Dal "Convivio" alla "Commedia": (sei saggi danteschi)


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Dal "Convivio" alla "Commedia": (sei saggi danteschi)

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER

IL MEDIO EVO

STUDI STORICI - FAsc. 35-39

Dal '' Convivio,, alla '' Commedia,, (Sei saggi danteschi) DI

BRUNO NARDI

ROMA NELLA SEDE DELL'ISTITIJTO PALAZZO IIORROMINI

1960

ALLA MEMORIA DEI MIEI DUE GRANDI MAESTRI

MICHELE BARBI E

LUIGI PIETROBONO UMILMENTE

AVVERTENZA Dei sei saggi danteschi· riuniti in questo volume il secondo, che dà il tono e il titolo alla ·raccolta, e il terzo sono inediti. Gli altri quattro, anche per il fatto che son venuti alla luce mentre attendevo ai due principali, m'è parso potessero giovare a chiarire aspetti particolari dei problemi toccati in quelli e ne fossero come il naturale complemento, sì da dare al volume una sua particolare fisionomia. Tutti insieme rappresentano, così riuniti, un quinquennio di riflessione, dal 1955 al 1959, sullo sviluppo del pensiero e dell'arte di Dante, indissolubilmente legati tra loro, in quanto il fervore di quel pensiero alimenta l'ardente sentimento che si placa in quella poesia. Nello sviluppo di questo pensiero e di questa arte m'è parso che importanza fondamentale avesse la Monarchia, come l'opera cui Dante affidò la commozione del suo animo, quando si fu persuaso qual fosse, per lui, il solo modo di far cessare lo scandaloso conflitto fra l'Impero e la Chiesa, e di ricondurre nel mondo la pace. Da quella scoperta prorompe, a mio parere, la luminosa altissima poesia della Commedia. M'è grato esprimere la mia affettuosa riconoscenza al mio caro alunno Dott. Paolo Mazzantini, che di questo volume, come già di quello di Saggi di filosofia medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960, s'è assunto non soltanto il peso di correggere le bozze, ma quello ben più arduo di una revisione generale delle citazioni, sì che debbo a lui se imi mostro in pubblico meno distratto di quel che soglio. Ro~a, 21 aprile 1960.

B. N.

I LE

Rl!\IE

FILOSOFICHE DELL'ARTE

E IL «CONVIVIO)) E DEL

PENSIERO

NELLO

SVILUPPO

DI DANTE*

SoMMARIO: 1. Dall'amore per Beatrice all'amore per la u donna gentile». 2. Le rime filosofiche dal u soave stile ». - 3. Rime « aspre e sottili >> d'argomento filosofico. La canzone u Tre donne intorno al cor mi son venute ». - 4. Le due opere gemelle: il De vulgari eloquentia e il Convivio. Il problema del « volgare illustre » come espressione della vita curiale e dei più alti concetti filosofici. Crisi filosofica: preminenza dei problemi morali su quelli metafisici. - 5. Interruzione del Convivio e del De vulgati eloquentia. Urgenza del problema della Monarchia universale: la visione dell'Italia rome u cavallo sanza cavall'atore » e « sanza mezzo alcuno a la sua governazione rimasa ».

1 Nella storia della sua vita, Dante ha segnato una data, alla quale ebbe più volte a ritornare col pensiero smarrito: 1'8 giugno 1290. A ribadire meglio nella sua e nella nostra memoria questa data secondo l'usanza nostra, egli la raffronta con l'usanza d'Arabia e con l'usanza di Siria, per scoprirvi il numero simbolico del tre, che è radice del nove, cioè del numero sacro a Beatrice . L'8 giugno 1290, Beatrice, sulla soglia della giovinezza, che per Dante ha principio col ventiseiesimo anno d'età , aveva lasciato la terra ed era ascesa nella luce di Dio, ove gli spiriti celesti la reclamavano. E Dante stesso, nato nella primavera avanzata del 1265, quando il sole si trovava nella costellazione dei Gemelli, dunque fra il 18 maggio e il 17 giugno , aveva egli pure

* Apparso in

Italiane », VIII (1956 ), pp. 270-298. ( I) Vita Nuova, XXIX, 1-3. ( 2) Conv., IV, xxiv, 2 sgg. (3) Par., XXII, 112-117. « Lettere

2

SAGGIO

I

varcato da poco il limite da lui segnato, secondo l'opinione dei medici, tra l'adolescenza e la gioventù. Questa data ha per noi grande importanza, perché nello sviluppo dell'arte dantesca essa segna il p·assaggio da una ad un'altra maniera poetica, dalle rime d'ispirazione guinizelliana, che cominciano con la canzone Donne eh' avete intelletto d'amore ~ alle rime filosofiche, con la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete. I due cicli poetici sono distinti da Dante stesso, e co1Tispondono ai due amori che successivamente son divampati nel suo animo: l'amore per Beatrice e, dopo la 1norte di questa, l'amore per la filosofia della quale è simbolo la « donna gentile >► del Convivio. Con la morte di Beatrice, si spegnevano nel cuore di Dante i canti dell'adolescenza; quei canti ispirati, sì, alla maniera dell'uno e dell'altro Guido, ma nei quali il giovane poeta aveva pur fatto risuonare nuovi accenti, tratti dall'attenta osservazione dei moti del proprio animo e dall'onda melodica che urgeva nel suo petto. Sì che, mentre la lirica stilnovistica con Cino sembra avere ormai esaurito tutti i suoi temi melodici, iDante v'inserisce un nuovo e più alto motivo poetico, tratto dalla morte della donna amata, il cui volto sbianca, ma la letizia che raggia dagli occhi è fatta spiritai bellezza grande, che per lo cielo spande luce d'amor, che li angeli saluta

>.

>,dirò così, di mestiere, si trovò posti dinanzi i problemi della nobiltà, della leggiadria e della liberalità, e di essi trattò « con rima aspra e sottile» rispettivamente nelle tre canzoni Le dolci rime d'amor ch'i' solia, Poscia ch'Amor del tuUo m'ha lasciato, Doglia mi reca ne lo core ardire. Rime aspre, in quanto ripudiano il « soave stile » delle rime allegoriche, cioè gli abbellimenti e i lenocini della retorica, primo

LE -~--

RIME

-------------

FILOSOFICHE

E IL

«

CON\'l\'IO

», ECC.

15-

dei quali era ritenuto l'allegoria, la quale non è altro che il pro• lungamento della « regina dei tropi » retorici, che è la metafora, nata da una similitudine abbreviata o raccorciata. Rime sottili, perché condotte secondo la subtiUtas propria delr arte del loicare, che è arte del definire per genus proximum et di// erentiam speci/icam e, perciò, del distinguere. E difatti la canzone della nobiltà, dopo un breve prologo, procede secondo lo schema tipico di una quaestio disputata in uso nelle scuole nell'ultimo decennio del sec. XIII: dapprima le false definizioni della nobiltà; poi la critica di esse; indi la ricerca della vera definizione; trovata la quale, resta da vedere in che rapporto la nobiltà sta col concetto aristotelico di virtù; e infine, a mo' di corollario, come la nobiltà si palesa nelle quattro età dell'uomo. Ugualmente la canzone della leggiadria comincia col denunciare le false opinioni intorno ad essa; e dopo averle sottoposte a severa e vivace critica, nel tentativo di darne la definizione, osserva come questo non è punto facile, perché la leggiadria non è virtù pura come quelle etiche e dianoetiche definite da Aristotele, bensì virtù mista, risultante cioè di elementi filosofici e di elementi cavallere~hi, di guisa che questa virtù non s'addice ugualmente a tutti gli uomini di qualsiasi stato e condizione. Ma il più alto grado di asperità e di subtilitas dialettica è stato raggiunto da Uante nella canzone della liberalità. In essa non solo egli riconosce in modo esplicito che « rado sotto benda », cioè sotto il velo dell'allegoria , « parola oscura giugne ad intelletto, per che parlar con voi si vole aperto », ma conduce l'uditore in un vero dedalo di sillogismi raccorciati, le cui premesse sono talora sottintese o appena accennate in forma allusiva, sì che, se egli non è ben desto e non pondera bene il significato di ogni parola, corre ad ogni momento il rischio di perdere il filo logico del discorso. E se il buon vecchio Bonagiunta degli Orbicciani avesse potuto leggere questa e le altre rime aspre e sottili, a più forte ragione che

(25) Così intendono i più. Ma. ripensand,wi, ,·redo ahhia rallione V. Cian il quale intende « da parte di donne », alle quali il poeta appunto ~i rivolge e ed è di incerta interpretazione. Ma i traduttori arabo-latini di Aristotele si affidarono al commento d'Averroè, come questi s'era affidato ad Alessandro d'Afrodisia, e la tradussero « exemplar >-.,mentre i greco-latini riprodussero il termine greco « velut ex aliquo echimagio », aggiungendo la glossa « idest sigillo vel effigie ». Ed « ex sigillo» tradusse nel Rinascimento l'Argiropulo, « ex effigie» il Bessarione. Alle traduzioni greco-latine, che per altro non discordavano ( 47) ( 48) ( 49) ( 50)

Metaph., I, t.ci. 32, ci. 9, 991 a 20 sgg. Cfr. Par., Il, 132; VIII, 127; XIII, 75. Metaph., I, t.ci. 8, ci. 6, 988 a I. Timeo, 50 C.

DAL 11 CONVIVIO

» ALLA « COM MEDIA »

51

m sostanza da quella dall'arabo, s'attennero Alberto Magno e S. Tommaso. Ma il primo sfruttò la metafora del sigillo, o del)"« echimagium » o « ethimagium », come accade di leggere nelle edizioni a stampa delle sue opere, fino all'inverosimile. E da Alberto la metafora è sicuramente passata in Dante . Aggiunge poi Dante, che siffatte intelligenze non motrici « chiamale Plato "idee", che tanto è a dire forme e nature universali». E il Busnelli ci fa sapere che S. Tommaso aveva detto: « ldeas latine possumus dicere species vel formas >i e, sulla scorta del Moore, cita Cicerone, Orator, 3, e S. ~ostino, De civ. Dei, VII, 28. Ma fra Cicerone e Agostino vanno inseriti Apuleio, De dogm. Pfut., 1, 5-6, e Tertulliano, De anima., 18; e di Agos~ino assai più importante è il luogo del De divers. quaest. LXXXIII, 46, al quale si riferiscono più spesso filosofi e teologi medievali. Eppoi tutto questo non basta, poiché la vera fonte di Dante è anche questa volta la Me~/isica d'Aristotele, ove del termine platonico t8écxè costantemente sinonimo l'altro termine, ugualmente platonico, e!8oc;, costantemente tradotto « species » e «forma». E trattandosi di forme separate, per Platone sono universali . Anche per quel che segue: « Li gentili le chiamano Dei e Dee, avvegna che non così filosoficamente intendessero quelle come Plato ... », il Busnelli rimanda, more suo, al commento di S. Tommaso alla Metafisica _ Ma, anzi tutto, perché non citare Aristotele il cui testo Tommaso parafrasa? Non si legge forse nel testo aristotelico che gli antichi dicevano, sotto forma di favola per la moltitudine, che i cieli son dèi e dèi ritennero le « prime sostanze », che per Aristotele sono il Primo motore e le altre intelligenze motrici dei cieli? Se non che qui· Dante sembra riferirsi esclusivamente alle « idee » di Platone, a meno che, dopo l'espressione « come Plato », non si voglia sottintendere « e come Aristotele », il che parrebbe escluso dai due pronomi che grammaticalmente si riferiscono a « idee ». Sì che, meglio del

( 51) Si vedano in proposito i miei Sa&1i di filo,. dant., cit., p. 116. ( 52) Arist., Metaph., VIII, t.c. 2, c. 1, 1042 a 15. (53) XII, t.c. 50, c. 8, 1074 b 1-14, Jez. 10&.

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SAGGIO

Il

testo tom1st1co o aristotelico, parrebbe calzare a questo punto quello che si legge nel Timeo e specialmente nel discorso del Demiurgo agli dei inferiori , ben noto nella traduzione di Calcidio e tante volte citato da Alberto Magno; nonché quello che si legge nel De deo Socnatis di Apuleio e che sembra riferirsi proprio alle idee di Platone: « Est aliud genus deorum, quod natura visibus nostris denegavit, nec non tamen intellectu eos mirabundi contemplamur, acie mentis acrius contemplantes. Quorum in numero sunt illi duodecim numero situ nominum in duos versus ab Ennio coartati: Juno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus, Mars, Mercurius, Jovis, Neptunus, Vulcanus, Apollo.

4

Fin qui Dante ha esposto quelle che, a suo modo di vedere, sono le opinioni di Aristotele e di Platone, intorno al numero delle sostanze separate. Per ciò che concerne il numero delle intelligenze motrici, egli sa che Aristotele (5&) lo ha dedottot. dal numero dei movimenti siderei, poiché il suo metodo consiste nel risalire dagli effetti alle cause, dall'esperienza sensibile al sovrasensibile, come concordi riconoscono Averroè, Alberto e Tommaso. E anche il numero delle « idee » platoniche è determinato dal numero delle specie o maniere delle cose sensibili che di esse partecipano. Ma siffatto procedimento esclude forse che possa esservi un numero maggiore di intelligenze separate non addette al movimento dei corpi celesti? Insomma, il ragionamento d'Aristotele, e altrettanto si dica di quello di Platone, è rigorosamente necessario, o soltanto probabile e verosimile? Lo Stagirita, che nella determinazione del numero dei movimenti celesti moveva da Eudosso, da Callippo e dagli altri astronomi e matematici del suo ( 54) 40 D-E. ( 55) 41 A-D. ( 56) Metaph .• XII. t.c. H. c. 8, 1073 b 2-9; t.r. 48. e. 8. 107 4 a 15 sgg.

DAL

« CONVIVIO » ALLA « COM MEDIA »

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tempo, lo riteqeva un procedimento ragionevole, ma dichiarava che su questo punto era meglio rimettersi a chi aveva maggior competenza ch'egli non avesse : nale

Quare et substantias et principia immobilia et sensibilia tot ratioexistimare. Necessarium igitur dimittatur fortioribus dicere.

Questo evidentemente Aristotele diceva per un riguardo agli astronomi; non perché egli ritenesse possibile l'esistenza di sostanze separate prive della funzione di muovere i cieli. Così intesero il suo pensiero Averroè e Alberto Magno. Il quale, accennando a quei seguaci di Socrate che, dopo il Dio supremo, ponevano l'esistenza di dodici dèi « incorporales, immobiles et non moventes », dice , non senza una certa stizza, che siffatte aff ermazioni sono errori per la filosofia: « Cum autem nihil horum probari possit per rationem, non est illud dicendum in philosophia, neque philosophus potest disputare cum istis, quia non communicat cum eis in principiis ». S. Tommaso invece , cercando di trar profitto dalle ultime parole di Aristotele che abbiamo riferite, quasi che il filosofo dubitasse, non del numero dei movimenti siderei, per le varie opinioni tra gli astronomi, ma dello stesso principio per cui dal numero dei moti celesti s'ha da indurre il numero dei motori, s'azzarda a dichiarare il ragionamento d'Aristotele puramente probabile, ma non dimostrativo. E questo egli ripete anche nel commento alla M etafisioa > : Sed tamen primum non est necessarium, scilicet quod omnis substantia immaterialis et impassibilis sit finis alicuius motus caelestis. Potest enim dici quod sunt aliquae substantiae separatae altiores, quam ut sint proportionatae quasi fines caelestihus motihus, quod ponere non est inconveniens. Non enim substantiae immateriales sunt propter corporalia, sed magis econverso.

(57) Metaph .• XII. t.c. 48. c. 8. 107-Ja I.'i-16. ( 58) Metaph., Xl, tr. 2, c. 27. ( 59) Contra gent., Il, c. 92. ( 60) XII, lez. Ioa.

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SACCIO

Il

Dante su questo punto si avvicina assai di più a S. Tommaso che ad Alberto. A quest'ultimo, come agli averroisti, non importava niente di constatare, che tra la filosofia, com'egli l'intendeva, e la fede vi fosse disaccordo. Dal punto di vista della filosofia, il ragionamento d'Aristotele è apodittico: se vi fossero altre sostanze separate, non addette al movimento dei cieli, come erano le idee di Platone, « essent otiosae », né più né meno di quel che pensava Averroè. Per Tommaso, invece, cui stava a cuore l'accordo tra la filosofia e la teologia, e che, anzi, nella prima cercava i « praeambula fidei », il ragionamento d'Aristotele e degli averroisti è semplicemente probabile, ma non necessario; anzi, è falso di fatto. Perciò, egli nella somma Contra gentiles s'adopra a cercare nella :filosofia d'Aristotele spunti ai quali s'appiglia per imbastirvi una dimostrazione della tesi cattolica, « quod sunt multo plures substantiae intellectuales a corporibus separatae quam sint motus caelestes >>. Il Busnelli pretende che « tutta l'argomentazione di Dante », per correggere il « difetto di ragione » delle precedenti op1n1oni, « è ispirata da S. Tommaso, Contra gent., 1. 2, c. 92 », del quale cita un tratto che col concetto dantesco ben poco ha che fare. Dice dunque Dante: E avvegna che per ragione umana queste oppinioni di sopra fossero fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per loro veduta non fue, e per difetto di ragione e per difetto d'ammaestramento.

L'« esperienza non lieve» va intesa quanto alle osservazioni e ai calcoli astronomici per determinare il numero dei movimenti celesti. E agli astronomi, come soli competenti a ciò, dichiarava di volersi rimettere Aristotele, come abbiam visto. Il « difetto di ammaestramento » va inteso, e ciò ha ben visto il Busnelli, come 1nancanza di rivelazione divina, in quanto dette sostanze separate non moventi non potevano conoscersi per gli effetti, cioè per mezzo dei 1noti celesti.

(61) Il, 92.

DAL

« CONVIVIO » ALLA « COMMEDIA

»

55

Ma il « difetto di ragione», da parte d'Aristotele e degli averroisti, merita più attenta considerazione. Ecco come Dante argomenta: Ché pur per ragione veder si può in molto maggiore lmmero esser Je creature sopra dette, che non sono li effetti che [per] li uomini si possono intendere. E l'una ragione è questa. Nessuno dubita, né filosofo né gentile né giudeo né cristiano né alcuna setta, eh 'elle non siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la maggior parte, e che quelle beate non siano in perfettissimo stato. Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l'umana natura non pur una beatitudine abbia, ma due, sì com'è quella de la vita civile, e quella de la contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle avere la beatitudine de la vita attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non avessero quella de la contemplativa, la quale è più eccellente e più divina. E con ciò sia cosa che quella che ha la beatitudine del governare non possa l'altra avere, perché lo 'ntelletto loro è uno e perpetuo, conviene essere altre fuori di questo ministerio che solamente vivano speculando.

Il ragionamento di Dante fa leva sulla distinzione che Aristotele aveva fatto nell'Etica e che Dante ricorda anche altrove nel Convivio . Dante, per ciò che riguarda la distinzione della beatitudine della vita contemplativa da quella della vita attiva, e la superiorità della prima sulla. seconda, ripete alla lettera Aristotele. Ma siccome il Busnelli persegue l'intento apologetico di dimostrare che l'Alighieri è un fedele tomista, al testo aristotelico preferisce in generale il commento dell'Aquinate. E così, tutto preso dal suo proposito, non fa attenzione ad un'affermazione che, dal punto di vista tomistico, è veramente sconcertante. L'affermazione è questa: poiché quell'intelligenza « che ha la beatitudine del governare non possa l'altra avere, ... conviene essere altre fuori di questo ministerio ».

(62) X, c. 7, 1177a 12-c. (63) IV, XVII, 9-11,

XXII,

9, 1179a 32; lezioni 1oa.J3a del commento tomistico. 10-18.

56

SAGGIO

11

Aristotele, e Dante lo sa bene, aveva detto che la felicità della vita attiva, ossia civile, nel governare la città o il mondo, è meno perfetta della felicità della vita contemplativa. Ma mentre gli uomini che si dedicano alla vita attiva possono un bel giorno piantarla, t!ostretti o stufi, e dedicarsi alla meditazione filosofica, per essere il loro intelletto in potenza a passare dall'azione alla contemplazione, questo non possono fare le intelligenze motrici, perché, come abbiamo visto, secondo Aristotele e Averroè esse sono atti eterni senza possibilità di passaggio da una maniera di beatitudine all'altra, « aliter sempiterne non essent » .E questo Dante vuol dire appunto con la frase: « perché lo 'ntelletto loro è uno e perpetuo»; ove « uno » ha significato di « uniforme e sempre uguale a sé », cioè senza cangiamento. Così le intelligenze motrici dei cieli godono, sì, della beatitudine della vita attiva, ma la beatitudine contemplativa, « la quale è più eccellente e più divina » , resta ad esse eternamente preclusa, « con ciò sia cosa che quella che ha la beatitudine del governare non possa l'altra avere». Non è certo questo il pensiero di S. Tommaso. Per il quale, del resto, i motori dei cieli sono spiriti dell'ordine delle Virtù , cioè del quinto ordine, che è il secondo della seconda Gerarchia, secondo il beato Dionigi . Dante, invece, in omaggio al principio averroistico della corrispondenza della virtù dei cieli alla maggiore o minore nobiltà dei motori , vuole che le intelligenze cui è riserbata la beatitudine della vita attiva, e quindi preclusa per l'eternità quella contemplativa, appartengano ai corrispondenti ordini angelici, dai Serafini agli Angeli , sì che in ognuno dei nove ordini vi sarebbero alcuni spiriti che, avendo « la beatitudine del governare », non possono « l'altra avere » .

( 64) ( 65) ( 66) ( 67) ( 68) (69) ( 70)

Mon., I, 111, 7, citato e discusso qui sopra. Cfr. Arist., Eth. nicom., X, c. 7, ll 77 a 12 sgg. Contra gent .• III, 80. Par., XXVIII, 121-123. Par., XXVIII, 46-78. Conv., Il, v, 13-15. Cfr. il mio voi. Dante e la cultura metliernle, cii., pp. 314 sg.

DAL « CONVIVIO

Seguita poi Dante

71


:

E perché questa vita è più divina, e quanto la cosa è più divina è più di Dio simigliante, manifesto è che questa vita è da Dio più amata; e se ella è più amata, più le è la sua beatanza stata larga; e se più l'è stata larga, più viventi le ha dato che a l'altrui. Per che si conchiude che troppo maggior numero sia quello di quelle creature che li effetti non dimostrano.

Che la vita speculativa sia « eorum quae 1n nobis divinisè dottrina d'Aristotele ; parimente che simum » (&eto't'cx.'t'ov) essa sia « similitudo quaedam » ( oµolwµoc _'t't) dell'operazione propria degli dèi, è detto da Aristotele ; il quale afferma pure che, chi è in possesso di siffatta beatitudine,, è « Deo amantis), « onde il sapiente ( crocp6c;)è sommasimus » ( &eocptÀÉa-rcx.'t'oç mente felice, « erit sapiens maxime felix » . Concetto aristotelico , intorno al quale si accesero vive discussioni da parte degli averroisti e dei loro avversari, è altresì quello che la suprema beatitudine sia un beneficio concesso da Dio, euÀoyovx.rx.t --:-Ìjv eù8cx.tµov(ocv S-e6cr8o't'ovetvrx.t, e quindi una partecipazione della beatitudine divina. Quanto alla deduzione: « e se più l'è stata larga, più viventi le ha dato che a l'altrui» (non è forse da correggere: « a l'altra>>,, sottintendendo « vita »?), è da notare che essa è ricalcata per analogia sul concetto averroistico, accolto da Dante ('16), e al quale ho già accennato pocanzi. Parlando dell'ordine dei motori celesti, dice Averroè : Quoniam vero ordinatio istorum moventium a primo motore oportet ut sit secundum ordinem stellarum orbium in loco, manifestum est etiam; prioritas enim in loco eorum et in magnitudine facit eos priores in nobilitate. ( 71) Conv., Il, IV, 12. ( 72) Eth. nicom., X, c. 7 1177 a 16, lez. 10a del romm. tomistico. (73) Eth. nicom., X, c. 8, 1178 b 27, lez. 12a. (i4) Eth. nicom., X, c. 9, 1179 a 23-32. ( 75) Eth. nicom., I, c. 10, 1099 b Il Sflf!• ( 76) Par., XXVIII, 64-78. ( 771 Metaph., XII, comm. 44.

58

SAGGIO Il

E Dante: Li cerchi corporai sono ampi e arti secondo il più e 'l men de la virtute che si distende per tutte lor parti. Maggior bontà vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape ••.

Al rapporto averroistico tra la maggiore ampiezza delle sfere celesti e la maggiore nobiltà dei corrispondenti motori, è sostituito nel passo del Convivio il rapporto tra la maggiore larghezza da parte di Dio nel largire il dono della beatitudine speculativa, e il maggior numero degli spiriti viventi che la ricevono. Ma per quanto Dante si sia affannato a cercare in Aristotele spunti per correggere il « difetto di ragione », la conclusione cui è giunto non è meno antiaristotelica. Giacché, quando Aristotele parla di « sostanze separate », intende solo deHe intelligenze motrici. E proprio a queste, e unicamente a queste, attribuisce la maggiore perfezione della vita speculativa, mentre Dante afferma che ad esse spetta soltanto la beatitudine meno perfetta della vita attiva nel governo del mondo. E Dante stesso se n'accorge ('18): « E non è contra quello che par dire Aristotile nel decimo de l'Etica, che a le sustanze separate convegna pure la speculativa vita». Aristotele parla veramente degli « dèi » , e dice che ad essi spetta la beatitudine più perfetta, che è quella costituita da un atto eterno ed immutabile di speculazione. E S. Tommaso era là per avvertirlo che questi « dèi » d'Aristotele sono le « sostanze separate », che muovono i cieli , poiché, come Dante sa bene, per lo Stagirita altre sostanze separate non esistono. E allora come può asserire Dante che il suo ragionamento « non è contra quello che par dire Aristotile »? A questa domanda egli risponde con parole oscillanti, nel loro incerto si( 78) ( 79) ( 80) (81)

Conv., Il, 1v, 13. Eth. nicom., X, c. 8, 1178 b 8, 26. Lez. 12. Cfr. Arist., Metaph .• XII, t.c. 50, c. 8, 1074

b

2. 9.

DAL

« CONVIVIO » ALLA « COMMEDIA

»

59

gnifìcato, le quali, anzi che appianare la difficoltà, mettono in evidenza il garbuglio in cui s'è cacciato ( non certo per essersi ispirato a S. Tommaso): Come pure la speculativa ( vita) convegna loro, pure a la speculazione di certe segue la circulazione del cielo, che è del mondo governo ; lo quale è quasi una ordinata civilitade, intesa ne la speculazione de li motori.

Mi pare che questi due « pure » vadano intesi così: - Per quanto alle sostanze separate motrici dei cieli convenga anche la vita speculativa ( oltre, s'intende, alla vita attiva), pure ( = tuttavia) alla loro speculazione segue la circulazione del cielo, poiché la loro speculazione è ordinata appunto al governo del mondo. In altre parole, Dante vuol risolvere l'obiezione che sente farsi, che cioè egli è in contrasto con Aristotele, il quale aveva attribuito alle sostanze motrici dei cieli la perfezione della vita speculativa, mentre Dante, come abbiamo visto, aveva loro accordato solo la beatitudine della vita attiva. Se egli vi sia riuscito, lascio giudicare al lettore che se n'intenda. Piuttosto mi pare sia il caso di domandarsi, come sia venuto in mente a Dante di trasferire alle intelligenze separate la distinzione fra vita speculativa e vita attiva, che Aristotele aveva escogitato per l'uomo. Anche per questo credo che egli lo spunto l'abbia tolto da Averroè, il quale alla sua volta svolge il concetto espresso da Aristotele, con parole omeriche, alla fine del dodicesimo della Metafisica: « Entia vero nolunt disponi male, nec honum pluralitas principatuum: unus ergo princeps ». Dice dunque Averroè : Dispositio enim in iuvamento corporum coelestium ad invicem, in creando entia quae sunt hic et conservando ea, est sicut dispositio regentium bonorum, qui iuvant se ad invicem in regendo bonam civitatem; quoniam omnes actiones eorum sunt erga actiones primi principis; ponunt enim actiones suas servientes et consequentes actionem primi principis. Quemadmodum igitur primus princeps in civitatibus ne(82) Eth. nicom., X, c. 8, 1178 6 9 sgg., lez. 126 sgg., lez .. 5•. ( 83) Metaph., XII, comm. 44.

;

efr. ib., I, e. 3, 1095 b 17

60

SAGGIO

11

cesse est ut habeat actionem propriam, quae est nobilissima actionum ( et si non, esset ociosus), quam actionem intendunt per suam actionem omnes qui sunt sub primo principe; quemadmodum igitur necesse est in istis principatibus ut primus principatus sit ... ; et sic accidit in artificiis ... ; sic igitur est intelligendum de istis corporibus cum suis formis a quibus moventur, et de istis formis ad invicem.

L'universo appariva così a Dante, come già ad Averroè, una grande monarchia, a capo della quale è un unico principe, dei cui voleri le altre intelligenze, da esso dipendenti, sono esecutrici, quasi altrettanti ministri in un regime politico. E così forse gli è balenata per la prima volta l'idea della Monarchia universale. Alla precedente argomentazione, addotta per correggere il « difetto di ragione » da parte di coloro che pretendevano di limitare il numero delle intelligenze separate al numero dei motori celesti, Dante ne aggiunge una seconda : L'altra ragione si è che nullo effetto è maggiore de la cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha; ond'è, con ciò sia cosa che lo divino intelletto sia cagione di tutto, massimamente de lo 'ntelletto umano, che lo umano quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente soperchiato. Dunque se noi, per le ragioni di sopra e per molt'altre, intendiamo Iddio aver potuto fare innumerabili quasi creature spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore numero.

Il ragionamento nella prima parte è piuttosto lambiccato e alquanto incoerente; e il commento busnelliano nulla giova a chiarirlo e a raddrizzarlo. Anzitutto, per la premessa « nullo effetto è maggiore ... quello che non ha», andava rimandato all'opera gemella del Convivio, cioè al De vulgari eloquentia, I, IX, 6: ccDicimus ergo quod nullus effectus superat suam causam in quantum effectus est, quia nichil potest efficere quod non est ». Dei testi tomistici citati dal Busnelli solo il primo è a proposito; ma è citazione inutile, perché trattasi di un principio comune che, fra l'altro, è ( M) Conv., II, 1v, l•i-15.

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vero soltanto, come precisa meglio Dante nel De vulgari eloquentia, nella misura che una cosa è realmente effetto d'una causa, « in quantum effectus est». Poi c'è da osservare che la prima conclusione: « ond'è, con ciò sia . . . improporzionalmente soperchiato », perché corra, va raddrizzata così: - Perciò l'intelletto umano, che è effetto dell'intelletto divino, « quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente soperchiato », per la ragione che quello non produce soltanto l'intelletto umano, ma tutte le cose dell'universo. Ma anche con questo raddrizzamento, non si vede come da ciò che è stato detto sgorghi logicamente il « Dunque » che segue; perché dall'essere Dio causa di tutte le cose del mondo, non segue necessariamente che si possa pensare che egli potesse farne un numero maggiore. Qui non c'entra l'« argomento ontologico di S. Anselmo» tirato in hallo dal Busnelli; si tratta di sapere se la mente umana può pensare « lddio aver potuto fare innumerabili quasi creature spirituali », oltre alle intelligenze motrici. E per poterlo pensare, bisogna anzi tutto attribuire a Dio l'onnipotenza, del qual concetto qui non si fa cenno. Inoltre, anche postulata l'onnipotenza di Dio, non è evidente che tutto quello che Dio poteva fare, di fatto facesse. Per tirare la conclusione: « Dunque se noi . . . intendiamo Iddio aver potuto fare innumerabili quasi creature spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore numero »~va sottinteso: manifesto « pur per ragione », cioè per ragionamento. Ora perché questo sia manifesto « pur per ragione », bisognerebbe ammettere, con gli averroisti, che tutto quello che Dio poteva fare l'ha fatto, e che la possibilità non attuata, e con essa la contingenza, non trova posto nel mondo celeste e in quello degli spiriti. E v'era poi da osservare un'altra cosa: quell'avverbio « improporzionalmente >). Siccome il concetto che esso racchiude non è ben chiaro al lettore non esercitato, era opportuno richiamare ad Aristotele, De caelo, I, t. c. 52, c. 6, 274" 7, ove si legge che « proportio nulla est infiniti ad finitum >>; ed ugualmente al t. c. 64, c. 7, 275" 13: « infinitum enim ad finitum in nulla proportione est». Nell'infinità di Dio potrebbe essere racchiuso il concetto dell'onnipotenza.

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Ma v'è nel testo dantesco un'altra espressione che non va trascurata: « lddio aver potuto fare innumerabili quasi creature spirituali ». _Cosa può significare quell' « innumerabili quasi »? Queste creature spirituali sono innumerevoli o no? Perché, se il numero è determinato e finito, è evidente che resta ancora a Dio un margine infinito per raddoppiarle, triplicarle, ecc. E quel « quasi » che cosa sta a fare, se non a impedirci di pensarle davvero « innumerabili », cioè infinite nel numero? Dante non cita mai nel Convivio il famoso versetto di I>a.niele, VII, 10, cui allude invece in Par. XXIX, 133-35. In questo luogo del poema egli spiega e precisa la frase del Convivio, attenendosi all'interpretazione che lo pseudo-Dionigi aveva dato del versetto di Daniele. Il prof eta sapeva bene che il numero degli angeli è determinato e limitato, ma esso è talmente grande che la mente umana non arriva a capirlo, e le enormi cifre forni te da lui servon piuttosto a celarlo che a rivelarcelo, tanto esse sorpassano il debole e ristretto confine della contabilità umana. Evidentemente il teologo bizantino non aveva alcuna idea dei calcoli astronomici moderni, ai quali si vanno adeguando i bilanci di molte pubbliche amministrazioni. Innumerevoli per noi, quelle beate menti che formano il mondo della luce irraggiato dal Sole eterno, costituiscono in sé un numero determinato che a noi per altro si cela. 5

Ma Dante ha appena finito di svolgere i due argomenti che avrebbero dovuto correggere il « difetto di ragione » dei filosofi e mostrare come« pur per ragione veder si può» quello che né Aristotele e Averroè né Platone avevano visto, e tuttavia esorta il lettore a non meravigliarsi « se queste e altre ragioni che di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrate ». Sono infatti ragioni semplicemente probabili, topiche e retoriche, le quali servono soltanto a disporre l'animo ad accogliere l' «ammaestramento» della rivelazione che ai filosofi pagani mancò. (85) De cael. hier., XIV.

