelle verificabili (Repubblica, v, 469d-e; vi, 488t?-Z>; x, 601A), le prime due non contengono né congiunzione, né verbo, né aggettivo di paragone («vedete... una differenza tra...», «pensa... che stia succedendo una scena come questa...»); solo la terza contiene un termine di para­ gone: «sono simili a...»; ma il segno grammaticale può variare senza che il senso generale del paragone sia alterato, come nota McCall, che parla di un overall ele­ ment of comparison (p. 36) unito alla stylistic comparison, in contrasto con la simi­ litudine illustrativa con valore di prova.

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Tra retorica e poetica: Aristotele che fonda il trasferimento di una denominazione, in altri termini, la per­ cezione di una identità nella differenza dei due termini. È questa perce­ zione del genere per mezzo della somiglianza ciò'che rende la metafora precisamente istruttiva: «Quando infatti il poeta chiama la vecchiaia '“stoppia”, realizza un apprendimento e una conoscenza attraverso il ge­ nere (epoiése mathésinkai gnósin dia tou genous)» (ni, 10,1410& 13-14). Ora sta proprio qui la superiorità della metafora rispetto alla similitu­ dine: che si tratti di una superiorità in termini di eleganza (asteia) (ri­ torneremo più avanti su questa «virtù» di raffinatezza, di eleganza, della metafora): «La similitudine è infatti, come abbiamo detto prima, una metafora che differisce perché vi è aggiunto qualcosa (prothesei) *, per­ ciò essa è meno piacevole, perché ha maggiore lunghezza, essa non iden­ tifica i due termini, quindi la mente non esamina (thetéi) la relazione. Bisogna che tanto l’elocuzione quanto gli entimemi siano spiritosi, se vo­ gliono renderci rapido l’apprendimento» (ibid. 1410£ 17-12). In tal modo la possibilità di informazione, la provocazione a cercare, contenute nel rapido affronto di soggetto e predicato, vengono perdute in una similitudine esplicita che, in un certo modo, distende il dinamismo stesso della similitudine nell’espressione del termine di paragone. I mo­ derni ricaveranno tutte le possibili indicazioni da questa idea di colli­ sione semantica che sfocia nella controversion theory di Beardsley (vedi in questo volume «Terzo studio», par. 4). Già Aristotele aveva sco­ perto che soggiacente all’epifora del nome estraneo, è operante una attribuzione estranea: «questo (è) quello»,—della quale la similitudine esplicita soltanto la ragione sviluppandola fino a farne una vera e propria similitudine. È questo, a mio avviso, l’interesse di tale accostamento tra metafora e similitudine; nel momento stesso in cui Aristotele subordina la simili­ tudine alla metafora, riconosce nella metafora una attribuzione parados­ sale. È possibile, al tempo stesso, riprendere una suggestione appena ac­ cennata e poi lasciata cadere nella Poetica *. «Se uno però si mette a poe­ tare adunando insieme ogni sorta di cose peregrine (metafore, parole rare, ecc.), ne verranno fuori o enigmi o barbarismi: enigmi se la elo­ cuzione sia costituita totalmente di metafore; barbarismi se sia costituita totalmente di parole forestiere o rare. L’enigma, in sostanza, consiste in questo: dire quello che s’ha da dire mettendo insieme cose impossibili: il che, naturalmente non si può avere congiungendo insieme vocaboli nella loro significazione ordinaria bensì adoperando i loro sostituti me­ taforici» (1458# 23-33). Questo testo mira piuttosto a separare metafo­ 36

Un enigma: metafora e similitudine (eikòn)

ra e enigma; ma il problema nemmeno si porrebbe se metafora e enig­ ma non avessero un aspetto comune; è questa costituzione comune che è sottolineata dalla Retorica, sempre nel segno della «virtù» dell’eleganza,, della raffinatezza, della distinzione: «Anche la maggior parte delle frasi spiritose derivano dalla metafora e dal sorprendere ingannando. Infatti,, se le cose sono all’opposto di quanto si credeva, diventa evidente che si è imparato e sembra che la nostra mente dica: «Così era in verità, io in­ vece sbagliavo»... Anche dei buoni enigmi sono piacevoli per lo stesso motivo: essi infatti offrono un insegnamento e costituiscono una me­ tafora» (in, 11, 1412# 19-26). Ecco, ancora una volta, l’istruzione, l’in­ formazione, dipendenti da un accostamento di termini che, a prima vista,, sorprende, poi mette fuori strada e, infine, scopre una parentela nascosta sotto il paradosso. Ma questa prossimità tra enigma e metafora non è inte­ ramente fondata sull’appellazione insolita: questo (è) quello, appellazio­ ne che la similitudine sviluppa e, al tempo stesso, attenua, e che la me­ tafora, invece, preserva attraverso la sua formulazione abbreviata37 ? Lo scarto che modifica l’uso dei nomi deriva dallo scarto dell’attribuzione medesima: è quel che il greco indica precisamente come para-doxa, vale a dire devianza in rapporto ad una doxa precedente (ni, 11, 1412a 26)38.. È questa la lezione, assai chiara, che il teoreta può ricavare da quello che, per lo storico, resta un enigma39. 37 Una filiazione dello stesso genere è alla base dell’accostamento suggerito tra proverbi (parohnia) e metafore (in, 11, 1413# 17-20); si tratta, vien detto, di me­ tafore dal genere al genere; infatti il proverbio è una similitudine tra due ordini di cose (l’uomo sfruttato dall’oste che egli ha accolto in casa sua e la lepre che divora il raccolto del contadino che l’ha introdotta nelle sue terre, in, 11, ibid.). Il «come» della similitudine può essere eliso, esattamente come nella metafora, ma il risultato è il medesimo: l’accostamento è d’altronde tanto più brillante quanto più è inatteso, cioè paradossale e fuorviarne. È lo stesso paradosso, unito ad una similitudine espressa o implicita, che costituisce il sale dell’iperbole, la quale non è altro che una similitudine esagerata, cioè portata avanti a dispetto di evidenti differenze; ecco perché Aristotele può dire: «Anche le iperboli che hanno successo sono metafore», ni, 11, 1413# 21-22. 38 In questo senso, le metafore «inedite» (kdind), secondo una designazione at­ tribuita a Teodoro e che Aristotele accosta alle metafore «paradossali», non sono metafore per eccezione, ma per eccellenza (1412