Sei saggi e sei risposte su Proust e sul romanzo 8873800033, 9788873800033

I "momenti" di Marcel Proust -- Le opere d'arte immaginarie in Proust -- Le sette mogli di Gilberto il Ma

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Italian Pages 190 [195] Year 1977

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Table of contents :
I "momenti" di Marcel Proust --
Le opere d'arte immaginarie in Proust --
Le sette mogli di Gilberto il Malo --
L'uso dei pronomi personali nel romanzo --
Individuo e gruppo nel romanzo --
Ricerche sulla tecnica del romanzo.
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Sei saggi e sei risposte su Proust e sul romanzo
 8873800033, 9788873800033

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MICHEL BUTOR

6 SAGGI E 6 RISPOSTE SU PROUST E SUL ROMANZO

Pratiche Editrice

Le forme del discorso

nenti magici che rispìendono nella Recherche du perdu possono classificarsi, secondo una distinzione a dallo stesso Proust, in due gruppi: le «impressioe «reminescenze». Nel caso di queste ultime, la ri­ one fedele di un dettaglio apparentemente poco >itivo restituisce tutto l'avvenimento passato di cui ' dettaglio taceva parte, con una perfezione, una preza ancor più marcata che nel momento stesso della sua ¡//azione, £ piuttosto difficile elencare esaurientemente

Le forme del discorso

Rizoma. Il teatro della teoria.

1.

Deleuze e Guattari,

2.

A. Calzolari, letteratura in Diderot.

L. Althusser, Introduzione al I Con un saggio di P. Raymond.

3. 4.

M. Butor,

manzo.

V. Skiovskij, Materiali e leggi di (Saggio su Guerra e Pace). V

rativo.

libro del Capitale.

6 Saggi e 6 Risposte su Proust e sul ro­

in preparazione :

P. Hamon,

Materialismo e

trasformazione stilistica

Semiologia Lessico Leggibilità del testo nar­

J. Lezama Lima,

Introduzione ai vasi orfici e

altri saggi.

I saggi di Michel Butor su Proust e sul romanzo costituiscor luminoso esempio di quella critica degli scrittori che, nel suo plesso, si presenta come un capitolo significativo della rifles sui testi letterari. Ripercorrere la « Recherche», esplorarne i U le strutture narrative, è per Butor l'occasione di interrogarsi sul piego del tempo» praticato, con strategia articolata e flammei■ te, nella più grande delle opere immaginarie descritte da P Allo stesso modo interrogarsi sulle tecniche del romanzo è un 20 per mettere in luce i procedimenti e le soluzioni del Nouvea man, per sottolineare la vocazione «critica» e per trasferire su no della teoria le conquiste ottenute attraverso una lucidissimi tica narrativa. Pratiche Editrice

L.

I saggi di questo volume sono stati pubblicati in Répertoire 1 (I960), Répertoire II (1964), Répertoire IV (1974). © Les Editions de Minuit, Paris. © Pratiche Editrice, Parma-Lucca, 1977. Tutti i diritti riservati.

MICHEL BUTOR

6 SAGGI E 6 RISPOSTE SU PROUST E SUL ROMANZO

Pratiche Editrice

In forma di introduzione; *

M.L. In uno dei suoi saggi su Proust lei ha messo in luce la funzione a cui le opere d'arte immaginarie assolvono nelVeconomia della Recherche. In parti­ colare ha insistito sulle opere di Elstir, di Vinteuil et sebbene più rapidamente, ài Bergotte. Non pensa che a queste se ne potrebbe aggiungere almeno un’altra, disseminata lungo tutto u testo di Proust, progettata, inseguita e sempre sgusciarne tra le maglie di una scrittura che — a livello del racconto — resta soltanto possibile: la stessa Recherche, la cui pre­ senza all interno della Recherche viene raccontata nel suo farsi e disfarsi, lungo il tragitto ambiguo e dilatorio delle intermittenze del cuore? M.B. Non soltanto c’è riferimento al testo della Recherche lungo tutta la Recherche, in modo più o meno diretto e per accenni più o meno prolungati, ma le opere d’arte immaginane che lei ha ricordato — quelle di Vinteuil, di Elstir e di Bergotte, a cui bi­ sognerebbe aggiungere 1) le opere immaginarie antiche: la chiesa di Combray, quella di Saint André des Champs, quella di Balbec ecc. (e molte opere “reali”), 2) opere d’ “arte minore” : il boefà la mode di Françoise, i vestiti di Albertine, il suo anello - so­ no trasformazioni di questa presenza. Quel che mi * Risposte a Mario Lavagetto.

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sembra essenziale è che una simile riflessione inter­ roga sempre il testo nella sua situazione storica. M.L. In uno dei suoi romanzi più conosciuti, L’Emploi du Temps, lei porta il protagonista ad una serie ai appuntamenti cruciali, in cui, come ha osser­ vato Lucien Dàllenbach, un “presente individuale” viene investito dalla “luce del passato di una città”. Simili appuntamenti possono prendere corpo, anche nel suo romanzo, in opere d ’arte immaginarie: gli arazzi del museo o la Vetrata di Caino. Sarebbe pos­ sibile ritrovare un’omologia di funzionamento tra le opere d ’arte immaginarie inserite nei due testi, ve­ dere in esse dei “segni” che presiedono all’organiz­ zazione del tempo e del destino narrativo? M.B. La presenza di una vetrata e d’un arazzo nell’Emploi au Temps provoca una domanda inter­ testuale al lettore della Recherche e naturalmente, in modo particolare, a chi conosce anche i miei saggi su Proust. Si tratta di un omaggio del tutto scoperto. Quanto al funzionamento — in rapporto alla storia raccontata, al modo in cui è raccontata -- di questi passaggi, ancor più difficili da estrapolare nell’Emploi au Temps che nella Recherche, bisognerebbe sottoporlo ad una comparazione sistematica, illu­ minandolo con altri testi per precisare somiglianze e differenze. M.L. Per molto tempo la critica ha visto nella Recherche (e sulla base di indicazioni ampliamente disseminate nel testo) un’opera dotata di un altis­ simo indice di strutturalità: un’architettura che si costruisce di pagina in pagina e in cui, alla fine, 4

tutto arriva a tenersi. Ultimamente una simile pro­ spettiva è stata messa in discussione: quell’archi­ tettura è apparsa — a Jean Pierre Richard tra gli altri — come il prodotto di un’ideologia proustiana (di un’ideologjia da “scrittore del XIX secolo”), senza dubbio reperibile nel testo, ma contraddet­ ta dalla realtà complessiva della Recherche che ci metterebbe davanti a successive deflagrazioni, a un disperdersi di temi in serie non omogenee, in "serie sempre esplose, monetizzate in altre serie, che continuamente tornano ad incrociarsi o ad attraversarsi”. Se una simile tesi è sostenibile, le sembrerebbe arbitrario vedere nell ’Kmploi du Temps (dove la scrittura si trova alla fine assediata da una quantità “di date, di dettagli, di rettifiche, di ripre­ se”) una specie di “romanzo critico sulla Recnerche”, un modo di riprendere la lezione di Proust al di fuori dell’ideologia strutturante proclamata dalla lettera? M.B. Le osservazioni ingegnose e sensibili di Jean Pierre Richard permettono di porre meglio una jarte del problema. C’è fin dalle sue origini più ontane un’architettura della Recherche, romanzo cattedrale che bisogna mettere in relazione con i romanzi-cattedrale del XIX secolo (Hugo, Huysmans) e i saggi-cattedrale di Ruskin, in particolare la Bibbia di Amiens, che Proust ha cosi lungamente, cosi amorosamente tradotto in francese. Questa architettura, molto semplice all’inizio, diventa sempre più complessa, partendo da una simmetria binaria, il cerchio diviso in due metà di Les Plaisirs et les Jours, fino ad arrivare a raggruppamenti per tre, >oi per sette (grosso modo e lo stato attuale del’opera con le sue sette parti, la grande metafora del prisma e della gamma musicale), fino a vagheg­

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giare organizzazioni più ampie che elaborino ogni tipo di dettaglio. La Recherche non è un testo “fi­ nito” ciò che possediamo è un momento in un processo di trasformazione di germinazione, che poteva interrompersi solo con la morte del suo au­ tore. Quanto a L ’E mploi du Temps è certamente un commento alla Recherche, ma anche su ben al­ tre cose. E’ un’opera che ho finito in un momento determinato, più di vent’anni or sono, e a cui hanno seguito molti altri volumi. E’ l’insieme di tutto ciò che io avrò scritto fino alla mia morte, insieme nel quale le serie si moltiplicano e si intrecciano, si differenziano e si rinforzano, che un giorno bisognerà confrontare con l’opera di Proust. M.L. Lei ha scritto un Dialogue avec 33 variations de Ludwig van Beethoven sur un thème di Diabelli. Roland Barthes (in occasione di una tavola rotonda tenutasi a Parigi nel 1972 e da cui ho rica­ vato anche i precedenti accenni all’ideologia prou­ stiana) ha detto: "... nella storia della musica, c’è una grande opera che fìnge di prendere la struttura tema e variazioni', ma in realtà la disintegra: sono le variazioni di Beethoven su un tema di Diabelli, almeno come sono state mirabilmente spiegate e descritte da Stockhausen, nel piccolo libro ai Boucourechliev su Beethoven. Ci si accorge di avere a che fare, in questo caso, con trentatré variazioni senza tema. E c’è un tema, che è dato all’inizio e che è un tema molto stupido, ma che appunto è dato, un po’, a titolo di derisione. Direi che queste varia­ zioni di Beethoven funzionano un p o ’ come l ’opera di Proust. Il tema si sfrange completamente nelle variazioni e non esiste più trattamento variato del tema ”, Le sembra di potere condividere queste osser vazioni di Barthes e di potere riconoscere, anche 6

nel suo libro (nei suoi libri), lo stesso procedimento di progressiva “distruzione di una metafora” o al­ meno di cancellazione delle “origini di una meta­ fora”, adottata provvisoriamente come “tema per variazioni”? M.B. Uno degli intenti di quel piccolo libro è stato quello di proseguire la strada segnata dalle intuizioni: di Stockhausen liberandole da ciò che la loro formulazione aveva di troppo sommario. Certa­ mente nelle Variazioni Diabetli, come già nelle Variazioni Goldberg, neìVOfferta Musicale, o nelVArte della Fuga, si passa dalla struttura tema e variazioni alla struttura variazioni, che in Schònberg diventerà variazione perpetua. Il tema imposto — dal re Federico II nell Offerta, dall’editore a Beethoven — ha, nondimeno, un grandissimo peso, lo ha, nel caso di Beethoven, nella sua stessa insi­ gnificanza o, più esattamente, nel suo preciso grado di significanza relativa, che l’insieme dell’opera per­ metterà di determinare. Non si tratta dunque, se misuriamo attentamente le parole, di distruzione della vecchia struttura, perchè la distruzione pura e sempli­ ce può avere, come risultato, solo l’instaurazione di una nuova struttura situata sul medesimo piano, altrettanto repressiva e autoritaria (Io dimostra ampia­ mente anche la storia più prossima della politica artistica), si tratta invece di catturare questa vecchia struttura in un’altra che l’attraversa, che mostra co­ me questa si fa e si disfa, come può variare in di­ verse direzioni, come si può farla interagire con altre. Vengono cosi distrutte l’intolleranza e la stupidità che si abbarbicavano alla vecchia struttu­ ra, ma questa è ringiovanita, riattivata dall’immersio­ ne nel campo delle nuove strutture. Cosi la vecchia struttura romanzesca è sottoposta, nella Recberche, 7

a stiramenti, a torsioni, i modelli utilizzati si equi­ librano gli uni con gli altri, la cattedrale con il vesti­ to, ma la cattedrale resta là, più bella di prima. E’ certo che si può seguire nei miei libri, e soprattut­ to nel loro insieme, questo dialogo, questa “navi­ gazione” delle strutture, che di necessità deve potere inglobare Tapparentemente insignificante, dal mo­ mento che il conosciuto è continuamente messo in questione dal misconosciuto. M.L. E ’ stato detto che il Nouveau Roman porta in sè una vocazione critica, che la sua — som­ mariamente proclamata — distruzione della trama, del personaggio, delVillusione mimetica, degli effet­ ti-realtà, di tutti i parametri tradizionali della fic­ tion, modifica l'angolo di lettura, la prospettiva del destinatario, introducendo, anche alVtnterno della narrativa tradizionale, un principio di possi­ bile deformazione. In questa prospettiva i suoi sag­ gi critici (i saggi che ha dedicato non solo a Proust, ma a Balzac, a Hugo, a Dostoievskij ecc.) possono essere considerati come “esercizi deformanti”? M.B. Tutta l’arte del XX secolo ha una vocazio­ ne critica, è l’arte di un secolo di musei, di bibliote­ che, di cataloghi. Non è che a una prima rapida let­ tura che si può parlare, a proposito della letteratura contemporanea, di “distruzione” del racconto, del personaggio, e i lettori più recenti e spregiudicati hanno buon gioco a denunciare il carattere sommario di certe approssimazioni. Si tratta infatti di sposta­ menti, di generalizzazioni, di interrogativi. Si può riassumere tutto in una domanda: come far variare? Per quanto riguarda le opere del passato possiamo distinguere due piani: 1) come far variare il roman­ zo di Balzac, che, per certi aspetti, ci inganna sul­ 8

la realtà? Scrivendo altri romanzi o non-romanzi; 2) come far variare l’idea che abbiamo dei romanzi di Balzac e che, in generale, ci inganna su questi romanzi. Tornandoci sopra, citandoli in modo diver­ so da quanto si è soliti fare. Sono i miei romanzi, poemi, studi ecc. che possono essere considerati come esercizi di deformazione di vecchie strutture, dell’opera di Proust, per esempio, tra molte altre che hanno avuto per me almeno altrettanta impor­ tanza. I miei lavori critici trasformano l’immagine di queste opere. Mostrano che esse erano defor­ mate. Deformano questa deformazione. Raggiustamento interminabile perchè a produrre deformazio­ ni non sono soltanto la menzogna, la malafede, la stupidità; è la rifrazione stessa del linguaggio e del­ l’ambiente storico che cambia continuamente e in modi diversi, così da permetterci poco a poco di misurarla, di dominarla. E’ il mondo che è variazione. M.L. Per concludere, vorrei farle ancora una do­ manda sulla sua pratica di lettore. Tra i saggi raccolti in questo volume ce n ’è uno, straordinariamente illuminante e anticipatore, sull’uso dei pronomi di persona nel romanzo. Oggi si guarda con diffi­ denza a un ’analisi condotta lungo lasse dei pronomi di persona, “categorie grammaticali” che, si dice, sarebbero suscettibili di confusione e che, in ogni caso, non permetterebbero una classificazione rigo­ rosa. Le sembra condivisibile, a circa quindici anni di distanza dal suo saggio, una simile diffidenza? E in ogni caso, lei, che nelle sue letture si serve di un apparato strumentale elegantemente e premedi­ tatamente povero, quale funzionalità attribuisce alle straordinarie, elaboratissime attrezzature tecniche con cui la critica francese (una parte, almeno, della 9

crìtica francese) compie le proprie spettacolari rico­ gnizioni sui testi? M.B. E’ del tutto impossibile fare a meno delle categorie grammaticali. Si tratta naturalmente di approfondirle, di illuminarle con quelle che agisco­ no in altre lingue e in altri linguaggi. Là ancora spostamento, variazione. Questa diffidenza, nei casi più nobili, è in realtà una constatazione di igno­ ranza: si resta sgomenti a causa della somma gigan­ tesca di conoscenze che sarebbe necessaria per arriva­ re a una sistematizzazione reale. Le lingue umane sono così numerose e ancora tanto sconosciute che la linguistica non è che ai suoi primi balbetta­ menti. Aspetto con impazienza quelle scoperte di cui ci raggiungono i primi segni e, dichiarando­ mi non specialista, assisto affascinato alla fabbrica­ zione, alla immissione sul mercato di strumenti, di nozioni, di vocabolari, per la maggior parte effime­ ri, ma alcuni dei quali mostrano una incontestabile utilità, non fosse altro che come momenti di pas­ saggio verso migliori formulazioni. Da questo punto di vista mi va tutto bene. Se il tale critico impiegando una tale gamma di parole, riesce a dire qualcosa di nuovo su di un testo, ha avuto ragione. E se si dichiara che avrebbe potuto dire la stessa cosa con altre parole, si può sempre provare. Se si riesce tanto meglio, questo fara forse scoprire un’altra cosa ancora, ma questo non cambia niente alla prima scoperta. L’intera storia delle scienze ci dimo­ stra quali mezzi tortuosi sono stati necessari per arrivare a quello che per noi è di una semplicità assoluta. Una cosa è certa in ogni caso: che la com­ plessità di questa attrezzatura non è nulla a para­ gone di quelle della materia che studia, non è nulla a paragone di quella che raggiungerà allorché molte 10

cancellature e semplificazioni le avranno permesso di essere più efficace. E’ il linguaggio tutto intero che si elabora costantemente, in modo più o meno felice (e non solo in una regione come questa fornita di alta tecnicità); è del linguaggio tutto intero, delle sue immense regioni di “povertà”, che si tratta di fare un’attrezzatura mirabilmente elaborata, con cui compiere meravigliose esplorazioni del mondo. Nizza, aprile 1977. (trad. di E.C.)

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Avvertenza Per ragioni di omogeneità, tutti i passi citati sono stati ritradot­ ti, anche se, naturalmente, si è tenuto conto della precedente versione italiana. Ci è sembrato utile anche indicare i luoghi, generalmente omessi da Butor, delle diverse citazioni, dopo averle reperite, quando è stato possibile, nelle edizioni della Pleiade. Per le opere di Proust, cui appartengono le citazioni più numerose, ci siamo serviti delle seguenti abbreviazioni: R.T.P. per A la recherche du temps perdu (Parigi 1954), J.S. per Jean Santeuil (Parigi 1971), C.S.B. e P.m. per Contre Sainte-Beuve e Pastiches et mélanges (Parigi 1971). Traduzioni dal francese di Carla Ghirardi e Enrico Chierici

I “momenti” di Marcel Proust

I momenti magici che risplendono nella Recherche du temps perdu possono classificarsi, secondo una distinzione suggerita dallo stesso Proust, in due grup­ pi: le “impressioni” e le “reminiscenze”. Nel caso di queste ultime, la riproduzione fedele di un det­ taglio apparentemente poco significativo restitui­ sce tutto l’avvenimento passato di cui quel dettaglio faceva parte, con una perfezione, una presenza ancor più marcata che nel momento stesso della sua realizzazione. E’ piuttosto difficile elencare esaurientemente e classificare con rigore questi istanti di rivelazione, ma ce ne sono alcuni celebri e sui quali l’autore in­ siste abbastanza perchè essi costituiscano, nel cor­ so dell’opera, come una successione di segnali lu­ minosi. Vorrei esaminare i principali tra questi, sforzandomi di seguire l’ordine cronologico inve­ ce di quello adottato da Proust. E’ chiaro che numerose esperienze di questo genere hanno avuto luogo (e ce lo indicano in modo allusivo e discontinuo alcune riflessioni sulle più recenti di esse) in un’epoca anteriore a quella cui risale l’esplorazione : Frattanto, mi accorsi di lì a poco, dopo aver riflettuto su queste risurrezioni della memoria, che, sotto altra forma, delle im­ pressioni oscure avevano qualche volta — e già a Combray, dalla parte di Guermantes — 13

sollecitato il mio pensiero come queste re­ miniscenze, nascondendo però quelle non una sensazione d’altri tempi, ma una verità nuova, un’immagine preziosa che cercavo di sco­ prire con sforzi simili a quelli che si fanno per ricordare qualcosa... che già a Combray mi accadeva di fissare attentamente col pensiero qualche immagine che mi aveva colpito, una nuvola, un triangolo, un campanile, un fiore, un sasso, sentendo che c’era for­ se sotto quei segni qualcosa di completamente diverso che dovevo cercare di scoprire, un'i­ dea espressa da loro come da quei gerogli­ fici che sembrano rappresentare solo degli oggetti materiali ( R.T.P., III, p. 878). La cosa curiosa, in questo testo, è che ci mostra come il processo a cui queste “impressioni” danno l’awio sia ancora più simile alla “reminiscenza” platonica di quanto lo stesso Proust designa con questo nome. Mai sapremo che cosa gli avevano fatto presen­ tire quei ciottoli, quei triangoli e quelle nuvole; Proust non ha ritenuto opportuno insistere su quel­ le crepe, anticamente prodotte sulla scorza delle cose; ma la parola “campanile” ci riporta aH’inizio del secondo capitolo di Dm coté de cbez Swann, e a quelle vie di Combray che, ci dice, “vivono in una parte della mia memoria cosi remota, dipinta a colori cosi diversi da quelli che ora rivestono per me il mondo, che in verità mi sembrano tutte, e anche la chiesa sulla piazza che le dominava, ancora più irreali delle proiezioni della lanterna magica; e, in certi momenti, mi sembra che ... poter affit­ tare una stanza in rue de l’Oiseau... significherebbe entrare in contatto con l'aldilà in modo più mera­ vigliosamente soprannaturale che facendo la cono­ 14

scenza di Golo e discorrendo con Genoveffa di Brabante” (R.T.P., I, pp. 48-49). La prima “impressione” descritta con una cer­ ta insistenza è l’ebbrezza derivante dal profumo dei biancospini che anticipa, come un segno premonito­ re, la prima apparizione di Gilberte. Il senso di una domanda improvvisamente espressa dalle cose è sottolineato da una specie di brusca sospensione del tempo, paragonabile, credo, a quelle descritte da tutti i più bei poemi di Pierre Reverdy: Spezzando l’altezza di un albero indefi­ nito, un invisibile uccello, industriandosi a far apparire breve il giorno, esplorava con una nota prolungata la solitudine circo­ stante, ma ne riceveva una replica così una­ nime, un colpo di rimbalzo tanto più carico di silenzio e di immobilità, che si sarebbe detto avesse arrestato per sempre l’attimo che aveva cercato di far passare più presto (R.T.P., I, p. 137). Marcel, che crede partita la bambina di cui teme tanto il disprezzo, ha appena scorto, nella proprie­ tà di Tansonville, ispiratrice di un’inquieta sogge­ zione, i segni di una presenza misteriosa. Vorrebbe andare ad avvertire che un pesce ha abboccato al­ l’amo della lenza predisposta, ma i suoi familiari, che lo hanno distanziato, lo chiamano, stupiti del suo ritardo. E’ allora che egli s’inoltra nel sentiero, tutto preso dal profumo dei fiori. Cerca di capire “che cosa il suo pensiero debba farsene”: toma indietro, si sforza di rendere traspa­ rente questa sensazione che continua a offrirgli con profusione inesauribile il medesimo incanto, ma che non si lascia ulteriormente approfondire. Scorto attraverso l’intreccio dei rami, lo sguardo che crede 15

canzonatorio della bambina inattesa, a cui teme­ va tanto di poter risultare sgradito, gli impedisce di proseguire la sua ricerca. Ma sappiamo da un passo precedente che pochi minuti prima egli era passato davanti a una siepe dai fiori non bianchi ma rosa, e proprio in quel passo Proust ci indica che cosa gli era stato rivelato da quei fiori : la traccia, la speran­ za di una festa che egli perseguirà invano attraverso i cerimoniali mondani e a cui, finalmente, non riu­ scirà a partecipare (ma a quanta distanza e in quale solitudine) che grazie al suo libro, cominciato in seguito a ben altre intromissioni del caso complice. Nell’autunno di quello stesso anno, durante le lunghe passeggiate dalla parte di Méséglise, egli non sa rispondere a un richiamo dello stesso tipo che con una esplosione liberatrice di parole prive di qualsiasi rapporto espressivo con quanto lo ha col­ pito: E, vedendo sull’acqua e sul muro un pallido sorriso di risposta al sorriso del cielo, gridai con tutto il mio entusiasmo, brandendo l’ombrello chiuso: “Zut, zut, zut, zut.” (*) Ma nello stesso tempo sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quelle espressioni opache e cercare di vedere più chiaro nella mia estasi (R.T.P., I, p. 155). La prima volta in cui si sforza di afferrare, per mezzo del linguaggio, la realtà intravista in “una pietra su cui giocava un riflesso, un tetto, un suono di campane, un profumo di foglie” ; la prima volta in cui questo compito, di cui ha già avvertito così (*) Esclamazione di dispetto e di stupore che si è prefe­ rito non tradurre per mantenerne l’effetto fonosimbolico. (N.d.t.).

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spesso i richiami perentori, assume un carattere del tutto imperativo, è — lo sappiamo — quando, se­ duto accanto al cocchiere, Marcel scorge, durante la sua passeggiata, i tre campanili: le due guglie di Martinville, alle quali è venuta ad aggiungersi quella, tuttavia lontanissima sulla carta e nella realtà, di Vieuxvicq: Constatando, notando... lo spostamento delle loro linee, il distribuirsi della luce solare sulla loro superficie, sentivo di non venire a capo della mia impressione, capivo che c’era qualcosa dietro quel movimento, dietro quella luce, qualcosa che essi sembravano contenere e, allo stesso tempo, nascondere... Ben presto le loro linee e le loro superfici soleggiate, come fossero state una specie di scorza, si lacerarono, un poco di quello che era stato nascosto in esse mi apparve, ebbi un pensiero che non esisteva in me l’istante prima, che si formulò in parole nella mia mente, e il piacere che poco prima mi aveva causato la loro vista ne fu talmente accresciuto che, preso da una sorta di ebbrezza, non potei più pensare ad altro ( R.T.P., I, pp. 180-81). Dunque, egli si mette a scrivere una descrizione del paesaggio mobile intravisto, poi, una volta libe­ ratosi dai campanili, comincia a cantare a squar­ ciagola, ma se ora leggiamo il testo, così necessario ed efficace sul momento, non potremo che rimanere delusi: non vi troveremo nulla di simile ad una spiegazione, nulla che lo renda produttivo nè per noi nè per lo stesso Proust, quando se lo ritrova fra le mani. Abbiamo davanti agli occhi solo una seconda descrizione (seconda, a seguire l’ordine delle righe del libro ; prima, sulla base di una cronologia rigorosa) 17

inutilmente più ricca di immagini. E’ vano cercare di spiegarci, attraverso questo tramite, l’emozione del giovane Marcel, e da questo punto di vista, nono­ stante l’apparenza descrittiva, il passo resta altret­ tanto opaco quanto lo “zut” pronunciato sulla strada di Méséglise; è un risultato della domanda posta dalle cose, non ancora una risposta. Eppure il “perchè” di quell’emozione, Proust dichiara di averlo presentito. E noi, illuminati dal resto dell’avventura e del testo, possiamo portare, credo, condurre fino a una parola chiarificatrice ciò che, in quel momento, non poteva ancora essere formulato. L’avvicinamento, per un effetto di prospettiva, di due oggetti molto distanti nello spazio ma che qui, nonostante la consapevolezza della loro sepa­ razione geografica, sembrano formarne uno solo, offre evidentemente una figura spaziale della libe­ razione dalle distanze temporali, ben presto raggiunta attraverso le “reminiscenze”. I tre campanili sono sciolti dalle loro servitù quotidiane come se fossero diventati degli uccelli. Ma in questo triangolo che si forma e si scompo­ ne, in queste tre punte di pietra che si uniscono e si separano, non posso fare a meno di vedere una prefigurazione delle tre donne che avranno assoluta preminenza nella vita di Marcel: Gilberte, Albertine e la duchessa di Guermantes. Quanto viene rivelato in questo momento, dunue, non è soltanto una possibilità di liberazione da eterminati limiti spaziali (che si rivelano fittizi, in quanto la figura costituita dai tre campanili avvici­ nati ha qualcosa di più necessario che la loro sepa­ razione, sperimentata da tutti i viaggiatori), ma an­ che una possibilità di liberarsi dal tempo dell’usu­ ra e deiroblio, dal tempo dell’assenza, poiché Mar­ cel proietta e intuisce qui uno dei geroglifici di se

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stesso, una delle forme essenziali che regoleranno i suoi rapporti con gli uomini e con le cose. Resta ancora da sapere se non si tratti, in que­ sto caso, di una riemergenza inconsapevole, se cioè il piacere che Marcel prova non derivi in parte dal fatto che la sua visione gli restituisce oscuramente, senza che egli ne abbia chiara coscienza, un momento più antico, in cui già questa scoperta cominciava a farsi strada, un momento che si troverebbe così investito di luce; ma niente nel testo ci permette di fornire una risposta positiva e sicura a questa do­ manda che inevitabilmente si pone. Al contrario, quando Proust oppone “remini­ scenze” e “impressioni”, ci rimanda sempre all’e­ sempio dei tre campanili. Certo, è allettante l’ipo­ tesi di abolire interamente la distinzione, e, tutto sommato, si può dire che la Recherche ci invita a farlo, ma quella distinzione è poi assolutamente necessaria in un momento determinato del discorso. Infatti, si tratta di dimostrare alla fine che l’avveni­ mento passato, una volta che sia integralmente re­ cuperato attraverso “una reminiscenza”, ci comuni­ ca su se stesso una verità altrettanto nuova (per il fatto che solo in quel momento diventa davvero presente) di quella che si trova svelata da “un’impres­ sione”. Sarebbe un completo controsenso ridurre il tentativo di Proust a una specie di rifugio nel ricordo. Se appare ipoteticamente possibile collegare al “mo­ mento” dei tre campanili di Martinville un altro mo­ mento anteriore che a quello sarebbe sussunto, è necessario però tenere ben presente che, proprio nel testo, è l’aspetto di novità radicale a costituire la caratteristica principale di quanto accade. L’ambiguità risulterà ancora accentuata nelle due rivelazioni che segnano A l ’ombre des Jeunes Filles en fleurs-. l’odore di muffa nel piccolo padiglione coper­ to di rampicanti intrecciati, ai Campi Elisi, dove 19

Marcel è costretto ad accompagnare Françoise, e i tre alberi sulla strada di Hudimesnil, che ci riportano evidentemente ai tre campanili. La “reminiscenza”, invece, si realizza in modo perfettamente chiaro nell’episodio della madeleine e, soprattutto, nelle pagine delle Intermittences du coeur in cui Marcel, slacciando il bottone di uno stivale, ritrova la propria nonna in tutta la sua presen­ za perduta (è in questo momento che ella muore per lui), ritrova cioè la persona che un attimo prima occupava il suo spirito con qualche ricordo menzo­ gnero: Sconvolgimento di tutto me stesso. A notte appena fatta, poiché soffrivo di una crisi di stanchezza cardiaca, mi chinai con lentez­ za e cautela, cercando di dominare il dolore, per togliermi le scarpe. Ma non appena eb­ bi toccato il primo bottone dello stivaletto, il petto mi si gonfiò, colmo di una presenza sconosciuta, divina, dei singhiozzi mi scossero e delle lacrime sgorgarono dai miei occhi (.R.T.P., II, p. 755). Nelle prime pagine del secondo volume del Temps Retrouvé incontriamo tutta una serie di mo­ menti di questo genere, di coincidenze miracolose che, se le si lascia fuggire, depositano nel cuore una domanda subito dimenticata, ma che si prestano ad essere approfondite, e grazie a cui Finterò passa­ to può finire per diventare del tutto presente. Sono molto rare le occasioni in cui quel passato si impone immediatamente, e irrompe con violenza; di solito, lascia trasparire solo la promessa della sua risurre­ zione trasfigurata; di solito, bisogna aiutarlo pazien­ temente a risalire a galla. La ricomparsa del bambino che dorme nel profondo di noi stessi, coperto da un 20

telo così spesso, fatto di delusioni e di cose dimen­ ticate, esige attenzione e silenzio. Assistiamo, l’una dopo l’altra, alle grandi revi­ viscenze provocate dal selciato sconnesso nella corte di palazzo Guermantes, dal tintinnio del cucchiaio contro il piatto, dal tovagliolo inamidato passato sulla bocca, dal rumore stridente dell’acqua in una conduttura e dal titolo François le Champi: le grandi reviviscenze che colmano Marcel di una sicurezza tale da fargli disprezzare la morte, e da renderlo invulnerabile al terrore di essa; le grandi reviviscen­ ze che lo rendono, in qualche modo, già morto. Si noterà che nessuna delle sensazioni da cui par­ te lo sforzo di cogliere una reminiscenza è una sen­ sazione visiva: non lo è, evidentemente, nemmeno l’ultima, poiché non importa la forma delle lette­ re costitutive di François le Champi, ma la parola ripetuta, tra sè e sè, da chi le legge. Viceversa, tutte le “impressioni” sono legate a delle “cose viste”: dei riflessi su una pietra, i campanili o gli alberi. Nell’episodio della maaeleine è in gioco il gusto, in quello del padiglione ai Campi Elisi, l’odorato, in quello del bottone dello stivale o del selciato scon­ nesso, il tatto; in tutti i casi, ci troviamo di fronte a una specie di parola emessa dalle cose e che se ne allontana, e il distacco raggiunge il più alto grado nelle sensazioni uditive. Un brano di musica non modifica, in apparenza, l’assetto della sala in cui viene eseguito e non detiene che un legame percet­ tivo molto vago con gli strumenti visibili che lo pro­ ducono. Quando un piatto di fine porcellana cade sul pavimento, il rumore commenta il contatto, ma poi sparisce completamente ; non ne resta alcuna traccia. Rimangono invece i cocci di ceramica. Gli og­ getti visibili e pesanti durano, senza soluzione ai continuità, nel tempo e sono invischiati nelle cir­ costanze presenti; essi restano e si consumano; ma 21

l’intrusione di un suono nel bel mezzo di uno spazio silenzioso, così come la sua sospensione, possono aver luogo in modo del tutto discontinuo; un suono appare, poi sparisce; lo si sente, non lo si sente più; riprende — ancora una volta — identico, non c’è più. Il suono è, per eccellenza, ciò che è capace di ripetersi. La canzone popolare si fonda sul ritor­ nello. Il fondamento stesso della musica è questa continuità originale, diversa da quella, destinata a perire, delle cose viste, che ci permette di intro­ durre nel tempo la regolarità di un “tempo”, una specie di base e di orizzonte sonoro su cui si sta­ glieranno e si struttureranno le forme ritmiche e melodiche. La funzione liberatoria del suono — rispetto all’inerzia e alla vecchiaia — culmina nel Settimino di Vinteuil. Molte rivelazioni sono apparse per la durata di un lampo, ma sono poi sparite quasi subito, so­ praffatte dall’abitudine e dalla fretta vana. Nella musica del vecchio signore, legata all’infanzia di Marcel, è reso il carattere di certezza e di verità di tutte quelle “impressioni”, si manifesta, per lui, la possibilità di renderle di nuovo presenti : ... nulla più che una bella frase di Vinteuil somigliava a quel piacere particolare che [egli] aveva qualche volta provato nella [sua] vita, davanti ai campanili di Martinville, per esempio, o a certi alberi di una strada di Balbec, oppure, più semplicemente, come all’inizio di questo libro, bevendo una certa tazza di té (R.T.P., III, p. 374). Ma Proust accosta questi tre esempi solo per distinguerli accuratamente, subito dopo, l’uno dal­ l’altro: 22