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~, appartengono certo al passato, ma ad un passato non tanto lontano, da farci pensare che l'autore dell'opera filosofica l'avesse dimenticato nel momento in cui egli vi accenna. Voglio dire, insomma, che se il movente a scrivere il Convivio fu « misericordia ... inver di quelli che in bestiale pastura » vedeva « erba e ghiande sen gire mangiando »; e aggiungiamo (86) Conv., II, 1v, 17. (87) Conv., IV, 1, 8.

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pure quello di rialzare la sua fama e di farsi meglio conoscere dai suoi concittadini; il vero e più impellente motivo fu il bisogno di chiarire a se stesso i propri dubbi, che avevano preso a inquietarlo. Dante non era uomo da imbrattare carte per procurarsi titoli a concorsi, da pesare con la bilancia del carbonaio. E sebbene il Convivio sia concepito come opera fondamentalmente filosofica, non vi mancano testimonianze di studi teologici che lo autore aveva intrapreso da qualche tempo caa>. Sì che quello che si mangia alla beata mensa dagli uomini desiderosi di sapere è lo stesso « pane de li angeli » che sazia le intelligenze celesti. E quella sapienza, di cui parla Aristotele nei primi capitoli della Metafisica e che appaga il desiderio dei mortali, è la stessa Sapienza dei libri salomonici, candore di luce eterna, che raggia dall'intelletto dh.ino nelle menti angeliche « per modo di diritto raggio » e in quella umana « per modo di splendore reverberato »; « onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate » . Se non che, pur procedendo la filosofia umana dalla Sapienza divina, questa non si rivela a noi per intero, e, se ne dimostra la faccia, altre cose ne tiene celate C90 >. Ma, pur celate, per quel « poco di splendore, o vero raggio, come passa per le pupille del vispistrello » , di cui si diceva, la mente umana, per quel tanto che discerne con la ragione, è aiutata a desiderarle ed acquistarle: Onde, sì come per lei molto di quello s1 vede per ragione. e per consequente essere per ragione, che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede [eh'] ogni miracolo in più alto intelletto puote avere ragione, e per consequente può essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine ... » (9'.I).

( 88) Cfr., ad esempio. oltre questo quinto eapitolo del secondo trattato, i seguenti luoghi: II, I, 4-6; 111. 8-11; VIII, 14-15; XIV. 19-20; III. XIV. 7, 13-15; xv, 16-17: n·. v. 3-8; XVII. 9-11; XXI, 11-12; XXII, 14-17: XXIII, 10-11; nonché i c:-app. IV-VIII del I libro del De vulgari eloquentia. che è opera gemella del Cont•it>io. (89) Conr., III. XIV, 4-5. (90) Coni,., III, xiv, 13. (91) Coni,., II. IV. 17. ( 92) Com• .• III, Xl\', 14 ( secondo l'ediz. Busnelli e Vandelli).

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Le cose celate appartengono

pertanto alla sfera del miracolo, cioè del soprannaturale. Di miracolo parlava appunto Alberto Magno, nel commento al De generatione et corruptione , il quale a proposito della generazione degli esseri corruttibili, che, secondo Aristotele, non può mai venir meno, come non ha mai avuto principio nel tempo, osserva: « Si enim quis dicat, quod voluntate Dei cessabit aliquando generatio, sicut aliquando non fuit et post hoc incepit: dico quod nihil ad me de Dei miracul,is cum ego de naturalibus disseram ». Le quali parole ebbe a ritorcere contro Alberto Sigieri : « Sed nihil ad nos nunc de Dei miraculis, cum de naturalibus naturaliter disseramus ». E lo stesso ripetono Pietro d'Abano, Giovanni di Jandun e più o meno tutti gli averroisti. I quali non negano la possibilità del soprannaturale e del soprarazionale, insomma del miracoloso. Negano soltanto che ad esso possiamo giungere per via filosofica, cioè coi principi di· ragione. Ora, mentre Alberto afferma risolutamente, d'accordo in ciò con gli averroisti, che « theologica... non conveniunt curn physicis in principiis, quia fundantur super revelationem et inspirationem, et non super rationem, et ideo de illis in phllosophia non possumus disputare », Dante invece si compiace d'intercalare a dispute filosofiche, nel corso d'un'opera intrapresa con intento fi. losofico, accenni e digressioni di carattere teologico, e cerca di scoprire nella filosofia quello che aiuta la fede, onde nascono la speranza e la carità, e lo scopre nel desiderio che essa accende nel nostro animo, d'acquistare « le cose che ne tiene celate» , La espressione « ad aquistare », che ha nella tradizione manoscritta assai miglior fondamento che non « ed acquistare w, ha certamenpoiché, per Dante, la filosote il significato di «d'acquistare»; fia ci può dare il desiderio dell'acquisto, ma non l'acquisto delle cose celate alla ragione umana. E questo desiderio lo fa nascere

( 93) I, tr. l, c. 22, ad t.c. 14 ( cfr. il mio voi. di Studi di filos. mediev., cit., pp. 119-122). (94) Quae,t. de anima inteli., in Mandonnet, Sig. de Brab. et l'at•err. latin au XIJJe s., Il, Louvain 1908, pp. 153-154. ( 95) Conv., III, l.lV, 13. 6

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II

in noi per mezzo delle « sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento » , perché « in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano ... che certissimamente si veggiono e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intender noi non potemo, [ e nullo] se non co [me] sognando si può appressare a la sua conoscenza » c1r1>. In tal modo Uante parrebbe avviarsi veramente a superare la posizione d"Alherto e orientarsi verso quella di S. Tommaso, che, come sappiamo, cercava nella filosofia aristotelica i « praeamhula fidei », sì da ritenere che l'appetito naturale di conoscere non può essere soddisfatto in questa vita, perché, « quanto ... plus aliquis intelligit, tanto magis in eo desiderium intelligendi augetur, quod est omnibus naturale», onde non è possibile « ultimam hominis felicitatem in hac vita esse ». E perché Aristotele, e con lui Alessandro d'Afrodisia e Averroè, avevano visto che l'uomo in questa vita non possiede altra conoscenza che quella delle scienze speculative, - aggiunge l'Aquinate, - « posuit hominem non consequi felicitatem perfectam, sed suo modo. In quo satis apparet, quantam angustiam patiebantur hinc inde eorum praeclara ingenia ». 6 Se non che questa spinta a staccarsi dall'averroismo di Alberto per la dottrina teologica di Tommaso s'arresta d'improvviso, quafli sopraffatta da un « forte dubitare» illogico, dopo quel che era stato detto, e che non si riesce a spiegare, non ostante le chiose del Busnelli, senza pensare a incalzanti reminiscenze averroistiche: Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la Sapienza possa fare l'uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che 'I naturale desiderio sia a l'uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa.

(96) Conv., Ili, xv, 2. ( 9i) Conv., III, xv, 6. ( 98) Contra sent., Ili, 48 sgg.

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Il presupposto del qual dubbio è la precedente affermazione, che cioè la filosofia, per mezzo delle sue persuasioni, ci mostra « sotto alcuno velamento » cose che « soverchian lo nostro intelletto », « che in alcun modo ... nostro intelletto abbagliano », « ..• che certissimamente si veggiono ... essere, e per quello -che sono intender noi non potemo, [ e nullo] se non co [me] sognando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti »; e che per mezzo di questa conoscenza velata essa aiuta la nostra fede, in quanto suscita in noi un desiderio di acquistarle per mezzo di una visione chiara. Senza questo presupposto il dubbio non ha senso. Vediamo ora come il dubbio è risolto : A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante : altrimenti andrebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l'avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario andrebbe : ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio ( e in questo errore cade l'avaro maladetto, e non s'accorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere ). A vrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato .

Il principio, dal quale Dante prende le mosse per risolvere il grave dubbio, è quello che il desiderio naturale in ciascuna cosa è limitato alla capacità o possibilità, ossia alla natura, di quella. Poiché ciascuna cosa per sua natura è collocata in un determinato genere e in una determinata specie, ha uno speciale fine da raggiungere nell'ordine cosmico, « per lo gran mar de l'essere», e adeguate capacità ad operare, o «potenze», per raggiungerlo. In tal modo, ogni cosa è « accline » per sua natura a occupare il posto che nel disegno divino del mondo le è assegnato , sì da

(99) Conv., Ili, xv, 6. Su quest'ultima lezione, si veda quanto ho detto nel mio voi. Nel mondo di Dante. Roma, Ediz. di Storia e Letteratura, 1944, pp. 81-90. ( 100) Conv., III, xv, 8-9. (101) Par., I, 109 sgg.

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quietare il naturale desiderio che ogni cosa ha di assomigliare a Dio, cioè a quel « divinum et bonum et appetibile » che ciascun essere, secondo Aristotele, « natura aptum est appetere, et desiderare ipsum, secundum suam ipsius naturam » . Di qui il detto del commentatore: « est haec perfectio divina max.ima, cui omnia entia appetunt assimilari, et ex qua appetunt acquirere, secundum quod natura eorum potest recipere ». Ma Dante aveva già detto prima : È da sapere

che la divina bootade io tutte le cose discende, e altrimenti essere non potrebbero; ma avvegna che questa bootade si muova da simplicissimo principio, diversamente si riceve, secondo più e meno, da le cose riceventi. Onde scritto è nel libro de le Cagioni : « La prima bontade manda le sue bootadi sopra le cose con uno discorrimento ». Veramente ciascuna cosa riceve da quello discorrimento secondo lo modo de la sua virtù e de lo suo essere ... Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli, . . . e altrimenti da le piante, e altrimenti da le minere, e altrimenti da la terra che da li altri [elementi] .

Da questa differenza di natura e di virtù e dal diverso modo di ricevere la divina bontà, nasce lo « speziale amore » che è proprio di ogni cosa creata, e in cui consiste l'appetito naturale di essa verso un determinato bene nel quale il suo desiderio si quieta, « tosto che giunto l'ha; e giugner puollo; se non, ciascun disio sarebbe frustra » . Questo « speziale amore», o « impeto primo» , fa sì che « tutte nature, per diverse sorti », abbiano fini particolari diversi, « onde si muovono a diversi porti », portata ciascuna da un proprio 108 .Piuttosto, mi sembra d'avere ancora qualcosa da dire intorno alla posizione filosofica di Dante nel IV trattato. Nel IV trattato del Convivio che, insieme al I, rivela un fervore di speculazione filosofica nell'atto di propagarsi alla vita morale, sociale· e politica, fuori del chiuso delle scuole dei religiosi e delle dispute dei filosofanti di mestiere, nell'affollarsi di mille problemi all'animo di Dante, inteso a districare il concetto della vera nobiltà da quello feudale e a tracciare il ritratto del vero nobile in tutte le quattro età della vita, il problema discusso nelle ultime pagine del III trattato riaffiora più volte. Una prima volta, nei capp. XII-XIII,ove si vuol dimostrare che le ricchezze sono imperfette « nel pericoloso loro accrescimento », perché « sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario » : .Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno d'ogni appagamento, e con questa promissione conducono· l'umana vol~ntade in vizio d'avarizia ... Promettono ( 118) ( 119) ( 120) ( 121)

lb., III, xv, 3-4. lb., III, xv, 8. V. sopra, pp. 12-14. Conv., IV, Xli, 3-5.

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le false traditrici, se bene si guarda, di torre ogni sete e ogni mancanza, e apportare ogni saziamento e bastanza; •.• e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile; e in loco di bastanza recano nuovo termine, cioè maggiore quantitade a desiderio, e, con questa, paura grande e sollicitudine sopra l'acquisto. Sì che veramente non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si avea.

E questo concetto dell'insaziata e insa~iabile brama di ricchezze è ribadito con citazioni da Cicerone, da Boezio, da Seneca, e con l'autorità dell'« una e l'altra Ragione, Canonica dico e Civile ». Ma sebbene Dante non disdegni le « auctoritates », egli non è l'umanista e il retore che le sfoggia in luogo di ragionamenti. Dante è prima di tutto filosofo, e i suoi procedimenti preferiti sono ormai quelli dialettici. :Perciò egli non si lascia levar la mano dalla retorica, che frena con la « suhtilitas » del loico. Veramente qui surge in dubbio una questione, da non trapas• sare sanza farla e rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno calunniatore de la veritade che se, per crescere desiderio acquistando, le ricchezze sono imperfette e però vili, che per questa ragione sia imperfetta e vile la scienza, ne l'acquisto de la quale sempre cresce lo desiderio di quella .

Prima di rispondere alla questione, Dante premette alcune osservazioni sul modo come « non solamente ne l'acquisto de la scienza e de le ricchezze, ma in ciascuno acquisto l'umano desiderio si sciampia, avvegna che per altro e altro modo ». E qui egli, a mostrare come « lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio », scrive una delle più belle pagine della letteratura filosofica di tutti i tempi, per freschezza d'immagini e precisione di linguaggio, quale la lettura di Boezio , assai più e assai meglio della somma Contra gentiles, poteva ispirargli . (122) Conv., IV, Xli, Il. ( 123) Com., III, pr. 2-3. ( 124) Conv., IV, xn, 13-19.

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Ma eccolo alle prese col « calunniatore de la veritade », armato baccelliere nella giostra dialettica : A la questione rispondendo, dico che propriamente crescere lo desiderio de la scienza dire non si può, avvegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che propriamente cresce, sempre è uno: lo desiderio de la scienza non è sempre uno, ma è molti, e finito l'uno, viene l'altro; sì che, propriamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Che se io desidero di sapere li principii de le cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com 'è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l'avvenimento di questo non mi si toglie la perfezione a la quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma di perfezione maggiore.

Queste parole sono il miglior commento ai versi del IV canto del Pcuadiso , ove il succedersi dei desideri, nella conquista del vero, è assomigliato a un'ascesa « di collo in collo», verso sempre più ardue cime; nella quale ascesa sono tappe e soste, a riposare l'animo nel godimento del vero via via raggiunto: Posasi in esso come fera in lustra, tosto che giunto l'ha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè del vero il dubbio; ed è natura ch'al sommo pinge noi di collo m collo.

Niente di tutto questo nei testi tomist1c1 già citati, né in quelli riferiti dal Busnelli. P~r Tommaso il desiderio naturale di sapere e d'esser beato è uno solo, da principio alla fine, ed esso non può esser naturalmente soddisfatto, in tutta la sua infinità, senza la grazia della visione beatifica. A differenza del dilatarsi del desiderio della scienza verso una sempre maggiore perfezione, che propriamente non è crescere, « quello veramente de la rie( 125) Conv., IV, Xlii, ( 126) Vv. 126-132.

1-2.

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chezza è propriamente crescere, ché è sempre per uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione ». E se l'avversario vuol dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere li principii de le cose naturali e altro di sapere che elli sono, così altro desiderio è quello de le cento marche e altro è quello de le mille, rispondo che non è vero: che 'l cento si è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d'una linea a tutta linea, su per la quale si procede per un moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li principii de le cose naturali, e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l'uno de l'altro, e hanno ordine insieme come diverse linee, per le quali non si procede per uno moto, ma, perfetto lo moto de l'una, succede lo moto de l'altra. E così appare che, dal desiderio de la scienza, la scienza non è da dire imperfetta, sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la questione ponea ; ché nel desiderare de la scienza successivamente finiscono li desiderii e viensi a perfezione, e m quello de la ricchezza no.

Per Tommaso il desiderio naturale di sapere, non soltanto è uno, e non più, come abbiamo visto, ma è un moto retto che tende a un termine fisso, come il moto dei gravi, e che, quanto più s'avvicina a questo termine, tanto più cresce d'intensità e si fa più veloce. Continua Dante : Ben puote ancora calunniare l'avversario dicendo che, avvegna che molti desiderii si compiano ne lo acquisto de la scienza, mai non si viene a l'ultimo : che è quasi simile a la 'mperfezione di quello che non si termina e che è pur uno. Ancora qui si risponde, che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai non si viene a l'ultii;no : ché li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato ~ mostrato, sono a certo termine discendenti : e quello de la scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avvegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. E chi intende lo Commentatore nel terzo

( 12i) Contra gent., lii, 25. ( 128) Conv., IV, Xlii, 6-9.

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de l'Anima, questo intende da lui. E però dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra Simonide poeta parlando, che « l'uomo si dee traere a le divine cose quanto può » ; in che mostra che a certo fine bada la nostra potenza. E nel primo de l'Etica dice che « 'l disciplinato chiede di sapere certezza ne le cose, secondo che la loro natura di certezza riceva » ; in che mostra che non solamente da la parte de l'uomo desiderante, ma deesi fine attendere da la parte de lo scibile desiderato.

In questo luogo del quarto trattato del Convivio è notevole anzitutto il rimando alla soluzione del « forte dubitare » nel III, xv, 7-10. Quella soluzione qui è ribadita nella forma più esplicita, senza che Dante menomamente sospetti di una contraddizione con quello che nel terzo trattato precedeva il dubbio. In quel trattato aveva detto, · come qui, che, « con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere». Insomma il desiderio naturale s'arresta al quia e all'an sil, non s'estende al quid sit e al propter quid, si ferma ali' anitas e non appetisce la quidditas. Si oda invece S. Tommaso : Adhuc, sicut se habet quaestio propter quid ad quaestionem quia, ita se habet quaestio quid est ad quaestionem an est. Nam quaestio propter quid quaerit medium ad demonstrandum quia est aliquid; puta quod luna eclipsatur; et similiter quaestio quia est quaerit medium ad deoionstrandum an est, secundum dòctrinam traditam in .ecundo Posteriorum . Videmus autem, quod videntes quia est aliquid, natu.raliter scire desiderant propter quid. Ergo et cognoscentes an aliquid sit, naturaliter scire desiderant quid est ipsum: quod est intelligere eius substantiam. Non igitur quietatur naturale sciendi desiderium in cognitione Dei, qua scitur de ipso solum quia est .

( 129) Secondo la correzione del Witte. Cfr. Mon., II, aqua et terra, 60. ( 130) Contra sent.,III, 50. ( 131) T.c. 1, c. 1, 89b 22 sgg. ( 132) Cfr. Summa theol., Ja nae, q. 3, a. 8.

11,

7: e la Quae5tio de

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11

. Vedremo tra poco il motivo di questa recisa opposizione fra S. Tommaso e Dante su un punto di tanta importanza. Un'altra cosetta è degna d'attenzione nel passo, che abbiamo riferito, del quarto trattato: l'appello al Commentatore, cioè ad Averroè, « nel terzo de l'Anima». Ritengo che la citazione di Averroè sia da riferire cumulativamente all'affermazione che« certo termine compie))) il desiderio naturale di sapere, e a quella successiva che « pochi, per male camminare, compiono la giornata ». Questo termine, per il Commentatore di Aristotele, che, a proposito del testo 36 del terzo del De anima, apre una lunga digressione fatta oggetto d'infìnite discussioni, da Alberto Magno sino alla fine del Cinquecento, consiste nella continuati-O o copulati.o dell'intelletto agente, clie è Dio o una sostanza separata, con l'intelletto possibile, sì da ridurre all'atto tutta quanta la potenza di questo . In questo stato di copulati.o con l'intelletto agente, al quale l'uomo perviene soltanto alla fine del suo sviluppo intellettuale, dopo avere apprese tutte le scienze speculative, esso « assimilatur Deo in hoc, quod est omnia entia quoquo modo et sciens ea quoquo modo. Entia enim nihil aliud sunt nisi scientia eius, neque causae entium ali ud sunt nisi scientia eius » .Ma poiché soltanto a pochi è concesso di giungere a questo termine, Averroè esclama subito: « Et quam mirahilis est iste ordo, et quam extraneus ... ! », appunto ~rché riservato raramente a pochi fortunati. E che pochi sian quelli che compiono la giornata, mentre i più restan privi di questa perfezione cui l'uomo aspira naturalmente, Averroè dice nel proemio del suo commento alla Fisica, là dove parla dell'« utilitas » della scienza speculativa e delle cause onde i più se ne ritraggono. Le stesse cose continuarono a ripetere gli averroisti fino al secolo XVI. •Dei quali basta ricordare Giovanni di Jandun, che, dopo aver ventilato ben bene l'argomento, deve rassegnarsi a ri-

( 133) Cfr. il mio scritto La mutica averroiatica e Pico della Mirandola, nel volume di Saggi aull'ariatoteliamo padovano. Firenze, San.soni, 1958, p. 134. ( 134) Averr., De anima, III, comm. 36, digress. pal"!I IV, primum corollarium.

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conoscere C135>, che >. Ma che questo desiderio essa possa veramente soddisfare nei limiti segnati da Dio alla ragione umana, senza bisogno della rivelazione e dei « docum~nta spiritualia que humanam rationem transcendunt », e senza la grazia della visione beatifica, come voleva S. Tommaso, è per Dante certissimo. Il quale non esiterà ad aggiungere che tutta la verità di cui la ragione è capace « per phylosophos tota nobis ( 144) Mi. Quando il Pomponazzi, nel suo pittoresco latino antiumanistico, rimprovera alcuni teologi di « fratrizzare, idest miscere diversa brodia », fa eccezione per Alberto Magno; e credo l'avrebbe fatta anche per Dante. Ma come può essere soddisfatto il naturale desiderio di sapere, se soltanto pochi « compiono la giornata » e in tutti gli uomini questo desiderio è insito per natura ? Su questo problema si erano ferma ti alcuni averroisti ai quali fa allusione Giovanni di Jandun nelle sue Quaestiones sulla Metafisica e in quelle sul De anima , poiché egli accenna più volte a interpretazioni del pensiero averroistico diverse dalla sua. Notevole in particolare, per intendere il pensiero di Dante, è la soluzione dell'averroista di Jandun, sulla quale ho avuto più volte occasione di richiamare l'attenzione. Ma perché se ne vedano i fondamenti, ritengo opportuno ricordare come Aristotele aveva attribuito. agli animali e alle piante la facoltà di riprodursi in individui simili a sé « per poter partecipare dell'eterno e del divino, nella misura che possono, giacché tutte le cose a questo si sforzano e per questo operano secondo la loro natura ». E il suo Commentatore aveva spiegato: Sollicitudo enim divina, cum non potuerit facere ipsum permanere secundum individuum, miserta est in dando ei virtutem, qua po.test permanere in specie. Et hoc non est dubium, scilicet quod melius est in suo esse, quod habeat islam virtutem quam ut non habeat . . . Et hoc fuit ideo, quia omnia desiderant permanentiam sempiternau,1, et movent ergo ipsam, secundum quod innata est natura eorum ad recipiendum; et propter bune finem agunt omnia entia quae agunt naturaliter.

( 146) ( 147) ( 148) ( 149) ( 150) ( 151)

lllon., III, xvi, 9. Cfr. i miei Saggi 1ull'ari1toteli1mo padovano, cit., p. 96. Cfr. Conv., I, 1, 1. I, q. 4. III, q. 10 e 28. De anima, Il, t.c. 34-35, c. 4, 415a 26-415b 7.

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E nel commento al I del De caelo: Et haec est causa esse multorum individuorum unius speciei, scilicet quod propter diminutionem non fuit natura contenta esse unius . Quia igitur entia sunt plura uno individuo propter diminutionem sui esse; quoniam intentio fuit in hoc, ut remanerent in specie aetema, cum impossibile fuerit numero ... .

Il concetto d'Aristotele, sul quale insiste Averroè, è chiaro: siccome negli esseri generabili e corruttibili è impossibile realizzare per mezzo di un solo o pochi individui quella perfezione ideale che la natura intende, la natura stessa ha provveduto a raggiungere il suo scopo mediante una molteplicità simultanea e successiva d'individui, nei quali la perfezione della specie si trova tutta e sempre realizzata. A questo concetto aristotelico e averroistico s'ispirarono appunto quegli averroisti cui accenna Giovanni di Jandun, e in sostanza anch'egli lo accetta. Il secondo dubbio da lui proposto suonava appunto ,così: Si omnes homines naturaliter scire desiderant etc., tunc appetitus esset frustra, ut in maiori parte et ut in pluribus. Hoc est falsum, quia natura nihil facit frustra et deus, in primo celi [t. c. 32]. Consequentia patet: quia, postquam omnes homines naturaliter appetunt scire, tunc appetunt omnes scientias equaliter; quia qua ratione appetunt unam scientiam, eadem ratione aliam, quia omnes sunt equalis perfectionis. Sed nullus homo potest habere omnes scientias, neque etiam plures homines; quare appetitus est frustra in tota specie.

Ecco ora la risposta che davano a questo dubbio alcuni averroisti e la correzione che lo Jandun vi apporta: Ad hoc dicunt aliqui, quod non sequitur. Et cum probatur, quta qua ratione appetit unam etc., conceditur, quia omnes scientie habent rationem boni. Tu dicis: - Ergo frustra -. Ad hoc dicunt, quod, sicut (152) Comm. 4. (153) Comm. 98; i di attribuire a questo l' « error pessimus » di Averroè « quod in omnibus hominibus est unus solus intellectus ». Che questo fanatico frate romagnolo, torbido fautore delle più spinte dottrine teocratiche, trovasse gusto a caricare la dose sul sostenitore della indipendenza dell'Impero dal Papato e a farlo passare per eretico, non mi meraviglia. Mi meraviglia invece che Gustavo Vinay lasci credere che io non abbia visto « che non poteva sfuggire a Dante che l'unità dell'intelletto annullava l'immortalità dell'anima individuale >>. Giacché il Vinay mi fa l'onore di citarmi, mi faccia quello, assai più ambito, di leggermi. Nel luogo della Monarchia che stiamo discutendo, non si tratta dell'unità numerica dell'intelletto possibile ; perché il discorso torni basta pensare all'unità specifica degli individui umani ordinati a realizzare quello che Dante chiama il « genus humanum >>e Averroè la « species humana ». Si sa che per Dante l'intelletto umano s'individualizza nei singoli; si sa che la specie umana non è eterna, ma ha cominciato con Adamo e finirà con la « consumazione del celestiale movimento >>i, secondo la fede . Dov'è allora il motivo av~rroistico cui Dante s'ispira, e che, per quel « principium inquisitionis diè presente alla sua coscienza in tutta la trattazione? rectivum Ma proprio qui, nell'affermazione che « tutta la potenza dell'intelletto possibile », la quale non può essere attuata per mezzo d'un solo individuo, può esserlo invece quaggiù, in questa vita, sulla terra, per mezzo del « genus humanum simul sumptum ». Entro i limiti, si capisce, della naturale capacità umana, come s'è visto di sopra, a proposito del « forte dubitare >> del terzo trat-

»,

(164) Dante AI., Monarchia. Firenze, Sansoni, 1950, p. 24, in nota. ( 165) Cfr. i miei Saggi di filos. dant., cit., pp. 266-270. ( 166) Conv .• II, xiv, 13.

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tato del Convivio. Partecipando

alla vita intellettuale dell'umanità disseminata su tutta la terra abitabile, fra i confini segnati tutt'intorno dall'Oceano, il desiderio che tutti gli uomini per loro natura hanno di sapere, secondo la nota sentenza d'Aristotele sulla soglia della Metafisica, è per intero appagato; e in questo appagamento del loro naturale desiderio, in questa vita, consiste la loro piena e perfetta beatitudine, la quale è piena e perfetta in quanto commisurata al desiderio naturale. Al contrario di quello che pensa Dante nel Convivio e nella Monarchia, S. Tommaso insiste invece sull'affermazione che il desiderio naturale, sì dell'uomo come dell'angelo, non è appagato né dalla speculazione filosofica né dalla conoscenza delle sostanze separate; al suo pieno e perfetto appagamento si richiede la grazia della visione beatifica. In altri termini il desiderio naturale non può essere soddisfatto naturalmente. Per questa via, l'Aquinate, ritenendo d'avere scoperto nella natura un'esigenza del soprannaturale, s'adopra a inserire questo in quella col fare di questo il compimento e l'elevazione di quella. In tal modo la filosofia resta subordinata alla teologia, il fine terreno dell'uomo al fine celeste: « unde, in lege Christi, Reges debent sacerdotibus esse subiecti » . Per Tommaso, il fine ultimo dell'uomo anche in questa vita è la « beatitudo caelestis » . Dante invece distingue nettamente « duo ultima » a c;ui l'uomo è ordinato da Dio : la « beatitudo huius vite, que in operatione proprie virtutis consistit », e la « beatitudo vite eterne, que consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta >>(l'III). E per raggiungere sia l'una che l'altra egli indica i propri e adeguati mezzi: i « phylosophica documenta >l, per raggiungere la beatitudine di questa vita; i « documenta spiritualia )> per conseguire la beatitudine eterna .

( 167) ( 168) ( 169) (170) (171)

De rei. princ., I, c. 14. Cfr. i miei Saggi di fìlos. dant., cit., pp. 278-280. De rei. princ., I, c. 15. Mon., III, xvi, 6. Mon., III, xvi, 7-8. Mon., III, XVI, 8-9.

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A questo punto, vedo che il Vinay, nel suo commento ciw), cita tre luoghi di S. Tommaso che, a suo modo di sentire, darebbero l'impressione di avere ispirato il concetto dantesco. Il primo di questi tre luoghi è preso dalla Summa theol., I, q. 23, a. 1, ove, a proposito della predestinazione dell'uomo alla vita eterna, l'Aquinate distingue il « duplice fine » cui Dio ordina tutte le menti create: quello soprannaturale, « qui excedit proportionem naturae creatae et facultatem » e che perciò non può essere raggiunto con le sole forze della natura, e quello naturale, che, essendo proporzionato alle capacità della natura, « res creata [ si noti!] potest attingere secundum virtutem suae naturae ». È tutto. Il secondo testo è preso dalla stessa opera I, q. 62, a. I. Qui Tommaso si chiede se gli angeli al momento della loro creazione furon beati. E risponde alla questione, distinguendo in essi la natura dai doni gratuiti e soprannaturali. · Q1ùndi una duplice perfezione e beatitudine: una perfezione naturale che l'angelo ebbe al momento della creazione, in virtù della sua natura e delle capacità intellettuali conferitegli da Dio col crearlo, e che « quodam modo beatitudo vel felicitas dicitur »; e una perfezione soprannaturale, la visione beatifica dell'essenza divina, come premio del suo comportamento di fronte al Creatore; questa seconda e più perfetta beatitudine, dice l'Aquinate, « non est aliquid naturae, sed naturae finis » (parole che il Vinay non considera). Della beatitudine naturale, « quam potest assequi virtute suae naturae », dice che anche Aristotele « perfectissimam hom'inis contemplationem qua optimum intelligibile, quod est Deus, contemplari potest in hac vita, dicit esse ultimam hominis felicitatem ». Ma Tommaso ribatte che ultima non è, perché a questa beatitudine naturale s'aggiunge quella che è « naturae finis ». Ad ogni modo, è un canone elementare di ermeneutica che il pensiero d'un autore non va cercato dov'egli parla d'un argomento per tronsennam, ma dove ne parla per esteso e in modo chiaro, e dove espone senz'amhagi il suo modo di vedere su quell'argomento.

(I i2) Pp. 281-282.

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Ora, per capire il pensiero di Tommaso, non mi pare si possano trascurare i testi che abbiamo riferiti sopra dalla somma Contra gentiles. Ma se si dicesse che nella Szunmtl theologica, scritta un sei anni dopo, l'Aquinate precisa meglio il suo concetto, II"e di quest'opera, q. 3, a. 8, che non mi resta che rinviare alla non vedo citata a questo punto dal Vinay:

r

Dicendum quod ultima et perfecta heatitudo non potest esse n1s1 in visione divinae essentiae. Ad cuius evidentiam duo consideranda sunt. Primo qùidem, quod homo non est perfecte heatus quandiu restat sihi aliquid desiderandum et quaerendum. Secundum est, quod uniuscuiusque potentiae perfectio attenditur secundum rationem sui ohiecti. Ohiectum autem intellectus est quod quid est, idest essentia rei, ut dicitur in 3. de Anima (l'l3). Unde intantum procedit perfectio intellectU&, • inquantum cognoscit essentiam alicuius rei. Si ergo intellectus aliquis cognoscit essentiam alicuius eff ectus per quam non possit cognosci essentiam causae, ut scilicet sciatur de causa quid est, non dicitur intellectus attingere ad causam simpliciter, quamvis per effectum cognoscere possit de causa an sit. Et ideo remanet naturaliter homini desiderium, cum cognoscit effectum, et scit eum hahere causam, ut etiam sciat de causa quid est. Et illud desiderium est admirationis et causat inquisitionem, ut dicitur in principio Metaphysicae • • Si igitur intellectus humanus, cognoscens essentiam alicuius effectus creati, non cognoscat de Deo nisi an ed, nondum perfectio eius attingit simpliciter ad causam primam, sed remanet ei adhuc naturale desiderium inquirendi causam; unde nondum est perfecte heatus. Ad perfectam igitur beatitudinem requiritur, quod intellectus pertingat ad ipsam essentiam primae causae (l'lli).