... mentre nel ricordo queste sensazioni incerte possono essere, se non approfondite, almeno precisate, attraverso il riscontro di una serie di circostanze atte a spiegare perchè mai un certo sapore abbia potuto richiamare delle sensazioni luminose, nel caso delle sensazioni vaghe suscitate da Vinteuil, che provenivano non da un ricordo, ma da un’im-' pressione (come quella dei campanili di Martinville), sarebbe stato necessario trova­ re, della fragranza di geranio della sua musica, non una spiegazione materiale, bensì l’equi­ valente profondo, la festa sconosciuta e co­ lorata (di cui le sue opere sembravano i fram­ menti sparsi, le schegge dagli orli scarlatti), il modo secondo il quale egli “intendeva” e proiettava fuori di sè l’universo (R.T.P., III, p. 375). Attraverso la rossa sonorità del Settimino passa il presentimento di una festa, la stessa intravista di fronte ai biancospini di Tansonville. Quel presenti­ mento è riflesso la da un’altra persona: al suo punto di vista sul mondo sensibile si può risalire attraver­ so le opere che ha prodotto: Delle ali, un altro apparato respiratorio, tali che ci permettessero di attraversare l’im­ mensità degli spazi, ci sarebbero inutili, perchè se ci recassimo su Marte o su Venere conservando gli stessi sensi, questi rivestireb­ bero dello stesso aspetto delle cose terre­ stri tutto quel che potremmo vedere. L’u­ nico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i 23

cento universi che ognuno di loro vede, che ognuno di loro è. Tutto questo, possiamo farlo con un Elstir, con un Vinteuil (R.T.P., III, p. 258). Occorrerà ancora un certo tempo a Proust, per accorgersi che proprio lui è questo “altro”, questi cento altri, ma è a partire da questo momento che egli comincia a capire come riuscirà alla fine, attra­ verso l’opera d’arte, a trattenere, a fissare, a posse­ dere ciò che, fino ad allora, gli era stato quasi sem­ pre dato e subito sottratto. Così, proprio grazie al libro che abbiamo tra le mani, egli raggiungerà la donna inseguita invano, nelle sue tre grandi incarnazioni: Gilberte, Albera­ ne e la duchessa di Guermantes, lungo tutto il corso di una vita raccontata dalle pagine. Per evitare di essere trascinato in labirinti di psi­ cologia aneddottica, trascuro di proposito la tra­ sformazione che occorre fare subire a questi perso­ naggi, se si vogliono collegare alla vita particolare dell’autore. Quello che voglio, è solo districare un poco le linee del testo attraverso cui egli ha volu­ to farci conoscere la sua voce. Proust ha ripetutamente sottolineato il profon­ do rapporto fra le tre donne, facendosi specialmente aiutare da due particolari che non possono lasciare dubbi sul loro significato. La prima lettera che Marcel riceve dalla sua compagna dei Campi Elisi è firmata in modo tale (ci viene notificato nel giro compiacente di una su­ bordinata), che “Françoise si rifiutò di riconoscere il nome di Gilberte, poiché la G istoriata, appoggia­ ta su una ¿-senza punto, aveva l’aria di una A, mentre l’ultima sillaba risultava indefinitamente prolun­ gata da un ghirigoro dentellato” (R.T.P., I, p. 502). Sappiamo benissimo qual era il nome letto da 24

Françoise in quella firma, nonostante la parola “Albertine” non possa avere in questo momento alcun significato, nè per lei, nè per il ragazzo di cui si oc­ cupa, visto che solo più tardi, e d’altronde a casa degli Swann, egli sentirà parlare per la prima volta della pìccola Simonnet. Allo stesso modo, dopo la morte di quest’ulti­ ma, Proust riceverà un telegramma di Gilberte, il cui nome sarà stato trasformato, dall’ufficio posta­ le, in “Albertine”. E’ curioso notare che se si aggiungono a questo nome la G e la i accusate di rendere ambigua la firma, si ottiene un anagramma della parola liber­ tinaggio (libertinage). Le ultime pagine del romanzo, infine, ci comu­ nicano che la bambina di Tansonville è diventata duchessa di Guermantes. Vera Ecate, essa fuggiva sempre dopo l’incontro, come se la verità scorta neU’amore incipiente fosse troppo pesante e difficile per essere sostenuta a lungo. Poco a poco, le sue azioni, le sue menzogne la annullavano, introducevano in essa qualcosa di torbido a cui Marcel cercava invano di sottrarsi. E d’improvviso mi dissi che la vera Gilberte, la vera Albertine, erano forse quelle che al primo istante s’erano offerte nel loro sguar­ do, l’una davanti alla siepe di biancospini rosa, l’altra sulla spiaggia. Ed ero io che, per non averlo saputo intendere, per averlo solo più tardi ripreso nella mia memoria — dopo un intervallo durante il quale, a causa dei miei discorsi, una intercapedine di nuovi sentimenti aveva fatto temere loro di esse­ re franche come nei primi istanti — avevo sciupato ogni cosa con la mia inettitudine {R.T.P., III, p. 694). 25

In tutta la serie delle sue avventure appassionate e piene di complicazioni, Proust vede ogni volta ri­ prodursi lo schema fatale da cui non riesce a liberarsi. La piccola frase della Sonata di Vinteuil era stata l’inno trionfale dell’amore di Swann e Odette, la cui evoluzione deludente rappresenta il paradig­ ma degli amori di Marcel: come gli altri temi del musicista, essa viene ripresa nel Settimino, dove sembra assumere, alla fine, il suo vero significato. E’ proprio in quel momento che il ragazzo di Combray realizza come anche quell’amore non sia stato per lui che uno schizzo, ripreso, più tardi, come tutti i suoi sforzi inutili verso le donne, nel disegno della sua passione per Albertine, una passione che si mortifica, si smentisce continuamente nella realtà, e che si allontanerà da lui fino alla terribile scomparsa della fanciulla, e fino al sentimento di indifferenza, ancor più terribile, che seguirà al dolore per la sua morte. Grazie alla lunga serie di “reminiscenze”, grazie al Settimino, grazie alla ricerca che intraprende, Proust ritroverà il segreto del proprio doppio, rin­ cantucciato nel più profondo del suo cuore fin dalla ferita di Balbec; grazie al libro che noi ora leggiamo, egli riesce infine a svolgere nei confronti di Alberti­ ne — trasformata in una figura da lanterna magica — il ruolo che il personaggio della vetrata di Saint-André-des-Champs, il cui nome non a caso era Gilber­ to il Malo, aveva in rapporto a quella duchessa di Guermantes di cui Proust allora non conosceva che il nome; il libro, la cui realizzazione, ci dice, non solo gli ha conferito in modo solido e duratu­ ro l’indifferenza di fronte alla morte, il grande po­ tere che gii era stato svelato, ma solo per un attimo, nelle “reminiscenze”, ma anche la stessa morte. ... prima che avessi cominciato il mio li26

bro ... una sera, mi trovarono un aspetto migliore del solito, e qualcuno si stupì che io avessi conservato neri tutti i miei capelli. Ma io rischiai tre volte di cadere sulle sca­ le... Sentivo di non essere più capace di nulla, come capita a certi vecchi... che posso­ no, per qualche tempo ancora, trascinare nel loro letto un’esistenza che non è se non una preparazione, più o meno lunga, a una morte ormai ineluttabile (R.T.P., III, p. 1039). E’ già il fantasma di se stesso che racconta la sua storia. Proust non si applica seriamente alla sua grande opera magica che nel momento della prima grave crisi, all’opera che non è solo un modo di morire, ma anche di sopravvivere aH’ambiente di tutti i falsi vivi, di tutti i ciechi uomini di mondo che vorrebbero catturarlo. Alla serata della principes­ sa di Guermantes, i dolci che mangia, “quel cibo infetto”, sono altrettanto pieni di morte di quelli che la Derma, abbandonata persino dai figli, tasta con la punta delle dita nei saloni in cui nessuno ha risposto al suo invito. Eppure ... qualcosa di più misterioso che l’amore di Albertine sembrava essere pro­ messo all’inizio di quest’opera, nelle sue prime espressioni aurorali (R.T.P., III, p. 253). In effetti, quanto più misterioso, quanto più vitale e rivelatore per noi di questo stesso amore, che fallisce continuamente i suoi scopi, fino alla morte della ragazza e anche dopo, è il carattere di attualità, di liberazione dall’usura e dall’esilio da cui improvvisamente è stato investito. (trad. di C.G.) 27

Le opere d’arte immaginarie in Proust per Pierre Boulez

Tre grandi artisti, tre “g^ni” attraversano le pagine della Recherche du temps perdu: Bergotte, Elstir e Vinteuil. Proust ci fornisce poche informa­ zioni sull’opera di Bergotte: passa alcune citazioni, qualche commento generale, delle notizie più pre­ cise su un’unica sua pubblicazione, un libretto su Racine. Il fatto è che Bergotte impersonava il tipo dello scrittore (o, per essere più precisi, dell’artista, se già in Jean Santeuil compare un Bergotte pit­ tore, il cui nome è l’unico a passare inalterato da un romanzo all’altro), così come Proust lo concepiva prima di inoltrarsi — fino ad esserne totalmente assorbito — nel suo grande viaggio; era ciò che, a uell’epoca, egli aspirava a diventare. E’ d’altrone per questo motivo che Proust, quando nella Prisonnière descriverà la morte del “dolce poeta dai capelli bianchi”, farà in modo che vi si possa riconoscere una prefigurazione della sua, e, a questo scopo, “ucciderà” Bergotte del malessere che egli stesso ha provato visitando l’esposizione dei mae­ stri olandesi, al Jeu de Paume. Diversamente dai libri di Bergotte, certe opere di Elstir e di Vinteuil sono fatte oggetto di lunghe analisi: vorrei mostra­ re come, grazie a loro, Proust acquisti progressiva coscienza dello sviluppo del suo lavoro, come esse rappresentino dei modi attraverso cui si esplica la sua riflessione creatrice. Non intendo studiare tutte le opere d’arte imma­ ginarie reperibili in Proust; in particolare, lascerò

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da parte tutto il blocco formato dalle insegne del mondo antico, del paradiso perduto dell’infanzia e di Combray, tra cui fanno spicco i vetri della lanterna magica, che narrano la storia di Genoveffa di Brabante, la chiesa di Saint-Hilaire con la vetrata di Gilberto il Malo e l’arazzo di Esther, l’atrio di Saint-André-des-Champs. Non solo: i tre luminosi punti di riferimento di cui parlerò sono legati agli altri elementi dell’opera da un insieme di transizioni, da opere d’arte più o meno immaginarie, da oggetti immaginari più o meno vicini ad essere opere d’ar­ te (si pensi, ad esempio, agli anelli di Albertine). Non mi occuperò nemmeno di questi particolari, nè parlerò del catalogo di Elstir. 1. La Sonata La Sonata, con la sua famosa “piccola frase”, compare già in un importante passo di Jean Santeuil. Allora, essa viene attribuita a Saint-Saèns : Tutt’a un tratto essa si alzò in piedi. Egli credette che venisse da lui. Invece, si fermò davanti al pianoforte, sedette e suonò. Alle prime note lo afferrò un’angoscia straordi­ naria, e dovette fare una smorfia per non piangere. Ma sulle ciglie gli si affacciarono delle lacrime lucenti che, scorgendo all’e­ sterno un’asprezza glaciale, tornarono in­ dietro e non si lasciarono scorrere. Aveva riconosciuto quella frase della sonata di Saint-Saèns che quasi ogni sera, ai tempi della loro felicità, le chiedeva di eseguire, e che essa suonava ininterrottamente, die­ ci volte, venti volte di seguito... (J.S., p. 816). Dieci anni dopo, Jean Santeuil, in una piccola strada del faubourg Saint-Germain, sente suonare un pianoforte: 29

Udì la piccola frase di Saint-Saèns senza riconoscerla subito, ma sentendo in sè una grande frescura, come se fosse ringiovanito improvvisamente. Ed era l’aria calda e fre­ sca dell’estate in cui era stato tanto felice, piena di ombre, di rag^i e di sogni, quella che ora respirava, perchè — non avendo egli mai più provato la dolcezza di quelle sere antiche — essa aveva conservato in lui l’età di allora e da quel tempo, intatta e fresca, gli giungeva alPimprowiso. La piccola fra­ se si affrettava alla sua fine, ed ora come una volta era dolce per lui. Se nel tempo della sua felicità essa aveva anticipato, con la pro­ pria tristezza, il tempo della separazione, nel tempo della separazione, col proprio sor­ riso, essa aveva anticipato il tempo del suo oblio (J.S., p. 818). 1 Proust, poco prima, aveva notato : Così tutto era cambiato, tutto ciò che riem­ piva la sua vita era morto ed egli stesso, certo, sarebbe presto morto, o avrebbe vissuto una vita peggiore della morte, ma la piccola frase deliziosa avrebbe continuato a diffondere con un moto sempre ugual­ mente rapido il suo puro suono, per inebria­ re l’amore di chi comincia ad amare, per avvelenare la pena di chi non ama più. Tut­ to, intorno a lei, era mutato, ma essa non era mutata. Aveva durato più a lungo del loro amore, sarebbe durata più a lungo di loro. Molto tempo dopo di loro, degli amanti fiduciosi sarebbero andati come tanti altri in fondo ai boschi per cercare, ai piedi della sua sorgente, una felicità creduta complice 30

della loro, per invocare il genio misterioso delle sue acque. C’era dunque qualcosa di più duraturo del loro amore. E dunque, forse quell’amore non era davvero reale? Cos’era che, già triste nella felicità, rimaneva felice nella tristezza, e poteva sopravvivere ai colpi cui egli non credeva di poter soprav­ vivere?... che sopravviveva ai nostri mali e sembrava superiore ad essi, a cui avrebbe voluto chiedere il segreto della sua durata e la dolcezza del suo riposo (J.S., pp. 817-18). E’ già il tema del grande commento al Settimino: Eppure... qualcosa di più misterioso che l’amore di Albertine sembrava essere promes­ so all’inizio di quest’opera... (R.T.P., III, p. 253). Gli amori impossibili di Proust saranno riscat­ tati nella misura in cui gli permetteranno di trasmet­ tere un “canto”, una “frase” paragonabile a quella della Sonata, a degli “amanti fiduciosi” che “an­ dranno ai piedi della sua sorgente per cercare una felicità” (o un dolore) “creduta complice della loro”. Si capisce, allora, il ruolo fondamentale della Sonata nella prima architettura della Recbercbe du temps perdu. E’ abbastanza facile reperire, sotto la mole enorme dell’attuale organismo, il primitivo progetto di una simmetria molto semplice.- l’infan­ zia di Marcel è divisa tra due “parti” opposte, il còté Swann e il cóté Guermantes. La piccola frase musicale sarà 1’ “inno nazionale” di Un Amour de Swann, descritto, nella sua evoluzione, dall’intera Sonata. Dall’altra “parte”, essa avrà lo stesso valore per Un Amour de Guermantes: dunque, costituirà 31

una sorta di prefigurazione della Rechercbe du temps perdu, l’opera che contiene questi due amori e li ricongiunge. Nelle prime pagine di Du coté de chez Swann, Marcel ci racconta che, svegliandosi, egli riattraversa in genere due stanze essenziali della sua esistenza; la prima è quella di Combray: ... nella mia camera a Combray, dai nonni, in giorni lontani che in quel momento mi fi­ guravo presenti senza rappresentarmeli con precisione, e che avrei rivisto meglio di lì a poco, quando fossi stato del tutto sveglio (R.T.P., I, p. 6); la seconda stanza è quella di Tansonville, nella casa di Madame de Saint-Loup : Poi rinasceva il ricordo di un diverso atteg­ giamento, la parete scorreva in un’altra direzione: ero nella mia camera da Madame de Saint-Loup, in campagna; Dio mio! sono almeno le dieci, devono avere già finito di cenare. Avrò prolungato troppo la siesta che faccio tutte le sere, rientrando dalla pas­ seggiata con Madame de Saint-Loup, prima di vestirmi. Perchè sono trascorsi molti anni dal tempo di Combray, dove, in occasione dei nostri rientri più tardi, erano i riflessi rossi del tramonto quelli che vedevo sui vetri della mia finestra. E’ un altro genere di vita quello che si conduce a Tansonville, da Madame de Saint-Loup... (R.T.P., I, pp. 6-7). In Du còté de chez Swann, Robert de Saint-Loup non figura ancora, e il lettore, dunque, non sa nulla di ciò che questo nome può significare. E’ un segnale 32

anticipato. A Combray le due “parti” si separano netta­ mente; a Tansonville si ricongiungono. E le due stan­ ze da letto appaiono, l’una dopo l’altra, nella ca­ mera in cui ora Marcel è solito svegliarsi, la camera di Parigi, quella in cui scrive il suo libro. Nel leggere, oggi, il titolo: A la recherche du temps perau, impressionati dal peso che l’opera ha attribuito a ciascuna delle parole che lo compon­ gono, tendiamo di solito a dimenticare che, in ori­ gine, si trattava di un titolo elegante e frivolo, del tutto omogeneo, in questo, al fratello maggiore: Les Plaisirs et les jours. Noi ora sappiamo che quel “tempo perduto” è in realtà il paradiso perduto del­ l’infanzia, della nobiltà, dell’innocenza, lo sappiamo perchè il titolo — Le Temps Retrouvé — e il con­ tenuto dell’ultima parte ce lo hanno splendidamente chiarito. Ciò non toglie che, all’inizio, il “tempo perduto” fosse proprio il tempo che si perde, i mo­ menti trascorsi senza far niente; un titolo raffinato, dietro cui cercava di nascondersi la cattiva coscienza di un ozioso. E’ proprio lo sviluppo dell’opera che ha portato questa cattiva coscienza a manifestarsi tanto superbamente. Un demone meraviglioso, rintanato nella meccanica del suo lavoro, ha costretto poco a poco Proust (che avrebbe tanto voluto scrivere libri di garbo e dolcezza, alla Bergotte) ad incupire prodi­ giosamente il colore del suo inchiostro. Il fatto è che, fin dall’inizio, qualcosa si ribel­ la, rifiuta di assecondare la simmetria appena dise­ gnata, la anima; se attraverso le maglie dell’altra “par­ te” — del coté Guermantes —se attraverso il secondo amore deve riapparire il primo, necessariamente il secondo versante dell’opera sarà più complicato e, per le stesse ragioni, tenderà ad ampliarsi costantemente, fino a distruggere, verso la fine, l’equilibrio del libro. 33

Così, quando compare Du côté de chez Swann, questa seconda parte dell’opera si è già sensibilmente estesa. L’amore di Marcel e ora rivolto a “Guermantes”, e Guermantes significa per lui un “nome”, molto più che una persona determinata: il che è indispensabile affinché un giorno Gilberte Swann di­ venga duchessa di Guermantes e possa — in quanto signora di Tansonville — ricongiungere in sè le. due “parti”, apparentemente irriducibili, di Combray. Ma Proust si è accorto che l’attrazione esercitata su di lui da quel nome è, in parte, una manifestazione di snobismo: non è indifferente —lo sa bene —che si tratti di un nome nobile, del nome non solo di una persona, ma anche di un paese. Da questa consape­ volezza nascono i tre livelli, le tre fasi deU’amore per Guermantes: i nomi di paese : il nome, i nomi di paese: il paese, i nomi di persona: la duchessa di Guermantes. Noms de pays-. le nom costituisce il terzo capi­ tolo di Du côté de chez Swann che, nell’edizione originale, è corredato di un piano d’opera in cui viene preannunciata la comparsa degli altri due volumi (ma poi sono diventati molti di più): Le côté de Guermantes e Le Temps Retrouvé. Le côté de Guermantes doveva aprirsi con un capitolo di raccordo, Chez Madame Swann, che è poi diven­ tato la prima parte di A Vombre des Jeunes Filles en fleurs, nel corso della quale la Sonata viene tra­ smessa da Swann a Marcel. Dovevano seguire: Noms de pays: le pays (ora all’inizio della seconda parte di A (’ombre des Jeunes Filles en fleurs)-, un altro in­ termezzo, Premiers crayons du baron de Charlus et de Robert de Saint-Loup (che conclude, nell’ulti­ ma stesura, A l ’ombre des Jeunes Filles en fleurs)-, Noms de personne: la duchesse de Guermantes (di­ venuto il primo capitolo dell’attuale Côté de Guer­ mantes). 34

Anche Charlus e Saint-Loup sono dei Guermantes; non portano questo nome ma, in qualche modo, partecipano al còté Guermantes, sono sue emana­ zioni e suoi ambasciatori. In Un Amour de Swann, è Swann il soggetto del desiderio ; al contrario, in Un Amour de Guermantes, questo nome, “Guermantes” — e tutto ciò che designa, in modo spesso così sub­ dolo e mistificante — è fatto oggetto di amore. So­ no le leggi deU’aristocrazia degradata e costretta a vivere in faubourg Saint-Germain a far sì che l’a­ more di Marcel possa realizzarsi, che egli stesso possa introdursi nel “mondo” della duchessa, solo nella misura in cui lo si sceglie, ci si innamora di lui, ed è per questo motivo che il nome di Guermantes, il cui cuore visibile e splendente è la duchessa, espel­ lerà, per mandarli a ricevere Marcel, due accoliti, entrambi segretamente omosessuali. Si vede già come il secondo versante della costru­ zione primitiva sia più complicato del primo. Ciò die in Un Amour de Swann era semplice e compatto, qui si sdoppia: dà luogo, prima, a Gilberte e alla Duchessa, destinate a diventare una persona sola quando Gilberte sarà la duchessa di Guermantes; poi, a Charlus, Saint-Loup e la Duchessa, mentre Albertine rappresenterà, in qualche modo, la figura centrale, il termine mediano c' " izione. doveva A Vombre des Jeunes essere il titolo del primo capitolo di Le Temps Retrouvé, il terzo volume. Lo fa scorrere indietro, a prima di Le coté de Guermantes, la messa in campo di Albertine, di un personaggio che dovrà scompa­ rire, alla fine, per permettere la fondamentale identi­ ficazione tra Gilberte e la Duchessa. Lo sdoppiamento, che contraddistingue la se­ conda parte della Rechercbe, obbliga la Sonata a presentarsi qui in una versione molto diversa; si tratta di passare dall’esecuzione di un solo strumento 35

a quella di due strumenti differenti. Esiste una sonata per piano e violino di SaintSaèns, ma nel passo citato di Jean Santeuil non si parla che del pianoforte. Allo stesso modo, la Sonata di Vinteuil — scrit­ ta per pianoforte e violino —viene eseguita la prima volta, e, anche in seguito, quasi sempre, nella riduàone per solo piano. Siamo ormai in grado di renderci conto che il passaggio: pianoforte solo — pianoforte e violino non bastera alla struttura più complessa assunta dalla Recherche. Questo passaggio, accordato su una simmetria originariamente binaria, si riduce ad essere, nella forma attuale dell’opera, una prefi­ gurazione del passaggio dalla Sonata al Settimino. Su questa prefigurazione sarà costruita l’ossatura di Un Amour de Swann, in cui, dall’esecuzione al piano­ forte nel salotto di Madame Verdurin, si passa all’e­ secuzione di pianoforte e violino, da Madame de Sainte-Euverte. Esaminiamo ora le descrizioni della Sonata che si susseguono in questo capitolo. La prima, nella forma del ricordo, evoca la Sonata nel suo com­ plesso, e con tutti e due i suoi colori strumentali, così come era stata eseguita nel corso di una serata, l’anno prima: In un primo tempo non aveva apprezzato che la qualità materiale... [degli] strumen­ ti. Ed era stato già un grande piacere quando, sotto la linea sottile del violino, esile, resi­ stente, densa e conduttrice, aveva visto ad un tratto cercare di elevarsi, in un liquido sciabordio, la massa della parte per pianofor­ te, multiforme, indivisa, piana e attraversata da forze contrastanti come il tumulto color malva dei flutti, che il chiaro di luna incan­ ii

ta e bemollizza. Ma a un certo momento, senza potere distinguere nettamente un contorno, dare un nome a ciò che lo attrae­ va, improvvisamente affascinato, aveva cer­ cato di cogliere la frase o l’armonia — non sapeva nemmeno lui —che gli scorreva davanti e che gli aveva aperto il cuore... (R.T.P., I pp. 208-9). Questo qualcosa che si è staccato dal paesaggio, Swann cerca di fissarlo in una rappresentazione spaziale: può così riconoscerlo, quando si ripresen­ ta: Così, non appena la sensazione deliziosa provata da Swann era svanita, la sua memoria gliene aveva fornito seduta stante una tra­ scrizione sommaria e provvisoria, ma che egli aveva potuto tenere d’occhio mentre il pezzo continuava, tanto che, quando la stes­ sa impressione era improvvisamente tor­ nata, non era già più inafferrabile. Se ne rappresentava l’estensione, gli aggruppamen­ ti simmetrici, la grafia, il valore espressi­ vo; aveva dinanzi a sè quella cosa che non è più musica pura, ma disegno, architettu­ ra, pensiero, e che permette di ricordare la musica (R.T.P., I, p. 209). Non si tratta,, qui, della trascrizione in linguag­ gio musicale di questa frase; ciò che per ora importa e la sua spazialità essenziale, o meglio la sua capa­ cità di occupare uno spazio, e cioè il presupposto necessario di qualsiasi scrittura convenzionale. Istituendo uno spazio sonoro capace, in qualche mo­ do, di misurarsi con lo spazio ottico, la musica si fa oggetto delle nostre rappresentazioni, acqui­ 37

sta la possibilità di “dirci qualcosa”. E, d'altronde, proprio la costituzione di un tale spazio rende pos­ sibile l'avvento del linguaggio articolato. Ormai immobilizzata nel suo fluire, la frase di Swann può finalmente essere descritta: Con un ritmo lento, essa lo guidava prima qui, poi là, poi altrove, verso una gioia nobile, inintellegibile e precisa. E d’un tratto, al punto in cui era arrivata e da cui egli si pre­ parava a seguirla, dopo una pausa di uri istan­ te, bruscamente cambiava direzione, e con movenze nuove, più rapide, brevi, malin­ coniche, incessanti e dolci, lo trascinava con sè verso prospettive sconosciute. Poi scomparve. Egli desiderò appassionatamente di rivederla una terza volta. Ed essa riappar­ ve, infatti, ma senza parlargli più chiaramen­ te, causandogli anzi una voluttà meno pro­ fonda (R.T.P.y I, p. 210). Alcuni temi importanti possono già essere enu­ merati: un paesaggio formato da due elementi, di cui l’uno sottomesso all’altro, attratto dall'altro, il pianoforte — nel caso specifico — che innalza le proprie note verso la linea tracciata dal violino, simile al mare che, gonfio, si protende verso la luna. Molta insistenza sulla metafora marina. Golor malva, viola. La musica stende un paesaggio astratto — ar­ chitettura, pensiero, estensione, raggruppamenti sim­ metrici, grafia, valore espressivo; o ancora, come era stato detto poco prima, le note... tendono..., a seconda della loro altezza e quantità, a coprire dinanzi ai nostri occhi superfici di varie dimensioni 38

(viene in mente la trascrizione del secondo stu­ dio di musica elettronica di Stockhausen), a tracciare arabeschi, a darci sensazioni di vastità, di tenuità, di stabilità, di capriccio (R.T.P., I,p. 2 0 9 )un paesaggio spesso estremamente generico, ma capace poi di acquisire, per la nostra immaginazione, una propria individualità, mediante visualizzazioni di ogni genere (per esempio, il chiaro di luna sul mare, come in questo caso), variabili a seconda de­ gli individui o dei momenti. Su quel paesaggio si stacca per tre volte una unità sonora riconoscibile, pertanto tale da poter costituire l’essenza di un nome e, dunque, rappre­ sentare una persona: Ma, tornato a casa, ebbe bisogno di lei: era come un uomo nella vita del quale una passante, scorta per un attimo, abbia fatto entrare l’immagine di una bellezza nuova, tale da accrescere il valore della sua sensibi­ lità, senza peraltro che egli sappia soltanto se potrà mai rivedere colei che già ama, e di cui ignora persino il nome (R.T.P., I, p. 210). Questa persona che viene e torna, che scompare ed è poi ritrovata, traccia, nel paesaggio sonoro, un sentiero su cui precede l’ascoltatore: è un sentiero tortuoso, difficile, ripido, una metafora che punta naturalmente, nel suo complesso, a rappresentare A la recberche du temps perdu, ma che riflette il proprio valore allusivo nella struttura dell’unità so­ nora, dal momento che anche la “persona” rivela l’andamento di un sentiero a due versanti, separati da una pausa — simile a una sosta sulla sommità di un colle — il primo dei quali consta di tre parti 39

e di altrettanti cambiamenti di direzione. La struttura interna della piccola frase riflette quella dell’inte­ lo andante. Quanto poi al colore viola — caratteristico di quell’epoca e dell’arte 1900 — esso ha allora un significato molto particolare: è il colore dell’ombra (proprio in quel periodo si parlava di Monet come di chi aveva scoperto che “tutte le ombre sono viola”), il colore di ciò che non si vede più, dell’indicibile, dell’ineffabile, dell’inesprimibile, dell’evanescente... Se è vero che la musica può estendersi nello spazio — e rendere dunque possibile la scrittura, il linguaggio articolato — è altrettanto certo che essa non coincide mai completamente con un ambito spaziale; qualcosa, nella musica, resta inesteso, ed è precisamente l’evento puro, “per così dire sine materia”, del rumore e del suono. Così, la musica non sarà mai totalmente resa dal linguaggio, di cui peraltro tollera, e anzi esige, lo sviluppo; essa (lin­ guaggio degli angeli) rappresenterà costantemente, nei suoi confronti, un ideale e insieme una critica; ci obbligherà sempre a interrogarci sulla relazione che intercorre tra il nome e la cosa, a fondare, ogni volta e per sempre, l’uso delle parole nel bagno di giovinezza della metafora. Questa progressione : musica, pittura, linguag­ gio, corrisponde all’altra: Sonata, opere di Elstir, A la recherche du temps perdu. Per . ora, la pittura assolve alla funzione di termine mediano tra la musica e le parole; la comparsa del Settimino im­ plicherà la consapevolezza di rapporti più complessi tra musica, pittura e parole, che si disporranno al­ lora non più su di un’unica linea, ma in modo da formare una specie di triangolo. La prima descrizione della Sonata, neiresecuzione dell’ “anno prima”, la inquadra tra gli archetipi, in quella preistoria di cui fanno parte anche le opere 40

d’arte immaginarie costitutive del mondo antico di Combray. Quando l’opera compare per la prima volta nella storia, allineata sul filo del racconto, durante la serata dai Verdurin, risulta irriconoscibi­ le, sminuita in una riduzione per solo piano, al punto che Swann, incapace di riconoscerne il pae­ saggio complessivo, riuscirà solo a identificare la “persona” e il suo percorso: Ora, appena qualche minuto dopo che il piccolo pianista aveva cominciato a suonare da Madame Verdurin, d’un tratto, dopo una nota alta tenuta a lungo, per due bat­ tute, vide avvicinarsi, sfuggendo di sotto a quella sonorità prolungata e tesa come una cortina sonora per celare il mistero del­ la sua incubazione, riconobbe... la frase... che amava. Ed essa era così particolare, il suo fascino era così individuale che ... o dissodato, dissodamento; “Carquethuit" è dunque a chiesa dissodata, ripulita, sbarazzata della sua li­ quida cortina.