« Che sugo c'è a ritentare di esporre la dottrina sulla felicità già esposta da Aristotele » ? Ebbene, quello di S. Tommaso è precisamente un nuovo tentativo di esporre il pensiero di Aristotele, allo scopo di dimostrare che il filosofo greco aveva mancato al suo intento, che era quello di additare all'uomo il

(173) ( 174) (175) ( 176)

T.c. 26, c. 6, 430b 27-28. I, c. 2, 982b 11-20; lez. 3• del l'ommento tomistil'o. Vedasi Contra gent., III, c. 50, dt. sopra. Mon., I, 1, 4.

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segno cui il suo desiderio naturale di felicità e di perfezione è rivolto. Lo Stagirita, nell'additare questo segno, aveva stabilito che esso dovesse essere il fine ultimo cui l'uomo aspira « simpliciter utique perf ectum, quod secundum seipsum eligibile semper et nunquam propter ali ud » fi I • », µocx.ocpLouc::; « beatos autem ut h om1nes o~• ocv,_.,.pw1touc::;. Tommaso fa la corte ad Aristotele per condurlo a farsi frate, tentando di fargli capire che la beatitudine che ci può dare la filosofia in questa vita è cosa troppo imperfetta, perché possa soddisfare il desiderio naturale di sapere, il quale, senza la visione beatifica, resta inappagato. E se Tommaso parla di un fine ter-

( 177) ( 178) ( 179) ( 180) ( 181)

Eth. Eth. Eth. UZ. I, c.

nicom., I, c. 5, 1097a l5-1097b 21; lez. 9a del comm. tomistico. nicom., I, c. 6, 1098a 16-20; lcz. }0a del comm. tomistico. nicom., I, fez. 16a. }3B. 11, IIOJa 20: lez. ]6a del romm. tomistico.

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reno e di un fine celeste dell'uomo, lo fa per subordinare al secondo :

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il prhno

Non est ergo ultimus finii! multitudinis congregatae vivere secundum virtutem; sed per virtuosam vi tam pervenire ad fruitionem divinam.

I « duo ultima» di Dante sono invece reciprocamente indipendenti, come la natura e la grazia, l'ordine naturale e l'ordine soprannaturale, dei quali il secondo non subordina a sé il primo, ma lo trascende. La « reductio ad unum » non avviene per subordinazione del fine della vita terrena al fine della vita celeste, dell'autorità temporale all'autorità spirituale. L'Impero ha in sé la propria spiritualità, in quanto ha per fine di condurre l'umanità alla piena attuazione della potenza della ragione umana sulla terra, e per sua norma i « documenta phylosophica ». Come Dante dimostra nel cap. XII del terzo trattato della Monarchia, sviluppando con grande sottigliezza di consumato loico, la « reductio ad unum » dell'ordine naturale e di quello soprannaturale, dell'autorità imperiale e di quella papale, non avviene per preminenza di un termine sull'altro, ché anzi sono due parallele che s'incontrano solo all'infinito, cioè in Dio, che immediatamente regge l'ordine della natura e quello della grazia e immediatamente conferisce autorità sì al Papato come all'Impero. Non c'è quindi bisogno di derivare l'autorità di quest'ultimo « ah aliquo Dei ministro vel vicario ». Tale è la conclusione finale della Monarchia; ed essa é dialetticamente dedotta dalla netta distinzione e indipendenza dei i Il primo frutto delle sue meditazioni su questo argomento egli ci rende noto, non senza concitazione dell'animo, nel quarto del Convivio, scritto, per evidenti indizi, nel 1306, quando, se(192) Mon., II, 1, 2; cfr. Conv., IV, 1v, 11-12. (193) Conv., IV, IV, 12.

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paratosi da un pezzo dalla « compagnia 1nalvagia e scempia », Virgilio venne a visitarlo nell'« amica solitudo », di cui si parla nel De vulgari eloquentia , raggiunto ben tosto da Ovidio, da Stazio, da Lucano, da Livio, da Plinio, da Frontino, da Orazio e da molti altri! L'incontro con Virgilio, poeta, storico e filosofo dell'Impero, è certamente un fatto di capitale importanza nello sviluppo del pensiero dantesco. Se la Monarchia universale è necessaria aUa pace del mondo e, in quanto tale, voluta dal provveder divino, che non vien mai meno nelle cose necessarie (lllli), essa non può esser mancata nel mondo, e si tratta soltanto di ritrovarla nella storia dell'umanità e di riconoscerla. Ora, secondo la storiografia teologica prevalsa con Innocenzo IV e Tolomeo da Lucca, quattro grandi monarchie s'eran successe nel mondo: prima l'assiro-babilonese, poi la medio-persiana, terza quella d'Alessandro Magno, quarta quella romana. Ma, nato Cristo, al quale « data est omnis potestas in caelo et in terra » , comincia la quinta ed ultima, la monarchia cristiana, della quale è capo Cristo sacerdote é re. Da quel momento, tutti i regnanti d'ogni paese che non si fossero sottomessi a Cristo e al suo vicario in terra diventavano ipso facto usurpatori e tiranni. Ma Costantino, percosso da lebbra e miracolosamente risanato, riconobbe in papa Silvestro il vicario di Cristo, e ai suoi piedi depose la corona imperiale, accettando di regnare in Oriente come suddito della Chiesa, sia per quel che riguarda il dominio spirituale sia per quel che concerne il dominio temporale. La storiografia di Dante, invece, è laica; non antireligiosa o anticristiana; ma sicuramente antiecclesiastica: laica, insomma, nel senso che può darsi a questa parola, come abbiamo visto, nei riguardi di Dante e del suo tempo. Nel cap. VIII del secondo trattato della Monarchia, nella rassegna ch'egli fa dei monarchi che si contesero in gara la signoria del mondo, Dante, sulla scorta d'Orosio, nomina per primo Nino re (194) II, VI, 7. ( 195) Mon., I, x. I; 11, \'I, 4; Conv., IV, xxiv. 10. (196) Matth., XX\'111, 18

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.

Ove merita d'esser posto in rilievo, che la citazione di Livio è addotta a conferma della testimonianza di Virgilio. Ma il Mantovano ha visto assai di più e meglio dello storico patavino. Ché quello, e non questo, ha visto la predestinazione divina d'Enea « ne l'empireo ciel », ad esser padre « de l'alma Roma e di suo Impero » .

( 197) IV, Xl\', 15. ( 198) Mon., II. 111. 6. (199) In/., Il, 12-27: rfr. Com,., I\', 1v, Il;

v, 3-8.

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E ciò perché Virgilio, oltre che storico verace, è per Dante il « mar di tutto 'l senno » (Dl), filosofo che scruta « quanto ragion qui vede » (.\III); e perciò non si contenta di narrare gli eventi umani, ma ne ricerca le cagioni nei disegni del « proveder divino ». La luce improvvisa che emanava dalle pagine dell'Eneide colpì la mente di Dante intento a cercare una testimonianza alla recente scoperta del « fondamento radicale de la imperiale maiestade ». Ne fu abbagliato. Non solo storia vera, e non favola, è il racconto della venuta d'Enea in Italia, « fato profugus », ma tutto quello che nel poema virgiliano si narra dei fatti naturali e soprannaturali che accompagnano le gesta del duce troiano è preso da Dante alla lettera, e dalle attestazioni virgiliane muove come da premesse certe pei ragionamenti ch'egli v'imbastisce. In questo egli non ha fatto altro che imitare il metodo di molti teologi medievali e di non pochi interpreti delle Sacre Scritture, trasferendolo al campo profano dell'interpretazione virgiliana. Il che è particolarmente vero nel caso del Convivio, IV, IV, 11, ove l'universalità e l'eternità dell'Impero romano è confermata con le parole che nell'Eneide, I, 278-79, Giove rivolge a Venere (ma Dante al posto di Giove pone senz'altro Dio): His ego nec metas rerum nec tempora lmperium sine fine dedi.

pono :

Per renderci meglio conto del differente modo, anzi dello abisso, che corre fra l'interpretazione che Dante dà dei versi virgiliani e quella di un teologo, mi piace recare qui il curioso e vivace commento che degli stessi versi del poeta mantovano fa S. Agostino nel Sermone 105, c. 7, n. 10, secondo l'edizione del Migne, P. L., voi. 38, col. 622-23. Dice dunque Agostino ai suoi ascoltatori ai quali aveva ricordato la promessa di Giove: Non piane ita respondet veritas. Regnum hoc quod sine fine dedisti, - o qui nihil dedisti ! - in terra est, an in caelo? U tique in terra. Et si esset in caelo, « Caelum et terra transient » ( Luca, XXI, 33). Transient quae fecit ipse Deus; quanto citius quod condidit Romulus? ( 200) lnf., VIII, 7. (201) Purg., XVIII, 46.

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Ma dopo questo inizio enfatico, il santo vescovo d'lppona prosegue: Vorremmo per questo dar briga a Virgilio e fargli colpa d'aver detto tale enormità? Forse egli stesso, tirandoci in disparte, ci direbbe: « Certe cose le so anch'io. Ma che vuoi che facessi se, messo in condizione di vender bubbole ai Romani, non li adulavo promettendo loro cose che non stanno né in cielo né in terra? Però devi riconoscere che fui abbastanza abile quella volta; perché non fui io a dire: "lmperium sine fine dedi ", ma lo lasciai dire al loro Giove. Quella bubbola non la dissi io, in nome mio; ma la feci dire a Giove, facendogli fare la parte del bugiardo, giacché essendo un falso dio, egli era ugualmente 'un profeta bugiardo. Volete sapere qual era il mio pensiero in proposito? C'è un altro luogo delle mie opere, nel quale non ho fatto parlare la statua di Giove, ma ho parlato in nome mio, dicendo: "Non res romanae, perituraque regna" ( Geors., Il, 498). Avete capito? Regni perituri, ho detto. Regni peri turi : non ho taciuta la verità ».

E così, conclude Agostino, quando Virgilio ha voluto esser sincero, ha detto che l'Impero di Roma era destinato a perire; quando ha voluto adulare i Romani, ha venduto loro vuote parole, promettendo che esso sarebbe durato eterno! L'amena trovata non dispiacque al Boccaccio ( Commento alla D. C., ed. Guerri, III, p. 145). Non so se Dante avesse mai letto questo Serm-0ne agostiniano,. come sicuramente doveva essere informato delle cose che contro l'Impero romano si trovavano scritte nel De civitate Dei; ma certo., se mai gli fosse capitato tra mano, non dirò, come un mio caro ma poco riverente amico, che l'autore del Convivio l'avr_ebbe buttato dalla finestra, ma senza dubbio che l'avrebbe messo in disparte come opera che non faceva al caso suo, pensando che, giunto al cospetto di Catone, Agostino stesso avrebbe di se medesmo riso, come S. Gregorio quando ebbe saputo come stavano le cose intorno all'ordinamento degli spiriti celesti. Abbagliato dalla recente scoperta, qual fosse il « fondamento radicale de la imperiale maiestade », e dalla grande luce che gli veniva dall'Eneide, Virgilio divenne da quel momento la sua guida spirituale per tutto il tempo che Dante dedicò, interrotto il Convivio, alla composizione della Monarchia. E giustamente è stato

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detto che il Virgilio della Monarchia non attende alcuna Beatrice, perché infatti l'Impero riceve la pienezza della sua autorità da Dio ed ha per sua norma i « phylosophica documenta >>. Dicevo che la storiografia dantesca è laica, perché, disceso in terra, Cristo, ben lungi dall'infirmare o rendere irrita l'autorità d'Augusto sotto cui nacque, e quella dello ~tesso Tiberio sotto cui morì per il riscatto del genere umano, la riconobbe, si sottomise ad essa come ad autorità legittima, in una parola la ratificò. E Dante giunge fino a sostenere la tesi teologica1nente paradossale che, « si Romanum lmperium de iure non fuit, Christus nascendo presumpsit (sic, ma leggi persuasit) iniustum » i;a proposito delle quali, frate Guido V ernani ha pienamente ragione, naturalmente dal suo punto di vista, di 1nostrarsi scandolezzato e di ritenere siffatto modo di argomentare da parte di Dante un « vile et derisibile argumentum », anzi delirio, onde il francescano fra Guglielmo da Cremona bollerà l'autore della Monarchia col titolo di « nefarius homo »! « lnfìrmator lmperii » è invece, per Dante , proprio quel Costantino tanto esaltato dagli storiografi papali e del quale l'autore della Monarchi.a osa scrivere: « O ... si vel nunquam ... natus fuisset, vel nunquam sua pia intentio ipsum fefellisset ». « Si nunquam ... natus fuisset »: è frase grave, che riecheggia le parole con le quali Cristo accenna a Giuda (:116). subito attenuata dalla « pia intentio » che, per quanto pia, fu però sempre, se non colpa, un imperdonabile errore, a cancellare il quale sarà necessario l'avvento di uno speciale « messo di Dio ». L'Impero romano non è una monarchia come le altre che. secondo gli storiografi papalini, Io precedettero; per Dante, è la Monarchia, no1ne proprio, singolare, senza plurale, cosa che non tutti i commentatori mostrano d'aver compreso. Nome comune è ( 202) (203) ( 20-i) (205)

Mon., II. XI, 4-10. ~fon .. Il, xn. 1-6. Mon .• II, Xli, 8. Matth., XXYI, 24.

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la parola « monarchia » nella Politioa d'Aristotele e nei trattatisti che distinguono le varie forme di governo; ma non questa è l'accezione dantesca del termine, quando viene usata per indicare lo « unicus principatus et super omnes in tempore vel in hiis et super hiis que tempore mensurantur >~: per Dante la parola « Monarchia » significa soltanto quest'unico principato preordinato da Dio per il benessere del mondo. Errore gravissimo fu la 1Donazione di Costantino, per aver lacerata l'integrità dell'Impero, contro il volere divino; ma ancor più grave errore, anzi colpa, fu l'usurpazione di un dominio terreno da parte della gente di Chiesa che « omnino indisposita erat ad temporalia recipienda per preceptum prohibitivum expressum » . Dico errore, per quel che riguarda Costantino, mosso da pia intenzione. Ma per quel che concerne la Chiesa, questa parola non rende intero il pensiero di Dante, poiché l'accettazione di un dominio temporale da parte della Chiesa implica la violazione del « preceptum prohibitivum expressum » di Cristo. Questo concetto, sebbene accennato anche nella famosa glossa d'Accursio ad Auth. tit. VI, coli. I, « Quomodo oport., ad v. generi », deriva evidentemente dai fautori della riforma religiosa, dai catari ai fraticelli, come ho detto altrove .Nella Monarchia Dante lo fa suo, ma con circospezione. E come scusa in qualche modo Costantino per la sua pia intenzione, così afferma che lo stesso in1peratore, fattosi cristiano, « poterat . . . in patrocinium Ecclesie patrimonium et alia depùtare, inmoto semper superiori dominio »; e alla sua volta « poterat et vicarius .Oei recipere non tanquam possessor, sed tanquam fructuum pro Ecclesia pro Christi pauperibus dispensa tor » . Al parlare guardingo della Monarchia terranno dietro, di lì a poco, le terribili invettive della Commedia. Queste invettive proromperanno dall'animo del poeta, quando si sarà convinto che vera colpa, e non soltanto errore, fu quello dei pastori della Chiesa, di avere accettato la Donazione di Costantino, non come « dote )), qual (206) Mon., III, x, 14. (207) Nel mondo di Dante, cit., pp. 130-136. (208) Mon., III, x, 16-17.

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doveva essere nell'intenzione del pio donatore, pei bisogni del clero e dei poveri, ma come vero e proprio dominio sovrano, e di aver proclamata la soggezione dell'Impero in temporaUbus alla Chiesa, ossia d'aver « giunta la spada col pasturale». Ma è interessante, per lo sviluppo del pensiero e della stessa arte di Dante, constatare che il concetto dell'inabilità della Chiesa a un vero dominio temporale s'affaccia alla sua mente proprio in questo trattato terzo della Monarchia.

10 Abbiamo chiarito in che senso si può e si deve dire che il Virgilio della Monarchia non attende alcuna Beatrice, e in che senso va inteso il laicismo di Dante. La Monarchia persegue un intento « laico >t cioè filosofico: la « beatitudo huius vite » che può esser raggiunta per mezzo dei « phylosophica documenta » sotto la guida dell'Impero disposto direttamente da Dio a questo scopo. E di siffatto Impero Virgilio è il poeta per eccellenza, lo storico e il filosofo. Se Aristotele massimamente aveva limato e a perfezione ridotto la filosofia morale (3lll), sì da esser « maestro e duca de la 210 ragione umana in quanto intende a la sua finale operazione >>. < >, Virgilio aveva visto, meglio di Aristotele, che senza la forza dello Impero messa al servizio della filosofia, l'autorità del filosofo « è quasi debile, non per sé, ma per la disordinanza de la gente; sì che l'una con l'altra congiunta utilissime e pienissime sono d'ogni vigore » . Se non che realizzare la reciproca perfetta indipendenza e autarchia dell'Impero e della Chiesa, fu nel medio evo altrettanto e forse più difficile che impedire gli urti tra la filosofia e la rivelazione. E se ad attutire questi ultimi molto contribuì qu_el modus vivendi che fu la cosiddetta « dottrina della doppia verità », accettata dagl'inquisitori e fraintesa dagli storici moderni, la storia del più volte secolare conflitto fra Impero e Papato dimostra quanto fosse difficile tracciare una precisa linea di den1arcazione ( 209) Conv., IV, ( 210) Conv., IV, (2ll) Conv., IV,

VI, VI, VI,

15. 8. 17.

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fra le due giurisdizioni che si esercitavano sugli stessi sudditi. La stessa nonna giuridico-politica: - Date a Cesare quel che è di Cesare -, che per uno strano fraintendimento s'era preteso di ricavare dal noto episodio evangelico, - non bastò a determinare con esattezza « quel che è di Cesare » e « quel che è di Dio». Di « Dio » certo è tutto quel che è in cielo e in terra. Ma nelle controversie che ne nacquero, per « Dio » s'intendeva il « suo vicario » in questo basso mondo; che è un'altra cosa, come osserva Dante , « nam aliud est "Deus '' ... et aliud "vicarius Dei" ... »: Nam scimus quod successor Petri non equivalet divine auctoritati saltem in operatione nature : non enim posset facere terram ascendere sursum, nec ignem descendere deorsum, per officium sibi commissum. Nee etiam possent omnia sibi committi a Deo, quoniam potestatem creandi et similiter baptizandi nullo modo Deus committere posset, ut evidenter probatur, licet Magister contrarium dixerit in quarto ».

E qui non posso fare a meno di esprimere ancora una volta la mia meraviglia nel leggere il commento del Vinay a questo luogo dantesco. Dopo aver detto che e>. E ammonisce: « Et ideo confutetur eorum stultitia, qui, arte scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes, ad summa summe canenda prorumpunt; et a tanta presumptuositate desistant; et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari ». (246) De vuls, el., Il, IV, 2. ( 247) De vuls, el., II, IV, 1. ( 248) De vuls, el., II, 1v, 5-11.

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Eppure, quando Dante scriveva queste cose, alla possibilità d'un canto in volgare più complesso della « canzone » egli ancora non pensava; anzi par proprio che per esso nel De vulgari eloquentia non si trovi posto. Ad essa pensò invece quand'ebhe scoperto nell'Eneide di Virgilio, non solo il più perfetto modello dello stile tragico della « canzone », ma nel poeta romano ebbe intravisto il filosofo e lo storico verace dell'Impero romano, e alle pagine del.la Monarchia andava confidando la co.mmozione del suo animo per la recente scoperta. Dopo la lettura dell'Eneide e dei poemi di Lucano e di Stazio, egli, che ormai si sentiva davvero ~e alla « phantasia » che sono due sensi interni. Per se stessa la memoria dunque è un « habitus » del senso comune e dell'immaginativa di cui conserva le immagini sensibili. Nella conoscenza intellettuale la memoria entra per acculens, solo in quanto l'immaginativa o fantasia fornisce ali'« intelletto possibile >1 le immagini sensibili conservate dalla memoria, e delle quali l'intelletto umano ha bisogno per intendere. Questo, si capisce, finché l'intelletto umano resta entro i termini della sua naturale unione al corpo. Nello stato di separazione dell'intelletto dal corpo, sia per il dissolversi di questo, sia per soprannaturale rapimento, la memoria, che è facoltà della parte sensitiva dell'anima, non è più di alcun giovamento all'intelletto, poiché non può più andargli dietro, né per fornirgli quelle immagini di cui

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esso non ha bisogno, né tanto meno per ricordarne gli atti ai quali essa non ha partecipato . L'aiuto d'Apollo, più di quello delle Muse che son figlie di Mnemosine, cioè proprio della memoria, è richiesto in questa terza cantica appunto perché il poeta è disceso dal soprannaturale rapimento al quale era stato elevato per singolare grazia di Dio, come Paolo. Più che il « forte abbassamento poetico » che si pretende, sembra invece a me di notare in questa invocazione un alzamento di tono e per l'abile intreccio di reminiscenze classiche e per l'elaborazione stilistica del verso e per la suggestione di frasi inconsuete proprie soltanto della tragica « superbia carminum » e per il confessato animoso proposito di rendersi degno di cinger la « fronda peneia » « sul fonte del suo battesimo », nel suo « bel San Giovanni », se la « delfica deità » vorrà invasarlo di quel poetico valore dimostrato quando trasse Marsia dalla « vagina delle membra sue » In questo alzamento del tono poetico, s'avverte tuttavia la interna trepidazione che all'ardimentoso proposito possano mancare le forze e che le sue spalle abbiano a cedere sotto il peso della « materia » presa a cantare. Ma che importa? È sempre bello avere osato; e s'egli non dovesse raggiungere il porto, altri, spronati dal suo nobile ardire, avrebbero ritentato con miglior fortuna la prova : Poca favilla gran fiamma seconda : forse di retro a me con miglior voci si pregherà perché Cirra risponda.

Ma la certezza che il favore d'Apollo non gli sarebbe mancato gli veniva dal lampo degli occhi di Beatrice. La stessa fan( 249) Ma su questo punto v. la mia nota nella nuova rivista L'A.lishieri, I, I ( 1960), pp. 5-13. ( 250) L'iD11Daginedella pelle come vagina delle membra sembra derivata da Plinio, Nat. hiat., XI, 198: e omnia ... principalia viscera membranis propriis, ac Telut vaginis inclusit providens natura 11 ; VII, 174: e animae velut vagina corpus •· ATerroè, C0Ui1et, II, c. 8, verso la fine, non adopra la parola, ma il concetto è quello: • cutis ridetur esee propter defendere et abscondere ; et stat fori,, sicut sunt cooperturae membris intrimecie •·

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ciulla cantata con soavi rime nel fior degli anni, salita d'improvviso di carne a spirito e fatta più bella, era ora sua guida nel1'« alto volo » attraverso le sfere celesti. Al mirar quei fulgidi occhi fissi « nell'etterne rote», egli prova quel senso del « trasumanare» che provò Glauco « nel gustar dell'erba che 'l fé consorto in mar de li altri dèi », anzi quello stesso senso che aveva provato Paolo nel ratto al cielo: S'i' era sol di me quel che creasti novellamente, amor che 'I ciel governi, tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.

Così « trasumanato », seguendo la direzione degli occhi della sua donna, figge anch'egli « li occhi al sole oltre nostr'uso », e lo vede « sfavillar dintorno, com ferro che hogliente esce del fuoco ». All'abbagliante splendore solare s'aggiunge l'armonia delle sfere celesti che lo percuote di nuova meraviglia. Ma anche più meraviglioso è il ragionamento filosofico col quale la donna beata gli spiega com'egli, compiuta la liturgica purificazione nel Leté e ritemprato dall'acqua sacramentale dell'Eunoè, non si trovi più sulla terra, ma sia trasportato da naturale desiderio verso il cielo. iDa questa certezza è ispirato l'ammonimento a quei che « in piccioletta barca» vorrebbero tener dietro al suo « legno che cantando varca», a non mettersi in pelago, per non aversi a trovare smarriti in alto mare, quando avran perso di vista la sua nave, che voga veloce puntando verso ignoti lidi in un oceano sconosciuto: L'acqua ch'io prendo già mai non si corse: Minerva spira e conducemi Apollo, e nove Muse mi dimostran l'Orse.

La certezza che l' « alto volo », cui la donna beata gli ha vestito le penne, è una novità assoluta, dopo il ratto di Paolo, nel regno della poesia, è ormai talmente radicata nel suo animo, che egli non esita a comparare la sua navigazione celeste a quella dei « gloriosi che passaro a Colco ». e a ritenerla ancora più ardita; sì che solo quei pochi che han drizzato « il collo per tempo

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al pan de li angeli>)'., cioè allo studio della verità eterna, posson metter lor naviglio « per l'alto sale» e seguirlo avendo cura di non deviare dalla sua rotta, ma servando suo solco « dinanzi a l'acqua che ritorna equale ». Ed anch'essi saran presi da ben più grande meraviglia di quella che colse i compagni di Giasone ( veramente in Ovidio sono i Colchi a meravigliarsi : « mirantur Colchi »), quando videro il loro capo sfidare i buoi spiranti fiamme, aggiogarli e con essi arare la terra mai prima scissa da vomero. Dante ha un alto concetto del « grande » Giasone, che ) della Chiesa rinnova a Dante l'esortazione che già questi aveva udito rivolgersi da Beatrice e da Cacciaguida: E tu, figliuol, che per lo mortai pondo ancor giù tornerai, apri la bocca, e non asconder quel ch'io non ascondo.

Saliti all'Empireo, « oltre la sfera che più larga gira », il fulgore della donna beata appare ormai al suo fedele, che l'ha seguìta fin lassù, superiore ad ogni umana aspettativa, ed egli,

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mantenendo la promessa, può veramente mai fu detto di donna mortale:

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dire di lei quello che

La bellezza eh 'io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo ; ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m'è il seguire al mio cantar preciso ; ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l'ultimo suo ciascuno artista.

Ma ella non l'abbandona ancora. Dopo la vista della mirabile riviera di luce, gli mostra « il convento de le bianche stole » e gli scanni dei beati « sì ripieni che poca gente più ci si disira », e in particolare quello ancora vuoto sul quale è posta la corona imperiale, riservato ali' « alma che fia -giù agosta de l'alto Arrigo». E prendendo risolutamente parte, ancora una volta, alle speranze del suo poeta, predice in proprio nome la dannazione eterna a chi aveva maggior responsabilità del fallimento del « cursus Jlenrici Cesaris ad Y taliam » : el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto, e farà quel d'Alagna intrar più giuso.

Proprio queste son l'ultime parole che il poeta ascolta dalla celeste ispiratrice. Poi, silenziosa, va a riprendere il suo posto nei « terzi sedi » della candida rosa, a fianco dell'antica Rachele; e

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di lassù risponde ancora col sorriso, per assentire all'umile preghiera di lui: La tua magnificenza in me custodi, sì che l'anima mia che fatt'hai sana piacente a te dal corpo si disnodi.

E infine la rivede ancora lassù nel coro dei beati ascoltar l'orazione del « santo sene » Bernardo alla Vergine. Quest'orazione, che a taluno è sembrata povera d'immagini e ridondante, specialmente nel principio, di frasi che hanno quasi l'aria di teologici indovinelli frateschi, pare invece a me che, pronunziata nel coro dei beati che ascoltano in devoto raccoglimento, con le mani giunte, come in un solenne rito pasquale, esprima nella prima parte e assommi quello che era stato il frutto del millenario sforzo del pensiero speculativo, ben vivo nella coscienza religiosa del medio evo, intorno alla Madre di Dio; e nella seconda parte, i più ansiosi e delicati sentimenti che la anima cristiana nel corso di tredici secoli aveva intrecciato, quasi serto di fiori, e deposto ai pie' della Vergine: Or questi, che da l'infima lacuna de l'universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi. levarsi più alto verso l'ultima salute ... perché tu ogni nube li disleghi di sua mortalità co' prieghi tuoi, sì che 'I sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani dopo tanto veder, li affetti suoi. Vinca tua guardia i movimenti umani : vedi Beatrice con quanti beati per li miei preghi ti chiudon le mani !

Tutto lo sforzo del poeta trasumanato è rivolto da questo momento a penetrare l'arcano della Trinità divina. L'ardita im-

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magine di « tre giri, di tre colori e d'una contenenza », che nes811Dafantasia riuscirebbe a ridurre a forma spazialmente geometrica, neppure col soccorso dell'altra immagine, (( come iri da iri », potrebbe essergli di giovamento a intendere un concetto che trascende qualsiasi rappresentazione spaziale. Ancor più arduo a intendere è per lui come l'immagine umana possa apparirgli dipinta entro la seconda delle tre circonferenze divine che è riflesso della prima. Ma quello che neppur Beatrice sarebbe stata in grado di svelargli, gli è mostrato da un subito lampo che percuote la sua mente oltre ogni potere di questa, e termina ogni suo desiderio. È l'!Vc:1-1>. Ma parrebbe che, nel presente caso, l' Aquinate non l'intendesse in modo così rigoroso. Poièhé,. dicendo « i'n qui.bus subditur ei saecularis potestas », sembra ~ottintendere che ci sono cose nelle quali la potestà secolare non è soggetta alla potestà spirituale. Anche nel secondo luogo citato dal Grabmann e che trovasi alla fine del commento al secondo delle Sentenze, Tommaso non è molto più chiaro; poiché, se da un lato egli afferma che « potestas spiritualis et saecularis utraque deducitur a potestate divina », non dice poi in che modo, se immediatamente o no, il potere secolare derivi da Dio; né più esplicito è quand'egli ribadisce: « et ideo intantum saecularis potestas est sub spirituali, inquantum est ei a Deo supposita, scilicet in bis quae ad salutem animae per• tinent », perché più oltre aggiunge: « Nisi forte potestati spirituali etiam saecularis potestas coniungatur, sicut in papa, qui Ùtriusque potestatis apicem tenet, scilicet spiritualis et saecularis, hoc illo disponente, qui est sacerdos et rex ... >l E bene ha fatto questa

( 23) Citalo da M. Grabmann, Studien iiber den Einflu.n, cit., p. 14. « Potestas saecularis subditur spirituali sil'ut corpus animae, ut Gregorius Nnzianzenm1 dicit, ornt. 17 ». Per il qual rinvio, cfr. Migne, P.G., voi. 35, Orut. X\'11, 8, col. 975: « lmperium ... nos quoque gerimus; adde etiam praestantius ac perfectius; nisi vero aequum sit spiritum carni, et caeleltia terreni11 cedere ». Ma nell'ediz. leonina questo rinvio manca. Una nota marginale rimanda invece alle Decretali di Gregorio IX, lib. I, tit. 33, 6: « Solitae benignitatis ... ». ( 24) De spirit. creaturil, ed. crit. di L. W. Keeler, Roma, Univ. Gregoriana, 1938, a. 3: S. theol., I. q. 76. a. 4, ad I"'; In Il de Anima, fez. }a. Cfr. il mio studio Anima e corpo nel pensiero di S. Tomma$o, nel voi. rit. di Studi di filo5. medier· .. pp. 176-185. (25) L. c.

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volta il Maccarrone a non insistere nel tentativo di « ricondurre ad un senso non ierocratico » le parole di lui , seguendo in ciò il Grahmann. Lascio andare quello che l'amico Maccarrone dice di Pier di Gian Olivo. Anch'io ritengo che questo francescano sia un originale e talora ardito pensatore, discepolo sì, ma non troppo fedele, su molti punti, di S. Bonaventura. Nella quaestio 18 del suo primo Quodlibet , io non riesco a vedere se non la critica acuL8 della tesi teocratica « papam esse temporalem dominum omnium rerum temporalium huius mundi, ita quod quicquid dat vel accipit aut alienat, est vere datum et alienatum ». Se il Maccarrone si fosse fermato a considerare con attenzione le sette ragioni che il francescano oppone alla tesi teocratica, avrebbe visto che il motivo fondamentale sviluppato dall'Olivo in altri scritti pei quali fu accusato d'eresia, quello cioè dell'« altissima paupertas », che compete agli Apostoli e ai loro successori per espresso suggerimento di Cristo, è già presente e forma il nerbo di quelle sette argomentazioni, sì che in esse si ritrova il maestro degli « spirituali ». Il quale sa bene che il papa ha una « potestas correctoria delinquentium » e una « spiritualis iurisdictio in omnes Christi oves sive- fideles »; ma « de hac sola loquitur » l'extravagante «·De maioritate et ohedientia », al cap. « Solitae henignitatis >». E a proposito dell'argomento dei « duo gladii » e della risposta di Cristo, riferisce con visibile compiacimento due interpretazioni: Secundum quosdam, Christus dixit illud ironice, quasi deridens eorum insipientiam et simplicitatem; quia qua~do Christus dixerat quod, qui non habet sacculum, scilicet pecunie, ad gladium emendum, vendat tunicam et emat gladium, ipsi camaliter intellexerunt quod ad litteram suaderet eis arripere arma ad se defendendum .•• Secundum alios, dixit hoc: [" Satis est "], ad insinuandum quod non intendebat

( 26) « Pote&ta&directa 11 e « pote!tw indirecta », cit., p. 39. Cfr. Grabmann, cit., pp. 14-15. (27) Ediz. di Vem•zia. 1509, f. 8 va e f. 9 ra, ad 3 m. ( 28) V. sopra, n. 23.

op.

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nec volebat eos habere multiplicia arma. Unde dixit " satis est ", scilicet ad scindendum panes et carnea in mensa •.• » .

Dopo di che egli aggiunge con risolutezza: Tertio dicendum quod, licet Christus per hoc mystice intellexerit duos gladios seu duo iudicia duplicis potestatis future in. eccle,ia ,ua. non propter hoc oportet quod iHam que est terrena voluerit in potestate apostolica contineri, nui ,olum sicut sue potestati spirituali subiectam et subiiciendam qu.an.tum ,pirituali ,aluti an.imarum et ,piri•

tuali subemation.i totius eccle,ie expediret.