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Quanto a Balbec, il vero termine della terra francese, euro­ pea, della Terra antica... l’ultimo accampa­ mento di pescatori, simili a tutti i pescatori vissuti dal principio del mondo, di fronte al regno eterno delle nebbie del mare e del­ le ombre (R.T.P., I, p. 384), come l’aveva descritta per la prima volta Legrandin a Marcel, e nel cui nome quest ultimo vedeva come nella lente d’ingrandimento di quei portapenne che si comprano ai bagni... delle onde sollevate intorno a una chiesa di stile persiano (R.T.P., I, p. 389), jli accertamenti etimologici danno cosi scarsi tati per la prima sillaba, che Brichot è indotto a farne una corruzione di Dalbec, essendo “da una forma di thal, vallata-, di contro, la scoperta che bec significa ruscello evoca la scena di Carqueville e “Il Porto di Carquethuit”, che, insieme, susci­ tano un nuovo Elstir: “D’altronde, il fiume che ha dato il nome a Balbec è incantevole. Visto dalla scogliera... esso sembra accostarsi alle guglie della chie­ sa, situata in realtà a grande distanza, e pare rispecchiarle. — Lo credo bene, dissi: e un effetto che a Elstir piace molto. Ne ho visto vari schizzi da lui” (R.T.P., II, p. 938). Nello stesso senso, d’altronde, Brichot fornisce un’altra informazione: "... Balbec dipendeva dalla baronia di Dou-

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vres, e perciò si diceva spesso Balbec d’Oltremare...” (.R.T.P., II, p. 936). L’immagine di una chiesa emergente dalle acque induce facilmente a pensare all’importanza di San Marco, a Venezia, chiesa marina in cui si riuniscono l’Oriente e l’Occidente, e alla quale è paragonata la Sonata, fin dalla prima esecuzione di Odette per Marcel: ... pensando che l’opera non mi riservasse più nulla... dal momento che Madame Swann me ne aveva suonato la frase più famosa (ero .stupido in questo come coloro i quali non sperano più di provare sorpresa, dinanzi a San Marco, a Venezia, perchè la fotogra­ fia ha mostrato loro la forma delle sue cupole) (R.T.P.. I,p. 530). Balbec d’oltremare, Balbec di terra, la chiesa di Balbec sono il paradiso; Balbec-lido, Balbec sotto­ marina, l’hòtel di Balbec rappresenteranno ben presto l’inferno: ... quelle immagini... non le vedevo nella luce che illumina gli spettacoli della terra, co­ stituivano il frammento di un altro mondo, di un pianeta sconosciuto e maledetto, un panorama d’inferno. L’Inferno era tutta quella Balbec, tutti quei paesi vicini... Quel mistero, che un tempo avevo attribuito a Balbec e che si era dissolto quando c’ero vissuto, che in seguito avevo sperato di ri­ afferrare conoscendo Albertine, perchè, quan­ do la vedevo passare sulla spiaggia. ... pen­ savo che essa lo incarnasse, come impre­ gnava ormai orribilmente tutto quello che si riferiva a Balbec! (R.T.P., III, p. 518) 71

Ma allora, il nome della prima stazione citata tra quelle che si incontrano nella zona di Balbec (nella Fugitive) è molto significativo: Apollonville: Apollo, dio del sole un tempo, poi, nel Medio Evo, potente demonio. Marcel non potrà scoprire nel portale di Balbec quel paradiso che il nome gli aveva fatto intravedere, se non attraverso rintermediario del prisma di Elstir; allo stesso modo, avrà bisogno del prisma di Vinteuil, e della congiunzione Vinteuil — Mademoi­ selle Vinteuil — amica di Mademoiselle Vinteuil — Albertine, per scoprire neH’acquario di Balbec-lido tutto il suo inferno, l’inferno che gli sarà necessa­ rio conoscere per poter risalire al cielo. Cosi come per Swann ci sono tre esecuzioni >rincipali della Sonata, si può vedere che tre sono e principali contemplazioni del portale di Balbec, da parte di Marcel: la prima, archetipica, è fatta di tutto ciò che il nome contiene ed esprime, a cui si aggiunge il commento di Swann, integrato dalle visite al Museo dei Monumenti francesi: Mi condussero a vedere delle riproduzioni delle più celebri statue di Balbec — gli A)ostoh dai capelli crespi e dal naso camuso, a Vergine del portico, e per la gioia mi si fermava il respiro nel petto al pensiero che avrei potuto vederli stagliarsi in rilievo sulla nebbia eterna e salata (R.T.P., I, p. 385); la seconda, quella della delusione, è il giorno deH’arrivo, quando Marcel si rende improvvisamente conto che esistono due diverse Balbec, Balbec-lido e la vecchia Balbec di terra, di cui ancora non sa che è anche Balbec d'oltremare — la Vergine e gli Apo­ stoli che le fanno seguito sono allora investiti da una spessa nebbia composta di un bigliardo, degli

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odori provenienti da una cucina di pasticcere, ecc.: ... era stato come se avessi praticato una fes­ sura in un nome che si sareobe dovuto tenere ermeticamente chiuso e dove..., scacciando tutte le immagini che vi vivevano fino a quel momento, un tramvai, un caffè, la gente che passava sulla piazza, la succur­ sale del Banco di sconto, irresistibilmente spinti da una pressione esterna e da una for­ za pneumatica, si erano riversati dentro alle sillabe che, rinchiusesi su di loro, li lasciavano ora far da cornice al portico della chiesa persiana, e non avrebbero più cessato di contenerli (R.T.P., I, p. 660); la terza contemplazione del portale, o Balbec ritrovata, è la descrizione illuminante che ne fornisce Elstir, abbandonando il sentiero raffigurato nel “Por­ to di Carquethuit”: “vasta visione celeste”, “gigante­ sco poema teologico e simbolico” : “Come — mi disse — siete stato deluso da quel portale? Ma è la più bella Bibbia istoriata che il popolo abbia mai potuto leggere. Quella Vergine, e tutti i bassorilievi che ne raccontano la vita, sono l’espressione più tenera, più ispirata di quel lungo poema di adorazione e di lodi che il Medioevo svolgerà in gloria della Madonna” (R.T.P., I, p. 840), poema ingenuamente prefigurato dal portico di Saint-André-des-Champs. E’ facile capire come l’adorazione di Proust per sua madre lo porti a insistere sulla verginità di Maria, sull’Immacolata Concezione:

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L’idea di quel grande velo nel quale gli Angeli portano il corpo della Vergine, troppo sa­ cro perchè osino toccarlo direttamente...; e il braccio bendato della levatrice che non aveva voluto credere, senza toccare, all’im­ macolata Concezione... (R.T.P., I, pp. 84041). Il desiderio che suscita in lui Albertine, vera infedeltà a sua madre, è il peccato originale che trasforma inevitabilmente il paradiso terrestre in inferno : ... quando ero tanto pazzo da desiderare che non fosse virtuosa... (R.T.P., III, p. 518). In questo tempio splende un sole superiore: E l’angelo che porta via il sole e la lunadiventati inutili, poiché è detto che la Luce della Croce sara sette volte più potente di quella degli astri... (R.T.P., I, p. 841). Dunque, il colore rosso del sole dipinto da Elstir non e che uno degli elementi che si combineranno nella luce finale. I gradini di cristallo o di luce, che salgono dal grotta sottomarina alle chiese, sappiamo ora dove portano. Qui, ancora, ci sono due cótés: Guermantes e Méséglise, il cattolicesimo e la sinagoga: Gli parlai di quelle grandi statue di santi che, montate su dei trampoli, formano una specie di viale. — Esso muove dal fondo dei tempi per giun­ gere a Gesù Cristo, mi disse. Sono, da una parte, i suoi antenati secondo lo spirito, 74

dalPaltra i Re di Giuda, ¡suoi antenati secondo la carne. Tutti i secoli sono presenti. E se aveste guardato meglio quelli che vi sono parsi trampoli, avreste potuto individuare coloro che vi sono issati. Perchè sotto i piedi di Mosè avreste riconosciuto il vitello d oro, sotto i piedi di Abramo, l’ariete, sotto quelli di Giuseppe, il demonio che consiglia la moglie di Putifarre (R.T.P., I, p. 842). La scala di Giacobbe, con una trasposizione molto tradizionale, è così applicata al corso della Storia. 3. Il Settimino E’ solo dopo Tintervento di Elstir che s’impone la metafora fondamentale deirartista come prisma. Si può dire che proprio la pittura di Elstir è il prisma che determina il passaggio dalla Sonata al Settimino, dairunica tinta della prima ai sette strumenti del “concerto”. Già in Un Amour di Swann era presente una prima analisi, si passava dalla riduzione per pianoforte (esecuzione Verdurin) alla dualità pianoforte-violino (esecuzione Sainte-Euverte); si passava dal viola, colore dell’evanescente, a un contrasto tra l’ultravioletto, colore invisibile, e l’iridato, i cui colori contraddistinguono ciò che si vede. La meta­ fora del prisma trasformerà poco a poco quest’a­ nalisi nella scomposizione della luce bianca, dun­ que nel passaggio dal bianco ai sette “gradini” lumi­ nosi dello spettro. Un particolare della vita letteraria di Proust lo ha probabilmente confermato nella scelta di perse­ guire questa evoluzione dal viola al bianco: rappre­ senta infatti un segno della sua stessa evoluzione di scrittore il fatto che, dopo avere collaborato alla 75

Revue Lilas (la rivista del liceo Condorcet); egli sia diventato, qualche anno dopo, uno degli au­ tori della Revue Bianche. Lo studio dei manoscritti dimostra che la tra­ sformazione della Sonata in Settimino si è prodotta a tappe, corrispondenti allo sviluppo della stessa Recherche, Nel frammento già citato, contempora­ neo di A Vombre des Jeunes Filles en fleurs, e cioè scritto quando il romanzo è concepito in cinque parti, l'opera finale da eseguire nel corso dell ul­ tima matinée Guermantes deve essere un quintet­ to. D'altra parte, nei quaderni manoscritti della Prisonnière, il cui titolo è, prima, “A la recherche du temps perdu. Quinto ed ultimo volume (Sodo­ me et Gomorrhe II. — Le Temps retrouvé”, poi “Quaderno Vili. Con lui comincia il quinto ed ul­ timo volume di A la recherche du temps perdu, volume intitolato: Sodome et Gomorrhe III. — Le Temps retrouvé” (ma anche questo sottotitolo verrà in seguito cancellato per riservarlo, come titolo, a un sesto ed ultimo volume), a partire da un certo momento, per una sfasatura tra due diverse siste­ mazioni del testo, il “concerto” di Vinteuil viene sempre definito un. “sestetto”, salvo in un punto dove l'edizione della Plèiade dà “pezzo per dieci (dix) strumenti”, il che è verosimilmente un erro­ re di lettura o addirittura di stampa, e sta per “pezzo per sei (six) strumenti”. Più interessante è il fatto che quando Marcel fa suonare ad Albertine dei brani di Vinteuil alla pianola, il testo manoscritto dà sempre “quartetto”. La parola ricorre due volte, è confermata da un'al­ lusione: ... le frasi misteriose che si ripetono in certi quartetti e nel “concerto” di Vinteuil (R.T.P.y III, p. 381), 76

ed è tanto meno probabile che sia originata da una svista, in quanto la troviamo poi in questa de­ scrizione precisa: ... nel quartetto di Vinteuil la somiglianza del tema dell’adagio, che è costruito sullo stesso tema-chiave del primo e deirultimo tempo, ma risulta talmente trasfigurato dalle differenze di tonalità, di misura ecc., che il pubblico profano, se apre un libro su Vinteuil, si stupisce di vedere che sono co­ struiti tutti e tre con le stesse quattro note, quattro note che si possono d’altronde suonare con un dito, al piano, senza ritro­ vare nessuno dei tre brani (R.T.P., III, p. 400). La Sonata — ce ne ricordiamo — è costruita su un tema di cinque note, di cui soprattutto due sono importanti. La frase essenziale del Settimino conta sette note. Quando si arriva alia descrizione del Settimino, si possono trovare come le tracce di un quartetto precedentemente inglobato: soltanto quattro stru­ menti vengono indicati: il pianoforte, il violino, il violoncello e Tarpa; e quando Marcel analizza gli “elementi impuri” che si uniscono in questa festa e che egli sa dissociare meglio di chiunque altro, “avendo imparato a conoscerli separatamen­ te”, ci troviamo ai fronte, in modo molto chiaro, quattro momenti, tutti legati, nel loro duplice aspetto, a Balbec e a Combray: ... gli uni — quelli attinenti a Mademoiselle Vinteuil e alla sua amica - parlandomi di Combray, mi parlavano anche di Albertine, cioè di Balbec...; e quelli concernenti Morel 77

e M. de Charlus, parlandomi di Balbec,... mi parlavano anche di Combray e delle sue due “parti”... (R.T.P., III, p. 265). Quartetto, Sestetto, Settiminó: come inter­ pretare queste divergenze? Soltanto un esame ac­ curato del manoscritto permetterà di stabilire con certezza le date relative delle pagine che riportano “Quartetto” e di quelle che, invece, parlano di un “Sestetto”, mentre è chiaro che le pagine del “Set­ minimo”, all'inizio dell’esecuzione Verdurin, sono le ultime. Ecco che cosa ne penso io. Sappiamo che, al tempo di una prima redazione di A l’ombre des Jeunes Filles en fleurs, l’esecuzione Guermantes della Sonata si era già trasformata nell’esecuzione di un Quintetto; il concerto, poi soppresso, del Casino di Balbec era costituito di tre numeri: 1) un Quintetto con pianoforte eseguito da sole donne, attribuito all’inizio, ma in modo del tutto provvisorio, a César Franck, 2) una parte per organo, durante la quale un vecchio si avvicina alla tastiera, 3) un pezzo per violino eseguito da un giova­ ne, Santois (che compare allora per la prima vol­ ta e che diventerà Morel) protagonista dell’episo­ dio caratteristico della ciocca ai capelli ; questo concerto era previsto, in orgine, per l’ultima matinée Guermantes, e Proust si chiede­ va se non gli sarebbe convenuto lasciare il Quin­ tetto per la matinée, l’organo per Balbec. Nel manoscritto della Prisonnière, giusto dopo la ripresa dell’episodio della ciocca di capelli, egli annota in margine : pianista stonato? (o per l’ultimo capitolo), vecchio che sale all’organo con Vinteuil? 78

(o per l’ultimo capitolo) (anche l’opera per organo del Casino è dunque ora attribuita a Vinteuil; la ritroveremo nell’episodio di Albertine alla pianola, con il titolo di Va­ riazione religiosa per Organo, una frase della quale è riconoscibile nel "Quartetto”); nel momento in cui ha redatto questa nota, Proust lasciava dunque vivere Vinteuil fino alla conclusione del romanzo — al contrario, quando scrive le pagine del “Settimino”, dichiara che il musicista e morto da anni, il che rende possibile e giustificato il ruolo essenziale dell’amica di Ma­ demoiselle Vinteuil nella decifrazione dei mano­ scritti ed esitava nella scelta dell’opera finale: Quin­ tetto (o Sestetto) con pianoforte, oppure Variazione per Organo ; in seguito, ha dovuto optare per il Sestetto, e fare del concerto Verdurin un Quar­ tetto, termine mediano tra la Sonata Sainte-Euverte e il Sestetto del concerto Guermantes. Avrem­ mo allora sette principali epifanie della piccola frase: 1) esecuzione-archetipo della Sonata, “l’anno prima”, 2) riduzione per pianofrte Verdurin, 3) duo piano-violino Sainte-Euverte, 4) riduzione per pianoforte Madame Swann (trasmissione della Sonata a Marcel), 5) Quartetto Verdurin, 6) riduzione per pianola Albertine, 7) Sestetto Guermantes; si vede bene come funziona il gioco delle simme­ trie, da una parte e dall’altra rispetto al momento della trasmissione. Quando Proust arriva a redigere l’attuale ver­ sione della Re eh ereh e, la metafora del prisma fis­

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sa l’opera in un Settimino postumo, per il quale vengono utilizzate tali e quali pagine consacrate al Quartetto ed altre dedicate al Sestetto, nono­ stante questo comporti unificare, da allora in poi, le due opere; in questo modo, la Variazione per Or­ gano resta libera per la matinée Guermantes. E’ senz’altro il caso di ricordare qui che in A l ’ombre des Jeunes Filles en fleurs permane una traccia del concerto soppresso, il canto del violino che si innalza al di sopra dell’acquario : “Abbiamo guardato — mi diceva la sera Albertine - per vedere se sareste sceso. Ma le vostre imposte sono rimaste chiuse anche all’ora del concerto.” Alle dieci, in­ fatti, esso esplodeva sotto le mie finestre. Negli intervalli che osservavano gli stru­ menti, se il mare era grosso, riprendeva, armonioso e continuo, il riflusso di un’on­ da, che sembrava avvolgere le note del vio­ lino nelle sue volute di cristallo e far zam­ pillare la sua schiuma sopra gli echi inter­ mittenti di una musica sottomarina (R.T.P., I, p. 954). La Sonata per pianoforte e violino permette­ va la riconciliazione di due elementi: il coté SwannGilberte, il coté Guermantes-la Duchessa; all’esecu­ zione finale corrispondeva la trasformazione di Gilberte in Duchessa. Ma all’epoca di A l ’ombre des Jeunes Filles en fleurs, all’epoca del Quintetto, gli elementi da riconciliare si sono già moltiplica­ ti, poiché il nome di Guermantes ha espulso e man­ dato incontro a Marcel due uomini che lo deside­ rano: Saint-Loup e Charlus. Questo “desiderio” dei nobili per chi è loro socialmente inferiore si rifletterà per Marcel nel desiderio di una donna 80

che, come Odette rispetto a Swann, gli è social­ mente inferiore: Albertine, riflesso nell’acqua della Duchessa. Al momento dell’esecuzione finale, dun­ que, sono questi i cinque elementi da combina­ re: Charlus diventerà il ritratto di sua madre, il nome di Albertine sparirà in quello di Gilberte (episodio del telegramma ricevuto a Venezia), la quale, a sua volta, diventerà Madame de Saint-Loup, prima di finire Duchessa di Guermantes. Un sesto elemento compare quando la Duches­ sa comincia a mostrarsi accessibile; il nome di Guer­ mantes espelle allora un personaggio più prestigio­ so della Duchessa, quello della Principessa, tutta biancore e mitologia, col suo caratteristico nome di battesimo: Marie-Gilbert. L’accesso di Marcel nella sua cerchia sdoppierà anche la Principessa, incrinerà anche questa figu­ ra, e ne metterà in luce una metà inferiore che po­ trà identificarsi con Madame Verdurin. Come il titolo di Duchessa di Guermantes indicherà, alla fíne del libro, sia Gilberte che Oriane, allo stesso modo il titolo di Principessa di Guermantes servirà tanto per Sidonie che per Marie-Gilbert. Si potrebbe continuare cosi a “dedurre” pro­ gressivamente i personaggi principali della Recberche du temps perdu, ma sta di fatto che quando l’opera di Vinteuil assume stabilmente la forma di un Settimino la prosa di Proust si carica di un vero accento di trionfo: E un canto già squarciava l’aria, un canto di sette note, ma il più ignoto, il più diffe­ rente da tutto quanto avessi mai immaginato, allo stesso tempo ineffabile e stridulo; che non era più un tubare di colomba, come nella Sonata, ma lacerava l’aria, non meno vivido del colore scarlatto in cui era sommerso 81

l’esordio, qualcosa di simile a un mistico canto del gallo, un appello ineffabile, ma acutissimo, dell'eterno mattino (R.T.P., 111, p. 250). E’ appena il caso di dire, al punto in cui siamo, che ritroveremo nel Settimino tutti i temi della So­ nata e del “Porto di Canquethuit” : il mare: ... era su superfici uniformi e piane come quelle del mare che, in un mattino di tempo­ rale, cominciava, in mezzo ad un silenzio acerbo, in un vuoto infinito, la nuova opera... (R.T.P., III, p. 250); il sentiero: Come quando, in un posto che crediamo di non conoscere e dove in effetti siamo giunti per una via inconsueta, dopo aver compiuto una svolta del sentiero, ci trovia­ mo d’improvviso a sbucare in un’altra stra­ da, di cui ci sono familiari i minimi aspetti... (R.T.P., Ili, p. 249); la porta: “Ma è il sentiero che conduce alla piccola porta del giardino dei miei amici...” (R.T.P., Ili, p. 249); ecc. Quando, attraverso questa porta, dopo che si è alzato il sipario di pioggia, compare la “fanciul­ la”, la piccola frase “più meravigliosa di un’adole­ 82

scente”, una sorpresa attende il lettore: egli l’ave­ va conosciuta viola, ed è diventata bianca, “barda­ ta d’argento”. Viene a sapere che la Sonata: si apriva su un’alba liliale e campestre, di­ videndo il suo breve candore per sospen­ dersi all’intrico leggero eppure consistente di un rustico pergolato di caprifoglio su dei gerani bianchi... (R.T.P., III, p. 250), in un passaggio che si allontana molto dalla descrizione primitiva, ma che in compenso evoca irresistibilmente la prima apparizione di Gilberte a Tansonville, tra biancospini simili a quelli che decoravano l’altare della Vergine nel mese di Maria, reticolo di biancore luminoso ed animato che ri­ troveremo nella reticella sistemata a protezione della principessa di Guermantes nella grotta sotto­ marina; quel bianco di Tansonville, d’altronde annun­ ciato, già allora, da un viola, quello dei lillà. Il viola, colore dell’inanalizzato, è strettamente connesso all’angoscia e al segreto sessuale, è il colore della “cattleya ; il bianco è quello della verginità, del paradiso da cui il peccato sessuale ci ha fatto cadere; il rosa e il rosso sono in principio i colo­ ri della vergogna, del desiderio, ma poi anche, sem­ pre più, i colori della confessione, della “dichiara­ zione”. Nella Recherche du temps perdu la luce si stende cosi progressivamente sullo “spettro” della sessualità. Per questo, il Settimino debutta in un rosso d’au­ rora cosi splendente, per toccare poi di passaggio l’oro del mezzogiorno, quando l’arpa diviene traliccio d’oro, scala della volta celeste, un mezzogiorno che corrisponde, nello stesso tempo, alla “gioia più densa , e si trascina a terra, con la ciocca di Morel (angelo sinistro contrapposto alla giovane 83

arpista), simile a un corno di demonio, per arriva­ re poco a poco, attraverso tutti gli altri colori, alla nebbia violetta che lentamente scopre il paradiso: ... una gioia ineffabile che sembrava venire dal paradiso... (R.T.P., III, p. 260), annunciato da un arcangelo del Mantegna che, vestito di scarlatto, suona una buccina: un argangelo del Giudizio. Si troverà anche, alla fine, il tema dei due dra­ ghi allacciati, contrassegno “persiano" della chiesa di Balbec: Ben presto i due motivi impegnarono tra loro una lotta corpo a corpo, nel corso della quale talvolta l'uno scompariva interamente, e poi non si scorgeva più che un frammento delraltro. Corpo a corpo di energie pure, per la verità... (R.T.P., III, p. 260). Nel Settimino, a una grande profondità, si sco­ pre certo l'amore di Albertine, ma insieme a lui tutto lo “spettro" degli amori di Marcel. Già in A l ’ombre aes Jeunes Filles en fleurs, l'apparizione della piccola brigata era connessa all'immagine di un arcobaleno in disordine: (... quel piccolo corteo, meraviglioso perche vi erano accostati gli aspetti più diversi, tutte le gamme di colore vi comparivano l'una accanto all'altra, ma che era confuso come una musica in cui non avessi saputo isolare e riconoscere al passaggio le singole frasi, distinte ma subito dopo dimenticate) CRT.P.,I,p.790). 84

L’arte di Elstir (ma infine soprattutto quella di Vinteuil) separerà tutti quegli elementi, permette­ rà a Proust di dare nuovamente ad ogni cosa il suo nome: Quando una pagina sinfonica di Vinteuil, già conosciuta al piano, viene eseguita dall’orchestra, essa rivela — come il raggio di un giorno d’estate che, prima di penetrare in una sala oscura, venga decomposto dal prisma della finestra — simile a un tesoro insospet­ tato e multicolore, tutte le pietre preziose delle Mille e una Notte. Ma come paragonare all’abbagliante immobilità della luce quel che, invece, è vita, perenne e beato movimen­ to? (R.T.P., III, p. 254). La corrispondenza tra i sette colori del prisma e le note della scala è talmente radicata nella tradi­ zione, da rendere inutile una lista di esempi. Que­ sto vocabolario a doppio senso informa tutto il passo seguente -- che bisognerebbe citare per intero: ... cosi come esisteva un certo universo, percepibile per noi nei suoi frammenti spar­ pagliati qua e là, in certe case e in certi musei, e che era l’universo di Elstir, quello che egli stesso vedeva, in cui viveva, allo stes­ so modo la musica di Vinteuil irradiava, ad ogni nota, ad ogni tocco, le colorazioni sconosciute, incomparabili, di un universo insospettato, frammentato dalle lacune che restavano tra le successive audizioni della sua opera... (.R.T.P., III, p. 255). Molto bello l’effetto cangiante della parola “toc­ co” {touche) che mette in comunicazione tra loro 85

il mestiere del pittore e quello del pianista o dell’or­ ganista. Quello che mi induce a credere che Proust avreb­ be voluto utilizzare la Variazione religiosa per Organo nella matinée Guermantes, oltre a qualche indica­ zione contenuta nel manoscritto,'è proprio l’inte­ resse metaforico assunto dalla tastiera in questo contesto, e di cui, d’altronde, offre testimonianza l’episodio di Albertine alla pianola. Essa appare, al di sopra dello strumento, come un angelo musico, e il suono che ne fa scaturire viene descritto come un monumento che progres­ sivamente emerge dalla nebbia. Quando la costru­ zione è totalmente scoperta, allora la musica è su­ perata, deve essere sostituita dalle parole: E il giorno in cui Albertine diceva: “Ecco un rullo che consegneremo a Françoise perchè ce lo faccia cambiare con un altro” c’era spesso per me, senza dubbio, un pezzo di musica in meno al mondo, ma una verità in più (R.T.P., III, p. 372). E’ chiaro che, finché si tratta di un artista come Vinteuil, la sua opera non è mai del tutto consumata, possiede inesauribili tesori di architettura che non saranno mai interamente scoperti, e si presenteran­ no sempre come supporti di un linguaggio neces­ sario e voluto, e come critica di ogni linguaggio che pretendesse di occupare il loro posto, di abolir­ li. Alla fine dell’episodio, la pianola si identifica sia con la bicicletta che col sentiero: Le sue belle gambe, che sin dal primo gior­ no m’avevano fatto pensare, a ragione, che 86

avessero per tutta l’adolescenza mosso i pe­ dali di una bicicletta, salivano e scendeva­ no alternativamente sui pedali della pianola, sui quali Albertine - diventata di un’elegan­ za che me la faceva sentire più mia, poi­ ché ero io che gliela procuravo —posava le sue scarpe di tela dorata. Le sue dita un tempo use a serrare il manubrio, si posavano ora sui tasti, simili a quelle di una Santa Ceci­ lia... (R.T.P., III, p. 382). Poi la pianola diventa cassa d’organo, e tutta la stanza “il santuario illuminato, il presepe di quel­ l’angelo musico”. Certo, un’esecuzione al piano meccanico rappre­ senta una “riduzione” anche peggiore di un’esecu­ zione al pianoforte, ma la cassa, i pedali, la tastie­ ra in qualche modo supplementare, su cui i tasti si abbassano e si rialzano automaticamente, ma che consente tuttavia di aggiungere qualche accento alla musica che si suona, fanno di questo strumento un riflesso inferiore dell’organo, simile ad Alberti­ ne, riflesso del nome di Guermantes nell’acqua di Balbec. E’ in questo episodio che appare chiaramente la “superiorità” della Variazione, strettamente le­ gata al cerchio delle chiese nel “Porto di Carquethuit” : ... come quella frase della Variazione reli­ giosa per Organo che, da Madame Verdurin, era passata inosservata nel settimino (quar­ tetto, secondo il manoscritto), dove tut­ tavia, santa scesa dai gradini del santua­ rio, si trovava con^sa tra le fate familia­ ri del musicista (A.T.P., III, p. 373). 87

Come si fa a non sognare che Mademoiselle de Saint-Loup, nella quale si riuniscono tutti i fili dell’opera, e che Gilberte presenta a Marcel perchè sostituisca al suo fianco Albertine scomparsa — e finirà per sposarla, non è vero?: Quella fanciulla, il cui nome e il cui patri­ monio potevano far sperare a sua madre che essa avrebbe sposato un principe di casa reale, e avrebbe coronato tutta l’opera ascendente di Swann e di sua moglie, scel­ se più tardi per marito un oscuro lettera­ to... (R.T.P., III, p. 1208)che proprio lei, dal naso in cui si riconosce un còte Swann e un coté Guermantes, abbia talento di organista, e che il concerto della matinée Guermantes-Verdurin, tra i quadri di Elstir, dopo la Sonata a Kreutzer e quel pezzo di Ravel “bello come un brano di Palestrina, ma difficile a comprender­ si”, termini con la sua esecuzione della Variazione religiosa “iperprismatica” di Vinteuil, in cui i diver­ si timbri del Settimino si trovino ripresi e riuniti in un unico strumento? Ecco allora che in Mademoiselle de Saint-Loup non si ricongiungono più soltanto le due “parti” del paradiso perduto e distrutto di Combray, ma anche le due “parti” dell’inferno sormontato da Balbec, e cosi bene messo in luce durante l’esecu­ zione fatale del Settimino-Quartetto, nel salotto di Madame Verdurin non ancora Guermantes: Fomosessualità maschile Charlus-Morel, l’omosessua­ lità femminile Amica di Mademoiselle Vinteuil-Albertine. Essa è l’unico vero frutto di questi amori infernali, per tanto i-empo sterili: sostituendo Al­ bertine, diviene l’autentica figlia spirituale dell’Amica di Mademoiselle Vintemi, « ¡n quanto tale porta ' 88

a termine la decifrazione dell’òpera del maestro scomparso; prendendo il posto di Morel, essa diventa, dopo la morte di Mademoiselle d’Oloron, la figlia adottiva di Charlus. In lei, come nella Vergine di Balbec, confluiscono due file di antenati, secondo la carne e secondo lo spirito. Il ruolo delle aberrazioni sessuali nella genes dell’opera d’arte ci viene già dichiaratamente segna­ lato nel personaggio di Elstir: infatti Marcel, lo stesso giorno in cui vede “Il porto di Carquethuit”, scopre in un angolo, subito dopo il passaggio di Albertine in bicicletta, scorto attraverso la finestra dello studio, l’acquerello raffigurante una “giovane attrice d’altri tempi semitravestita”, “Miss Sacripant”, che sarà poi la stessa Odette. Non si può certo dire che Proust attribuisca ai suoi artisti delle anomalie sessuali dichiarate; nè Vinteuil, nè Elstir ne sono personalmente afflitti, e niente in assolu­ to ci permetterebbe di arguire qualcosa di simile per quanto concerne Bergotte. E tuttavia, quella “differenza” che li obbliga a inventare un’arte diversa è necessariamente in relazione, per Proust, con le altre “differenze” che possono evidenziarsi nella società a lui contemporanea, e le trascina con sè nel suo moto verso la salvezza. Il deviato sessuale, nella Francia del primo Novecento, è spesso indot­ to a passare attraverso la catarsi dell’opera d’arte; non può raggiungere il vero oggetto del suo desiderio che nell’annullamento non soltanto del suo “errore”, ma di ciò che ha provocato quell’errore, in una trasformazione della realtà, dunque in quel “vero viaggio” che è l’opera d’arte. Fissato sulla propria madre fin dal bacio di Combray, Marcel non può trovarle un equivalente stabile, e cioè Mademoiselle de Saint-Loup, che attraverso una trasformazione completa della società con­ temporanea a quel bacio, una trasformazione che 89

vedrà dispiegarsi poco a poco l’aberrazione sessuale, in tutti i suoi colori. Lo spettacolo di ogni desiderio di donna, occa­ sione di infedeltà alla madre, ispira inizialmente a Proust un orrore, un’angoscia il cui “indicibile” è ben tradotto dal colore viola della catdeya, tanto vicino e insieme cosi contrastante col bianco dei biancospini e del mese di Maria. Ma quando lo sguar­ do osa penetrare poco a poco quella nebbia, incomin­ cia a vedersi il rosso della vergogna, della confessione, della “dichiarazione” (nella scena della “dichia­ razione” la Berma-Fedra, secondo Bergotte, diventa un ramo di corallo), e proprio questo rosso sempre iù deciso, sempre più “splendente” : rosa dei gameretti e delle rose, color ciclamino di Albertine, rosseggiare aurorale del Settimino, scarlatto dell’ar cangelo di Mantegna, sarà infine un elemento nel la composizione del bianco finale, quello dell’abito nuziale, la veste a cui l’opera, nelle ultime pagine, viene paragonata: ... poiché, appuntando qui con gli spilli una paginetta supplementare, costruirò il mio libro, non oso dire ambiziosamente come una cattedrale, ma semplicemente come un vestito (.R.T.P., III, p. 1033). In queste conclusioni, Proust ci propone per la Re eh erehe du temps perdu due immagini distinte; l’una, quella del vestito, corrisponde all’opera come è giunta a noi, l’opera incompleta e che tuttavia egli non dispera di poter completare, l’opera nella sua forma attuale, in sette parti, prisma e Settimino; l’altra quella della cattedrale, di un fantastico San Marco, corrisponde invece all’opera interminabi­ le, e tale quindi da essere inevitabflmente interrotta dalla morte, l’opera in n parti che la morte, vicina

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come ormai la sente, gli impedirà di continuare, l’opera come iperprisma e Variazione: Come sarebbe felice chi potesse scrivere un simile libro, pensavo, quale grande im­ presa davanti a lui! Per darne un’idea, bi­ sognerebbe chiedere in prestito dei termini di paragone alle arti più nobili e più varie; perchè questo scrittore, che d’altronde mostrerebbe le facce più diverse di ogni carattere per rilevarne il volume comples­ sivo, dovrebbe preparare il suo libro minu­ ziosamente, ricorrendo di continuo a nuo­ vi raggruppamenti di forze, come per un’of­ fensiva, dovrebbe sopportarlo come una fatica, accettarlo come una disciplina, costru­ irlo come una chiesa, seguirlo come un regi­ me, vincerlo come un ostacolo, conquistarlo come un’amicizia, supernutrirlo come un bam­ bino, crearlo come un mondo, senza trascu­ rare i misteri che hanno probabilmente la loro spiegazione in altri mondi, e il cui presentimento è ciò che più ci commuove nella vita e nell’arte. E in libri cosi grandi, ci sono parti che si è avuto solo il tempo di abbozzare, e che certo non saranno mai finite, data la vastità del piano architetto­ nico. Quante grandi cattedrali restano in­ compiute! Un simile libro lo si nutre, lo si rafforza nelle sue parti deboli, lo si proteg­ ge, ma poi è lui a crescere, a scegliere la nostra tomba, a difenderla dai rumori e, per qual­ che tempo, dall’oblio (R.T.P., III, pp. 1032E’ grazie all’incompiutezza essenziale dell’operacattedrale che l’opera-vestito può darcene un’idea, 91

malgrado la sua accidentale incompletezza. Il libro di Proust, originariamente tanto chiuso, tanto simi­ le a un rifugio contro il mondo, diventa ampliandosi, e in particolare passando attraverso il tramite di quelle tappe fondamentali di riflessione che sono le opere d’arte immaginarie, un libro aperto, in cui tutti devono potersi vedere: ... i lettori di se stessi, essendo il mio libro ualcosa di simile a quelle lenti di ingranimento che l’ottico di Combray porge­ va ai clienti; il mio libro grazie al quale for­ nirò loro il mezzo di leggere in loro stessi (R.T.P., III, p. 1033), potersi trasformare: L’unico vero viaggio, l’unico bagno di gio­ vinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’u­ niverso con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ognuno di loro vede, che ognuno di loro è. Tutto questo, possiamo farlo con un Elstir, con un Vinteuil, coi loro simili voliamo veramente di stella in stella (R.T.P., III, p. 258) (la famosa stanza tappezzata di edera è cosi la realizzazione del proiettile imbottito di Jules Verne), e assistere alla propria trasformazione. (trad. di C.G.)

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Le sette mogli di Gilberto il Malo

per Jean Pfeiffer

L Le camere A la recherche du temps perdu comincia in una camera, la stessa in cui si scrive il libro, ma prima di identificarla, prima di riconoscerla, il narratore “prova” alcune altre stanze, alcuni altri risvegli, che rappresenteranno in seguito dei punti fermi nelTinsieme dell’opera. Si tratta prima di tutto della camera di Combray, quella del capitolo che segue immediatamente questa apertura, in cui si legge: Il mio fianco anchilosato, cercando di in­ dovinare il proprio orientamento, s’imma­ ginava, ad esempio, allungato di fronte alla parete in un gran letto a baldacchino, e subito mi dicevo: “Guarda, ho finito per addormentarmi benché la mamma non sia venuta a darmi la buonanotte”; ero in cam­ pagna dal nonno, morto da tanti anni; e il mio corpo, il fianco su cui riposavo, custo­ di fedeli di un passato che la mia mente non avrebbe mai dovuto dimenticare, mi ricor­ davano la fiamma della lampada di vetro di Boemia, a forma d’urna, appesa al soffitto con delle catenelle, il camino in marmo di Siena, nella mia camera di Combray, dai nonni, in giorni lontani che in quel momento mi figuravo presenti senza rappresentarme93

li con precisione, e che avrei rivisto meglio di li a poco, quando fossi stato del tutto sveglio (R.T.P., I, p. 6). Generata da un’altra “parte” del corpo, ecco invece la camera in cui comincia l’ultima parte, Le Temps Retrouvé, e in cui, nella versione con­ temporanea alla prima edizione di Du còté de chez Swann (dove in quarta copertina ci viene dato il piano dell’opera), doveva cominciare l’ultimo capi­ tolo, L ’A doration perpetuelle, subito dopo il Mariage de Robert de Saint-Loup: ecco la stanza di Tansonville: Poi rinasceva il ricordo di un nuovo atteg­ giamento, la parete scorreva in un’altra direzione: ero nella mia camera da Mada­ me de Saint-Loup, in campagna; Mio Dio! sono almeno le dieci, devono avere già finito di cenare! Avrò prolungato troppo la sie­ sta che faccio tutte le sere, rientrando dalla passeggiata con Madame de Saint-Loup, prima di vestirmi. Perchè sono trascorsi mol­ ti anni dal tempo di Combray, dove, in oc­ casione dei nostri rientri più tardi, erano i riflessi rossi del tramonto quelli che ve­ devo sui vetri della mia finestra. E’ un altro genere di vita quello che si conduce a Tansonville, da Madame de Saint-Loup; un al­ tro genere di piacere quello che provo nel non uscire che di notte, nel seguire al chiaro di luna gli stessi sentieri su cui un tempo giocavo al sole; e la camera dove mi sarei addormentato invece di vestirmi per la cena, la scorgo da lontano, quando torniamo, attraversata dalle luci della lampada, unico* faro nella notte (R.T.P., I, pp. 6-7). 94

Più di duemila pagine dopo, all’inizio del Temps Retrouvé, Proust riprenderà pressapoco le stesse parole per fissare questa seconda camera: Si cenava ora a Tansonville a un orario in cui un tempo, a Combray, si dormiva già da un pezzo (R.T.P., III, p. 691). Mondi capovolti: a Combray si esce di giorno, si dorme di notte. Si esce di notte a Tansonville, mentre durante il giorno vi si dorme. Dopo l’evo­ cazione di questi due poli, si dispiega tutto un ven­ taglio di stanze diverse, improntato a un’altra op­ posizione, quella tra l’inverno e l’estate: ... camere invernali in cui, quando si è a letto, si rannicchia il capo in un nido intes­ suto delle cose più disparate, un angolo del guanciale, il bordo delle coperte, un lembo ai scialle, la sponda del letto e un numero dei Débats Roses, tutti elementi che si finisce per cementare insieme secondo la tecnica degli uccelli, e cioè appoggiandovisi indefi­ nitamente; dove, quando il tempo è gla­ ciale, il piacere che si prova è di sentirsi separati aaH’esterno (come la rondine marina che ha il suo nido in fondo a un sotterraneo, nel calore della terra) e dove, mantenendo­ si acceso il fuoco del camino per tutta la notte, si dorme in un grande mantello di aria calda e fumosa, percorsa dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, una specie di impalpabile alcova, di calda caverna sca­ vata in seno alla camera stessa, zona arden­ te e mobile nei suoi contorni termici, aerata da aliti che rinfrescano il viso e provengono dagli angoli, dalle parti vicine alla finestra 95

o lontane dal focolare, e diventate fredde... (R.T.P., I, p. 7) (queste camere invernali, che si differenziano da tutte le altre camere abitate durante le vacanze, e cioè quelle di campagna: Combray e Tansonville, poi — lo vedremo in seguito — quella di una piccola città, quella sul mare, quella in una città sul ma­ re, sono evidentemente le due camere di Parigi: quella vicino ai Campi Elisi, di cui si parla un poco neirultimo capitolo di Du coté de chez Swann, ma che comparirà soprattutto in A Vombre des Jeunes Filles enfleurs, e quella in cui, nel Coté de Guermantes, ritro­ viamo il narratore dopo il trasloco, vicino al Bois de Boulogne, in un’ala di palazzo Guermantes, la camera della scrittura, che però, all'inizio, si pre­ senta in un assetto completamente sconvolto); ... camere estive in cui è piacevole unirsi alla notte tiepida, dove il chiaro di luna, ve­ nuto a posarsi sulle imposte socchiuse, getta fino ai piedi del letto la sua scala incanta­ ta (il narratore diventa qui una Giulietta che aspet­ ta il suo Romeo), dove si dorme quasi all’aria aperta, come la cingallegra cullata dalla brezza in cima a un raggio; a volte la camera Luigi XVI, cosi allegra che persino la prima sera non mi ci ero sentito troppo triste, e dove le colonnette che sostenevano leggere la volta si scostavano con tanta grazia per mostra­ re e serbare lo spazio del letto... (R.T.P., I, pp. 7-8)

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(si tratta della camera airhòtel di Fiandra, a Doncières, cosi accogliente: Le pareti stringevano la camera, separandola dal resto del mondo, e per farvi entrare e poi rinchiudervi le cose che la completavano, disegnavano una rientranza al posto della biblioteca, ne riservavano un’altra al let­ to, sui due lati del quale delle colonne so­ stenevano con leggerezza la volta sopraele­ vata delTalcova (R.T.P., II, p. 83), della quale proprio lei, caro Jean Pfeiffer, mi ha fatto rilevare il carattere autunnale, ed è vero che in effetti, con le sue dépendances, il suo camino, la sua corte interna, essa rapppresenta un termi­ ne mediano tra le camere invernali e le vere e pro­ prie camere estive, come quella che segue); ... a volte invece quella, piccola e dal soffit­ to cosi alto, scavata a forma di piramide nell’altezza di due piani e in parte rivesti­ ta di mogano, dove, fin dal primo istante, ero stato moralmente intossicato dall’odore sconosciuto della gramigna indiana, con­ vinto dell’ostilità delle tende viola e dell’in­ differenza insolente della pendola che ci­ calava ad alta voce come se io non ci fossi stato; dove uno strano e spietato specchio quadrangolare, posato a terra, sbarrando obliquamente uno degli angoli della stan­ za, si apriva a forza nella dolce pienezza del mio campo visuale... (R.T.P., I, p. 8) (la camera di Balbec, che forma con quelle di Combray e di Tansonville una specie di triangolo equilatero, e che ritroveremo all’inizio del terzo

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capitolo di Du coté de chez Swann, Noms de pays; le nom: Tra le camere di cui più spesso rievocavo Timmagine nelle mie notti insonni, nessuna era più dissimile dalle camere di Combray, cosparse di un’atmosfera granulosa, polli“ nizzata, commestibile e devota, di quella del Grand Hotel del Lido di Balbec, le cui pareti riverniciate a smalto contenevano, come le pareti levigate di una piscina dove l’acqua si inazzurra, un’aria pura, azzurrina e salmastra. Il tappezziere bavarese che era stato incaricato aell’arredamento di quell’al­ bergo aveva variato la decorazione delle stanze, e in quella che mi trovavo ad abitare aveva disposto lungo i muri, su tre lati, delle librerie basse, con vetrine di cristallo, nel­ le quali, a seconda della loro disposizione, e per un effetto che egli non aveva previ­ sto, si rifletteva questa o quella parte del mutevole quadro del mare, svolgendo un fregio di marine chiare, interrotto solo dai montanti in mogano (R.T.P., I, p. 383), descrizione che continuerà solo quando entre­ remo in quella stanza insieme al narratore, dopo una enorme parentesi dedicata a Madame Swann, in Noms de pays: le pays, ultimo capitolo di A Vombre des Jeunes Filles en fleurs : La pendola... continuò senza interrompersi un attimo a tenere in una lingua sconosciu­ ta discorsi che dovevano essere scortesi per me, poiché le grandi tende viola la ascolta­ vano senza rispondere... Mi tormentava la presenza di certe piccole librerie a vetri 98

che correvano lungo le pareti, ma soprattut­ to una grande specchiera appoggiata a ter­ ra, di traverso nella stanza, prima del cui allontanamento sentivo che sarebbe stato impossibile per me ogni riposo. Alzavo di continuo lo sguardo... verso il soffitto so­ praelevato di quel belvedere situato in cima all’albergo e che la nonna aveva scelto per me; e, fino in quella regione più intima di quella in cui si vede e si sente, nella regione in cui si avverte la qualità degli odori, quasi dentro al mio io, il profumo della gramigna indiana veniva a spingere la sua offensiva contro le mie ultime trincee... (R.T.P., I, pp. 666-67), prima di tornarvi per un soggiorno ancora più decisivo in Sodome et Gomorrhe). Vediamo dunque configurarsi un sistema di sei camere: Combray e Tansonville, Parigi I e II, Doncières e Balbec, ma ogni lettore della Recherche sa che il narra­ tore ne abita un’altra ancora, in cui assapora im­ pressioni analoghe a quelle che aveva spesso pro­ vato, in altri tempi, a Combray, ma trasposte ora su una tonalità del tutto diversa e più ricca, con l’ogiva ancora quasi araba di una facciata riprodotta in tutti i musei di calchi e in tutti i libri d’arte illustrati, come uno dei capolavori dell’architettura domestica del Medio Evo (R.T.P., III, p. 625), la camera di Venezia, nella Fugitive. Ora, nel­ l’ultimo paragrafo della parte con cui si apre Du cóté de chez Swann, la troviamo già citata: 99

... passavo la maggior parte della notte a ricordare la nostra vita di un tempo a Combray dalla prozia, a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, altrove ancora, a ricor­ dare i luoghi, le persone che vi avevo cono­ sciuto, quello che di esse avevo visto, quello che me ne avevano raccontato(i?.T.P., I, p. 9). Ho già avuto occasione di segnalare l'importan­ za che il numero sette, incoraggiato senza dubbio anche dal titolo di Ruskin, Les Sept Lampes de l’architecture, riveste nella Recherche. Ma se quan­ to ci viene rivelato dei manoscritti nell’edizione della Biblioteca della Plèiade (che bel titolo per ospitare una simile opera!) permette di stabilire che è solo attraverso un movimento progressivo che il concerto di Vinteuil assume la forma definitiva di un settimino, e che allo stesso modo l'insieme dell’opera arriva a distribuirsi in sette parti — il che mette finalmente Proust in condizione di utilizzare appieno la ricchezza di corrispondenze del numero sette nella nostra civiltà (gamma musicale, arcoba­ leno, ecc.) — è significativo notare che, fin da queste prime pagine, il sistema delle sette camere del narra­ tore è interamente costituito. Nella sistemazione finale, le principali stazioni in queste sette camere, preparate o richiamate in qualche caso (Parigi e Balbec, ad esempio) da un gran numero di stazioni secondarie, segneranno ciascuna delle sette parti: camera di Combray: Du coté de chez Swann, Parigi I: A Vombre des Jeunes Filles en fleurs, Doncières: Le coté de Guermantes, Balbec: Sodome et Gomorrhe, Parigi II: La Prisonnière: 100

Del resto, fu soprattutto dalla mia camera che in quel periodo percepii la vita ester­ na (R.T.P., III, p. 7), Venezia: La Fugitive, Tansonville: Le Temps Retrouvé. Nel passo intitolato “chambres” dal curatore della prima edizione del Contre Sainte-Beuve, sfor­ tunatamente non ripreso dalla Biblioteca della Plé­ iade, avevamo già incontrato la stanza di Combray: ... quella stanza da letto dai nonni, nel tempo in cui c’erano ancora stanze da letto e geni­ tori, un’ora stabilita per ogni cosa... una lampada da notte sul camino in marmo di Siena, senza i farmaci immorali che vi per­ mettono di alzarvi, e di credere che si può condurre la vita di un uomo sano quando si è malati... (Contre Sainte-Beuve, Parigi 1954, pp. 74-75), quella di Tansonville: Sono nella mia camera al castello di Réveil­ lon. Come al solito, sono salito per riposa­ re prima di cena; devo essermi addormenta­ to in poltrona; la cena è forse già finita (ibidem, p. 76), le camere invernali : ... dove è piacevole sentirsi separati dall’e­ sterno, dove si tiene acceso il fuoco tutta la notte, dove resta attorno alle spalle un mantello scuro e fumoso di aria calda, per­ corsa da bagliori... (ibidem, p. 78), 101

quelle estive, Doncières, in particolare: ... una camera in cui dormivo a Bruxelles e la cui forma era cosi allegra, così ampia e tuttavia cosi chiusa che ci si sentiva nasco­ sti come in un nido e liberi come in un mondo (ibidem, p. 78), quella di Balbec: ... quella camera così alta, così stretta, quella camera a forma di piramide in cui ero venuto a finire la mia convalescenza a Dieppe (ibi­ dem, p. 75), e, nelle pagine che lo stesso curatore chiama­ va “conversation avec maman”, la camera di Ve­ nezia, la cui finestra è riprodotta in tutti i musei del mondo come uno dei capolavori dell’architettura medievale (ibidem, p. 138). Già allora, la seconda camera parigina, quella situata in un’ala di palazzo Guermantes, veniva identificata come la camera del risveglio definitivo, dell’opera, al prezzo però di un completo capovol­ gimento di prospettiva: Avevo stabilito che intorno a me si trovava­ no qui il cassettone, là il camino, ancora più lontano la finestra. Improvvisamente ve­ devo, al di sopra del luogo assegnato al cassettone, la linea del giorno che s era leva­ to (ibidem, p. 79). Così, alla fine di Combray, dopo l’enorme pa­ 102

rentesi costituita dai due capitoli: camera del nar­ ratore e camera di zia Lèonie: Ma non appena il giorno... tracciava nell'oscurità, e come col gesso, la sua prima riga bianca e correttrice, la finestra con le sue tende lasciava l'inquadratura della porta dove l'avevo situata per sbaglio, mentre, per farle posto, lo scrittoio che la mia me­ moria aveva maldestramente collocato là fuggiva in tutta fretta, spingendo davanti a se il camino e scostando il muro diviso­ rio dell'andito; un cortiletto regnava là dove, ancora un attimo prima, si apriva la toletta, e la dimora che avevo ricostruito nelle tenebre era andata a raggiungere le dimore intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga da quel pallido segno che aveva tracciato sopra le cortine il dito levato del giorno (R.T.P., I, p. 187). IL Le persone che vi avevo conosciuto Ogni camera comporta due organi fondamenta­ li: il letto e la finestra, oltre a quelli che si possono chiamare i mobili di lettura: la libreria, lo scrit­ toio, il comodino. Le camere cosiddette estive, poi, sono molto animate, tutto, in esse, è personi­ ficato. Ma soprattutto ogni camera è consacrata, in qualche modo, all'amore e al dramma di una persona. Quella di Combray è visitata dalla passione materna. Nella scena fondamentale che il narratore rimembra ogni notte, accade che proprio quando si crede colpevole del peggiore dei crimini, quello di aver interrotto gli adulti nelle loro misteriose cerimonie, riceve apparentemente la più alta delle 103

ricompense: sua madre viene a dormire con lui. Ma questa notte d’amore è allo stesso tempo una notte di morte, la notte del delitto; e infatti, l’imma­ gine della madre ne esce per sempre sfigurata: Avrei dovuto essere felice: non lo ero. Mi sembrava che la mamma mi avesse fatto una prima concessione che doveva esserle stata dolorosa, che quella fosse una prima abdi­ cazione, da parte sua, dinanzi afl’ideale che aveva concepito per me e che per la prima volta lei, cosi coraggiosa, si confessasse vinta. Mi sembrava che se aveyo riportato una vittoria, fosse stato contro di lei, di esse­ re riuscito, come avrebbero potuto farlo la malattia, i dolori o l’età, ad allentare la sua volontà, a piegare la sua ragione, e che quel­ la sera, con cui iniziava un’era, sarebbe rimasta come una triste data... Certo, il bel volto della mamma era ancora splendente di giovinezza, quella sera in cui essa mi teneva cosi dolcemente le mani e cercava di far cessare le mie lacrime; ma appunto questo mi sembrava che non avrebbe dovuto essere, la sua collera mi sarebbe apparsa meno triste di questa dolcezza nuova, che la mia infanzia non aveva conosciuto; mi sembrava di avere tracciato una prima ruga, con mano empia e segreta, nella sua anima, e di avervi fatto comparire il primo capello bianco (R.T.P,, I, pp. 38-39). Nel momento in cui lo possiede, egli uccide ciò che ama. E’ come il sultano Shahriyar, nella storia che fa da cornice alle Mille e una Notte. Andrà co­ me lui di donna in donna (e anche di madre in ma­ dre) fino a scoprirne una che possa non uccidere, 104

fino a poter inventare, al di là dell’inganno che teme, una fedeltà nuova, fino a potersi finalmen­ te abbandonare a.\\’A doration perpetuelle, secon­ do il titolo attribuito all’ultimo capitolo del Temps Retrouvé dai due piani d’opera a nostra disposizione. Obbedendogli, sua madre l’ha tradito, ed egli non ha potuto impedirsi di farla morire. Un assassinio molto lento, certo, ma irreparabile. Nella camera di Balbec è sua nonna, e cioè colei che ha resistito molto più a lungo, che è rimasta come sua madre avrebbe dovuto essere (e quest’ultima, in lutto per la sua morte, si metterà a imitar­ la con tutta l’anima, a sforzarsi di assumerne il ruolo), che bruscamente gli viene restituita, quando egli tocca il primo bottone dello stivaletto; che ri­ suscita, ma solo per morire davvero: ... avevo appreso, sentendola, per la prima volta, viva, vera, che mi gonfiava il cuore fino a spezzarlo, ritrovandola infine, di averla peruuta per sempre (R.T.P., II, pp. 757-58). E naturalmente egli si rende conto di essere almeno in parte responsabile della sua morte, a causa della piccola infedeltà che non le ha saputo perdonare, la scena della fotografia: ... quando vidi che apposta per questo aveva messo il suo vestito più bello ed esitava tra diverse acconciature, mi sentii un po’ irri­ tato per quella fanciullaggine che mi stupi­ va tanto in lei. Arrivai persino a chiedermi se non mi ero sbagliato sulla nonna, se non la situavo trop­ po in alto, se era proprio cosi distaccata come avevo sempre creduto da tutto quanto 105

riguardava la sua persona, se non aveva quello che mi sembrava esserle più estraneo, un poco di civetteria (R.T.P., I, p. 786), momento culminante di quello che è stato per lui come una specie di abbandono: Il mio cattivo umore proveniva soprattut­ to dal fatto che, quella settimana, era sembra­ to che la nonna mi sfuggisse e non avevo potuto averla nemmeno un istante per me, nè il giorno nè la sera. Quando rientravo al pomeriggio per restare un po’ solo con lei, mi dicevano che non c’era; oppure, essa si appartava con Françoise per dei lunghi conciliaboli che non mi era permesso distur­ bare. E quando, dopo una serata trascorsa fuori con Saint-Loup, pensavo, durante la strada del ritorno, al momento in cui avrei trovato e riabbracciato la nonna, avevo un bell’aspettare che essa picchiasse contro il tramezzo i colpetti che mi avrebbero detto di entrare a salutarla: non sentivo nulla; finivo per coricarmi, serbandole un po’ di rancore perchè mi privava, con un’indiffe­ renza tanto nuova da parte sua, di una gioia su cui avevo molto contato, restavo anco­ ra, col cuore palpitante come nell’infanzia, ad ascoltare il muro che restava muto, e mi addormentavo fra le lacrime (R.T.P., I, p. 787). Le spiegazioni che fornirà Françoise, dopo la resurrezione e la morte vera in Sodome et Gomorrhe, non potranno che confermare il narratore nel suo carattere di tenero assassino, gli faranno indo­ vinare, nella fotografia della sua vittima, ciò che anche sua madre vi scorgerà, e cioè: 106

... lo sguardo di un animale che si sentisse già scelto e designato... un’aria di condan­ nata a morte, un’aria involontariamente tetra, inconsciamente tragica... non tanto una fotografia di sua madre, quanto della malattia di lei, di un insulto che la malattia gettava al volto brutalmente schiaffeggia­ to della nonna (R.T.P.y II, p. 780). A questo passo di Sodome et Gomonhe corri­ sponde quello della Fugitive in cui anche Albertine, nella camera di Venezia, resuscita, ma solo per appa­ rire poi ancora più morta: il telegramma apparen­ temente firmato da lei è infatti uno dei tre rintoc­ chi a morto che segnano la fine del suo amore. Al­ bertine verrà in questa camera di Venezia solo come un fantasma; e del resto, era proprio lei che sosti­ tuiva e, contemporaneamente, vietava la città mari­ na. Con l’aiuto della duchessa di Guermantes, il narratore la copriva di vestiti di Fortuny, che ... facevano comparire come uno scenario, ma con maggior forza evocativa perchè lo scena­ rio restava da immaginare, la Venezia tutta impregnata d’Oriente, in cui esse sarebbero state indossate, di cui erano, assai più di una reliquia del tesoro di San Marco, evoca­ trice del sole e dei turbanti tutt’intorno, il colore stesso frammentato, misterioso e complementare (R.T.P., III, p. 369). Egli è tanto impaziente che si realizzi questa equivalenza veneziana, che talvolta addirittura, in attesa che siano pronte le vesti che Albertine desi­ dera, se ne fa prestare alcune, a volte persino soltan­ to delle stoffe; le fa indossare ad Albertine, le drap­ peggia su di lei: 107

...ella camminava nella mia camera con la maestà di una dogaressa e di una indossatri ce. Ma la mia schiavitù parigina era resa più gravosa dalla vista di quegli abiti che mi ricordavano Venezia (R.T.P., III, p. 370). Il ruolo delTabito in questa rappresentazione è confermato, in occasione del viaggio a Venezia, da quest’altra apparizione del fantasma di Albertine, airAccademia: ...improvvisamente avvertii come una leggera stretta al cuore. Sulle spalle di uno dei Confra­ telli della Calza, riconoscibili per i ricami d’oro e di perle che inscrivono, su una manica o sul colletto, l'emblema della lieta confra­ ternita a cui appartengono, avevo appena riconosciuto il mantello che Albertine ave­ va preso per venire con me a Versailles, in macchina scoperta... un mantello di Fortuny che l’indomani aveva portato via con sè... Era dunque da questo quadro del Carpaccio che il geniale figlio di Venezia l’aveva preso... Ili, p. 647). Venezia, realizzazione del sogno rinchiuso nel nome di Balbec (la chiesa sul mare, contraddetta dalla realtà a Balbec, dove la chiesa e il mare distano parecchi chilometri), ha per contrassegni non solo la cattedrale, ma anche il vestito. Sappiamo che queste sono le due metafore essenziali che Proust applica alla sua stessa opera. E’ dunque la relazione di Albertine con Venezia, il vestito veneziano, che fa capire perchè proprio la resurrezione di questa città inaugura, nella corte del nuovo palazzo della nuova principessa di Guermantes, la grande serie delle resurrezioni, che avrà termine con la resurre­ 108

zione definitiva della letteratura e con l’opera. In realtà il telegramma veneziano era firmato Gilberte. L’impiegato delle poste aveva rifatto lo stesso errorre di lettura commesso da Françoise, prima ancora dell’apparizione di Albertine, in A l’ombre des Jeunes Filles en fleurs -. Per quanto riguarda quella lettera, in calce alla quale Françoise si rifiutò di riconoscere il nome di Gilberte, poiché la G istoriata, appoggiata su una i senza punto, aveva l’aria di una A (R.T.P., I, p. 502) (nella Fugitive: Il punto sulla i di Gilberte era salito alla riga superiore, ed era diventato un punto fermo. Quanto alla sua G, sembrava una A gotica (R.T.P., III, p. 656), in A Vombre des Jeunes Filles en fleurs-.) mentre l’ultima sillaba risultava indefinita­ mente prolungata da un ghirigoro dentella­ to (R.T.P., I, p. 502) (nella Fugitive : ... era molto naturale che l’impiegato del telegrafo avesse letto le code a svolazzo delle s o delle z della riga superiore come un “ine” al termine della parole Gilberte (R.T.P., Ili, p. 656), in A Vombre des Jeunes Filles en fleurs-.) se si vuole proprio cercare una spiegazione razionale del mutamento che essa traduceva 109

e che mi rendeva cosi felice... (R.T.P., I, p. 502). Gioia fallace; sembra che Gilberte venga con­ cessa dai suoi genitori che fino ad allora la rifiuta­ vano, e invece è proprio questo il momento in cui essa comincia a sfuggire. La scena dei Campi Elisi, la lotta amorosa, non si ripeterà più: ... e mentre facevo quella ginnastica, senza che ne risultasse minimamente aumentato l’af­ fanno che mi procuravano l’esercizio mu­ scolare e l’ardore del gioco, sparsi, come gocce di sudore strappatemi dallo sforzo, il mio piacere, su cui non potei attardarmi nemmeno il tempo di conoscerne il sapore; subito presi la lettera (R.T.P., I, p. 494). E’ quella che il narratore ha scritto qualche gior­ no prima a Swann, il padre di Gilberte, per provar­ gli la purezza delle sue intenzioni e la bontà del suo animo: ma Swann l’aveva letta alzando le spalle, aveva dichiarato-. “Tutto questo non significa nulla, non fa che provare quanto io abbia ragione” (R.T.P., I, p. 491), ed ora sua figlia la deve restituire. Dopo che il narratore ha escogitato l’inganno della lotta amoro­ sa, i Campi Elisi diventano un giardino appestato: Da qualche tempo, in certe famiglie, il nome dei Campi Elisi, se un visitatore lo pronun­ ciava, era accolto dalle madri con la stessa aria malevola riservata, di solito, a un medi­ co di buon nome cui sostengano di aver HO

visto fare troppe diagnosi errate per fidarsi ancora di lui; assicuravano che quel giardi­ no non giovava più ai ragazzi, che si potevano citare più di un mal di gola, più di una roso­ lia e parecchie febbri di cui era responsabile. Senza mettere in dubbio l’affetto di mam­ ma che continuava a mandarmici, certe sue amiche ne deploravano almeno la cecità (R.T.P., I, pp. 494-95). Il narratore colpevole cade vittima della malat­ tia-castigo. Stando a letto, riceve la lettera-perdono di Gilberte. Alla lettura di questa segue l’entrata neH’appartamente paradisiaco, nel giardino d’in­ verno di Madame Swann; all’amore per Gilberte che lentamente viene meno, si sostituisce la devozione filiale per Odette (è molto materno anche l’amore di Alberane, che lo chiama “piccolo mio”, “ragazzo mio”). Dopo il trasloco, il narratore è perdutamente innamorato della duchessa di Guermantes, ma non appena le si avvicina la sfigura, la spoglia del suo nome. Non potrà entrare nei suoi appartamenti, e ritrovare almeno un poco di quel nome, che quando l’amore per lei sarà morto, o quando piuttosto avrà potuto trasformarsi in amore filiale (anch’essa lo chiama il suo “piccolo”). Nella Rechercbe du temps perdu l’aristocrazia consuma la propria fine. Quanto alla camera di Doncières, è abitata dall’a­ micizia così tenera di Saint-Loup. Com’è materno, anche lui, che si preoccupa della salute del narra­ tore, lo circonda eli cure, gli fa prestare uno scialle! Saint-Loup, e insieme a lui Charlus, sono emissa­ ri che il nome di Guermantes invia verso il narratore. Nella misura in cui essi corrispondono ai suoi de­ sideri, manifestano il loro essere omosessuali, ven­ gono privati della loro virilità paterna, della loro 111

potenza generatrice. L’omosessualità di Saint-Loup, il suo particolare “inganno”, emerge per la prima volta nell’atteggiamento di agnizione mancata, che nel seguito del libro gli si rivelerà caratteristico, e che allora, nel momento dell’addio, sorprende tanto il suo amico: Non osai chiamare Robert, visto che non era solo, ma siccome volevo che si fermasse per prendermi con sè, attirai la sua atten­ zione con un grande saluto che poteva essere giustificato dalla presenza di un estraneo. Sapevo Robert miope, ma credevo che se appena mi avesse visto, non avrebbe man­ cato di riconoscermi. Ora, egli vide benis­ simo il saluto e rispose, ma senza fermarsi; e, allontanandosi a tutta velocità, senza un sorriso, senza muovere un muscolo del volto, si accontentò di tenere per due minuti la mano tesa all’altezza della visiera, come per rispondere ad un soldato che gli fosse sco­ nosciuto (.R.T.P., II, p. 138). Cosi l’amico fedele, quello che si credeva più fedele di tutte le donne, nasconde anche lui abissi di inganno e di menzogna. In occasione di uno spettacolo teatrale in cui Rachel ha una piccola parte, Saint-Loup riconosce di aver visto il narrato­ re: Avevo già notato a Balbec che, di fianco alla sincerità ingenua del suo viso, in cui la pelle manifestava per trasparenza il brusco afflusso di certe emozioni, il suo corpo era stato mirabilmente preparato dall’educazione ad un certo numero di dissimulazioni di convenienza e che, come un perfetto attore, 112

egli poteva, nella sua vita di reggimento, nella sua vita mondana, sostenere l’uno di seguito all’altro ruoli diversi tra loro. In uno di questi ruoli mi amava profondamente, agiva nei miei confronti quasi come un fratello (sappiamo che il fratello di Proust si chiamava Robert) ; egli lo era stato, un fratello, poi lo era ri­ diventato, ma per un momento era stato un personaggio del tutto diverso, che non mi conosceva... (R.T.P., II, p. 176). La morte di Saint-Loup, anni dopo, all’indomani del suo ritorno al fronte durante la guerra del 1914, è già inscritta in questa rivelazione incompleta: Spesso, molto prima della guerra, Robert mi aveva detto con tristezza: “Oh, la mia vita, non parliamone, io sono un uomo condannato in anticipo”. Alludeva al vizio che, fino a quel momento, era riuscito a tener nascosto a tutti, ma che lui conosce­ va, e di cui forse esagerava la gravità, come i ragazzi, quando fanno l’amore per la prima volta o, ancor prima di questo, cercano da soli il piacere, s immaginano simili alla pian­ ta che non può spargere il suo polline senza morire subito dopo?... E non potrebbe essere che la stessa morte accidentale — co­ me quella di Saint-Loup, d’altronde legata al suo carattere per più aspetti di quanti io non abbia creduto di doverne dire — fosse, anch’essa, inscritta in anticipo... (R.T.P., III, p. 850). 113

Il sultano Shahriyàr della nostra tradizione popolare di chiama Barbablù. Anche lui uccide le donne che ama; e in certe versioni del racconto ne sposa sette, e dà all’ultima sette chiavi per sette stanze. Divorata dalla curiosità, questa contravviene all’ordine che le era stato imposto di non usare la chiave d’oro e scopre i cadaveri delle sei spose che l’hanno preceduta. Sfugge poi al proprio assassi­ nio solo grazie alla vigilanza della sorella Anna e all’arrivo dei suoi fratelli. Nella Recherche, il nome di Barbablù compare una volta, connesso a quello di Golo, il mitico antenato della duchessa di Guermantes, che perseguita e vuole uccidere Genovef­ fa di Brabante. Il giovane narratore associa sua ma­ dre alla vittima, e se stesso a questo criminale: E non appena suonavano per la cena, mi affrettavo a correre in sala da pranzo — dove la grossa lampada sospesa, che nulla sapeva di Golo e di Barbablù, e che conosceva i miei e lo stufato, diffondeva la luce di tut­ te le sere — ed a cadere tra le braccia della mamma, che le sciagure di Genoveffa di Brabante mi rendevano più cara, mentre i misfatti di Golo mi facevano esaminare con più scrupoli la mia coscienza (R.T.P., I,p . 10).