Il che non negavano gli stessi « fautores imperii »; i quali,. sia che ritenessero favola la Donazione di Costantino o soltanto giuridicamente invalida, non si stancavano di protestare la « reverentia » degl'imperatori verso i prelati e il vicario di Cristo nel governo della Chiesa per la salvezza delle anime commesse alla loro cura. Ma i fautori di quella che il Maccarrone chiama teoria della « potestas indirecta >i non erano così moderati come l'Olivo. Soprattutto Remigio de' Girolami, confratello di Tolomeo da Lucca nel chiostro domenicano di S. Maria Novella a Firenze. Su- di lui val la pena di soffermarci alquanto, per il conto in cui lo tiene il Maccarrone e per l'influenza che questi gli attribuisce sul pensiero dell'autore della Monarchia. Dopo aver letto l'ampio riassunto che il Grabmann ci aveva dato, fin dal 1934, del Contra f alsos Ecclesiae pro/essores, avevo ritenuto non fosse il caso di affrontare lo studio diretto del manoscritto fiorentino. Ma ora che l'amico Maccarrone m'ha offerto di leggere la fedele trascrizione dell'opera del Girolami, del che gli sono veramente riconoscente per Ja fatica e la spesa che m'ha risparmiato, mi son decisamente convinto che la dottrina sostenuta dal domenicano fiorentino è meno lontana di quel che il Maccarrone non pensi dalla teoria della « potestas directa » sostenuta dai suoi confratelli Tolomeo da Lucca e Guido Vernani da Rimini, nonché dagli

( 29) Fol. 9 rb, ad 5 m.

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eremitani Egidio R~mano e Giacomo da Viterbo e altamente proclamata in più occasioni da Bonifacio VIII. È evidente che quando Innocenzo III dichiara di non volersi ingerire nelle faccende temporali se non « ratione peccati », siccome tutte le azioni umane .possono essere peccaminose, af • ferma un diritto di controllare direttamente e giudicare tutta la vita civile. Non diversamente la pensa il teologo frate Remigio de' Girolami, il quale conosce bene e cita le due decretali Per verrerabilem e Novit iUe · d'Innocenzo III. Il teologo domenicano enuncia, sì, la tesi che la « iurisdictio secularis distincta est ah ecclesiastica principaliter et directe », in quanto lo stato terreno è nato dalla naturale socievolezza dell'uomo ed ha la sua norma nella ragione. Ma esso non è più autosufficiente, come era per Aristotele, perché il fine terreno è subordinato al fine celeste, e la Chiesa non soltanto esercita su quello un controllo continuo, ma in certi casi si sostituisce addirittura ad esso. Dopo la consueta distinzione teologica tra lo « ius divinum », lo « ius naturale » e lo « ius positivum », e dopo aver suddistinto quest'ultimo in « ius positivum canonicum » e « ius positivum ~ivile », pone il diritto canonico sul piano del diritto divino in quanto antur ah ipso: principes autem seculares hahent aurtoritatem sciliret a deo mediante

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Ma v'è di più: Item papa comparatur ad imperatorem sicut spirituale ad carnale. Sed quia istud carnale, respective acceptum, etiam in se spiritum habet , ideo, si sub ista consideratione accipiatur, erit spirituale et pertinebit directe ad pape iurisdictionem; spiritum autem potest habere· vel malum vel bonum, et utroque modo cadit directe sub iurisdictione ecclesie, idest ratione delicti, vel ratione alicuius opens pii etc.

Stando le cose in tal modo per frate Remigio, c'è da chiedersi che cosa resta al potere civile, che sia fuori del controllo della diretta e immediata giurisdizione ecclesiastica. « Corpora, super que sola auctoritatern (principes seculares) habent »\ cioè

homine, etiam [I. ide.st] ipso papa, sicut iam corpora, super que sola auctoritatem haben.t, motum et sensum a deo recipiunt mediante anima ». Mi pare che qui si parli di ben altro che di un semplice prim11to di dignità. ( 321 lb., f. 165 ab. ( 33) Evidentemente perché l'anima razionale è forma del corpo umano et! è tutt11 in tutto il corpo e in qualsivoglia parte cli esso, eome fra Remigio nvev11 ap• preso da fra Tommaso. ( 34) lb., f. 165 be.

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appena appena l'allevamento delle anguille di Bolsena e l'imbottigli?mento di buona vernaccia. Ma no; ché le anguille di Bolsena son soggette insieme a tutto il « Patrimonium » alla giurisdizione diretta di papa Martino. E, fuori del Patrimonio della Chiesa, soltanto i corpi privi di anima razionale, perché i corpi umani, in quanto dotati di spirito razionale creato immediatamente da Dio, anche senza contare che son battezzati, cadono « directe suh iurisdictione ecclesie ». Così, ad esempio, l'autorità civile non ha alcun diritto di legittimare i figli illegittimi. Questo diritto spetta, secondo l'extravagante Per venerabilem, solo alla Chiesa, la quale può perfino « facere de legitimo non legitimum ». « Demum - conclude il teologo domenicano - illud summopere attendamus, quod [potestas ecclesiastica] comparatur [ ad potestatem secularem] sicut Deus ad hominem ». E perciò il papa può dissolvere perfino il « coniugium spirituale >~dei vescovi alla loro sede, come aveva stabilito Innocenzo III, « per translationem, depositionem aut cessionem », grazie al potere divino che il papa ha come vicario di Cristo. Ma può altresì, il papa, autosciogliersi dal « coniugium spirituale » colla dignità che ricopre e con l'autorità che gli viene immediatamente da Dio? Il Girolami non affronta, eh 'io sappia, questo problema posto dal

frementi contro il primato del popolo romàno, e dei i,anche gli altri « gregum christianorum pastores » e quegli « alii » non meglio precisati del primo gruppo di avversari, e di escluderne a torto fra Remigio, non credo giovino molto a intendere il pensiero di Dante, che è chiaro in se stesso e ha di mira non tanto singole persone, ma categorie di avversari e argomenti dei quali facevano uso. Ed a questi argomenti, tratti dai ferrivecchi della pubblicistica del gran dif/érend, dobbiamo anche noi fare attenzione. Perciò lascio in disparte quello che il Maccarrone osserva sul secondo gruppo di avversari, i quali, « dum "ex patre dyaholo.. sunt, Ecclesie se filios esse dicunt »; vorrei sapere soltanto da lui come possa affermare dei regalisti francesi che, J di cui si predicano, l'uomo, che è menzionato nel racconto biblico ben dodici versi più giù. Per cavare un senso mistico concernente le vicende umane dal racconto della creazione del sole e della luna, s'è dovuto attendere quasi due migliaia d'anni, che cioè esegeti, canonisti e teologi si dedicassero allo studio della enigmistica e dell'astrologia. A proposito poi della seconda obiezione di Dante all'argomento dei « duo luminaria magna », il Maccarrone rintosta: Il desiderio di suscitare il riso del lettore, avvezzo a tali forme scolastiche [imparate da Dante « a le scuole de li religiosi » ?] , e fare ironia sugli avversari, non ha fatto troppo riflettere il poeta sul valore della propria obbiezione, che andava contro '1a dottrina, affermatasi nella teologia del secolo XIII e particolarmente sviluppata da San Tommaso, che l'autorità secolare non è conseguenza del peccato originale, ma della natura stessa, per cui si sarebbe costituita anche « in atatu innocentiae ». Nella stessa Monarchia Dante aveva sostenuto nei primi capitoli del primo Jibro la dottrina aristotelico-tomista della naturalità dello Stato, e non si può negare che una certa contraddizione teini, oltre a una buona edizione del testo di frate Guido, ha raccolto e passato al vaglio della critica tulto quanto è riuscito a sapere per la ricostruzione della figura storica del fanatico domenicano romagnolo. « Romagnoli tutti briganti », - diceva il generai Radetzki al vedere la guerra intorno a Troia dipinta nel palazzo dur·ale di Mantova da Giulio ... Romano. - « Domani Giulio far fucilare » !

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vi sia, dovuta al fervore polemico che caratterizza questa parte del quarto capitolo, e indice di una mancanza di revisione che bisognerebbe mettere in rapporto con altre disuguaglianze del trattato politico dantesco ma è uscita dall'avventura « corrupta >>.,« vitiata »~ « mutata in 71 < >. deterius », « saucia », « vulnerata » d'un duplice « vulnus Quando Dio, mosso a pietà delle sorti dell'uomo dopo il peccato originale, volle « l'umana creatura a sé riconformare, che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e

>'

fuit in hoc, ut remanerent in spe1•ie aeterna, cum impossibile fuerit numero, necessarium est ut illud, quod non invenitur in eo nisi tantum unum individuum, sit perfectum in esse ». (70) Il ter:o libro, p. 41. ( 71) Vedasi quanto ne ho detto nei Saggi di filos, dant., cit. p. 24'1 sgg.

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disformata», decise di mandare in terra il suo Figliuolo, che doveva incarnarsi nella discendenza di David. E però che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenìa essere in ottima disposizione ; e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò doveva compiere, cioè la gloriosa Roma . . . E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia ... f12). (
, come Dante pref erisce nel Paradiso d'accordo con Giamblico (a&). Il saputello che ha tirato fuori le 7.744 volte onde la luna è minore del sole mostra di non sapere che, secondo una dottrina astrologica assai diffusa, la luna non riflette soltanto la luce solare, ma possiede altresì una luce propria derivante da un intrinseco « formai principio che produce, conforme a sua bontà, lo turbo e 'l chiaro »~Sì che, dato anche e non concesso che il detto biblico dovesse interpretarsi ~vorrebbe dire che Dante non avrebbe potuto trovare altrove quei tre termini nella loro logica e metafisica connessione. Ora io ho sempre creduto che si trattasse di uno dei luoghi più comuni della metafisica aristotelica, tanto nella sua interpretazione tomistica che in quella averroistica e perfino nell'agostinismo medievale; poiché tanto Aristotele quanto Agostino tra l'essere o essenza o sostanza delle cose create e il loro operare frappongono le loro virtù, potenze o facoltà che voglia dirsi; e gli scolastici discutono se esse fluiscano e sgorghino dalla sostanza, come ritenevano gli agostinisti, o siano invece « accidentia » realmente distinti da questa, come pensavano aristotelicamente i tomisti. Ad ogni modo, che, nel nostro caso, quando fra Tolomeo scrive: « Sicut corpus per animam habet esse virtutem et operationem », non esprimesse un concetto a lui proprio, è _attestato da lui stesso, poiché aggiunge subito: « ut ex verbis Philosophi et Augustini, De immortalitate animae, patet », parole che il Maccarrone ha omesso. « Individuare » la fonte d'un concetto tanto comune non è facile, anche se si conceda che l'opera di Tolomeo era facilmente accessibile a Dante. Se non che, a differenza di Dante il quale nega nel modo più esplicito che la luna dipenda dal sole « quantum ad esse », « quan( 9.5) /b .• p. 4>,a questa straordinaria conclusione: « Prendendola di mira in occasione della sua polemica contro l'immagine del sole e della luna, egli [Dante] aveva il vantaggio di criticare implicitamente pure il paragone dél corpo e dell'anima, uno dei più celebri argomenti ierocratici, non affrontato espréssamente nella Monarchia » . E come avrebbe potuto prendere in considerazione questo argomento, dopo avere stabilito quel « principium inquisitionis dh-ectivum », secondo il quale il fine ultimo del « genus humanum simul sumptum >) e che è il fondamento della Monarchia universale, è la piena attuazione in ogni momento della potenza

(97) Intorno alla quale, v. il mio saggio Anima e corpo nel peruiero di San Tommaso, nel voi. cit. di Studi di filo,. mediev., p. 176 sgg. (98) Ms. fiorentino cit., f. l6Sbc. Se poi anl"he fra Remigio avesse per a,ventura al"colto la dottrina tomistica dell'unità della forma, del l"he non sono edotto, ne verrebbe logicamente rhe tutto quanto l'uomo « pertinebit directe ad pape iurisilirtionem », dalla testa si piedi! ( 99) Il terr.o libro. p. 46.

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delrintelletto umano ? E non dirà alla fine dell'opera che alla (< beatitudo huius vite », che è il fine proprio dell'Impero, « per phylosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando » ? L'Impero ha già in sé, per Dante, la sua spiritualità naturale, e sua guida è la ragione umana nella propria indipendenza dalla rivelazione soprannaturale. Il rapporto fra Impero e Chiesa per lui non è quello che intercorre fra corpo ed anima, com'era per gli ierocratici, tanto per fra Tolomeo da Lucca quanto per fra Remigio de' Girolami, ben.sì quello che gli averroisti del suo tempo avevano stabilito tra ragione e rivelazione, tra filosofia e fede. In questo Dante è, nella· Monarchia, averroista al cento per cento, se sapete che cosa fu, nel medio evo e nel Rinascimento, l'aver. ro1smo. Ma io non giurerei che l'amico Maccarrone lo sappia con molta esattezza. Ciò non di meno, egli sulle precedenti affermazioni, di cui abbiamo vista la consistenza, imbastisce un ragionamento così tortuoso che finisce per rendere oscuro e inintelligibile quello che nel testo della Monarchia è chiarissimo. Dice dunque Dante che la luna nella propria natura, nella propria virtù, e nel proprio operare, come corpo dotato di una propria e debole luminosità, non dipende affatto, «simpliciter », dal sole. Ne dipende invece (< quantum ad melius et virtuosius operandum », perché la luce abbondante, che riceve dal sole, rende più efficace l'azione della debole luce propria, alla quale la luce solare s'aggiunge. È chiaro che Dante vuol dire che la grande luce della grazia e della rivelazione aiuta e conforta la tenue luce della natura umana, resa anche più debole dal peccato originale. Come la luna per esercitare la sua influenza sulla terra non ha bisogno della luce del sole, ma insieme a questa (< virtuosius operatur », così, conclude Dante, « regnum temporale non recipit esse a spirituali, nec virtutem que est eius auctoritas, nec etiam operationem simpliciter; sed bene ab eo recipit ut

(100) Mon .• I, m, 8-10; 1v, 1-6. ( 101) lb., III. xv,. i-9.

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virtuosius operetur per lucem gratiae, quam in celo Oeus et in terra 'benedictio summi Pontificis infundit illi ». Nel che Dante è pienamente d'accordo coi giuristi di parte imperiale, come Cino da Pistoia il quale verisimilmente, oltre che al collega Iacopo de Arena, s'ispira proprio a Dante (1!r.t) • Il vecchio cerimoniale dell'unzione, della consacrazione, dell'incoronazione, del conferimento della spada, è rimasto: ma per Dante non ha ormai altro significato che quello di una solenne benedizione apostolica, ed ha perduto quello, col quale il macchinoso rito era stato istituito, di conferimento d'autorità temporale e di conferma dell'avvenuta elezione. Su questo punto Dante è esplicito, non meno dei giuristi di Ludovico il Bavaro, i quali non per nulla tenevano in tanto conto la Monarchia:- « Solus eligit Deus, solus ipse confirmat, cum superiorem non haheat ». Ma non è così che l'intende l'amico Maccarrone. Il quale t'inventa, anzi tutto, una divergenza inesistente su questo punto tra Giovanni da Parigi e Dante : Giovanni da Parigi ... asserisce che la luna ha « propria virtus a Deo sibi data, quam a sole non habet >>(Dante, che usa il medesimo e ciò gli termine, non dà alla virtus della luna tanta indipendenza), serve per concludere che il sovrano « informationem de fide habet a papa et ecclesia, tamen potestatem habet distinctam et sibi propriam, quam non habet a papa, sed accepit a Deo immediate >>.

L'accordo con Dante è perfetto su tutti i punti, a mio parere; e non è affatto vero che l'autore della Monarchia non dia « alla virtus della luna tanta indipendenza » quanta glie ne dà il domenicano parigino. Mi perdoni il lettore se torno a mettergli ancora sott'occhio il testo dantesco: « Quantum... ad esse, nuJlo modo luna dependet a sole; nec etiam quantum ad virtutem, nec quantum ad operationem simpliciter; quia motus eius est a motore proprio, influentia sua est a propriis suis radiis » .

{ 102) Si veda il mio voi. .'VP/ mondo { l03) Il ter:o libro. p. 19. ( JO,J) ~fon .. Ili. IV, 18.

di Dantf', rit..

p. 167.

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Unendosi a questi « raggi propri» della luna, l'abbondante luce solare mette questi « raggi propri » in condizione di operare « melius et virtuosius »; ma questi « raggi propri » esercitano la loro specifica « influentia » anche senza. l'aiuto della luce solare, la quale non aggiunge nulla alla natura specifica di quella « influentia ». Analogamente l'Impero ha un fine naturale suo proprio, una sua propria virtù naturale di operare per raggiungere il proprio fine, indipendentemente dalla luce della grazia e della « benedizione » papale. Così che, « Ecclesia non existente aut non virtuante, Imperium habuit totam suam virtutem » . E questa virtù propria data immediatamente da Dio all'Impero non muta la sua specifica natura col passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Questo è il punto essenziale della teoria dantesca. E su questo punto, almeno per quel che riguarda .gli stati nazionali, c'è pieno accordo tra Dante e il teologo regalista parigino. E allora che cosa può mai significare l'affermazione, che « regnum temporale . . . bene ab eo [ cioè a spirituali] recipit ut virtuosius operetur per lucem gratie >'i? Credo sia facile la risposta, secondo Dante. Chiesa e Impero sono due « remedia contra infirmitatem peccati »; questo sul piano della « natura corrupta », quella sul piano della natura « spoliata gratuitis ». L'Impero è voluto da Dio per ricondurre l'uomo, dopo il peccato, alla sua perfezione e beatitudine naturale, sì da disporlo alla riconquista dei doni gratuiti e soprannaturali; la Chiesa per renderlo partecipe della Redenzione di Cristo e meritevole della vita eterna, con la predicazione e il conferimento della grazia sacramentale. Ora rimpero trova il maggiore ostacolo al compimento della sua missione nella cupidigia, cagione prima di tutti i contrasti e di tutti gli odi che mettono uomo contro uomo, stato contro stato. La Chiesa, con la luce dell'insegnamento evangelico e col conferimento dei carismi sacramentali, disto,;liendo gli uomini dai perituri beni della terra e additando ad essi il cielo, rende più agevole e più efficace l'opera della potestà terrena

( 105) Mon.,

JIL

Xlii,

3.

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nella dura lotta contro la cupidigia umana, ond'essa merita veramente quel rispetto e quella « reverentia », che del resto ne&sun fautore dell'Impero le aveva mai negato. Le par forse poco questo, caro Monsignore? Non c'è affatto bisogno che la Chiesa aumenti la virtus e l'operatio dell'Impero nell'esplicazione del compito assegnatogli da Giove « in persona di Dio parlando »; basta che la favorisca, e non la diminuisca con improvvide inframmittenze, come Dante dirà più tardi, ma non molto, con accorato sdegno, additando nella « mala condotta » del « pastor che precede » la (< cagion che 'l mondo ha fatto reo >• Il Maccarrone, invece, vorrebbe ad ogni costo che, secondo Dante, restasse alla Chiesa, e specialmente al papa, « un'influenza dell'autorità spirituale su quella secolare in quanto tak, nell'esplicazione del suo compito temporale» (la sottolineazione è mia) (U17> e questa influenza sarebbe quella che il nostro sottile critico chiama « potestas indirecta » ! E per dimostrare che a questo tende Dante, egli, dopo avere svalutato la radicale demolizione che l'Alighieri fa del « mendacium » papale, s'adopra a far credere che l'autore della Monarchia in sostanza finisce per accettare l'immagine della luna che riceve la sua luce dal sole, sì che questo accrescerebbe la « virtus propria» di quella, con un'influenza che non so come potrebbe chiamarsi indiretta. Della persistenza di questa immagine, che egli non esita a chjamare allegoria, non però nel senso tecnico che danno a questa parola gl'interpreti medievali delle Sacre Scritture, il Maccarrone s'è dato a cercare con cura le tracce specialmente nelle Epistole. Ma la sola allusione ad essa, che meriti veramente la nostra attenzione, è quella che trovasi alla fine dell'Epistola V, ai principi italiani, scritta evidentemente sotto l'impressione di una notizia che lo esaltava: il nuovo imperatore eletto stava per discendere in Italia a sanarne le piaghe e a sedarne le discordie, e ciò col consenso e l'appoggio dello stesso pontefice. Mentre nella Mo1UJrchiaArrigo VII è completamente assente, ed è in atto il ( 106) Mal'l'arrone. ( 107) /b .• p. 51.

Il terzo lil,ro. p. 51.

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dissidio fra il Papato e l'Impero, che non accenna a comporsi, nell'Epistola invece il nuovo imperatore annunzia la sua prossima venuta, e forse ha già varcato o sta per varcare le Alpi, e il dissidio col Papato sembra ormai avviato a felice composizione. Lo stesso Oemente V, il 26 luglio 1309, aveva dato atto al nuovo sovrano dell'accordo intervenuto coi procuratori di lui, e dello stesso accordo aveva dato notizia ai sudditi dell'Impero. Nell'uno e nell'altro documento il pontefice aveva rievocato, con avvedute parole, il concetto, divenuto ormai tradizionale tra i decretalisti e i teologi, che la Divina Sapienza, nella sua imperscrutabile profondità, aveva voluto disporre le cose del mondo terreno sull'esempio di quelle celesti, « irrorando i monti dall'alto della sua dimora », sì che la macchina del mondo inferiore traesse salutare giovamento e direzione dal frutto del moto celeste ( che è appunto l'idea che ispirò l'interpretazione mistica del passo della Genesi); e perciò come nella volta del cielo aveva costituito « duo luminaria magna » che illuminassero il mondo con veci alterne ( « vicibus » e non « viribus » si deve leggere) , allo stesso modo aveva disposto sulla terra il Sacerdozio e l'Impero, « ad plenum regimen et gubernationem spiritualium >i, e « utriusque potestatem superna provisione constituens ». Pensate un po' a tutto quello che era avvenuto dall'assassinio di Adolfo di Nassau a quello di Alberto Tedesco, ai danni arrecati all'Italia, secondo Dante, dalla deplorata assenza dell'imperatore dal « giardin dell'Imperio », alle dure condizioni alle quali lo stesso Alberto aveva dovuto assoggettarsi nel 1303 e alle aspre parole rivolte, il 30 aprile di quell'anno, ai procuratori imperiali da papa Caetani. Ora non solo il papa non metteva ostacoli alla discesa del nuovo eletto in Italia per sottomettersi in Roma al simbolico rito dell'unzione e dell'incoronazione, ma esortava i sudditi dell'Impero a riconoscerlo come loro legittimo sovrano e a rendergli il dovuto onore, mentre su lui, quasi su figlio primogenito della Chiesa, scendeva, per il benessere e la pace del mondo, ( 108) Ps., 103, 13. ( 109) t certaml"nle un lapsU$ del tipografo, poiché ncll'edizio ..e dei M. G. H .. Con.st., I V, pp. 261 e 264, !i legge vicibus.

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lii

la luce della paterna apostolica benedizione, « ut uhi radius E-piritualis non sufficit, splendor minoris luminaris illustret » . Gli stessi procuratori di Arrigo VII, nell'orazione pronunciata il 26 luglio 1309, avevano protestato di riconoscere al papa quella « plenitudo potestatis » che a lui solo competeva come « luminare maius » cm>. Tutto questo non doveva sembrare a Dante « praeter spem », anzi un miracoloso intervento divino a favore di Cesare? E che tatto, non dico che gusto, avrebbe dimostrato, se mentre effondeva l'e.:-ultanza dell'animo per l'inatteso evento, a spronare i principi italiani, egli si fosse permesso qualche inopportuna riserva di quelle suggeritegli dallo spirito polemico della Monarchia? Quello che allora contava erano i fatti e non le parole. E del resto le parole del pontefice, in quella circostanza, gli parvero abbastanza circospette. Ma quello che mi pare sia sfuggito alla perspicacia di Mons. Maccarrone in questa Epistola V, sicuramente posteriore al 26 luglio 1309, e quasi certamente anteriore al 24 ottobre 1310, quando, varcate le Alpi, l'imperatore era entrato in Susa, è un piccolo dettaglio che ritengo della massima importanza, e cioè quel nome di Titan, che, anche per Dante , è uno dei nomi del sole, dato a colui che sta per venire: « Titan exorietur pacificus, et iustitia, sine sole quasi eliotropium hebetata, cum primum iuhar ille vibraverit, revirescet » : « un nuovo giorno comincia a risplendere, mostrandoci l'aurora che già dirada le tenebre di una lunga calamità; e già dall'oriente spira più forte l'aura mattutina; il cielo rosseggia ai bordi dell'orizzonte, e col dilettoso se( 110) Così Dante appunto interpreta il « vicibus alternis » delle lettere pontificie: con la qual frase alla sua volta è riassunto l'ingenuo concetto biblico che il • luminare maius » fu f~tto • ut praeesset diebus » ( • id est spiritualibue •• chiosa Innocenzo lii), e che invece il « luminare minus 11 fu fatto « ut praeesset noctibus 11 («id est camalibus », dichiara lo stesso Innocenzo). E poiché di notte il sole non risplende, è necessaria la luce del II luminare minus ». Il « luminare maius 11 veramente splende anche di notte, ... ma in America; cosa che né Innocenzo III, né Clemente V, né lo scrittore della Genesi sapevano. ( lll) M. G. H., Conat., IV, p. 256. ( l 12) Ecl., IV, l-2. ( 113) Epist., V, 3.

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reno conforta gli auguri che ne traggono gli uomini. E noi, che sì a lungo pernottammo nel deserto [ e sì che il « luminare maius » non mancava, anche se per il momento preferiva le sponde del Rodano a quelle del Tevere!], potremo vedere l'attesa gioia, poi che Titano sta per sorgere apportatore di pace, e la giustizia che languiva, come l'elitropia quando è priva di sole, sta ormai per rinverdire >~. Coll'apparire del nuovo sole all'orizzonte comincia una nuova giornata nella storia d'Italia e del mondo, e con essa una nuova era, gli anni della quale verranno numerati a cominciare dall'inizio del « cursus Henrici Cesaris » o « divi Henrici ad Ytaliam ». La stessa idea che il nuovo imperatore sia il nuovo sole a lungo aspettato, col quale finalmente una « nova spes Latio seculi melioris effulsit » , è ripresa nell'Epistola VII, diretta allo stesso Arrigo VII, per sollecitarlo a non indugiare più oltre in Lombardia. Questa volta la lettera è datata con precisione: 17 aprile 1311. Dalla Monarchia al giorno in cui furono scritte le due Epi,,. stole, qualcosa s'era andato maturando lentamente nel pensiero di Dante e nella sua arte per dargli espressione. In fondo, nella Moriarchia il simbolo del sole e della luna, a rappresentare la Chiesa e l'Impero, resta. Ma la luna non rappresenta l'Impero in quanto riflette la luce solare, sihhene in quanto essa ha una propria luce e una propria virtù. Ma per la tenuità e debolezza di questa luce, l'Impero potrà continuare a dirsi « luminare minus ». Ora invece al simbolo consueto del sole e della luna si sostituiva nel suo spirito di poeta l'ardita e inconsueta immagine di « due soli », connessa col ricordo di Roma « che 'l buon mondo f eo », dopo che Cesare Augusto, secondo il vaticinio d'Anchise , aveva rinnovato nel Lazio l'età dell'oro sotto il segno del1a Vergine Astrea, e nel mondo splendevano, fino a Costantino, due veri grandi luminari dotati ciascuno di luce propria per immediata disposizione divina, né l'Aquila imperiale era stata ancora volta a ritroso « contro il corso del cielo ». (114) Epi,t., VII, 5-6. ( 115) Eneide, VI, 791-794.

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5. M'è parso valesse la pena di attardarmi sui vari tentativi e gli accorgimenti critici del Maccarrone sia per smussare le asperità del linguaggio dantesco, sia per attenuare o, qualche volta, infirmare il valore logico delle stringenti dimostrazioni, sia, infine, per ricondurne il pensiero entro i limiti di quella che egli chiama col Bellarmino la dottrina della « potestas indirecta », della quale abbiamo già detto qualcosa, e sulla quale avremo occasione di tornare. Nessuno vorrà negare al nostro critico grande abilità nell'aggirare la posizione assunta da Dante nella risposta, che non ammette equivoci, aUa prima delle otto auctoritates dalle quali argomentavano gli avversari contro cui unicamente l'autore della Monarchia dichiarava di voler combattere. E questa abilità ed impegno, nonché la prolissità superiore d'assai a quella rimproverata a Dante, mi ha obbligato ad attardarmi più a lungo su questo capitolo quarto. La seconda delle auctoritates è desunta anch'essa dal racconto allegorica del della Genesi CXXIX, 34-35) e dall'interpretazione fatto narrato. Il libro sacro racconta che dai fianchi di Giacobbe nacquero prima Levi poi Giuda. I sacri enigmisti pretendevano di sapere che Levi e Giuda erano «figure » allegoriche le quali rappresentavano i due regimi; e che come Levi fu padre del Sacerdozio, così Giuda lo fu del Regime temporale. Da siffatte premesse ( evidentissime, come tutti vedono!), i fautori della teocrazia argomentavano: - Come Levi stava a Giuda, così la Chiesa sta aH'lmpero; ma Levi precedette Giuda nella nascita; dunque la Chiesa precede l'Impero nell'autorità . L'argomento è analogo a quello dei « luminaria magna »; Dante, andando diritto al segno, dichiara che esso merita la stessa risposta che ha dato al precedente, negando (interim!'ndo) il presupposto da cui muove. Ma egli ha adocchiato nella fanciullesca deduzione dei suoi avversari quell'errore di ragionamento che

( 116) Mon .• Ili, v, 1-2.

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Aristotele negli Elenchi e Pietro Ispano nelle Summulae avevano denominato sofisma o « fallacia » della « non causa ut causa ». E non si lascia sfuggire l'occasione di una meritata lezioncina di logica: - Sarebbe facile tagliar le gambe a quel loro disinvolto modo di argomentare, osservando che esso muove dallo stesso « mendacium » dell'argomento precedente. Ma dato anche e non concesso che l'episodio dei figli di Giacobbe avesse quel senso figurato che i sacri enigmisti pretendono, il loro ragion~mento non è meno spropositato dal punto di vista logico, perché nell'antecedente si afferma che Levi precedette Giuda nella nascita; nel conseguente invece si pretende che, dunque, la Chiesa debba precedere l'Impero in autorità. Autorità e nascita son due concetti diversi. E facendo della nascita la causa dell'autorità, si commette ap•punto la « fallacia non causae ut causa ». Al Maccarrone pare che con ciò Dante abbia voluto dimostrare « il suo virtuosismo nella logica scolastica, in verità di scarsa efficacia » ! Quella dell'inutile o superfluo sfoggio che Dante nella Monarchia amerebbe fare della sua conoscenza della logica aristotelica, è un'idea sulla quale il nostro critico ritorna con una certa insistenza. Ora io non dirò ( del resto l'ha già osservato Galileo) che la logica insegni à ragionare; ma essa, con l'analisi che Aristotele ci ha dato della struttura del discorso umano, è assai utile a scoprire ove si annidino gli errori che ne infirmano il vigore, e a qualificarli. La terza auctoritas è tratta dal Libro dei re, e riguarda la istituzione del regno d'Israele, dell'unzione di Saul e della deposizione di lui ad opera del sommo sacerdote Samuele per espresso volere di Dio. Il Maccarrone afferma che essa « non era comune nella pubblicistica sui due poteri », tranne l'accenno « in forma generica » da parte di Innocenzo IV, e quello specifico di Giacoino da Viterbo, cui potrebbe riferirsi Dante . Tuttavia, co-

( 117) Sophut. el .. c. 5, 167 b 21-33; c. 6, 168 b 22-26. ( 118) Summulae logicale$, ed. I. M. Bochenski, Torino, 56-57. p. 87. ( 119) Il serzo libro, p. 57. ( 120) Il terzo libro, p. 58.

Marieui,

1947, VII.

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munissima nella pubblicistica era la citazione dell'autorità di Ugo da S. Vittore, come il Maccarrone sa bene, alla quale mi sono riferito , per dimostrare che in essa è un'evidente, insistente ed esplicita allusione all'istituzione del regno d'Israele, per volere di Dio, e al diritto da parte di Samuele di giudicare e perfino di deporre Saul. E il rito dell'unzione, rinnovato con intenzione nella consacrazione dei re carolingi e dipoi degl'imperatori cristiani, non era a conoscenza dei pubblicisti e non implicava un riferimento al rito biblico compiuto da Samuele? Il terzo argomento degli avversari della tesi dantesca si regge sul presupposto che il papa sia « vicarius Dei » allo stesso modo di Samuele; sì che « quemadmodum ille Dei vicarius » (cioè Samuele) « auctoritatem habuit dandi et tollendi regimen temporale et in alium transferendi, sic et nunc Dei vicarius, Ecclesie universalis antistes, auctoritatem habet dandi et tollendi et etiam transferendi sceptrum regiminis temporalis ». È appunto questo postulato che Dante nega nel 111odo p.iù reciso, « per interemptionem » cm>. Sul titolo di « vicarius Dei » o di « vicarius Christi » dato al papa dalla fine del secolo XII in poi, tanto dai canonisti e teologi quanto dai fautori dell'Impero, il Maccarrone ha intrapreso notevoli ricerche le quali non è lecito ignorare, per il contributo che esse arrecano a precisare il significato esatto di quel titolo nella pubblicistica del secolo XIII e XIV, in rapporto soprattutto all'argomento del quale ci stiamo occupando. Cristo asserisce cm>che a lui fu data dal Padre « omnis potestas in caelo et in terra ». Ma questo egli affermava evidentemente in quanto uomo e Dio; e ciò riconoscevano anche i fautori dell'Impero. I quali tuttavia non eran disposti ad ammettere che un sì esteso, anzi infinito, potere fosse demandato a Pietro, come suo vicario in terra, e ai successori di Pietro; né che al potere del vicario di Cristo nella Chiesa fosse soggetto rimpero, come

(121) V. sopra, pp. 160-IM. ( 122) Mon .. lii, VI. 2-3. ( 123) Matth., XXVIII, 18.