Golo —Golaud. Ma sotto il nome dell’altro mitico antenato della famiglia di Guermantes, quel Gilberto il Malo del­ la vetrata di Combray, è facile riconoscere il per­ sonaggio storico che la tradizione considera come l’incarnazione di Barbablù, e che a quell’epoca veniva rimesso in cattiva luce da Huysmans: Gilles de Rais, o di raggi. Gilles, allotropo di Gilbert. La sillaba “bert” 114

permette di ricollegare il suo nome a quello, in cui compare due volte, nella rima Hubert-Robert, del pittore il cui “celebre getto d’acqua” sosterrà un ruolo tanto particolare nei giardini della prin­ cipessa di Guermantes. Al narratore non basterà scoprire una donna da non uccidere, smettere finalmente di essere un assassino (e morire allora per espiare le proprie colpe): egli dovrà trovare il modo di resuscitare al­ meno un poco quei cadaveri, di garantire loro una qualche sopravvivenza, e di salvare cosi, come Shahrazàd, tutta la popolazione. Ecco, ciascuna nel proprio alveolo, le sei amanti materne assassinate: la madre a Combray, Gilberte a Parigi, vicino ai Campi Elisi, la duchessa in un’ala del suo palazzo, Saint-Loup a Doncières, la nonna a Balbec, Albertine a Venezia; la settima, la fedele, quella che meriterà l’ado­ razione perenne e ne costituirà il fondamento, non potrà essere che Shahrazàd, la narratrice di sto­ rie, l’opera salvatrice, la madre indistruttibile in cui il narratore potrà infine rinascere, essere Marcel, sì — se si vuole —ma un altro Marcel, non più Proust, che potrebbe chiamarsi René. E vivrò nell’ansia di non sapere se il Padrone del mio destino (il suo corpo), meno indulgente del sultano Shahriyàr (anche lui preda di un incantesimo), la mattina quando interromperò il mio 115

racconto, acconsentirà a soprassedere alla mia condanna a morte (quella dell’opera) e mi permetterà di riprendere il lavoro la sera successiva (R.T.P., III, p. 1043). Ma Shahrazàd può salvare le sue sorelle solo se anche lei è passata attraverso la prova della morte, e solo nella misura in cui ogni notte continua ad offrirsi alla morte, a rischiarla. Queste memorie delle mille e una notte devono essere memorie d’ol­ tretomba. Ci deve essere morte e resurrezione non soltanto del narratore, ma anche della letteratura. Ed è proprio la morte della letteratura che si consuma nella camera di Tansonville, seguita - dopo una guerra, appena un massacro — dalla sua resurrezione prima dell’entrata nei saloni della falsa principessa di Guermantes, in realtà Madame Verdurin. III. Sesamo e i libri In effetti, da Madame de Saint-Loup (Gilberte), il narratore legge a lungo un frammento inedito del diario dei Goncourt, pastiche in cui si racconta proprio una visita da Madame Verdurin, che lo avvince e, allo stesso tempo, lo getta nella desola­ zione, persuadendolo del carattere profondamente ingannatore della letteratura. Ci tornerà sopra giusto prima della grande matinée, dopo la grande parentesi dedicata alla guerra del 1914: Durante il tragitto in ferrovia che percorsi per rientrare finalmente a Parigi, il pensie­ ro della mia mancanza di doti letterarie che 116

mi era parso di scoprire, una volta, sulla strada di Guermantes, che avevo dovuto riconoscere con tristezza ancor più grande nelle mie passeggiate quotidiane con Gilberte, prima di rincasare per la cena, a notte inoltrata, a Tansonville, e che la sera prima di lasciare quella proprietà, leggendo alcune pagine del diario dei Goncourt, avevo quasi identificato con la vanità, con la falsità del­ la letteratura; questo pensiero, forse meno doloroso, ma ancor più tetro se gli attribui­ vo come oggetto non la mia particolare deficienza, ma l’inesistenza dell’ideale cui avevo creduto; questo pensiero, che da mol­ to tempo non mi si era presentato alla men­ te, mi colpì di nuovo e con una forza più che mai penosa... Fu, ricordo, a una fermata del treno in aperta campagna (R.T.P., III, pp. 854-55). Segue l’episodio degli alberi dal tronco solo per metà illuminato dal sole, e subito dopo l’en­ trata nella corte del palazzo e la serie di resurre­ zioni. Così il Contre Sainte-Beuve è diventato un “Contre Goncourt”. Sainte-Beuve rappresentava il gusto, il partito della madre. La sua messa da parte corrisponde alla coscienza sempre più chiara dell’opera come sostituto della madre, come madre co­ struita, come vestito e non soltanto cattedrale. Perchè Goncourt? C’entra anche il premio, senza dubbio, ma la scelta ha origini più lontane. Il do­ cumento più importante a cui possiamo risalire è nelYAffaire Lemoine. Vi si trova infatti un primo pastiche dei Goncourt, che si fa notare particolar­ mente per una sua volgarità unica nell’insieme del­ l’opera, e per il fatto che è il solo testo pubblicato in cui Proust parli di se stesso citando il proprio 117

nome di famiglia. Il pastiche inserito nel corpo del­ la Recherche riprende quasi parola per parola certe frasi dell’altro: Le Temps Retrouvé: ... una gran dama russa... stando alla quale io godrei in Galizia e in tutta la Polonia settentrionale di una posizione straordina­ ria, visto che laggiù una fanciulla non accon­ sentirebbe mai a promettere la sua mano senza sapere se il fidanzato è un ammirato­ re della Faustin (R.T.P., III, p. 711), Pastiches et mélanges-. ... il nuovo ministro del Giappone... mi dis­ se cortesemente di aver vissuto per molto tempo ad Honolulu, dove la lettura dei nostri libri, miei e di mio fratello, sareb­ be l’unica cosa in grado di strappare gli indigeni al piacere ai gustare caviale; tale lettura si protrae a lungo nella notte e la si fa tutta d’un fiato, interrompendosi solo per spezzare coi denti certi sigan del luogo... (P.m., p. 25). Segnali di ogni genere invitano il lettore a ri­ portarsi a questa pagina antica, pubblicata, diver­ samente da tante altre, per volontà dello stesso Proust, e nella quale veniamo a conoscenza della morte e della resurrezione del narratore stesso col suo vero nome, Marcel Proust. Questo Lemoine, eroe di un fatto di cronaca nera, era il falso inven­ tore di un diamante artificiale. Stando al testo, Lucien Daudet narra l’episodio a Edmond, durante una cena, il 21 dicembre (solstizio d’inverno); que­ ll«

st’ultimo vi trova immediatamente il soggetto di un lavoro possibile: Per completare l’opera, portano a Lucien una notizia che mi fornisce l’epilogo del lavoro già abbozzato, e secondo la quale il loro amico Marcel Proust si sarebbe ucciso in seguito al ribasso dei titoli diamantiferi, che annienta una parte della sua fortuna. Un essere curioso, questo Marcel Proust — assicura Lucien, un essere che vivrebbe tutto preso dall’entusiasmo, dalla devozio­ ne per certi paesaggi, per certi libri, un indi­ viduo che, ad esempio, sarebbe compietamente innamorato dei romanzi di Léon. (Léon Daudet, a cui è pomposamente dedicato Le coté de Guermantes: all’autore... di tanti capolavori, all’amico incomparabile, in segno di riconoscenza e di ammirazione.) E dopo un lungo silenzio, nell’espansività febbrile del dopo pranzo, Lucien afferma: “No, non perchè sia mio fratello, non pen­ sate a questo, Monsieur de Goncourt. asso­ lutamente. Ma infine bisogna pur dire la verità.” E cita questo episodio memorabi­ le che risalta graziosamente nello stile minia­ to del suo parlare: “Un giorno, un signore rese un immenso servizio a Marcel Proust, che, per ringraziarlo, lo condusse a pranzo in campagna. Ma ecco che, discorrendo, quel signore, il quale non era altri che Zola, non voleva assolutamente riconoscere che in Francia non ci fosse mai stato che uno 119

scrittore veramente grande, al quale soltan­ to Saint-Simon si avvicinava, e che quello scrittore fosse Léon. Al che, diamine!, Proust, dimenticando la riconoscenza che doveva a Zola, con un paio di ceffoni, lo fece roto­ lare dieci passi più in là, le zampe all’aria. L’indomani si batterono... (P.m., pp. 24-25). 11 giorno dopo, ecco la resurrezione di Marc Proust: 22 dicembre Mi sveglio dalla mia siesta delle quattro col presentimento di una cattiva notizia: infatti ho sognato che il dente che mi ha fatto tanto soffrire quando Cruet me l’ha tolto, cinque anni fa, era ricresciuto. E subito entra Pélagie con questa notizia, portata da Lucien Daudet, che non mi era venuta a dire per non turbare il mio incubo: Mar­ cel Proust non si è ucciso, Lemoine non ha inventato proprio niente, non sarebbe che un imbroglione neanche abile, una specie di Robert Houdin monco. Ecco la nostra scalo­ gna! Una volta tanto che la vita piatta, in­ cravattata, del giorno d’oggi si artistizzava, ci offriva l’argomento per una commedia! (P.m., p. 26). L’importanza decisiva del Diario dei Goncout letto nella camera di Tansoville sottolinea la lettura di altri testi, negli altri scali. La camera è un luogo in cui si legge.Françoise veniva ad accendere il fuoco e per tarlo prendere vi gettava alcuni fuscelli, il cui odore, dimenticato durante l’estate, tracciava intorno al caminetto un cerchio 120

magico all’interno del quale, scorgendo me stesso intento a leggere ora a Combray, ora a Doncières, ero pieno di gioia come... (R.T.P., III p. 26). Il letto, in quanto mobile centrale della stanza, è circondato (come la camera da vari stanzini) da altri mobili, in particolare da librerie. Quando la madre, a Combray, viene a dormire con suo figlio, si fa perdonare il crimine di cui sono entrambi colpevoli con la lettura di François le Champi, cioè della storia del Francese trovato nei cam­ pi, e i cui genitori sono scomparsi. Le letture segna­ no dunque le camere: la lettura delle lettere e dei telegrammi, quella dei libri di Bergotte, delle opere di Ruskin su cui il narratore lavora: Les Sept Lampes de l ’architecture, Les Pierres de Venise, delle opere che traduce: La Bible d ’A miens e soprattutto Sésame et les lys, nelle sue due parti: Les Tré­ sors des rois, Les Jardins des reines, sesamo, chiave al tempo stesso della camera dei cadaveri e della caverna delle meraviglie, John Ruskin tanto mater­ no che Proust lo paragona, alla fine dell’articolo rac­ colto in Chroniques, alla Carità di Giotto, che è an­ che il soprannome della ragazza-madre nella cucina di Combray (la relazione tra i due autori è altrettanto es­ senziale di quella che unische Baudelaire e Poe), poi tutti gli altri libri su cui si modellerà la Re­ cherche, di cui due i più importanti, i poli, il côté di Guermantes e quello di Swann: le Mémoires di Saint-Simon e le Mille e una Notte: ... una verità che non vi chiede le vostre pre­ ferenze e vi proibisce di pensarci. E solo se la si segue, ci si trova a volte ad incontra­ c i

re di nuovo quel che avevamo abbandona­ to, e ad aver scritto, dimenticandoli, i “Rac­ conti arabi” o le “Memorie di Saint-Simon” di un’altra epoca (R.T.P., III, p. 1044) (o senza averli dimenticati), più il ventaglio che va da François le Champi al Diario dei Goncourt, passando attraverso Sésame et les lys, la Comédie Humaine, les Mémoires d ’Outre-Tombe, davanti a ben altre pleiadi, e a tutta una biblioteca. IV. Il labirinto del mondo Alla camera, alla parte più chiusa della casa, alla più intima, si contrappone il salotto, la stanza da ricevimento. Al viaggio del narratore di camera in camera, si combina quello che lo porta di sa­ lotto in salotto, la sua ascesa mondana. Il salot­ to-camera di Odette-sesamo stabilisce una comuni­ cazione tra queste due parti della casa. Combray, la casa intima, comporta sì un salotto, ma privo, per cosi dire, di importanza. Eppure Swann, e cioè l’uomo di mondo, benché non si sap­ pia fino a che punto è tale, lo si riceve naturalmente In Un Amour de Swann vediamo quest’ultimo comparire in due salotti contrapposti: quello di Madame Verdurin, dove Odette l’na introdotto, e uelio di Madame de Sainte-Euverte (simmetria i questi nomi in "veri”: verde), in cui ritrova la duchessa di Guermantes, a quel tempo principessa di Laumes, e dunque partecipe, in modo quantomeno marginale, della cerchia dei Guermantes da cui il

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suo matrimonio con Odette l’ha quasi cacciato, e dove egli non riuscirà mai a presentare sua mo­ glie. Nel corso della serata Sainte-Euverte, Swann, esplora per noi il nesso esistente tra i due significati della parola salotto: gruppo di persone che conver­ sano intorno a una signora e mostra di pittura, e passeggia come se fosse in un museo. Odette riuscirà ben presto a mettere in comu­ nicazione questi due poli, grazie al salotto il cui sviluppo prende l'avvio dalla sua camera giardino d’inverno, e che, in Sodome et Gomorrhe, si cristal­ lizza attorno a Bergotte. Quanto al narratore, la sua penetrazione nella cerchia dei Guermantes comporta tre grandi tappe: la matinée da Madame de Villeparisis, in un’ala del palazzo, la cena dalla duchessa, la serata nei giardini della principessa. Alla matinée che conclude l'opera e al tempo stesso la comincia, al ricevimento della nuova prin­ cipessa di Guermantes, in realtà Madame Verdunn — ultimo salotto - non ci stupiremo di incontrare ancora una volta una Madame de Sainte-Euverte: Rispondendo alla mia domanda, la duchessa di Guermantes mi disse che si trattava di Madame de Sainte-Euverte. Volli sapere allora che grado di parentela la legasse alla Madame de Sainte-Euverte che avevo cono­ sciuto. Madame de Guermantes disse che era la moglie di uno dei suoi pronipoti, parve ammettere a fatica l’idea che fosse nata la Rochefoucauld, ma negò di avere mai conosciuto dei Sainte-Euverte. Le ricordai la serata (a me nota, per la verità, solo per sentito dire) in cui essa, principessa di Lau123

mes, aveva rivisto Swann. Madame de Guer­ mantes affermò di non essere mai stata a quella serata. La duchessa era sempre stata un po’ bugiarda, e lo era diventata di più. Madame de Sainte-Euverte era per lei un salotto — d’altronde piuttosto scaduto col tempo - che le piaceva rinnegare (R.T.P., III, p. 1024). Un po’ bugiarda, un po’ ingannatrice. Dal mo­ mento in cui il narratore l’avvicina essa comincia a mostrarsi infedele al suo nome. Eppure, non sol­ tanto quando era ancora principessa di Laumes la duchessa aveva visitato quel salotto; è là che si precipitava, in abito e scarpe rosse, nelle ultime pagine del Cóté de Guermantes, abbandonando al­ lo stesso tempo Swann, già molto ammalato, e soprattutto Amanien d’Osmond moribondo. Essa se ne ricordava ancora benissimo all’inizio della Prisonnière, quando il narratore le chiedeva consi­ gli per i vestiti di Albertine: “Per esempio, Madame, il giorno in cui dovevate cenare da Madame de. Sainte-Eu­ verte, prima di andare dalla- principessa di Guermantes, avevate un vestito rosso, con delle scarpe rosse; eravate straordinaria, sembravate una specie di grande fiore di sangue, un rubino in fiamme. Come si chia­ mava, quel vestito? Può portarlo una ragaz­ za?”... ‘Non sapevo di somigliare ad un ru­ bino in fiamme o a un fiore di sangue, ma in effetti ricordo di aver avuto un vestito rosso...” Lo strano era che di quella serata, tutto som­ mato non così lontana, Madame de Guerman- * tes non ricordasse che il proprio vestito,

ed avesse dimenticato una certa cosa che pure (come vedremo) avrebbe dovuto star­ le a cuore (R.T.P., III, p. 37-38). Si allude, qui, alla presenza di una certa Mada­ me de Chaussepierre. La duchessa ha dimenticato molte cose. La scena delle scarpe rosse, in cui essa appare come immersa nel proprio sangue, e nel sangue di tanti altri, è al centro di una inversione cronologica da cui risulta efficacemente sottolineata. Infatti, è appena prima di entrare dalla duchessa che il narratore assiste all’incontro del barone di Charlus con Jupien, e ascolta più da vicino la loro unione, nell’episodio narrato solo all’inizio di So­ dome et Gomorrhe. Retrospettivamente, la stessa scena è sottintesa dalla scoperta del vizio tipico del­ la famiglia in declino (anche il principe finirà per andare a letto con Morel), scoperta progressivamen­ te illustrata dal paragone coi fiori che ornano il salotto della duchessa. Nell’episodio in cui appare simbolicamente scorticata nell’abito che indossa, |uest’ultima si mostra d’altronde non soltanto inedele al suo amico Swann, alla sua famiglia (Amanien d’Osmond), ma anche realmente cattiva nel rifiutare al domestico la sua sera libera. Basta pronunciare una G dura, alla tedesca, e passare dalla i alla e all’inglese, per accorgersi che il nome di Guermantes è un anagramma di SaintGermain, di faubourg Saint-Germain, appunto. L’arcobaleno dei salotti ci fa vedere tre regioni distinte della famiglia: il settore Villeparisis, regione di una Guermantes che ha perduto il suo nome, che si è imbastardita con la letteratura, preannuncio della sostituzione della nobiltà da parte della letteratura, dato carat­ teristico del momento romantico cui A la recherche du temps perdu corrisponde,

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il settore principessa di Guermantes, la vera principessa, che attraverso suo marito si lega ai Courvoisier, la parte più conservatrice, ma anche la più intatta, dell aristocrazia, al centro la duchessa, quando di più puro possa esistere, e la sua “cerchia”. La principessa, in effetti, è una Guermantes solo per matrimonio, mentre Oriane apparteneva già alta famiglia prima di sposare il duca. Se avesse un figlio, sarebbe integralmente Guermantes, ma essa non avrà che un figlio adottivo, che la toglierà di mezzo per far vivere solo la sua immagine, il narratore. I due poli sono infatti Madame de Villeparisis e il principe. Attorno alla duchessa si svilup­ pa la sua cerchia, formata prima di tutto dai suoi parenti. In “germain” di faubourg Saint-Germain che traspare in filigrana attraverso il nome della duchessa, non c’è soltanto il senso di germanico (GuermantesBaviera), ma anche quello di fratello (cugini germa­ ni). La grandezza di una famiglia è data, ad un tempo, dal suo rango e dal numero dei suoi componenti. La qualità tipica dei nobili, la generosità, è contem­ poraneamente dispendio fisico (il coraggio) e fi­ nanziario (il fasto), e insieme carattere genetico. Le famiglie non numerose perdono il loro nome, che viene assorbito dalle famiglie prolifiche (cosi, nè il duca nè il principe avranno figli legittimi). I Guer­ mantes possono essere veri Guermantes solo se sono numerosi (da cui il plurale). In trasparenza, il nome lascia scorgere anche la parola germe, che ci permette di passare a nascita, rinnovamento: in Jean Santeuil e in una parte di Contre Sainte-Beuve, la famiglia si chiamava Réveillon (il nome del ca­ stello di Madeleine Lemaire), e cioè “cena di Nata­ le”. Attraverso una pronuncia provinciale, scopria­ mo l’equivalenza Noèl (Natale) —Noailles: 126

Cosi un cugino di Saint-Loup aveva sposa­ to una giovane principessa orientale che, a quel che si diceva, componeva versi bel­ li come quelli di Victor Hugo o di Alfred de Vigny, ea alla quale, ciò malgrado, si attri­ buiva uno spinto diverso da quello che potevamo concepire noi, uno spirito da principessa d’Oriente reclusa in un palaz­ zo delle Mille e una Notte. Agli scrittori che ebbero il privilegio di avvicinarla fu riser­ vata la delusione, o piuttosto la gioia, di ascoltare una conversazione che dava l’idea non tanto di Shéhérazade, quanto di un essere geniale, sul tipo di Alfred de Vigny o di Victor Hugo (R.T.P., II, p. 107). Questa cugina di Saint-Loup è evidentemente la contessa di Noailles, ai cui Ebìouissements Proust ha dedicato un lungo saggio inserito nelle Chroniques. Il nome di Guermantes è la soluzione a lun­ go cercata di un’equazione a parametri multipli. Dunque, per mantenersi proprio al centro di questo labirinto del mondo, Oriane, Arianna che dirige i passi del narratore (quanto a sua sorella Fedra, non si finirebbe mai ai passare minutamente in rivista le sue rami­ ficazioni all’interno della Recherche, attraverso la tragedia di Racine), deve sposare un uomo che abbia un fratello e una sorella: il duca, la viscontessa di Marsantes, Charlus, che avrebbe potuto anche lui chiamar­ si principe di Laumes (l’orario dei treni ci fornisce la chiave di questo nome: sulla linea Parigi-Roma, una stazione si chia­ ma les Laumes-Alésia); 127

questo nucleo comporta necessariamente un figlio, Saint-Loup, figlio per eccellenza (si può sovrap­ porre il Saint di Saint-Loup al santes di Marsantes: resteranno Mar, la madre, la ma ter semita della falsa etimologia proposta all’epoca dell’affaire Dreyfus, e Loup, il soprannome favorito, utilizzato dalla madre e dalla nonna del narratore per rivolgerglisi teneramente), che però non trasmette il nome. V. Proliferazione L’immaginazione di Proust procede per gruppi. Quando un insieme è abbastanza ben formato, quando possiede un’architettura sufficientemente solida, può generarne un altro che all’inizio si appog­ gia su di lui. Cosi, in Combray, non entriamo solo nella stanza del narratore: dopo il sesamo della madeleine inzupjata in un infuso, scopriamo la camera di zia Léonie, a proprietaria, la rappresentante immobile del mon­ do tradizionale, di tutte le madri di un tempo. Anche Odette è una Maddalena, una peccatrice, ed emana tutti i suoi poteri, tutte le sue essenze, quando è immersa in quell’infuso di foglie mor­ te che è il Bois in autunno: Quella complessità del Bois de Boulogne, che lo rende un luogo artificiale e, nel senso zoologico e mitologico del termine, un Giardino, l’ho ritrovata quest’anno (siamo nel 1912, l’anno che precede la pubbli­ cazione di Du còté de cbez Swann) mentre lo attraversavo per andare al Triannon, uno dei primi mattini di quel mese di

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novembre in cui, a Parigi, nelle case, la pros­ simità e la privazione dello spettacolo dell’au­ tunno che termina cosi presto, senza che vi si possa assistere, danno una nostalgia, una vera febbre di foglie morte, che può arrivare a togliere il sonno (R.T.P., I, pp. 421-22). La fine della prima parte dell’opera corrisponde alla fine del suo primo capitolo. Anche Odette è un sesamo, e la sua presenza al Bois aprirà al nar­ ratore una prima caverna, quella della sua stanza, allo stesso tempo salotto e giardino. A Doncières, prima di rifugiarsi con delizia tra le colonnette dell’Hòtel di Fiandra, il narratore conoscerà una delle più grandi gioie della sua vita dormendo nella stessa camera di Saint-Loup. A Balbec, la nonna dorme nella stanza adiacente, e può comunicare col suo ”loup” bussando sul muro. Non entriamo mai nella camera della duchessa, ma assistiamo ad una lunga scena che si svolge in uella di suo cognato Charlus, il quale intrattiene narratore sui suoi progetti di adozione. Ed alla camera di Albertine la Veneziana, nel­ l’appartamento imbellito da una pianola, è annes­ sa una stanza da bagno identica a quella del narra­ tore (attraverso la parete divisoria egli sente canta­ re la ragazza, quando si lavano nello stesso momen­ to), così come erano camere gemelle quelle abita­ te da lui e dalla nonna a Balbec. Infine, alla camera di Tansonville, dove la let­ teratura muore e dà inizio alla propria resurrezione, corrisponde la seconda camera di M. de Charlus, nella quale, a dire il vero, il narratore non entra, ma a cui dà un’occhiata grazie ad un dispositivo ingegnoso: la camera di tortura nel tempio dell’im­ pudicizia allestito da Jupien durante la guerra del 1914.