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sostenevano i fautori della teocrazia papale. E questo era appunto nel secolo XIII e XIV il nocciolo della controversia. Il Maccarrone, che ha fatto sua la distinzione fra la teoria della « potestas directa » e quella della « potestas indirecta », tirata fuori dal Grabmann, interpreta i testi relativi al titolo di « vicarius Christi ». col sussidio di questa distinzione. Così, ad esempio, Innocenzo III non accamperebbe mai una « potestas directa » per intervenire nelle faccende del potere secolare. ma soltanto una « potestas indirecta » giustificata dalla « ratio pecossia dall'aspetto morale e religioso per cui tutte le cati » , azioni umane, senza eccezione, cadono sotto il giudizio del vicario di Cristo, successore di S. Pietro, cui furono date le chiavi del Regno dei cieli. Non si riesce però a vedere come un potere « indiretto » che si estenda a tutte le azioni umane si possa distinguere da un potere diretto. Tanto che lo stesso fra Remigio de' Girolami, come abbiamo già osservato, aveva finito per concedere che, stando il papa all'imperatore « sicut spirituale ad carnale » ( cosa che Dante non concederebbe), e poiché « istud carnale, respective acceptum, etiam in se spiritum habet, ideo, si sub ista consideratione accipiatur, erit spirituale et pertinebit directe ad pape iurisdictionem », ed aveva enumerato ben sette modi, nei quali « suhtracto imperatore vel alio principe secolari [ per morte o per deposizione], iurisdictio pape directe se extendit ad temporalia » . Certo, il rito biblico della sacra unzione con tutto il rituale simbolico che precedeva l'incoronazione del sovrano, non 3veva potuto impedire che la giurisdizione secolare rimanesse distinta, non solo per i decretisti ma anche per i decretalisti, da quella ecclesiastica. Ma quella era sotto la continua e sospettosa sorveglianza di questa, che non trascurava occasione per intervenire e far valere il diritto del vicario di Cristo non appena si manifestasse qualche contrasto fra l'uno e l'altro potere, contrasto che era considerato peccato, in quanto ribellione del potere secolare al Capo della cristianità e vicario di Cristo in terra. Questa auto(124) « Pote,ta, directa » e "pote,tm ( 125) V. sopra, pp. 170-172.

indirecta », cit., pp. 33-34.

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nomia era non solo ammessa da parte della Chiesa, entro certi limiti, ma le giovava, in quanto la liberava dal peso del governo diretto dei cristiani nelle cose temporali. Ma tale autonomia non era né vera indipendenza né, tanto meno, sovranità, poiché • il principe secolare non era sol~nto controllato e giudicato, ma all'occasione deposto; nel qual caso, secondo l'esplicita affermazione di fra Remigio, il papa aveva il diritto di prenderne il posto, come nel caso di sede vacante . In questo senso va intesa la distinzione e diversità di cui parla Innocenzo III, tra la « pontificalis auctoritas » e la « imperialis potestas », nella lettera al vescovo di Fermo, riferita dal Maccarrone . Ove, dopo aver premesso che « officia regni et sacerdotii » sono « distincta » ( e chi avrebbe potuto negarlo?), aggiunge: « Quia tamen Romanus pontifex illius agit vices in terris qui est rex regum in terris et dominus dominantium, sacerdos in aeternum ·secundum ordinem Melchisedech, non solum in spiritualihus hahet summa111, verum etiam in temporalihus magnam ah ipso Domino potestatem ». A proposito del qual testo il Maccarrone fa un'osservazione che mi pare non regga: « Si noti ... che l'autorità temporale rivendicata da Innocenzo III è detta grande, non somma come quella spirituale e come la stessa autorità temporale di Cristo Re ». E allora che vicario di Cristo era? No; il senso delle parole d'Innocenzo è un altro. Il papa, come vicario di Cristo, esercita la stessa autorità di questo « in spiritualihus et temporalibus ». Ma « in spiritualihus ri la sua autorità è diretta; « in temporalihus » invece è indiretta, cioè esercitata per mezzo dei principi; ché questo è appunto il significato della « potestas indirecta » del papa ( 126) Lo stesso Maccarrone, Il ter::o libro, p. 26, non esita a scrivere che la PtJ$torali!1cura di Clemente V, del 24 marzo 1314, ). è magna ma cioè, com'è detto nella decretale Per venerahilem, non su~ « certis causis inspectis » e « casualiter », nei quali casi il papà rivendica, come vicario di Cristo, la sua summa potestas sulle cose temporali . Il caso più evidente è quello di Caloianne, che Papa Innocenzo con la sua autorità di vicario di Cristo costituiva, il 24 f ebbra io 1204, re di Bulgaria e Valacchia. Non tutti pare si rendano conto che la famosa « Translatio imperii a Graecis in Francos >> e dipoi « in Germanos » fu un gesto retorico che non cambiava in nessun modo la situazione politica di fatto. Il disconoscimento dell'Impero d'Oriente, da parte della Chiesa di Roma, non pose di fatto l'Oriente sotto la giurisdizione dell'Impero d'Occidente divenuto l'unico Sacro Romano Impero giuridicamente e politicamente riconosciuto dalla Chiesa di Roma. Di fatto la « Translatio >>a parole non pose fine ali' esistenza dell'Impero bizantino, che continuò a vivere, attraverso varie vicende, fino all'occupazione turca di Costantinopoli, nel 1453. Se mai la « Translatio » contribuì ad approfondire l'abisso che s'andava scavando tra Oriente ed Occidente, e che rese l'Impero bizantino facile conquista degli Arabi e dei Turchi, che le crociate non riuscirono a ricacciare dalle province strappate ai Bizantini. Fu questa davvero la prima grande scissione della « tunica inconsutilis » di Cristo. Constato, non moralizzo sul fatto: la morale è quella immanente ai fatti; non ne conosco altra. La quarta crociata, che avrebbe dovuto condurre alla liberazione del Santo Sepolcro, di fatto si esaurì nella creazione del( 128) A meno che Innocenzo non dica « magna » e non « summa » la « potestu in temporalibus », perché le cose temporali sono ordinate a quelle spirituali; e neppure il principe che domina su di esse possiede quella « plenitudo potestatis » che, nel discono pronunciato in un anniversario della sua incoronazione, lo stesso Innocenzo dice concessa solo a Pietro e ai suoi successori: « Solus Petrus assumptus est in plenitudinem potestatis » (Migne, P. L., voi. 217, col. 665).

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lii

l'Impero Latino d'Oriente e nella spartizione del bottino strappato ai Bizantini. Fin dal 14 luglio 1203 i crociati eran padroni di Costantinopoli. Pareva venuto il momento favorevole per una riconciliazione tra la Chiesa di Roma e quella greco-ortodossa, tra Occidente ed Oriente. La costituzione di Caloianne a re dei Bulgari e dei Valacchi da parte d'Innocenzo III, avvenuta con lettera del 24 febbraio 1204, rispecchia la situazione del momento. Bulgari e Valacchi erano in rivolta da oltre un quarto di secolo contro l'Impero di Bisanzio. Stanziati nelle regioni del basso Danubio, oltre il confine della Macedonia e della Tracia, essi non avevano aderito allo scisma, per la vicinanza di paesi cattolici come l'Ungheria; e sebbene assoggettati all'Impero d'Oriente nel corso del secolo XI, se n'erano liberati nel 1186. Caloianne, capo della ribellione, si proclamava figlio devoto di Roma, perfino per nascita, e chiedeva al papa il titolo di re, il diritto di batter moneta e un arcivescovo, se non addirittura un patriarca, latino. Innocenzo non si lasciò sfuggire l'occasione, anche a costo d'irritare i sovrani di Bisanzio, che ormai mostravano d'aver perduto la testa e il controllo della situazione ed erano sul punto d'abbandonare la Grecia e la stessa Costantinopoli alla mercé dei crociati. A che titolo e con qual diritto il papa interveniva per creare Caloianne, ribelle all'Impero d'Oriente, re dei Bulgari e dei Valacchi? Udiamolo: Rex regum et Dominus dominantium, Iesus Christus, sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech [ che era sacerdote e re], cui dedit omnia Pater in manu, pedibus eius suhiciens universa ... summum apostolicae sedis et Ecclesiae Romanae pontificem, quem in beato Petro sibi vicarium ordinavit, super gentes et regna constituit, evellendi destruendi disperdendi et dissipandi et aedificandi et plantandi ei conferens potestatem, loquens ad eum in propheta qui fuit de sacerdotibus Anatoth ... . Cum igitur, licet immeriti, eiiu l'ices geramus in terris qui dominatur in regno hominum et cui voluerit dabit illud, utpote per quem reges regnant et principes dominantur , cum

( 129) ler., I, 10. È uno dei testi biblici più citati in documenti scritti a favore della dottrina teocratica. ( 130l Prov .• VIII, 15-16.

papali

e negli

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Petro et successorihus suis et nohis in eo noverimus esse dictum : " Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua; et tu, aliquando conversus, confirma fratres tuos " ; cum ex praeceplo Domini, oves eius pascere teneamur, populis Bulgarorum et Blacorum, qui multo iam tempore ab uheribus matris suae alienati fuerunt, in spiritualibus et temporalibus paterna sollicitudine providere volentes, eius auctoritate confisi per quem Samuel David in .-egem inunxit , regem te statuimus super eos, . . . sceptrum regni ac regium tibi mittimus diadema, eius quasi nostris tihi manihus imponendum, recipiendo a te iuratoriam cautionem quod nobis et successoribus nostris et Ecclesiae Romanae devotus et ohediens permanehis et cunctas terras et gentes tuo suhiectas imperio in obedientia et devotione sedis apostolicae conservabis.

Si tratta dunque della creazione di un nuovo regno distaccato dall'Impero bizantino, e del re di questo regno, da parte del papa, il quale, invocato, interviene direttamente come vicario di Cristo che è re dei re, che dà i regni a chi vuole, e per il quale i re regnano. Il titolo giuridico fatto valere da Innocenzo III, come pare evidente, è il fatto che Cristo stesso, e non Costantino, come parrebbe volere il Maccarrone, costituendo suo vicario S. Pietro, conferi a questo e ai suoi successori quel potere « super gentes et regna» che è indicato dal versetto di Geremia espressamente citato e riferito al potere papale. L'accenno, non certo fortuito, a Samuele che unse re David e lo sostituì a Saul, abbandonato da Dio, do\'eva confermare il diritto del vicario di Cristo a costituire, controllare, giudicare e deporre i sovrani della terra in nome di Dio. A. ,minimizzare la chiara proclamazione di Innocenzo III, lo amico Maccarrone osserva che « il gesto del nostro pontefice si presenta come straordinario, richiesto dalle circostanze » . Ma, a parte che il papa non acèenna affatto alla straordinarietà del caso, in nessun caso egli avrebbe potuto intervenire, nemmeno se richiesto, qualora non avesse ritenuto di averne diritto. E questo diritto ad un intervento diretto nel caso particolare della nomina

( 131) Luca, XXII, 32. ( 132) / Reg., XVI, 13. ( 133) Il papa « vicarius Christi », cit., p. 450.

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lii

del re dei Bulgari e Valacchi, egli giustifica con una teoria teologica generale, che cioè egli, come vicario di Cristo sulla terra, ha una potestà ordinaria, conferita da Cristo stesso a Pietro e ai suoi successori, « super gentes et regna » con quel che segue nell'allegato testo del prof eta Geremia. L!l qual teoria teologica vale non soltanto per il caso del re di Bulgaria, ma per tutti i casi analoghi e particolarmente per i sette casi indicati da fra Remigio de' Girolami, nei quali il papa ha diritto d'intervento diretto e immediato « in temporalibus ». Il Maccarrone (t:tt) vorrebbe poi farci credere che, per Innocenzo III, questo diritto spetterebbe ai papi, da Silvestro in poi, in virtù della Donazione e della rinuncia di Costantino. E questo egli pretende di ricavare in particolare dal sermone dello stesso Innocenzo III per la festa di S. Silvestro ,del quale riferisce un breve tratto. Ora a me pare che il Maccarrone confonda il diritto col fatto. Che i papi non potessero di fatto esercitare il diretto · potere « super gentes et regna >I conferito ad essi come a successori di S. Pietro, e prima che ad essi a Pietro stesso, come a suo vicario, se non dopo che Costantino ebbe riconosciuto che « uhi principatus sacerdotum et christianae religionis caput ab imperatore caeleste constitutum est, iustum non est, ut illic imperator terrenus habeat potestatem », è verissimo. Ma che il diritto di esercitare la « plenitudo potestat1s » « super gentes et regna » sia venuto ai papi per la Donazione di Costantino non mi sarei aspettato di sentirmelo dire da un così profondo teologo com'è l'amico Maccarrone. Tanto più che Innocenzo III, proprio nel testo allegato dal nostro critico ( ed egli lo sa bene) dice espressamente: >. Crede proprio il Maccarrone che anche questa volta Dante abbia voluto fare un inutile « sfoggi o » di conoscenze logiche? Bisogna compatirlo, povero Dante: quello di rimproverare ai teologi una soverchia confidenza con la logica è, da parte sua, un'idea fissa! Poiché anche poco dopo, a proposito dell'incenso e dell'oro che i re magi offersero a Cristo e dell'argom ~nto che teologi e canonisti v'imbastiscono sopra, egli torna a richiamare costoro ad un maggior rispetto delle regole del sillogismo . Sul che Mons. Maccarrone non pare abbia nulla da osservare.

6 Invece questi ferma la sua attenz~one >non è detto; ed era bene dirlo chiaro, per non lasciare adito a sospetti ingiuriosi. La « digressione giuridica sull'autorità dell'imperatore » è così presentata dal nostro dantista: Dopo aver provato che non si può attribuire al papa, perché vicario di Dio, tutta la potestà divina, conferma l'argomentazione provando che anche nel campo umano non c'è equivalenza tra il vicario e colui che gli concede tale ufficio, per il principio: nemo dat quod non habet. Il vecchio adagio scolastico, richiamato da Dante anche più

( 140) Mon., III, VI, 4-7; cfr. Pietro Ispano, Summulae, V, 16-17. ( 141) Mon., III, VII, 2-3; cfr. Arist., Anal. priora, I, c. 25, 41 b 36 sgg.; 42 a 31; Ànal. post., I, c. 19, 81 a 10; c. 25, 86 b 7. ( 142) Il terzo libro, pp. 59-60.

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III

oltre , è qui applicato a dimostrare che l"imperatore non ha come sua propria l'autorità imperiale, né quindi può interamente darla ad un vicario, in base alla dottrina dei civilisti sull'origine del potere dell'imperatore dal popolo romano... . Lo studio compiuto da Dante sulla monarchia universale e la conseguente influenza dei giuristi, gli ha fatto applicare questa dottrina alla questione del papa vicariw Christi, e conferma come il poeta introduca interessi personali ecc.

Francamente debbo confessare di non aver capito. A parte « il noto principio . . . proprio del dirit~o », non riesco a intendere come « la dottrina dei civilisti sull'origine del potere dello imperatore dal popolo romano » sia qui appl.icata « alla questione del papa vicarius Christi », e come questa applicazione confermi l'introduzione, da parte del poeta, dei predetti « interessi personali nel rigoroso schema scolastico >i. Il discorso di Dante è molto più semplice e più chiaro dell'« oscura glosa » maccarroniana. Vediamo un po'. Dante aveva dimostrato che il sillogismo, dal quale gli avversari avevan preteso di dedurre che al papa, come a vicario di Cristo, si doveva inc_enso ed oro, perché incenso ed oro i re magi avevano offerto a Cristo, è sillogismo sbagliato nella forma essenziale del sillogismo, per la buona ragione che nella premessa

( 143) E nella nota l, a p. 60: « Monarchia, III, XIV, 6: " Nichil est quod dare possit quod non habet ". Il noto principio era proprio del diritto, applicato volentieri pure dai teologi: così si trova in San Tommaso, Summa theologiae, III, q. 67, a. 7 ». La citazione è inesatta, e va corretta così: III, q. 67, a. 5, arg. I; cfr. ib., I, q. 75, a. I. arg. 1; I a II ae, q. 81, a. 3, arg. 2; III, q. 64, a. 5. arg. I. In tutti e quattro questi luoghi il detto si trova riferito tra gli arsumenta e l'ÌÒ dimostra trattarsi di un detto proverbiale, evidente per se stesso, come altri detti del genere, pe,r e,sempio, Totllm parte maius est, che è la se,ttima delle xowcxl lv,1()1.Gtt degli Elemento di Euclide; sì che giustamente Duns Si. E aggiunge che, qualora i sovrani emanino leggi di loro iniziativa, al superiore giudizio del papa « spectat ( 151) Evi1lentemente Innocenzo si riferisce qui al potere sovrano e diretto su Roma e il Patrimonio di S. Pietro. Ma la stessa sovranità è affermata da lui ( ib.) anche sul « regnum Occidentis », sebbene questa sia esercitata indirettamente, cioe per mezzo di principi istituiti dal papa. ( 152) Mon., III, VIII, 2. ( 153) Il terzo libro. pp. 61-M.

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illas leges aprobare vel reprobare, nec eorum leges videntur populum ligare, nisi ab ipso Christi vicario fuerint aprobate » (I.Il). Frasi come queste parrebbero « avanzare una propria opinione» dell'autore di quel memoriale, « che sorpassava le comuni formulazioni ierocratiche». E perciò il Maccarrone s'illude d'aver trovata in esse « la fonte cui il poeta si riferisce ». Se non che la frase « spectat illas leges aprobare vel reprobare », sottolineata da lui a dimostrare « la concordanza letterale », nel testo dantesco non c'è. C'è invece l'espressione « solvere et ligare »; ma è chiaro che essa viene dal Vangel~ di Matteo. E chiara è del pari un'altra cosa: al « Quodcunque ligaveris ... » del Vangelo secondo Matteo canonisti e teologi facevano espresso riferimento per giustificare il diretto intervento papale nella creazione, « in regimine christiano », dell'imperatore e dei re, nella loro deposizione, nella pretesa di sostituirli in tempo di sede vacante, nel potere di trasferire l'Impero dai Greci ai Franchi, nell'accogliere gli appelli avanzati dai sudditi contro le sentenze dei loro principi e dello stesso imperatore, nell'affermazione del diritto di confermarne le leggi per controllare che esse non f ossero contrarie ai sacri canoni, onde accrescere ad esse vigore e stabilità, e,· in caso diverso, imporne l'abrogazione. Lo aveva già detto espressamente F«idio Romano, esprimendo quello che era parere comune fra i decretalisti : Si bene considerantur quae dicuntur, ipsa potestas terrena, cuiusmodi est potestas regalis vel imperialis, non habebit iudicare quid iustum nec quid non iustum, nisi in quantum hoc agit in virtute potestatis spiritualis. Nam si iusticia est res spiritualis et est perfectio animae. et non eorporis, ad potestatem spiritualem spectabit indicare de ipsa iusticia; potestas autem terrena et corporalis non hahehit iudicare de ea, nisi hoc agat in virtute potestatis spiritualis. Propter quod omnes leges imperiales et potestatis terrenae. sunt ad ecclesiasticos canone, ordiruuulae, ut inde sumant robur et etiam firmitatem, vel omnes tal,es lege. a potestate terrena editae, ut robu.r et firmitatem habeant, n.on

(154) Parole riferite dal Maccarrone, ib., il quale rimanda a M.G.H .. Conat., IV, p. 1346, 39-44. 1L

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III

debent contradicere eccleai03ticis legibw, sed potius sunt per potesta• tem spiritualem et eccl.esuuticam con,firmandae .

Allo stesso modo Enrico da Cremona: Est verum, quod ius humanum ab imperatoribus est institutum et ipsi statuerunt aliqua circa temporalia, sed talia statuta auctoritate ecclesie statuunt, et ideo non sunt a deo ( sic, l. adeo) firma quin per ecclesiam possint corrigi et emendari, sicut constituciones episcoporum9 aicut de multis legibw factum eat, sicut de illis que permittunt [ concubinatum et usuras, et qui ( que ?) prohibent matrimonium ante annum luctus, ... ] et aliis, ut notatur X dist. lege .

Non che « avanzare una propria opinione», l'anonimo autore del memoriale indicato come «fonte» di Dante non faceva altro, dunque, che tirar fuori un consunto ferrovecchio dall'arsenale della pubblicistica del tempo di Bonifacio VIII e di Filippo il Bello. Anzi questo ferrovecchio l'aveva già tratto dall'arsenale dei decretalisti lo stesso Bonifacio VIII, nel maggio 1300, quando s'adoprava per far revocare la condanna inflitta alle spie che tenevano informato il papa di quanto succedeva nel Comune fiorentino; la qual condanna recava pregiudizio ai disegni che egli accarezzava di ricondurre la Toscana sotto la diretta giurisdizione ( 155) Egidio Romano, De ecclesiastica potestate ( ed. U. Oxilia e G. Bollito, Firenze 1908), II, c. IO, p. 74. ( 156) De potestate pope, in Scholz, Die Publisiatik, cit., p. 470. E sempre in ~lazione al versetto di Matteo, XVI, 19, dopo aver ripetuto« et qui dixit "quecumque "'... nichil excipit » (ib., p. 464), ricorda, a conferma del potere che la Chiesa esercita sull'Impero, la Tran.slatio imperii a Grecia in Germano,, la deposizione di un re franco e la sostituzione ad esso di un re germanico, nonché la deposizione di Federico II da parte di Innocenzo IV, e infine proclama la norma canonica, accolta da tutti i decretalisti, che « ecclesia conauevit cognoseere da omnibw causis », e dichiara essere eretico credere il contrario, che cioè « ecclesia non habet cognicionem omnium eaunrum », di guisa che « de iudicio summi pontificis nulli licet disputare » ( ib., p. 4661. Su ciò esiste fra i decretalisti la più commovente concordia. Ed è risaputo che la norma affermata come principio teorico di diritto era largamente applicata in pratica, nelle relazioni tra la Chien e i vari Stati, dall'Impero ai Comuni. Una cosa mi piace notare, a conferma di quanto ebbi a scrivere intorno alla « comitissa Mathelda :1 nel volume Nel mondo di Dante, cit., pp. 276-78: di tutti i decretalisti che fanno menxiooe di sovrani deposti da papi, nessuno ricorda la deposizione di Enrico IV fatta da Gregorio VII, nel 1706, in virtù della « potestas a Deo data ligaodi atque solvendi in caelo et in terra ».

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della Chiesa. Anzi che disinteressarsi di quella condanna, come seppe che « nonnulli iniquitatis filii » s'eran dati a propalare i suoi disegni a danno della libertà del Comune fiorentino, e che Lapo Saltarelli, uno dei primi, arringando in pubblico e conversando coi suoi concittadini, sosteneva, dice il papa, « quod de processihus et sententiis fiorentini Communis non debebamus nos intromittere, nec etiam poteramus », gli parve che questo passasse il segno per un uomo come lui che si vantava di avere studiato il diritto da quarant'anni cm>. « Verba non tam heretica quam insana »! E il 15 maggio 1300 scrisse al vescovo di Firenze e alrinquisitore dell'eretica pravità per la Toscana una lettera energica per fermare tanta audacia~ In questa lettera sono notevoli non tanto i provvedimenti che egli ordina sian presi sì nei riguardi di Lapo che degli altri responsabili nella condanna delle spie, quanto i principi ierocratici che riaffermano il primato del vicario di Cristo « super reges et regna », e il diritto del papa a sorvegliare ogni stato, per correggere gli errori che vi si commettono e proteggere coloro che sono oppressi da inique sentenze . Sono gli stessi principi che Bonifacio proclamerà contro Filippo il Bello nella bolla Ausculta fili del 5 dic. 1301 e nella Unam Sanctam del nov. 1302. Sebbene l'amico Maccarrone da diversi anni s'affatichi a interpretare le dottrine giuridiche e teologiche del medio evo sui rapporti tra Chiesa e Impero alla luce delle teorie del Suarez e del Bellarmino sulla « potestas directa » o « indirecta » del Papato sugli stati del Cinque e del Seicento, ho la vaga impressione che egli si sia lasciato sfuggire l'esatto significato che hanno certe espressioni come « potestas directa », « potestas indirecta », « ratione peccati » ed altre simili. Di quest'ultima specialmente, della quale egli attribuisce il merito principale a Innocenzo Ili, nell'intento di scagionarlo di essere un assertore della dottrina ierocratica eia>, ritengo che egli abbia interamente frainteso il significato. ( 157) M.G.H., Corut., IV, n. 108, lettera del papa, del 15 maggio 1300, al vescovo di Firenze. ( 158) lb. Cfr. i miei Sassi di filoa. dant., cit., pp. 299-301. ( 159) « Poteataa directa » e « poteataa indirecta », cit., p. 34; Il terso libro, p. 8.

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Ili

Il « regimen christianum » medievale è concepito da canonisti e da teologi come strettamente legato alla Chiesa da cui dipende, senza confondersi con questa. Lo stato ( sia esso l'impero, un regno, un principato o un comune) ha con la Chiesa il rapporto che il corpo ha con l'anima. E come anima e corpo sono due sostanze distinte nell'unità vivente dell'individuo umano, così lo stato terreno è unito al potere spirituale della Chiesa, che lo istituisce e l'informa di vita cristiana, senza confondersi con esso. Quello che meglio di ogni altro ha chiarito questo concetto è Egidio Romano, nella terza parte del De ecclesiastica potestate, con perfetta coerenza e prof onda conoscenza della teologia del suo tempo nonché dei canoni e delle decretali. Invece di muovere dal Bellarmino, come fa il Maccarrone, o da Giovanni Torquemada, come preferisce il Grabmann, avrebbero fatto meglio entrambi, a mio parere, se avessero cominciato con lo studiare a fondo l'opera dell'eremitano medievale. La quale è la più sistematica, la più integrale apologia della teocrazia papale al momento dell'epica lotta tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. La perfetta conoscenza dei sacri canoni e delle decretali, da parte di uno scaltrito maestro di teologia addottorato a Parigi, e l'abito del consumato dialettico che ha limato il suo ingegno sull'Arte vecchia, sugli Analitici primi, sui Posteriori e sugli Elenchi sofistici, fanno di Egidio un baldo e imperterrito con• sequenziario che, sicuro di sé, non recede dinanzi alle più audaci conclusioni che a fil di logica egli irae dalle premesse stabilite sull'autorità dei sacri testi, e che non esita a confortare, come d'uso, coi principi della Fisica, della Metafisica e dell'Etica d'Aristotele. Da buon teologo, egli parte dal principio che soltanto Dio è padrone del mondo, e che l'uomo ribelle a Dio non è più degno di vivere cieo) ; e se Dio, nella sua misericordia, ha tollerato che l'uomo viva, anche dopo il peccato, è per dargli tempo a pentirsi e a convertirsi. Fuori del cristianesimo, i regni costituiti da Caino in poi sono quei « magna latrocinia » di cui parla S. Agostino,

( 160) De ecci, pot., II, cc. 8 e 10.

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per esser privi di quella giustizia che è essenziale a un regime politico . Fuori del regno d'Israele, costituito per concessione divina e soggetto al sacerdozio, nessun altro regime formatosi prima di Cristo, anzi prima di Costantino, è fondato sulla giustizia; la stessa « respublica Romanorum » non merita il nome di « respublica » . Solo regime politico ammesso da Dio è quello istituito dalla Chiesa in nome di Dio col rito biblico dell'unzione e col conferimento della spada fatto dal papa al principe, perché ne usi « ad nutum ecclesiae ». L~ Chiesa quindi ha un potere diretto e immediato, anzi tutto sull'istituzione del regime secolare qualunque . esso sia. Ma che bisogno c'era di siffatto regime? Non bastava forse al buon governo del mondo la Chiesa con la sua perfetta organizzazione centrale e periferica? Non è così. La Chiesa è nata dalla speranza dell'imminente venuta del regno di Dio sulla terra. Gesù stesso, a chi gli chiedeva se si d> di S. Agostino, e soltanto assai tardi si finì per accettare la teoria aristotelica dell' « anima / orma ed entelechia o endelechia del corpo», dapprima conservando al( 161) lb., I, c. 4; II, c. 2; III, c. I e 2; cfr. Augustinus, De civ., IV, c. 4. ( 162) lb., Il, c. 6; cfr. Augustinus, De civ., XIX, c. 21.

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ranima e al corpo il rango di due « sostanze » incomplete, da ultimo affermando che anima e corpo formano una sostanza sola. Parallelamente, dalla condanna dei « regna sine iustitia » che altro non sono che « magna latrocinia », compreso rimpero romano, si giunse al riconoscimento che questi « magna latrocinia » avevano pur reso segnalati servigi all'umanità, e stabilito leggi e ordinamenti indispensabili al viver civile, da non buttare del tutto a mare, anzi passabilmente giusti, dal punto di vista umano; sì che, corretti ed emendati secondo i principi della Rivelazione, potevano, subordinatamente a questi principi, venire incorporati, in tutto o in parte, nel « regimen christianum » sotto la guida della Chiesa, ad opera della quale i re della terra, secondo Egidio Romano, son veri re soltanto « quia per ecclesiam regenerati », e « per ecclesiam instituti » . Non sarò certo io a contrastare all'amico Maccarrone l'aff'ermazione che l'eremitano è il più risoluto e agguerrito sostenitore della teocrazia proclamata da papa Caetani con la bolla Unam Sanctam; ma mi sembra gli sia sfuggito come Egidio, nel quadro della più intransigente ierocrazia, ci spieghi come va intesa la teoria della « potestas indirecta in temporalibus » sostenuta da fra Remigio de' Girolami e da altri. Veramente istruttivi sono a questo proposito i primi otto capitoli della terza parte del De eccl.esi.astica potestate. Egidio, anche nell'ambito del « regimen christianum >)r, fuori del quale non esistono veri regni, è ben lungi dal negare la distinzione fra la « potestas spiritualis » della Chiesa e del papa e la « potestas terrena » o « temporalis » che spetta ai re e ai principi nell'esercizio dei poteri ad essi affidati entro i limiti dei territori loro commessi. Del resto questa distinzione era comunemente riconosciuta dai canonisti e sancita in diritto : gli stessi conflitti che via via insorgevano tra l'una e l'altra potestà non avrebbero avuto senso se ogni distinzione fosse stata negata. E dal momento che Egidio riconosce la distinzione fra la giurisdizione terrena o temporale dei re e quella spirituale della Chiesa, riconosce alla prima una legittima indipendenza, di fronte ( 163) lb., III, c. 2; cfr. II, cc. 8-12.

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alla seconda, nell'esplicazione di quelli che sono i poteri dello stato terreno. Entro l'ambito della giurisdizione terrena, la « potestas » del principe sui suoi sudditi è diretta, e il papa non ha diritto di intromettersi « de temporalibus » . Se non che il « gladius temporalis » è conferito ai re dalla Chiesa, ed è soggetto al « gladius spiritualis » che questa detiene per sé. Inoltre, le cose temporali son soggette alle anime nostre delle quali sono informati i nostri corpi, e perciò soggette allo spirito, come Egidio ripete ad ogni pie' sospinto. Sì che il papa e in quanto vicario di Dio e in quanto suprema « potestas spiritualis », ha una superiore e primaria potestà generale d'ingerirsi nelle cose temporali, e in certi casi, o « ratione peccati » o per la stretta connessione del temporale con lo spirituale, ha anche una « potestà immediata ed esecutoria >li in via ordinaria lasciata alla competenza del potere civile . Ma il nostro teologo aggiunge che, se ,la prima è « diretta e regolare », la seconda, cioè quella « immediata ed esecutoria » in virtù della quale interviene nelle faccende degli stati normalmente di competenza dei sovrani temporali, « non est directa et regularis, sed certis causis inspectis et casualis » ciee>. E tre capitoli innanzi, dopo aver riferito il saggio consiglio di S. Gregorio Magno, « quod qui spiritualibus donis dilati sunt, terrenis non debent negociis implicari », aveva concluso (le'I) : His itaque visis, volumus solvere ad id quod in principio praesentis capituli dicebatur, quod, certis causis inspectis, temporalem iu( 164) lb., I, c. 2: « Materialis gladiWI, quem non sine caW1a portare dicuntur (potestates saeculares), per 11e et directe solas res corporales potest attingere». III, c. 4: « Potestati itaque terrenae commissa sunt ista materialia et temporalia quantum ad particularem executionem et immediatam operationem directe • . . Sed quantum ad particularem executionem et quantum ad immediatam operationem, generaliter et re1ulariter non deeet Summo Pontifici quod se de temporalibWI intromittat, cum ipse specialiter circa spiritualia debeat esse intentus ». III, c. 5: « Nisi immineat apecialis casua, si agatur de temporalibWI ut temporalia sunt et ut aunt in sustentamentum corporum nostrorum, apectabit ad iudicem civilem et ad potestatem terrenam de ipeis temporalibus iudicare .•• ». ( 165) lb., III, cc. 4-5. ( 166) lb., c. 7. ( 167) lb., c. 4; cfr. S. Greg. Magno, Mor., XIX, c. 25 ( in Migne, P. L., voi. i6, col. 125).

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risdictionem casualiter exercemus; quia, si spiritualis potestas principalius debet intendere spiritualibus, et si potestas terrena immediate debet se intromittere de temporalibus, ut supra diximus, duo inconvenientia sequentur si potestas ecclesiastfoa regulariter et generaliter se immediate intromitteret de temporalibus: primo quidem quia non posset ita vacare spiritualibus quibus dehet vacare et principaliter intendere; secundo vero quia esset confusio ; confundet enim tunc una potestas aliam.