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Le sette camere del narratore sono in realtà camere doppie; ognuna di loro comporta una camera annessa, più o meno frequentata da un’altra don­ na. Allo stesso modo, ad ogni membro della costel­ lazione Guermantes possiamo associarne un altro, un Guermantes acquisito: la principessa sposata al principe, Monsieur de Norpois, amante di Madame de Villeparisis, Monsieur de Marsantes, marito della viscontessa, Gilberte sposata a Saint-Loup, Swann, amico del duca, Mademoiselle d’Oloron, figlia adottiva di Charlus, il narratore, erede spirituale della duchessa e, alla fine, di tutti gli altri. Questa doppia costellazione fa spicco su una folla in cui si può distinguere almeno una terza for­ mazione, quella della piccola cerchia della duchessa, che si configura fin dalla prima cena a cui assiste il narratore: principessa di Parma, Hannibal de Bréauté, duca di Chatellerault, principe di Foix, principe Von, principe d’Agrigento, Madame de Grouchy, nata Guermantes. E se guardiamo da vicino il salotto Verdurin, lo vedremo disporsi in una pleiade, tanto al momento della sua prima esposizione in Un Amour de Swann, quanto nel richiamo che lo riporta in scena, nel pastiche dei Goncourt. Si vede qui chiaramente come dei nuovi venuti possano occupare i posti lasciati vuoti, nella formazione, da partenze o de­ cessi : 130

un giovane pianista rimpiazzato da Morel, Cottard, il dottore, Brichot, il cattedratico, Tiche o Biche, l’artista, cioè Elstir, rimpiazzato dallo scultore polacco Viradobietski, detto Ski, Swann, il collezionista, rimpiazzato da Charlus, Saniette, l’archivista, Odette, la fedele-tipo, rimpiazzata dalla principes­ sa Sherbatoff, (cimitero delle uniformi e delle livree). Venite fuori, ora, voi che frequentate le altre camere, e date la mano ai vostri soci: alla madre la zia Léonie, a Gilberte Od ette, alla duchessa Charlus, a Saint-Loup Rachel, alla nonna Françoise, alla letteratura la morte (Shahrazàd e la Berma), ad Albertine Andrée, poli di un arcobaleno di fanciulle che appare sul mare e che comprende Gisèle, Rosemonde, una certa Elisabeth, Germaine, che doveva sostituire Andrée in questa frase: Come un cupo fiore sconosciuto che mi fosse riportato, di là dalla tomba, da un essere in cui non ero stato capace di scoprirlo, mi sembrava di vedere dinanzi a me, in una insperata esumazione, il Desiderio di Alberttine incarnato... come Venere era il desi­ derio di Giove (R.T.P., III, p. 546), e quella Juliette, il cui nome ... era salito dal più profondo ricordo di 131

Albertine come un fiore misterioso (R.T.P., III, p- 731), che si sdoppia in questo modo: Queste giovani compagne benevole non mi sembravano molto numerose. Ma ulti­ mamente vi ho ripensato, i loro nomi mi sono tornati alla mente. Contai che, in quella sola stagione, dodici di loro mi concessero i loro fragili favori. Mi sovvenne poi un altro nome, e furono tredici. Ebbi allora una sorta di crudeltà infantile nel restare su quel numero. Ahimè, mi accorsi di avere dimenticato Albertine, che era stata la prima e non era più, e che divenne la quattordice­ sima (R.T.P., II, p. 789). VI. Giardini Ragazze fiori. Nel saggio sugli Eblouissements della contessa di Noailles, Proust ci comunica di avere l’inten­ zione di scrivere un libro intitolato Les Six Jardins du Paradis. Dovevano essere quelli della contessa medesima, di John Ruskin, di Maeterlinck, di Francis Jammes, di Henri de Régier, e di Claude Monet; troverete il settimo giardino in Joumées de lecture, prefazione alla traduzione di Sésame et les lys: Lasciavo gli altri a finire di far merenda nella parte più bassa del parco, in riva al 132

laghetto dei cigni, e salivo correndo per il labirinto fino ad un cerio pergolato, dove mi sedevo, ormai introvabile, appoggiato ai noccioli tagliati, guardando il pezzo di terreno seminato ad asparagi, le bordure di fragole, il bacino in cui, certi giorni, i ca­ valli muovendosi facevano salire il livello dell’acqua, la porta bianca, in alto, che era la “fine del parco” e, al di ià di essa, i campi di fiordalisi e di papaveri. Sotto questo per­ golato, il silenzio era profondo, quasi inesi­ stente il rischio di essere scoperto, la sicurez­ za era resa più dolce dalle grida lontane che, dal basso, mi chiamavano invano, che qual­ che volta si avvicinavano anche, salivano i primi pendii, cercando dappertutto, poi tornavano indietro, senza avermi trovato; allora, più nessun rumore; solo, di tanto in tanto, il suono d’oro delle campane che in lontananza, al di là della pianura, sembrava risuonare dietro il cielo azzurro, avrebbe potuto avvertirmi del tempo che passava (P.m., p. 168). Si tratta del prato Catalano di Illiers, che di­ venterà il giardino di Combray, contrapposto a quello di Tansonville, in cui Charlus tiene compa­ gnia a Odette, e la piccola Gilberte cerca di rivela­ re il suo amore al giovane narratore, di là dalla sie­ pe sontuosa dei biancospini, con un gesto osceno. A Balbec, un terzo giardino: ... che aveva un’aiuola — più in piccolo, ma come qualunque giardino borghese alla periferia di Parigi, —, una statuetta di giar­ diniere galante, delle sfere di vetro su cui ci si specchiava, delle bordure di begonie 133

e una piccola pergola, sotto cui delle rockingchairs erano allungate davanti a un tavolo di ferro (R.T.P., I, p. 834), quello di Elstir, e quando lo si osserva dalla finestra dello studio, si scorge dall’altra parte, su un piccolo sentiero campagnolo-. la giovane ciclista della piccola brigata, col suo “polo” calzato sui capelli neri, abbassa­ to sulle gote paffute, gli occhi allegri e un poco insistenti; e su quel fortunato sentie­ ro, miracolosamente colmo di dolci pro­ messe, la vidi rivolgere a Elstir, sotto gli alberi, un saluto sorridente d’amica, arco­ baleno che uni per me il nostro mondo ter­ racqueo con regioni che, fino a quel mo­ mento, avevo giudicato inaccessibili (R.T.P., I, p. 844). Giardini delle vacanze, Ma poi ci sono quelli di Parigi, i giardini pubblici: il Bois de Boulogne, dove Odette è la regina, immensa espansione della sua camera-giardino d’in­ verno, i Campi Elisi, dove regnava sua figlia Gilberte e su cui, durante la guerra, passeranno i fuochi di Sodoma; quelli privati: il piccolo giardino dietro il palazzo della duchessa di Guermantes, e gli splendidi “giardini di Esther” (nome altrettanto tradizionale per una princi­ pessa di Guermantes di quanto lo sia quello di Gil­ bert per suo marito, vetrata da una parte, arazzo dall’altra nella chiesa di Saint-Hilaire a Combray-. se non fosse stato già il suo nome: Marie-Esther, 134

l’avrebbe adottato al momento del matrimonio) in mezzo ai quali s’innalza il “famoso getto d’ac­ qua di Hubert-Robert”, che andrà ad inzaccherare Madame d’Arpajon, antica amante del duca di Guermantes (se ci fosse bisogno di precisarne il valore di metafora sessuale, basterebbe questo passo del Contre Sainte-Beuve : Ma a dodici anni, quando per la prima vol­ ta andai a rinchiuaermi nello stanzino al­ l’ultimo piano della nostra casa a Combray, dove erano appese al soffitto collane di semi di giaggiolo, quello di cui andavo in cerca ere sconosciuto... L’esploraziocompii in me stesso... Ad ogni istante credevo di essere sul punto di mori­ re... Ripresi fiato un momento... Finalmente si innalzò uno zampillo di opale, a getti successivi, come quando si slancia il getto d’acqua di Saint-Cloud, in uno zampillo che possiamo riconoscere perchè nello scorrere continuo delle sue acque, ha una propria individualità, disegnata con grazia dalla sua curva resistente — nel ritratto che ce ne ha lasciato Hubert Robert... (Con­ tre Sainte-Beuve, Parigi 1954, pp. 68-69), mentre il narratore, grazie a quell’episodio, diverrà simbolicamente il signore di tutte le donne del duca di Guermantes, unite in un arcobaleno che va da Odette a Oriane, passando attraverso tante altre. VII. Congedo in forma di gioco I veri professori dotti e titolati afferreranno 135

quanto potranno delle mie divagazioni prismatiche, aggiungendo alle pagine, in basso, interi pacchetti di note di rigore (per farlo passare agli occhi di certuni, con che massa di gergo bisognerebbe coprire quello che dico!); al fine di porre qui un limite alla proliferazione di questo capriccio critico, divertiamoci a proporre loro un concorso. Disponiamo di due tappe certe nell’evoluzione del piano generale della Rechercbe: il piano che figura in quarta di copertina nel dizione originale di Du cóté de chez Swann (l’opera, allora, deve comporsi di tre parti), quello che appare in testa alla prima edizione di A Vombre des Jeunes Filles en jleurs ( a quel momento si prevedono cinque parti), a cui corrisponde, all’mcirca, la versione attua­ le, salvo che la quinta parte, dilatandosi fortemente, si suddivide a sua volta in tre, per portare a sette il numero delle parti su cui si distribuisce l’insieme. Tra la prima tappa e la seconda, invece, ci sono dei veri sconvolgimenti: il titolo del capitolo con cui doveva cominciare la terza parte (Le Temps Retrouvé): A Vombre des Jeunes Filles en fleurs, è diventato il titolo della seconda parte, a cui ap­ partiene quello che doveva essere 1 inizio del Cóté de Guermantes (Chez Madame Swann, trasformato in Autour de Madame Swann e Noms de pays: le pays), il che è dovuto, evidentemente, allo sviluppo già notevole del personaggio di Albertine; la morte della nonna, che doveva sopravvenire solo dopo il capitolo concernente le relazioni tra Charlus e i Verdurin, passa indietro; e soprattutto spariscono due capitoli: Madame de Cambremer (eppure la marchesa di Cambremer, nata Legrandin, svolge un ruolo 136

! ancora abbastanza importante alla fine della Fugii tive, quando sul treno che li riporta da Venezia a ! Parigi la madre, passata Padova, comunica al narra­ tore la notizia di due matrimoni straordinari e sim­ metrici: quello di Gilberte con Saint-Loup, quello del giovane Cambremer con Mademoiselle d’Oloron, un ruolo sempre in relazione, comunque, a quest’ultimo avvenimento, tanto che quel titolo ■ doveva in effetti indicare la nipote di Jupien, che morirà pochi giorni dopo le nozze, come Robert pochi anni dopo le sue), e soprattutto les ilVices et les Vertus 9 de Padoue et de Com­ bray, che, nella versione attuale, compare in questa esile testimonianza: durante il soggiorno a Venezia, la madre e il figlio si spingono un giorno fino a Padova e vedono la cappella delTArena, ma non sono le figure alle­ goriche (le cui fotografie donate da Swann sono probabilmente ancora attaccate alle pareti dello studio nella casa di Combray) a trattenere Fattenzione del narratore, bensì soltanto gli affreschi sovrastanti, che rappresentano la storia della Ver­ gine e del Cristo, e in particolare i loro angeli ae­ ronauti. Sappiamo che, tra i sette vizi e le sette virtù, il ricordo deH’Ingiustizia è suscitato in Swann, durante la serata Sainte-Euverte, nel passo sui monocoli, dal­ la vista di Monsieur de Palancy (l'uomo che il nar­ ratore, al tempo della rappresentazione di Fedra con la Berma, avrebbe maggiormente desiderato essere, uno dei mostri marini e sacri che galleggia­ vano in fondo alFantro della principessa di Guermantes), che i borghesi di Combray evocano la Giusti­ zia, 137

e soprattutto che la sguattera, la ragazza-ma­ dre martirizzata da Françoise, somiglia in modo cosi sorprendente alla Carità, che non la si indica più che con questo soprannome (allegoria anche di John Ruskin), che, nel seguito deU’opera, il narratore stesso si identificherà con l’Invidia (sognando contempo­ raneamente della duchessa di Guermants e di Vene­ zia, proietta in questo modo la sua impotenza a raggiungerle: ... proprio io che, sognando, mi rivolgevo lunghissimi ragionamenti verbali, non appe­ na volevo parlare a quegli amici, sentivo il suono morirmi in gola, perchè non si può parlare distintamente nel sonno; volevo avvicinarmi a loro e non potevo muovere le gambe, e infatti non si può nemmeno cam­ minare; e d’un tratto, mi vergognavo di com­ parire davanti a loro, perche si dorme sve­ stiti. Cosi, con gli occhi accecati, le labbra sigillate, le gambe legate, il corpo nudo, l’immagine del sonno che il mio stesso sonno proiettava aveva l’aria di quelle grandi figure allegoriche in cui Giotto ha rappresentato l’invidia con un serpente in bocca, e che Swann mi aveva regalato (R.T.P., II, p. 146), e che l’idolatria si incarnerà in Albertine: che avevo scorta mentre alzava un attribu­ to bizzarro, attaccato in fondo a un cordon­ cino, che la faceva somigliare all’Idolatria di Giotto: si chiama, del resto, “diabolo", ed è talmente caduto in disuso (in seguito, è tornato in voga parecchie volte: 138

le mie sorelle ci hanno giocato, ed ora lo si vende sulle nostre spiagge) che davanti al ritratto di una fanciulla che ne abbia uno, i commentatori del futuro potranno dissertare, come davanti a quella figura allegorica dell’Arena, su che cosa essa abbia in mano. (R.T.P., I, pp. 886-887),

annotazione molto importante, questa, poiché ridolatria è l’unico peccato che Proust rimprovera a Ruskin: per questo Ruskin non potrà rappresenta­ re per lui una madre del tutto soddisfacente, ed egli passerà dalla traduzione al Contre Sainte-Beuve, poi alla Recherche ; l’alfabeto ideografico dell’Arena sottintende l’in­ sieme dell’opera. Il gioco consiste nel ritrovare la corrispondenza primitiva tra i personaggi di Combray e le allegorie ai Giotto; ora, sappiamo che nel 1913, all’epoca della com­ parsa di Du coté de chez Swann, l’opera era già interamente abbozzata, e che, alla vigilia della guerra, il secondo volume preannunciato, dal titolo Le coté de Guermantes, era in bozze dal tipografo. Secondo ogni verosimiglianza, almeno una prima stesura del capitolo su les “Vices et les Vertus” de Padoue et de Combray era già redatta (se nor ' ella versione attuale, è sostituzioni avrebbero senz’altro richiesto un rimaneggiamento troppo profondo); è possibile ritrovarla e pubblicarla; allora, al ricercatore che avrà mostrato di sa­ persi meglio avvicinare ai dati proustiani, avrò il piacere di offrire una madeleine. (trad. di C.GJ 139

L’uso dei pronomi personali nel romanzo

Abitualmente i romanzi sono scritti alla terza o alla prima persona e sappiamo bene che la scelta di una di queste forme non è affatto indifferente; in un caso o nell’altro non è esattamente la stes­ sa cosa che ci può venire raccontata, e soprattut­ to risulta trasformata la nostra situazione di lettore in rapporto a ciò che ci viene detto. 1. La terza persona La forma più semplice, fondamentale, della nar­ razione è la terza persona. Tutte le volte che l’au­ tore ne utilizzerà un’altra, questa sarà, in un certo modo, una “figura”; egli ci inviterà a non prender­ la alla lettera, ma a sovrapporla a quella che e sempre sottintesa. Cosi, per esempio, l’eroe della Recherche du temps perdu, Marcel, si esprime alla prima per­ sona, ma Proust stesso insiste sul fatto che questo “io” è un altro, e ce lo dà come prova decisiva: “E’ un romanzo”. In ogni racconto romanzesco sono obbligato­ riamente in gioco le tre persone del verbo e due persone reali: l’autore che racconta la storia, che nella conversazione comune corrisponde all’ “io”, il lettore a cui si racconta, il “tu”, e una persona finta, l’eroe, di cui si racconta la storia, 1’ “egli ’. Nelle cronache, nelle autobiografie, nei racconti di tutti i giorni, la persona di cui si racconta la sto­ ria è identica a chi la racconta; negli elogi, nei di­ 140

scorsi di accettazione a YAcadémie française, o nelle requisitorie, la persona a cui soprattutto si parla è anche la persona di cui si parla; ma nel romanzo non può esserci una identità letterale, poiché colui di cui si parla, non avendo per niente esistenza reale, è necessariamente un terzo rispetto a questi due esseri in carne ed ossa che comunicano attra­ verso di lui. Tuttavia, il fatto stesso che si tratti di una fin­ zione, che non si possa constatare l’esistenza materia­ le di questo terzo, che non si urti mai il suo cor­ po, il suo essere esteriore, ci mostra che, nel ro­ manzo, questa distinzione fra le tre persone gramma­ ticali perde molto della rigidità che può avere nella vita quotidiana; sono vasi comunicanti. Ognuno di noi sa che il romanziere costruisce i suoi personaggi, lo voglia o no, lo sappia o no, a partire dagli elementi della sua vita, che i suoi eroi sono maschere attraverso cui racconta e sogna se stesso, che il lettore non è per niente pura passività, ma che ricostruisce, a partire dai segni riuniti sulla pagina, una visione o un avventura, servendosi anch’e­ gli del materiale a sua disposizione, vale a dire la sua memoria, e che il sogno, a cui giunge in tale modo, illumina ciò che gli manca. Nel romanzo ciò che ci viene raccontato è sem­ pre anche cjualcuno che si racconta e ci racconta. La presa di coscienza di questo fatto fa scivolare la narrazione dalla terza alla prima persona. 2. La prima persona In primo luogo, con l’introduzione di un punto di vista, ci si avvicina di più al realismo. Quando tutto era stato raccontato alla terza persona era come se l'osservatore fosse completamente indif­ ferente: “Può darsi che alcuni abbiano commesso 141

errori su ciò che è accaduto, ma oggi tutti sanno che le cose si sono svolte in questo modo”. Quando ci si accorge che se alcuni degli individui implicati avessero saputo allora quello che accadeva altrove, le cose, molto spesso, non si sarebbero svolte in que­ sto modo; quando ci si accorge che questa ignoran­ za è uno degli aspetti fondamentali della realtà uma­ na, e che gli avvenimenti della nostra vita non arriva­ no mai a storicizzarsi al punto che la loro narrazio­ ne non presenti più lacune, allora si è obbligati a presentarci ciò che siamo in grado di conoscere, ma anche a precisarci i modi di questo sapere. A questo riguardo è caratteristico il fatto che in tutte le mistificazioni romanzesche, ogni volta che si è cercato di fare passare una finzione per un documento, prendiamo per esempio il Robinson Crusoe o la Peste di Londra di Daniel Defoe, si è utilizzato con molta naturalezza la prima persona. In effetti, se si fosse usata la terza, si avrebbe auto­ maticamente provocato la domanda: “Com’è che nessun altro sa niente?”. Il narratore che ci espone le sue vicissitudini risponde in anticipo a questa richiesta e rinvia nel tu turo ogni verifica: ci spie­ ga come può accadere che “uno” solo sa e che gli ‘altri” personaggi non sanno niente. Nel romanzo il narratore non è una prima per­ sona pura. Egli stesso, letteralmente, non è mai l’autore. Non si deve confondere Robinson con Defoe, Marcel con Proust. Egli stesso è una finzione, ma in mezzo a questa folla di personaggi fittizi, naturalmente tutti alla terza persona, è il rappresen­ tante dell’autore, la sua persona (*). Non dimenti­ chiamo che nello stesso tempo è il rappresentan­ te del lettore, esattamente il punto di vista nel qua­ le l’autore lo invita a mettersi per apprezzare e per (*) In italiano nel testo (N.d.t.).

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gustare quella certa serie di avvenimenti, per appro­ fittarne. Questa identificazione privilegiata, forzata (il lettore “deve" mettersi qui), non impedirà in nes­ sun modo che se ne producano altre; ci sono mol­ ti romanzi dove il narratore è un personaggio se­ condario che assiste alla tragedia o alla trasfigura­ zione di un eroe, o di parecchi, e di cui ci racconta le tappe. Allora chi non si accorge che rispetto al­ l’autore, l’eroe rappresenterà ciò che sogna, e il narratore ciò che e? La distinzione tra i due perso­ naggi rifletterà aU’interno dell'opera la distinzione vissuta dall’autore tra l’esistenza quotidiana come la subisce, e quest’altra esistenza che la sua attività di romanziere promette e permette. Ed è questa distinzione che egli vuole rendere sensibile e perfi­ no dolorosa per il lettore. Non si vuole più accon­ tentare di fornirgli un sogno consolatorio; gli vuole fare provare tutta la distanza che c’è tra questo sogno e la sua realizzazione pratica. L’introduzione del narratore, punto di con­ tatto tra il mondo raccontato e quello in cui lo si racconta, termine mediano tra il reale e l’immagi­ nario, fa scattare tutta una problematica intorno alla nozione di tempo. Quando si resta in un racconto scritto intera­ mente alla terza persona (eccetto i dialoghi, evi­ dentemente), in un racconto senza narratore, la distanza tra gli avvenimenti riferiti e il momento in cui sono riferiti non interviene. Si tratta di un racconto stabilizzato che sostanzialmente non cambierà più, chiunque sia chi ve lo racconta e il mo­ mento in cui ve lo racconta. Il tempo nel quale si svolge sarà dunque indifferente al suo legame col presente, è un passato staccato nettamente dall’oggi, ma che non si allontana più, è un aori­ sto mitico, in francese è il passato semplice. 143

Dopo che si è introdotto un narratore, è neces­ sario sapere in che rapporto è la sua scrittura con la sua avventura. All’inizio, lui stessso riterrà oppor­ tuno aspettare che la crisi si sia rivelata, che gli avvenimenti si siano assestati in una versione de­ finitiva; per raccontare la storia aspetterà di cono­ scerla per intero; è più tardi che il marinaio si chi­ nerà sul suo passato, ritornato all’ovile, vecchio, ormai soddisfatto, riordinerà i suoi ricordi. Il rac­ conto sarà presente sotto forma di memorie. Ma allo stesso modo che 1’ “io” dell’autore proiet­ ta su mondo fittizio 1’ “io” del narratore, cosi il pre­ sente di questo proietterà sui suoi ricordi fittizi un presente finito. Vedremo moltiplicarsi formule come: “In quel momento non sapevo ancora che...” Al­ l’organizzazione definitiva delle peripezie, cosi come si presenta a un’ideale memoria ormai acqui­ sita, si oppone, via via sempre più, l’organizzazione provvisoria, giorno per giorno, dei dati incompleti che soli permettono di comprendere e di fare “ri­ vivere” gli avvenimenti. Se il lettore viene messo al posto dell’eroe, è anche necessario che venga messo nel suo stato, che ignori ciò che egli ignora, che le cose gli appaiano come appaiono a lui. Per questo motivo la distanza temporale tra narrato e narrazione tenderà a dimi­ nuire-. dalle memorie si passerà alle cronache, poi­ ché la scrittura è in grado d’intervenire nel corso stesso dell’avventura, per esempio durante una pausa, dagli annali si passerà al diario, poiché ogni sera il narratore fa il punto e ci confida i suoi erro­ ri, le sue inquietudini, i suoi problemi; è naturale che si sia cercato di ridurre questa distanza al minimo, di arrivare a una narrazione assolutamente contem­ poranea a ciò che narra, soltanto che, come eviden­ temente non si può scrivere e picchiarsi, mangiare, fare all’amore nello stesso tempo, si è stati obbliga­

li

ti a fare ricorso ad una convenzione: il monologo interiore. 3. Il monologo interiore Anche nel diario, tra l’azione e il suo racconto, si ha il tempo di ripassare cento volte le cose nel­ la propria testa. Qui la pretesa è di darci la realtà tutta calda, il vivo assoluto, col vantaggio mera­ viglioso di potere seguire tutte le avventure del caso nella memoria del narratore, tutte le trasfor­ mazioni che avrà subito, tutte le sue interpretazioni successive, i progressi della sua messa a punto dal momento in cui si è prodotta fino a quello in cui verrà scritta nel diario. Ma, nel monologo interiore consueto, il problema della scrittura è puramente e semplicemente messo tra parentesi, obliterato. Come succede che questo linguaggio è potuto arrivare fino alla scrittura, in che momento la scrittura lo ha potuto recuperare? Questi sono problemi che si lasciano accuratamente nell’ombra. Ci si ritrova, per conseguenza, su un piano superiore, di fronte a difficoltà dello stesso genere di quelle incontrate dal racconto alla ter­ za persona: ci viene riferito ciò che è accaduto, ciò che si è vissuto, non ci viene riferito in che modo se ne viene a conoscenza, in che modo, nella realtà, si potrebbe saperlo in casi del genere. Ora questa dimenticanza, questa obliterazione, ha, nei grandi artigiani del monologo interiore, il grandissimo inconveniente di camuffare un problema ancora più grave: quello del linguaggio stesso. In effetti si suppone nel personaggio narratore un linguaggio articolato là dove abitualmente non c’è. Vedere una sedia e pronunciare con la propria voce la parola “sedia” è totalmente diverso: la pronun­ cia di questa parola non implica affatto necessaria­ 145

mente l'apparizione grammaticale della prima per­ sona; la visione articolata, oserei dire la visione cor­ retta e arricchita dalla parola, può restare sul piano di “C'è una sedia" senza arrivare a “Io vedo una sedia”. Ed è proprio di tutta questa dinamica del­ la coscienza e della presa di coscienza, dell'accesso al linguaggio, che è impossibile rendere conto. Nel racconto alla prima persona il narratore espone ciò che sa di se stesso e solo ciò che ne sa. Nel monologo interiore questo ambito si restringe ancora, dato che egli non può raccontare nient'altro cfre ciò che sa in quello stesso momento. Di con­ seguenza ci si trova di fronte a una coscienza chiu­ sa. La lettura si presenta allora come il sogno di uno “stupro” cui la realtà si rifiuta costantemente. Come aprirla questa coscienza che non può essere cosi chiusa dal momento che, per l’appunto, in ogni lettura le persone circolano dentro di essa? Come tenere conto di questa circolazione? 4. La seconda persona E' qui che interviene l'uso della seconda persona che nel romanzo si può caratterizzare in questo modo: colui al quale si racconta la sua stori? E dal momento che c'è qualcuno cui si racconta la sua storia, qualcosa di lui che egli stesso non sa, o che almeno non si esprime ancora sul piano del linguaggio, si può avere un racconto alla seconda persona, che, di conseguenza, sarà sempre un rac­ conto “didattico”. Cosi, in Faulkener, si trovano delle conversa­ zioni, dei dialoghi, dove certi personaggi raccontano agli altri ciò che questi altri hanno fatto nella loro infanzia e che hanno dimenticato o di cui non han­ no mai avuto che una coscienza molto parziale. Siamo di fronte ad una situazione d'insegna­ mento: non è più soltanto qualcuno che possiede 146

la parola come un bene inalienabile, inamovibile, come una facoltà innata che si accontenta di eser­ citare, ma è qualcuno a cui si dà la parola. Di conseguenza bisogna che il personaggio in questione, per una ragione o per l’altra, non possa raccontare la sua storia, che gli sia vietato il linguag­ gio, che si forzi questo divieto, che si provochi questo avvicinamento. E’ in questo modo che, in un interrogatorio, un giudice istruttore o un commis­ sario di polizia riunirà i vari elementi della storia che l’attore principale o il testimone non può o non gli vuole raccontare, e che li organizzerà in un rac­ conto alla seconda persona per fare saltare fuori questa parola impedita: “Lei è rientrato dal lavo­ ro alla tal ora, sappiamo da questa e da quella inda­ gine che alla tal ora ha lasciato il suo domicilio, cosa ha fatto nel frattempo?”, oppure: 44Lei ci dice di ave­ re fatto questa cosa, ma questo è impossibile per que­ sta e per questa ragione, lei dunque deve avere fatto questo.” Se il personaggio conoscesse per intero la sua storia, se non avesse obiezioni a raccontarla o a rac­ contarsela s’imporrebbe la prima persona: ci forni­ rebbe la sua testimonianza. Ma se si tratta di strap­ pargliela, egli ci nasconde o si nasconde qualche cosa: sia perchè mente, sia perchè non possiede tut­ ti gli elementi, o anche, se li possiede, è incapace di collegarli in modo appropriato. Le parole pronun­ ciate dal testimone si presenteranno come degli isolotti alla prima persona all’interno di un racconto costruito alla seconda persona che ne provoca l’e­ mersione. Cosi, ogni volta che si vorrà descrivere il progre­ dire reale della coscienza, la nascita stessa del lin­ guaggio o di un linguaggio, la seconda persona sarà la più efficace. AH’interno dell’universo del romanzo, la terza 147

persona “rappresenta” questo universo in quanto e differente dall’autore e dal lettore: la prima “rap­ presenta” l’autore, la seconda il lettore; ma tutte queste persone comunicano tra loro, si producono spostamenti continui. 5. Gli spostamenti di persona Nel linguaggio comune usiamo molto spesso una persona al posto di un’altra per ovviare all’as­ senza di una forma, per creare una persona assente dalla coniugazione normale: è ciò che accade in parti­ colare nella forma di “cortesia”. In francese si utilizza cosi la seconda persona plurale al posto di quella al singolare, ma in molte altre lingue si utilizza in questo caso la terza (il che, per un romanzo scritto in forma di cortesia, procurerà problemi di traduzione molto difficili). Questo uso della terza persona al posto della seconda, in forma di cortesia, permette di cancella­ re l’aspetto didattico che essa riveste nel racconto e l’impressione di gerarchia che ne discende. Fa in modo che la persona a cui ci si rivolge sia inclusa nella Storia, nella categoria degli uomini pubblici, di quelli di cui si conoscono, di cui ognuno dovreb­ be conoscere, i fatti e le azioni. Si potrebbe studiare nello stesso modo lo spo­ stamento che s’opera nel plurale maiestatis. In effetti le prime due persone del plurale non sono affatto delle moltiplicazioni pure e semplici di quelle che corrispondono loro al singolare, ma sono dei complessi originali e variabili. Il “voi” non è un “tu” ripetuto più volte, ma la combinazione di “tu” e “egli” ; quando questa combinazione si ap­ plica ad un individuo abbiamo il plurale di cortesia francese, quando si applica a tutto un gruppo sappia­ 148

mo che ad ogni istante possiamo isolare uno qualun­ que degli individui che ne fanno parte e che allora il “voi” si scinde in un “tu” e in numerosi “egli” per riformarsi appena che l’attenzione abbandonerà questo individuo in particolare. Il “noi” non è un “io” ripetuto più volte, ma una combinazione di tre persone. Così un principe di­ ceva “noi” invece di dire “io” perchè s’esprimeva anche a nome della persona a cui si rivolgeva. Si potrebbe andare ancora più lontano e fare vedere che all’origine le persone del singolare si staccano poco a poco sul fondo d’un plurale indif­ ferenziato, che di fatto il “noi” è precedente a “io”, che è il “noi” che si divede in “me” e “voi”, il “voi” in “te” e “loro”, ecc. Tutti ci siamo senza dubbio sorpresi a parla­ re a un bambino, un bebé, e perfino ad un anima­ le, usando per chiamarlo la prima persona: “E allora, sono stato buono stamattina?” Un uso simile de­ nuncia giustamente l’impossibilità per il bambino stesso di fare intervenire un “io” in mezzo al rac­ conto normale alla seconda persona; a questo punto gli si impone la parola perche non sa affatto parlare, o, più tardi, perchè ciò che gli si dice è “senza possi­ bilità di replica”. Tutti i pronomi possono stemperarsi in una terza persona indifferenziata, in francese “on”, la cui affinità con la prima persona plurale appare chiara­ mente nel linguaggio parlato: “nous on” corrisponde esattamente a “moi je ’ (*). 6. L ’ “egli”di Cesare Se, nel linguaggio comune, spostiamo le per­ sone per colmare un certo numero di lacune della (*) Si tratta di una corrispondenza specifica della lingua francese intraducibile in italiano (N.d.t.).

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grammatica corrente, si capisce come, nel linguaggio letterario, un tale fenomeno potrà avere delle appli­ cazioni retoriche e poetiche considerevoli. Prenderò a prestito due esempi da opere tra le più classiche. Cesare, nei suoi Commentava, indica se stesso con la terza persona. E’ uno spostamento frequente in numerose letterature, sempre molto significativo. Per apprezzare l’efficacia retorica di un tale uso, non dovete fare altro che immaginare che uno degli illustri uomini di Stato del nostro tempo abbia redatto le su e Memorie alla terza persona.- prendiamo, se volete, Winston Churchill. Questo spostamento ha, in Cesare, una portata politica straordinaria. Se avesse scritto alla prima persona si sarebbe presentato come testimone di ciò che racconta, ma accettando allo stesso tempo l’esistenza di altri testimoni attendibili che potessero correggere o completare ciò che egli ci ha detto. Usando la terza persona, considera il decantarsi della storia come terminato e la versione che ci dà come definitiva. Rifiuta così in anticipo ogni altra testimonianza e, siccome ognuno di noi sa bene chi è la prima persona che si nasconde sotto que­ sta terza, non solo la rifiuta, ma la vieta. 7. L ’ “io ” delle Méditations di Descartes Nel Discours de la métbode, 1’ “io” indica l’indi­ viduo reale Descartes che ci racconta la sua storia, ma nelle Méditations c’è una finzione, un romanzo, e 1’ “io” è di natura tutta differente. Si tratta di una seconda persona camuffata. All’inizio della prima Méditation, si può credere che 1’ “io” designa ancora Descartes stesso: ... Ma poiché mi sembrava che questa impresa 150

fosse molto grande, ho atteso di avere rag­ giunto un’età cosi matura che io non ne potessi sperare un’altra dopo di quella, nel­ la quale fossi più sicuro di eseguirla;... (Renè Descartes, Ouvres et Lettres, Bibliothèque de la Plèiade, Paris, 1958, p. 267). Ma si vede molto presto che la storia che Descar­ tes ci racconta non è la sua storia, ma un’avventura che vuole letteralmente fare vivere al lettore. Lo conduce passo a passo, attraverso queste Méditations, come un angelo custode, un mentore. Ma, benché i sensi qualche volta ci inganni­ no, rispetto alle cose poco sensibili e molto lontane, nondimeno se ne incontrano molte altre, di cui non si può ragionevolmente dubitare, benché le conosciamo tramite loro: per esempio il fatto che io sia qui, se­ duto vicino al fuoco, con indosso una veste da camera, con questa carta in mano e altre cose di questo tipo. (ìbidem, p. 268). Chi è seduto vicino al fuoco, con una veste da camera? Descartes immagina la messa in scena, lo scenario nel quale si troverà il più verosimilmente possibile il suo lettore, ed è in questo scenario così immaginato che egli lo colloca. Alla fíne della prima Méditation, descrive l’as­ sopimento che deve avvertire dopo questo primo esercizio mentale: ... una certa pigrizia mi trascina insensibil­ mente nel corso della mia vita ordinaria... cosi ricado senza accorgermene, da me stesso, nelle mie vecchie opinioni... (ibidem, p. 272). 151

E lo conduce dolcemente al riposo. E’ solo all’indomani che il lettore, se la messa in scena è rispettata, deve affrontare la seconda Méditation : La meditazione che feci ieri mi ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che ormai non posso più dimenticarli... (ibidem, p. 274). Qui è assolutamente certo che si è passati alla seconda persona, “insensibilmente”, perchè sap­ piamo benissimo che questa Méditation, lui, De­ scartes, non l’ha fatta il giorno precedente. E’ il lettore che docilmente, giorno dopo giorno, deve sottoporsi ad uno di questi esercizi spirituali. Ma questo spostamento sornione maschera un problema che Descartes, pur considerandolo come secondario, è ben lieto di lasciare nell’ombra, perchè per lui, una volta bene avviata l’argomentazione (e per questo basta un uomo solo, lui), tutto deve necessariamente seguire: una volta ritrovato, ripulito, il cristallo della ragione, sì suppone che niente lo possa appannare, e che, di conseguenza, se il lettore non può realizzare alla lettera l’esperienza che gli si propone, ciò non do­ vrebbe avere grande importanza. Si tratta dunque del problema della presenza di un interlocutore, della presenza sua, di Descartes, come guida all’in­ terno di tutta questa serie di meditazioni, presenza che è impossibile mettere effettivamente in dubbio, pena l’abbandono del libro. Qui, l’uso di “io” tenta di farci dimenticare la presenza del narratore. Quando lo si scopre attra­ verso l’analisi del procedimento narrativo, si scopre nello stesso momento il carattere fenomenologi­ camente fondamentale della seconda persona. Quando si passerà dal racconto di Descartes alla sua ripresa in Husserl, questo occultamento 152

avrà conseguenze molto importanti: porterà que­ st’ultimo a chiudere la coscienza dell’individuo su se stessa e lo farà inciampare nella quinta delle sue Meditazioni cartesiane in difficoltà inestricabili nel tentativo di descrivere l’apparizione radicale d’un altrui, esempio tipico di quei falsi problemi di cui ci ha già cosi bene insegnato a diffidare. 8. Pronomi complessi Abbiamo due esempi, in Cesare e in Descartes, di pronomi personali complessi e abbiamo già visto che nei romanzi i pronomi personali usati sono sempre complessi, combinazioni delle persone sem­ plici del parlato. L’ “io” del narratore è evidentemen­ te composto da un “io” e da un “egli”, e ci possono anche essere architetture, sovrapposizioni di pronomi, per esempio, di “io” narrativi gli uni sopra gli altri, che servono al romanziere reale per staccare da sè ciò che racconta. In Henry James, nel Giro di vite, si trova la sovrapposizione di quattro differenti narratori; Kierkegaard, nella novella Una possibili­ tà che fa parte delle Tappe sul cammino della vita, si serve di un’architettura con quattro pseudonimi per narrarci un aneddoto che si ritrova nel suo Dia­ rio. Bisogna evidentemente studiare con sistemati­ cità l’utilizzazione di “tutti” i pronomi personali nel romanzo. Poiché si usano le tre persone singola­ ri e i composti, si può tentare di vedere cosa dareb­ bero questi composti primari che sono le persone del plurale. Per esempio c’è una situazione alla quale un romanzo al “noi” possa fornire una risposta? La conversazione più familiare ce ne dà numerosi esempi: cosi quando, tornati dalle vacanze, raccon­ tiamo a altri amici cosa abbiamo fatto, quello che tra noi ha preso la parola usa questa prima persona

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plurale dimostrando che, all’interno del gruppo deli­ mitato in questo modo, 1’ “io” narratore può trasfe­ rirsi in qualunque momento da un individuo ad un altro, può essere cambiato costantemente. Per questo studio, i grandi romanzi epistolari ci forniscono materiale ricco d’esempi considerevo­ li; mi sembra che La Nouvelle Héloise sia, al riguardo, particolarmente ricca. 9. Funzioni dei pronomi Lo studio di tali strutture, l’utilizzazione metodi­ ca dei pronomi composti ci permetterà di fare parla­ re gruppi d’uomini, aspetti della realtà umana che abitualmente non parlano, o almeno non nel ro­ manzo, che restano nell’oscurità; ci permetterà di chiarire la materia romanze­ sca in un sola volta, verticalmente, cioè per quanto riguarda le relazioni con il suo autore, il suo lettore, il mondo al centro del quale ci appare, e orizzontalmente, cioè le relazioni tra i perso­ naggi che la costituiscono, la loro stessa interiori­ tà. Queste sono “funzioni” pronominali che permet­ teranno loro di parlare, strutture che nel corso del racconto potranno evolversi, cambiare, semplificar­ si o complicarsi, infittirsi o restringersi. Per ciò che riguarda il problema generale della persona, tali considerazioni e tali pratiche obbligano a separare sempre più questa nozione da quella di individuo fisico, e a interpretarla come una funzio­ ne che si produce all’interno, di un ambito mentale e sociale, in una pausa di dialogo. (trad. di E.C.) 154

Individuo e gruppo nel romanzo

Spesso si oppone il romanzo, nel senso moderno del termine, cioè quale compare in Occidente grosso modo con Cervantes, all’epopea, sostenendo che questa racconta le avventure ai un gruppo, quello le avventure di un individuo; ma, almeno dopo Balzac, è chiaro che il romanzo nelle sue forme più alte vuole superare questa opposizione e racconta­ re attraverso le avventure individuali i movimenti di tutta una società, di cui non è che un particola­ re, un momento notevole; infatti se vogliamo capire correttamente l’insieme che chiamiamo società, vediamo che esso non è affatto formato solo da uomini, ma da tutta una serie di oggetti materiali e culturali. Non vorrei dunque cercare di chiari­ re un po’ soltanto il rapporto, che il romanziere ci propone nel racconto, tra gruppo e individuo, ma parallelamente anche l’azione della sua opera per ciò che riguarda tali rapporti all’interno dell’am­ biente in cui si produce. L’epopea medievale, la chanson de geste, appar­ tiene a una società d’ancien regime, fortemente e manifestamente gerarchizzata, che comporta cioè l’ordinamento nobiliare. Nell’insieme degli individui che la compongono si delinea un sottoin­ sieme perfettamente delimitato, evidente a tutti, da tutti conosciuto, che detiene l’autorità. Quelli che non sono in questo gruppo sono degli ignoti, cioè non sono conosciuti che dai loro vicini; al contrario il nobile è salutato come tale da tutti 155

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uelli del suo paese e dei paesi vicini. L’autorità el nobile sta nel suo essere illustre: è lui la parte della nostra provincia che fuori è conosciuta e, di conseguenza, grazie a questa noi esistiamo per la gente di altri paesi. Senza di lui torniamo nell’o­ scurità, non veniamo considerati. In questo caso bisogna appartenere ad un altro nobile, unirsi ad un’altra provincia, non sappiamo più distinguer­ cene. La gerarchia dell 'ancien régime non è dunque solo politica, è prima di tutto semantica; i rapporti di forza e di comando sono subalterni a rapporti di rappresentanza; il nobile è un “nome”. Si sa bene che la forza bruta, la violenza, non può dare la nobiltà. Se un contadino particolar­ mente muscoloso ammazza in un bosco il suo gio­ vane signore, non viene affatto riconosciuto come successore dai suoi compagni. Il suo gesto è solo un assurdo delitto. Perche la forza si possa manife­ stare correttamente, occorre un ambiente deputato-, campo di battaglia, alla peggio il torneo, un am­ biente che le permetta di trasformarsi in linguaggio. In effetti, nel campo di battaglia, chi picchia più forte potrà aiutare quelli che gli sono attorno, se viene ucciso sarà la testa di un piccolo corpo che si dissolverà. Sarà sufficiente dire che il tale tiene duro, per sapere che anche il gruppo dei suoi com­ pagni tiene duro. Dunque vengono indicati tramite lui. Quando parla a proprio nome, parla anche a loro nome, e la stessa cosa. Senza passare attraverso di lui, non ci sono altri mezzi per distinguerli come unità dagli altri. Shakespeare chiama Cleopatra Egitto, il re di Francia Francia, il duca di Kent Kent. Nel­ la relazione tra sire e vassallo, il nome ha un ruolo di cerniera: quando si dice il re di Francia, la pa­ rola Francia indica le genti e i beni, ma inversamente 156

se si dice le genti o i beni di Francia, la parola Fran­ cia indica il re. Dunque, in questo contesto, la storia di un paese sarà, molto giustamente, la storia del re di quel paese, il racconto di una guerra, quello delle imprese dei grandi condottieri. Appena si pronuncia il nome di un nobile, tutto ciò che significa appare subito dietro di lui, tutta questa terra abitata, questi uomini ligi, tutto ciò che egli permette di conoscere, che appare come sottofondo, come ombra da cui si stacca luminoso. Ma allo stesso modo tutto ciò che si stacca dal fondo, che si segnala, tutto ciò che si identifica, che diventa conosciuto, provoca un distacco dall’insieme. La luce che l’individuo proietta su se stesso ricade su coloro che lo circondano. Questa differenza che egli rende palese non può restare puramente indi­ viduale, è la differenziazione di un gruppo che non appariva ancora. Non ci può essere un nuovo nobile senza il riconoscimento di una nuova provincia. Diventando così il nome di una nuova regione, trascina con sè tutto ciò di cui è già stato il nome, in particolare la sua famiglia che egli serviva a di­ stinguere. Ancora oggi conosciamo bene questo fenomeno: per distinguere i rami in una grande famiglia, si prenderà il nome dell’individuo più vicino, quello meglio conosciuto: i nonni, zii, zie, cugini, si domanderanno notizie di Henry o di Char­ les, e d’altra parte come va a casa di Madeleine o di Geneviéve. L’eroe che si mette in luce trascina nella sua azione anche sua moglie e i suoi figli. Mentre non si conoscono quelli degli altri, i suoi parenti diventano conosciuti. E questa cellula va avanti tutta intera. Così, nella coscienza di ognuno, si ri-struttura tutta la società; e, affinchè le cose possano conti­ nuare, è indispensabile che ogni dimostrazione di forza in un luogo canonico, in un luogo di verità, 157

corrisponda all’imposizione di un nome, che si dia un riconoscimento nobiliare a ogni buon soldato, e d’altra parte che al possesso di un nome corrispon­ da la possibilità di dimostrare una forza fisica, un “valore”, se non in guerra, almeno in un torneo, o, in ultima istanza, in un duello. In mancanza di ciò, non si capisce più perchè è quella gente che porta quel nome. Il nobile per conseguenza deve continuare a tenere in luce il suo nome; la sua vita, le sue im>rese, devono costantemente alimentare la circoazione metaforica che lo unisce a ciò che egli sta a significare. Allora si vede molto bene il ruolo che gioca l’epopea nell’equilibrio di un tale sistema. E’ indi­ spensabile ricordare, fuorché nei periodi di crisi o di splendore, ciò che 1 " famiglia di diventare il nome troppo tempo il simbolo di una provincia, il duca, conte o marchese, non ha fatto per niente parlare di sè nelle regioni vicine, è tutto il suo popolo che viene di­ menticato; se i suoi vassalli noti hanno più occasione di parlare di lui tra di loro, non possono più avere fiducia in lui, vanno per forza a cercare qualcun altro che li potrà rappresentare meglio. Ma quando nel presente mancano le imprese, quelle passate possono sostituirle, e se il linguaggio del narratore acquista sufficiente sicurezza, se le parole vi sono bene concatenate, le une alle altre, in una forma identificabile, se ne ricava ugualmente un vantaggio, perchè quell’antica impresa, che sul momento era paragonabile a cento altre, diventa grazie al poeta che T’ha narrata, quella che si prende come esempio, dunque di gran lunga la più considerata, quella alla quale si paragoneranno le imprese presenti; se è un buon trovatore, la famiglia avrà dalle sue canzoni una notevole fama. Dunque nei periodi in cui l’organizzazione feu­

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dale rischia di dissolversi per l’incapacità di certi nobili, l’epopea può salvare una famiglia dall’oscurità che risonerebbe d’inghiottirla, e, di conseguen­ za, un popolo dal caos, dalla inevitabile guerra conse­ guenza di un simile declino. La Gerusalemme Liberata è un ultimo geniale sforzo per cercare di ridare alla nobiltà il lustro che sta perdendo. Ma già all’epoca di Tasso i temi classici dell’epo­ pea non sono più sufficienti, poiché essi non hanno >iù che pochi rapporti con ciò che può realmente arvi conoscere o darvi potere. Le qualità fisiche o morali dell’individuo non gli permettono più d’or­ ganizzare, in una battaglia, un gruppo attorno a sé, perchè l’arte della guerra si è complicata a tale punto, tanti strumenti si interpongono d’ora in poi tra il braccio e la ferita, che il più valoroso è sempre al­ la mercè d’una palla, d’una pallottola lontana, sparata da un nemico invisibile che può benissimo essere un debole e un vigliacco. Il combattimento indivi­ duale, momento centrale della guerra e della chanson de geste medievale, il loro punto di più alto si­ gnificato, il loro istante di verità, non ha più alcun senso. Ormai il combattimento avviene nella confu­ sione, nell’oscurità. Tutte le vecchie imprese sono démodés. Da allora in poi, non c'è più modo di acquistare o difendere un nome in questa maniera. La nobiltà, con tutti i suoi vantaggi, appare sempre più come un’ingiustizia, forse necessaria, ma si ha sempre più l’impressione che non sono le persone giuste ad essere ai posti giusti, che la loro situazione e dovuta a un caso, a un arbitrio che si vuole sperare sia soprannaturale. Solo a questo momento, lo sappiamo bene, si elabora la teoria del “diritto di­ vino”. Questa gente non può più farci conoscere, niente li qualifica più per quel compito, e noi d’altra parte non abbiamo più bisogno di loro per essere cono­

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sciuti. Lo sviluppo dell’istruzione e del commer­ cio ci dà una coscienza dell’universo, di popoli e Stati differenti, che non passa più attraverso i nobili. In altri tempi, il mezzo migliore per sapere qualcosa dell’Inghilterra, era quello di vederne il re; se era ricco voleva dire che il suo paese era ricco, se era circondato da una corte numerosa, voleva dire che il suo paese era ben organizzato, era per­ fettamente in relazione con lui. Tutti questi se­ gni una volta cosi chiari, e ai quali si credeva ancora al tempo dell’incontro di “Camp du Drap d ’Or” (*), ora sono svuotati. Si sa bene che non c’è più nessun rapporto tra le ricchezze che possono sostenere i sovrani e le risorse delle loro nazioni, e se Luigi XIV è circondato da una corte così numerosa, è perchè per l’appunto preferisce fare a meno della sua nobiltà per comunicare con le province. Di conseguenza il re comanda ancora, ma non è più rappresentativo. Comanda la nobiltà, ma non si sa più perchè. Siccome non ha più alcuna qualità, bisogna che es­ sa stessa sia qualità. Si chiude completamente: è impossibile “diventare” nobile, bisogna esserlo “nato”. Don Chisciotte si trova davanti a questo muro: non c’è più nella Spagna in cui vive, alcun mezzo per mettersi in luce. Le lezioni che ricava dai romanzi cavallereschi non possono che renderlo ridicolo. Si nomina da solo Don Chisciotte della Mancia, ma gli è impossibile trovare l’occasione di farsi chiamare così, se non per scherno. Ma la nobiltà non è più un linguaggio, perchè ce n’è un altro, perchè ci sono altre persone rappre­ sentative, di cui bisogna parlare o che possono par­ (*) E’ l’incontro tra Francesco 1 ed Enrico Vili avvenuto dal 5 al 15 giugno 1520 tra Guiñes ed Ardres per negoziare alleanza tra Inghilterra e Francia. L’incontro si rese famoso per il lusso sfarzoso esibito da entrambe le parti (N.d.t.).

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lare. So che il re d’Inghilterra non rappresenta più il suo paese, perchè conosco dei marinai, dei ven­ ditori di stoffe che mi hanno dato un’immagine più viva, e a cui gli stessi nobili si rivolgono. All’origine Feroe del romanzo e dunque qual­ cuno che esce da un’oscurità popolare o borghese, salirà i gradini della società, senza potere essere integrato dai nobili. Passa davanti ai “grandi”, è >resto altrettanto conosciuto, più conosciuto di oro. Di conseguenza rappresenta di fatto la denun­ cia che l’attuale gerarchia della società non è che un’apparenza. Il tema fondamentale del romanzo del XVIII secolo è quello del parvenu (Fielding, Lesage, Marivaux): qualcuno ci fa vedere come è arrivato là, come è arrivato a poterne scrivere questo libro che le dame leggono. Infine, è più scaltro di tutti questi nobili che non hanno dovuto fare niente per raggiungere il loro rango. Con la sua ascesa rende evidente che l’organizzazione conosciuta della società ne nasconde un’altra. L’epopea ci mo­ strava, nei momenti in cui ne dubitavamo, che la società era, come si diceva, bene organizzata; al contrario, il romanzo oppone alla gerarchia apparente un’altra segreta. Il nobile non rappresenta più ciò che pretende di rappresentare; spingiamoci più in là, non comanda più ciò che ha l’aria di comandare. Perfino prima che il parvenu sia riuscito a imporre la sua vittoria sul piano del romanzo come “galantuomo”, (uomo di buona compagnia, uomo che parla il bel linguag­ gio un tempo prerogativa del nobile), un singolare eroe romanzesco era succeduto al cavaliere d’altri tempi: il criminale, circondato da tutta una contro­ nobiltà che il romanzo picaresco ci rivelava. Così il Lazarillo di Tormes faceva penetrare il lettore in una zona affascinante, molto vicina, un mondo sconosciuto, misterioso, dove ogni cosa

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prendeva un altro senso. Questo dovrà obbedire a quello; guardate meglio, vi accorgerete che è l’in­ verso. La nobiltà era l’unione del potere e dello splendore; non possiede più che un ingiustificato splendore, il potere ora è appannaggio dell’oscurità. Mentre i principi fanno parate, degli sconosciuti nell’ombra, all’insaputa di quasi tutti, comandano, hanno il potere. E’ a loro che bisogna rivolgersi se si vuole fare fortuna, ma certamente e meglio tace­ re quelle conoscenze. Solo la dissimulazione può trasmettere la parola d’ordine. Sono capaci di spia­ nare, quasi per miracolo, ostacoli che si credevano insormontabili. Il romanzo picaresco rivela al suo lettore le viscere, ciò che e sotto, i retroscena della società. Tutti conoscono la corte reale, ormai senza dubbio chiusa, ma i cui fasti risuonano dappertutto; ecco una corte all’inverso, più simile, per certi aspetti, a ciò che una corte dovrebbe essere, a ciò che in altri tempi era stata, di quanto non lo sia quella attuale. Questo personaggio che incontro vestito di stracci, al quale senza la lettura non avrei prestato alcuna attenzione, è realmente il capo di una vera armata? Possiede tesori nascosti in caverne? E’ capace, lui, di quelle imprese che i nobili non pos­ sono più fare, di suscitare nei suoi compagni d’armi fedeltà che non si conoscono più? Questo mondo della notte, della menzogna, non sarà meno falso del grande giorno? Sarà questo l’ultimo rifugio del­ la verità, l’ultimo “teatro” dove possa risplendere il valore di qualcuno? L’arrivo alla luce e al linguaggio del parvenu si presenta come quello di un individuo le cui rela­ zioni familiari si allargano, mentre i nobili, che raggiunge senza potere diventare uno di loro, gli oppongono sempre la loro nascita; ma si vede bene che ciò s’accompagna necessariamente a una rior­ 162

ganizzazione della coscienza che la società ne ha. Il parvenu è fiero di essere letto dalle dame, ma si rivolge soprattutto ad altri parvenus potenziali; li incoraggia, dà loro l’esempio, insegna loro a cer­ care sotto i rapporti di potere palesi, i rapporti rea­ li, sotto ‘ ‘ ’ aelli veri. Disinganna, Sostituisce alle inuìmpara tili lezioni dei romanzi di cavalleria la scuola rude e discreta dei briganti. Il tema della società segreta diventa fondamentale nella letteratura romanzesca del XIX secolo; il ro­ manziere comincia allora a prendere coscienza del fatto che la sua stessa opera, svelando ciò che sta sotto, abbattendo le apparenze, consegnando segre­ ti, sta per costituire il nucleo di un gruppo discreto, d’una società tra i suoi lettori, e che introduce una nuova associazione positiva, efficace, in mezzo a quelle che denuncia o propone come modello. L’al­ lusione al tale personaggio, al tale dettaglio, permet­ terà loro di riconoscersi all’insaputa d’altri, di di­ stinguersi da quelli che non hanno ancora letto, dagli ingenui, da quelli che si lasciano ancora ingan­ nare. Sarà l’origine di un certo linguaggio, d’un rag­ gruppamento di conversazioni e di affinità. Bene comune, riferimento comune, mostrerà loro ciò che hanno in comune. Questo tema rivestirà in Proust una forma par­ ticolarmente notevole, poiché la nobiltà stessa, va­ le a dire ciò che in altri tempi è stata la parte meglio conosciuta della società, si può quasi dire la sola veramente conosciuta, assumerà questo aspetto. La relazione tra il nome di persona e il nome di paese si è definitivamente allentata, l’aristocrazia e dunque diventata per l’uomo della strada comple­ tamente sconosciuta. E’ un ricordo. Ma non restano nemmeno rapporti di potere molto forti. Questo vecchio lamentoso che incontriamo, come lo strac­ 163

cione di prima, in realtà non ha da dire che una parola per fare sparire questo muro nel quale ur­ tiamo, non solo all’interno del suo chiusissimo am­ biente, ma, per snobismo (per il fascino che l’anti_vj lustro continua a esercitare su individui oggi molto potenti, ma incerti del proprio valore) anche all’interno di tutta una frangia che vi si aggrappa. Rovesciata, la nobiltà è vicina a questo mondo rovesciato, questa società segreta per eccellenza che è il mondo degli invertiti. Già in Balzac l’inver­ sione sessuale serviva da metafora per questo ca­ povolgimento della gerarchia sociale che è uno dei momenti fondamentali della attività romanzesca: Vautrin è il Napoleone della galera. In Proust, Charlus, principe di questa società segreta che è diventato il faubourg Saint-Germain, è anche lo schiavo di Morel. Il fatto che anche il romanzo abbia un segreto è dunque molto importante. Non bisogna che all’i­ nizio il lettore sappia in che modo finirà. Bisogna che davanti a me si sia prodotto un cambiamento, che alla fine io sappia qualcosa che prima non sa­ pevo, che non indovinavo, che gli altri non indovi­ neranno senza averlo letto: tutto ciò trova, come ci si può aspettare, un’espressione particolarmente chiara in forme popolari come il romanzo polizie­ sco. Vediamo che l’individualismo romanzesco è un’apparenza, che è impossibile descrivere l’ascesa di una persona, uno dei maggiori temi del romanzo classico, senza descrivere nello stesso tempo l’ar­ chitettura d’un gruppo sociale, o più esattamente senza trasformare la rappresentazione che questo gruppo sociale si fa della sua propria organizzazio­ ne cosa che, a scadenza più o meno breve, tra­ sforma questa stessa struttura. Il romanzo è l’espres­ sione di una società che cambia: diventa subito 164

quella di una società che ha coscienza di cambiare. I romanzi del XVIII secolo potevano portarci, piano dopo piano, airinterno deir edificio sociale senza che i loro autori avessero coscienza di sconvol­ gere il loro ordine. Dato che si spostava solo qualche parvenu, l'insieme restava quasi stabile. Ma presto le trasformazioni saranno così evidenti che bisognerà tentare di renderne e tenerne conto. Finché la nobiltà, pur sradicata, resta in luce, ben conosciuta, il romanzo può essere costruito attorno ad un individuo isolato, che si stacca dal suo ambiente d’origine per salire gli scalini senza distruggerli. La sua impresa, o la sua teoria, aggiun­ gerà alla rappresentazione che la società si fa di essa un altro pannello che completerà il primo. Ed è certo che la nobiltà, il “bel mondo”, avrà tutto l’interesse ad insistere sull’isolamento dello scrittore o del suo personaggio. Come è commovente il figlio di un lavoratore 0 di un bottegaio che si mette a frequentare dei duchi, che informa i duchi sui lavoratori o sui botte­ gai, ma però alla condizione che i lavoratori, presi nel loro insieme, rimangano lavoratori, che la loro dipendenza dai duchi non cambi affatto. 11 parvenu sarà ammesso alla casa, al “salotto”, se ne adotta il linguaggio, se è “ripulito”, se ha preso a modello le forme, la cultura ammesse, se può fingere, se la sua origine plebea non è troppo vistosa. Così Fo~ riginaiita essenziale della sua persona deve correg­ gersi costantemente, “castigare ’ se stessa per una regola le cui leggi, sempre più assurde e severe, lo faranno presto reagire con violenza. II figlio del lavoratore non deve più parlare come un lavoratore, ma come dovrebbero parlare 1 duchi; fra poco è lui il solo testimone del loro linguaggio, testimone che essi a loro volta vogliono conservare autentico. Perchè i duchi, loro, per dimo­



strare che loro sono aggiornati (e anche al di sopra di queste leggi), vogliono incanaglire la loro con­ versazione, ornare il loro stile con espressioni po­ polaresche. Il divorzio tra la nobiltà e il suo linguaggio che il romanziere parvenu tocca con mano nel momento stesso in cui entra nei “salotti”, lo imprigiona in se stesso. Sul piano dello stile, ritrova questa con­ traddizione tra potere apparente e potere reale. Costretto dai nobili a parlare come essi stessi non parlano più, si dà la caccia in lui alle espressioni che tradiscono la sua origine, e che essi in compenso usano sempre di più. Sotto la proclamata autorità linguistica si smaschera a poco a poco il suo cam­ biamento. Il potere vero e altrove, in quella parte da cui egli proviene, ma con la quale ha accurata­ mente tagliato i ponti, che d’altronde non è pronta a capirlo, e che ancora non sa nemmeno leggere. Il sostegno della nobiltà si rivela sempre più inganne­ vole; essa crolla da tutti i punti di vista, e sempre più sospetta di lui. Egli si trova dunque isolato, in mezzo a una folla che non lo capisce ancora, abbandonato da una nobiltà che rifiuta ai capirlo. Cosi al tema del peroenu che, poco a poco, sale i gradini di una gerarchia pur restandone all’e­ sterno, si sostituisce, poco a poco, nel secolo XIX, quello dell’individuo ai spirito, se non è nobile di nascita, che oppone la sua “qualità” spirituale al naufragio dell’aristocrazia, e che è smarrito davanti a una folla opaca, davanti a questo potere massic­ cio, oscuro, che non ha rappresentanti riconosciuti; e siccome la biografia di un individuo è diventata la caratteristica stessa della costruzione romanze­ sca, il romanziere cercherà di cogliere la folla come un enorme individuo, ma un individuo necessaria­ mente incompleto, poiché non ci si può rivolgere a lui, poiché non sa rispondere con parole; dunque 166

nient’affatto un uomo collettivo, ma una bestia collettiva, niente affatto una coscienza comune, ma un’incoscienza massiccia, che non ragionerà, e che non sarà capace che delle più elementari reazioni affettive. Nella famosa descrizione che Stendhal ci fa della battaglia di Waterloo all’inizio della Chartreuse de Parme, vediamo bene che nessuna impresa, nessuna descrizione è più possibile (al contrario delle bat­ taglie rivoluzionarie ’* 1 1 : anno prima). Le armate sono ridotte obbediscono passivamente a ordini di cui non possono capire le ra­ gioni. E Fabrice, lo spettatore, che avrebbe voluto segnalarsi, non è neanche capace di distinguervi i gradi: Un quarto d’ora dopo, per qualche parola di un ussaro che era vicino a lui, Fabrice capi che uno di questi generali era il famoso maresciallo Ney [la sua felicità era al massi­ mo]; però non riuscì a indovinare quale dei quattro generali era il maresciallo Ney... (Stendhal, La Chartreuse de Parme, in Romans et nouvelles, Bibliothèque de la Plèia­ de, Paris, 1956, p. 62). Stendhal stesso sottolinea mirabilmente la distan­ za che separa la guerra attuale, urto di folle passive condotti da individui nascosti, dalla guerra cavalle­ resca: ... cominciava a credersi amico intimo di tutti i soldati coi quali cavalcava da qualche ora. Vedeva tra sè e loro quella nobile ami­ cizia degli eroi di Tasso e di Ariosto... (ibi­ dem, p. 68).

E qualche istante dopo: ... si mise a piangere a calde lacrime. Sconfig­ geva ad uno a uno tutti i suoi bei sogni di amicizia cavalleresca e sublime, come quella degli eroi della Gerusalemme liberata... (ibi­ dem, p. 69). Mentre nel mondo dell’epopea, quando ogni nobile nella sua tenuta poteva comunicare con il più ignoto individuo e la conversazione dei nobili tra loro poteva stabilire una continua circolazione di coscienza, il linguaggio attraversava da cima a fondo lo spazio sociale; ora l’individuo, nobile spi­ ritualmente, ma confuso tra la folla, va incontro a una frattura catastrofica. Tutti sembrano parla­ re la stessa lingua, e quindi la comunicazione tra lo scrittore o il suo eroe, chiuso su se stesso, e questa folla minacciosa si rivela impossibile. E’ costretto a descrivere come bestie, e presto come oggetti, questa gente con cui non si intende più, e che però è l’origine, lo vede bene, di tutto il potere, e dunque il soggetto per eccellenza dei suoi racconti. Questa tendenza del romanziere naturalista verso una este­ riorità totale, che alla fine non è che il momento critico dell’individualismo del romanzo, quello dove la sua insufficienza è clamorosa,, preso lo renderà totalmente oscuro a se stesso. Costretto a ricono­ scere di appartenere, malgrado le sue differenze, a questa gente, sarà come divorato dall’assoluta ‘'stra­ nezza” che vuole mantere per loro. La distanza che pretende di conservare da tutto ciò che non è lui gli entrerà fatalmente dentro; rischierà di esaurirsi in una specie di fuga disperata. In quanto al realismo socialista, resta disgrazia­ tamente troppo spesso fermo a una semplice contrap­ posizione di movimenti di folla e di avventure in168

dividuali, senza arrivare a stabilire una via di mez­ zo autentica tra questi due poli. Per questi aspetti rimane sul piano di una falsa epopea, dato che vi è abolito senza niente che lo rimpiazzi, il legame organico della nobiltà. Si salta dalla biografia dell’insostituibile dirigente alla descrizione della folla che egli comanda, senza potere reperire una continuità. L’unico ruolo che una letteratura simile può sostenere è quello di reggere la gerarchia che si è formata, ma siccome essa, malgrado gli sforzi, non riesce più a giustificarla apertamente, poiché manca il legame interno, è giocoforza che questa gerarchia la controlli costantemente, mentre ai tempi dell’epopea un tale controllo era perfetta­ mente inutile. Il romanziere del realismo sociali­ sta, malgrado le sue buone intenzioni, resta quasi sempre un individuo sperduto tra una folla straniera di cui i dirigenti diffidano; il fatto stesso che accetti la loro censura mostra che egli è cosciente dello “scarto”. Soltanto un profondo rinnovamento delle strut­ ture narrative può permettere di superare una con­ traddizione cosi grave, e di conseguenza può per­ mettere al romanzo, nei paesi dove oggi vige il rea­ lismo socialista, di mostrare la sua attività progres­ siva fondamentale. Va da sé che tutte le grandi opere del passato ci daranno le indicazioni più pre­ ziose per questa ricerca. E indispensabile che il racconto colga l’insie­ me della società non dall’esterno, come una folla che viene ripresa dallo sguardo d’un individuo iso­ lato, ma dairinterno, come qualche cosa a cui si appartiene e di cui gli individui, pur originali, pur importanti che siano, non saprebbero mai staccar­ si completamente. Ogni linguaggio è innanzitutto dialogo, vale a dire che non può essere l’espressione di un indivi­ 169

duo isolato. Ogni parola udita suppone una prima e una seconda persona. Colgo ciò che le persone si dicono prima di sapere chi sono, e i due poli in og­ getto mi si definiscono correlativamente. La società ai cui faccio parte è un insieme di dialogo, vale a dire che chiunque può arrivare a dire qualcosa (ma non qualunque cosa), a chiunque altro; e un insieme che si divide, s’organizza in sottoinsiemi: non parlo nello stesso modo a tutti i suoi membri; ci sono delle parole che questo o quello non conoscono, non capiscono, certe allusioni, riferimenti, risonanze che non funzioneranno che per alcuni, in particola­ re per quelli che avranno fatto le mie stesse lettu­ re. Cosi l’esistenza di un romanzo determinerà automaticamente un gruppo di dialoghi possibili, dal momento che i suoi personaggi, i suoi aneddo­ ti sono altrettanti riferimenti, esempi, messi a dispo­ sizione dei suoi lettori diretti o indiretti (quelli che avranno letto una recensione, ne avranno sentito parlare, ecc.). Il “linguaggio” di un individuo sarà strettamente determinato dai differenti gruppi ai quali appartiene nella società; potranno organiz­ zarsi elementi di diversa provenienza, aggregarsi in modo originale, talora così originale che quel caso specifico rischia d’essere il suo solo interlocu­ tore possibile; se quest’individuo non arriva affatto a forzare un simile muro, allora il suo “linguaggio” si dissolve nei suoi elementi, o lo distrugge nella follia o lo suicida; ma se al contrario riesce a far­ si intendere, ciò avviene perchè la configurazione di gruppo, di cui egli è un esempio caratteristico, è sempre più frequente: la sintesi, l’invenzione che si realizza attraverso di lui vale anche per altri, riunirà individui simili tra i quali egli creerà un mo­ do di comunicare, cui egli darà forza, organizzerà un gruppo originale che potrà trasformare profonda­ mente la figura della società e tutto il suo linguaggio. 170