Va bene che il papa ha nel governo degli uom1n1 un potere~ se non identico, analogo al governo di Dio nell'universo; ma Dio,. secondo la legge comune da esso stabilita, « sic dat virtutes rebus et sic administrat omnes res ut eas proprios cursus agere sinat » e non ne cambia il corso naturale se non di rado con interventi straordinari e miracolosi. Perciò l'eremitano ammonisce : Si ergo hanc communem legem quam Deus tenet in guhematione tocius mundi ad Summum Pontificem in gubernatione hominum quantum ad temporalia volumus adaptare, ut ipse sit sicut mare, quod se oft'ert ad implenda omnia vasa, quod sit sicut sol, qui immittit in omnia radios suae lucis, quod sit sicut universale agens quod omnes res et omnes secundas causas suos motus agere sinat,. patet quod de temporalibus, quorum cura spectat ad potestates terrenas, Summus Pontifex non se intromittet, quia hoc faciens non impleret potestates terrenas, s~d magis eas evacuaret, retraheret ah eis radios suae potenciae, non sineret eas agere proprios motus et proprios cursus.

La suprema autorità della Chiesa non ha dunque una « potestas directa » per intervenire nelle faccende di spettanza dell'autorità civile. Come Egidio spiega più avanti (III, c. 4), applicando al caso da lui contemplato, di un immediato intervento del potere ecclesiastico negli affàri di competenza del potere civile, un testo aristotelico concernente la conoscenza dei particolari , siffatto ( 168) lb., c. 2. (169) Arist., De anima, III, t. c. 10, c. 4, 429b 16-17. Secondo l'interpretazione tomistica (In Ili De anima, lez. sa), accolta da Egidio, l'intelletto umano conosce direttamente l'universale ricavato per astrazione dai particolari fornitigli dalla sensa• sione; i particolari stessi, invece, « intellectus noster et directe et primo cognoecere non potest ... lrulirecte autem, et quasi per quandam refl,ezionem potest cognoscere singulare ». Tommaso, S. theol., I, q. 86, a. 1. Il testo aristotelico nella traduùone

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intervento immediato non è concesso al papa « quantum ad superiorem et primariam potestatem » eh' egli ha su tutto il mondo, ossia non « generaliter et regulariter » né « directe », ma soltanto « per reflexionem », cioè l! Anche in questo'caso Dante taglia coito con siffatte ermeneu• tiche grullerie: « Et ad hoc dicendum per interemptionem sensus in quo f undant argumentum » . E questo non certo perché Dante « non fosse fatto per tener testa ai suoi sottili avversari battendosi sul loro terreno », come

(l 76) Mon., III, IX, I. ( 177\ Mon., III, 1x, 2.

l~TOR:-JO

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insinua l'amico Vinay ; ma perché egli, come del resto abbiamo visto per l'argomento dei « magna luminaria », preferisce andar diritto al segno, mettendo a nudo anzi tutto il presupposto essenziale del loro farneticare, e poi, se è il caso, scendendo a qualche particolare. Così anche qui: prima Dante nega il presupposto che Pietro coll~accenno ai « duo gladii » intendesse quello che gli attribuiscono teologi come Egidio (l'ID), decretalisti come l'Ostiense , e papi come Innocenzo IV e Bonifacio VIII; poi egli osserva , non senza buon fondamento, che se Pietro, come voleva l'avversario, avesse attribuito alle due spade che lui solo aveva « apud se », appo di sé, il significato mistico che ad esse attribuivano costoro, la risposta di lui non sarebbe stata a proposito, perché Cristo aveva detto a tutti i dodici di comprarsi una spada a costo di vender la tunica per la ragione che abbiamo detto. Solo Cristo avrebbe potuto capire una risposta così inaspettata; gli altri no, neanche se Pietro avesse loro strizzato l'occhio, come non la capì neppure papa Gelasio. Dante dunque ha capito il senso letterale del testo di Luca assai meglio dei suoi avversari, decretalisti e teologanti, e se non vi fa su dell'ironia , come quelli che ritenevano i « duo gladii »

(178) Dante Alighieri, Monarchia ... a cura di G. Vinay, cit., p. 246. ( 179) Il quale insiste sul significato delle due spade in p01111e8110 di Pietro nel De eccl. pot., I, cc. 7-9, II, cc. 5, 10, 13-15, ed altrove. Bisogna però riconoscere che, fra i domenicani, teologi come fra Remigio e lo ste11110 fra Tolomeo, sull'esempio del loro maggior confratello Tommaso, non attribuivano all'argomento delle due spade il significato e la forza probativa che per altro ad el80 attribuiva il domenicano frate Guido Vemani da Rimini, nel suo commento alla bolla Unam Saru:tam ( edito dal Grabmann, Studien ilber den Einflw,, cit., pp. 151-153). Ma più tardi ,anche il Vemani, nel De reprobatione Monarchiae, non pare abbia nulla da opporre alla critica• che Dante fa dell'argomento. (180) Summa ,up. tit. Decretalium, I, xv, 8. Cfr. Carlyle, op. cit., V, p. 329. ( 181) Mon., III, 1x, 2-8. ( 182) Maccarrone, ll terl/lo libro, p. 71 : « Con ben maggiore finezza aveva criticato l'argomento l'Olivi, che getta il discredito sull'allegoria ierocratica, . riferendo l'e,egeai di Beda, il quale aveva considerato come un'ironia del Signore la risposta data agli Apostoli: Sati, e,t ». Veramente l'Olivo non riporta solo questa interpretazione, ma altre due ( v. qui sopra, pp. 168-169).

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due grossi coltelli sufficienti « ad scindendum panes et cames, in mensa; ad hoc enim fuerunt et erant illi duo gladii hic » , è perché egli ha della lettera del testo sacro un rispetto maggiore di quel che non avessero i suoi avversari.

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Mi pare, da quanto abbiamo visto nelle pagine precedenti, che l'autore della Monarchia, nel rintuzzare i sofismi dei suoi avversari, e da lui stesso sappiamo chi sono, si sia rivelato assai più destro di loro nel maneggio delle armi dialettiche, e perfino più sensato interprete delle Sacre Scritture. Vediamolo ora alle prese con loro, che menavano vanto della Donazione di Costantino. « L'argomento - ammette il Maccar• rone - è discusso con impegno e passione, rappresentando una delle questioni dominanti il pensiero dantesco » >. Nel rispondere al glossatore delle Extravagantes, l'autore della Monarchia non dimentica quel che aveva detto nel Convivio, come vedremo, ma innanzi tutto egli lo richiama, ancora una . volta, alle regole dell'arte del loicare, che l'avversario viola troppo

( 23I) Ili. n. 5-6.

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spesso. D'acct>rdo, dice Dante, sul principio aristotelico che « ea que sunt unius generis oportet reduci ad aliquod unum de ilio genere, quod est metrum in ipso »; d'accordo altresì che « omnes homines sunt unius generis », e che perciò tutti gli uomini van ridotti « ad unum metrum in suo genere ». Ma quando da siffatto prosillogismo s'arriva a trarne la conseguenza che, non potendo il papa esser ridotto alrimperatore come a sua misura, è l'imperatore che dev'esser ridotto al papa come a propria misura, si commette il sofisma che i logici chiamano « secundum accidens ». Poiché l'uomo è uomo per la sua forma sostanziale, per la quale è posto nel « genere » o categoria della sostanza. Invece l'esser papa o imperatore è una circostanza accidentale che non modifica in niente l'essenza umana di colui cui è accaduto d'essere eletto papa oppure imperatore. Se di tutti gli esseri che sono in un « genere » o categoria v'ha da essere una misura comune, questa non può essere se non l'idea platonica, eterna perfetta e immutabile, che tutti i pensatori cristiani, da Agostino a Tommaso, avevano posto nella mente divina, e che Aristotele aveva trascinato giù dal mondo ideale per farne l'essenza propria degli esseri di quel particolare genere, dei quali si predica in senso univoco, non essendo suscettibile di « magis neque minus ». Ma com'è accaduto che da un concetto così semplice si è passati allo stravagante concetto, enunciato qui dal glossatore delle Extravagantes, ma proprio anche di taluni filosofi, che cioè in ogni genere di esseri possa, anzi debba, esservi un individuo da assumere come misura di tutti gli altri individui nello stesso genere? Credo che possa spiegarsi agevolmente. Quando Aristotele parla dell'unità presa come misura, egli intende prima di tutto, per sua esplicita dichiarazione, di quell'unità che è principio del numero e delle grandezze geometriche . Indi passa a parlare della misura del moto locale, ossia della velocità, del peso e della gravità. dei toni musicali, e dipoi delle qualità che s'avvertono coi sensi. Ma egli non si ferma qui, e pretende di estendere il concetto di misura alla sostanza

(235) MPtapli., X, r. I, 1052b 16-1053b 8 (t. c. 2-5).

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( oùatcx.) e alla natura (cpuo-Lç)propria di ogni gener~ e specie di esseri esistenti . Ma se la determinazione dell'unità di misura nel « genere » o categoria della quantità (1too6v) non presenta gravi difficoltà, e non è difficile trovare una determinata e particolare grandezza capace di misurare tutte le grandezze; non altrettanto agevole sift'atta determinazione è per la qualità, ossia per il « geper l'oùatcx.. nere >> o categoria del 1toi6v, e soprattutto Perciò Aristotele aveva detto che in tutti gli altri « generi » diversi da quello della « quantità » le determinazioni dell'unità di misura « son fatte ad imitazione» (µtµouv't'cx.L)di quella puramente quantitativa , lasciando in_tendere che non si può raggiungere la stessa matematica esattezza, ma ci si deve contentare di certa analogia. Inoltre, lo Stagirita aveva osservato che, poiché l'essere e l'uno non sono concetti univoci, ma si determinano variamente secondo il « genere » o categoria di esseri di cui son predicati, così l'unità di misura si prende in modo diverso nei colori, che son qualità sensibili, e nelle varie specie di sostanze . Nel caso presente, qual'è l'unità di misura della sostanza « uomo » e di tutti gli uomini che formano il genere o la specie umana? Aristotele esclude che quest'unità possa essere costituita dalla monade dei pitagorici o dall'idea separata di Platone, concepite come sostanze per sé stanti, anteriori alle sostanze particolari di cui si predicano . Per lo Stagirita l'unità di misura delle sostanze va cercata, pertanto, nell'essenza reale e concreta di ciascuna specie o classe di esseri nei quali l'universale platonico s'in• dvcx.i « uni esse id quod unicuique dividua: 't'Ò évì. etvcx.i't'ÒéxcxO"t'ci,> l'unità di misura in ogni cosa è l'essenza propria di eia• esse » , scuna cosa; la quale essenza o natura astrattamente considerata è, sì, un predicato universale, ma nella realtà è l'essenza o natura pro(236) (237) (238) (239) (240)

/b •. /b .• lb .. lh., lb.,

r. 2. 1053b 9. 1054a 12 (t. r. 6-7). c. 1, 1053 a 2 (t. c. 3). c. 2, 1053b 25-1054a 12 (t. c. 7). 1053 b 12 sgg. (t. c. 6-7). 1054 a 18 (t. c. 8).

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pria di ogni individuo appartenente a quella determinata specie di sostanze, come uomo, cavallo, ecc. Se non che, parlando delle sostanze composte di materia e di forma, come appunto son l'uomo, il cavallo, ecc., Aristotele aveva detto che la sostanza intesa j. E insieme all'individuazione renze individuali qualitative tra uomo e uomo. Sì che la misura dell'umanità, considerata in rapporto all'anima in se stessa, ci dà un'essenza identica per tutti gli uomini senza « magis et minus », ché altrimenti differirebbero di specie tra loro. Le differenze qualitative tra uomo ed uomo sono non di meno notevoli, anche senza tener conto di quelle fondate sulle convenzioni sociali, spesso in dispregio del « fondamento che natura pone » (3G). E poiché queste non derivano da « più e meno » della forma umana propria di tutta la specie, bensì dalle varie disposizioni della materia (lM.'!) alla quale essa s'unisce per formare il crovoÀov o composto umano, individuale, mi sembra che per fondare in qualche modo l'affermazione dei canonisti confutata da Dante, non resti altra via, se non di rifarci ai due luoghi della Metafisic~ ove lo Stagirita parla di quello che è « maximum in unoquoque genere » e che pertanto è quello che, in quel genere, ·dicesi « perfectum » perché ha raggiunto quel fine di cui (241) Metaph., VIII, c. 3. 1043 b 33 sgg. (t. c. 10); De Anima, II, c. 3, 414 b 20, 28 sgg. ( t. c. 30, 31). ( 242) Par., VIII, 143 (243) Metaph., VIII, c. 3, 1044 a 11 (t. c. 10).

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la sua natura è capace . Il « perfetto » in ogni genere dovrebbe essere appunto l'unità di misura degli esseri che appartengono a quel genere determinato. Di qui la pazza ricerca di un determinato individuo che. per il massimo grado di pe,:f ezione umana da lui raggiunta, sino a toccare l'estremo limite delle capacità umane, possa dirsi « misura » del grado di perfezione conseguita da ogni altro individuo « in genere hominum ». La spinta a siffatta ricerca l'aveva data però lo stesso Aristotele in tre luoghi dell'Etica nicomachea. Il primo è nel terzo libro (:H6). lvi è detto che l'uomo virtuoso, in quanto discerne meglio degli altri che cosa è bene e che cosa è male in ogni circostanza, può dirsi « quasi regola e misura di essi >i. Il qual concetto è ripetuto nel libro nono , ove la « virtù » e il . Anche Avicenna, alla fine della sua Metafisica , aveva ritenuto che il culmine della perfezione umana potesse essere raggiunto da un uomo che, in possesso delle virtù morali, abbia conquistato, per mezzo della sapienza speculativa e della copu1,atio con l'intelletto agente, la « felicitas » aristotelica, e che inoltre abbia meritato il dono della profezia: « In quocumque autem convenerit cum illis (honestatihus, cioè la temperantia, la fortitudo e l'equitas) sapientia speculativa, iam hic factus est felix; et cui cum hoc date fuerint proprietates prophetie, fortasse fiet deus humanus, quem licet adorari post deum, quia ipse [est] rex terreni mundi et est vicarius dei in ilio » . Per Avicenna, questo « deus humanus », questo « rex terreni mundi et . . . vicarius dei » non poteva essere che Maometto, il profeta di Allah, e i suoi _successori. Ma l'idea di un individuo umano perfettissimo che potesse costituire l'unità di· misura di tutti gli uomini, e al quale si potesse ridurre il « genus humanum >>,non dispiacque a fra Ruggero Bacone, il quale se ne impossessò e l'applicò, meno male, a Cristo . L'avversario di Dante l'applica invece al papa, come del resto avevano già fatto altri con grande disinvoltura. Il passo di Avicenna era ben noto a Dante, attraverso Alberto Magno ; ma egli non ne fa alcuna applicazione. Anzi, parlando nel Convivio della forma o essenza umana, come abbiamo visto, dice platonicamente che essa è « regolata >>ed « essemplata » sull'« essemplo intenzionale>> che è nella divina mente e, per quella, in tutte le altre. E sebbene anch'egli ritenga Aristotele « maestro e duca de la ragione umana >>, la cui autorità

( 250) Averr., Proemio alla Fisica. (251) Nel voi. degli Opera [philoaophica] ... per Canonicos [regulares Sancti Augustini, in monasterio divi loannis de Viridario commorantes] emendata. Venezia, eredi di Ott. Scolo, 1508, tr. X. c. 5, f. 109 vb. ( 252) Cfr. i miei Saggi di filoa. dant., cit., p. 73. ( 253) Cfr. Maccarrone, Vicariua Chriati, cit., p. 136, n. 86. ( 254) Cfr. i miei Saggi di filoa. dant .• I.e. ( 255) Conv., IV, VI, 8.

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è somma , si guarda bene dal farne l'unità di misura « 10 genere hominum ». Se questa unità di misura s'ha proprio da cercare in qualche individuo umano in cui la luce del « suggello ideale » che è nella mente divina sia parsa tutta, senz'alcun difetto, questo per Dante non s'è verificato se non in due soli casi: 1n Adamo e in Cristo . Nel luogo della Monarchia del quale ci occupiamo, Dante non ha affatto abbandonato questa idea platonica. Ma poiché lo avversario s'era fitto in testa che tutti gli uomini debbano ridursi « ad unum hominem », come ad unità di misura, e che quest'« unus homo» avesse ad essere il papa, egli risponde che quest' « unus homo», chiunque esso sia, dev'essere un « optimus homo» e possedere tal perfezione, da esser misura di tutti gli altri uomini e, per così dire, loro idea ( tanto· poco il Convivio era dimenticato), un uomo cioè che, al pari dell'idea, sia « maxime unum in genere suo », ché altrimenti ogni commisurazione o auµµe-rp(a. sarebbe impossibile, come si può ricavare dall'ultimo libro del1'Etica . Ma tutta questa disquisizione, se può interessare l'esegesi del pensiero filosofico di Dante per altri versi, è di mediocre unportanza per quello che eoncerne il suo modo di confutare di( 256) lb., 5 sgg. ( 257) Par., XIII, 52-87 ( 258) Mon., III, xn, 7. Il luogo dell'Eties, cui Dante rimanda, non credo sia quello del libro X, c. 5, 1176 a 16, già da me riferito qui sopra, ma piuttosto quello del c. 2, 1173 a 26, ove si dice appunto che certe qualità, come la sanità e la bellezza, per essere ora intense ora più rimesse, oBBia per andar soggette al più o al meno, non p088on servire come unità di misura di chiunque si dica sano e bello, perché non sono unità fì1111e e invariabili: « Non enim eadem commensuratio in omnibua, neque in eodem una semper ». Allo steBBo modo, nel libro V, c. 8, 1133 b 15-27, per la giustizia degli scambi, Aristotele aveva indicato nella moneta la misura del Til• lore delle merci che rende poBBibile la loro « commisuratio •· Che poi siffatta e com• misuratio » non sia po88ihile se non per rapporto ad una unità fì888, certa ed omogenea, egli dice diffusamente nella Metafùica, X. c. 1, 1052 b 16 • c. 2, 1054 a 19 ( t. c. 2-8). Per quel che riguarda la frase di questo luogo della Monarchia: e homines hahent reduci ad optimum hominem qui est mensura omnium alioru.m et ydea, ut dicam, quisquis ille sil », si ricordi la frase della stessa Mon., Ili, xv, 3: • Forma autem Ecclesie nihil aliucl est q~am vita Christi . . . Vita enim ipsius ydea fuit et cxemplar mìlitantis Ecclf'~if' ... 11.

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rettamente l'argomento dell'avversario. Egli ha visto acutamente dove s'annida il sofisma del canonista. Molto grossolanamente questo ha confuso tra lo sostanza dell'uomo e due relazioni accidentali, come quelle dell'esser papa oppure imperatore, che non modificano la natura sostanziale de1l'uomo in quanto tale. Il sofisma del canonista è dunque quello che Pietro Ispano , d'accordo con Aristotele. aveva chiamato « fallacia accidentis ». L'imperatore invero non è imperatore per il fatto d'essere uomo, e nemmeno il papa è papa in quanto uomo; ma l'uno è imperatore e l'altro è papa per due relazioni accidentali che s'aggiungono alla loro sostanza di uomini. Ora la relazione, o categoria delF « ad aliquid », è un « genus » diverso dal « genus » de1la sostanza. La dignità papale quanto la dignità imperiale sono due relazioni che si possono, sì, ridurre alla seconda specie dei «'relativa », che Pietro Ispano aveva chiamato « relativa secundum superpositionem » , cioè di superiorità, ma che in se stesse son diverse tra loro: poiché la dignità papale consiste nella superiorità che il padre ha &ul figlio, ossia in un rapporto di paternità; invece la dignità imperiale consiste nella superiorità che il sovrano ha sul suddito, ossia in un rapporto di dominio. Perciò queste due specie di «relativa» non possono ridursi l'uno all'altro, essendo la paternità e il dominio due rapporti differenti tra loro. Per ridurli all'unità bisogna risalire più su, cioè a Dio, che è nello stesso tempo padre e signore di tutti gli uomini. Dal che appare evidente, ancora una volta, che l'animo di Dante r.ifugge dall'attribuire al vicario di Cristo il titolo di sovrano. La regalità, per lui, spetta solo a Cristo; e il regno di Cristo « non est de hoc mundo », perché « Christus huius mundi regimen coram Pilato abnegavit » . ( 259) Summuuw, VII, 40 sgg. ( 260) lb., Ili, 19. (261) Mon., III, xv, 5. Veramente le edizioni, in omaggio al criterio democratico della maggioranza dei codici, leggono « huiusmodi regimen ». Ma il fatto che nealUn « regimen » precede, e che « regnum nostre mortalitatis » è troppo lontano, rende più verosimile la lezione del codice Bini e del Laurenziano 78, 1, che preferisco e che, del resto, è confermata dall'esplicito riferimento a Giovanni, XVIII, 36. Sul concetto del r,pporto di padre a figlio inter.cedeote fr, papa e. imperatore ritorneremo veno la fine.

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Tutto questo va tenuto presente, per intendere la soluzione finale del terzo libro della Monarchia che l'autore sta ormai per affrontare nei capitoli XIII-XVI. 10. Il nostro Maccarrone (2&2) sembra presentare gli argomenti dei tre capitoli XIII-XVI, come « tre argomenti contrari » ai precedenti in favore della tesi teocratica, a ciascuno dei quali Dante ha fatto seguire la risposta che meritavano; insomma questi tre argomenti contrari formerebbero una specie di « Sed contra )> o « In contrarium », come generalmente s'usava nelle « quaestiones »· del tempo di S. Tommaso. Ma verso la fine del secolo XIII e soprattutto nel secolo XIV la tecnica della « quaestio » s'era fatta assai più complessa; e Dante, sia nella « quaestio )> sulla nobiltà, che forma il quarto trattato del Convivio, come nelle tre « quaestiones » che formano i tre libri della Monarchi.a, mostra di uniformarsi a questa più complessa struttura tecnica. E che da questo punto, cioè dal capitolo XIII, cominci la vera e propria « solutio » della « quaestio » proposta nel terzo libro dell'opera, appare evidente dal modo come l'autore· inizii il discorso, che si estende fino al capitolo finale dell'opera, compreso: Positis et exclusis erroribus quihus pohss1me innituntur qui Romani principatus auctoritatem dependere dicunt a Romano Pontifice, redeundum est ad ostendendum veritatem huius tertie questionis, que a principio discutienda proponebatur; que quidem veritas apparebit sufficienter si, sub prefixo principio inquirendo, prefatam auctoritatem inmequi Deus est. Et hoc diate dependere a culmine totius entis oste~ro, erit ostensum vel si auctoritas Ecclesie removeatur ab illa, cum de alia non sit altercatio; vel si ostensive probetur a Deo inmediate depen2113 dere < >.

( 262) Il terzo libro, pp. 97 e 112. ( 263) Mon., Ili, xm, 1. La dimostrazione « ostensiva », cui qui s'acct'nna, eari data appunto nel capitolo finale dell'opera. t utile osservare la stretta analogia tra lo sviluppo e la tecnica della « quaestio • del terzo libro della Monarchia e quella della nobiltà che forma il quarto trattato del Convivio.

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E per dimostrare appunto che l'autorità dell'Impero non è conferita a questo dalla Chiesa, si serve di questo argomento: - l'Impero c'era ed aveva tutta la sua virtù, « habuit totam suam virtutem », quando la éhiesa non c'era ancora; perciò della virtù e dell'autorità dell'Impero non è causa la Chiesa -. Insinuando che questo argomento non è altro che il primo dei Sed contra, favorevoli alla tesi di Dante, sì, ma insomma altra cosa da questa, il Maccarrone palesa ora il suo vero intento, che è quello di sgravare l'autore della Monarchia di « uno dei migliori argomenti che i teorici dell'impero opponevano agli ierocratici >>_ E ricorda in proposito l'affermazione di Uguccione: « Ante fuit imperator quam papa, ante imperium quam papatus » , ripetuta più tardi dal teologo parigino Gerardo d'Abbeville e da fra Remigio de' Girolami , ed energicamente rintuzzata da Egidio Romano (:118'1), nonché da Enrico da Cremona e:•>. Ma il fatto che un canonista come Uguccione si schieri dalla parte dei difensori dell'Impero nell'accogliere la tesi che l'Impero c'era prima del Papato, e gli accorgimenti dei decretalisti e di certi teologi per dimostrare che il sacerdozio è anteriore al regno, come aveva sentenziato Ugo da S. Vittore., non basta a scagionar Dante dalla sua affermazione, poiché questa non è semplice ripetizione, da parte sua, d'un argomento messo innanzi da tempo dai fautori dell'Impero, ma emerge dalla serrata dimostrazione del secondo libro della Monarchia, ove l'autore aveva provato che l'Impero romano non è affatto uno dei « magna latrocinia >> quali parevano a S. Agostino i « regna », che a favore di esso Dio aveva operato miracoli, che esso trae origine ( 264) Il ter:o libro, p. 98. ( 265) lb.; cfr. cod. Vat. lat. 2280, f. 87 ra. ( 266) Ms. cit., c. 28, f. 162 rb: ,, Quantum autem ad iuris peritos, hugo dixit quod papa habet potestatem a deo quoad spiritualia solus; imperator vero habet potestatem a deo solus quoad temporalia nec subest in eis pape. Prius enim fuit imperium quam apostolatus ». Remigio prende questa citazione non dall'opera di Uguccione, ma dall'Ostiense ( v. sopra p. 222, n. 145), il quale combatte l'opinione del pisano. ( 267) De ecci. pot., I, c. 5; II, r. 5 ( ove Egidio fa sua la tesi di Ugo da S. Vittore); III, ce. 1-2. ( 268) Scholz, Die P1tbli,:.ùtik, rit., pp. 461 e 467. 19

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da Enea ed è la prima ed unica Monarchia disposta da Dio per apparecchiare il mondo al dono della Redenzione di Cristo. Non dunque un semplice « Sed contra » nello svolgimento tecnico della « quaestio », mutuato dall'armamentario dal quale si solevano attingere gli « argumenta » pro e contro una tesi posta in discussione; ma fermo convincimento profondamente radicato e acquisito con lunghi e sottili ragionamenti. Le « fini distinzioni » dei grandi teologi di cui parla Mons. Maccarrone erano ormai, per Dante, solenni asinerie: « E oh stoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d'uomo voi pascete . . . » ! In particolare, tale doveva apparire a Dante la « fine distinzione» di Giacomo da Viterbo secondo il quale l'istituzione del potere civile « materialiter et inchoative » trarrebbe origine dal naturale bisogno di socievolezza asserito da Aristotel~ in principio della sua Politica, ma « perfective et formaliter habet esse a potestate spirituali que a Deo speciali modo derivatur ... » , la quale, oltre a sollevare l'intricata questione del rapporto tra natura e grazia, è stata escogitata allo scopo preciso di poter concludere alla soggezione del « regimen christianum » alla Chiesa. A questa « fine distinzione >il'autore della Monarchia oppone la categorica affermazione che « Ecclesia non existente aut non virtuante, Imperium habuit totam suam virtutem ». E non soltanto « materialiter et inchoative » ! L'Impero romano prima di Cristo aveva già, per Dante, « totam suam virtutem », e non era affatto quella cosa « imperfecta et informis » che pretendeva l'eremitano di Viterbo. La quale categorica affermazione, per altro, se resiste alla (( fine distinzione » di Giacomo, sarebbe vanificata in partenza dall'assai più abile trovata del nostro Don Michele, che si tratti, non d'un'affermazione di Dante, bensì del primo dei tre « Sed contra » che lascerebbero impregiudicata la soluzione del problema, rimandata al capitolo finale! Il secondo dei ),che cioè « virtus auctorizandi regnum nostre mortalitatis est contra naturam Ecclesie » . Anche a questo proposito egli torna a tirare in ballo la teoria

(278) ( 279) (280) (281)

Mon., III. XIV, 4-5. Il terzo libro, p. 106. V. sopra, pp. 222,23, n. 146. Mon., III, xv, 1.

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~ella « potestas indirecta » e cita un passo di fra Remigio de' Girolami già riferito nel suo volume V icarius Christi , senza accorgersi che il domenicano fiorentino non dice in sostanza né più né meno di quello che si legge nel De ecclesia.stica potestate di frate Egidio , divenuto vescovo di Bourges e ispiratore della Bolla Unam Sanctam. Quanto poi al luogo ove Dante, « dopo aver provato con il testo di San Giovanni che Gesù era alieno (sic) dal regno », chiarisce opportunamente: « Quod non sic intelligendum est ac si Christus, qui Deus est, non sit dominus regni huius, cum Psalmista dicat "'quoniam ipsius est mare, et ipse fecit illud, et aridam fundaverunt manus eius .... , », ha torto il Maccarrone di avvertire che « l'inciso qui est Deus, con la connessa citazione del Salmò 94,5, non significa che Dante attribuisca la potestà regale a Cristo solo in quanto Dio, come aveva insinuato Giovanni da Parigi con una pericolosa distinzione, ma serve a provare genericamente quella prerogativa di Gesù » (211t). H,a torto, dico, perché la dipendente « cum Psalmista dicat ... » è una causale introdotta a dimostrare per qual ragione è falso pensare che Cristo « non sit dominus regni huius »; e le parole del Salmista non posson riferirsi che a Dio. E che che bisogno c'era altrimenti di « provare genericamente» Cristo è Dio? Chi l'aveva messo in dubbio? Qui dunque è indiscutibile che Cristo è, per Dante, « dominus regni huius », ma solo in quanto Dio. Che poi sia da ritenere con fra Remigio e frate Egidio che Cristo sia « dominus regni huius » anche in quanto uomo, e che inoltre Dante abbia avvertito, nella distinzione di Giovanni da J>arigi, il pericolo che vi ha scorto l'occhio sagace dello stesso fra Remigio e quello non meno sagace del nostro caro Don Michele, è quel che mi sarebbe grato di apprendere da questo, con qualche espressione di Dante stesso atta a provarlo .. Per chiarirmene, sono tornato a rileggere il capitolo VII di questo terzo libro,

(282) Pag. 151; Il ter:w libro. pp. 109-110. ( 283) Parte III, cc. 2, 4 e 5. Ma si veda quanto (284) Il terso libro, pp. 110-111.

ho detto sopra, p. 230 s~g.

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ma non v'ho trovato nulla che confermasse l'affermazione del Maccarrone. Il quale tuttavia non par disposto ad attribuire « al papa la regalità di Cristo, voluta dagli ierocratici.», e loda Dante per avere avversato questa attribuzione « con termini di una grande precisione teologica » ( supposto, s'intende, che Dante si sia guardato bene dal contraddire fra Remigio per quel che riguarda la regalità di Cristo « secundum quod homo », negata da uomini « presumptione insani et carnalitate furiosi », come Giovanni da Parigi), e infine di aver formulato « l'espressione teologicamente assai felice: ut exemplar ecclesie, che introduce una necessaria distinzione » (finalmente!) « tra la potestà di Cristo e quella data alla Chiesa ». E trova che, dopo tutto, anche « Giacomo da Viterbo, pur mantenendo la dottrina ierocratica, ha una espressione simile nel capitolo che affronta l'obbiezione sollevata da Dante: "Licet Christus temporalem potestatem non exercuit, tamen eius vicarius exercere potest, quamvis exemplo Christi non debeat regulariter" » ! Dopo quello che è stato detto, mi sembrerebbe indelicato disturbare l'euforia dell'amico Mons. Maccarrone, il quale conclude l'esame di questi tre capitoli con la convinzione che, « come per altri punti dottrinali, le due posizioni in contrasto, se si portavano sul piano concreto, non erano così lontane come sembrava ... ». Piuttosto, mi chiedo, a proposito dell'espressione « ut exemplar », come mai egli, che pure ha rilevato la frase « ydea et exemplar militantis Ecclesie » come felice definizione della vita di Cristo in quanto « forma della Chiesa » , non si sia ricordato di una frase analoga nel capitolo dodici, 7, ove si legge che « homines habent reduci ad optimum hominem qui est mensura omnium aliorum et ydea, ut dicam », né là si sia ricordato di questo luogo del capitolo quindici. Tanto più che, qua e là, pare evidente che ydea abbia il significato di « modello ideale », ossia di « regola ed essemplo » come nel Convivio, III, v1, 5-6, e

(285) lb., p. Ili. (286) Man., III, xv, 3; Il ter:,;o libro, p. 109.

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DEL TERZO

racchiuda il concetto di « metrum » o « mensura biamo sinora avuto l'opportunità di fare qualche Ma a parte tutto questo, è certo che Dante scussione dei capitoli XIII-XV con queste precise

LIBRO,

ECC,

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» sul quale abrilievo (31'1). conclude la diparole:

Sufficienter igitur per argumenta superiora ducendo ad inconveniens probatum est auctoritatem Imperi i ab Ecclesia minime dependere (28B).