Allo stesso modo in cui si comincia a fare del­ la geometria parlando di punti e dicendo che le linee sono fatte di punti, mentre dopo si è obbligati a rove­ sciare le cose e a definire un punto come l’incon­ tro di due linee, cosi l’idea romanzesca comincia a concepire i gruppi come somma d’individui fino al giorno in cui bisogna riconoscere che non può definire con correttezza un individuo se non come l’incontro di più gruppi. Se inizio un racconto dichiarando che un tale è figlio di un lavoratore, questi due individui non mi appaiono ancora che nella relazione tra di loro e nella loro situazione comune all’interno di un in­ sieme sociale al quale appartengo anch’io; insieme sociale cosi vasto da non potere essere definito nello spazio o nel tempo; se aggiungo che è biondo, sia che questa qualità lo distingua dagli altri figli di lavoratori, o almeno dagli altri membri di questo insieme, sia che una tale distinzione appaia verosimil­ mente importante, è perchè nell’ambiente in cui si svolge la faccenda essere biondi è tanto un vantaggio, quanto uno svantaggio, vale a dire che questo è grande più di altri, o più grande di noi, ecc. Riprendiamo l’esempio del parvenu in un ro­ manzo del XVIII secolo: questo figlio di un lavora­ tore finirà per avere dimestichezza con un duca. Una volta compiuta la sua ascesa, le parole “lavo­ ratore” e “duca” hanno conservato press’a poco lo stesso senso, questi due “stati” press’a poco la stessa distanza.. La gerarchia si presenta dunque co­ me un’invariante in rapporto alla quale si sposta un individuo la cui personalità si arricchisce a poco a poco. Ma guardando più da vicino si vede che questa invarianza non è che un’astrazione, e, via via, aumentando il numero dei parvenus, si sarà ob­ bligati a tenere conto della deformazione che si è prodotta, nel corso del racconto, nella gerarchia 171

stessa, tanto che, ciò che cambia^ non sarà più sol­ tanto la posizione dell’individuo che fa “carriera”, ma quella dei tre individui che ci servono da riferi­ mento. Chiamiamoli A, B e C; mi sarà presto impos­ sibile comportarmi come se la distanza tra B e C re­ stasse costante. L'avventura raccontata non sarà dunque più quella di A che va da B a C, ma la tra­ sformazione della figura ABC in A’B’C’. Bisogna che ci siano delle condizioni molto particolari perchè si possa seguire l’evoluzione di un individuo passo a passo, così come perchè si pos­ sano osservare i movimenti di una folla dall’esterno. Il caso generale è quello dell’evoluzione combinata di diversi individui all’interno di un ambiente in più o meno rapida trasformazione. A una costruzione romanzesca lineare segue di conseguenza una costruzione polifonica. Il ro­ manzo epistolare del XVIII secolo ci mostra già una polifonia molto chiara di avventure individuali. Tutti i grandi romanzi del XIX secolo vi aggiungeran­ no una polifonia di sfondi sociali. Ogni personaggio non esiste che in relazione a ciò che lo circonda: gente, oggetti materiali o culturali. La nozione di lavoratore, che si crede­ va stabile, non mi può più servire per caratterizza­ re una volta per tutte il mio eroe. Di più, questo padre lavoratore non è un lavoratore come gli altri, e ciò perchè suo figlio ha avuto questa promozio­ ne, oppure è come gli altri, e allora tutti i figli di lavoratori possono avere la stessa promozione pur­ ché incontrino una certa qual persona o circostanza che diventa, lei si, caratteristica. Tanto vale dire che è la carriera del parvenu che ci chiarirà le sue ori­ gini, e, di conseguenza, la personalità di suo padre, o del tale altro, non sarà da noi conosciuta che in relazione alla sua, e ciò naturalmente a gradi diver­ si, poiché questa individualizzazione si fa sempre 172

progressivamente in rapporto a un orizzonte popo­ lato. Ciò che è chiaro e chiarificatore è questa figu­ ra, fissa o mobile, al cui interno posso inserirmi co­ me lettore, in questo o in quel posto, considerando le cose da un punto di vista o da un altro. L’indi­ viduo del romanzo non può mai essere determinato completamente, resta aperto, mi viene aperto affin­ chè io possa mettermi al suo posto o almento in rapporto con lui. Ma se ci si può collocare in diversi punti delle figure, fatto implicito in una scrittura polifonica, non ne deriva che il percorso che vi realizzo come lettore deve potersi fare in parecchi modi? Così come è raro che le avventure di un individuo risal­ tino a tale punto in rapporto agli altri che si possa scriverne una biografia lineare che segua press’a poco l’ordine cronologico (ma il caso generale è quello di individui che si evolvono nello stesso tempo gli uni in rapporto agli altri), così se talvolta l’or­ dine nel quale conviene riferire le avventure può imporsi in modo assoluto, non è forse frequente che, al contrario, si abbiano più soluzioni tutte ugualmente buone, e che la decisione di raccontare questo prima di quello alla fine non sia arbitraria? Il passaggio dal racconto lineare a un racconto poli­ fonico non ci deve portare alla ricerca di forme mobili? Si sa che i progressi del concetto di polifo­ nia nella musica contemporanea hanno messo i compositori di fronte allo stesso problema. Immaginiamo una corrispondenza tra due perso­ ne. Se ognuno, per scrivere a sua volta, attende che l’altro abbia risposto, le lettere si dispongono del tutto naturalmente nell’ordine cronologico, ma se si scrivono più spesso, spedendo ognuno una let­ tera al giorno, rispondendo a quella del giorno prima, avremo due serie che si incrociano, e sarà molto 173

difficile trovare ogni volta una giustificazione per mettere al primo posto uno dei due testi contem­ poranei. Isolare le serie non sarebbe che il male minore, poiché si perderebbe la successione molto stretta che formano le lettere di ciascun corrispon­ dente. Bisogna dunque disporre i testi in modo tale che quelli scritti nello stesso tempo appaiano all’occhio del lettore nello stesso tempo, per esempio, quelli di A sul rovescio, quelli di B sul dritto della pagina. Si avrà allora una forma mobile coerente nella quale ogni lettore potrà variare i suoi percor­ si, leggendo sia le pagine doppie nell’ordine abi­ tuale rovescio dritto, sia invertendo l’ordine, sia prendendo la successione dei dritto o quella dei rovescio. Se si aumenta il numero dei corrispondenti, ciò che era un’eccezione diventa regola, si avranno sempre più lettere contemporanee o intercalate. Lo studio delle proprietà visive di quest’oggetto che è un libro permetterà di trovare a tali proble­ mi soluzioni del tutto nuove che non solo apriranno prospettive immense all’arte del romanzo, ma met­ teranno a disposizione di ognuno di noi degli stru­ menti per cogliere il movimento dei gruppi di cui facciamo parte. (trad. di E.C.)

Ricerche sulla tecnica del romanzo

1. La nozione di racconto e il ruolo del romanzo nel pensiero contemporaneo Il mondo, nella maggior parte delle sue mani­ festazioni, ci appare attraverso ciò che ci viene detto: conversazioni, lezioni, giornali, libri, ecc. Mol­ to alla svelta, ciò che vediamo coi nostri occhi, che udiamo con le nostre orecchie, non acquista senso se non all’interno di questo concerto. L’unità elementare di questo racconto nel quale siamo costantemente immersi, possiamo chiamar­ la “informazione”, o, come si dice, “notizia”. Ci gridano “Sa la notizia?”, “Fino ad ora si diceva questo o quello, ormai bisognerà dire in altro mo­ do.” Chi vede un fatto inatteso diventa portatore di una “notizia” che deve diffondere tutt’attorno. Il racconto pubblico, il sapere del mondo deve de­ formarsi. In certi casi la “notizia” trova la sua collocazione, senza la più piccola difficoltà, all’interno di ciò che si diceva prima-, essa non implica che una correzione di dettagli, lasciando intatto il resto. Ma quando il numero e l’importanza di queste “notizie” aumen­ teranno, non sapremo più dove collocarle, cosa farne. Ci è quindi impossibile tenere conto di ciò che dovremmo sapere. Avremo un bel vedere e un bel sentire, non ci servirà più a niente. Saremo poveri in mezzo alla nostra ricchezza che ci sfuggirà nel 175

momento in cui vorremo coglierla, novelli Tantali, fino al giorno in cui non avremo trovato il modo di mettere ordine airinterno di tutte queste in­ formazioni, di organizzarle in maniera stabile. Il racconto ci dà il mondo, ma fatalmente ci dà un mondo falso. Se vogliamo spiegare a Pierre chi è Paul gli raccontiamo la sua storia: scegliamo tra i nostri ricordi, ciò che sappiamo, un certo nu­ mero di materiali che disporremo per costituire una “figura”, e sappiamo bene che il più delle volte, in misura più o meno grande, sbagliamo, che il ritrat­ to che abbiamo fatto è per certi aspetti inesatto, che ci sono molte facce di questa personalità che conosciamo bene e che non combaciano con l’immagine che abbiamo dato. E non solo quando parliamo ad altri; lo scarto è così grave anche quando parliamo a noi stessi. Tutto a un tratto veniamo a sapere una “notizia” sorprendente che riguarda Paul: “Ma come è pos­ sibile?” E poi torna il ricordo; no, non ci aveva nascosto questa intenzione o questo aspetto della sua vita, ce ne aveva anche parlato lungamente, ma avevamo dimenticato tutto, l’avevamo escluso dal nostro “riassunto”, non sapevamo come riag­ ganciarlo al testo. Quanti fantasmi dunque tra noi e il mondo, tra noi e gli altri, tra noi stessi e noi! Dunque ci è possibile dare un nome a questi fantasmi, inseguirli. Sappiamo bene che in ciò che ci viene raccontato ci sono cose che non sono vere, non solo errori, ma finzioni; sappiamo bene che la stessa parola francese “histoire ’ indica nello stes­ so tempo la menzogna e la verità, la coscienza stes­ sa che abbiamo dei mondo in movimento, la “Sto­ ria universale”, la nostra attenzione, e i racconti che diciamo per fare dormire i bambini e quel bambi­ no che in noi tarda sempre ad addormentarsi; sap­ 176

piamo bene che Papà Goriot non è esistito allo stesso modo che Napoleone Buonaparte. Ad ogni istante siamo obbligati a fare interveni­ re nei racconti una distinzione tra il reale e l’immaginario, confine molto poroso, molto instabile, confine che arretra costantemente, perchè ciò che ieri prendevamo per il reale, la “scienza” dei no­ stri nonni, ciò che sembrava l’evidenza stessa, oggi lo riconosciamo come immaginazione. Impossibile cedere airillusione che questo con­ fine sarà definitivamente fissato. Provate a cacciare l’immaginario: ritorna al galoppo. Il solo mezzo per dire la verità, per andare alla ricerca della verità, è uello di confrontare instancabilmente, con metoo, ciò che raccontiamo abitualmente con ciò che vediamo, che sentiamo, con le informazioni che riceviamo, dunque di “lavorare” sul racconto. Il romanzo, finzione che mima la verità, è il luogo per eccellenza per un lavoro simile; ma non appena questo lavoro si farà sentire, dunque appe­ na il romanzo riuscirà ad imporsi come nuovo lin­ guaggio, a imporre un nuovo linguaggio, una nuova grammatica, un nuovo modo di collegare tra loro informazioni prese come esempi, per mostrarci infine come salvare quelle informazioni che ci ri­ guardano, appena ciò accadrà, renderà evidente la sua differenza da quello che si dice tutti i giorni, e apparirà come poesia. Esiste certamente un romanzo ingenuo e una fruizione ingenua del romanzo, come svago o di­ vertimento, che permette di passare un'ora o due, di “ammazzare il tempo”, e tutte le grandi opere, le più dotte, le più ambiziose, le più austere, comu­ nicano necessariamente col contenuto di questo immenso fantasticare, di questa mitologia diffusa, di questo innominabile commercio, ma esse giocano anche un ruolo molto diverso e assolutamente de­

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cisivo : trasformano il modo in cui vediamo e raccon­ tiamo il mondo, e di conseguenza trasformano il mondo. Un tale “impegno” non vale ogni sforzo? 2. La successione cronologica L’antico narratore, 1’ “aedo”, che, come si dice, tiene l’uditorio “appeso” alle sue labbra, per farlo immedesimare meglio coi suoi eroi deve presentar­ gli gli avvenimenti nell’ordine in cui essi hanno dovuto viverli. Il tempo del racconto è allora come una contrazione del tempo dell’awentura. Dico gli avvenimenti, perchè si vede subito che non si può scendere al di sotto di una certa scala, che non si tratta affatto dell’ordine delle parole, e neppure delle frasi, tutt’al più di quello degli episodi. Pertanto questa disposizione lineare perfino grossolana urta in ogni sorta di difficoltà: il filo si rompe, s’avvolge su se stesso. Potete rileggere l'Odis­ sea. Appena ci sono due personaggi importanti, e si separano, saremo obbligati ad abbandonare per un po’ di tempo le avventure dell’uno per sapere cosa ha fatto l’altro nello stesso periodo. Ogni nuovo personaggio, a guardare un po’ più da vicino, porta delle spiegazioni sul suo passato, un ritorno indietro, e subito ciò che sarà essenziale per capire il racconto, non sarà solo il passato del tale o del tale altro, ma ciò che gli altri ne sanno o ignorano in quel momento; bisognerà dunque riser­ vare delle sorprese, delle confessioni, delle rivela­ zioni. Balzac, moltiplicando i personaggi, e tornando su di loro instancabilmente, s’è trovato, in modo naturale, di fronte a un problema che discute lun­ gamente nella prefazione a Une fitte d ’E ve: 178

Incontrate in un salotto un uomo che avete perduto di vista da dieci anni: è un primo ministro o un capitalista, l’avete conosciuto senza finanziera, senz; o privata, l’ammirate pite della sua fortuna o delle sue capacità; poi andate in un angolo del salotto, e là, qualche delizioso narratore di società vi racconta in mezz’ora la storia pittoresca di dieci o vent’anni che non conoscete. Spesso scandalosa o onorevole, bella o brutta, vi sarà detta l’indomani, o un mese dopo, talvolta per parti. In questo mondo non c’è niente in un solo blocco, tutto è mosaico. Cronologicamente non potete raccontare che la storia dei tempi passati, sistema inappli­ cabile a un presente in movimento. (Honoré Balzac, Un fille d ’Eve, Préface de la premiè­ re édition, in Contes drolatiques, Bibliothèque de la Plèiade, Parigi 1959, p. 374). In generale se ne può uscire organizzando il proprio racconto attorno a un filo cronologico molto approssimativo, poiché ogni precisione nel­ le date mette in pericolo questa “forma”, cui si aggiungono alla meglio riferimenti, ricordi, spie­ gazioni. Appena si fissa la propria attenzione su questo problema, ci si accorge che in realtà nessun romanzo classico è in grado di seguire gli avveni­ menti in modo semplice (d’altronde la poetica umani­ stica non raccomanda affatto di iniziare la narrazio­ ne o lo spettacolo in medias rei)-, bisogna dunque studiare le strutture di successione. 3. Contrappunto temporale Uno sforzo rigoroso per seguire lo stretto or­ dine cronologico, vietandosi ogni ritorno indietro, 179

porta a constatazioni sorprendenti: ogni riferimento alla storia universale, ogni riferimento al passato dei personaggi incontrati, alla memoria, e ai con­ seguenza ad ogni interiorità, diventa impossibile. Allora i personaggi vengono necessariamente tra­ sformati in cose. Non si possono vedere che dall’e­ sterno, ed è anche pressoché impossibile farli par­ lare. Al contrario appena si farà intervenire una struttura cronologica più complessa, la memoria apparirà come uno dei suoi casi particolari. Mi preme dire che di fatto le strutture cronolo­ giche sono di una complessità cosi vertiginosa che gli schemi più ingegnosi utilizzati sia nell’elabora­ zione del lavoro, sia nella sua esplorazione critica, non potranno mai essere che approssimazioni gros­ solane. Non ne proiettano nemmeno una luce viva­ ce; si deve proprio cominciare dai primi gradi. Quando gli episodi raccontati con un “ritorno indietro” si dispongono anch’essi secondo l’ordine cronologico, si determina la sovrapposizione di due successioni temporali, come in musica di due voci. Si trova già un esempio rigoroso di questo “dialogo tra due tempi” nel Racconto di Sofferen­ ze che fa parte delle Tappe sul cammino della vi­ ta di Soeren Kierkegaard. Il narratore vi tiene un “diario” dell’anno prima in cui introduce delle note sul presente: Le righe che scrivo al mattino si riferiscono al passato e sono dell’anno scorso; quelle che scrivo ora, questi “pensieri notturni”, costituiscono il mio diario di quest’anno. (Soeren Kierkegaard, Stadier paa Livets Vei, Samlede Vaerker, 1901). E’ tra queste due “voci” che gioca uno “spes­ sore” o una “profondità” psicologica. 180

Qui il parallelismo è stato cercato con grande cura. Possiamo certo aumentare il numero delle voci. Immaginiamo che il narratore tenga non solo un doppio, ma un quadruplo diario; inevitabilmente aU’interno dell’opera si moltiplicheranno i capovol­ gimenti di cronologia. Si ripercorre il corso dei tempi, ci si immerge sempre più profondamente nel passato, come un archeologo o un geologo che, nei loro scavi, incontrano prima i terreni recenti, poi, poco per volta, raggiungono quelli antichi. Talvolta l’apparizione ai nuovi dati modificherà a tale punto ciò che si sapeva di una storia che si dovrà raccontarla due o più volte. Parallelismi, capovolgimenti, riprese, lo studio dell’arte musicale mostra che si tratta di dati ele­ mentari della nostra coscienza del tempo. Ogni avvenimento appare come se potesse essere il punto d’origine e di convergenza di più successio­ ni narrative, come un fuoco la cui forza è più o me­ no grande in rapporto a ciò che lo circonda. La nar­ razione non è più una linea, ma una superficie sul­ la quale isoliamo un certo numero di linee, di pun­ ti, di raggruppamenti notevoli. A questi ritorni indietro bisogna sicuramente aggiungere tutti quegli sguardi in avanti che sono i progetti, questo mondo di possibilità. 4. Discontinuità temporale Ogni volta che lasciamo una trama di racconto per un’altra, il “filo” è rotto. Ogni narrazione ci si propone come un ritmo di pieni e di vuoti, dal momento che non solo è impossibile raccontare tutti gli avvenimenti in una successione lineare, ma è anche impossibile dare, all’interno di una sequen­ za, tutta la successione dei fatti. Viviamo il tempo come continuità solo in certi momenti. Di tanto in tanto il racconto procederà a piene successive, ma 181

tra questi momenti di piena, faremo, pressoché sen­ za accorgercene, dei salti enormi. L’abitudine ci impedisce di fare attenzione a queste formule che scandiscono le opere più fluide, più scorrevoli: “l’indomani...”, “qualche tempo più tardi...”, “quando lo rividi...” Poiché la vita contemporanea ha accentuato in modo prodigioso la brutalità di questo discontinuo, molti autori si sono messi a procedere per blocchi contrapposti, per farci sentire bene le rotture; si tratta certo di un progresso, ma come pure, nella maggiore parte dei casi, i ritorni indietro riusciva­ no alla meno peggio, in punta di penna, secondo l’ispirazione del momento, senza controllo, nello stesso modo questi tagli sono fatti spesso senza grandi motivi. Si tratta dunque di precisare una tecnica del­ l’interruzione e ael salto, ciò, naturalmente, stu­ diando i ritmi oggettivi sui quali si regge di fatto la nostra valutazione del tempo, le risonanze che si producono all’interno di questo elemento. Qui l’at­ tenzione fissata su ciò che normalmente si prende come una cosa che va da sé rivela ancora un’inesau­ ribile ricchezza. Quando all’inizio di una frase utilizzo un’espres­ sione come “l’indomani”, rinvio in realtà a un ritmo essenziale della nostra esistenza, alla ripresa che si fa ogni giorno dopo l’interruzione del sonno, a tutta questa forma già così prevista che è, per ognuno di noi, una giornata. Il tempo allora viene colto nel suo allineamento essenziale. Non solo ogni avveni­ mento sarà l’origine per un’inchiesta su ciò che l’ha preceduto e su ciò che l’ha seguito, seguirà, potrà seguirlo progressivamente, ma risveglierà degli echi, accenderà dei barlumi in tutte queste regioni del tempo che gli rispondono in anticipo: il giorno prima o l’indomani, la settimana prima o 182

quella dopo, tutto ciò che può dare un senso pre­ ciso a questa espressione: la volta prima o la volta dopo. Ogni data propone cosi tutto uno spettro di date armoniche.

5. Velocità Il bianco, la contrapposizione pura e semplice di due paragrafi che descrivono due avvenimenti lontani nel tempo, appare allora come la forma di di racconto più rapida possibile, una velocità che cancella tutto. All’interno di questo bianco, l’au­ tore può introdurre una scansione che costringerà il lettore a impiegare un certo tempo per passare dall’uno all’altro, e soprattutto ad assegnare una certa scala tra questo tempo di lettura e quello del­ l’avventura. Nella situazione più semplice, quella del narra­ tore, c’è già sovrapposizione di due tempi, essendo quello del racconto la contrazione dell’altro. Ma appena si può parlare di un “lavoro” letterario, e dunque appena ci accostiamo all’area del romanzo, bisogna sovrapporre almeno tre tempi: quello del­ l’avventura, quello della scrittura, quello della let­ tura. Questo tempo della scrittura si rifletterà spes­ so nell’avventura, intermediario un narratore. Abi­ tualmente si suppone una progressione di velocità tra il dipanarsi di questi tempi: così l’autore ci fornisce un riassunto che leggiamo in due minuti (può avere invece impiegato due ore per scriverlo) d’un racconto che il tale personaggio avrà fatto in due giorni, di avvenimenti accaduti in due anni. Così abbiamo delle diverse organizzazioni di velo­ cità del racconto. Si capisce allora tutta l’importan­ za che potranno avere a questo riguardo i passaggi in cui si produce una coincidenza tra la durata del­ 183

la lettura e la durata di ciò che si legge, per esempio in tutti i dialoghi, a partire dai quali si potranno mettere in evidenza, con precisione, rallentamenti o accelerazioni. Nel romanzo epistolare del XVIII secolo, si trova già un’introduzione della lettura come elemen­ to fondamentale all’interno di ciò che è narrato. Noi, lettori reali, impiegheremo lo stesso tempo di Julie per leggere la lettera di Saint-Preux (press’a poco); di fatto diamo a questo lettore fittizio il nostro dia-jjason, e tutto il resto s’accorda dopo a partire di la. L’ideale del racconto quotidiano è sicuramente quello di non trattenere che l’importante, il “signi­ ficativo”, vale a dire ciò che può rimpiazzare il resto, ciò da cui il resto è dato, e di conseguenza passare questo resto sotto silenzio, e anche, proce­ dendo per gradi, “attardarsi” sull’essenziale e “glis­ sare” su ciò che è secondario. Ma un tale paralle­ lismo tra la lunghezza impiegata da un episodio e il suo valore di significato è, nell’immensa maggio­ ranza dei casi, una pura illusione; una parola può avere conseguenze più grandi di un lungo discorso. Di conseguenza assisteremo a delle inversioni di strutture. Si potrà sottolineare l’importanza di un tale momento mediante la sua assenza, con lo studio di ciò che è intorno, facendo sentire così che nel tessuto di ciò che si racconta c’è una falla o qualcosa che viene nascosta. Questo non è possibile che con un’utilizzazione metodica degli ordini temporali, poiché solo se ci siamo presi cura di dire dove era Pierre lunedì, mar­ tedì, giovedì, venerdì e sabato all’improvviso mer­ coledì appare come un vuoto (e questo si trova già nel romanzo poliziesco) oppure mediante una de­ scrizione accurata dei limiti, dei tagli, di ciò che ci impedisce in quel momento di saperne di più. 184

6. Le proprietà dello spazio Non viviamo il trascorrere, il cammino del tempo che a prelievi. Ogni frammento ci appare come orientato, come se avesse una durata, e come se si dovesse orientare in rapporto agli altri frammenti, ma ci appare sempre come un frammento, che si staglia su uno sfondo di dimenticanza o disattenzio­ ne. Infatti per potere studiare il tempo nella sua continuità, dunque per potere mettere in evidenza delle lacune, è necessario applicarlo su uno spazio, considerarlo come un percorso, un tragitto. Non è affatto singolare che le metafore usate da Bergson per renderci sensibili a certi aspetti “continui” della nostra esperiznza del tempo siano, austamente a sua insaputa, delle metafore prevaentemente spaziali: la corrente della coscienza, il fiume, il cono della memoria, o ancora quel pez­ zo di zucchero che ci invita ad osservare finché non si scioglie poco a poco in un bicchiere d’acqua, esperienza che può trasmetterci un tale senso di lentezza - “bisogna attendere che lo zucchero si sciolga” — solo perchè siamo capaci di misurare, osservando cosa resta del volume primitivo, la velo­ cità del processo. Spostando lo sguardo su uno spazio facilmente immaginabile potremo realmente seguire il cam­ mino del tempo, studiarne le anomalie. Ma lo spa­ zio nel quale viviamo non è più quello della geome­ tria classica di quanto il nostro tempo non sia quel­ lo della meccanica che gli corrisponde; è uno spa­ zio nel quale le direzioni non sono per niente equi­ valenti, uno spazio ingombro di oggetti che defor­ mano ogni nostro percorso, e dove il movimento in linea retta è in generale impossibile da un punto all’altro, con regioni aperte o chiuse (l’interno degli oggetti per esempio), e ciò implica soprattutto un’or­

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ganizzazione di relazioni tra i suoi diversi punti: modi di trasporto, riferimenti, che fanno si che la vicinanza di esperienze vissute non sia affatto riduci­ bile a segni di cartografia. Un tentativo di applicazione di figure geome­ triche semplici allo spazio vissuto ci permetterà di svelare ogni sorta di proprietà di questo che gene­ ralmente passa sotto silenzio. Si potrà cosi esplo­ rare metodicamente le sue densità, i suoi orienta­ menti, le forme d’influenza dei diversi luoghi gli uni in rapporto agli altri. Lo spostamento fisico di un individuo, il viaggio, apparira come il caso parti­ colare di un “campo locale”, come si dice un “cam­ po magnetico”. I luoghi hanno sempre una stori­ cità, sia in rapporto alla storia universale, sia in rapporto alla biografia dell’individuo; per questo ogni spostamento nello spazio implicherà una rior­ ganizzazione della struttura temporale, cambiamenti nei ricordi o nei progetti, in ciò che viene in primo piano, più o meno profondo e più o meno impor­ tante. Osserviamo di sfuggita che, se è facile trovare dei punti di relativa coincidenza in ciò che riguar­ da le durate, la forma abituale dei nostri libri non lo consente così direttamente per gli spazi. Per questo in certe opere contemporanee si trova un tale sforzo per imporre all’immaginazione del letto­ re delle “visioni” senza equivoco, queste descrizio­ ni minuziose d’oggetti, con le loro dimensioni preci­ se e la situazione dei dettagli: quello è in alto, quel­ lo è a destra, ecco questo nuovo realismo ottico che ha tanto meravigliato. Questa attenzione riservata agli oggetti conduce necessariamente a considerare le caratteristiche del libro stesso in quanto oggetto, all’utilizzazio­ ne sistematica del suo spazio, T’impiego di illustra­ zioni ecc. 186

7. Persone Nel)a lettura del più semplice episodio d’un ro­ manzo ci sono sempre implicate tre persone: l’au­ tore, il lettore, l’eroe. Quest’ultimo prende normal­ mente la forma grammaticale della terza persona del verbo: è colui del quale ci viene parlato, di cui ci viene raccontata la storia. Ma è facile vedere quali vantaggi possono es­ servi per l’autore ad introdurre nella propria ope­ ra un suo rappresentante, un narratore,, colui che ci racconta la sua storia, quali vantaggi possono esservi a dirci “io”. L’ “egli” ci lascia all’esterno, 1’ “io” ci fa entrare all’interno, ma rischia di essere un interno chiuso come la camera oscura nella quale un fotografo sviluppa i suoi clichés. Questo personaggio non può dirci ciò che sa di se stesso. Perciò a volte s’introduce nell’opera un rappre­ sentante del lettore, di questa seconda persona cui s’indirizza il discorso dell’altro: colui al quale si racconta la propria storia. Questa prima e soprattutto questa seconda persona del romanzo non sono più dei pronomi semplici come quelli che usiamo in una conversa­ zione normale. L’ “io” nasconde un “egli” ; il “voi” o il “tu” nasconde le altre due persone e stabilisce una circolazione tra di loro. Si cerca di rendere tanto apparente quanto pos­ sibile una taie circolazione facendo variare i rapporti tra le persone del verbo e personaggi: così, nei ro­ manzi epistolari, ogni personaggio importante di­ ventava a sua volta “io”, ‘voi”, “egli”. A questi cambiamenti si combineranno delle sovrapposizioni: per esempio quella del narratore che, come il romanziere, “dà la parola” e la prima persona a qualcun’altro. 187

Si realizza così tutta un’architettura pronomi­ nale che consente d’introdurre in un insieme roman­ zesco una nuova chiarezza e dunque d’esplorare, di denunciare nuove oscurità. Uno studio più approfondito delle funzioni pronominali mostrerebbe la loro stretta relazione con le strutture temporali. Per fare un solo esempio, un procedimento come il “monologo interiore” è la relazione d’un racconto alla prima persona con l’abolizione immaginaria di ogni distanza tra il tempo dell’awentura e quello del racconto, dato che il personaggio ci racconta la sua storia nell’i­ stante stesso in cui si produce. Una nozione come quella di “sotto-conversazione” permette di spez­ zare la prigione in cui resta bloccato il monologo interiore classico, e di giustificare in modo ben più plausibile i ritorni indietro, i ricordi. Il gioco dei pronomi non permette solo di d stinguere i personaggi gli uni dagli altri, è anche il solo mezzo che abbiamo per distinguere precisamente i diversi livelli di coscienza o ai latenza che costituisce ciascuno di loro, per collocarli in mezzo agli altri e in mezzo a noi. 8. La trasformazione delle frasi Relazione di tempi di luoghi e di persone-, siamo in piena grammatica. Bisognerà chiamare in suo aiu­ to tutte le risorse della lingua. La piccola frase che ci raccomandavano i nostri professori d’una volta, “leggera e stringata”, non basterà più. Appena si uscirà dai sentieri battuti, bisognerà precisare qual’è la “congiunzione” tra due proposizioni che si suc­ cedono. Non si potrà più lasciarla sottintesa. Quin­ di le piccole frasi si riuniranno in grandi frasi, quando sarà necessario; ciò permetterà d utilizzare in pieno, 188

come certi grandi autori d’una volta, il magnifico ventaglio di forme che ci propongono le nostre coniu­ gazioni. Quando questi insiemi verbali diventeranno veramente troppo voluminosi, si divideranno molto naturalmente m paragrafi, si libereranno dalle ripeti­ zioni, giocheranno con tutti i contrasti di colore che permettono i diversi “stili”, con citazioni o pa­ rodie, isoleranno le loro parti enumerative in una disposizione tipografica appropriata. Cosi il ricercatore perfeziona i nostri strumenti. 9. Strutture mobili Quando si concede tanta cura all’ordine nel quale sono stati presentati gli argomenti, si pone inevitabilmente la questione di sapere se questo ordine è il solo possibile, se il problema non am­ mette varie soluzioni, se non si possono e devono prevedere all’interno dell’edificio romanzesco dif­ ferenti itinerari di lettura, come in una cattedrale o in una città, Allora lo scrittore deve controllare l’opera in tutte le sue diverse versioni, assumerse­ le come lo scultore che è responsabile di tutti gli angoli sotto i quali si potrà fotografare una sua statua, e del movimento che unisce tutte queste vedute. La Comédie humaine fornisce già l’esempio di un’opera concepita in blocchi distinti che ogni lettore, di fatto, affronta in un ordine diverso. In questo caso l’insieme degli avvenimenti raccontati permane costante. Qualunque sia la porta da cui entriamo, i fatti non risultano cambiati, ma si può avere l’idea di una mobilità superiore, ugualmente precisa e bene definita, poiché il lettore diventa responsabile di ciò che succede nel microcosmo 189

dell’opera, specchio della nostra condizione umana, poiché sicuramente, in grande parte a sua insaputa, come nella realtà, ognuno dei suoi passi, delle sue scelte, prende e dà un senso, lo illumina sulla sua libertà. Un giorno, senza dubbio, saremo là. (trad. di E.C.)

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Indice

p. 5 In forma d’introduzione 13 I ‘‘momenti” di Marcel Proust 28 Le opere d’arte immaginarie in Proust 29 L La Sonata 49 2. Il Porto di Carquethuit 75 3. Il Settimino Le sette mogli di Gilberto il Malo I. Le camere 93 IL Le persone che vi avevo conosciuto 103 116 III. Sesamo e i libri 122 IV. Il labirinto del mondo 128 V. Proliferazione 132 VI. Giardini 135 VII. Congedo in forma di gioco L’uso dei pronomi personali nel romanzo 140 1. La terza persona 141 2. La prima persona 145 3. Il monologo interiore 146 4. La seconda persona 148 5. Gli spostamenti di persona 149 6. L* “egli” di Cesare 150 7. V “io ” delle Méditations di Descartes

153 8. Pronomi complessi 154 9. Funzioni dei pronomi 155 Individuo e gruppo nel romanzo Ricerche sulla tecnica del romanzo 175 1. La nozione di racconto e il ruolo del romanzo nel pensiero contemporaneo 178 2. La successione cronologica 179 3. Contrappunto temporale 181 4. Discontinuità temporale 183 5. Velocità 185 6. Le proprietà dello spazio 187 7. Persone 188 8. La trasformazione delle frasi 189 9. Strutture mobili

Finito di stampare nel settembre 1977 dalle Grafiche STEP cooperativa di Parma