Dunque non si tratta dei consueti « Sed contra», racimolati nella pubblicistica precedente: poiché nello svolgimento di ciascuno di questi tre argomenti Dante s'è impegnato a fondo con un proprio ragionamento, sino a trarne la conclusione che abbiamo udito. E questa conclusione egli precisa e approfondisce nell'ultimo capitolo dell'opera, che il Maccarrone affronta forse un po' troppo alla leggera, suggerendo che solo in questo capitolo finale sia da cercare la « solutio » della terza « quaestio » discussa nel

( 287) V. sopra, p. 26b sgg. Cristo, in quanto Dio, è certamente re del c-ielo e delJa terra, perché a lui « data est omnis potestas in caelo et terra » ( Matteo, XXVIII, 18); ma in quanto « forma Ecclesie » ed « exemplar » della condotta di questa, " regni huius [mundi] curam non habet », perché, come Dante ha già spiegato più volte e ripeterà nel capitolo successivo, Dio ha demandato la cura del « regnum huius mundi » all'imperatore, che dipende immediatamente da lui e non da) papa. A meno che il Maccarrone non intenda di fare di Dio un sovrano costituzionale che « regna ma non governa »,' una specie di « roi fainéant », come gli ultimi sovrani merovingi, il cui maggiordomo esercitava per intero iJ polere sovrano. « Exemplar Ecclesie », in quanto • huius mundi regimen coram Pilato abnegavit », Cristo ha detto al papa: - Tu aei, sì, i) mio vicario come paslore della Chiesa che deve condurre le mie pecore a salvamento; ma della mia regali là tu non sei vicario, perché il mio regno non è di questo mondo. - E a render meglio la sua idea, Dante fa questo paragone. Pigliamo, dice, un sigilJo d'oro. L'oro, come si sa, è il più nobile dei metalli e, in quanto tale, è misura o metro della maggiore o minore nobiltà di questi. E supponiamo che questo sigillo d'oro dicesse: - Io non intendo affatto di esser misura « in aliquo genere ». - Questo non significherebbe affatto che l'oro di cui è formato il sigillo cesserebbe dell'e!lller « metrum in genere metallorum », ma soltanto che questo sigillo, per l'impronta che reca, non è più misura della nobiltà dei metalli, ma semplice marl'hio atto ad imprimersi in una materia che può esser metallica o no, purché sia capace d'impreMione. Mon., III, xv, 3-8. Così Cristo, come Dio, è certamente re anche di questo mondo, ma come forma della Chiesa, a cui ha dato norma con la sua parola e con l'esempio della sua vita, no. Lo capisce questo o no l'amico Maccarrone? ( 288) Mon., III, xv, 10.

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lii

terzo trattato dell'opera. Il che non par vero, poiché il capitolo finale s'apre proprio con la dichiarazione di voler completare il suo pensiero già espresso nella conclusione del precedente capitolo: Licet in precedenti capitulo ducendo · ad ineonveniens ostensum sit auctoritatem lmperii ab auctoritate summi Pontificis non causari, non tamen omnino probatum est ipsam inmediate dependere a Deo, nisi ex consequenti. Consequens enim est, si ab ipso Dei vicario non dependet, quod a Deo dependeat. Et ideo, ad perfectam determinationem proposive mundi Monarcam, inJiti, ostensive probandum est lmperatorem, mediate se habere ad principem universi, qui Deus est .

11. « Ostensive >>: cioè per mezzo di ragionamento diretto, che, movendo da determinate e appropriate premesse, conduca ad una sola e inequivocabile conclusione, che è quella che si cercava, senza bisogno di ricorrere ad argomentazioni ab assurdo o ducendo ad inconveniens o ad impossibile, come Dante sapeva dalle Summulae di Pietro Ispano e da Aristotele . Questa dimostrazione « ostensiva » era stata già annunciata, come abbiamo visto, in Mon., III, x111, 2. Ecco ora come Dante svolge questa « demonstratio ostensiva » nelle sue premesse e nell'apodittica e necessaria conclusione che a suo parere ne deriva. Premessa di questo ragionamento ostensivo è il sapersi che « l'uomo, unico tra tutti gli esseri, sta in mezzo tra le cose corrut-

( 289) lb., III, XVI, 1.2. ( 290) Ed. Bocheiiski, VII, 55. ( 291) Lo Stagirita parla spes.,o dei &:tx'tt.Xot oulloyioµot, che egli contrappone di solito ai oulloyi.aµot eL; ; tanto più che la natura angelica « communem habet cùm homine ultimi 6.nis consecutionem, ut ex superioribus patet », cioè da quanto lo stesso Aquinate aveva dimostrato nel terzo libro ( cap. 48), ove è detto che il fine ultimo dell'uomo, che « terminal eius appetitum naturalem >),non può esser raggiunto in questa vita, ma soltanto nella visione beatifica di Dio nell'altra. Dante invece dallo stesso concetto, che « homo solus in entihus tenet medium corruptibilium et incorruptibilium », pretende di trarre a fil di logica la conseguenza: « consequitur ut hominis duplex 6nis existat, ut . . . solus inter omnia entia in duo ultima ordinetur )>! Un maligno potrebbe ricordare che proprio Alano da Lilla, il quale aveva portato nella Scolastica cristiana questa « auctoritas )> del Liber de causis, aveva altresì avvertito che « auctoritas cereum habet nasum, idest in diversum potest flecti senMa noi preferiamo approfondire la ragione di questo sum » . dissenso fra Dante e Tommaso. Per quest'ultimo, come sappiamo, anima e corpo non sono unite nell'uomo come due sostanze incomplete che si completano a vicenda, ma l'anima intellettiva è unica forma dell'uomo, la quale dà a questo, non soltanto la razionalità, ma altresì la sensibilità, la vita vegetativa e perfino l'essere corpo e sostanza . E quando Dio infonde nell'uomo l'anima razionale, alla fine dello sviluppo embrionale, tutte le forme precedenti « si corrompono »l riassorbite nella potenzialità della materia. Non così stanno le cose per Dante. Come ho già dimostrato altre volte , questi sì nel Convivio come nella Commedia professa, sull'origine dell'anima umana e sull'unione dell'intelletto ( 297) De fide cath. c. haer., L c. 30 ( in Migne, P.L .. voi. 210, l'ol. 333); cfr. Baumgartner, Die Philos. des Alanw, cit., p. 100, n. 3. ( 298) Cfr. il mio saggio Anima e corpo nel pens. di s. Tommaso, nel voi. cit. di Studi di filo~. mediev., p. 175 sgg. ( 299) Mi limiterò qui a rimandare al mio voi. Dante e la cultura medievale, cit., pp. 260-283, allo studio La filosofia di Dante, nella « Grande Antologia Filosofica », cit., pp. 1180.90, e al voi. di Studi di f ilo11.mediev., cit., pp. 34,.58.

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Ili

al corpo, una dottrina che può qualificarsi semiaverroistica, perché della dottrina d'Averroè conserva alcuni motivi caratteristici~ e che è ricavata dall'opuscolo De natura et origine animae di Alberto Magno. Secondo questa dottrina albertina e dantesca, l'anima dell'uomo è tratta, per quel che concerne la parte vegetativo-sensitiva, strettamene legata al corpo, dalla potenza della materia ad opera dei vari agenti naturali della generazione; invece la parte intellettiva o, semplicemente, l'intelletto s'unisce alla parte vegetativo-sensitiva « dal di fuori », come aveva detto Aristotele, cioè per l'intervento del « motore del cielo » CD>) o « motor primo » . Ciò spiega perché qui Dante cita proprio il testo aristotelico del De anima: « et solum hoc contingit separari tanquam perpetuum a corruptibili », che era uno dei cavalli di battaglia dell'averroismo. L'immagine dell'orizzonte applicata ali'« uomo», come « medium duorum emisperiorum », va intesa pertanto così: l'uomo col corpo avvivato dalla parte vegetativo-sensitiva dell'anima partecipa della natura corruttibile; ma in quanto all'anima vegetativo-sentitiva Dio ha aggiunto l'intelletto, che è immortale, esso partecipa della natura incorruttibile. Tuttavia l'unione dell'intelletto alla parte vegetativo-sensitiva non è, per Dante, accidentale; ché anzi lo « spirito nuovo », spirato direttamente da Dio, « tira in sua sustanzia » la parte vegetativo-sensitiva che già attua l'embrione, e « fassi un'alma sola » che vive e sente e pensa cn>; talché Dante, come già Alberto, riterrà che quest'« alma sola» è veramente forma del corpo umano, come lo stesso Sigieri aveva finito per ammettere. Mi guarderò bene dall'affermare che tutto questo sia perfettamente chiaro e che basti a giustificare la prima premessa del ragionamento di Dante, che cioè nell'uomo si trovano unite due nature, una mortale, l'altra immortale. Tuttavia non può esservi dubbio che questo, e non altro, sia il suo pensiero dichiarato.

( 300) (301) di G. Getto. (:J02)

Conv., IV, XXI, 5. Purg., XXV, 70. Cfr. il volume di Letture danlesche. Firenze, Sansoni, 1958, pp. 513-515. Purg., XXV, 70-78.

Purgatorio,

a cura

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E poiché - egli continua - ogni natura è ordinata « ad ultimum quendam finem », se nell'uomo si trovan riunite due nature, parrebbe che di ognuna di queste dovesse esservi un fi.ne proprio, sì che quello dell'una non sia quello dell'altra. Ora che il fine ultimo Dante sapeva bene dall'Etica nicomachea , di ciascuna natura consiste nell'operazione propria di quella natura, che di questa costituisce la più alta perfezione fisica e morale. Sì che egli non esita a trarne la conseguenza che ben conosciamo, e cioè che l'uomo, « sicut inter omnia entia solus incorruptibilitatem et corruptibilitatem participat, sic solus inter omnia entia in duo ultima ordinetur, quorum alterum sit finis eius prout corruptibilis est, alterum vero prout incorruptibilis ». Nessun accenno, per ora, a quanto si legge alla fine del capitolo e dell'opera. E per toglierci ogni dubbio in proposito, Dante spiega che questi « duo ultima », ossia questi « duos fines » che « Providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos », sono la « beatitudo huius vite, que in operatione proprie virtutis consistit », e la « beatitudo vite eterne, que consistit in fruitione divini aspectus, aà quam propria virtus ascendere non potest nisi lumine divino adiuta ». Con l'accenno alla « propria virtus » dell'uomo contrapposta al « lumen divinum », la distinzione dalla quale piglia le mosse il ragionamento « ostensivo », che Dante sta sviluppando, si determina meglio e s'approfondisce. La distinzione della « duplice natura », per cui l'uomo « assimilatur orizonti », non è la semplicistica distinzione fra « corpo ed anima », fra natura corruttibile e natura incorruttibile, ma fra corpo vivente e sensibile al quale è unito come forma l'intelletto, e l'intelletto stesso che per sua natura trascende il corpo umano ed è capace di vita im-

( 303) Mon., III, xv, 6: « Et cum omnis natura ad uliimum quendarn /inem ordinetur, consequitur ut hominis duplex finis existat ». (304) Arist., Eth. nicom., I, c. 6, 1097b 22-10988 17, lez. 108 del comm. tomistico; dr. De caelo, II, t. c. 17, c. 3, 286 8 8; Metaph., IX, t. c. 8. 10508 21; Dante, Mon., I, Ili, 2-3; Com,., II, VII. 3-4; IV, vu, 10-15.

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mortale, separato dal corpo, ed elevato « lumine divino » alla visione beatifica di Dio. I « duo ultima » e le due beatitudini, quella « huius vite » e quella « vite eterne »l si riconducono dunque non alla distinzione fra anima e corpo, sulla quale tanto insistono i teocratici, bensì alla distinzione fra natura e grazia, tra ragione e rivelazione, tra vita in questo mondo e vita eterna. Che cosa sia la « propria virtus » e la propria operazione dell'uomo Dante ci aveva già insegnato nel Convivio ricalcando l'insegnamento d'Aristotele: È da sapere

che le cose deono essere denominate da l'ultima nobilitade de la loro forma; sì come l'uomo da la ragione, e non dal senso né d'altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l'uomo vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio : "Asino vive". Dirittamente dico, però che lo pensiero è propio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l'hanno: e non dico pur de le minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d'altra bestia abominevole .

Ma l'autore della Monarchia non si ferma qui; e dopo aver indicate le due « beatitudines » che costituiscono rispettivamente i « duo ultima » della natura e della grazia, si compiace di farci conoscere altresì i mezzi differenti per il conseguimento di ciascuna di esse: Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet. Nam ad primam ( cioè ad b. huius vite) per phylosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et inteUectuales operando ; ad secundam vero ( cioè ad b. vite eterne) per documenta spiritualia que humanam rationem transcendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes theologicas operando, fìdem scilicet, spem et caritatem.

( 305) Cont•., II,

VII,

3-4; cfr. ib., III,

11.

ll-16,

18; IV.

VII,

ll-15.

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« La fonte » di questa distinzione tra i « duo ultima » e le due « beatitudines » o « felicitates », afferma a questo punto con certa risolutezza Mons. Maccarrone, « è San Tommaso, in cui si ritrovano alla lettera le espressioni dantesche nello svolgimento della medesima idea generale » . Ma poiché egli attribuisce al Vinay il merito di avergli segnalato i due passi della Summa theol., I, q. 23, a. 1, e q. 62, a. 1, e del Vinay accetta l'interpretazione di questi due passi, non mi resta che rimandarlo alla lunga discussione che ho condotto su quest'argomento nello studio precedente c:m>. Piuttosto m'indugerei qui su alcune affermazioni dell'amico Don Maccarrone che mi pare vadano un po' meglio precisate e chiarite. La prima riguarda la ricerca del « principium inquisitionis directivum » di cui si parla in Mon., I, 111, ed alla quale ho già accennato più volte. Dice il Maccarrone, che Dante « ricerca .. quid sit finis totius humane civilitatis •·, individuandolo nella istituzione dell'impero ». Non ritengo ciò esatto. Il « finis totius humane civilitatis », nell'ordine puramente naturale~ è l'attuazione di tutta la potenza dell'intelletto umano in ogni momento; come il fine soprannaturale dell'uomo è la « fruitio divini aspectus ». Al raggiungimento dei quaÌi due fini, prima del poccato originale, non erano necessari né l'Impero né la Chiesa, che, come abbiamo visto , sono entrambi « remedia contra infirmitatem peccati », ossia « emplastra » che il pietoso medico ha applicato all'uomo « vulneratus in naturalibus » e « destitutus supernaturalibus ». Impero e Chiesa sono due mezzi, nelle presenti condizioni dell'umanità, non due fini. Nello stato d'innocenza, i due fini, naturale e soprannaturale, sarebbero stati ugualmente raggiunti, senza l'Impero e senza la Chiesa. Ma quello che sarebbe accaduto nello stato di giustizia originale, se Adamo non avesse peccato, è ipotesi irreale che non. ( 306) Il terzo libro, pp. l 14-115, ove si legge altresì: « La concordanza dei testi è così chiara che non si può negare la dipendenza letterale di Dante dal grande Dottore ... » ! ( 307) V, sopra pp. 66-96 e specialmente pp. 92-96. (308) V. sopra pp. 190-192.

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può essere oggetto di storia, neppure di quella teologica, perché, . . . se ci fosse un paniere più grande del mondo, il mondo si petrebbe mettere proverbialmente in quel paniere. La dura realtà è un'altra: Adamo ha peccato e s'è trovato, lui e i suoi discendenti, « vulneratus in naturalibus »: e « spoliatus » o « destitutus gratuitis ». Le conseguenze del peccato pertanto sono di due specie: le une riguardano la natura umana che non è più quella che Dio aveva creato; le altre riguardano l'elevazione di essa alla vita soprannaturale. Queste ultime consistono nella perdita dei doni soprannaturali e nella dannazione eterna, sì che l'uomo non avrebbe più potuto godere della visione beatifica di Dio. Le prime, invece, che S. Agostino aveva ampiamente tratteggiate in un quadro dalle tinte piuttosto fosche, sono indicate da Dante nelle tre fiere simboleggianti la concupiscenza, la superbia e, peggiore di tutte, la cupidigia, la « cupiditas », la lupa « che mai non empie la bramosa voglia », la « maladetta antica lupa » dalla « fame sanza fine cupa », che ha invaso tutti gli uomini, ma in modo più scandaloso la gente di chiesa. La cupidigia ha spezzato il vincolo dell'umana « civilitas », che doveva tenere uniti tutti gli uomini nella pacifica cooperazione alla scoperta della verità, sì che tutta quanta la · potenza dell'intelletto possibile si trovasse in ogni momento attuata sulla terra. Per « rimediare » appunto alle conseguenze del peccato, sia a quelle che concernono l'ordine naturale, sia a quelle che concernono l'ordine della grazia, si rese necessaria l'istituzione di una « duplice guida >4;l'una per ricondurre nel mondo pace e giustizia, sì che l'uomo potesse attendere al raggiungimento della « beatitudo huius vite »; l'altra per diffondere tra gli uomini la parola rivelata, amministrare i carismi sacramentali e distogliere i credenti dai beni terreni, indirizzandoli, con l'esempio di una vita povera, al conseguimento della « beatitudo vite eterne »: Has igitur conclusiones ( cioè le due beatitudines) et media, licet ostensa sint nobis hec ab humana ratione que per phylwophos tota nobis inn-0tuit, hec a Spiritu Sancto ... , humana cupiditas postergaret

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homines, tanquam equi, sua bestialitate vagantes « in camo et freno » compescèrentur in via. • Propter quod opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem finem: scilicet sQmmo Pontifice, qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam eternam, et Imperatore, qui secundum _phylo!wphica documenta genus humanum ad temporalem felicitateip. dirigeret. msi

Per il Maccarrone non solo è ~rfettamente « tomista » la dottrina dei due fini qui esposta da Dante, ma essa « era già stata valorizzata dai teologi ierocratici, in particolare da Giacomo da Viterbo ... » (lKIII). Tuttavia egli non può fare a meno di rico• noscere che la distinzione e indipendenza dei « phylosophica do'!umenta » dai « documenta spiritualia » « è molto netta ». Tanto netta; aggiungo io, che, mentre Giacomo da Viterbo e lo_ stesso Tommaso avevan finito per trarsi d'imbarazzo, col subordinare i primi ai secondi, e da questa subordinazione avevan dedotto la subordinazione del potere civile a quello ecclesiastico, Dante, al contrario, da quella « molto netta » distinzione deduce a fil di logica, con perfetta coerenza, un 'uguale e « molto netta » distinzione e indipendenza dell'Impero dalla Chiesa. Ma l'amico Maccarrone, persuaso che Dante abbia attinto a San Tommaso la distinzione della doppia beatitudine, non è d'accordo con me sul rigore logico di questa deduzione dantesca, e c'invita a non dimenticare che la « molto netta » distinzione e indipendenza dei « documenta phylosophica » dai « documenta spiritualia » « è tutta in funzione della distinzione e del parallelismo tra imperatore e papa, in cui termina il ragionamento di Dante». Non so se se ne renda conto, ma egli in sostanza fa all'autore della Monarchia il non lieve torto di aver poste certe premesse in funzione della conclusione che voleva trarne. Cosa direbbe Monsignor Maccarrone se noi facessimo a San Tommaso, a Giacomo da Viterbo e a lui stesso questo rimprovero? Ad ogni modo è certo che l'accordo tra Dante e San Tommaso, dato per indubitabile, s'è rivelato a questo momento illusorio.

( 309) Il terz.o libro, p. 116.

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Dante è certamente d'accordo con S. Tommaso nel distinguere una « beatitudo huius vite >> dalla « beatitudo eterna ». Ma il Maccarrone non pare accorgersi che questa distinzione è ammessa dagli stessi averroisti cristiani, i quali non si sa ( almeno a me non consta) che abbiano mai negata la beatitudine dell'altra vita. La differenza fra San Tommaso e gli averroisti consiste in questo. Gli averroisti si mantenevano sul puro terreno della filosofia aristotelica come l'aveva esposta Averroè, ossia della ragione umana « que per phylosophos tota nobis innotuit », come dice appunto Dante. Essi non negavano che, oltre alla « philosophia », ci fosse la rivelazione cristiana; si proclamavano anzi cristiani. Ma come filosofi e posti sulla cattedra a· esporre il pensiero del « Filosofo » era stato perfino loro interdetto di ~ccuparsi di teologia. Con Alberto Magno essi ripetevano: « Nihil ad me de Dei miraculis, cum ego de naturalibus disseram ». Con la rivelazione s'esce fuori dell'ordine naturale e s'entra in un ordine soprannaturale, nell'ordine di quello ch'essi con Alberto. chiamavano « miracolo ». Tenendosi entro limiti ben determinati, che son quelli della ragione umana « que per phylosophos tota nobis innotuit » ( e quel tota dice ... tutto!), essi, senza invadere il seminato dei reverendi teologi, ma tenendosi stretti ad Aristotele, cercavano di stabilire qual f9sse il fine naturale dell'uomo in questa vita: e chi fece consistere la « beatitudo » che l'uomo poteva conseguire con le sole sue forze nelle scienze speculative, e chi invece fece delle scienze speculative la condizione per giungere alla « copulatio » dell'« intelletto possibile » con l'« intelletto agente » . San Tommaso invece è prima di tutto teologo, e a far della filosofia è spinto dallo spirito apologetico di tutta la sua vasta opera, che mira a mettere in risalto l'incompiutezza della filosofia aristotelica e, nello stesso tempo, a volgerne, con sapienti accorgimenti, i principi fondamentali a vantaggio della fede, ~ì da fare

( 310) H. Denifle el É. Chatelain, Chartul. Univ. Par11.,I, p. 499. ( 311) Si veda il mio voi. di Saggi sull'arilltotelismo padovano, cit., pp. 12i-H5, 212-229, 306-311, 349-441.

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dell'aristotelismo quasi una propedeutica al cristianesimo, e di questo quasi il naturale complemento di quello. Quella « molto netta » distinzione e indipendenza dei « documenta phylosophica » dai « documenta spiritualia », che il Maccarrone vorrebbe spiegare per mezzo d'un elemento irrazionale penetrato nella trama logica della dimostrazione « ostensiva » dell'ultimo capitolo della Monarchia, sì che Dante avrebbe accomodate le premesse del suo ragionamento « in funzione » della conclusione che egli voleva raggiungere, mi pare si possa intendere molto più agevolmente e onestamente coll'influsso esercitato sul suo pensiero dall'averroismo, durante le meditazioni filosofiche delle quali sono numerose e sicure tracce nel Convivio e nello stesso primo libro della Monarchia, là dove si cercava un « principium inquisitionis directivum » che dovesse estendersi a tutta l'opera e orientarla. Questa influenza avverroistica sulla mente di Dante è stata da me ampiamente documentata,. qui e altrove , con numerosi riferimenti ad alcuni scritti di Alberto Magno, il quale ha di fronte all'averroismo un atteggiamento ben diverso da quello di Tommaso . Ed anche le critiche che il Maccarrone rivolge a Étienne Gilson su questo punto sono inconsistenti. Intanto egli comincia con una svista citando Summa contra gentiles, IV, 44, mentre il Gilson rimanda al libro III, 48, e poco prima aveva rimandato al c. 44 dello stesso libro. Poi, quando il Maccai:rone rimanda il Gilson ai due passi della Summa theologica tirati in hallo dal Vin,y, non s'accorge che, mentre Tommaso distingue il fine naturale dal fine soprannaturale, sempre poi sostiene, anche nella Summa theok>gica, non meno che nella somma Contra gentiles, che il naturale desiderio di conoscere non può essere naturalmente soddisfatto senza l'elevazione dell'uomo alla visione beatifica, cui l'uomo non può giungere senza la grazia. E così il fine naturale non può mai, per Tommaso, essere ultimo; ultimo è

( 312) ( 313) ( 314) ( 315)

V. sopra, pp. 37-96 e 201. Saggi di /iloa. dant., cit., pp. 69-78; Studi d{ f ilos. mediev., cit., pp. 34-68. Studi di /iloa. mediev., cit., pp. 105-159. Il terzo libro, p. 115, n. 3.

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.

sqltantQ, .per lui, il fine soprannaturale .. Ma poiché egli cita l'opera del Gilson, Dante et fu.,PhiJosphie,p .. 193, n. 2, Jà .dove il chiaro autore aff enna: « Ce que nous. n'avons pas réussi à trouver chez saint Thomas, c'es~ que l'homme ait un autre ultimum que la vis,on h,éatifique », ed es.prime l'avviso che « saint Thomas n'a jamais parlé de duo uùima, ni,. en ce sens, de duplex finis, mais sa doctrine en. exclut jusqu'à la .. possibilité », perché non coglie l'oc~asione per indicare al Gilson qualche testo in cui Tommaso dichiari che il fine naturale dell'uomo può essere da esso raggiunto, « en ~e sens » che sia veramente. ultimo, sì che il naturale desiderio resti per intero ap.pagato? Se non è riuscito a trovarlo un Gilson, dubito assai che vi riesca il nostro Mons. Maccarrone, il quale mi pare abbia del pensiero di San Tommaso una conoscenza non molto sicura. Un altro rimprovero egli fa al Gilson, di non avere cioè considerato « che Dante conclude la sua esposizione sulle due felicità nell'ultimo punto del capitolo, in cui riconosce la subordina:zione (la sottolineazione è del Maccarrone) della felicità terrena a quella celeste quodam modo ». Lasciamo andare la parola subordinazione che nel testo dantesco non c'è. Ma il concetto espresso nell'ultimo punto è introdotto coll'avvertimento al lettore a non prendere la precedente dimostrazione « ostensiva >i e la conclusione che ne deriva, « sic stricte . • . ut .Romanus Princeps in aliquo Romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodam · modo ad inmortalem f elicitatem ordinetur ». In che modo s:abbiano da intendere queste parole vedremo tra poco. Per il momento contentiamoci di constatare che la dimostrazione « ostensiva » e la conclusi~ne che ne ricava derivano tutta la loro forza dal rigore logico delle premesse. Se quella dichiarazione finale s'introduce neUe premesse, la conclusione che Dante ne ricava è nulla. A meno che, come vedremo, quella dichiara• zione. finale non. vada intesa in modo ben diverso .da come la intende Mons. Maccarrone. Il quale sul testo della A1onarchia, III, xvi, 9-10, che abbiamo riferito, fa anche un'altra osservazione che dirò a sorpresa. Dopo la constatazione della « molto netta » distinzione e indipendenza dei « documenta phylosophica n dai « documenta spiritualia », spie-

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gata non senza disinvoltura, come abbiamo visto, egli nota che Dante « non si ferma sui· documenta filosofici. e spirituali di cui più ampiamente tratta nel Convivio » ,ma passa a parlare della cupidigia umana che avrebbe ·finito per buttarsi dietro le spalle gli uni e gli altri, « nisi homines, tanquam equi, sua hestialitate vagantes •·.in camo et freno •· compescerentur in via ». L'osservazione che ci .coglie di sorpresa è questa : Queste espressioni valgono, di per sé, solo per l'imperatore, poiché indicano la potestà coercitiva che è esclusiva dell'autorità secolare ; ma vengono attribuite genericamente ai due poteri per quell'assimilazione dell'uno all'altro, caratteristica di Dante e della pubblicistica su papato e impero ... Dante applica ad ambedue i poteri ciò che era proprio di uno solo, come aveva fatto nel capitolo quarto a proposito dei remedia infirmitatis, per giungere alla formulazione del parallelismo delle due autorità, che più gli premeva : « Propter quod opus fuit homini duplici directivo ..• >>.

Veramente la necessità del « duplex directivum » è dedotta ), come abbiamo visto . (319) ( 320) ( 321) ( 322) ( 323) ( 3241

Com,., IV, n·, 8 . v. 9. Mon., I, XVI, 2. Mon .• I, 11, 3 l ~«>C'ondotutti i C'odi('i: v. qui sopra, p. 222. n. IH) Mon., III, 1. 5. Man .. li, 1. 3. Mon .. III,

xv, I sgg.

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ECC.

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E in quanto l'imperatore . è stato .immediataqiente investito da Dio di tutta. l'autorità e di tutto il potere per condurre gli uomini alla « beatitudo huius vite », entro i limiti e secondo le norme della filosofia e della ragione umana; anch'esso è vero vicario o ministro di Dio nell'ordine naturale., mentre il papa lo è nell'ordine soprannaturale della grazia. Se non che il Maccarrone, · che è autore del volume lateranense V icarius Christi. Storia del titolo papale, già più volte citato, sembra non riesca a capacitarsene, e muove appunto al Gilson per aver definito « l'imperatore dantesco " vicario di Dio nel temporale ", espressione e concetto da cui il poeta si è tenuto volutamente lontano nella Monarchia » . Ma per quel che riguarda l'espressione ( quasi che « Dei minister », Ep. VI, 5, VII, 8, anzi « Unctus », Mon., II, 1, 3, fossero poco), rimando a quanto ho detto sopra a p. 221, n. 145; per quanto poi concerne il concetto, se non bastasse quanto se n'è detto, Dante se n'è tenuto sì poco lontano (lascio all'amico Maccarrone la responsabilità del suo « volutamente »), che egli continua il discorso sulla necessità delle « due guide » con questa curiosa considerazione: E siccome la disposizione di questo mondo quaggiù è il risultato della disposizione connessa al circolare dei cieli (DI), perché utili ammaestramenti- se ne traessero a pro' della libertà e della pace, da adattare come si conviene ai luoghi e ai tempi (i27), era necessario che di chi governa il mondo terreno si prendesse cura Colui che la totale disposizione dei cieli ha presente in un solo intuito. Or questi è solo Colui che l'ha preordinata, in modo che, provvedendo da sé, ha legata ciascuna cosa entro i propri termini .Se così stanno le cose, Dio soltanto lo elegge, lui soltanto lo conferma, poiché non v'ha altri, dopo Dio, che gli sia superiore.

J:

( 325) Il terzo lil,ro, p. JI 5. alla lìnr della n. ( 326) Cfr. i miei Saggi di filos. dant., dt., pp. 124-127. ( 327) Cfr. Mon., I, XIV, 4-7, e il mio voi. Nel mondo di Dante, cit., p. 100. ( 328) Ciò che non può tlirsi de~li astrologi~ che pure principi e alti prelati solevano tenere in gran conto. e neppure del « vicarius Dei in spiritualihus », selihene alcuni secoli più tardi papa Barherini s'adoprasse a impedire che fos.~e eretto un monumento a Galilei in S. Croce a Firenze, perché questi con la falsa dottrina del moto della terra avc\·a " universalmentt' scandalizzato il rristianesimo » !

300

SAGGIO

lii

E i sette principi elettori? Non sono affatto elettori, ma semplici « denuntiatores divine providentie », quando, non ottenebrati « nebula cupiditatis », riescono a mettersi d'accordo fra loro. E la conferma papale? Pare che Dante non sia disposto a ridurre Dio al rango di un tardo re merovingio che, per essere re, era re sicuramente, ma mica poteva fare quel che gli pareva, senza il benestare del suo maggiordomo. Non so poi se, mentre accennava alle discordie fra i principi elettori per la designazione del « re dei Romani » « promovendus in imperatorem », come si esprime Bonifacio VIII nella famosa Allegatio del 1303, Dante pensasse a molte turbolente elezioni papali del medio evo, nelle quali la « nebula cupiditatis » aveva impedito a lungo di discernere « divine dispensationis faciem ». Ma checché sia di ciò, non v'è traccia in tutto questo discorso, né in tutto il terzo libro della M onarch~ del quodom modo finale cui si appiglia con tutte le forze il Maccarrone. Perciò Dante va diritto al segno che s'era prefisso, ponendosi la terza « quaestio » dell'opera, e cioè « an auctoritas Monarche dependeat a Deo inmediate vel ah alio (o ah aliquo) Dei ministro seu vicario >~ e la risolve senza riserve : « Sic ergo patet quod auctoritas temporalis Monarche sine ullo medio in ipsum de Fonte universalis auctoritatis descendit ». E chiude la sua dimostrazione con la consueta cadenza ritmica, che pone fine al terzo libro .

12. Il « quodam modo » vien dopo. Dopo quanto? Certo dopo che alla mente di Dante s'affacciò il dubbio che forse le sue parole avrebbero potuto esser fraintese. E appunto per chiarire entro quali limiti la soluzione dell'ultima questione è vera ( que quidem veritas ultime questionis ...), introduce il « quodam modo». Per dar ragione di questo « quodam modo », il Maccarrone cita quattro passi di autori assai diversi, che val la pena di esami-

( 329) Mon., III.

XVI,

15.

INTORNO

AD UNA NUOVA INTERPRETAZIONE

DEL TERZO

LIBRO, ECC,

301

nare per vedere fino a che punto gettano qualche luce sul pensiero dantesco. Ma prima occorre tener presente il testo finale della Monarclùa. Ritornando su quello che era l'intento dell'opera, l'autore si dichiara soddisfatto nella fiducia d'aver toccata la mèta che s'era proposta con la soluzione delle tre « quaestiones » discusse e risolte rispettivamente nei tre libri di cui l'opera si compone. E per quel che riguarda le prime due niente ha da chiarire; neppure l'audace affermazione che è oggetto dell'ultimo capitolo del secondo libro: « Si Romanum lmperium de iure non fuit, peccatum Ade in Christo non fuit punitum »! Un chiarimento invece ritiene opportuno aggiungere per quel che riguarda la terza questione, « an Monarche auctoritas a Deo vel ab alio c:i:.i> dependeret inmediate »: Que quidem veritas ultime questionis non sic stricte recipienda est, ut Romanus Princeps in aliquo Romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista f elicitas quodam modo ad inmortalem f elicitatem or«linetur. llla igitur reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitw filius debet uti ad patrem: ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre irradiet, cui ab lllo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator.

Come ho già detto di sopra , si può ragionevolmente pensare che, avendo scritto la M~narchia prima dell'elezione di Arrigo VII, com' ebbe notizia che tra il nuovo imperatore e Clemente V era intervenuto un accordo, Dante, sul punto di mettere la sua opera in circolazione, abbia voluto attenuare alquanto la risolutezza della conclusione cui era giunto nell'ultimo capitolo di essa, che senza dubbio è il più ardito di tutto il trattato, e senza mutare niente di quanto aveva scritto, abbia ritenuto bastasse avvertire il lettore di non volere accogliere quella deduzione « sic stricte » come suonano le parole. Ma riflettendo bene sul contenuto di quel chiarimento finale, si potrebbe anche trovarvi un altro significato ugualmente

( 330) Cfr. sopra, pp. 221,222, n. H5. (331) Cfr. sopra, pp. ll6-ll7.

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lii

plausibile. Siccome l'Impeto ·è associato alla Chiesa, per volere divino, nell'opera della Redenzione, preparando l'ottima disposizione del mondo alla discesa di Cristo in terra ( e questa idea è già chiaramente espressa nel quarto del Convivio), si può ben dire che « mortalis ista felicitas quoda~ modo ad inmortalem felicitatem ordinatur ». E allora che cosa può significare il « quodam modo »? Il « quodam modo » vorrebbe dir questo, che fine proprio ed ultimo dell'Impero, in quanto tale, è e resta la « beatitudo huius vite » per mezzo dei « phylosophica documenta », qual era prima di Costantino, « Ecclesia non existente aut non virtuante »; ma poiché Dio aveva altresì disposto di salvare l'uomo, destinandolo, per mezzo dei « documenta spiritualia », alla ., IV, v, 15.

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analogia col caso di Celestino. Piuttosto il Petrocchi s'è lasciato sfuggire l'occasione di fare una bella osservazione filologica. È noto che il Laurelli fa distinzione fra « rifiuto » e « rinuncia » o « abdicazione ». Qui Dante usa proprio il verbo « rifiutare » nel senso di « se dictatura abdicare » usato da Livio. Si dica altrettanto per l'esempio del Mangiadore. Chi gli vietava di rinunciare alla carica di cancelliere dell'università di Parigi e di ritirarsi in un chiostro? E del resto Dante non accenna mai a questa rinuncia. L'esempio invece di Pier Damiani è più delicato. Un vescovo non può da sé rinunciare alla diocesi di cui è pastore; ma può farlo, secondo le leggi canoniche, col consenso del papa il quale ha potere di scioglierlo dal vincolo che ad essa lo lega, come ·ha potere di sciogliere dai voti. Ma nel caso di Celestino, chi aveva questo potere sulla terra, se l'autorità papale scende direttamente da Dio? Questo il punto al quale non ha fatto attenzione il buon Petrocchi, e che suscitò l'aspra polemica de renuntiatione, nella quale intervennero canonisti e teologi. Gli avversari di Bonifacio puntavano proprio sulla tesi dell'invalidità della rinuncia dal punto di vista canonico e teologico. E siccome altri ritenevano che la rinuncia fosse canoni-camente valida, e si parlava della costituzione che Celestino aveva emanato a questo proposito, prima della rinuncia , nel primo memoriale dei Colonnesi, del 10 maggio 1297, si leggeva che l'abdi-cazione era invalida « ex eo quod in renuntiatione ip@ius multe fraudes et doli conditiones et intendimenta et machinamenta, et tales et talia intervenisse multipliciter asseruntur, quod, esto quod posset fieri renuntiatio, de quo merito dubitatur, ipsam vitiarent et redderent illegitimam inefficacem et nullam ». Troppe cose poi mi pare che il Petrocchi tenda a spiegare con la « smisurata passione politica » di Dante e col « sentimento d'amarezza e di rancore verso Bonifacio VIII>>. Ma di questo un po' più giù. Certo, l'episodio di Guido da Montefeltro è concepito secondo lo spirito della letteratura franco-colonnese. Ed è il più fosco episodio di tutta la Commedia, non tanto per il fraudolento ( 7) Cfr. SextWJ Decretai .• I. lit. 7, c. 1.

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IV

consiglio della vecchia volpe in abito di francescano, quanto per l'assoluzione che « lo principe de' nuovi farisei » promette d'un peccato non ancora commesso, e che egli anzi incita a commettere. Ho già detto altra. volta che, a spiegare quest'assurda assicurazione, non basta pensare eh.e chi narra il fosco episodio è l'anima dannata del Montef eltrese, ma si deve por m~nte alla bolla con la quale Bonifacio, nel bandire la crociata contro i due cardinali ribelli, asserragliati nella loro rocca di Palestrina, prometteva generale indulgenza dei peccati e dichiarava esser lecito uccidere e mutilare i ribelli e i loro seguaci. In questo episodio è proprio un esplicito accenno alle due chiavi che, dice Bonifacio, « 'l mio antecessor non ebbe care». Il Petrocchi osserva (p. 279) che il colloquio di Bonifacio con Guido, se illumina « la sinistra protervia del · pontefice, getta indirettamente e sia pur in forma appena appena sfumata una luce favorevole sull' " antecessore " che un uso così poco " spirituale ·· delle due chiavi non aveva saputo fare, e per non esservi costretto aveva preferito ripercorrere la via dell'eremo. Quale migliore occasione che questa, invee~ si poteva presentare alla fantasia di Dante: bollare Celestino V per bocca d'un altro papa ... ? ». Tutto ciò mi pare un fraintendimento. Le parole di Bonifacio: « le chiavi che 'l mio antecessor non ebbe care » suonano beffarda cinica ironia, qual si conveniva al « principe de' nuovi farisei >i! Altro che « forma lampante d'ossequio e di scagionamento ... » ! Eppure al Petrocchi sembra « indubitato che là dove meglio Dante poteva colpire, s'è rifiutato di farlo ».Il« gran rifiuto », invece di Celestino, l'avrebbe qui fatto Dante! Dante che pur sapeva che Bonifacio aveva occupato coll'inganno la sede papale! E ben sappiamo dalla letteratura franco-colonnese in che consistesse l'inganno attribuito al Caetani.

( 8) Il Pl'trocchi nella risposta a questa 011ervasione ( « Lettere ltal. •• IX, 1957, p. 242) mi fa notare che egli aveva dichiarato che le parole del Caetani • non si possono certamente accogliere ..• come una forma lampante» ecc., ma il grave è che questa interpretazione gli IIÌa pa88ata per la mente, e che egli ne sostenga una equivalente, su per giù, senza accorgersi del cinismo beffardo del veno: « che 'l mio antcce88or non ebbe care ».

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Ma c'è lo scoglio della canonizzazione di Celestino fatta ad Avignone, con grande solennità, da Clemente V nel 1313. Rispondo anch'io, com'è stato già risposto da altri, che nel 1313 l'Inferno, se non anche il Purgatorio, era già conosciuto da Francesco da Barberino, come ha dimostrato Francesco Egidi ,e quindi era già entrato in circolazione . E perché Dante, cattolico e fervido credente senza tentennamenti, conosciuta l'avvenuta canonizzazione, non corresse il luogo del canto IIT, se veramente aveva inteso di Celestino? Mi pare sia da scartare l'ipotesi, che pure al Petrocchi si direbbe sembri suggestiva (p. 280), che Dante, conosciuta la solenne canonizzazione, abbia eliminato il nome di Celestino, e si sia contentato di far di lui una specie di « innominato ». « Colui che fece per viltà il gran rifiuto » non ha nome, perché di lui e dei suoi compagni è detto: Fama di loro il mondo esser non lassa ... Non ragioniam di lor.

Non è certo da Virgilio che Dante ne apprende il nome. E se questi, al primo vederselo innanzi, sa chi era, parrebbe trattarsi di persona a lui nota o per conoscenza personale o per averne veduta l'immagine o per qualche segno distintivo che lo facesse riconoscere, come in disegni di taluni codici della Commedia, del secolo XIV, ove Celestino ha addirittura il frigio in testa. Del resto, l'averne taciuto il nome pare non abbia giovato a nascondere la vera personalità di lui, se tutti i primi chiosatori del poema sono stati unanimi nel ravvisare in « colui che fece per viltà il gran rifiuto» l'ombra di papa Celestino o Cilestrino. Il primo ad opporsi a questa interpretazione, che tuttavia attesta essere « communis et vulgaris f ere omnium opini o », è Benvenuto, ( 9) Studi Romansi, XIX ( 1928), pp. 135-162. ( 10) Il Petrocchi nella risposta a questa nota ( e Lettere Italiane », cit., p. 239), ,embra diMentire dall'Egidi, da me citato, e ritenere che Inferno e Pur1atorio non foeeero pubblicati e come edizione definitiva» se non dopo il 13H. t argomento 11111 quale mi sento impreparato, e perciò ho citato l'Egidi. Ma noto che la te1i 10stenuta dal Petrocchi non s'avvantaggia gran che da questa auppoaillione.

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perché gli doleva di vedere all'Inferno un santo canonizzato, e preferì mettervi Esaù . Questa appunto è la ragione dell'affannarsi che fanno, dopo Benvenuto, alcuni dantisti per cavar dall'Inf emo Celestino e trovar qualcuno che ne prenda il posto. Lo stesso Petrocchi, in aggiunta alla lista dei precedenti candidati ( Pilato, Esaù, Diocleziano, Romolo Augusto lo), ne suggerisce altri tre: Ottone III, Alfonso X di Castiglia, Venceslao IV di Polonia (p. 284). E, in fondo, per la stessa ragione dell'avvenuta canonizzazione. Bisogna perciò trattenerci alquanto sul fatto della canonizzazione. Ritengo anch'io assai verisimile che Dante, a un certo momento, avesse notizia della canonizzazione di Celestino, quando ormai l'Inferno era già in circolazione. Dante, dice il Petrocchi, non poteva, « sotto l'impulso di un rancore profondo, condannare all'Inferno un santo, o, se nel regno della dannazione l'avesse posto quandQ ancora era ignaro della proclamazione, tollerare che ci restasse » (p. 283). Per ragionare come ragiona il Petrocchi, bisognerebbe attribuire a Dante le convinzioni teologiche intorno all'infallibilità papale che hanno i teologi dopo la definizione dogmatica del Concilio Vaticano, o almeno dopo il secolo XVI. Quando egli dice che « il cattolico deve credere per fede ecclesiastica alla canonizzazione dei santi>~ dice cosa ben detta. Ma sa egli che cosa è la « fede ecclesiastica »? A differenza della fede divino-cattolica, la quale concerne le verità rivelate e quelle definite dal magistero infallibile del papa, la cui negazione implica per un cattolico eresia, la semplice fede ecclesiastica ha per motivo dell'assenso non la rivelazione divina, che non c'è stata, ma il rispetto e l'obbedienza da parte del cattolico alla suprema autorità della Chiesa; sì che la negazione delle verità che sono oggetto di fede ecclesiastica

( 11) Veramente il nome di Esaù era stato fatto da altri, ricordati dal Bol'caccio, ai quali era pano che Dante, ponendo all'Inferno un santo canonizzato dalla Chiesa, avesse commesso errore contro la fede. Pietro pensa che Dante intendeue di Diocleziano. La tarda reazione alla « communis et vulgaris fere omnium opinio », mentre ribadisce l'antichità di questa, ci rivela che la ricerca di un candidato a sostituire Celestino tendeva a dissipare dubbi sull'ortodossia di Dante.

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sarà peccato di ribellione o di temerità, ma non eresia che metta il credente fuori del corpo visibile della Chiesa. Questo insegnano anche oggi i teologi, i quali dicono che l'infallibilità papale nella canonizzazione dei santi è « dottrina comune e vera », ma non dogma di fede. Mi pare quindi che esageri il Petrocchi quando afferma, che a sostenere, col D'Ovidio, che una canonizzazione non è un dogma, « si scardina tutta la fede dantesca in tema di teologia dogmatica » (p. 281 ). Ma c'è l'autorità di S. Tommaso. Mettiamo pure. Sarebbe però sempre l'autorità d'un teologo, col quale è provato che Dante non va sempre d'accordo; per esempio, nell'episodio degli angeli « che non furon ribelli né fur fedeli a Dio ». Ma poi vorresti, caro Petrocchi, esser tanto gentile da indicarmi il luogo preciso della Summa theologica di San Tommaso, ove dici che « Dante trovava la soluzione del problema », che cioè « il cattolico deve credere per fede ecclesiastica » ( dunque non per fede divino-cattolica) « alla canonizzazione dei santi? » Io non son riuscito a scovarlo, perché ogni giorno che passa mi sento più somaro. Però ho la non comune fortuna d'avere tanti amici che me ne rendono accorto. Io conosco, sì, l'articolo 16 del nono Quodlibetum, scritto assai prima della Summa; ma in esso Tommaso usa un linguaggio assai più guardingo. Egli distingue il giudizio «eorum qui praesunt ecclesiae » su ciò che concerne la fede « de necessariis ad salutem >>1,dalle sentenze « quae ad particularia facta pertinent ». Nel primo caso egli ritiene indubitato che « iudicium universalis ecclesiae errare in bis quae ad fidem pertinent, impossibile est». Invece, l'errore è possibile nel secondo caso « propter f alsos testes ». E conclude: « Canonizatio Sanctorum medium est inter haec duo. Quia tamen honor quem Sanctis exhihemus, quaedam professio fidei est, qua Sanctorum gloriam credimus, pie credendum est, quod nec etiam in bis iudicium ecclesiae errare possit ». Dunque non dogma di fede, sihbene « pia credenza », il contrario della quale non è eresia, ma tutt'al più peccato d'irriverenza o di temerità. Il D'Ovidio e il Pietrobono sono perfettamente in regola non solo con la teologia dei tempi di Dante, ma perfino con quella posteriore al Concilio Vaticano.

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Il Petrocchi accennando agli aspri giudizi di Dante su Bonifacio VIII, par disposto ad accordare al poeta un generoso compatimento, in ragione '"della « smisurata passione politica » (p. 279), e dell' « umore » di lui (p. 277). Eppure in siffatti giudizi non c'è minore irriverenza che nel mettere all'Inferno un papa santificato da quel « pastor sanza legge », autore « di più laida opra » che non quella compiuta dallo stesso Bonifacio, da quel « nuovo Iasòn » destinato a esser « detruso là dove Simon mago è per suo merto », sì che« farà quel d'Alagna intrar più giuso». E prima di Bonifacio e di Clemente all'Inf emo, nello stesso cerchio dei simoniaci, aveva già messo Nicolò III; nel cerchio degli eretici papa Anastasio; e un numero imprecisato di « papi e cardinali » aveva messo dalla parte di coloro « in cui usa avarizia il suo soperchio », nel quarto cerchio. Non vorrà mica dirmi anche il Petrocchi, come il Poletto e il Cornoldi, che il « soperchio » dell'avarizia sia la prodigalità? Eppure nemmeno il Poletto e il Cornoldi, che a far di Dante quel che si direbbe un « paolotto » han fatto del loro meglio, si sono scandalizzati di riconoscere in Celestino V « colui che fece per viltà il gran rifiuto>~ spiegando la presenza di lui nell'antinf erno col fatto che Dante ignorava, quando scrisse il III canto dell'Inferno, la canonizzazione di Celestino, e che « spesso nei suoi giudizi si lasciava trasportare dalla passione ». Troppe cose, dicevo, mi pare si vogliano spiegare con la « passione » e con « l'umore » di Dante. Che Dante sia stato uomo di parte e che un tempo si fosse gettato a capofitto nella lotta politica del ·Comune fiorentino, è verissimo. Ed altrettanto vero è ch'egli a questa lotta aveva partecipato con tutta l'anima, opponendo a violente passioni di parte la sua non meno gagliarda e violenta passione. Ma che questa passione fosse proprio « indomabile», io non direi. E penso anzi che l'avesse già domata quando pose mano alla Commedia: domata poeticamente e moralmente. Per quel che riguarda il contrasto dei partiti in Firenze, egli era ormai fuor della mischia da un pezzo, e cioè da quando s'era separato dalla « compagnia malvagia e scempia », rinunciando a rientrare in patria con la violenza delle armi, ed era tornato invece a dedicarsi alla filosofia. Rimaneva sì il doloroso ricordo degli anni tempestosi, quando

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aveva corso rischio di veder « l'ultima sera >à, e quel ricordo era al presente acuito dalle sofferenze dell'esilio, mentre ègli era « portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade ». Ma nella meditazione .filoso.fica aveva trovato conforto alle sue amarezze, e dal molesto ricordo delle discordie fiorentine era giunto a scoprire il volto d'Italia. Più che a Firenze, il .filosofo-poeta guardava ora all'Italia, che nel Convivio, IV, IX, 10, gli appariva quasi « cavallo ... sanza lo cavalcatore », perché « sanza mezzo alcuno a la sua governazione ... rimasa ». E a placare la sua nuova passione politica che dall'Italia s'estendeva ormai ad abbracciare tutto il genere umano, si raccoglie a meditare sulla necessità dell'Impero per il raggiungimento della pace fra gli uomini, condizione indispensabile all'attuazione di tutta la potenza dell'intelletto umano. Nel Conviv'io come nella Monarchia, la passione politica è ormai domata dalla passione filosofica, tutta rivolta al problema morale della « beatitudo huius vite ». E questa stessa passione .filoso.fica sarà di lì a poco domata dalla passione religiosa, nella ricerca della « cagion che 'I mondo ha fatto reo ». La storiografia moderna ha fatto giustizia di non poche storture e falsità nel racconto e nei giudizi dei contemporanei intorno agli avvenimenti di cui spesso erano « magna pars » o che ad ogni modo essi valutarono troppo da vicino e con sentimenti non del tutto disinteressati. Ma la stessa storiografia moderna è ben lungi dal negare la lotta fra il Papato e l'autorità civile per il predominio, l'avidità di ricchezze e la cupidigia di potenza terrena che erano penetrate nella Chiesa con grave scandalo dei fedeli, e infine l'esistenza di un movimento riformatore, nell'orbita stessa dell'ortodossia cattolica, il quale propugnava il ritorno della Chiesa alla povertà evangelica. E che altro sonava la voce udita da frate Francesco nella cappella di S. Damiano: « Vedi, la mia casa va in rovina: vai e riparamela »? E ben lungi dal negare l'aspra lotta fra papa Caetani e i cardinali Colonna e la crociata bandita contro di questi, sì che le chiavi concesse a Pietro parean divenute« signaculo in vessillo Che contr'a battezzati combattesse», la nuova storiografia queste cose documenta, come documenta la « più laida opra >i della cattività avignonese, in atto quando Dante

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poneva mano alla Commedia, disgustato nel suo vivo e profondo sentimento di cristiano. La causa della riforma religiosa che Dante aveva ormai abbracciato, e la vivida luce che, al termine di intense meditazioni sugli avvenimenti degli ultimi anni, rischiarava il suo spirito, scopersero al suo giudizio (poiché di questo si tratta, e non d'altro), come a quello d'altri contemporanei, che Pietro del Morrone aveva deluse le speranze di rinnovamento spirituale che in lui troppi avean riposto. Non per deliberato proposito, certo, ma per fiacchezza di volontà, come quegli angeli di cui parla Clemente Alessandrino ► (pp. 277-284). Già: scelse di scappare; scelse... di non scegliere tra quelli che, come lacopone, avevano nutrito qualche fiducia in lui, e quelli che si opponevano a un cambiamento di rotta nel governo della Chiesa; si sentì inetto a scegliere tra le due opposte correnti. In questo suo fuggire consiste appunto la sua fiacchezza o addirittura pusillanimità, secondo il giudizio di Dante. Ho detto che lacopone era di quelli che avevano avuto qualche fiducia in lui. Ma la sua, più che fiducia, era, quando gli indirizzò la nota Epistola che si legge tra le Laudi , piuttosto trepidante attesa: Che farai, Pier da Morrone? èi venuto al paragone. Vederimo el lavorato, ché en cella hai contemplato: s'è 'l monno de te engannato, séquita maledezone •..

(12) Strom., VII, c. 7, ed. Otto Stiihlin, III, Lipsia 1909, p. 35, l-4. ( 13) Ed. F. Ageno, Firenze, Le Monnier, 1953, p. 210.

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E dichiarava d'essere stato in gran pena per lui, il giorno che aveva saputo com'egli, vecchio e debole, aveva consentito a caricarsi le spalle del grave peso di governare la Chiesa: Granne ho avuto en te cordoglio co t'escìo de bocca : « Voglio », ché t'hai posto iogo en coglio che t'è tua dannazione. Quanno l'omo vertuoso posto è 'n loco tempestoso, sempre el trovi vigoroso a portar ritto el gonfalone.

E dopo avergli dato buoni consigli per guardarsi dai mali che maggiormente affliggevano la Chiesa, lo ammoniva: se non ti sai scirmere, canterai mala canzone.

Prima assai che Dante lo ponesse tra gl'ignavi, fra lacopone gli aveva predetto la dannazione, se non fosse stato « vigoroso a portar ritto el gonfalone» nella mischia ove s'era cacciato. Tre anni dopo, il I O maggio 1297, egli era presente nel Castel di Lunghezza, insieme ad altri due francescani, alla stesura del primo memoriale, nel quale i cardinali Colonna denunciano il modo e i primi frutti dell'abdicazione di Celestino. Che farai, fra Iacovone? èi venuto al paragone. Fu&ti al monte Pelestrina anno e mezzo en desciplina; Loco pigliasti malina, donne hai mo la prescione ...

Colonnesi, Caetani, Celestino V, Palestrina, Anagni, Fumone: siamo in piena Ciociarìa. E delle forti passioni dell'anima ciociara sembra colorirsi la cronaca locale entro il grande quadro della lotta per la riforma della Chiesa che occupa per intero la visione dantesca.

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Non una vaga .Non ribelli dunque a Dio per deliberato proposito, ma neppur fedeli, per spirito di gregari, come tutti i gregari di tutti i tempi, giacché gregario, come ben sappiamo per dolorosa esperienza umana, deriva etimologicamente da gregge: « Uomini siate e non pecore matte ... » ! Nell'altra redazione principale della leggenda di S. Brandano, l'incertezza di una schiera di angeli di fronte alla ribellione di

(23) Ecco il testo pubblicato dal Waters, The Anglo-Nornum Yoyage, cit., p. 30: « Angeli sumus, et cum ilio de celo cecidimus, qui, superbia propria devictu!!, cum infinitis socii!I ruinam pa88UI est, quorum magister et pastor fuerat, quosque pro sapientia eius magna virtute Dei instruere tenebatur. Set superbia commotus, virtutem in vitium redigens, ex Lucifero Letifer dictus. Domini sui verbum conlempsit. Nos autem postea ei, sicut et prius, paruimus; ideoque eiecti sumus. Set quia illiw rei perpetratores non fuimus, virtute Dei penis non affligimur, sicut et illi qui secum superbia commoti sunt. Nullius boni carentiam habemus, nisi quia maiestatem Domini non videmus nec presentiam nec in conspectu eius gloriam ». Tutti gli altri codici e traduzioni della leggenda ci offrono a questo punto un testo inintelligibile, con varianti che attestano lo sforzo sostenuto dai vari estensori per attenuare il consenso di questi angeli, che peccarono solo per debolezza, alla ribellione di Lucifero. ( 24) Questa speranza di perdono da parte della misericordia di Dio è chiaramente accennata nelle redazioni fiamminghe pubblicate dal Boneballer e in quelle tedesche edite da C. Schroder, e riappare nel poema di Wolfram von Escbenbach ( IX, ll55-69), sebbene poi il monaco Trevrizent ( XVI, 341-60) dichiari illusoria tale speranza. Cfr. W. J. Schroder, Der Riuer zwischen Welt und Got, Wf'imar 1952, pp. 261-263.

GLI ANGELI

CHE

NON FURON

RIBELLI.

ECC.

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Lucifero e dei suoi seguaci è assomigliata piuttosto al dubbio di S. Tommaso apostolo di fronte alle apparizioni di Cristo risorto. Quanto poi alla leggenda del San Gral, anche nel poema di W olfram von Eschenbach la così detta neutralità degli angeli che portarono dal cielo sulla terra il prezioso tesoro affidato alla loro custodia, sembra ugualmente che sia spiegata per mezzo di un dubbio, z:wivel, dovuto a incertezza delle loro facoltà cono.scitive, la quale si ripercuote sulla loro volontà e sul loro sentimento, e genera una specie d'infedeltà che non è propriamente ribellione .Questo modo d'intendere il dubbioso contegno di ,questi angeli ci obbliga a ritornare alla pc.f-8-uµ(ocdel testo di Clemente Alessandrino. Molto s'è scritto su questo argomento, fino alla recente opera di Peter W apnewski , il quale, nell'intento di mettere in evidenza gli elementi religiosi e metafisici che la leggenda contiene, è indotto a ripensare a ignote fonti che forse ci obbligano a risalire allo gnosticismo. Se non che tutte queste leggende, per la loro derivazione da .antichi miti, che i Padri della Chiesa, dal quinto secolo in poi, .avevano considerato estranei al pensiero cristiano, ·erano, ai tempi di Dante, in netto contrasto con l'insegnamento teologico, particolarmente con quello di Tommaso d'Aquino. Dal quinto secolo in poi il Libro di Henoch è riconosciuto .apocrifo, e perde ogni ascendente sul pensiero dei Padri; i quali, respinto il mito del commercio degli angeli con le figlie degli uomini, affermano la pura spiritualità delle sostanze angeliche, ,cui attribuiscono solo memoria, intelligenza e volontà. Non negano ( 25) E. Martin, W olframs van Eschenbach Parzival und Titurel. Zweiter Teil: Commentar. Halle 1903, Einleit., p. XLIV, par. 6; p. 362 nota a 471, 23, I. IX, v. 1163 del poema di Wolfram edito dal Bartsch; W. P. Kar, The craven angeù, in • The mod. language Review », VI ( 1911), pp. 85-87; K. Bartsch, W. v. E. Panival u. Titurel. 4a ed. rimaneggiata da Marta Marti, Leipzig 1935, I parte, p. XXXVIII dell'Introduzione; indi la nota al primo verso del primo libro, sulla parola « zwivel »; B. Mergell, W. v. E. und seiM franr.osuchen Quellen, li. Teil Wolfram.8 Parzival. Miinster in W. 1943 ( nelle « Forschungen zur deutsche Sprache u. Dichtung », XI), pp. 194, 198 sgg., 201-203. (26) P. Wapnewski, Wolframs Parzival. Studien :dUr Religiositat und Form. Heidelberg 1955, pp. 177, n. 17; 196, n. 92; 182 e 188.

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però ad esse la facoltà di dubitare e di cedere alle seduzioni del male e di commetter peccato; ma solo peccato d'ordine intellettuale. Una violenta scossa questa angelologia dei Padri ebbe a subire alla fine del secolo XII e nel secolo XIII, con l'introduzione nell'Occidente latino della Metafisica aristotelica. Aristotele non negò l'esistenza degli dèi celesti della mitologia popolare; ma ne ridusse il numero, ne fece delle pure sostanze intellettuali, subordinate al Primo motore dell'universo, separate da ogni materialità, eterne e immutabili e, quindi, impeccabili. I teologi che avevano accettato l'aristotelismo e si adopravano a conciliarlo col pensiero teologico tradizionale, primo fra tutti S. Tommaso, ebbero piena consapevolezza delle difficoltà che bisognava superare per riuscire a metter d'accordo la dottrina aristotelica delle intelligenze separate con quella teologica del peccato degli angeli, risolutamente negata dagli averroisti che del pensiero aristotelico si ritenevano i più fedeli e più rigidi custodi e insorgevano contro ogni tentativo di contaminazione. Ora quello che appare più strano è il fatto che Dante nel secondo trattato del Convivio accoglie, dal punto di vista aristotelico e filosofico, l'interpretazione averroistica, la quale fa delle intelligenze separate sostanze eterne il cui essere è la loro operazione (Il, IV, 3); e questo concetto è ripetuto da lui nella Monarchia ( I, n1, 7): « earum esse nichil est ali ud quam intelligere », il loro essere non è altro che intendere, e il loro intendere è senza discontinuità, ché altrimenti non sarebbero eterne. Probabilmente quando Dante pose mano alla Commedia e si dette allo studio delle Sacre Scritture e della teologia per realizzarne l'immenso disegno, non dovette restare insensibile alla suggestione di taluni elementi derivati dalle antiche leggende cui abbiamo aècennato, e che sembravano fare al caso suo, nella ricerca di una specie di diavoli che fosse, per così dire, congeniale alla « sètta de' cattivi a Dio spiacenti ed a' nemici sui». Nelle disquisizioni che i teologi del secolo XIII solevan fare intorno alla caduta degli angeli e al loro peccato, tutti son d'accordo nel distinguere il peccato di Lucifero e di alcuni fedelissimi che non esitarono a consentire con lui, mossi da orgoglio, dal

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peccato dei « minori », cioè degli angeli gerarchicamente inferiori. In queste disquisizioni appunto accade d'imbattersi in echi di quelle antiche leggende. Così, ad esempio, Alessandro di Hales, il maestro inglese di teologia a Parigi, che per primo introdusse l'uso di prendere a testo per l'insegnamento sistematico di questa disciplina il Liber sententUÌrum di Pietro Lombardo, e fattosi francescano fu maestro di S. Bonaventura, trattando del motivo che avrebbe indotto alcuni angeli inferiori a Lucifero a peccare, rif erisce l'opinione di taluni i quali ritenevano che alcuni angeli fossero caduti perché, soggetti a Lucifero, non osarono opporsi a lui, quasi che questo fosse un venir meno al rispetto e all'obbedienza che gli dovevano per volere di Dio, e perché in fondo provaron qualche diletto nel desiderare l'esaltazione del loro prelato. Alessandro dice di non sapere a qual luogo della Scrittura s'appigliassero coloro che così pensavano; ma non solo egli non condanna questa opinione, ma anzi a giustificarla adduce perfino la testimonianza di S. Giovanni Damasceno e quella di S. Gregorio Magno, che parrebbero insinuarla . Altri teologi parlano della suggestione che, col suo esempio e con scaltrita arte dialettica, Lucifero avrebbe esercitato sugli altri angeli, per sedurli e convincerli a seguirlo .

( 27) AJess. di HalH, Summa, Il, 11. lnq. 11, tr. 2, sez. l, q. l, t. 2, c. 2 ( ed. di Quaracchi, III, 1930, p. ll3): « Aliqui dicunt quod in hoc peccaverunt, quod appetierunt non sibi ipsis principatum, sed ipsi, et ita ex quadam dependentia ad ipsum [ Luciferum] peccaverunt, et ideo, ipso cadente, ceciderunt, delectati ex eo quod ipse appetiit. Sed ex quo Scripturae loco hoc accipiant, non invenio; in dubiis autem nihil est definiendum. Forte tamen posset accipi ex ilio verbo Johannis Damaseeni, [De fide orlh., II, c. 4, Migne, P.G., 94, 875] vel ilio Gregorii, in Moralibw, [XXIX, c. 9, n. 8, Migne, P.L., 76, 487]: Apostata angelus se Deum per superbiam angelicis potestatibu.s ostentavit et se super ceteros quHi in potentia divinitatis exaltavit ; concidit cum ipso infinita multitudo eorum, qui sub ip,o erant, angelorum. Sicut enim aliqui inferiore, aliquo praelato appetunt bonum praelati sui - in praelatione enim eius quodam modo et ipsi praeferuntur -- ita isti, qui sub ipso erant, praeferri se aestimabant in praelatione ipsius ». ( 28) Sulle arti che Lucifero avrebbe usato per pel'!lu11dere gli altri angeli a se~irlo nella ribellione, è da vedere Francesco Suarez, De anselis, VII, cap. 18, nn. 11-24. Il Suarez, già citato da Josef Seeber, Ueber die « neutralen Ensel » bei W olfram von E,chenbach u. Dante, nella « Zeitschr. f. deutsche Philol. », XXIV ( 1892), p. 34, è forse il teologo che più degli altri si diffonde a trattare della possibilità e

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Ma forse più di queste disquisizioni sulla suggestione esercitata dal « superbo strupo » sugli angeli minori, sono da tener presenti alcune acute considerazioni che due maestri francescani svilupparono, movendo dal detto di Agostino: « Fecerunt itaque civitates duas amores duo: terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei; caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui » ; voglio dire Giovanni Duns Scoto e Pier di Gian Olivo. Giovanni Duns Scoto, le cui dottrine, quando Dante pose mano alla Commedia, erano già largamente diffuse anche in Italia, discutendo il problema, se il primo peccato degli angeli fosse formalmente la superbia , sostiene· che prima radice e fondamento onde prese a germogliare la superbia di Lucifero > che circondano le ·schiere degli angeli e che corrisponde al biblico « cielo del cielo >>riservato al Signore. Ma evidentemente tutti questi « paradisi >>, dall'Eden al trono di Dio, non sono che diversi reparti del luogo celeste ove soggiornano per l'eternità, vicini a Dio, coloro che han creduto in Maometto; e perciò talora son chiamati, tutti insieme. il « Paradiso », al singo-

( 2) La co.,mologia della Bibbia e la sua trasntissione fino a Dante. Brescia 1932.

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lare. La distinzione dantesca fra Paradiso terrestre e Paradiso celeste finisce così per scomparire; del che mi pare non si sia accorto l'Asin Palacios, quando insiste per ritrovare la distinzione dei due Paradisi nelle leggende da lui esaminate. Per Dante, il Paradiso terrestre non è il luogo di soggiorno degli spiriti beati; ma un luogo obbligato di passaggio e di purificazione, per salire alle sfere celesti e, di sfera in sfera, all'Empireo, ov'è il Paradiso celeste. E come nel Libro della scala i due Paradisi son confusi, così confuse sono la beatitudine spirituale e quella sensibile e perfino carnale. La vista di Dio, concessa ai beati solo a rari intervalli, ècosa ben diversa dalla visione beatifica dei teologi cristiani e di Dante. Sì che, quando i beati non vedono Dio, se la spassano molto piacevolmente. Il Cerulli accenna alle « belle dame » del Paradiso musulmano. Altro che! Ad ogni buon muslim, ricco o povero che fosse in terra, è apparecchiato addirittura un superharem: « cinquecento donne per mogli » (disgraziato!) « e quattromila fanciulle da torre in mogli a suo gradimento » (§ 92)! E poi mense apparecchiate e cariche d'ogni sorta di cibi e bevande. Tutto que.;to nel « sesto paradiso». Nel quinto anzi v'è perfino un albero carico delle più squisite ghiottonerie, carni saporose e uccelletti già pronti per esser mangiati, odoranti di muschio e d'ambra e teneri come burro, a pranzo e a cena, a piacimento dei convitati che non si sazian mai di gustarne, perché « l'ultimo bocconcino ( morsellus, morsel) è altrettanto appetitoso quanto il primo»! Proprio in questo « quinto paradiso », quando « i servi di Dio » si son ben rimpinzati di cibo, gli angeli apron loro una posterla e li introducon